Riccardo Bonacina, trent'anni di pensiero sociale

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TRENT’ANNI DI PENSIERO SOCIALE

Un pezzo di storia del nostro Paese negli editoriali firmati dal fondatore di Vita

Prefazione di Stefano Zamagni

Riccardo Bonacina

TRENT’ANNI DI PENSIERO SOCIALE

Riccardo Bonacina TRENT’ANNI DI PENSIERO SOCIALE

© 2025

Supplemento digitale al numero in corso della testata giornalistica VITA

Registrazione presso il Tribunale di Milano n- 397 dell’8/7/1994

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Indice

“noi”

sì, ma senza partito

7 Lug 2006 Non si governa contro Si governa per

30 Mag 2008 La colpa degli zingari? Esser nati zingari

19 Set 2008 Domanda: a che figli lasceremo questo mondo?

8 Mag 2009 Se è lo Stato a produrre la Società. Parliamone

24 Lug 2009 L’invito di Benedetto XVI: non profit fuori dai recinti

12 Feb 2010 Nel 2011 il volontariato sarà cosa da museo?

3 Set 2010 La politica? Si rinnoverà solo per una spinta dal basso

21 Gen 2011 L’Europa senza più anima resta senza voce

1 Apr 2011 L’Occidente e Gheddafi. Il walzer delle ipocrisie

25 Mag 2012 Innovazione e attivazione. Vita volta pagina 103

Lug 2012 Un nuovo magazine e ora la nuova sfida digitale. 106 Per essere utili ai costruttori di società. Ora tocca a voi Nov 2012 Per Monti il welfare è solo un costo, non motore di sviluppo 108 perciò l’ha brutalizzato. L’Agenda Monti è da buttare

Lug 2013 Per non annoiarsi vi proponiamo una estate 111 di mobiltazione con noi. Sulla campagna #noslot e per interrompere lo scippo statale sui fondi che i contribuenti destinano al 5 per mille

Dic 2013 È sempre possibile ri-iniziare. Un nuovo inizio è quanto mai 114 necessario per scrivere insieme pagine nuove per il nostro Paese. Un appello e un manifesto

Gen 2014 Caro Terzo settore, ti scrivo per dirti che non ti chiamerò 117 più così. La realtà, l’esperienza nei territori, le sfide che ci aspettano sono ormai altrove. Ecco dove

Feb 2014 “Rompete le scatole” non è l’ennesimo invito a protestare 120 o a insultare, ma è l’invito a fare. A costruire osando forme nuove e badando allo scopo: la risposta ai bisogni nostri e di tutti

Apr 2014 L’impresa sociale è diventata in breve tempo tema 123 mainstream. Un paradigma possibile per l’alleanza tra non profit, profit, ente pubblico e finanza che insieme vogliono perseguire il bene comune

Set 2014 Cambiare si può. Lo dimostrano i due casi del Servizio civile 126 universale e dell’impresa sociale. Due proposte nate dal basso, discusse e messe a punto attraverso confronti promossi da Vita. E ora parte della Riforma

Feb 2015 «Non c’è dovere che sottovalutiamo di più del dovere

129 di essere felici», scriveva Adriano Olivetti. Un richiamo anche per il Terzo settore, troppo passivo di fronte alle sfide epocali che abbiamo davanti

Mag 2015 Abbiamo protestato contro gli egoismi delle istituzioni 131 europee, ma noi siamo sicuri di essere a posto? Chiese, non profit, sindacati, cosa siete disposti a dare per un progetto di cooperazione con l’Africa?

Apr 2016 Innovare l’idea di giornale, per raccontare l’innovazione

Giu 2016 I sogni che la riforma realizza

Feb 2017 Un’idea d’Italia da difendere

Mag 2017 Ong in mare e il reato di solidarietà

Nov 2017 #iostoconvita. Una nuova stagione per il non profit:

la produzione di valore

Gen 2018 #noslot. Così l’azzardo legale devasta le comunità

2018 Intelligenza

Una selezione di 60 editoriali che ripercorrono non solo la storia della nostra testata, ma la storia del nostro Paese letta con gli occhi e la sensibilità di un acuto giornalista e attivista sociale. Riccardo Bonacina, fondatore di Vita scomparso lo scorso 11 dicembre, è stato indissolubilmente entrambe le cose: un animatore di comunità e un acuto narratore di una parte di società, il Terzo settore, il volontariato e le organizzazioni della società civile, che prima del 27 ottobre 1994, giorno in cui in edicola e nella casella della posta degli abbonati compare Vita, non aveva dignità di parola di fronte all’opinione pubblica del nostro Paese. Questa carrellata di articoli pubblicati sul magazine fra il 1994 e il 2024 costituiscono un patrimonio di battaglie civili e di storia che è fondamentale conoscere perché danno piena coscienza del fatto che il Terzo settore, non sia solo un “settore”, ma un sistema di valori con cui guardare e stare al mondo. È questo sguardo l’eredità più importante che ci consegna Riccardo.

Un’esistenza al servizio del bene comune

Di certe amicizie, allorché la memoria si volge all’indietro, è difficile, quasi impossibile, ricostruirne l’inizio: si sa soltanto che sono parte della nostra vita, come se fossero sempre cresciute con noi. L’amicizia con Riccardo è stata di questo tipo. Letum non omnia finit (Non tutto finisce con la morte). Cosa resta e resterà dell’esemplare figura di Riccardo? Tanto, davvero. Anzitutto, il ricordo di una persona buona e mite, capace di decidere con autorevolezza e non solamente di scegliere. Quello di Riccardo è un esempio preclaro di intellettuale della società civile nel senso del cardinale John Newman, di una persona, cioè che pone la propria esperienza e conoscenza al servizio di una causa ultrapersonale, nel caso presente quella di reclamare per la categoria di bene comune lo stesso spazio pubblico (almeno) di quello che riceve la categoria di bene totale. Quando Riccardo scrive che “tra redazione e lettori, in questo giornale, davvero non c’è di mezzo niente” (27 ottobre 1994) e quando avanza la sua critica serrata contro quei sistemi di informazione e di comunicazione che trasformano il popolo in spettatore e le

persone in audience da vendere sul mercato, si comprende perché il Nostro sottolinei con forza la necessità della cultura donativa quale presupposto per il bene comune. Senza pratiche estese di dono si potrà anche costruire un mercato efficiente ed uno Stato autorevole (e perfino giusto), ma mai si riuscirà a risolvere quel “disagio di civiltà” di cui ha parlato Sigmund Freud. Efficienza e giustizia, pur unite, non bastano a renderci felici.

Di un altro lascito fondamentale di Riccardo non si può non dire. Con la sua creatura, Vita, il Nostro si è battuto come un leone per recuperare la radice antica e profonda del nostro

Terzo settore, facendolo accettare come componente coessenziale del nostro modello di ordine sociale, assieme e sul medesimo piano di Stato e Mercato. Come sappiamo, il Novecento ha cancellato la terziarietà nella sua furia costruttivista. Tutto doveva essere ricondotto allo Stato e al Mercato o tutt’al più ad un qualche mix di queste due istituzioni. Vita ha contribuito non poco nell’ultimo trentennio a farci capire perché il modello bipolare “Stato-Mercato” ha terminato il suo corso storico, e quindi perché è urgente muovere passi verso la piena realizzazione del modello tripolare “Stato-MercatoComunità”, vale a dire: pubblico, privato, comune. È precisamente a tale riguardo che si può apprezzare il contributo del pensiero di Riccardo alla soluzione della vexata quaestio della comunanza etica nella società del pluralismo. Questa società, infatti, rifiuta l’idea di un’etica comune. Al tempo stesso, però, la vita associata – e soprattutto la politica – postula una comunanza fondata su principi etici condivisi, se non vuole ridursi a mero proceduralismo (si tratta della koinotes di cui aveva già scritto Aristotele). Ebbene, missione propria della società civile organizzata, in special modo del Terzo settore, in questo nostro tempo è quella di suggerire una via pervia per far stare assieme – assicurando la pace – il rispetto del pluralismo etico e l’accoglimento di regole del gioco comuni per tutti.

Infine, non posso non fare parola del ruolo specifico svolto da Riccardo durante i trent’anni alla guida del Comitato editoriale di Vita. Cosa differenzia un mucchietto di perle preziose da una bellissima collana delle stesse? Il filo! È il filo che, tenendo insieme le singole perle, conferisce ad esse un valore aggiunto tutto particolare. Così è stato Riccardo. Qualsiasi organizzazione per avanzare in armonia ha bisogno di personaggi che sappiano valorizzare le diversità di talento e di carattere delle persone che ad esse appartengono. Riccardo non ha mai creduto che il metodo dello “svincolo” (avoidance) fosse la strada percorribile per scongiurare il conflitto e per assicurare una parvenza di pace sociale.

Devo chiudere, non prima però di accennare ad un altro specifico tratto della personalità di Riccardo, un tratto che, agli inizi, avevo solo intuito, ma che alla fine, quando la malattia aveva ormai tolto il velo dell’illusione, si era manifestato appieno. Parlo della sua non comune capacità di accogliere la sofferenza come occasione di consolazione: mai un lamento, un’imprecazione, una rassegnazione. “La morte ha 10mila e più porte attraverso cui l’uomo può uscire di scena”, ha scritto il poeta inglese John Webster (XVII secolo). Riccardo ha scelto la porta migliore: quella di chi, intravvedendo nella sofferenza una via d’uscita, sa infondere letizia. Riccardo è riuscito a mantenere per se stesso e per gli altri che gli erano vicini – familiari, parenti e tantissimi amici – un’atmosfera di normalità; non ha permesso che la malattia occupasse interamente la sua esistenza, che colorasse di nero tutta la sua vita. Anche per questo, mi piace terminare con le parole di Agostino: “Non ti chiediamo, Signore, perché ci hai tolto Riccardo. Ti ringraziamo piuttosto di avercelo donato”.

GLI EDITORIALI. IL NON PROFIT

E IL SOCIALE

IN PRIMA

PAGINA

27 Ott 1994 Caro direttore, ti scrivo

Dalla prossima settimana questa pagina sarà a vostra disposizione. Vita è, infatti, un giornale senza editoriale. Non c’è perché Vita non nasce per propagandare qualche idea o filosofia. Non abbiamo padroni che debbano lanciare qualche prodotto o cercare consenso per qualche nuova o antica formazione politica. Vita nasce per raccontare la realtà di milioni di cittadini che oggi non sono rappresentati, non sono visibili nel gran circo dei mass media, occupato a raccontarci i veleni o le chiacchiere dei Palazzi.

Noi crediamo, invece, che la vita concreta di migliaia e migliaia di persone, di gruppi, di associazioni, di movimenti, sia la sola realtà che oggi vale la pena di raccontare. È una vita ricca, densa, energica, piena di difficoltà e insieme di tensioni ideali, piena di iniziative di progetti, di opere concrete. Per questo già da pagina tre sarete voi a scrivere il giornale, con lettere, interventi, che facciano irrompere nel dibattito brani reali, concreti, della nostra vita di ogni giorno, della vita delle nostre famiglie, delle nostre città. Èsolo la prima di tante pagine che scriveremo insieme a voi lettori che ci sostenete, che ci leggete. Tra la redazione e i

lettori, in questo giornale, davvero non c’è di mezzo niente. Se non una pagina bianca da scrivere assieme. Far nascere un’impresa editoriale senza protezioni e dalla parte della vita è stato per noi un atto di coraggio che affidiamo alla tua passione per un’informazione libera e civile.

Ora tocca a te.

23 Mar 1995

C’è Vita, nella “Città invisibile”

Adesso anche anche noi siamo su Internet, la rete, l’autostrada informatica che mette in contatto uomini di tutto il mondo attraverso collegamenti telematici. Ogni settimana, Vita non sarà solo nelle 48 pagine di carta riciclata da comprare in edicola, ma anche in pagine elettroniche che potrete trovare sul vostro computer. Basta che diventiate abitanti della “Città invisibile”. Per farlo non è necessario chiedere cittadinanza a una qualche autorità, aderite a Internet, un mondo di informazioni, messaggi, amori, banche dati, giochi, appelli, battaglie via computer-telefono dove potete bighellonare e quindi entrare, a vostro piacimento, nella “Città invisibile”. Il suo indirizzo informatico è, sul web, “http// www.citinv.it”. Lì troverete gli articoli più importanti di Vita, assieme a quelli di altre pubblicazioni come. Cuore e I siciliani.

La “Città invisibile” si definisce “un’associazione culturale nel cyberspazio di lingua italiana”. È nata il 26 novembre 1994 dall’opera gratuita e volontaria di un gruppo di assidui naviganti di Internet dislocati in vari Paesi del mondo. Vuole fornire senza costi per chi ne fruisce servizi quali il “supporto a testate giornalistiche per

la diffusione di informazioni tramite Internet”, nonché di “diffusione di comunicazioni di movimenti politici, sindacali, culturali”, “creazione di aree di dibattito su argomenti relativi all’Italia”.

Quindi c’è Vita anche nel cyberspazio.

Abbiamo deciso di abitare anche noi nella “Città invisibile” perché ci sembrava che alle battaglie del nostro settimanale l’edicola stesse stretta. Adesso portiamo le voci delle associazioni e dei movimenti di impegno civile in ogni parte del globo. E ci sembrava indispensabile partecipare a questo esperimento di democrazia telematica che è Internet, la democrazia del futuro. Gli ultimi della terra sono già fra i primi nel regno della telematica.

20 Mag 1995 Tutto si compra. Anche un bambino, anche un Paese

Minori. In poco più di sei mesi di storia questo settimanale ha dedicato sei copertine a loro. Una copertina al mese dedicata ai minori, ai bambini. Insieme a Telefono Azzurro abbiamo presentato al governo e ai ministeri competenti un documento, sottoscritto da sessanta associazioni, in cui si richiedono sei impegni urgenti. Com’è nostro costume talloneremo e giudicheremo l’esecutivo sugli impegni concreti che saprà prendere e attuare. Anche questa settimana ci occupiamo di bimbi, bambini comprati e venduti. È uno degli aspetti più inquietanti, meno tollerabili che abbiamo incontrato nel nostro lavoro di inchiesta in questi mesi. Sapere che esiste un mercato sulle adozioni internazionali che si nutre di tanti egoismi: gli egoismi di coppie affaticate, gli egoismi di avvocati in cerca di facili guadagni, gli egoismi di legislatori indifferenti. Sapere che esiste un mercato ai confini della legalità di cui si chiacchiera, di cui tutti parlano, ma nessuno fa niente. Due giornalisti di Vita si sono mossi per svelare i meccanismi di questo mercato delle adozioni. A noi il compito di sollevare il velo sul traffico di bambini dai Paesi poveri, ora la parola passa ai magistrati che vogliano indagare.

