

PERCHÉ NON VOGLIAMO FIGLI
Tavola rotonda con dieci ventenni
di SARA DE CARLI
PERCHÉ NON VOGLIAMO FIGLI
Tavola rotonda con dieci ventenni
di SARA DE CARLI
PERCHÉ NON VOGLIAMO FIGLI
Tavola rotonda con dieci ventenni di Sara De Carli
L’illustrazione di Nausicaa Dalla Torre è tratta dalla copertina di Vita numero 11, novembre 2024
© 2024
Supplemento digitale al numero in corso della testata giornalistica VITA
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INDICE
Introduzione
LE NOSTRE DOMANDE, LE LORO RISPOSTE: UNA NARRAZIONE NUOVA
6
1. I PROTAGONISTI p. 10
1. FIGLI SÌ, FIGLI NO p. 13
DA QUI A DIECI ANNI, TI IMMAGINI CON UN FIGLIO?
2. SOGNI p. 29
CHI VUOI ESSERE? COSA SPERI PER IL TUO FUTURO?
3. STORYTELLING
I GENITORI CHE VEDETE, VI SEMBRANO FELICI O FRUSTRATI?
41
4. PAURE p. 57
QUALI SONO GLI OSTACOLI ALL’AVERE UN FIGLIO?
5. FELICITÀ p. 69
UN FIGLIO HA A CHE FARE CON LA TUA FELICITÀ?
QUALE PAROLA SINTETIZZA PER TE L’IDEA DI DIVENTARE PADRE O MADRE?
Le nostre domande, le loro risposte: una narrazione nuova
di Sara De Carli
Il 2023 ha segnato un altro record al ribasso per la natalità nel nostro Paese: i nuovi nati sono stati 379.890, con un calo del 3,4% sull’anno precedente. Per il 2024 non possiamo aspettarci altro che cifre ancora più basse: già fra gennaio e luglio le nascite sono 4.600 in meno rispetto allo stesso periodo del 2023. Rispetto al 2008, quando nacquero 576mila bambini, siamo a -34,1%.
L’inverno demografico ha raggiunto dimensioni da allarme rosso, con impatti ormai evidenti anche per l’economia e il welfare. Mettere al mondo un figlio oggi è una scelta che non ha nulla di scontato: da un lato ci sono le oggettive condizioni di incertezza economica dei giovani rispetto a lavoro, casa, futuro, la mancanza di servizi, la child penality che le madri lavoratrici scontano e l’inadeguatezza delle politiche. Ma questo, diciamocelo, non basta a spiegare l’oggi. C’è anche un elemento culturale, con una narrazione della genitorialità tutta schiacciata tra le infinite rinunce che un figlio comporta e l’idillio patinato e performante dei social network a cui fanno da contraltare i tanti che dicono che, tornassero indietro, un figlio non lo farebbero più. In entrambe le narrazioni manca il racconto della genitorialità come esperienza di bellezza. Forse
anche per questo oggi un figlio è sempre meno parte dei progetti dei ragazzi e delle ragazze. Come costruire allora una nuova narrazione sulla genitorialità, che ne dica anche la bellezza? Nel numero di VITA magazine di novembre lo facciamo al di fuori di ogni retorica e partigianeria: ognuna e ognuno è libero di fare le proprie scelte, ma è importante che lo faccia in modo libero e consapevole “dell’intera storia”. Chiediamolo a loro. È stato questo il primo pensiero, quando abbiamo scelto di affrontare di petto la domanda “perché non facciamo più figli?”. Abbiamo interpellato cinque ragazze e cinque ragazzi tra i 20 e i 25 anni (o un pelo oltre), un’età in cui un figlio non è ancora un progetto di vita: quello che ci interessava era soprattutto l’immaginario che loro hanno rispetto alla possibilità di essere – un giorno, non oggi e non domani – madre e padre. Li abbiamo cercati tra le reti delle organizzazioni del comitato editoriale o di realtà vicine, ragazzi “impegnati”. Su dieci persone, solo una ha un reddito fisso. Una vive sola, una vive con la nonna, due studiano lontano da casa. Due sono sempre in giro. Due hanno una relazione stabile. Una persona si definisce queer e una attivista transqueerfemminista
intersezionale. Una ragazza alla fine ha preferito rimanere anonima. Ovviamente 10 interviste non rappresentano un campione statistico, ma non abbiamo nemmeno chiesto prima se un figlio lo volessero o meno: su dieci persone, solo una dice che sì, vorrebbe un figlio e tre non lo escludono. Ci siamo incontrati online e sono state tre ore straordinarie e sorprendenti. Lasciamo parlare loro, senza filtri: quella che segue è la trascrizione integrale della tavola rotonda, solo con un leggerissimo editing perché la voce dei ragazzi ci arriva in presa diretta, con molta chiarezza e senza nessuna mediazione “edulcorante”. Crediamo che sia, a monte di qualsiasi giudizio, un documento giornalistico di grande valore e interesse. Li ringraziamo tutti e dieci tantissimo per aver accettato di mettersi in gioco con una così grande generosità.
I protagonisti
Ecco chi sono le cinque ragazze e i cinque ragazzi che hanno partecipato alla tavola rotonda di VITA. L’incontro si è svolto online il 22 ottobre 2024, per il numero “Perché non vogliamo figli”. Una ragazza ha chiesto l’anonimato, la chiameremo Giulia.



Emanuele Russo
Sono presidente della cooperativa La Sorte, che opera nel Rione Sanità di Napoli. La cooperativa è nata da un gruppo di amici e soci fondatori, dai 22 ai 28 anni, per dare lavoro ai giovani del rione attraverso la gestione dei suoi beni culturali.
Carlotta (Lotta) Sarina
22 ANNI, ARTISTA CLIMATICA - TORINO
Sono convinta che la nostra voce sia l’arma più potente contro l’indifferenza. Canto, suono e scrivo perché sento che grazie a queste forme creative posso creare un ponte tra messaggio e individuo. Sono impegnata per il clima e l’ambiente.
Cristiano Romanò Michael Baldassarre
24 ANNI, STUDENTE FALOPPIO (CO)
Studio design della comunicazione. Sono una persona che vuole trovare il modo per avere un impatto positivo. Cerco di farlo attraverso l’organizzazione di eventi, lo sport e come educatore volontario nel gruppo scout Agesci Como 3.

25 ANNI, STUDENTE FERMO
Sono un careleaver, neurodivergente e ho una patologia cronica: ho imparato a trasformare le mie esperienze in una spinta per promuovere cambiamenti positivi. Studio Ai e analisi dei dati, sono Youth Advocacy Specialist ad Agevolando.
27 ANNI, COOPERATORE SOCIALE - NAPOLI



Vittoria Caprotti
Dopo la laurea in Storia dell’arte medievale, sono finita a interessarmi di pittura italiana contemporanea. Svolgo un anno di servizio civile a Casa Testori. Appassionata ma disordinata lettrice. Amo Milano, l’astrologia e i gatti.
Erica Morelli
Mi sono laureata in viola nell’ottobre 2023. Svolgo attività concertistica e insegno. Fino alla mia laurea sono stata nella Consulta degli studenti del Conservatorio, dove ho ricoperto il ruolo di presidente e di consigliera accademica.
Riccardo Fontanesi
Studente di ingegneria gestionale, frequento un corso sui sistemi per la sostenibilità ambientale da applicare all’agricoltura di precisione. Scout da quando ho 8 anni e dal 2019 capo nell’Agesci Nonantola 1. Credo nella potenza delle piccole cose.


Manuel Sorrentino
Originario di Benevento, studio comunicazione, sono appassionato di economia e tecnologia. Faccio parte di JA Alumni. Sono ceo di Farm Animal Trade e co-founder di Startupper For A Day. Mi guida l’attenzione al benessere delle persone.
Simona Della Monica
Sono di Cava de’ Tirreni, ma vivo a Roma per frequentare la laurea magistrale in lingue moderne per la comunicazione e cooperazione internazionale. Appassionata di cinema, faccio parte della sezione Impact del Giffoni Film Festival.
26 ANNI, VOLONTARIA SERV. CIVILE - VERMEZZO CON ZELO (MI)
24 ANNI, STUDENTE NONANTOLA (MO)
24 ANNI, STUDENTE REGGIO EMILIA
25 ANNI, MUSICISTA - FIANO ROMANO (RM)
24 ANNI, STUDENTESSA - ROMA
1. Figli sì, figli no
Da qui a dieci anni, ti immagini con un figlio?
Partiamo proprio con la domanda secca, esplicita e diretta. Volutamente non ve l’ho chiesto prima, nel momento in cui vi ho coinvolti in questa tavola rotonda. Però siamo qui per parlare di quello: figli sì o figli no? E quali sono le prime tre ragioni, per importanza, per la vostra risposta.
Erika: Per me figli no. È sempre stato così, sin da bambina. Quando è arrivato l’invito a questa tavola rotonda, ho chiesto i miei genitori e mi hanno confermato che io ho sempre detto di non volere figli. La prima motivazione, quella che sento più forte, è l’idea di doversi legare: è molto egoistica come cosa, ma l’ho sempre riscontrata in me. L’idea di doversi legare a qualcuno a vita, un pochino a scatola chiusa, perché non sai effettivamente chi nascerà, chi crescerai e cosa succederà. Un pochino c’è anche la concezione che io ho di relazione con un’altra persona, di convivenza. E anche il fatto che per quanto mi riguarda il famoso istinto materno... se esiste io non ce l’ho e anche l’esperienza che ho fatto come baby-sitter me l’ha confermato.