Banche. Sabato 13 maggio ho avuto l’onore di partecipare alle celebrazioni per il quarto centenario della nascita, per bolla papale, della Compagnia San Paolo. A conclusione del convegno è intervenuto il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, ha affermato: «Certi giorni, al Quirinale, provo un senso di ribellione. Quando tutto sembra dipendere dal denaro, dalla moneta, dall’astrazione finanziaria. Bisogna avere il coraggio di dire che c’è violenza nelle armi e c’è la violenza della moneta. C’è la furbizia di chi approfitta dei poveri, e anche dei ricchi...». Parole dure, parole di pietra che sono risuonate di fronte ad una strana platea fatta di volontari e banchieri. Parole pronunciate, forse non a caso, nelle sale del Gruppo San Paolo teatro in queste settimane di uno scontro decisivo per la democratizzazione del sistema creditizio italiano. Parole pronunciate, forse non per caso, nella capitale di una regione martoriata prima dal fango, poi dallo Stato e infine dalle banche. Non troppi giorni fa il cardinal Giacomo Biffi ha detto: «L’esorbitanza del potere finanziario che si fa sempre più esteso, più avido, più deciso a inseguire i propri vantaggi. Il problema della concentrazione della finanza è almeno altrettanto decisivo della concentrazione di poteri nel campo dell’informazione». Il Presidente e il cardinale sottolineano un tema davvero decisivo nella costruzione di una democrazia effettiva in questo Paese. Da questo numero, con inchieste, servizi, interviste, daremo il nostro contributo.

Mi riguarda. Una frase di un giovane volontario mi ha colpito nel corso di un dibattito cui ho partecipato in un quartiere periferico di Milano. «Ad un certo punto mi sono ribellato all’idea che tutti cercano di inculcarci: niente dipende da te, è inutile che tu ti dia da fare, tanto non decidi tu. Ad un certo punto ho capito che la vita, mia, di chi mi sta intorno, del mio quartiere, mi riguardava e che anch’io potevo esserne responsabile. O è così o siamo schiavi inconsapevoli. Per questo dobbiamo ribellarci ad un sistema di informazione e di comunicazione

che, senza differenze sostanziali, trasformano il popolo in spettatori, le persone in audience da vendere a peso al miglior offerente». Vero, verissimo, parole più decisive di centinaia di dibattiti sull’informazione.

3 Giu 1995 Il nostro impegno per Sarajevo e per la libertà

C’è qualcosa di osceno nei telegiornali nostrani di queste settimane: Berlusconi, Dell’Utri, e ancora Dell’Utri e Berlusconi. Le sparate di Bossi e la glorificazione di Mantova baciata dalla Lega e dalla Lotteria. C’è qualcosa di osceno nel modo con cui l’Europa ha voluto spettacolarmente lavarsi la coscienza premiando a Cannes due film sulla tragedia della ex Jugoslavia. C’è qualcosa di irresponsabile nelle tesi di Montanelli che ha individuato nei cromosomi balcanici la vocazione all’eccidio. Sulle pagine di qualche giornale i quattro anni di massacri in Bosnia sono persino diventati spunto per l’ennesima finta querelle politica tra destra (pacifista?) e sinistra (interventista?).

È oscena questa irresponsabilità, questo menefreghismo con cui si sta a guardare una tragedia lunga quattro anni che ci riguarda persino fisicamente. Mille soldati italiani sulle coste pugliesi, le basi Nato sul nostro territorio in stato di allerta, il mar Adriatico zeppo di portaerei americane. Il tutto a pochi chilometri dalle spiagge di Rimini e di Riccione. “L’Adriatico in fiamme” era il titolo della nostra copertina di tre settimane fa, e Il Manifesto ci ha fatto eco con un sapiente

“II Golfo Adriatico”, un titolo che fa riaffacciare alla memoria la tragicamente nota Guerra del Golfo. Eppure anche il Governo italiano, da molti mesi ormai, sembra non avere voce chiara in politica estera come se l’Italia da un po’ di tempo si affacciasse sul Mare del Nord. E l’Onu continua ad essere la scusa mondiale per non dare inizio ad una decisa, inequivocabile, ferma azione diplomatica per la pace. Solo il Papa alza la sua voce e dice da Piazza San Pietro: «Dio domanderà un giorno: Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo». In questo numero anche noi raccogliamo una voce, la voce di un gruppo di artisti che da quasi quattro anni vivono sotto le bombe a Sarajevo dove ogni giorno vengono uccisi uomini, donne e bambini. Ci mandano delle cartoline capaci di farci arrossire. Ad una di queste cartoline abbiamo dedicato la nostra ultima pagina che si trasforma in un manifesto da appendere ovunque. “Io voglio proprio te per salvare Sarajevo” è scritto sulla cartolina-manifesto che sbeffeggia la chiamata alle armi di tradizione statunitense.

Cari lettori, la libertà di stampa, il pluralismo nell’informazione non lo si conquista né schierandoci ascoltando dibattiti televisivi in cui non siamo mai protagonisti, né barrando con un sì o con un no un quesito referendario sostanzialmente inutile. Cari lettori la libertà di informazione è una somma di piccoli atti di libertà. La libertà di chi fa i giornali e di chi li sceglie. Dopo sette mesi di storia l’unica ricchezza di questo giornale è proprio la sua libertà. Non dobbiamo ringraziare nessuno, né partiti, né potenti per il fatto di esistere ed essere cresciuti. Non abbiamo chiesto né favori, né elemosine per poter essere liberi di raccogliere tutte le vostre denunce e segnalazioni, e per essere liberi di raccontare le innumerevoli iniziative positive che mettete in atto ogni giorno. La nostra breve storia è fatta solo dal nostro entusiasmo e dalla vostra libera scelta. Ma per crescere ancora abbiamo bisogno che gli atti di libertà si moltiplichino. Il nostro obiettivo è raddoppiare. Ognuno di voi regali alla sua libertà un abbonato, un nuovo lettore. Contattateci.

15 Lug 1995 Il silenzio di Langer e il clamore di Greenpeace

Alex Langer e Greenpeace. Ovvero, il silenzio e il clamore.

Le battaglie difficili e le azioni mass mediologiche. Con Langer dovevamo incontrarci la settimana scorsa, a San Giovanni al Natisone. Una conferenza a pochi chilometri dal confine con l’ex Jugoslavia per discutere di impegno e di responsabilità con 500 giovani della diocesi di Udine. Alex ci ha lasciato solo tre giorni prima di quell’appuntamento. Da allora abbiamo continuato ad interrogarci sul senso di quel vuoto, di quella partenza voluta, di quegli appunti lasciati e di quelli che siamo andati a scovare, dagli amici, da quelli veri, quelli che hanno condiviso con lui le battaglie, i successi, le sconfitte, le tenerezze e le gioie. Continuiamo ad interrogarci per noi e per Alex. Abbiamo cestinato con fastidio le stupide dichiarazioni dei Ripa Di Meana e dei Mattioli. Non riusciamo neppure ad unirci al coro degli adulatori di Greenpeace-Camel Trophy Adventures malgrado proprio lo scorso numero vi abbiamo invitato a protestare contro la ripresa degli esperimenti nucleari francesi. Preferiamo soffermarci a riflettere sugli interrogativi profondi sul nostro essere al mondo, sul nostro abitare il mondo, su come

costruire quello di domani che il suicidio di Langer ci impone. Per questo ad Alex abbiamo dedicato le due copertine del giornale e un ampio servizio. «Forse è troppo essere portatori di speranza... troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere», scriveva Langer. Un ragazzo di sedici anni ad Udine ha risposto così alla fatica di Alex: «Non possiamo caricarci sulle spalle il mondo. Il mito di Atlante era appunto un mito. Invece di prenderci il mondo in spalla dovremmo accettare di essere portati sulle spalle da qualcuno più grande di noi. Diventeremmo allora portatori di speranza perché portatori di misericordia, verso noi stessi e verso gli altri. E più semplice, per questo oggi è così difficile». Solo qualche giorno dopo abbiamo scoperto che Langer era affascinato dalla figura di San Cristoforo. Il santo che aveva preso sulle sue spalle il Dio bambino. Atlante e San Cristoforo, la figura mitica che si carica il mondo sulle sue spalle, e l’uomo che prende su di sè il senso della vita. Due maniere di essere portatori di speranza. Chissà quante volte Langer avrà pensato a queste due figure, nei suoi viaggi di andata e ritorno da Tuzla, Srebrenica, Sarajevo, le città dove ogni giorno si scappa, si è violentati e si continua a morire. Per Alex Langer la politica era visione dei problemi mai disgiunta dagli atti concreti, era capace di occuparsi di ottanta profughi e del loro singolo destino, era capace di regalare 800 abbonamenti ad una piccola rivista a tutti i suoi amici, era capace di vincere con competenza battaglie al Parlamento europeo come quella sulla manipolazione genetica. Sempre evitando scorciatoie partitiche e rassicurazioni ideologiche. Noi non sappiamo se Atlante c’entri con il suicidio di Alex. Preferiamo ricordare il brano di una lettera arrivata qualche anno fa ad un grande sacerdote milanese che diceva: «Sono tante le cose che fanno vibrare il cuore. Ed è per questo che poi, si muore». Devono aver pensato così anche i 500 sedicenni udinesi che hanno ricordato Langer con un lunghissimo, intenso applauso.

23 Set 1995 La libertà, la retorica e Muccioli

Quanto è difficile in questo Paese essere liberi. Quanto è difficile se la libertà non è una bandiera, un appello retorico, un santino da tenere in tasca, una dichiarazione sui giornali “tanto per fare un po’ di casino”, canterebbe Giorgio Gaber. Quanti problemi per chi non vuole schierarsi né di qua né di là, per chi sceglie la parte della vita con i suoi carichi e i suoi bisogni, quanti guai per chi non vuole divise e sceglie di parlare e di trattare con chi sta di qua o di là. Il minestrone è di destra o di sinistra si chiede ancora Gaber? Se poi qualche sognatore, utopista o idealista non si accontenta di fantasticare e cerca di costruire un’ opera, un’iniziativa, un giornale, una comunità, un’azienda senza chiedere permessi rischia davvero grosso. Se poi capita che questa iniziativa cresca per energie proprie e conquisti amici su amici, amici potenti e amici sconosciuti, ti può capitare, come è successo a Vincenzo Muccioli, che il giorno della tua morte ti venga recapitata da uno sciagurato giudice la richiesta di sequestro delle cartelle cliniche e di autopsia. Muccioli in quindici anni ha costruito a San Patrignano una città capace di ospitare oltre 2.000 ragazzi emarginati dalla società,

ha preteso di costruirla da solo senza chiedere permessi o protezioni preventive, addirittura si era messo in testa di scrivere e condizionare le leggi di questo Paese, si era forse illuso di aver dato vita ad un piccolo popolo, ad un pezzo di società diversa capace di trattare con tutti, di condizionare il corso della storia. In quindici anni è stato molto amato e molto odiato, su di lui hanno detto e diranno le cose più belle e più oscene, in entrambi i casi, spesso, si è fatto e si farà man bassa di retorica. Ma oggi, nel giorno della sua scomparsa, oltre alla preoccupazione per il destino della sua grande e ingombrate opera fatta di giovani e di persone (non dimentichiamolo mai) su cui ci interroghiamo nelle pagine del giornale, c’è un solo pensiero, una sola questione che non mi si leva dalla testa e che per la prima volta mi fa sentire vicino ad un uomo che ho incontrato decine di volte senza sentirlo mai “vicino”: quanto è difficile essere davvero liberi in questo Paese, quanto è difficile costruire, fare, intraprendere in piena libertà. Anche Muccioli deve avere sentito questo peso, quante volte deve essere stato stanco, soprattutto in questi ultimi mesi. Il peso delle opere, il peso degli errori, il peso delle accuse. Ma non si è dato mai per vinto, gli bastava ributtarsi tra i suoi ragazzi, vederne uno che stava bene, o almeno un po’ meglio. Immagino che sia andata così e spero che quello che lui ha iniziato abbia tanta forza per continuare, magari cambiando le forme, le strutture, l’organizzazione.

Ragionando sull’opera di Muccioli sono andato a rileggere le riflessioni sulle libertà di due grandi autori. Due brani dedicati a Muccioli e a tutti quelli che vogliono costruire qualcosa senza chiedere permessi.

Italo Calvino (da Le città invisibili): «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimenti continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»

Alasdair Mac Intyre (filosofo): «Un punto di svolta decisivo nella storia antica si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’Imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale Imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita potesse essere sostenuta in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere all’epoca incipiente di barbarie e di oscurità. (...) Anche oggi è decisiva la costruzione di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. I barbari non aspettano più al di là dei confini ma già da tempo ci governano».

20 Lug 1996

Alla ricerca della notizia perduta: ovvero la vita

È una mia antica convinzione: in un sistema dell’informazione che usa i media non per informare, ma per creare artificioso consenso o dissenso nell’agone politico o commerciale (ma non sono spesso la stessa cosa?), le uniche pagine veramente utili dei giornali sono quelle con gli orari dei cinema, delle farmacie, dei musei, di qualche telefono amico. Altre informazioni pure e utilizzabili, altre informazioni di pubblica utilità è davvero difficile trovarne in un universo mediatico tessuto di chiacchiere artificiose e costruite ad arte sia che si tratti di politica, di economia o dello spettacolo propriamente detto, alla vita, quella nostra, di tutti i giorni, per affiorare non resta che il trasformarsi in dramma, tragedia, oppure in paradosso, in curiosità, nel sistema dell’informazione italiana (tipicamente italiana) infatti a disposizione della vita non rimangono che gli spazi destinati alla cronaca nera o al cosiddetto “taglio basso”. Invece di raccontare la vita, il sistema dell’informazione ha preso gusto nel regalarci gadget (videocassette, supplementi, profumi, Cd, dischi, oggetti vari), questi sì tangibilmente utilizzabili. Il meccanismo è talmente dispendioso (il giornale regala un

supplemento per sostenere le sue vendite, il supplemento regala un gadget per sostenere il supplemento che sostiene il giornale, e così, via) che non durerà moltissimo. Le copie dei giornali venduti sono sempre meno, i conti delle aziende editoriali sono sempre più in rosso, i giornalisti disoccupati sempre di più. Sono quindi convinto che prima o poi giornali e televisioni saranno costrette a ricercare altrove la propria utilità, magari in un rapporto leale e di servizio con i cittadini lettori–telespettatori. Nel frattempo, grazie alle vostre segnalazioni e telefonate, ho scoperto un altro piccolo spazio dove la vita cerca di affiorare nel sistema italiano dell’informazione: succede talvolta che nello spazio delle lettere siano ospitati, quasi come messaggi in bottiglia in un mare sconfinato di chiacchiere, messaggi di cittadini con esperienze, domande, storie cui sarebbe necessario dedicare pagine di riflessioni, di inchieste, di dibattiti.