Ho una propensione a non stare tanto con i bambini, o comunque solo per un tempo limitato. La cosa, che sento da sempre, si è accentuata in questi anni per un fatto socio-economico che va dal come sta andando il mondo a livello di cambiamento climatico, di situazione economica, di crisi geopolitiche e soprattutto lavorativa perché, almeno nel mio campo, non è scontato trovare subito ed in fretta un lavoro che ti dia una stabilità tale da poter crescere un figlio come dovrebbe essere cresciuto, ovvero senza privazioni e cercando di assecondarlo – non viziarlo – nelle sue potenzialità, in modo che possa essere libero di fare e di esprimersi come vuole. Intendo che tutte le attività extrascolastiche sono a pagamento, ma sono quelle che permettono a un bambino di capire cosa gli piace, chi è e chi vuole essere. Poi c’è la questione che a un figlio devi dedicare tanto tempo e soprattutto all’inizio questo vale più che altro per la madre. Io lo vedo un po’ non dico come un annullamento ma quasi della tua vita. Sono dell’idea che ovviamente deve essere 50 e 50 tra genitore e genitore (non parlo di sesso maschile e sesso femminile, ovviamente), però c’è una ragione fisica, per cui inizialmente il bambino per via dell’allattamento starà più con la madre. In più io fisicamente, biologicamente, non posso avere figli per una malattia e questo ha avvalorato la tesi per cui l’unica strada per me sarebbe l’adozione: l’adozione però al momento è un casino vero, l’ho vissuto sulla mia pelle con mio fratello… Quindi per me è un no. Un no sentito e analizzato in molte fasi della mia vita.
Cristiano: Anche per me è un no. Io a differenza di Erica non
Il periodo che viviamo mi fa paura. A mettere al mondo una persona ora mi parrebbe di farle un torto fin dalla nascita. Cristiano
ho fatto grandi analisi in diverse fasi della mia vita, ma attualmente i miei tre motivi sono questi. Uno è più personale ed è il fatto di non sentire di aver raggiunto una maturità tale da poter essere genitore, quindi è un no allo stato attuale. La seconda motivazione è l’incertezza economica perché sto studiando, ogni tanto ho fatto qualche lavoro ma con compensi non adeguati a potermi mantenere e crescere un figlio: in questa fase della mia vita per poter crescere un figlio economicamente dovrei rinunciare a miei interessi e mie passioni, cambiare proprio strada dal punto di vista dell’ambito professionale in cui vorrei invece stare. Non credo di essere disposto a farlo, almeno non in questo momento della mia vita. Il terzo motivo, che in realtà è quello principale, è la paura dell’attuale periodo storico in cui stiamo vivendo che – nonostante abbia comunque una fiducia di fondo nelle persone in generale – ora come ora mi fa paura per l’instabilità politiche e in particolare climatica. Avrei difficoltà nel mettere al mondo una persona in questo mondo, mi sembrerebbe quasi di fargli un torto e di metterlo in difficoltà sin dalla nascita.
Vittoria: Condivido le motivazioni espresse da Cristiano ed Erica per quanto riguarda i motivi più pratici, quindi questa
instabilità economica sociale e climatica che conosciamo e viviamo. Ma anche prima di arrivare a razionalizzare la questione economica e quella ambientale climatica eccetera, anche io fin da piccola ho sempre pensato che mettere al mondo un figlio è qualcosa di estremamente egoista e narcisista, nel senso che lo vedo come un atto che si sta facendo per soddisfare un proprio bisogno. Questa storia del vedere la maternità come estremo gesto d’amore, massima espressione dell’amore per l’altro… con me ha sempre stonato. Non dico che non sia vero, parlo per me e per come sono fatta io. Lo vedo più come un discorso molto incentrato sul sé, non sull’altro: come uno strumento di autorealizzazione. È una scelta validissima, ma è una scelta. Ci sono persone che evidentemente sentono di voler fare questa scelta e lascio tra virgolette a loro l’onere e l’onore di portare avanti la razza umana facendo figli: io me ne tiro fuori perché non è una cosa che sento affine a me.
Michael: Io porto un po’ di polemica. Secondo me la domanda posta così nasconde dei modelli culturali di famiglia che non condivido. Dire “figli sì o figli no”, implica vedere il figlio come generato dall’amore di due persone che dovrebbero essere accoppiate per l’eternità. Io non sono monogamo e non ho una famiglia, nel senso che io sono la mia famiglia: sono cresciuto senza genitori e da molto tempo rifletto, tra le varie cose, sul significato della parola “famiglia”, dell’essere padre e dell’essere madre. È curioso, anche oggi stavo leggendo che la parola “figlio” significa generato da due genitori. Ma al tempo stesso la parola padre
significa “capo famiglia”, dalla radice “pa” che significa prendersi cura e non dice nulla del generare. Stessa cosa per la parola “madre”. Sono parole che dicono del prendersi cura e nella mia visione è il villaggio che dovrebbe prendersi cura dei figli. Dovrebbero esserci una democratizzazione e una redistribuzione del processo di cura. Quindi “figli sì o figli no?” è una domanda che per me non ha molto senso, perché di figli ce ne sono tanti nel mondo e molti anche senza famiglia come la intendiamo qui in occidente. Quindi per me è riduttivo ma anche sicuramente un inizio per riflettere. C’è anche la questione dell’educazione, di cui parlava anche Cristiano. Io personalmente sto cercando di imparare a prendermi cura delle cose e delle persone, ma al tempo stesso ancora non mi reputo a un punto della mia vita in cui poter dire di aver abbastanza decostruito i modelli che mi sono stati trasmessi, di aver costruito il mio mondo, la mia realtà e le mie relazioni e quindi di poter seriamente pensare di prendermi cura di qualcuno. Al tempo stesso vedo anche come l’educazione della famiglia sia vista tantissimo come un fatto privato, mentre secondo me non dovrebbe essere privato. Io sono stato in varie famiglie, anche per brevi periodi e ho sempre visto come all’interno della famiglia ci si chiudesse, nessuno dall’esterno può sindacare o portare degli spunti o delle critiche anche costruttive sul tema educativo. Io sto cercando di sviluppare un nuovo paradigma, quindi una risposta secca non mi sento proprio di darla, non saprei che risponderti. Ho cercato di dare degli spunti.
Lotta: Io mi trovo totalmente allineata sull’ultimo intervento di Michael. Anch’io sono non monogama. E questa visione della crescita di un figlio in modo collettivo, che non ricade sulle spalle di solo due persone, la trovo meravigliosa e anche molto più in linea con lo stile di vita che vorrei. Poi c’è tutto il discorso che io, vivendo costantemente bombardata da informazioni sulla crisi climatica, sono arrivata alla consapevolezza che io non voglio avere figli biologicamente miei. Quando sarò stufa di lottare, andrò a vivere nel mio ecovillaggio e adotterò. Il pensiero che ci siano bambini senza genitori mi fa stare molto male. Noi attivisti climatici ogni tanto ci diciamo: “Però nessuno di noi vuole avere figli, perché statisticamente è molto più probabile che diventeremo migranti climatici invece che miliardari”. Abbiamo il pensiero del “non avrò più una casa, sarò costretta a lasciare l’Italia, i confini cambieranno, il mio futuro non lo vedo”… quindi tutto quello che sto coltivando adesso sono delle relazioni belle, all’interno del mondo dell’attivismo, che mi permettono di vedere il domani perché so che queste persone per me ci saranno. Dove non lo so. Ce lo diciamo ogni tanto: “Però se nessuno di noi che ha questa visione di distruzione dell’antropocentrismo e anticapitalista farà figli, lasceremo spazio soltanto
Quando sarò stufa di lottare, andrò a vivere nel mio eovillaggio e adotterò. L’idea che ci siano bambini senza genitori mi fa stare male. Lotta
a quelli a cui questa società piace e questo ci porterà veramente al collasso ancora più velocemente. Dobbiamo riflettere su questa cosa”. Quindi tutti quanti, o almeno molti di noi, dicono che la soluzione è l’adozione. Per quanto possa essere faticoso e difficile, io penso che sarà quella la mia strada. Io mi sentirei molto molto egoista a pensare di fare un figlio in questo momento storico, a qualche anno dal collasso climatico. Ma devo dire che anche quando ero più piccola, a 15 anni, sentivo proprio che l’idea di far crescere un essere umano dentro di me mi ha sempre allontanato e spaventato, questo obbligo della gravidanza.
Da quando abbiamo dieci anni ci sentiamo ripetere: “Non fate i figli, non vi sposate, non fate il nostro errore”. Anche questo conta. Emanuele
Sara: Cosa ti ha messo ansia? Te lo chiedo perché di recente una ragazza mi hanno detto che vede la gravidanza come una cosa macabra. È la questione del cambiamento del corpo, intendi questo?
Lotta: Sì, a pelle è una cosa che mi allontana molto.
Manuel: Mi è piaciuto molto il concetto che ha esposto Michael di genitorialità condivisa, quindi non solo come un peso per il padre o la madre biologica. Mio padre biologico mi ha insegnato 50mila cose, ma ho anche un padre professionale che mi ha insegnato tutto ciò che so a livello di lavoro. Quindi è bellissimo questo concetto di una comunità che ti aiuta a accrescere
i figli, che siano biologici o che adottati. Riguardo a me, l’abbiamo detto tutti, a 24 anni con tutte queste incertezze un figlio non è una cosa a cui penso. Però come discorso generale, io direi “figlio sì” a patto di avere qualcosa da trasmettere. Con figlio intendo non per forza biologico, anche con un’adozione, per me è indifferente. Avere qualcosa da trasmettere non significa però che chi nasce spaccapietre muore spaccapietre. Non è che voglio trasmettere i miei ideali, la mia professione e la mia cultura a mio figlio, voglio poter garantire a mio figlio quello hanno dato a me, cioè la possibilità di trovare la propria strada. Secondo me questa è la cosa la cosa più bella da trasmettere ai propri figli. Sono con sono convinto che è vero, il contesto è molto brutto da un punto di vista economico e climatico eccetera. Però io penso anche che la nostra generazione è la generazione della presa di coscienza, cioè noi rispetto a quella precedente finalmente ci stiamo rendendo conto che ci sono dei problemi. Però non siamo noi quelli che li risolveranno. I problemi li risolverà la prossima generazione. Quindi è vero, il mondo è pieno di problemi, però io ho fiducia che la prossima generazione o quella successiva possano risolvere un po’ di cose.