Il 4 luglio scorso La Repubblica ha ospitato la lettera di una ragazza sedicenne che racconta la sofferenza della sua anoressia. Scrive Alessandra di Roma: «Dipende solo esclusivamente da te, così mi sento continuamente ripetere. Ma ora vi domando: posso io da sola dopo essermi illusa e successivamente distrutta... ricominciare, rinascere, con quale forza? Mi si risponderà “la forza di voler guarire e quindi di vivere...”. Però vi assicuro che è più facile districarsi in un paese sconosciuto di notte che dentro di noi, tanto confusi e stravolti.

Io non so cosa sia giusto e cosa sbagliato; se ne morirò o riuscirò a ricominciare a vivere. So solamente che dietro il provocarsi del vomito e il voler digiunare c’è tutto un mondo che avvinghia, opprime violentemente il tuo io, togliendogli anche la più intensa delle volontà e dei desideri... e tu sei lì impotente di fronte al fatto compiuto, incapace di farne a meno perché è tutto quello che realmente ti è rimasto... tutto quello che hai».

Non credete, come chi scrive, che le domande di Alessandra, sedici anni, siano le più importanti del mondo, siano davvero la nostra più

intima realtà? Non pensate, come noi, che su queste parole valga la pena di imbastire pagine, speciali, dirette tv, dossier, inchieste? Che ne sarà dell’informazione se non saprà considerare queste domande, se non saprà raccogliere i bisogni più concreti della gente? Che ne sarà degli educatori, se ancora ce ne sono? Dei genitori? Dei politici? Dei sacerdoti? Se non sapremo farci carico e condividere domande e bisogni, che ne sarà di questo Paese? In fondo, sono queste le domande che la società civile pone anche al nuovo governo della Rai. Domande che hanno il sapore dell’appello, della chiamata d’attenzione. Chissà se nell’era di Internet e dell’informazione globale c’è ancora chi sa ascoltare voci così basse e poco commercializzabili con la videocassetta del cinema erotico d’autore...

18 Gen 1997 Lo scandalo di una bambina disabile e felice

Improvvisa, e per una volta senza input di uffici stampa e agenzie di pubbliche relazioni, è scoppiata una polemica che ci sembra utile non lasciare cadere.

Cosa è successo? Qualche settimana fa (come raccontato a pagina 21 del numero 2 del ’97 da Vita) un libretto color Lilla edito da una piccola e sconosciuta casa editrice fiorentina (e quindi distribuito con più d’una difficoltà) è balzato agli onori delle classifiche dei libri più venduti in Italia. Il suo titolo è semplicissimo: Il libro di Alice. Alla faccia delle più sofisticate strategie di marketing, il traguardo agognato dai più famosi romanzieri e saggisti, il quinto posto in classifica che significa migliaia di copie vendute, è stato raggiunto da un libretto nato in ambito famigliare ed amicale e diffuso attraverso un passa parola senza fine. Cosa racconta il libro? L’esperienza di una bambina, Alice, affetta da una malattia congenita, l’atrofia spinale, scomparsa un anno fa, nel febbraio 1996 a 12 anni, spegnendosi nel suo banco di scuola, nella sua classe tra quei compagni che le scrivevano quando si assentava per curarsi: «Alice senza di te la classe non c’è». Alice Sturiale aveva due doni, sapeva

scrivere benissimo e sapeva infondere ottimismo, allegria, a chi gli stava attorno, Alice al piagnisteo preferiva l’ironia. Il libro raccoglie foto, pensieri, poesie, riflessioni di questa bambina toscana. Ebbene, all’apice di questo boom editoriale imprevisto e alla vigilia di una nuova edizione del libro questa volta promossa da una grande casa editrice è scoppiato il caso. Mercoledì 8 gennaio su Repubblica (a cui pure va il merito di essersi accorta per prima di questo best seller non programmato) Egle Becchi, autorevole storica della pedagogia, se ne esce con questa considerazione: «Ho l’impressione che in questo libro sia stata esclusa l’infelicità di Alice. Vengono taciuti i costi di una vita costretta sulla carrozzella a motore, non compaiono la tristezza, le difficoltà. È impossibile che Alice non abbia mai ricevuto sgarbi, subito incomprensioni: l’umanità che circonda la bambina a me pare inverosimile».

Una sortita che merita almeno tre brevi considerazioni.

La prima: attenzione ai pedagogisti, possono far male ai bimbi.

La seconda: la Becchi nel suo intervento ripropone uno dei pregiudizi più beceri, più astratti, più deleteri, meno aderenti all’esperienza che è propria di ogni uomo, sostenendo l’assioma “chi soffre è infelice”, “l’handicappato è un essere infelice” Giustamente i genitori di Alice hanno risposto puntualizzando che: «Nel libro c’è la gioia e il dolore come in ogni vicenda umana; non c’è l’infelicità (che è cosa diversa dalla sofferenza), perché Alice ha saputo accettare i propri limiti e, accettandoli, ha trovato la sua ricchezza. È una cosa che forse non riesce a tanti “normali” , ma è stata la chiave del suo successo nella vita e il senso profondo del suo messaggio». Alice quando un bagnino la indicò a un amico come una bambina infelice rispose così «vai a fare in culo».

Terza considerazione: Egle Becchi forse lei sì, davvero infelice, reputa l’umanità che circonda Alice “inverosimile”. In redazione, per consentire alla nota pedagogista di rituffarsi nella vita e nelle sorprese molto reali che ogni giorno ci offre, abbiamo deciso di regalarle un

abbonamento al nostro settimanale che di questa umanità “inverosimile” racconta settimanalmente fatiche e conquiste. Cara Becchi, lasci alle sue spalle le infelici astrazioni dei suoi libri e benvenuta tra i vivi.

3 Lug 1998 Caro Avvocato, caro Romiti

“Le responsabilità dei ricchi”: avevamo titolato così lo scorso numero di Vita. Un numero con un esteso dossier per spiegare come manager e capitani d’impresa siano sempre più chiamati a esercitare la responsabilità sociale, e con un ampio vademecum per cominciare a praticarla.

Cercavamo di spiegare come sia sempre più urgente che “i ricchi” sappiano raccogliere la sfida per la crescita di un Paese dove la disoccupazione resta a livelli drammatici e la povertà continua a crescere. Manager e imprenditori storicamente abituati a socializzare le perdite e le crisi debbono ancora imparare a socializzare i profitti e la crescita delle aziende. Sottolineavamo come “la responsabilità dei ricchi” nei confronti di una società in debito d’ossigeno e di risorse si dovesse esercitare non più e non solo nel gesto dell’elemosina o della beneficenza, ma con scelte identificabili e o leggibili fin nei bilanci delle società. Scelte per creare occupazione, in favore dell’ambiente, del territorio, della formazione e della riqualificazione professionale, scelte per la sicurezza degli ambienti di lavoro, progetti di utilità sociale. Siamo certi che se manager e capitani d’industria non sapranno presto capire la

portata storica di questa sfida ci penserà la politica a socializzare i profitti con interventi forzosi, artefatti. E a perderci saremo tutti, ricchi o poveri, benestanti e operai, perché a essere mortificata sarà la nostra libertà e responsabilità rispetto al destino del Paese.

I segnali che giungono una settimana dopo il nostro dossier non sono incoraggianti. Agenzie di stampa e pagine economiche sulle assemblee degli azionisti e sulle relazioni dei primi mesi del ’98 traboccano di segni positivi riguardo la crescita di fatturati e profitti. Sappiamo che la Fiat ha realizzato nel ’97 un utile di 640 miliardi e nel primo trimestre ’98 un utile ante imposte di 655 miliardi. Sappiamo che il fatturato di Infostrada è cresciuto nei primi 5 mesi del ’98 del 169% o che l’utile della Lavazza è cresciuto del 32%. Ma se si vanno a leggere le relazioni d’accompagnamento ai bilanci o i verbali delle assemblee, più che i segnali di responsabilità che avevamo invocato ci pare d’udire il solito invocare l’extraterritorialità dei grandi affari, il solito fideismo nel mercato capace di autoregolarsi. Emblematico è stato in queste ore il rito laico che ha accompagnato l’uscita di Romiti dalla Fiat (con un premio speciale di oltre 105 miliardi) e il suo insediamento alla guida della Rizzoli-Corriere della sera e il discorso dell’avvocato Agnelli all’assemblea degli azionisti. Un rito che ha lasciato trasparire come per le grandi famiglie capitaliste italiane l’unica nozione di società sia ancora quella del “ballo in società”. Un avvenimento di assoluto rilievo negli assetti democratici dell’editoria italiana come il trasferimento di Romiti in Rcs è stato così chiosato da Giovanni Agnelli: «Non potevo dirgli di no. Ha lavorato tanto, è ora che si diverta un po’». Non è questa l’idea di un ballo di società? E che dire dell’affermazione di Agnelli secondo cui «gli utili possono essere diseducativi se spingono ad adagiarsi»? È il solito vecchio paternalismo padronale di chi vuol tenere tutti sulla corda, manager e operai? Oppure la paura, più o meno inconscia, che qualcuno cominci a sostenere (magari Bertinotti) che gli utili e i profitti vanno socializzati? No caro avvocato, gli utili non sono diseducativi, è diseducativo il modo in cui li si impiega?

11 Dic 1998 Cari politici, più società fa bene allo Stato

Mentre il Parlamento seppelliva in un tiepido giorno della scorsa primavera l’avventura della Bicamerale con la sua coda di ripicche e veleni, la società civile italiana rimaneva delusa dall’ennesimo ribaltone fatto questa volta ai suoi danni.

Affondata la Bicamerale, falliva anche il tentativo di inserire nella nuova Costituzione il principio di sussidiarietà. Ammettiamolo: delle riforme di cui si sentiva il bisogno, questa era, ed è, la più urgente.

O per lo meno l’unica che vale la pena di difendere, per cui occorre reagire all’inerzia della politica. E meno male che questa volta la reazione c’è stata. Il nostro settimanale è stato tra le 500 organizzazioni della società civile che hanno promosso una petizione a favore della sussidiarietà. Un’iniziativa che ha raccolto un milione di firme, consegnate il 2 dicembre ai presidenti di Camera e Senato. Un modo clamoroso ed efficace per dire nossignori, delle vostre vuote chiacchiere su quote proporzionali e doppi turni alla francese possiamo fare a meno, ma non possiamo fare a meno della nostra libertà. Che cos’è infatti la sussidiarietà, se non la possibilità per i corpi intermedi di auto-organizzarsi e rendersi

protagonisti delle risposte ai loro bisogni essenziali, e quindi di mettere in piedi ospedali, scuole, servizi sociali e quant’altro migliora la nostra società?

Questa voglia, che sta alla base della maggior parte degli enti non profit, è stata gridata da realtà diverse tra loro per storia ed estrazione, dal Forum del Terzo settore alle ong, dai sindacati alla Caritas, al volontariato. In questo caso quindi non si tratta di difendere un’ideologia o un’organizzazione, ma l’essenza di un agire comune e condiviso. Che va al cuore di una questione fondamentale, la definizione di servizio pubblico, tornata alla ribalta anche con il dibattito sulla parità della scuola. Il servizio pubblico è solo quello che eroga lo Stato, bello o brutto che sia, utile o meno utile, rispettoso o irrispettoso delle persone a cui si rivolge, e il cittadino deve pure ringraziare? Oppure servizio pubblico è ciò che realmente risponde alle esigenze di chi vi accede, chiunque sia e comunque la pensi? La sussidiarietà è il principio per cui uno Stato riconosce e premia il servizio pubblico offerto da cittadini o da gruppi di cittadini ad altri cittadini. Spetta allo Stato riconoscerne il valore, senza inutili monopoli. Più società fa bene allo Stato, recitava lo slogan della raccolta firme. Speriamo che lo Stato e chi lo incarna si voglia tanto bene da rimettersi al più presto in rapporto con la società.

L’ultima tornata di elezioni amministrative che dovevano coinvolgere quasi 7 milioni di italiani ma che ha invece registrato un’astensione record è solo l’ultimo, gravissimo, allarme.

30 Apr 1999

Perché non si può più restare a guardare

È passato ormai un mese da quando il 24 marzo scorso fu sferrato il primo attacco aereo della Nato sui cieli della Serbia. L’obiettivo era quello di fermare Milosevic e la sua criminale opera di pulizia etnica del Kosovo. Un mese dopo quali sono stati i risultati? Che l’emergenza in Kosovo è diventata una gigantesca catastrofe umanitaria. Una catastrofe fatta di dolore, fame, separazioni, ferite fisiche e psicologiche, condizioni di sopravvivenza indegne, malattie, una catastrofe che ha proporzioni che di giorno in giorno sembrano inarrivabili anche per la generosità enorme messa in campo da migliaia e migliaia di donatori e centinaia di volontari di organizzazioni non governative e agenzie umanitarie. Una catastrofe che neppure il peggior cinico potrebbe definire come “il meno peggio”, anche perché delle sue dimensioni e della sua realtà sappiamo solo la metà visibile e nulla invece sappiamo di quello che è successo e succede dentro i confini blindati e minati del Kosovo. Il primo mese di conflitto ci ha consegnato qualche centinaio di vittime civili serbe: e anche lì le vittime cominciano a non aver più nome e cognome, e questo significa che sono tante. Questo

carico orribile si può ancora definire come “il male minore”? No.

Non possiamo più accettare di abituarci all’indignazione di fronte alle nefandezze di Milosevic che i volti dei deportati raccontano, non possiamo più accettare di firmare uno dei tanti appelli per la pace. Chi non vuole la pace, chi dice di non volere la pace? Non possiamo più accettare di essere costretti nell’angolo dell’intervento umanitario, pur così necessario. In redazione e nel dialogo con tantissimi amici e lettori sentivamo l’esigenza di uscire dall’angolo in cui gli eventi sembrava ci avevano costretti. Sentivamo l’esigenza di trovare una via che rimettesse in causa la dimensione personale di ciascuno. Per questo promuoviamo un appello che chiede un coinvolgimento profondo, intimo, personale.

“Io vado a Pristina” non chiede un generico pronunciamento per la pace, ma domanda una disponibilità a manifestare pacificamente nei luoghi teatro della guerra. Il nostro obiettivo è di raccogliere almeno la disponibilità personale (per questo ci siamo rivolti alle persone e non alle strutture delle organizzazioni), di centomila uomini di pace. Raccogliere questo carico testimoniale prima ancora di dare una finalizzazione pratica e organizzativa all’iniziativa (finalizzazione su cui d’altra parte stiamo già lavorando). Chiediamo a noi stessi e a chi ci legge di passare dalle parole alla testimonianza. Perciò vi chiediamo di mobilitarvi, di firmare e fare firmare, di promuovere raccolte firme. Da parte nostra dalla prossima settimana vi offriremo gli strumenti organizzativi e pratici per sostenere questa mobilitazione di coscienze e di uomini e donne che decidono di rischiare qualcosa personalmente per promuovere la pace.

30 Lug 1999 Quando lo Stato apre alla società

Qualcuno, forse esagerando un po’, l’ha definita la madre di tutte le riforme del Welfare. Di certo la legge-quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali fortissimamente voluta dalla ministra Livia Turco rappresenta una vera rivoluzione sia perché colma un vuoto legislativo lungo oltre 100 anni (la precedente legge sull’assistenza la promulgò Crispi nel 1890), sia perché il testo unico che approda alla prova delle Camere rappresenta un oggettivo addio alla vecchia concezione di Stato assistenziale. Una concezione che, malgrado tutto, malgrado cioè l’atavica incapacità di risposta (si pensi ai 7.423.000 italiani che vivono sotto la soglia di povertà), le impari opportunità geografiche, i costi elevatissimi di una macchina burocratica spesso parassitaria e corrotta, piace ancora alla sinistra più statalista, sindacalizzata e conservatrice. Per questo la nuova legge sull’assistenza sta provocando più di un mal di pancia a sinistra e dentro i Ds. Del resto chi leggerà il nostro servizio di copertina che tenta un approccio laico, cioè esplicativo delle nuove norme e misure, si renderà conto che la legge-quadro rappresenta un vero e vasto tentativo

di riforma del Welfare italiano, anche perché la riforma dell’assistenza contiene in sé i principi di un vero e proprio apparato normativo composto da sette successive leggi. La riforma dell’assistenza mette in campo una lettura dei bisogni, dei soggetti dell’intervento, dei destinatari dei servizi e degli strumenti dell’intervento nuovi. A pagina 7 pubblichiamo una piccola ricerca strutturale che abbiamo svolto sul testo della legge-quadro con l’obiettivo di individuare attraverso la ricorrenza di parole chiave quali siano i principi ispiratori e la visione politica che sottende la riforma. E i risultati sono stati sorprendenti giacché davvero ci troviamo di fronte, come scriviamo in questa copertina, ad una svolta. Per esempio, per la prima volta nella storia Repubblicana ci troviamo di fronte ad una legge che non individua nello Stato il soggetto primo dell’intervento (parola che ricorre solo 16 volte). I protagonisti della nuova assistenza saranno piuttosto i corpi sociali intermedi (60 ricorrenze) e gli enti locali (71). Il Terzo settore come protagonista degli interventi assistenziali ricorre infatti 31 volte (associazioni, fondazioni, volontariato), e 29 la famiglia come protagonista prima delle risposte ai bisogni.

Tra gli enti locali protagoniste prime saranno le Regioni (35 occorrenze) poi i Comuni (29) e le Provincie (7).

Insomma, per la prima volta una riforma che realizza il principio di sussidiarietà sia nel suo livello verticale, cioè federalista, che orizzontale non spegnendo e mortificando le risposte che la società civile produce dando un solenne addio allo Stato come produttore in proprio di servizi e prestazioni. Ma altre parole ricorrenti sono estremamente significative e a loro modo rivoluzionarie.

Leggete la nostra guida alla riforma e vedrete che le sorprese positive sono davvero tante.

17 Set 1999 Perché la solidarietà non teme il mercato

Mentre i protagonisti del capitalismo e del profitto globale si ritrovavano a Cernobbio all’annuale convegno dello Studio Ambrosetti, in un luogo più appartato ma non meno suggestivo, a Vallombrosa, i quadri Acli si sono ritrovati per un convegno di studio dal titolo tosto, “Umanizzare l’economia”, per mettere a tema i diritti e le nuove povertà globali. Al di là della curiosa coincidenza di date il convegno Acli, dopo la serie di incontri e di riflessioni di eccellenza e di altissimo livello registrati al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, segna il definitivo ritorno dei più presenti e attivi movimenti cattolici nell’agone politico ed economico all’insegna di un protagonismo e di una libertà d’azione e di interlocuzione rispetto alla politica e all’economia sicuramente nuovi.

E questo è di certo un bene in un epoca in cui il pensiero unico della one best way, facendosi beffa della politica e gettando a mare le regole sociali e i quadri normativi che regolano il rapporto tra i vari soggetti portatori d’interesse, ci propina in maniera martellante la beatitudine del Prodotto interno lordo, del profitto e della competitività globale.

A Vallombrosa, a questo proposito, è stato chiesto a insigni

economisti, intellettuali e rappresentanti autorevoli degli organismi internazionali se questo nuovo protagonismo della società civile e dell’economia che essa sempre più esprime può trasformare dall’interno l’attuale sistema economico senza delegare allo Stato interventi di natura dirigistica. Il dibattito (che c’è parso talmente interessante che abbiamo deciso nel prossimo numero di proporvi un’ampia sintesi su Vita) si è imperniato intorno ad una grande alternativa segnata dagli interventi di Serge Latouche da una parte e di Stefano Zamagni dall’altra. Per Latouche, economista parigino, in un’epoca in cui le fortune delle 32 persone più ricche del mondo supera il Pil di tutta l’Asia del Sud, bisogna abiurare ogni dimensione economica per dar vita ad una strategia localistica alternativa capace di mettere in rete le nicchie informali di produzione ecologiche ed etiche. Che prospettiva grigia, marginale, ha protestato, con noi, la maggioranza della platea. Una platea cui è piaciuta di più la prospettiva del bolognese Stefano Zamagni. Che ha detto: «Invece di operare fuori o contro il mercato, bisogna fare lo sforzo di promuovere pratiche di produzione e di distribuzione della ricchezza che si servano dei meccanismi del mercato per creare uno spazio economico in cui vengano rigenerati valori come la fiducia e la solidarietà, dalla cui esistenza il mercato stesso dipende».

7 Gen 2000 La nostra sfida, Vita sarà più vostra

Il 2000 di Vita si apre con un numero dedicato alle sfide che le organizzazioni non governative e le associazioni della società civile hanno ingaggiato in ogni parte del mondo per cercare di costruire una casa dove sia possibile ad ogni uomo abitare in maniera degna, libera, sicura. Quello che vi proponiamo è un viaggio alla scoperta di una sorta di nuova internazionale che sta via via prendendo coscienza del suo peso e delle sue possibilità; un’internazionale il cui collante non è più né l’ideologia né l’appartenenza partitica, ma piuttosto la ribellione alla spartizione del pianeta e delle sue risorse di poteri ormai sempre più immateriali e senza più controlli né territori. È un’internazionale che affonda le sue radici nella capacità di ascoltare e di rispondere ai bisogni concreti dell’uomo e dell’ambiente in cui concretamente vive.

Ma quello che si apre è anche un anno che vede il nostro settimanale impegnato in una sfida che riguarda il suo sviluppo e il suo futuro. La sfida è stata lanciata lo scorso 30 novembre quando l’assemblea dei soci della Società editoriale Vita ha deliberato un aumento di capitale

con l’obiettivo di coinvolgere nel nostro capitale sociale realtà di Terzo settore. È un sogno che covavamo da tempo, quello di fare di Vita una public company del settore non profit e quello di rafforzare la nostra indipendenza con risorse omogenee al nostro impegno per rispondere alle tante opportunità di sviluppo che si presentano, così da offrire sempre di più un’informazione libera, utile e schierata solo dalla parte della realtà.

Questa sfida è stata resa possibile da due ragioni principali: la prima è la consapevolezza sempre più diffusa nel settore non profit di quanto sia importante accompagnare la crescita del Terzo settore con uno strumento di cultura, di opinione e di vigilanza che in questi anni ha dimostrato di saper rappresentare dall’interno ma parlando a tutti e sapendo interessare media e opinion leader. La seconda, è che oggi il gruppo di fondatori di Vita che ha sempre sostenuto la scommessa editoriale con mezzi propri senza ricorrere a sostegni esterni o all’indebitamento bancario anche nei momenti più difficili pur di restare liberi, ha ritenuto che, a fronte del raggiungimento di un sostanziale equilibrio economico, fosse responsabile e possibile chiamare altri a condividere la responsabilità di conduzione e di sviluppo. Tra gli obiettivi cui i nuovi soci saranno chiamati ad essere corresponsabili, un nuovo rilancio del settimanale; lo sviluppo di un canale televisivo tematico; la creazione di un portale internet per il non profit. Ci eravamo dati tempo un mese per capire se questo pro-getto, se questo sogno, avesse qualche possibilità di realizzar-si: l’obiettivo era quello di raccogliere l’adesione di almeno cinque importanti realtà del Terzo settore entro il 31 dicembre, che si costituissero come “Comitato promotore del progetto di azionariato diffuso della Società editoriale Vita”. E l’obiettivo è stato raggiunto: al 31 dicembre sono state sette le realtà non profit che hanno risposto al nostro invito a contribuire e a rafforzare la crescita di uno strumento culturale autonomo e indipendente capace di promuovere la visibilità e le ragioni del Terzo settore nel nostro Paese, sette realtà

che hanno già sottoscritto quote per oltre 300 milioni. Due grandi associazioni come Telefono Azzurro e Acli, un coordinamento di oltre 50 ong (la Focsiv), due organizzazioni non governative moderne e importanti come AiBi e Cesvi, l’Associazione Istituto Cortivo la cui missione è la formazione di operatori sociali in tutta Italia, una Fondazione nuova e originale come la Fondazione del Rispetto e della Dignità. Con queste realtà e con tutte le altre che aderiranno, affronteremo la nostra sfida del 2000, costruire la prima vera public company editoriale del Terzo settore e rafforzare la nostra capacità di informare e di comunicare la voce della società civile.

2 Giu 2000 La lezione di Havel, politica e società

Domenica 21 maggio El Pais ha pubblicato un intervento di Vaclav Havel, grande intellettuale e presidente della Repubblica Ceca, intitolato “La società civile e i suoi nuovi nemici”. La riflessione di Havel (consiglio a tutti di andare a scovare in qualche biblioteca il suo saggio Il potere dei senza potere, scritto quando era perseguitato e bandito dal regime comunista) mi è capitata tra le mani mentre già piovevano i commenti dei politici sull’andamento, ovviamente, in bianco dei sette referendum. Mi colpiva quanto la protervia della classe politica fosse direttamente proporzionale alla sua crescente e oggettiva debolezza. Mi chiedevo perché mai una politica ormai confinata in pochi palazzi continuasse a dileggiare gli elettori trascinandoli da una parte o dall’altra a seconda della reciproca e miope visione suggerita da piccoli e tattici interessi di potere. Ebbene, l’editoriale di Havel mi è parso suggerire una sicura risposta, perciò ve ne ripropongo ampi passaggi.

«L’ elemento fondamentale e più legittimo di ogni democrazia è la società civile. Ma la società civile è un organismo dalla struttura intrinseca molto fragile e molto misteriosa, le forme parallele

e complementari attraverso cui i cittadini partecipano alla vita pubblica rispondendo ai bisogni sociali e trasformando un intero Paese, non sono proprietà dello Stato, esse non si stabiliscono per decreto legge. Essi vanno semplicemente riconosciuti. I tre pilastri della società civile, associazioni private volontarie, decentramento dello Stato, delega del potere politico a entità indipendenti, richiedono molta pazienza di approccio e l’esercizio della fiducia. Le nuove élite politiche, invece, hanno adottato un’attitudine apatica verso la società civile o, peggio, si sono opposti a essa strenuamente. Arrivate al potere, si sono date da fare per ricreare lo statalismo che avevano combattuto. E questa è la ragione per cui molte scuole, ospedali e istituzioni culturali continuano a essere amministrate dallo Stato quando potrebbero benissimo essere gestite da enti che lo Stato può controllare da lontano e appoggiare con processi trasparenti. Ma i politici usano la scusa dell’ideologia per non ridurre il loro potere, cioè quello statale, e dicono: «Siamo stati eletti dal popolo, è per suo desiderio che governiamo. Le pretese della società civile rappresentano un attacco alla democrazia rappresentativa».Ma questa è solo una scusa per non dividere il potere, per non cederne una parte sostanziale! È assurdo tutto ciò, perché i partiti politici e le istituzioni democratiche funzionano bene solo se traggono forza e ispirazione dal contesto civile. Ed è in questo senso che bisogna guardare all’economia e alla politica: quante più iniziative diverse si permettono, quanto maggiore sarà la possibilità che di esse trionfino le migliori e più innovative. Non serve essere economisti per scoprire che la società civile si mantiene da sola. Ma il suo aspetto più importante è che permette alla gente di realizzarsi.

Gli esseri umani non sono solo macchine per fabbricare o per consumare, sono anche creature che desiderano stare con gli altri, che anelano a forme diverse di coesistenza e cooperazione, che vogliono influire su ciò che hanno intorno. La gente vuole essere apprezzata per quello che costruisce intorno a sé, e la società civile è una delle forme più

chiare in cui possiamo manifestare la nostra umanità nella sua totalità. I nemici della società civile lo sanno, è questo che motiva la loro opposizione». Grazie Havel per la lezione.

7 Lug 2000 Cari lettori, vi lanciamo una sfida

AI giro di boa di quest’anno 2000, arriviamo con l’entusiasmo di una doppia novità. Questo numero del settimanale si presenta al vostro giudizio rinnovato nella forma grafica e più ricco di contenuti e di informazioni. In queste stesse ore, il 3 luglio, nascerà Vita Non Profit, il portale italiano del Terzo settore e della solidarietà: lo abbiamo chiamato con una sigla breve composta semplicemente dalle iniziali del suo nome, Vnp, per umiltà e per comodità. È una doppia sfida che abbiamo lanciato a noi stessi, alla nostra professionalità e al nostro lavoro, ma che insieme lanciamo a voi, a voi lettori, persone e organizzazioni: quella di non negarsi ai cambiamenti, quella di continuare ad aggregare le energie e i saperi di chi si muove nella vita e lavora per ricostruire legami, quella di rendere accessibili al maggior numero di persone tutte le informazioni che aiutano a costruire, bene, pezzi di società nuova e responsabile. Non avremmo, però, osato puntare a obiettivi ambiziosi, senza la vostra stima e senza i tanti vostri attestati riguardo l’utilità del nostro lavoro di redattori sociali. Una stima che ha spinto tanti tra voi anche a sottoscrivere quote del nostro azionariato che è

diventato sempre più una public company del Terzo settore. I cambiamenti che noterete in questo numero e lo sviluppo dell’esperienza del settimanale nel portale del non profit che imparerete a conoscere digitando l’indirizzo www.vnp.it, nascono da una prima convinzione: il contesto che abitiamo e che cambia a grande velocità offre grandi opportunità per chi voglia crescere, per chi non vuole sottrarsi alla rivoluzione che la comunicazione mette in campo. Noi abbiamo deciso di cogliere queste opportunità e di giocare la partita dei cambiamenti che la rivoluzione tecnologica offre, ripartendo una volta di più dalle persone. Dalle persone di cui in questi anni abbiamo raccontato i problemi, le conquiste, le opere, le speranze, le incazzature.