Emanuele: Io ho sempre detto “figli no”, però da un paio d’anni ho la ragazza, sono monogamo e quindi non mi sento di essere categorico sul futuro. Magari ci penserò. Quindi non ho proprio una risposta a questa domanda, almeno non netta. Sicuramente l’idea di fare un figlio spaventa tanto perché nell’ultimo periodo è quasi diventato un lusso poter avere un figlio, quindi nel
momento in cui lo pensi poi pensi a tutte le conseguenze e tutti i sacrifici che comporta l’avere un figlio. Devi annullare te stesso, la tua vita e devi metterla proprio a disposizione di questo bambino. Senza contare il fatto che noi siamo figli di una generazione che da quando abbiamo dieci anni ci ha sempre ripetuto: “Non fate i figli, non vi sposate, non fate il nostro errore”. Siamo stati bombardati da questo. Almeno parlo per quello che ho vissuto io a Napoli, nella mia famiglia, ma la stessa cosa l’hanno vissuta tanti altri amici della mia età. Forse perché i nostri genitori hanno avuto figli e per loro è stato un sacrificio. Ed era un periodo in cui non c’era una crisi forte come oggi. Figurati oggi che c’è poco lavoro, perché si va in pensione tardi. Quindi se io penso di fare un figlio oggi, magari toglierò il posto di lavoro a mio figlio in futuro. Che senso ha? Ci sono troppe cose che bisogna valutare prima di farlo. Anche se poi questa ansia dal lato dello Stato, questa paura che poi la razza umana si estingua se non facciamo i figli, mi fa un po’ ridere: ormai sul pianeta siamo dieci miliardi, se noi non facciamo figli non penso che finirà il mondo.
Riccardo: In prospettiva io personalmente mi vedo genitore. Quindi forse sono un po’ una voce fuori dal coro. Non ho delle motivazioni così serrate. Sicuramente conta il fatto di vivere in un contesto con tante famiglie e l’aver vissuto una vita in cui la famiglia ha sempre avuto una grande importanza. Poi è ovvio che nella mia condizione attuale, di studente senza uno stipendio, non è il momento. E credo anche che da qui a cinque o sei anni con tutte le incertezze che ancora ci saranno, sarebbe un atto di
egoismo sicuramente: però in prospettiva nella mia vita mi vedo genitore. Sono d’accordo con voi sul fatto che essere genitore non significhi necessariamente mettere al mondo un figlio biologicamente proprio.
Simona: È difficile dare una risposta “sì” o “no”, perché da un lato direi “sì”, ma credo di essere legata un po’ a quell’idea che avevo da bambina sul mio futuro e dal fatto che sono ancora molto influenzata dalla società. Quindi c’è una parte di me che dice: “sì, certo, avrò un figlio” perché la vedo come tappa evolutiva normale del percorso del diventare adulto. Sono sicuramente anche influenzata dal fatto che da piccola lo sognavo basti pensare al fatto che il gioco preferito, cioè non il preferito ma quello che si tendeva sempre a fare era “hai un figlio, tu sei la mamma o sei la baby-sitter”. Quindi mi sono sempre vista con un figlio, certamente influenzata dalla società. Invece adesso è più un “no”, almeno se devo pensare razionalmente da qui a cinque anni o sette anni. Magari tra dieci anni già potrei dire “non lo so”, ci sentiamo tra 8-9 anni. Però adesso io sono ancora la mia priorità. Io credo che adesso, intendo da qui a cinque anni, sono ancora io la mia priorità. Io credo che nel momento in cui tu dai vita a un bambino o decidi di adottare un bambino, quell’essere umano
Nel momento in cui hai bambino, lui deve diventare la tua priorità. Io adesso invece voglio pensare ai miei studi e alla mia carriera. Simona
Per me figli no. E sicuramente non biologico, perché non voglio vivere la gravidanza. Essere genitori non ha a che fare con i geni. Giulia
deve diventare la tua priorità e io adesso invece voglio pensare ai miei studi e alla mia carriera. Non ci riuscirei ora. Come secondo motivo dico che la nostra è una delle prime generazioni che si rende conto di tutti gli errori fatti dalle generazioni precedenti e non li vogliamo rifare, non vogliamo fare gli stessi errori. Secondo me ci vuole una stabilità psicologica sui cui si deve lavorare. Quindi tenendo conto di questo, tenendo conto delle difficoltà economiche (non perché io vorrei garantire chissà che vita ad un futuro figlio, però non lo voglio nemmeno privare di cose, è ingiusto mettere al mondo una persona e privarla di tante cose perché non si ha una stabilità economica), tenendo conto di tutti questi problemi io da qui a cinque anni o sei anni o sette anni non mi vedo con un figlio.
Giulia: Per me di base è “figli no”. Sicuramente non un figlio biologico, perché la gravidanza è un’esperienza che non desidero fare. Eventualmente penserei a un’adozione, ma molto più avanti. Diciamo che non lo escludo, perché i desideri cambiano, ma al momento un figlio non è parte del mio progetto di vita né dei miei desideri. Comunque una cosa certa è che per me non c’è coincidenza tra gravidanza e genitorialità, se diventerò genitore sarà perché ho il desiderio di crescere una persona e
accompagnarla nel suo percorso e questo non ha nulla a che fare con i geni e con il mettere al mondo un figlio “tuo”. A me pare che abbia molto più senso dare valore e cura alle vite che sono già presenti nel mondo piuttosto che a quelle che potrebbero esistere. Viviamo in una società profondamente ingiusta e patriarcale, non ho desiderio di aggiungere una nuova vita in queste condizioni, anzi direi che ho paura di dove lo metterei questo bambino. Ho più il desiderio di cambiare la situazione attuale, è un compito generativo che sento più mio.
Sara: Ma tu oggi senti di vivere con sofferenza?
Giulia: Assolutamente. La nostra è una società sistematicamente programmata in modo tale che tante persone soffrono. Le persone soffrono non per caso o per eventi imprevedibili o inevitabili ma per cause strutturali, su cui però nessuno interviene. Questo impatta sul mio stato emotivo, provo dolore e rabbia davanti alla sofferenza ingiusta delle persone. Io sono cresciuta vedendo quasi tutte le mie più care amiche avere grandi problematiche a livello di salute mentale, autolesionismo, pensieri suicidi, disturbo del comportamento alimentare, violenze, molestie: come può non preoccuparmi la prospettiva di mettere al mondo una persona che si potrebbe trovare ad affrontare tutto ciò? Se penso che una persona socializzata come donna su tre subisce una forma di violenza, già il fatto di nascere bambina la metterebbe dentro questo contesto. Da qui il mio impegno. Spero di contribuire a cambiare qualcosa, perché come dicevo prima non si può eliminare la sofferenza ma si può intervenire sulle
sofferenze causate da un sistema ingiusto.
Emanuele: Bisogna anche tenere conto del fatto che oggi si studia e ci si specializza e si entra molto più tardi nel mondo del lavoro. Una volta forse si entrava nel mondo del lavoro a 19/20 anni mentre oggi no… E questo vale in qualsiasi ambito del lavoro. Per un lavoro sicuro, per delle entrate stabili che ti permettano di mantenere te stesso e una famiglia, prima bastava il diploma ma oggi questa possibilità non c’è perché servono sempre più carte per poter fare un lavoro decente e guadagnare quel giusto che ti serve.
Erica: Faccio una precisazione su quello che ha detto Emanuele, che è del tutto giusto. Il mio ambito è quello della musica. Per noi è abbastanza normale lavorare già con quello per cui si sta studiando: io per esempio è da quando ho 18 anni che lavoro e mi mantengo con quello per cui sto studiando. Il problema è che nel frattempo hanno ridotto le orchestre, da una ventina che erano ne sono rimaste cinque o sei. Quindi per stabilizzarsi ci vuole più tempo, per avere un posto di lavoro e firmare il contratto a tempo indeterminato o avere una partita Iva per cui si lavora così tanto da potersi mantenere. Ma soprattutto il nostro è un lavoro che porta a stare molto fuori casa: io dovrei letteralmente rinunciare al mio lavoro per avere figli. Faccio un esempio: quest’anno ho lavorato con l’orchestra del Maestro Muti e sono stata fuori da febbraio a luglio ininterrottamente, in sei mesi sono stata a casa un mese sommando le settimane, una qua e una là. Se la mia vita va in questa direzione – cosa che spero
– esattamente come lo cresco un figlio? Perché non è che lo posso affidare ad altri, ovviamente.
Michael: Anche io ho fatto una riflessione sulla “tardizzazione” dei processi, so che non esiste questa parola. È un po’ paradossale, perché da una parte guardando i dati noi italiani siamo le persone che escono di casa più tardi in Europa: mediamente a 35 anni. Dall’altra siamo anche il popolo europeo con un più alto livello di ricchezza privata, poi chiaramente bisogna vedere la distribuzione di questa ricchezza. Non so, da una parte in Italia viviamo in un’eterna fanciullezza, dall’altra ci chiediamo perché non ci sono le condizioni per fare i figli. È un paradosso, perché comunque lo Stato è preoccupato perché non facciamo
Io dovrei letteralmente rinunciare al mio lavoro per avere figli. In 6 mesi sono stata a casa 4 settimane. Esattamente come lo cresco? Erica
figli e poi però a livello legislativo non supporta l’indipendenza e l’autonomia dei giovani e continua a tutelare la coppia coniugale, fa agevolazioni solo nei confronti di certi tipi di famiglie.
2. Sogni
Chi vuoi essere? Cosa speri per il tuo futuro?
Sul supporto alla genitorialità, ma anche sul supporto ai giovani, le risposte delle politiche sono deludenti, se non inesistenti. Sono temi veri, ma sono anche argomenti che sui giornali sono stati affrontati tante volte. Io resterei a voi. Riparto dalle parole di Simona: “Adesso sono io la mia priorità”. Facciamo un secondo giro. Chi voglio essere? Chi sarò da qui a dieci anni? A che cosa non sono disposto a rinunciare? Vorrei che mi raccontaste qual è il vostro sogno per il futuro. Immaginatevi tra dieci anni, tutto è andato bene, secondo i vostri desideri: dove siete, chi siete, chi c’è con voi la mattina quando vi svegliate?