Vogliamo fare di più per raccontarle meglio per portarle al centro della scommessa di un’intera società, per offrire loro più informazioni e più aggiornate, più strumenti di lavoro e meglio organizzati, per sostenerle meglio nella loro operatività ed azione. Per questo la redazione di Vita si sta attrezzando e organizzando aggregando nuovi collaboratori e nuove professionalità per potervi parlare e per potervi rappresentare con tutti mezzi che la tecnologia, e le nostre forze, ci permetteranno di usare.

Delle opportunità che il portale offrirà al vostro lavoro troverete tutte le informazioni in questo numero. Lasciatemi sottolineare i cambiamenti del settimanale, più moderno, più semplice alla lettura, più ricco di informazioni. Novità che potete notare sin da questa pagina che dedichiamo alle idee. Il Terzo settore, la solidarietà deve attrezzarsi anche culturalmente. Deve imparare a pensarsi sempre più, ad approfondire le ragioni del proprio operare, e Vita vuole accompagnare questa elaborazione chiamando a ragionare con noi i migliori commentatori ed editorialisti. Grandi novità nelle rubriche con nuove pagine tematiche. Soprattutto due dedicate a monitorare e raccontare due fenomeni emergenti, finalmente, anche nella società italiana: quello del risparmio etico e quello del consumo alimentare

biologico.

La parola ora è a voi, al vostro giudizio, alle vostre osservazioni e suggerimenti che aspettiamo. Anche per questo ci siamo attrezzati con nuove caselle email, e con la scelta, appunto, di portare tutto il nostro lavoro e il nostro sapere in Rete, per condividerlo, per discuterlo. È una scommessa, come il primo giorno di Vita, che facciamo, davvero, con voi.

11 Mag 2001 Tra il surfista e il molleggiato chi ci perde è il trapiantato

Umberto Veronesi è stato argutamente soprannominato da un suo collega di governo “il surfista”, per la sua prontezza e abilità a cavalcare tutto quanto fa notizia. Non poteva perciò sfuggire al luminare prestato alla politica il prevedibile cancan che Celentano avrebbe suscitato con i suoi telemonologhi in prima serata su Raiuno. Così è stato: Veronesi ha preso carta e penna e ha indirizzato una piccata lettera al presidente Rai e per conoscenza ad agenzie e quotidiani (o viceversa), in cui stigmatizza «l’irresponsabilità e l’incultura» e l’uso di «parole ottuse e irresponsabili» da parte del Molleggiato a proposito di donazioni e trapianto d’organi, tirandone conclusioni tanto sommarie quanto drammatiche: «Uno schiaffo ai pazienti destinati a morire in attesa di trapianto», e ancora, «pochi minuti di tv hanno vanificato tutti i nostri sforzi».

Al suo fianco i soliti giannizzeri del politically correct, Maurizio Costanzo e Fabio Fazio, e qualche torvo professionista della retorica come Miriam Mafai che è arrivata a scrivere: «La nostra legge, faticosamente approvata due anni fa dopo un lungo dibattito, ha significato la salvezza per migliaia di uomini, donne e bambini condannati a morte». Come sia

oggi la realtà della donazione in Italia lo spieghiamo in questo numero. Sia però chiaro sin d’ora che proprio quella legge approvata due anni fa, ma non ancora attuata, è all’origine di tanti ritardi nell’organizzazione dei trapianti in Italia e di un certo svuotamento ideale nell’idea stessa di donazione di parte di sé. Già nei mesi scorsi su queste colonne avevamo sottolineato la crisi dell’Aido, che in meno di due anni ha perso il 40% dei suoi associati e versa oggi in una crisi tale che in Lombardia è stata costretta a chiudere 45 sedi su 140.

Proprio il meccanismo del silenzio-assenso (che con buona pace di Veronesi trova paragoni nella legislazione occidentale solo in Francia e Danimarca) ha indotto l’idea dei trapianti non più come atto donativo ma come questione medico-burocratica, allontanando ogni discussione e riflessione da uno dei gesti più grandi e gratuiti che un uomo possa fare. La legge 91 del ‘99 prima di divenire operativa ha così svuotato e messo in crisi le importanti esperienze associative nate intorno alle esigenze dei malati in attesa di trapianto. lati in attesa di trapianto.

Eppure il surfista, i giannizzeri e i professionisti della retorica e della cattiva informazione, invece di ringraziare il “cretino di talento” per aver riacceso un dibattito ipocritamente e pericolosamente archiviato, e per aver portato il tema trapianti e donazioni in prima pagina per una settimana intera, hanno ancora una volta intonato il ritornello, davvero torvo, che suona più o meno come il motto latino mors tua vita mea. Un motto che certo non aiuta il diffondersi della cultura della donazione. E spaventoso, infatti, pensare che “a fin di bene” si possano mettere i diritti di una vita che aspetta un organo contro quelli di una vita che sta rasentando la sua fine. Non è con questo ricatto stupido e spaventoso che la donazione di organi in Italia decollerà a livelli europei. Qualche anno fa proposi, in prima serata su Raidue, uno speciale del “Coraggio di vivere” sul traffico d’organi in cui venivano commentate in studio le inchieste dei più importanti network del mondo, Bbc e Cnn comprese. Ebbene, nei giorni seguenti

persino la mia segreteria telefonica privata, oltre naturalmente agli alti uffici Rai, furono inondati di messaggi minatori simili a quelli rivolti a Celentano. «Se qualcuno morirà la colpa sarà tua», questo il tenore osceno di messaggi simili a quelli rilanciati da Costanzo e Fazio.

Le scorciatoie, seppur “a fin di bene”, non incrementano mai sentimenti di solidarietà ma piuttosto aizzano gli egoismi. Non è con i trapianti d’organo “d’ufficio” (cos’altro è il silenzio-assenso?) che la scienza risolverà uno dei suoi tipici ingorghi: il suscitare una speranza tecnica e chirurgica senza avere la possibilità poi di esaudirla. Non è decretando il tabù su ogni discussione che si spingeranno i cittadini verso la donazione di sé: valga su tutto il dato dei soli 4.000 italiani che sino ad oggi hanno dichiarato alle Asl la propria volontà di donazione. Almeno sino a che Celentano...

24 Ago 2001 I volontari 10 anni dopo, meno apparati e più libertà

Esattamente dieci anni fa, allorché l’11 agosto 1991 il Parlamento licenziò all’unanimità, e con un applauso proveniente “da ogni settore dell’emiciclo” (come ricorda Rosa Russo Jervolino nell’intervista in questo numero), la legge n. 266 che riconosceva “il valore sociale del volontariato”, si iniziò un percorso che ha profondamente a che fare con le trasformazioni in atto in questo Paese.

Con un atto legislativo del Parlamento, si riconobbe che era entrato in crisi un modello di Stato che di fatto aveva incorporato qualsiasi funzione sociale, persino la responsabilità dei suoi cittadini e delle loro libere aggregazioni. E contestualmente si riconosceva che un nuovo Stato sociale sarebbe stato immaginabile soltanto tornando a guardare con interesse a quella capacità autonoma delle famiglie e dei soggetti del privato sociale, e persino degli individui, di appropriarsi di responsabilità e funzioni pubbliche, che a loro erano sempre appartenute ma che erano state occupate dall’estendersi dello Stato e della sua burocrazia per troppi decenni, con enormi sprechi del denaro di tutti. Iniziò allora un processo di trasformazione dello Stato e della società italiana

che è ancora ben lontano dall’essersi concluso. Ma a ben vedere, quella spinta di un nuovo protagonismo sociale che prendeva man mano corpo e forma fuori dai luoghi tradizionali e deputati, ha a che fare con i due nodi gordiani della trasformazione in corso nel nostro Paese: la riforma dello Stato sociale e la crisi dei modelli di partecipazione sociale e politica con il contestuale affacciarsi di nuove forme e di nuove pratiche di partecipazione alla vita collettiva. Insomma, ricordare oggi quella legge significa anche finalmente capire e sottolineare come il fenomeno del volontariato e il diffondersi di una nuova coscienza di responsabilità sociale che gli individui e le aggregazioni della società civile si sono voluti riprendere, sia qualcosa che non c’entra nulla con la marginalità cui una certa cultura e una certa politica continua a relegarli, anzi, come suggeriscono gli osservatori più acuti, sono uno dei motori primi e insostituibili di un vero cambiamento. Dopo dieci anni il valore sociale del volontariato, le opere che da esso si sono generate, la responsabilità sociale come nuova coscienza in grado di informare persino il management aziendale e finanziario, sono dati acquisiti per l’intero Paese, sebbene si possa e si debba fare ancora molto di più per valorizzare il protagonismo sociale che dieci anni fa appena si affacciava. Proprio pochi giorni fa, finalmente, l’Istat ha reso noto i dati di una ricerca sul settore non profit e ne è emerso quello che da tempo su questo settimanale sosteniamo: la realtà delle persone che perseguono in questo Paese fini di solidarietà e di responsabilità sociale e la trama delle loro organizzazioni ed opere sono ormai un vero e proprio sistema, un settore (il Terzo settore) con una propria coscienza, delle proprie rappresentanze, dei propri canali di comunicazione e di confronto, e si tratta di una rete ancora destinata a crescere e ad influenzare, grazie ad un nuovo sapere sociale, alla pratica di comportamenti nuovi e più equi, grazie anche a nuove forme di elaborazione culturale, altri settori ed altri mondi della società e dell’economia. Marco Revelli definì questo nuovo modo di fare e di agire come «la capacità di stare

nelle cose e nella realtà senza trasformarsi in esse. (...) Una forma che si realizza nei comportamenti e non attraverso la mediazione di apparati. Un modello di alterità da vivere e non da edificare». Ecco, per i volontari italiani la nuova sfida, tanto più oggi dopo i dolorosi eventi di Genova, si colloca qui. Il popolo dei “senza fine di lucro”, riuscirà a cogliere tutte le opportunità di una possibile crescita e persino di una possibile invasione di campi altrui, senza esagerare nel dotarsi di apparati di mediazione e di rappresentanza che inevitabilmente riporterebbero ad una tragica confusione: la confusione della pratica della solidarietà con il mestiere, e spesso con la mistica, del potere?

24 Mag 2002 Fondazioni, Tremonti fa le pentole ma non i coperchi

L’11 maggio si celebrava la Giornata delle fondazioni e anche il ministro dell’Economia ha voluto prendervi parte. Ha preso parola per dire: «Siamo in un Paese in cui il cosiddetto non profit si occupa di banche, mentre è giusto che di banche si occupino i banchieri», e ancora, rivolto agli attuali vertici delle fondazioni bancarie, ha continuato: «Questi signori è bene che si occupino gratis del non profit, invece di prendere i miliardi per fare i banchieri e anche i corruttori della vita democratica». Non sappiamo se Tremonti volesse riferirsi a Stefano Zamagni, Umberto Eco, don Gino Rigoldi, Renato Dulbecco, Carlo Rubbia, Sergio Ristuccia, Roberto Artoni, Emmanuele Emanuele, Fabio Roversi Monaco, ai rappresentanti del Fai, della Caritas e di altre decine e decine di organizzazioni della società civile, tutti in qualche modo coinvolti nella gestione delle fondazioni bancarie nate da una riforma voluta e scritta dall’attuale inquilino del Quirinale, Carlo Azeglio Ciampi. Non ho in antipatia i barbari, la storia ci insegna che spesso, assieme a un po di disordine e a qualche nefandezza, portano anche pulizia e nuova linfa culturale in civiltà decadenti e prossime alla fine.

Ma l’uscita di Tremonti non è neppure barbara. È piuttosto suonata alle orecchie dei più come il richiamo ultimativo a una banda di avventurieri perché si affrettino a spartirsi uno degli ultimi bottini che uno Stato non proprio in salute ancora ha. Il “bottino” ammonta a 69mila miliardi di lire (35 miliardi di euro) che le fondazioni hanno, sino a oggi, amministrato con saggezza: nel 2001 la redditività è stata del 6,9%. Le fondazioni disegnate dalla riforma Ciampi hanno, anche per il 2001, provveduto alla loro mission erogativa per una quota del 3,9% del patrimonio netto, pari a 2.800 miliardi di lire. L’erogazione di tali fondi si era via via ispirata, negli ultimi anni, a criteri di selezione e di valutazione che avevano permesso interventi rilevanti nel settore dei beni culturali, della sanità, dell’assistenza sociale, della ricerca scientifica, dell’ambiente e del volontariato.

Interventi che hanno coperto l’assenza dello Stato con interventi efficaci e non a carico del contribuente. A guidare le fondazioni sulla strada della riforma Ciampi, consigli di amministrazione e commissioni di beneficenza che, per la prima volta, si erano aperti a rappresentanti della società civile (in qualche caso, come per la Fondazione Cariplo, addirittura scelti con un bando elettivo) che oggi coprono una quota del 6% dei vertici delle 56 fondazioni ex bancarie (ma il 25% nelle 14 fondazioni più importanti). Tra i risultati ottenuti, anche quello di dismettere le partecipazioni bancarie che detenevano (dal 100% al 25): altro che le privatizzazioni di Enel e Eni, caro ministro! Ora, a questo percorso significativo di trasparenza, di legalità e di efficacia (un percorso che poteva e doveva ancora migliorare), Tremonti ha voluto por fine, lo scorso dicembre, con un colpo di mano, presentando un emendamento regressivo all’art. 9 della Finanziaria. Un “emendamentino” che prevede in un sol botto che: a) gli enti locali (che oggi nominano circa il 50% dei vertici) ritornino a nominare sino al 75% dei consiglieri consegnando così le fondazioni ai partiti; b) le erogazioni siano concentrate solo in tre settori; c) una quota cospicua delle erogazioni sia destinata alla Infrastrutture spa con cui

il governo finanzierebbe i mitici disegnini di Berlusconi a Porta a porta; d) la gestione del patrimonio e la restante quota di partecipazione nelle banche siano affidate a delle Sgr, cioè Società di gestione del risparmio. Consegnando così le banche al ministero che guida.

Tremonti, che com’è noto ha in gran spregio altri che non sia se stesso, non immaginava di infilarsi in un vespaio amministrativo e politico. Il suo “emendamentino” non è ancora arrivato in versione definitiva al Consiglio di Stato che è già è stato bocciato in Parlamento. Il saggio appello lanciato dal presidente della Compagnia delle Opere, Vittadini a un’opposizione bipartisan alla controriforma statalista e clientelare, ha registrato le prime adesioni e successi: Bassanini ha rotto il silenzio diessino; Pinza, capogruppo della Margherita in commissione Finanze, è partito lancia in resta; Tabacci, dell’Udc, che è della maggioranza, ha presentato due emendamenti in commissione Attività produttive. Insomma, Tremonti ha fatto le pentole, ma non i coperchi.