Erica: Come ho detto, io non ho mai voluto avere figli: non mi sono mai immaginata in una vita con dei figli e una famiglia. Il più grande obiettivo che io mi sono data da qui a dieci anni, o comunque per quando “sarò grande” – io non mi sento assolutamente arrivata e sarebbe sbagliato pensarlo – è realizzarsi lavorativamente parlando. Il mio è un lavoro totalmente alienante, me lo porto anche a casa: anzi, è più il lavoro che faccio a casa, perché comunque implica dalle sei alle otto ore di studio al giorno. Io vorrei stare in un’orchestra o insegnare. Il mio contributo alla società lo vorrei dare anche esprimendomi e dando agli altri quello che ho imparato io. Ho provato anche la strada dell’insegnamento, che mi piace parecchio. Soprattutto il mio è un lavoro che mi
permette di viaggiare tanto, che è un’altra cosa che io ho sempre voluto fare. Se chiedi come mi sveglierei la mattina e con chi… io non credo alla convivenza a lungo termine. Ho avuto relazioni lunghe, serie e monogame, ma ho sempre creduto nel fatto che ognuno ha bisogno dei propri spazi. Io ho bisogno della mia indipendenza, dei miei spazi e della mia solitudine. Quindi anche se avrò un fidanzato o una fidanzata, non escludo che avremo due camere diverse, se non riusciamo ad avere due case diverse, perché sento la necessità dei miei spazi. Quindi tra dieci anni vedo una realizzazione a livello di carriera, un’evoluzione dei progetti che sto portando avanti con il sociale già da parecchi anni e a livello personale mi vedo circondata sì di affetti, ma che non riguardano per forza una vita matrimoniale o di coppia. Sicuramente non con dei figli.
Emanuele: Io siccome lavoro in una cooperativa che distribuisce lavoro, spero che tra dieci anni avremo raggiunto uno dei nostri obiettivi, cioè far vivere le persone in tranquillità del loro lavoro, permettere loro di realizzarsi. Questo è l’obiettivo della nostra cooperativa. Il fatto di fare di se stessi una priorità è una cosa necessaria, secondo me, è un pensiero normalissimo che esiste da secoli. La mia cooperativa lavora con gli enti ecclesiastici e ci scherziamo un po’: anche il primo comandamento dice “ama gli altri come se te stesso”, non di più. Devi fare di te stesso una priorità, perché se non riesce ad amare te stesso come fai a trasmettere amore ad un’altra persona? Soprattutto se è tuo figlio? Crescerlo in un contesto dove si vive di stenti può diventare
un problema. Il fatto che si dice che il figlio possa minacciare qualcosa del tuo benessere, del tuo stile di vita… questa per me è sempre una cosa che dicono gli altri. In realtà il figlio non minaccia niente, semplicemente è una scelta che si fa nella vita, una questione di priorità e di scelte. Uno lo vuole o no, ma una cosa non è meglio dell’altra. È un modo diverso di vedere le cose.
Si dice che un figlio possa minacciare il tuo stile di vita…
In realtà non minaccia niente, semplicemente è questione di priorità e di scelte. Emanuele
Manuel: Io credo che per com’è il mondo in cui viviamo adesso, ragionare da qui a dieci anni non è semplice. Però penso che il mio obiettivo più importante sia avere una stabilità, qualsiasi cosa questo possa significare. Avere una stabilità economica, lavorativa, affettiva. Poi sono d’accordo con Emanuele, secondo me, l’importante è che un figlio sia una scelta consapevole. Oggettivamente limita in qualcosa, su questo non c’è dubbio, però se lo hai scelto vuol dire che per te ne valeva la pena. Darsi delle priorità è la cosa più importante nella vita. Ed è giustissimo essere sempre la prima priorità, perché se non stai bene tu non potrai mai trasmettere a qualcun altro la tua stabilità. Quando ce l’hai, puoi decidere di condividere la vita con una moglie, con una compagna, con un figlio, con un cane, con qualsiasi persona con cui ci si sente di voler condividere la vita.
Lotta: Io sono un’artista climatica e sogno molto in grande.
Da qui a dieci anni spero di realizzare il mio progetto artistico: io ho capito che se in strada gridavo non venivo ascoltata, ma se cantavo sì. Quindi sto portando avanti questo progetto musicale con i miei brani e i miei spettacoli. Spero di riuscire a riempire uno stadio e poi con il pubblico uscirne e andare a bloccare il Parlamento per chiedere quel cambio nella società che oggi è urgente e necessario. Spero che 10mila persone vengano insieme a me. Questo è il mio obiettivo. Con Sara, con VITA, ci siamo conosciuti la prima volta che sono stata arrestata. Se lo Stato mi toglie il diritto a manifestare, mi costringe a fare disobbedienza civile: questa cosa – mi pare – andrà sempre a peggiorare. Io non smetterò di fare quello che faccio e di conseguenza continuerò a fare disobbedienza civile: non escludo di poter finire in carcere, ho degli amici a cui sono stati dati sei mesi. Quindi è complicato. Un figlio non ce lo vedo proprio in questo contesto. Penso che a un certo punto potrei raggiungere un livello di saturazione e di burnout che non mi permetteranno, verso forse i 50 anni, a livello fisico di continuare a fare questa vita. Io poi suono il contrabbasso, quindi è pesante portarlo alle manifestazioni. Quindi finché il fisico regge io continuo. Quando farò troppa fatica, c’è questa idea di creare un ecovillaggio, dove vivere insieme ad altri quell’utopia, che spero non rimanga tale, della transizione ecologica.
Riccardo: Anche io come Manuel una prospettiva da qua ai prossimi dieci anni faccio fatica a concretizzarla. Mi viene da dire che il desiderio è quello di una stabilità. Non parlo di ambizioni, parlo proprio di stabilità come cosa minima. Io sto studiando
ingegneria gestionale, è un percorso un po’ “allungato” e quindi da qua al prossimo anno la mia idea sarebbe quella arrivare alla fine. Tra dieci anni mi vedo un po’ più stabile. Io ho avuto una fidanzata per cinque anni e ora sono single, ma in questi cinque anni si parlava di prospettive future, di famiglia, di condivisione eccetera. Anche questo ha influito sul mio vedermi genitore. La cosa che mi sento di dire, che è una consapevolezza a cui sono arrivato nell’ultimo anno e mezzo, è che mentre fino a qualche anno fa al primo posto mettevo l’ambizione e la carriera come obiettivo principale ora mi sono reso conto che se mettessi “i vari pezzi” su livelli diversi annullerei la persona che sono io. Io sono fatto anche dalle relazioni che vivo, sono fatto dal mio percorso di studi ma anche dal servizio come capo scout, dal mio percorso lavorativo, dalle occasioni che mi creo nello stare in famiglia e nel desiderio di vivere la mia famiglia. Se mettessi queste cose su livelli differenti o dessi la priorità solamente al lavoro, annullerei me stesso. È vero quello che dicevano gli altri prima: per donare qualcosa di positivo agli altri, prima devi stare bene con te stesso. Quindi in quest’ottica il vedermi come genitore non lo vedo come un annullamento di me o delle mie ambizioni o dei miei progetti: tutto si tiene. Non sono discorsi che possono prescindere l’uno dall’altro.
Michael: Io invece ho una visione molto chiara a lungo termine. Io fra dieci anni vorrei essere un policy maker in ambito educativo. Nel frattempo sto studiando e sto lavorando per fare advocacy giovanile e dare supporto all’autonomia giovanile: in
Non mi vedo con dei figli, nel senso di generarli. Vorrei essere un policy maker in ambito educativo, anche quello è essere padre. Michael
parte voglio continuare a fare quello che già sto facendo. Già mi sento padre, nel senso che sto cercando di prendermi cura di situazioni e di persone e voglio imparare a farlo sempre meglio. Non mi vedo con dei figli in senso stretto, nel senso di generarli. Vorrei essere uno dei padri di un movimento politico, sicuramente mi vedo nella politica. Anche se già faccio politica, non in senso stretto. Mi piacerebbe fare una piccola rivoluzione e costruirmi un mio villaggio. Ecco anch’io ho questo sogno. Sto già provando ora. Si costruiscono giorno per giorno questi sogni. Credo che un mondo diverso possa emergere da comunità di pratica diverse che confluiscono poi per far emergere un mondo diverso. Io partecipo, costruisco la mia comunità e magari in un’ottica sistemica nascerebbero tante comunità, ognuno con le proprie pratiche, ma convergenti per fare emergere un mondo diverso. Quindi il mio sogno è locale, ma anche globale.
Cristiano: Fra dieci anni… io non so neanche cosa farò domani, ma domani alla lettera. Ho molta difficoltà a tratteggiare come sarà la mia vita tra dieci anni: ho solo una grande certezza, che è quella del voler avere un impatto positivo, sia nel mio piccolo sia su grande scala. Io credo molto nell’effetto domino: se hai un piccolo impatto positivo su qualcuno, anche quest’altra persona poi
È una responsabilità gigantesca essere genitore, ma molti non se ne rendono conto. Personalmente non me la sento di assumerla. Giulia
sarà portata ad averlo sugli altri. La mia realizzazione personale tendo a metterla da parte, mi interessa invece essere d’impatto positivo per qualcun altro: nello scoutismo per esempio tante volte rinuncio a cose mie personali che mi piacerebbe fare ma che rimando o metto in secondo piano perché credo che anche solo quelle due o tre ore del sabato pomeriggio impiegate con i lupetti possano avere un impatto positivo su di loro e poi possano creare quell’effetto domino che dicevo. Quello che so è che è fra dieci anni voglio aver fatto tante esperienze, le più varie possibili, per arrivare ad avere più certezze personali. Quindi formarmi, crescere a livello culturale e a livello di sensibilità personale per trovare il modo giusto per avere l’impatto positivo che voglio avere. Ancora non so quale sarà la strada perché ho diversi tipi di progetti. Credo molto nel percorso di educatore scout, ma ho anche dei progetti relativi agli eventi, all’aggregazione principalmente ludica, ma anche di divulgazione culturale. Ho un altro progetto legato al riciclo dei capi d’abbigliamento e al dargli nuova vita. Non so ancora fra dieci anni quale di questi filoni sarà diventato “il mio modo” di avere un impatto positivo sulle altre persone e sul mondo, che vuol dire anche quale filone potrà darmi una sostenibilità a livello economico. Tra dieci anni mi vedo
con più certezze e più consapevolezza di me stesso. Io credo che tanti ambiti in cui sono impegnato, come diceva anche Michael, fanno già parte del prendersi cura di altre persone. Nello scoutismo indirettamente mi prendo cura dei figli di qualcun altro, è un concetto che noi all’interno dell’Agesci chiamiamo “coeducazione”. Io non so se questo prendermi cura di un’altra vita sia tale da sentirmi responsabile di lui “come se fosse mio figlio”: attualmente ovviamente no, ma fra dieci anni non escludo che invece questa cura possa essere anche più sostanziale. Nello scautismo oggi metto a disposizione alcune ore a settimana, ma magari fra dieci anni potrei aver trovato il modo di prendermi cura degli altri in un’associazione o in una comunità (come dicevano Lotta e Michael), con un investimento in termini di tempo più sostanzioso.
Giulia: Come dicevo, il mio più grande desiderio è contribuire a cambiare la società attuale. Io mi impegno per cambiarla. Quello che vorrei fare nella vita è fare formazione a bimbi e ragazzi, lavorare nella prevenzione della violenza, sul consenso, sulle emozioni… Affrontare questi temi per stare bene con se stessi. Ho visto che questo essere a contatto con bambini e ragazzi mi porta una gioia grande, mi dà energia e speranza. Ovviamente essere madre è diverso da aiutare un bambino a crescere, accompagnarlo. Rispetto a un educatore o un insegnante il genitore ha una responsabilità e un impatto ancora più grande e diretto. È una responsabilità gigantesca quella di essere genitore e ho l’impressione che molti non si rendano conto di quanto sia
grande questa responsabilità… Io personalmente non so se me la sento di assumerla.
Vittoria: Condivido pienamente tanto di quello che è stato detto. Io se devo pensare a come mi vedo tra dieci anni, penso com’ero dieci anni fa, per vedere in questo range di anni come si sono evolute le cose, come sono evoluta io. Dieci anni fa ero molto giovane, avevo 16 anni, tante cose sono cambiate in me e attorno a me, ma ci sono anche delle cose che invece sono rimaste delle costanti esistenziali, per cui mi dico “se in dieci anni certe cose di me non sono cambiate, posso pensare che continueranno a non cambiare”. Con queste costanti esistenziali intendo proprio cose caratteriali e di indole, cose su che quelle sono e quelle grosso modo rimangono. Per quanto riguarda la quotidianità, l’idea di svegliarsi al fianco di un partner o più partner così come l’idea di svegliarsi ogni notte alle tre ad allattare, per come sono fatta io no: non mi vedo madre e non mi vedo a svegliarmi con affianco qualcuno ogni giorno. Questo per elementi proprio esistenziali e caratteriali, che poi si uniscono a tutti i temi più sociali, economici e lavorativi di cui abbiamo detto. Anche solo guardare a queste questioni più individuali, non penso che potrei cambiare idea. Simona: È difficile pensare da qui a dieci anni, il mondo cambia così velocemente, basta pensare come era il mondo pre-pandemia, durante e post. È difficile immaginare un futuro. Però se ad immaginare il futuro più prossimo mi faccio prendere dall’ansia, da qui a dieci anni mi sento di essere più positiva, anche per pormi un obiettivo. Da qui a dieci anni sicuramente avrò finito i
miei studi e avrò finalmente capito cosa voglio fare dopo. Voi avete tantissime idee e tantissimi progetti, io invece ancora non ne ho, devo trovare la mia strada. Mi piacciono tante cose, però ancora devo scegliere. Tra dieci anni quindi spero di aver trovato una strada precisa e di essere arrivata da quel punto di vista ad una stabilità psicologica. Sull’immaginarmi con qualcuno accanto, l’unica cosa che ho capito in questi 24 anni è che io come persona ho bisogno di stare con altre persone. In questo momento mi sono resa conto che senza le mie amiche e senza la mia famiglia, io non sarei mai potuta arrivare a fare quello che faccio adesso. Sicuramente mi piace immaginarmi con un’altra persona al fianco, con un compagno. L’idea di un figlio verrebbe solamente nel momento in cui entrambi, sia io che il mio futuro compagno, avremmo un’intelligenza emotiva tale da fare determinate scelte. Innanzitutto una maturità tale da non annullarci come individui e come coppia nel momento in cui decidiamo di far nascere o di adottare un figlio. Per questo equilibrio ci vuole un’intelligenza emotiva che spero appunto di aver raggiunto da qui a dieci anni.
Un figlio? Solo se entrambi, io e il mio compagno, avremo la maturità di non annullarci come individui e come coppia. Simona
3. Storytelling
I genitori che vedete, vi sembrano felici o frustrati?
Avete detto che vedete gli errori fatti dalle generazioni precedenti. Se guardate i genitori che vi stanno attorno, vedete adulti felici di essere genitori o frustrati dall’essere genitori? Questo quanto pesa sul vostro immaginario? Vi faccio vedere un video di Riccarda Zezza agli Stati Generali della natalità di maggio, che pone due temi interessanti. Uno è quello di allargare l’immaginario, raccontando un pezzo di storia che manca. L’altro tema, ancora più forte, è quello che porta la ragazza giapponese di cui parla, dell’impatto che ha avuto sulla sua scelta di non avere figli il fatto di aver visto sua madre infelice.
Vittoria: La questione della narrazione è importante. Non voglio dire che la narrazione sia più importante dei fatti, ma il mondo in cui viviamo forse anche ci porta un po’ ci a pensarlo. Già prima era emersa la questione dell’avere dei genitori che ci hanno detto di non fare il loro stesso errore. Magari poi nei fatti tutti i genitori o comunque la stragrande maggioranza dei genitori sono felici di esserlo, però spesso dalle loro parole un minimo di frustrazione esce sempre. Così si interiorizza anche come bambini, almeno per la mia esperienza, la frustrazione del genitore. Non punto affatto il dito contro mia madre o contro le madri in generale, ma nel momento in cui un bambino o una bambina che si sta formando riceve in maniera involontaria
la frustrazione di rimando perché il genitore per stare dietro al bambino deve sacrificare i propri interessi… qualche effetto c’è. D’accordo, capisco che c’è una stanchezza fisiologica nell’essere genitore perché bisogna conciliare il lavoro con l’avere un figlio o una figlia, ma la narrazione che viene fuori della quotidianità del rapporto genitore-figlio non sempre è felice: è una narrazione che non porta a vedere felicità in questo tipo di rapporto, almeno per quella che è stata la mia esperienza. Senza puntare il dito contro mia madre, ripeto, perché è la stessa cosa che vedo negli altri. È normale sentire una mamma che si lamenta perché “oggi devo portare mio figlio alle cinque a coro, alle sei a quell’altro e poi devo tornare a casa e alle sette…”. Ci stanno le lamentele e la stanchezza, però appunto nel momento in cui è una narrazione che ha costantemente questo timbro… qualche domanda te la pone.
Erica: Io mi ricollego al discorso di Vittoria. Mi ritengo fortunata ad avere dei genitori che hanno fatto una scelta consapevole rispetto all’avere figli e non c’è stato mai un rimorso. Vengo da una famiglia che oltre alla figlia biologica, che sono io, ha deciso di adottare: i miei proprio hanno voluto l’adozione come altro mezzo per diventare genitori. Il contesto in cui sono cresciuta io è un contesto super favorevole dal punto di vista della famiglia, però una cosa su cui ho riflettuto è come siano più le cose non dette che quelle dette ad influenzarci sin da quando siamo nati.
Vittoria: Ti interrompo solo per dirti che concordo.
Erica: Sì, stavo partendo proprio da quello che dicevi tu. I
Noi cresciamo portandoci addosso quello che i nostri genitori hanno fatto controvoglia, anche se a parole hanno detto il contrario. Erica
bambini dagli 0 anni vengono plasmati, oltre che dalla società (che però secondo me viene per seconda), in primo luogo dai genitori. Il bambino ha questo superpotere, non so neanch’io come chiamarlo sinceramente, per cui riesce a capire e a sentire soprattutto ciò che il genitore non dice. Il genitore ti può dire: “Ti voglio bene, sono tanto felice di essere venuto qui a fare questa cosa con te”, ma in realtà se il genitore non avrebbe voluto fare quella cosa, il bambino lo sente e di conseguenza il bambino svilupperà un senso di inadeguatezza. Quindi noi cresciamo portandoci addosso anche quello che i nostri genitori non ci hanno detto, di ciò che hanno fatto controvoglia, delle volte in cui non ci siamo sentiti ascoltati. Non è il mio caso, però io sono dell’idea che, per quanto i genitori possano fare del loro meglio, essere le persone più perfette del mondo che sono pure andate in terapia e hanno fatto corsi di genitorialità, involontariamente comunque almeno un trauma nel figlio lo lasciano. Questo perché sono persone ed è la prima volta nella loro vita che loro fanno i genitori. Di conseguenza, per forza di cose, anch’io sono cresciuta con dei problemi ma non incolpo i miei genitori perché loro non c’entrano niente. Loro mi hanno cresciuto come meglio potevano e io li ringrazio tutt’oggi per quello che hanno fatto, sempre al
meglio delle loro possibilità. Io sono dell’idea che i genitori a prescindere facciano errori, ma non è colpa loro.
Cristiano: Anch’io mi ritengo estremamente fortunato, nel senso che sono cresciuto in un contesto in cui i miei genitori credo abbiano fatto il meglio nelle loro capacità, come diceva anche Erica. Nutro un profondo rispetto nei loro confronti, gli voglio un bene dell’anima. Nonostante veda che a livello relazionale sicuramente abbiamo avuto diversi momenti di differenze e di scontro, perché un legame di sangue non vuol dire per forza un legame forte a livello emotivo e andare d’accordo al cento percento, vedo però la loro grande volontà di cercare di esserci e di essere un esempio positivo. Se penso che figlio sono io, ecco devo dire che li apprezzo ma forse non glielo dico abbastanza anche se questo non vuol dire che non cerchi di dimostrarglielo in altri modi, non per forza in maniera verbale. Un’altra cosa per cui mi ritengo molto fortunato è che sono cresciuto in un contesto familiare in cui le sorelle e i fratelli di mia mamma e anche le sorelle e i fratelli di mio papà vivono tutti nello stesso paese. Dal lato di mia mamma addirittura abbiamo i giardini comunicanti. Quindi sento di avere avuto una sorta di crescita quasi comunitaria, seppure legata al sangue. Conosco diverse famiglie in cui i fratelli dei genitori, quindi gli zii dei miei amici, non si parlano da tantissimi anni perché caratterialmente troppo diversi. Io invece sono cresciuto con persone che hanno caratteri diversi, che si sono scontrate, ma che bene o male comunque hanno sempre cercato di aiutarsi a vicenda. Durante la crescita, quando
ho avuto delle difficoltà con i miei genitori o con i miei fratelli, avevo comunque tante figure attorno a me (che poi si sono evolute in tanti ambiti della mia vita, come può essere quello sportivo o dello scoutismo) che potevano accogliermi e prendere le mie parti nei momenti in cui caratterialmente mi scontravo con i miei genitori. Ho avuto la fortuna di avere tante altre figure atttorno, sia di sangue che non, che hanno preso parte a questo concetto di coeducazione che è quello che portiamo avanti anche noi con lo scoutismo. Come ha detto prima Michael, ci sono altre figure che possono prendersi cura di te e essere quello di cui hai bisogno in determinati momenti della tua vita. Adesso mi rendo conto di quanto siano stati importanti per la mia crescita.