1 Nov 2002 Terzietà fa rima con Terzo settore

II rischio, oggi mortale, è che la dicotomia destra-sinistra tracimi dalla società politica, dove essa ha pure un senso e una funzione propria, alla società civile. Se così dovesse accadere, sarebbe la fine per la società civile e, alla lunga, per la stessa società politica. Infatti, per sua natura, la società civile è estranea a quel tipo di dicotomia, non esiste una società civile di destra o di sinistra, essa è plurale per definizione, è in qualche modo imprendibile, attaccata alla realtà, irriducibile alle ideologie. Uno dei disastri del nostro bipolarismo imperfetto, e spesso in balia dei rispettivi estremismi, è che non si accontenta di disprezzarsi reciprocamente, ma vorrebbe ingaggiare tutti in questa dissennata battaglia sulla pelle del Paese.

Lo si è potuto constatare anche recentemente quando la Conferenza del volontariato di Arezzo ha dato luogo ad assai poco edificanti pressioni e conseguenti polemiche che miravano a schierare persino il volontariato e il mondo della solidarietà organizzata dentro i recinti della politica-partitica. Perciò, lo scorso numero, abbiamo pubblicato con vera gioia ciò che Livia Turco ha scritto nella sua rubrica settimanale

Camera con vista: «Ci sono aspetti, questioni, temi della vita pubblica che appartengono in prima istanza al “bene comune” e che, in quanto tali, devono essere promossi e sostenuti da tutti in una logica di dialogo e di collaborazione. Tra questi vi è sicuramente il volontariato. Quante critiche rivolse alla sottoscritta e al governo, quante proteste, ma anche quante preziose proposte. Il volontariato italiano non ha bisogno di sottoporsi a esami di autonomia perché questa è scritta nel suo dna». Così come in questo numero pubblichiamo con piacere l’intervista con il ministro del Welfare, Roberto Maroni, che rilancia il dialogo con il Terzo settore e i suoi organismi.

Del resto, riaprire ogni settimana possibilità di dialogo, schiudere prospettive capaci di spiazzare schemi e schieramenti precostituiti, raccontare percorsi che mirino a salvaguardare un terreno comune di costruzione, salvaguardare e promuovere un patrimonio di responsabilità e di solidarietà che non possono essere rivendicati da una parte perché di tutti, è un compito che Vita si è assunta otto anni fa quando nacque (ebbene sì, il 27 ottobre cade il nostro ottavo compleanno) e che da 400 settimane cerca di portare avanti in maniera sempre più matura e consapevole. E un compito che ci appassiona ma che richiede l’indipendenza come primo comandamento, come unica possibilità per una terzietà reale, concreta. Per otto anni Vita si è caratterizzata per questa sua libertà, una libertà costosa (costa non avere né padrini né padroni) ma non fine a se stessa. Finalizzata a realizzare la nostra missione: raccontare la società italiana nella sua parte più nuova, misconosciuta (almeno i primi anni) ed emergente, rappresentarla, darle voce, accompagnarne la crescita. Per questa mission e per come l’abbiamo svolta siamo stati riconosciuti e partecipati (dal Comitato editoriale alla sottoscrizione di quote di azioni) da più di 40 tra associazioni e coordinamenti di associazioni. Un compito e una missione, – quella di creare campi di comprensione, quella di schierarsi sempre dalla parte della realtà, quella di provare ad avere sempre uno sguardo terzo sulle cose, che

oggi appaiono ancor più necessarie e urgenti di otto anni fa. Come ha suggerito in questi giorni un grande collega, Giampaolo Pansa, nell’occasione dell’uscita del suo ultimo libro I figli dell’Aquila. In un’intervista Pansa ha detto: «Contro il dovere di schierarsi e armarsi, io rivendico la mia terzietà senza elmetti. Quando qualcuno invoca barricate ed elmetto, io non ci sto. Sono tra quelli che non ritengono sia un bene farsi accecare dalla faziosità. Preferisco abitare in una zona bianca, una zona non belligerante, dove è ancora possibile ragionare».

Terzietà è una parola mutuata dai codici per sottolineare imparzialità e indipendenza dei giudici, che sta per sfondare anche nel dibattito politico (anche Paolo Mieli l’ha invocata come antidoto alla «guerra civile di parole»). Ebbene, al di là dell’ovvio gioco di parole, la terzietà è un valore proprio del Terzo settore che oggi deve diventare, di più, un compito.

1 Gen 2003 La democrazia degli egoisti

«Tuo marito geloso? Fagliela pagare», «il tuo ragazzo non ti fa mai un regalo? Fagliela pagare», «tuo padre ti stressa? Fagliela pagare». Il creativo che ha ideato il riuscito claim di Vodafone per la tariffa You for Me, è riuscito in quattro parole a rappresentare il dogma sociale che si va affermando. Succede spesso che la pubblicità ci dica della realtà che viviamo più di cento editoriali. La pubblicità legge così bene, e in anticipo, la realtà che finisce col determinarla, influenzando l’immaginario dei popoli e di conseguenza determinandone i comportamenti. Il nuovo dogma sociale prevede che si dia libero sfogo agli egoismi individuali e di “banda”. I dizionari definiscono egoistico l’atteggiamento di coloro che perseguono il proprio utile senza curarsi di quello altrui. Se è possibile siamo andati ancor più in là: oggi si afferma il proprio particolare tornaconto seppur sia evidente che il prezzo sarà pagato dagli altri. Non principalmente a Rozzano (su cui i media hanno infierito), ma anche nelle vie della moda, nei normali condomini o nei quartieri residenziali delle città, nei palazzi del potere. E come fosse sparito (per sempre?) quel territorio in cui tutti, nella diversità di culture e di

identità, riconoscevano un bene comune, che valeva la pena incrementare, curare, perché utile a ciascuno e per ciò utile anche per sé.

Non molto tempo fa l’Assemblea dei vescovi italiani avvertiva chi detiene le leve del potere: «Il popolo non è più sicuro che questo principio meriti la sua fiducia. Sente che viene messo in discussione nella teoria e ignorato nella pratica. Questa perdita di fiducia nel concetto di bene comune è uno dei fattori principali che spiegano il sentimento di pessimismo della nazione. Rivela l’indebolimento del senso della mutua responsabilità e il declino dello spirito di solidarietà, lo sgretolarsi del cemento che unisce gli individui. Né ci può essere un ideale sociale capace di motivare l’azione solidale se la giustizia viene percepita in termini soltanto contingenti».

Santo richiamo, sia detto senza ironia. Perché c’è chi ha più responsabilità di altri. Se diventa non solo legittimo, ma addirittura legale affermare il proprio vantaggio è ovvio che le regole le detteranno i prepotenti, i più attrezzati, i più forti. Così le spiagge diventano balneabili solo perché i più forti impongono che si rimuovano i cartelli di divieto, le fideiussioni taroccate di società calcistiche diventano regolari per decreto, i falsi in bilancio vengono cancellati per legge, si condonano le evasioni fiscali e le speculazioni edilizie. A colpi di legislazioni “in deroga” il bene comune, necessario alla tenuta sociale di un Paese, pare non avere più luogo, visibilità. E la politica è sempre più patetica nel suo sforzo di cercare l’impossibile equilibrio tra gli egoismi di troppi. Viviamo in una democrazia degli egoismi.

Cantava Gaber: «Quando non c’è nessuna appartenenza, la mia normalità, la mia sola verità è una gran dose di egoismo magari un po’ attenuato da un vago amore per l’umanità». Nei Meeting delle diverse organizzazioni della società civile risuona la domanda: «Esiste ancora qualcosa che sia un bene per tutti?».

E nessuna questione ci sembra così sensata e urgente.

14 Nov 2003

Molise, la giostra dei numeri

Quarantaquattro, quarantacinque, quarantasei, quarantasette. Quarantasette milioni di euro è la cifra che il totalizzatore che misura le donazioni degli italiani per il Molise colpito dal terremoto, indica questa settimana. L’inchiesta che Vita vi propone da un paio di settimane si arricchisce di capitoli sorprendenti giorno dopo giorno, anche grazie al vostro aiuto e alle vostre segnalazioni. Per questo continuerà fino ad ottenere un po’ di chiarezza e un consenso ampio alla proposta da noi lanciata di un registro pubblico delle raccolte fondi in caso di grave emergenza nazionale, che ha già raccolto l’adesione di Guido Bertolaso, di Marco Vitale e di tante associazioni.

Ma, andiamo con ordine.

Due settimane fa siamo usciti con un dato che ha suscitato tanto scalpore e che è stato ripreso da moltissimi media italiani: 100 milioni di euro. E una domanda: che fine hanno fatto? Chi ci legge sa che non siamo mossi da intenti scandalistici, ma sa anche che riteniamo sia proprio la trasparenza e l’efficacia degli interventi di solidarietà il primo antidoto allo scandalismo ridens, sempre in agguato e pronto a dileggiare la

generosità degli italiani. Il nostro conto era semplice, e nasceva da una lista di 150 raccolte fondi di cui, grazie all’associazione dei genitori di San Giuliano, si era tenuta traccia. Nella prima puntata abbiamo presentato il rendiconto di 37 raccolte fondi, questa settimana aggiungiamo a quella lista il rendiconto di altre 15 raccolte, e il nostro totalizzatore ha toccato, appunto, 47 milioni di euro. All’appello mancano ancora 98 raccolte e nel frattempo lettori, associazioni, cittadini ci stanno segnalando altri conti correnti, ci suggeriscono nuove tracce. Intanto, il procuratore di Larino, Nicola Magrone indaga su un fascicolo della polizia postale che segnala 30mila siti internet che ospitano raccolte “Pro Molise”. Una quantità di tracce e di raccolte che ci hanno spinto a dichiarare ragionevole la cifra di 100 milioni di euro in donazioni private.

Quarantasette milioni di euro conteggiati ad oggi, quindi, nonostante le omertà di Bankitalia, di Regione Umbria e le bugie della Regione Molise. Che a Vita aveva dichiarato la settimana scorsa di aver ricevuto da liberalità (cioè da donazioni private) solo 524mila euro. Un po’ pochino avevamo pensato, ed infatti alla prima verifica, un solo donatore, la Banca Popolare di Lodi dichiara di aver versato su quel conto corrente 515mila euro. Suvvia, presidente e commissario straordinario lorio, ci dica la verità! Dia l’esempio, offra una rendicontazione, se non vera, almeno verosimile. Noi la pubblicheremo, gratuitamente.

Un altro dato colpisce. Se si escludono le tre grandi raccolte, TgS-Corriere della sera, Caritas-Rai, La Stampa, che hanno impegnato in interventi di emergenza i 31 milioni di euro raccolti, dei restanti 16 milioni sono stati impiegati ad oggi solo 4 milioni, il 23% dei fondi raccolti! Una percentuale, quella di utilizzo dei fondi rintracciati, destinata a diminuire di settimana in settimana. Vita, ve lo promettiamo, terrà accesi i riflettori sui fondi per il Molise finché sia fatta chiarezza e restituito un minimo di trasparenza. Perciò invitiamo tutti i nostri lettori a segnalarci tutti le notizie utili attraverso i nostri indirizzi email.

2 Lug 2004 Benetollo, uomo del fare

Carissimo Tom, quanta parte hai avuto in questi dieci anni della storia di Vita, e più in generale della storia della società civile organizzata nel nostro Paese. E che vuoto lasci, tra noi. Tra noi che eravamo abituati a sentirci per scambiarci opinioni e giudizi, per darci consigli. Ci hai lasciato all’improvviso, mentre eri impegnato, come infinite volte, in un convegno. Senza preavviso. Del resto eri proprio così, anche quando si trattava di incontrarsi; quante volte ci si incontrava senza preavviso, “per caso”, si dice, in convegni, incontri, spazi di dibattito, un po in tutta Italia. Perché tu sei stato un vero viaggiatore e tessitore della partecipazione e della democrazia sociale. Questa tua tenace dolcezza ti faceva uomo giusto e di pace, insostituibile costruttore di una nuova politica. Poco più di un anno fa ci avevi scritto: «Nelle sfide che abbiamo davanti Vita è un compagno insostituibile». Avevi portato l’Arci nel 1998 nel Comitato editoriale, e nel 2001 tra gli azionisti della nostra compagine societaria. E un’altra volta, pochi mesi fa, ci avevi scritto a proposito di un articolo non felice: «Ricordatevi che la necessità di Vita è nel suo essere giornale plurale. Non

mortificate mai il dibattito tra tutte le voci del movimento». In questi giorni, siamo andati a rileggere le tante interviste e gli interventi che abbiamo pubblicato in questi anni di amicizia e collaborazione. Ci ha impressionato un refrain che torna in qualsiasi argomento tu affrontassi: «Quello che conta è il servizio», scrivevi. E ancora: «Sta nel “fare” la nostra credibilità e la forza morale, culturale e politica, di questo movimento». Caro Tom, ci ha molto colpito la trascrizione di quell’ultimo intervento che non sei riuscito a concludere, sabato 19 giugno. A una riunione del movimento per la pace, cui fino in fondo partecipavi, hai ricordato chiaramente come: «Il cuore pulsante del processo di rinnovamento della politica deve stare nel sociale. I soggetti centrali devono essere sociali. Quando sottolineate che da bocciofila abbiamo fatto diventare l’Arci motore del movimento per la pace e contro il liberismo, è come se sottovalutaste il ruolo importante delle bocciofile come luoghi di socialità». Era chiaro nei giudizi e insieme mite, mai astratto. Ecco, all’astrazione hai sempre preferito la realtà, così come alla notorietà e alle prime pagine, hai preferito stare sempre in mezzo alla gente e al popolo, sempre in prima linea affacciato alla realtà. Questo ti faceva diverso, ed è un peccato che tanti cattolici, con cui in questi anni tu hai collaborato, non lo abbiano sottolineato, lasciando che sulla tua memoria si costruisse un santino tutto interno alla sinistra. Caro Tom, è vero, tu sei stato un uomo della sinistra, ma di una sinistra nuova, che ancora non c’è. Con la stessa libertà e odio per gli schemi, collaboravi con chiunque provasse a costruire pezzi di mondo nuovo e più giusto (ti preoccupava la capacità di rispondere ai bisogni prima delle analisi e delle ideologie), così non nascondevi i tuoi dubbi e contrarietà prima che diventassero retropensieri e sospetti. Caro Tom, ci mancheranno i tuoi consigli e le tue sollecitazioni, ci mancherà un amico cosi libero, così presente, ma ti assicuriamo che ciò che abbiamo imparato vedremo di non disperderlo. Restituendolo, come un pezzo di coscienza condivisa e comune.