Sara: Mi sorprende come torni spontaneamente ma con tanta forza questo concetto di famiglia più larga di quella diade/triade che abbiamo in mente, la coppia di genitori e il figlio/i figli. Teniamo la barra sul ragionare su come gli atteggiamenti dei genitori che vediamo intorno a noi influenzino il nostro immaginario, di come la felicità o la frustrazione che emerge dal modo in cui i genitori si raccontano influenza il nostro immaginario.
Lotta: Prima di essere i miei genitori, loro sono miei amici e questa cosa è una cosa preziosissima per me, cioè la facilità che ho di comunicare con i miei genitori. Forse non mi hanno insegnato bene a rifarmi il letto o a fare la lavastoviglie, però mi hanno insegnato a lottare per la mia libertà, per seguire i miei sogni, per la costruzione di un futuro migliore, per aiutare gli altri. Io devo veramente tutto a loro ed è stata anche una cosa che mi ha
Ho avuto la fortuna di crescere con tante altre figure attorno, sia di sangue che non. Adesso mi rendo conto di quanto sia stato importante. Cristiano
mi ha portato ad avere molta ansia perché loro sembrano veramente lo stereotipo della coppia perfetta. Quando mia mamma torna dai viaggi di lavoro e si baciano, si abbracciano e si raccontano le giornate come due adolescenti, io li guardo e mi dico: “Non ho mai visto questa cosa da nessun’altra parte”. Io abitavo su questa collina e tutte le volte che uscivo per andare a scuola a Salsomaggiore, vedevo i genitori dei miei compagni di classe che veramente si urlavano contro e litigavano davanti ai figli, si lanciavano frecciatine: mi pareva di uscire da un luogo idilliaco. Andavo a casa dei miei amici e vedevo i genitori che si auto-sabotavano a vicenda, gente che non stava bene insieme ma che continuava a stare insieme e si rovinava la vita a vicenda. Poi
tornavo a casa mia e dicevo: “che culo”. Questa cosa per un sacco di tempo mi ha portato ad avere un po’ d’ansia: “Oddio, ai miei è andata bene, ma forse a me non andrà bene. N troverò quella persona, quell’amore, l’anima gemella con cui anche a 60 anni mi comporterò come se ne avessi 15”. Poi ho scoperto le non monogamie etiche, ed è stato un bel un bel cambio di vita. Adesso sto ancora facendo tanto lavoro su di me per de-costruire la visione di monogamia imposta dalla società e quindi non so ancora bene che cosa sono io. È un viaggio e mi sta piacendo affrontarlo. Però
c’è stata a lungo nella mia vita questa paura di non riuscire a trovare la stessa bellezza per me. Mi hanno cresciuto nella maniera migliore in cui potevano. Nonostante dai 12 ai 16 anni avessi un bruttissimo rapporto con mia mamma, soprattutto perché la vedevo viaggiare tanto per lavoro, stava spesso lontana e mi dicevo: “Non sta a casa come papà, allora non mi vuole bene”. Poi ho capito tutto lo sbatti che faceva, che la casa stava in piedi grazie a mia mamma che lavorava e quindi c’è stato un cambio.
Metà della mia vita l’ho vissuta fuori famiglia. Una mia preoccupazione rispetto ad avere figli è trasmettergli i traumi che ho vissuto. Michael
Michael: Mio padre invece è andato via di casa quando ero appena nato, ho vissuto con mia madre fino all’età di 15 anni e poi da allora la mia vita l’ho vissuta fuori dalla mia famiglia. Sostanzialmente, adesso ho 25 anni, metà della mia vita finora l’ho vissuta fuori dalla mia famiglia. In realtà sono io la mia famiglia. Al tempo stesso, considerando la famiglia in senso più ampio, sto cercando appunto di coltivare la mia famiglia al di là del legame di sangue. Io sono sempre stato un figlio ribelle e sono tutt’ora una persona piuttosto ribelle, ma ribelle rispetto allo status quo, non necessariamente “contrario a”. Non condivido sostanzialmente i paradigmi e le pratiche dominanti, quindi in questo senso ribelle. Sono guidato dallo spirito di voler cambiare le cose. Non credo di essere stato amato dai miei genitori o per lo meno non ho
avuto un amore che considero sano: quindi per me magari sono stati più un esempio in negativo, di come non amare. Ho trovato molto bella la metafora di Lotta, dell’amore come amicizia. Per me tra amore sano e amicizia non c’è nessuna distinzione. Per me amicizia è una relazione fondata sui valori, sul rispetto e appunto sull’amore prima di tutto. Attualmente ho una relazione amorosa con una ragazza e recentemente sono stato con lei al festival di Internazionale e abbiamo partecipato ad un focus group fatto da un collettivo, “Vanvera”. Sono un gruppo di ragazzi sparsi un po’ in tutta Europa che si sono riuniti intorno alla discussione sull’amore e sull’amore non monogamo, stanno traducendo dal francese il podcast Cuore scoperto. Abbiamo fatto questa riflessione, anche a partire da una puntata del podcast, su come i modelli di amore che ci sono trasmessi all’interno della famiglia ci hanno influenzato e ci influenzano. Abbiamo ragionato anche sulla trasmissione intergenerazionale del trauma: una mia preoccupazione rispetto all’ipotesi di avere figli è proprio anche quella di trasmettergli i traumi che io ho vissuto. Credo che il ruolo educativo della famiglia dovrebbe essere quella di portare l’educato – anche se tutti dovremmo educarci reciprocamente – a sviluppare una discussione critica su quegli stessi modelli che gli sono stati trasmessi. Quindi diciamo che non attribuisco una colpa ai miei genitori per come mi hanno, o non mi hanno, cresciuto. Al tempo stesso credo che ci sia una responsabilità di ognuno, e in particolare appunto delle persone che mettono al mondo dei figli. Quando si dice “hanno fatto del loro meglio”, non è vero: il
nostro meglio non è mai abbastanza, in un’ottica di crescita si può fare sempre meglio. Quando non si intraprende un percorso di crescita anche psicologica di riflessione sul proprio essere genitore non si è fatto il proprio meglio ma ci si è adagiati su quello che si è oggi.
Sara: L’aver fatto del proprio meglio diventa quindi quasi una auto-giustificazione?
Michael: Sì, magari nell’intenzione si è fatto del proprio meglio, ma poi nella pratica non c’è stato quel processo di autoriflessione continuo che effettivamente può portare a dire: “ho fatto del mio meglio”, anche con tutti i limiti della situazione specifica in cui uno si trova.
Emanuele: Volevo precisare una cosa sul primo intervento che ho fatto, quando ho detto che siamo figli di quella generazione che ci ha consigliato di non fare figli. Quello che volevo dire era proprio il fatto che i nostri genitori hanno vissuto quel cambiamento tra gli anni ‘90 e i 2000 dove hanno visto il mondo avvicinarsi, in cui era tutto più accessibile. Per esempio, il costo di un biglietto aereo negli anni 2000 è cominciato a calare, quindi diventava più facile esplorare il mondo. Noi siamo tre fratelli, potete immaginare i sacrifici che i miei genitori hanno fatto. Loro consigliano di non fare figli semplicemente perché vogliono che noi ci godiamo il mondo e il modo più semplice per farlo oggettivamente è farlo da solo o con gli amici o con una compagna. Magari a un figlio ci si pensa, ma più avanti. Poi devo dire che con i miei genitori sono stato abbastanza fortunato, sono cresciuto
I miei genitori hanno fatto quasi la stessa vita di prima. Ho criticato molto questa scelta, adesso invece credo sia perfetta. Simona
nel rione Sanità, un quartiere particolare anche se oggi sta cambiando, ma quando mi sono trovato in situazioni un po’ così, i miei mi hanno sempre raddrizzato e mi hanno fatto capire che rispettare delle regole non significa sottomettersi a qualcuno ma serve a vivere bene con gli altri. Io ho sempre saputo che mio padre mancava da casa una settimana intera perché doveva lavorare per portare il pane a casa, non ce l’ho mai avuta con lui sotto questo punto di vista. Quello che abbiamo sentito nell’audio, della ragazza che vede sempre la mamma triste è un tema delicato e forse la generazione prima di noi ci consiglia di non fare figli anche per non farci correre lo stesso rischio, nel senso che se un giorno deciderai di farli sarai ancora più consapevole. È una cosa della quale si deve tenere conto.