10 Set 2004 Quel “noi” di cui ha bisogno il mondo

Incredibile Bush. Parlando all’American Legion, lobby di reduci riunita a Nashville, in Tennessee, il presidente George W. Bush ha detto: «L’America e il mondo sono più sicuri ora che Saddam si trova in una cella». E ha spiegato: «Il nostro Paese è oggi in guerra, ma è una guerra diversa, dove potremmo non sederci mai al tavolo della pace». Ma com’è possibile sostenere che oggi il mondo è più sicuro? Come è possibile, se proprio l’attacco americano all’Iraq ha scatenato la più drammatica tra le escalation terroristiche inaugurando l’era dell’insicurezza a livello globale? Si muore sugli autobus in Israele e nei campi a Gaza, si muore sui treni a Madrid e fuori dalle chiese cattoliche in Iraq, si muore, per mano dell’internazionale del terrore, nel Sud Est asiatico, in Africa, per le strade a Mosca. Incredibile Bush, che ha come unico schema di governo del mondo la guerra, e con la sua infinita chiamata alle armi punta a rivincere le elezioni americane (l’attacco all’Iraq e lotta contro il terrorismo, avvertono i sondaggisti Usa, sono proprio le chiavi del vantaggio di Bush su Kerry). Ma incredibile anche la coerenza a buon mercato

che c’è in giro, crolli il mondo (e il mondo sta davvero crollando) c’è chi non si preoccupa d’altro che di tenere la posizione. Del resto basta poco: un po d’ideologia, non fa niente se a buon mercato. Marcello Pera che invita a «difendere con forza la civiltà europea cristiana» e l’ultimo militante del campo antimperialista che invita a «sostenere la resistenza irachena», dicono la stessa castroneria, non aiutano a capire la sfida che questo tempo drammatico fa a ciascuno di noi, e a noi tutti insieme.

Il patriarca di Venezia, Angelo Scola, qualche giorno fa a Rimini ha avvertito: «Mi pare innegabile che oggi siamo entrati in una fase della storia in cui Dio, che l’ha inaugurata e la conduce, chiama con forza uomini, popoli e nazioni a un forte coinvolgimento reciproco».

I barbari assassini di Baldoni, un testimone pacifico in Iraq, o dei 12 clandestini nepalesi, in Iraq in cerca di lavoro, la minaccia verso i due colleghi francesi dell’internazionale islamica del terrore ci danno l’obiettiva sensazione di far parte di un mondo scelto a bersaglio da un altro mondo che non consideravamo nemico ma che ci sta braccando, negando valore ecco la scoperta inaudita ad ognuno dei nostri valori più alti, dalla sacralità della vita di ogni uomo alla democrazia come governo delle libertà individuali e di gruppo. Perciò, oggi, il vero problema dell’Europa e dell’Occidente è decidere come rapportarsi alla minaccia del fondamentalismo islamico. Se opponendogli un fondamentalismo uguale e contrario, persino nella parodia che islamisti e cristianisti fanno della loro grande tradizione religiosa, o se rimettere in gioco ciò che abbiamo di più caro, dalla concezione della persona, della sua libertà e dei suoi diritti, alla concezione della democrazia, in un nuovo impeto appassionato e costruttivo che sappia dare speranza al mondo e che sappia dare prospettiva di costruzione per tutti.

Il problema, che la cronaca quotidiana ci ripropone con brutalità inaudita, è quello di capire se è oggi possibile dire “noi” in modo diverso e più cosciente. Se è possibile un “noi” che sia un plurale fatto da tanti

io, una rete di uomini e donne coscienti della loro tradizione e delle loro radici, non come clave da brandire ma come opportunità offerte a tutti. Vogliamo capire se è possibile un “noi” che tenga assieme Stefano Baldini (medaglia d’oro della maratona ad Atene) ed Enzo Baldoni (appassionato e curioso testimone di una guerra sbagliata), un “noi” che possa nominare la loro unicità ma anche la loro appartenenza ad un popolo. La questione è seria e richiede una rimessa in gioco persino personale. Perciò, nel nostro piccolo, abbiamo deciso di investire ancora di più in questa ricerca appassionata di nuova coscienza. Abbiamo a Venezia per Vita un grande regista (Daniele Segre come inviato speciale) e fra due settimane proporremo ai nostri lettori un numero speciale di Vita dedicato a un grande spettacolo, Rwanda94, che sbarcherà in Italia per ricordarci cosa accadde dieci anni fa. La Biennale cinema o un grande avvenimento di teatro civile sono occasioni privilegiate per rimettere in gioco la nostra coscienza e la nostra identità.

30 Set 2005 Scuola. Non passi lo straniero

L’assessore ai Servizi sociali di Milano, di fronte al problema di 412 bambini cui è stata chiusa la scuola alla vigilia dell’apertura dell’anno scolastico (dopo aver tollerato e collaborato con una struttura diventata illegale da un giorno all’altro), si è limitata a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine per «sgomberare il marciapiede di via Quaranta». Così è la Maiolo, non si può chiederle di più. Ma è ovvio che qualcosina in più si può e si deve fare. Cosa fa per esempio il ministero dell’Istruzione attraverso l’Ufficio regionale scolastico per rispondere alla domanda di istruzione della popolazione minore immigrata a Milano e in Lombardia? Una popolazione immigrata scolastica che ha ormai largamente superato le 70mila unità. Una popolazione, come avverte una recente ricerca Ismu, che ha problemi di inserimento prima ancora che di integrazione: infatti, il 41% degli alunni stranieri è arrivato da noi nel corso degli ultimi due anni e il 32,9% ha scarsa o nulla conoscenza della lingua italiana. Una popolazione, avverte ancora la ricerca, che presenta in media un ritardo scolastico di almeno un anno rispetto all’età anagrafica nel 30,8% dei casi, percentuale che sale al 65,3% nelle scuole superiori.

Sono tutti dati contenuti in un documento dell’Ufficio scolastico regionale per la Lombardia, suggestivamente intitolato: «Una scuola preparata ad accogliere. Piano di lavoro 2005/2006 per l’integrazione degli alunni con cittadinanza non italiana nelle scuole lombarde».

Il documento giusto, sia pure su scala regionale, per capire quali risposte il sistema scolastico italiano è in grado di offrire agli alunni stranieri, arabi e no. Ebbene, il documento si risolve nell’enunciazione di 20 linee prioritarie di azione che sono un elenco di buone (ma non sempre utili) intenzioni. Si va dallo «sviluppo di contatti con le comunità di immigrati» allo «sviluppo di un progetto sperimentale con il Consorzio Nettuno per i corsi di italiano via satellite». Nulla di sostanzioso, anzi. Ma ciò che più impressiona è che proprio le enunciazioni più sostanziali sono la prova provata della pochezza di risposte della scuola italiana alla domanda urgente e massiva di inserimento degli alunni stranieri. Il sistema scolastico come risposta non prevede che questo: «La piena utilizzazione dei 130 (sic) docenti per l’insegnamento dell’italiano come lingua seconda», ovvero un docente ogni 538 alunni stranieri di cui, come abbiamo visto dalle statistiche citate, almeno 161 l’italiano non sanno proprio cosa sia. Ancora: «Il ricorso a risorse aggiuntive per situazioni di emergenza prevedendo 150 risorse anche in corso d’anno», come dire, il problema è grave, qualcosa ci inventeremo. Infine, fondi. Si chiede (a chi? A se stessi? Al ministro?) «la funzionale e tempestiva erogazione dei fondi relativi alle aree a forte processo immigratorio per 5.564.000 euro». Risorse che lo scorso anno scolastico sono state distribuite a pioggia su 405 scuole lombarde finanziando altrettanti progetti (con stanziamenti dai 300 ai 3mila euro) su 520 domande pervenute.

Alle famiglie straniere e ai loro figli si chiede un giorno sì e l’altro ancora l’integrazione, ma le nostre istituzioni non sono neppure in grado di garantire i più elementari strumenti per permettere l’inserimento scolastico a partire dall’insegnamento dell’italiano, nelle scuole pubbliche di questa Repubblica e non in via Quaranta.

25 Nov 2005 Parigi e News Orleans due welfare in crack

Due mesi fa, l’aspetto che più ci impressionò della tragedia di New Orleans: la solitudine della gente. Gli abitanti della città americana non avevano vissuto solo il dramma portato da Katrina, ma anche il dramma di un modello sociale, quello dello Stato compassionevole, che nel momento dell’emergenza rivelava la propria drammatica fragilità. Che impressione quelle strade dove non c’era alcuna organizzazione in grado di portare aiuto, quelle strade senza volontari né organizzazioni umanitarie, con le strade controllate dagli sciacalli. Impressionante fotografia di un modello sociale che ha fatto fuori i corpi intermedi, un modello in cui il potere ha scelto di interloquire direttamente con il cittadino, senza quelle che lui ritiene essere solo fastidiose “interferenze”.

Vita provò allora a spulciare l’elenco delle organizzazioni non profit presenti a New Orleans consultando il sito della Johns Hopkins university: vi ha trovato quasi esclusivamente chiese di ogni obbedienza cristiana. Ma le chiese nell’America della moral majority sono come delle tane, dei rifugi, dei luoghi chiusi, che inghiottono gli individui e li sottraggono alla vita sociale. Poche settimane fa, di fronte alle

condizioni disastrose in cui ancora si trovano gli sfollati di Katrina, annotammo con ironia lo sforzo dello Stato compassionevole che chiede alla Camera degli Stati Uniti uno storno di fondi destinati a medicinali per curare disfunzioni dell’erezione, come il Viagra, per recuperare 690 milioni di dollari in cinque anni da usare a favore degli sfollati.

Due mesi dopo dobbiamo fare i conti con un’altra impressionante emergenza, questa volta nel cuore dell’Europa: quella della rabbia e della violenza dei giovani delle banlieue francesi. Anche qui, oltre i fuochi e l’odio che popolano le strade della periferia parigina, a colpirci è stato il fallimento di un altro modello sociale: quello del welfare statalista che ha preteso di risolvere i problemi sociali per vie dirigistiche e l’integrazione con le pratiche burocratico-amministrative. Che impressione leggere nella nostra inchiesta sullo scorso numero di Vita, dell’assenza dalle periferie urbane delle grandi associazioni come Sos racisme; che impressione leggere di come la burocrazia statale abbia via via assorbito le piccole associazioni riducendole a funzioni parastatali. Per i ragazzi delle banlieue, mediatori culturali o volontari municipali non sono diversi dai poliziotti, sono solo un altro volto, meno brutale e repressivo, dello stesso nemico: lo Stato. Il presidente Chirac, dimostrando di non saper uscire dal modello di welfare state che gli è franato tra le mani, non ha avuto idea migliore di quella di proporre la statalizzazione del volontariato proponendo il servizio civile nazionale. News Orleans e Parigi sono davvero due icone che avvertono sul destino del welfare nelle società occidentali: due modelli conclamati ancora oggi anche in Italia – lo Stato compassionevole a destra e il welfare statalista a sinistra – hanno mostrato il loro fallimento. Spiace notare come ci si accapigli ancora su modelli finiti per sempre insieme alla loro pretesa di fare a meno della società civile. In Italia sono ben vivi i nodi di un possibile, più moderno welfare mix che si fonda su un necessario pluralismo di attori e sulla valorizzazione della capacità di auto organizzarsi dei corpi sociali.

20 Gen 2006 Perché gridare viva le coop

“Viva le coop”. Recita così il nostro titolo di copertina. E vorremmo urlarlo dai tetti, visto il servilismo a pochi potenti della stampa italiana e del personale politico di questo Paese. Certo, per chi sta a libro paga da una vita è difficile comprendere e digerire l’idea che nel nostro Paese l’imprenditorialità originata da una posizione ideale (non importa sia essa di destra o di sinistra) generi il 7% del Pil, dia lavoro a un milione di persone e associ quasi 14 milioni di cittadini attorno a 75mila imprese cooperative. Una ricchezza per tutti, dunque, un vero “bene comune” una peculiarità italiana diventata modello in tutta Europa, un esempio compiuto e diffuso di democrazia economica di cui andare fieri.

L’idea di impresa cooperativa, il suo modello, la sua capacità di innovazione nei prodotti e nella capacità di coinvolgere utenti e dipendenti, di creare sviluppo senza traumi e nell’interesse di tanti invece che di pochi o pochissimi, di coniugare le logiche del mercato con quelle della comunità, andrebbe studiata, preservata, incoraggiata. E invece no, da anni ormai, l’idea stessa di cooperazione è sotto attacco, svilita nei suoi

aspetti civilistici, espunta nei pochi vantaggi fiscali che le erano riconosciuti (ma vogliamo parlare per favore dei vantaggi fiscali ai raider di Borsa che vivono di plusvalenze, dei vantaggi fiscali alle assicurazioni, ai produttori e venditori di decoder digitali, e giù giù sino ai veterinari?).

Ci mancava poi Giovanni Consorte, un manager di Montedison a cui, contravvenendo allo spirito e alla lettera della tradizione cooperativa, i maggiorenti di Legacoop avevano affidato una delega in bianco affinché Unipol, che è una società per azioni, sbarcasse nel mercato-mercato, nella Piazza degli Affari, e a tanti non è sembrato vero che si potesse finalmente scatenare una soluzione finale contro l’idea stessa di cooperazione. «Quello delle cooperative è un sistema non sano, che non fa parte del libero mercato», ha tuonato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Ma qual è il libero mercato invocato da Berlusconi? Quello di Bipop Carire che ha distrutto risparmi per 10 miliardi di euro truffando 70mila piccoli risparmiatori? Quello di cui si sta interessando la Procura di Roma che ha rinviato a giudizio per bancarotta fraudolenta, truffa e appropriazione indebita Sergio Cragnotti, Cesare Geronzi (Capitalia), Stefano Rainer Masera (San Paolo Imi), Giampiero Fiorani (Bpi) e altre 40 persone? Quello di Parmalat che ha bruciato i risparmi di 100mila famiglie? Quello delle mancate scalate ad Antoveneta, Rcs e Bnl dei concertisti Gnutti e Ricucci? Quello dell’equity swap, su cui è atteso un pronunciamento Consob, con cui Ifil, la finanziaria della famiglia Agnelli, si è venduta e poi ricomprata le azioni Fiat senza comunicarlo al mercato e realizzando una plusvalenza di 100 milioni di euro? Quello dei condoni con cui sanare le elusioni fiscali e quello degli aiuti di Stato a imprese decotte? Il libero mercato è questo capitalismo senza più capitali propri e senza più imprese? Chi pensa di liquidare l’esperienza della cooperazione si assume una grande responsabilità di fronte al Paese. Una responsabilità che andrà in conto anche ai Ds che delle coop hanno sino ad oggi usato (e speriamo senza addebiti penali) senza capirne le ragioni e senza promuoverne il modello, senza farne una bandiera.

24 Mar 2006 Schierati sì, ma senza partito

Quando nel 2003 Paolo Mieli era ancora considerato il pontefice massimo del “terzismo” con il suo pool di editorialisti, Pierluigi Battista, Sergio Romano, Angelo Panebianco, Ernesto Galli Della Loggia, se la prendeva un giorno sì e l’altro pure con la sinistra giustizialista e immatura per il governo del paese. Una sinistra, pontificava il Corriere, incapace di fare i conti con la sua storia e che agita strumentalmente «pericoli di regime».