Simona: Io sicuramente sono fortunatissima, perché i miei genitori stanno insieme da 40 anni e non è una cosa molto comune. I miei genitori sono le persone più importanti per me, sono i miei più grandi amici e l’affetto che provo per loro è veramente incondizionato: però allo stesso tempo sono le persone che più odio, quando abbiamo un contrasto. Sono arrivata alla conclusione che è normale provare queste emozioni così forti proprio con chi si ama. Si parla sempre in casa mia, non ho mai avuto
Vedo in tanti genitori la paura di crescere dei figli infelici, solo che quando fanno scelte per i propri figli pensano a ciò che fa felici loro. Riccardo
problemi a parlare di nulla. Però i miei genitori li ho sempre anche molto criticati, almeno quando ero più piccola, perché non erano molto presenti nella mia vita. Detta così sembra una tragedia, di fatto io vedevo i genitori dei miei amici che erano molto più presenti, li venivano a prendere a scuola o li accompagnavano alle varie attività, trascorrevano del tempo insieme, mentre io sono cresciuta più con la baby-sitter, con mia nonna e con le zie. All’inizio li ho sempre criticati, soprattutto mia madre. Adesso che sono cresciuta, mi rendo conto che lei è stata bravissima perché non ha rinunciato alla sua vita, al suo lavoro e ai suoi interessi. Stessa cosa per mio padre. Hanno fatto quasi la stessa vita che facevano prima, ma con i figli. Io criticavo questa scelta, adesso invece credo che sia perfetta. Una volta ho chiesto a mia madre se fosse felice o meno della sua vita e lei ha detto di sì. Io le ho detto: “Ma mamma, ma con tutti i problemi che ti abbiamo dato noi figli?”. Lei ha confermato che è felice della sua vita. Io credo che lei è veramente felice perché non ha rinunciato a quell’altra parte della sua vita, cioè il suo lavoro e i suoi interessi. Comunque a volte penso a come farò con un figlio: se esce come me, come faccio? Io non sarei riuscita a vivere con una figlia come me, con tutti i miei problemi, le mie idee, le mie critiche.
Riccardo: Condivido alcune cose che mi sono venute in mente sentendo parlare gli altri. Anch’io mi reputo fortunato come figlio, nel senso che sono cresciuto in un contesto familiare stabile, positivo e ho avuto tante occasioni. Come Cristiano, nella mia crescita non ci sono stati solo i miei genitori, ma anche tutto il contesto: certi pezzetti di ciò che io sono oggi sono derivati da cose che ho imparato agli scout o che mi hanno trasmesso altre persone che non sono i miei genitori. Penso che un po’ sia questo anche il valore che, nel mio futuro ed eventuale essere padre, mi piacerebbe “regalare” a mio figlio: l’importanza dei pezzetti che derivano dall’incontro con l’altro, cioè cogliere l’importanza del fatto che ogni persona che incontriamo ci lascia qualcosa e ci aiuta a diventare chi siamo oggi. Una cosa che sento molto nel dialogo con persone che sono genitori – qui non parlo dei miei genitori ma più che altro dei genitori dei ragazzi che seguo agli scout – è il fatto di avere paura di crescere dei figli infelici. A volte gli errori che i genitori commettono non derivano da cattiveria, ma dal desiderio di crescere dei figli felici e quindi di fare delle scelte per i propri figli che in realtà sono ciò che rende il genitore felice. “Io sono stato felice in questo modo e quindi perché tu figlio sia felice ti porto a fare la stessa cosa, nella direzione di felicità che coincide con la mia”: credo che sia un errore comune, che deriva dal voler fare del proprio meglio. La sfida invece sta nell’imparare che “il proprio meglio” è aiutare il figlio a trovare la sua di felicità.
Manuel: Io credo che fare il genitore sia una cosa difficilissima,
nessuno te lo insegna. I genitori sono persone con un proprio libero arbitrio, con un proprio background di esperienze e lo stesso i figli. Quindi è normale che ci siano dei terreni di scontro. Anch’io sono cresciuto in una famiglia fantastica. Sono molto grato ai miei genitori, però questo non significa che non ci siamo scontrati, non li abbia criticati o che non ci siano stati momenti in cui non ci trovavamo bene. Secondo me la cosa che un genitore non deve fare è cercare di crescere il figlio come se fosse la propria fotocopia. Spesso i genitori dicono: “Voglio che mio figlio abbia tutto ciò che io non ho mai avuto”. Oppure: “Voglio che mio figlio sia tutto ciò che io non sono mai stato”. Ma un figlio è una persona con propri desideri, non è detto che debba aspirare alle stesse cose che a cui hanno aspirato i genitori.
Giulia: Io ho un rapporto molto buono con i miei genitori, mi hanno dato tantissimo amore e non mi è mai mancato il supporto. Ci sono stati però periodi in cui il rapporto è stato più complesso e ambivalente perché involontariamente mi hanno fatto male con dei comportamenti che hanno avuto o non hanno avuto nei miei confronti. Io ho sofferto di disturbi del comportamento alimentare e i commenti che mia mare faceva non sul mio corpo ma sul proprio hanno contribuito a far sì che io mi guardassi in un certo modo, oppure mio papà che mi ha trasmesso un modello di vita basato sulla iperperformatività, che mi ha messo molto in difficoltà, per cui mi sento perennemente insoddisfatta, insicura, a volte terrorizzata all’idea di fallire, perché vedo un mancato successo come un totale fallimento della mia persona…
Poi adesso che sono cresciuta sono arrivata a vederli come persone e non solo come genitori e in quanto persone capisco che hanno dei limiti, che non sono infallibili. Ho capito che anche loro come tutti sono cresciuti in un sistema tossico da questo punto di vista. Un’altra cosa importante è che ho visto molta frustrazione in mia mamma rispetto al fatto di essere stata per tanto tempo solo madre a tempo pieno. Io sono la prima di tre figli, ora mamma è tornata a lavorare, ma in passato ho visto in lei molta frustrazione e insoddisfazione, l’ho sentita più volte dire che quella non era la vita che avrebbe voluto. Ovviamente io non voglio fare la stessa cosa. Penso che per crescere qualcuno in modo che sia sereno devo essere io per prima soddisfatta della mia vita: per questo dico un figlio magari sì ma molto più avanti.
In mia madre ho visto molta frustrazione, l’ho sentita più volte dire che quella non era la vita che avrebbe voluto. Non voglio fare lo stesso errore. Giulia
4. Paure
Quali sono gli ostacoli all’avere un figlio?
Spesso nella narrazione si sente che i giovani non vogliono avere figli perché sono narcisisti o centrati solo sulla propria realizzazione. Oppure che i figli li vorrebbero tantissimo, ma sono le condizioni economiche e sociali a impedirgli di realizzare questo sogno. Voi avete spostato tantissimo i pregiudizi che come adulti abbiamo, l’immaginario che noi adulti abbiamo su di voi. Vi leggo però dieci motivazioni per non avere figli, quelle che di solito ripetiamo: per ognuna, ciascuno mi dica da 1 a 10 quanto la sente vera per sé. Vuol dire che tutti insieme, alla fine, avremo al massimo cento punti per ogni motivazione.
1. Quanto contano da 1 a 10 la precarietà del lavoro, l’incertezza economica, la scarsità di reddito?
Emanuele: 9.
Riccardo: 10.
Manuel: 10.
Michael: 8, magari c’è qualcosa di peggio.
Cristiano: 7.
Simona: 9.
Vittoria: 8.
Erica: 9.
Lotta: 9.
Giulia: 10.
2. Quanto pesano la difficoltà di conciliazione tra lavoro e famiglia e la penalizzazione che avrai sul lavoro rispetto alle aspettative e il percorso di carriera?
Riccardo: 5.
Manuel: 6.
Michael: 7.
Cristiano: 7.
Emanuele: 6.
Simona: 8.
Vittoria: 8.
Erica: Assolutamente 10.
Lotta: 9.
Giulia: 9.
3. L’ecoansia, l’impatto climatico, il timore, la responsabilità – qualcuno dice anche la colpa o l’egoismo – di far nascere un figlio in un mondo che sarà diverso da quello che conosciamo: sentite che questi temi frenano il vostro desiderio di avere un figlio?
Manuel: 8.
Michael: 10.
Cristiano: Vorrei essere più positivo, ma 10 anch’io.
Emanuele: 8.
Simona: 9.
Vittoria: 9.
Erica: Non ho speranza e dico 9 e mezzo
Lotta: 11.
Giulia: 10.
Riccardo: Io dico 7, però lo giustifico. Secondo me è uno dei punti di ansia e di preoccupazione maggiore, però qui almeno si vedono dei segni di cambiamento. Invece sul problema del reddito non riesco a vedere nemmeno un inizio di cambiamento possibile, nulla che mi possa far dire che fra vent’anni le cose saranno diverse. Perciò mi preoccupa di più l’altra questione.
4. Quanto contano le guerre e la situazione internazionale?
Riccardo: 9.
Manuel: 7.
Cristiano: 7.
Emanuele: 10.
Simona: 7.
Vittoria: 7, non perché non ne sento la gravità o l’incombenza, ma perché penso che non sia una cosa così specifica della nostra generazione. È una preoccupazione più diffusa.
Erica: 8, ma perché secondo me noi non vivremo le guerre in prima persona. Le sentiremo sulle tasse e in altri modi, con le sanzioni eccetera, ma per adesso mi pare impossibile pensare che verremo bombardati. Quindi dico 8, non mi sento di dare di più.
Lotta: Io dico 10 perché penso che guerra non sia soltanto il
conflitto con altre nazioni, ma anche qualcosa di interno. Quando non avremo più l’acqua corrente in casa, penso che la gente non lancerà soltanto pomodoro sulle teche delle opere d’arte.
Michael: In realtà noi siamo già in guerra, quindi 10. Non ci sono solo le armi.
Giulia: 8.
5. Sapere di non poter contare sui nonni perché lontani o perché lavorano ancora, così come la mancanza di servizi, asili nido e strutture di questo tipo è qualcosa che influenza la vostra scelta di avere o non avere figli?
Riccardo: Io auguro una lunga vita alla mia famiglia e quindi per ora dico 2 o 3.
Manuel: È una cosa molto collegata a quella del reddito, però direi 6.
Michael: 0.
Cristiano: 5.
Emanuele: 5.
Simona: Per me 10, ma perché mi devo spostare per studiare dal Sud, figuriamoci poi per lavorare e crearmi un futuro.
Vittoria: 5.
Giulia: 5.
Erica: Mi ricollego a Simona perché effettivamente per lavoro io chissà dove sarò. Quindi sì, i miei potrebbero pure essere disponibili, però io non sarei a Roma, quindi 10 o 9.
Lotta: Io penso che “famiglia” saranno le persone che mi aiuteranno a crescere l’eventuale figlio o figlia, come ho già detto. Quindi il fatto che i miei genitori ci siano o meno come nonni non mi tocca molto, dico 2.
6. Un’altra possibile ragione per non avere figli è l’incompatibilità di un figlio con il lifestyle attuale, con gli interessi, insomma le rinunce che un figlio comporta in termini di libertà o il semplice desiderio di pensare a sé.
Manuel: 5.
Michael: Mi tengo nel mezzo: 5, nel senso che, coerentemente a tutto quello che ho detto fino adesso, cioè non mi immagino con un figlio generato.
Cristiano: 4.
Emanuele: 5.
Simona: 5 anche per me.
Giulia: 7.
Erica: Ricollegato al mio discorso iniziale, 10.
Lotta: 10.
Riccardo: Anche io dico 5, però c’è con la premessa che non ho chissà quale lifestyle da voler mantenere.
Vittoria: 10.
7. Un figlio è una scelta irreversibile. Ormai viviamo in un’epoca in cui tutto è reversibile. Il lavoro se non
mi piace lo cambio, se non mi trovo bene, lo cambio. Se mi sposo e poi non va bene e ci separiamo. Vado a convivere, ma se poi non funziona torno indietro.
Un figlio è l’unica scelta che è rimasta irreversibile. Il professore Alessandro Rosina nella chiacchierara che abbiamo fatto per un altro capitolo del numero mi faceva notare che dinanzi all’impossibilità di rendere reversibile un figlio, la strategia che abbiamo messo in campo è quella di posticipare la scelta il più possibile, fino a quando a un certo punto non hai scelto di non avere un figlio, ma il figlio comunque non arriva più.
Emanuele: Per me pesa 10. È esattamente una delle cose che non mi fa rispondere con un sì convinto sull’avere figli.
Simona: Anche io 10 per lo stesso motivo.
Erica: 10, per lo stesso motivo.
Riccardo: 1 o 2.
Manuel: 6.
Cristiano: 5.
Michael: Per me 1, per il semplice fatto che non dovrebbe essere irreversibile. Se una coppia non si sente in grado di crescere un figlio, lo Stato dovrebbe garantire un accompagnamento oppure la possibilità di affidare il figlio a qualcun altro. Non è una via di fuga, ma un’alternativa per il bambino.
Lotta: Sono d’accordo, ma questo aiuto non esiste, quindi dico 7.
Giulia: 3.
Vittoria: Anche per me 10.
8. La paura di un cambiamento fisico, paura del parto in sé. Questo forse è un argomento più femminile.
Simona: Però lo stress incide anche sul padre, molti genitori dicono ai figli: “guarda prima di averti com’ero”.
Michael: L’uomo potrebbe preoccuparsi del trauma fisico che la donna può vivere.
Sara: Ho messo questa domanda perché avevo in testa quell’intervista di cui vi dicevo prima, di una ragazza che dopo i fatti di Traversetolo mi ha detto: “Io non questi fatti, ma proprio la maternità tout court la associo alla parola macabro”. Mi raccontava che il tema della gravidanza e del cambiamento fisico le era inaccettabile.
Manuel: Io effettivamente mi preoccuperei molto per la mia compagna.
Cristiano: Per me 0, per le possibili complicazioni del parto per la mia compagna 10: quindi facendo una media dico 5.
Emanuele: Sul cambiamento della mia persona 0, per quanto riguarda come lei potrebbe cambiare fisicamente sempre 0.
Giulia: 8.
Simona: 5.
Vittoria: 10.
Lotta: 10, a me la gravidanza spaventa.
Michael: Mi tocca solo nella misura in cui, prendendomi cura della persona che mi sta a fianco, condividerei anche le preoccupazioni e i rischi che lei affronterebbe.
Erica: Come ho detto all’inizio, non posso avere i figli biologici,
Childless & childfree
«Per te, oggi, quanto pesano le seguenti ragioni sull’orientamento a non avere un figlio?»: lo abbiamo chiesto ai 10 giovani partecipanti alla tavola rotonda (Voto singolo: da 0=per nulla, a 10=moltissimo. In tabella la somma dei voti dei dieci ragazzi)
Ecoansia/Impatto del figlio sul pianeta /Consapevolezza di chiamarlo alla vita in un mondo che sarà diverso da quello che conosciamo
Precarietà del lavoro/Incertezza economica /Scarsità di reddito
Inconciliabilità del figlio con il lavoro/Conciliazione /Penalizzazione che avrei sul lavoro
Guerre/Crisi geopolitiche
Incompatibilità con lifestyle-interessi /Rinuncia alla libertà/Voglio pensare a me
Irreversibilità della scelta
Non poter contare sui nonni, perché lontani o perché lavorano ancora/Mancanza di servizi
Vedo gli errori dei genitori attuali /Vedo una società ostile ai bambini
Paura del cambiamento fisico/paura del parto in sé
Paura di un cambiamento nella coppia 89 91,5 75 73 66 63 41 35 51 49
quindi non mi tocca. Però se potessi, sarebbe comunque 0 perché non me ne è mai fregato molto del cambiamento del mio corpo: ho già dovuto elaborare il cambiamento con la malattia.
9. Quanto c’entra il vedere gli errori degli altri genitori e il vedere una società che “odia” i bambini, insofferente per ciò che i bambini sono e fanno?
Riccardo: 1 o 2, nel senso che gli errori che fanno gli altri non mi trattengono dall’essere genitore, gli errori che fanno gli altri possono essere degli esempi su come non fare. Ogni persona comunque ha il proprio carattere e la propria strada, quindi è anche difficile parlare di errori che fanno gli altri, magari quelli che per me sono errori per un altro sono cose giuste. Sul mondo che odia i figli, non so se questa società odia i bambini, non saprei cosa rispondere.
Manuel: 2.
Michael: 10, perché non c’è un odio diffuso intenzionale, nel senso che non è che si desideri il male dei bambini, però di fatto in Italia non c’è attenzione, non ci sono politiche e quindi non si costruisce il bene per i bambini né per i giovani, quindi c’è un odio di fatto.
Cristiano: 3.
Emanuele: Riprendo quello che dice Michael per dire che a me viene da pensare che l’odio è più verso i giovani, perché non ci danno la possibilità di pensare di fare figli. Quindi dico 7.
Simona: Per me 4, perché secondo me la società odia di più chi
arriva una certa età single e senza figli o in coppia senza figli.
Giulia: 8.
Vittoria: 6.
Erica: È una domanda molto complicata. Io lavorando con le associazioni giovanili e studentesche, più ho a che fare con i politici più mi disilludo sul fatto che vogliano davvero aiutarci. Se la dovessi vedere solo da un punto di vista personale, però, sono due affermazioni non mi toccano minimamente: quindi 2.
Lotta: L’Italia adesso è in calo demografico e c’è una narrazione portata avanti dalla politica per far sì che siamo spinti a procreare. Questa cosa mi dà molto fastidio perché poi, come dicevano
Emanuele e Michael, non ci sono attenzioni verso noi giovani, anzi c’è quasi un odio verso di noi per precluderci un futuro giusto in cui possiamo farlo. Quindi direi che la società a parole vuole i bambini, ma non aiuta: 6.
10. Ultimo tema, la paura di un cambiamento nella coppia.
Riccardo: 9.
Vittoria: 4.
Manuel: 7.
Michael: Non mi tocca, non vedo la coppia in senso tradizionale, quindi 0.
Cristiano: 5.
Emanuele: 2.
Simona: 7.
Giulia: 1.
Erica: Penso che nel momento in cui una coppia decide di volere dei figli, debba essere già cosciente del fatto che cambierà e non per forza il cambiamento è negativo. È un problema se cambia in negativo. Quindi se dovessi fare un’esperienza del genere non avrei paura di questo, dico 0.
Lotta: Se dovessi pensare soltanto a questo, senza tutte le altre complicazioni (la crisi climatica, il discorso economico, le guerre, eccetera), basandomi solo sul mio partner di cui mi fido ciecamente e con cui c’è una comunicazione incredibile, direi 0.
5. Felicità
Un figlio ha a che fare con la tua felicità? Quale parola sintetizza per te l’idea di diventare padre o madre?
Essere genitori è qualcosa che associate al tema della realizzazione e della felicità oppure, per i messaggi e le esperienze che vedete, no? E poi… qual è la prima parola che, per come siete voi ora, associate a essere madre o padre? Essere madre o padre per me adesso è... una parola sola.
Simona: Dipende, per me la mia realizzazione e la mia felicità non dipendono dal fatto di avere un figlio, ma per qualcun altro potrebbe essere così.
Sara: La dico in un altro modo. Pensate che diventare genitori è una cosa che vi renderebbe felici?
Manuel: Secondo me essere genitore può renderti felice e realizzato, ma come può renderti felice andare al ristorante. Non è una condizione per essere felice, però è una cosa che può portare felicità.
Riccardo: Sì, sono d’accordo. Secondo me parlando della realizzazione dell’essere genitore subentra una questione di egoismo: “mi realizzo solo se sono genitore”. Mentre sul dire che
essere genitore può portare felicità, certo, secondo me sì. Dipende come fai la domanda.
Michael: Per me sì, ma solo se si intendesse essere genitori nel senso in cui lo intendo io, cioè nel senso del prendersi cura delle relazioni intorno a sé con le persone e con gli esseri.
Simona: Essere genitore sicuramente porta felicità, credo che su questo siamo d’accordo. Non è che quando sappiamo di qualcuno che ha un figlio o che aspetta un bambino non ne siamo felici: è una cosa bellissima. Però sicuramente non è legata alla realizzazione. La realizzazione per me è più una realizzazione personale o anche in una relazione: non direi mai che mi sentirei realizzata nel momento in cui ho un figlio.
Emanuele: Mi ritrovo con quello che hanno detto un po’ tutti. Non è necessario essere genitori per sentirsi felice o realizzati nella vita.
Sara: Qual è la prima parola che, per come siete voi ora, associate a essere madre o padre? Essere madre o padre per me adesso è… Una parola sola.
Erica: Sarò brutale, soffocamento.
Simona: Per me impegno.
Lotta: Comunicazione.
Emanuele: Collaborazione.
Manuel: Io direi condivisione. Non nel senso di dividere un impegno, ma perché alla base di essere genitore c’è una piccola comunità.
Vittoria: Preoccupazione.
Michael: Attenzione.
Cristiano: Cura.
Giulia: Responsabilità.
Riccardo: Speranza, ma anche amore e un po’ anche felicità, però non nell’ottica di “essere genitore mi rende felice”, ma nell’ottica di avere cura di creare una strada di felicità e una generazione di felicità.
Alla revisione del testo della tavola rotonda ha collaborato Alice Rimoldi.