Ogni giorno dispensava rimbrotti e condanne contro una sinistra colpevolmente titubante o addirittura contraria alla “guerra per la democrazia” in Iraq di Bush e i suoi alleati. A quell’epoca, avevamo avvertito su queste colonne che il terzismo del Corriere non era nient’altro che la rivendicazione di un rinnovato potere di influenza sulla politica, e in particolare sul puzzle composito delle formazioni di sinistra, della cultura neoliberale e degli interessi imprenditoriali rappresentati nel patto di sindacato della Rcs. Sottolineavamo come il terzismo di Mieli non fosse altro che un modo intelligente di spendersi sul mercato della politica e di influenzarla, nulla a che vedere con la terzietà. Lanciando

il nostro mensile, Communitas, un anno fa, avevamo provato a delineare cosa fosse per noi terzietà. «Ci interessa», scrivevamo, «dialogare con tutti coloro che avvertono quanto sia inadeguato lo spazio della rappresentanza di sé, la società di mezzo, e lo spazio pubblico, la politica.

Perché molteplici sono oggi i luoghi della diaspora. Anche lo spazio della politica. Il far diaspora in politica non è il terzismo rispetto ai due poli del mercato politico, ma sentire l’esigenza di darsi nuove forme di spazio pubblico».

Non si tratta, quindi, né ieri né oggi, d’invocare una neutralità rispetto alla politica. Da tempo andiamo ripetendo che la politica di chi si mette in mezzo è l’esatto contrario della politica di chi sta in mezzo, di chi non prende posizione o media. L’una è la politica di chi fa esperienze concrete di comunità: dalle cooperative di consumo alle scuole popolari per la terza età, dalle mutue alle banche cooperative e popolari. È la politica di chi fa i gruppi di acquisto solidali, di chi costruisce welfare di comunità, di chi costruisce un nuovo spazio pubblico e nuove forme di rappresentanza attraverso la partecipazione. L’altra è una forma di mediazione tutta interna al recinto della politica e che guarda alla società perché in cerca di consenso, non di partecipazione.

L’una si schiera sulle cose, l’altra sulla convenienza.

Vita, da 12 anni è il settimanale di chi si mette in mezzo, in mezzo ai disastri delle guerre o ai deserti sociali delle nostre città, in mezzo ai disastri dell’economia, ai resti della democrazia partecipativa e del welfare, per incoraggiare e dare voce a tutti i costruttori di società, di nuova comunità, di democrazia. Siamo convinti che senza il lavoro dei costruttori di comunità e di società alla politica, di destra o di sinistra, non rimarrà che rappresentare gli interessi di poche oligarchie e la democrazia in questo Paese, chiunque governi, sarà uno spazio vietato al popolo e con sempre meno spazi di libertà. Perciò, pur sapendo quanto convenga schierare un giornale alla vigilia delle elezioni politiche, scegliamo, ancora una volta di prenderci la costosa

libertà di stare con chi si mette in mezzo per preservare la possibilità di costruire un nuovo spazio pubblico e la riconoscibilità di un vero bene comune, continuando a rompere le scatole a destra e a manca.

7 Lug 2006 Non si governa contro Si governa per

Qualche giorno fa, il neo ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, in un incontro presso la redazione con le associazioni del nostro Comitato editoriale (leggetene il resoconto alle pagine 52/55), ha detto una gran verità. Eccola: «Se la discussione sulla società rimane interna alle forze politiche, è destinata a non produrre nulla, perché è un meccanismo da campagna elettorale continua, in cui si usano in modo demagogico i soggetti e i problemi sociali. Bisogna spostare l’attenzione della politica verso una dialettica reale con i soggetti sociali. Se questo spostamento non avviene, si può fare ben poco, perché il livello di crisi politica e sociale è tale che spesso la demagogia prevale sulla razionalità».

Proprio così, ministro.

Soprattutto, ed è questo, mi pare, il vero scandalo della nostra politica, non si può continuare a governare il Paese o le città con una modalità in cui sono sempre prevalenti le “passioni contro” sulle “passioni“. Sembra che la politica, e con lei i giornali, non sappiano far altro che delineare, di volta in volta, avversari ai quali contrapporsi invece che proporre una visione orientata alla costruzione di un comune

obiettivo in cui siano partecipi tutti, cittadini, soggetti sociali, istituzioni, leader politici. Così, se i neo ministri hanno brillato per le loro uscite tutte tese a sfasciare le leggi della legislatura del centrodestra (scuola, fecondazione assistita, droga, lavoro, ecc.) mettendo in imbarazzo persino Prodi che li ha ripresi con un rude «zitti e lavorate», a Milano l’esplosivo Sgarbi, neo assessore alla Cultura, ha debuttato con uno spettacolare «togliamo l’ago e il filo di Oldenburg da Piazza Cadorna».

Ecco, chi è chiamato a governare cade, nel giro di pochi giorni, in preda a una sorta d’ansia distruttiva che se gli fa guadagnare identità e notorietà, per somma o clamore di differenze rispetto a chi lo ha preceduto, lo rende repentinamente odioso a coloro cui tocca essere governati, soprattutto a coloro che cercano di intraprendere e di fare. Si tratta di un virus diffuso a destra e a sinistra e che rischia di impedire qualsiasi vera costruzione. Eppure il Paese è pieno di esperienze di assoluta eccellenza, sui territori si moltiplicano le forme di collaborazione tra pubblico e privato che trovano energie e modalità di collaborazione per grandi e innovativi progetti. Succede a Roma come a Milano, ma quasi a prescindere dalla politica. A Monza, per esempio, un ospedale pubblico (il San Gerardo) e un istituto privato nato dall’iniziativa di un’associazione di genitori (Istituto Maria Letizia Verga) hanno da poco dato vita a una fondazione di partecipazione tra pubblico e privato sociale (Fondazione Monza e Brianza per il bambino e la sua mamma) per dare futuro ai primati e alle eccellenze già conquistate nel campo della ricerca e della cura delle leucemie infantili. Chissà se la ministra alla Salute, Livia Turco lo sa e sta studiando il caso? In ogni caso, dovrebbe farlo. Se governare significa «dirigere, amministrare, provvedere al buon andamento di uno Stato o di un’azienda» (dizionario De Mauro), bisognerebbe infatti conoscere ciò che dentro uno Stato, come ad una azienda, si attrezza per il futuro, si attrezza per realizzare un sogno. Cari politici, smettetela di qualificarvi per ciò che non volete, diteci come si dà futuro al Paese e come si coniuga sviluppo e coesione sociale.

30 Mag 2008 La colpa degli zingari? Esser nati zingari

Ha ragione Milena Mignani nel suo commento a pagina 19 di questo numero: «Il vero allarme sociale non sono i rom, allarmante è la paura con cui ne drammatizziamo la presenza. Una paura irrazionale, imprecisata che crea un clima di legittimazione dell’espressione più rozza e violenta dell’intolleranza». Ha ragione perché basterebbe un po’ di buon senso, ed anche un minimo di umanità, per capire che il bisogno di sicurezza della gente è innanzitutto una grande domanda di socialità ed esprime il bisogno di relazioni di fiducia, come ricorda don Colmegna nella stessa pagina. Basterebbe un po’ di buon senso per rendersi conto che di fronte ad un fenomeno limitato (140mila persone di cui metà bambini e almeno 50mila cittadini italiani e stanziali) come quello dei rom, occorre agire più con la leva della condivisione e della partecipazione che non con le braccia meccaniche delle scavatrici. Invece no, da che il bisogno di sicurezza dei cittadini è diventato questione della politica si è trasformato in clava ideologica da agitare da uno schieramento all’altro («io sono più cattivo di te») e in diretta tv. Il fenomeno ha interessato tutto il

personale politico di questo Paese, dal leghista Tosi al democratico Veltroni, dall’ex ministro Amato al ministro Maroni, dal sindaco di Firenze, Domenici a quello di Milano, Moratti.

Quando abbiamo visto Bruno Vespa, il sindaco Alemanno e il seguito di telecamere girare per gli insediamenti rom a Roma e quando abbiamo sentito le loro considerazioni e quelle del ministro Maroni a Porta a Porta, abbiamo detto, ecco, ci siamo: la stessa “nudità” di vita di quei disgraziati è rinfacciata loro come capo d’imputazione. È la prova provata della loro colpa: quella di essere zingari, insomma un film già visto e purtroppo già raccontato. Neppure un po’ di pudore, caro Maroni, sul caso della mamma napoletana che accusa (per ora senza riscontri) una rom di aver provato a rapirle la bimba di tre mesi. Neppure una parola, invece, sulle decine di bambini rom sottratti ogni anno alle loro famiglie dai nostri Tribunali dei minori, spesso per l’ottima ragione delle cattive condizioni ambientali, igieniche e sociali, e dati in affidamento o talvolta anche in adozione o collocati presso comunità. Si tolgono i bambini senza però occuparsi davvero delle condizioni igienico-sanitarie o sociali dei campi. Si preferiscono le irruzioni delle nostre forze di sicurezza – polizia, carabinieri, vigili urbani – nei campi nomadi come in una no man’s land in cui baracche o roulottes sono violate alla ricerca di tutto. Quante sono le baracche spianate in questi anni e mesi con le ruspe da parte di zelanti amministrazioni comunali? Quante le roulottes fatte a pezzi con i ragni meccanici, come cose “di nessuno”, e quanti i mucchi di povere cose, vestiti, stoviglie, coperte, cose elementari bruciate quasi a sterilizzare la zona? Quante le persone, spogliate di tutto e ridotte a cose, quanti gli uomini, le donne e i bambini spostati da un campo all’altro?

Siamo di fronte a un circolo vizioso che nasce da un sentimento di paura e produce, anche a livello simbolico, altra paura. Un circolo che si ritorce contro la politica e i bisogni più veri della gente.

19 Set 2008 Domanda: a che figli lasceremo questo mondo?

Ormai da qualche anno si dice che l’Italia è attraversata da una grande emergenza: la questione educativa. Si sono fatti manifesti, appelli con firme copiose e prestigiose, lo ha sottolineato a più riprese anche Benedetto XVI. Eppure, è come se tutto questo non riuscisse a mordere la realtà, la quotidianità. E così il dibattito sull’educazione si riduce alle querelle sull’alzabandiera, sui grembiuli o sul voto. Perché? Probabilmente perché nel sottolineare la crisi dell’educazione, della scuola, della famiglia, di un’intera generazione di adulti e delle agenzie sul territorio, si finisce, contestualmente, per delegittimare e screditare le istituzioni stesse, gli educatori che vi operano e il concetto stesso di educazione. Ne deriva che, mentre a livello sociale cresce la richiesta di una “buona educazione”, al tempo stesso si screditano le agenzie e i professionisti che la promuovono: si tagliano i finanziamenti, si considerano gli educatori degli incapaci, i ragazzi dei superficiali o dei bulli, si appiattiscono le problematiche educative a questioni di ordine pubblico o di mera tecnica di istruzione e di trasmissione di contenuti. È come se non si capisse (o non si volesse capire) che «la vera sfida risiede non tanto

nell’elaborare nuovi e sofisticati strumenti didattici, né nel proporre questa o quella Verità cui educare i giovani, ma nella capacità di un’educazione al senso. Al senso dell’esistere, del crescere, del futuro e anche della sofferenza». Recita così il manifesto di un’iniziativa in cui anche il nostro gruppo editoriale è implicato, si tratta di Educa, il primo incontro nazionale sull’educazione che avrà luogo dal 26 al 28 settembre a Rovereto. Un evento e un manifesto che, non a caso, nascono per iniziativa di tante realtà associative e cooperative ogni giorno implicate proprio laddove la crisi educativa si mostra in tutte le sue fragilità e persino nelle sue patologie. Non perdetevi le ultime quattro pagine di questo numero che sono un’anticipazione di riflessioni e di discussioni che per una volta sembrano guardare all’esperienza (e con questo termine intendiamo quello che ciascuno di noi fa ogni giorno per sfangarsela con dignità) cui l’educazione deve provare a rivolgersi se non ci si vuole arrendere all’astrazione (delle norme o delle info globali) in attesa che la realtà ci si rivolti contro.

Da troppi anni ci si chiede che mondo lasceremo ai nostri figli, bisognerebbe cominciare ad interrogarci su a che figli lasceremo il nostro mondo. Albert Camus in Il Primo uomo, ricordando il suo maestro ad Algeri, scriveva: «Il signor Germain appagava una sete ancor più essenziale per il ragazzo che per l’adulto, la sete della scoperta. (...). Nella classe del signor Germain, per la prima volta in vita loro, sentivano di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo».

Ecco che significa reintrodurre la questione dell’esperienza e del suo senso nell’educazione, giudicare i ragazzi degni di scoprire il mondo. È questa la vera passione del futuro evocata dal sottotitolo di Educa. Una passione per il futuro senza fughe in avanti ma capace di farsi carico e di prendersi cura delle giovani generazioni.

8 Mag 2009 Se è lo Stato a produrre la Società. Parliamone

Immaginate che nelle prossime settimane, in una affollata conferenza stampa a Palazzo Chigi, il premier Berlusconi, il ministro dell’economia Tremonti e quello della Salute, del Lavoro e delle Politiche sociali, Sacconi, presentino l’attesissimo Libro Bianco sul futuro del modello sociale con al centro un programma dal titolo «Servi l’Italia». Vi si annuncia un Servizio civile nazionale dimentico delle ristrettezze e timidezze degli ultimi anni, poi un programma di volontariato ad hoc praticamente per ogni fascia di età della popolazione e su settori decisi direttamente dallo Stato, infine un ricco programma di “venture capital” per imprese sociali. Il tutto finanziato con uno stanziamento statale pari a 1,5 punti del Pil. I tre, premier e ministri, ragionano di una vera e propria mobilitazione civica necessaria al bene e alla ripartenza del Paese. Berlusconi sottolinea come «la società non è fatta solo dai diritti, ma anche dai doveri». Tremonti ragiona sul fatto che questo investimento di 1,5 punti del Pil ne produrrà almeno il triplo. E Sacconi sottolinea come «la responsabilità verso se stessi, verso la propria famiglia, verso il passato (gli anziani), verso il presente e verso il futuro deve diventare il cuore di una vera e

propria strategia di riforma politica». Rimanendo ancora nel campo delle ipotesi, è facile immaginare il dibattito che un tale annuncio susciterebbe nel nostro Paese e tra i nostri lettori. Ebbene, quanto ipotizzato, e anche di più (leggete con attenzione il servizio di copertina), è contenuto in una legge firmata da Barack Obama lo scorso 21 aprile, significativa sin dal titolo: «Serve America Act». Una legge, che se ha il merito di capire che una ripartenza dell’economia e della società non è possibile senza un forte investimento sul capitale umano e sulle strutture comunitarie capaci di generare fiducia, non può non destare discussioni sul rischio di un volontariato di Stato e di un Terzo settore sussunto dentro logiche stataliste e politiche. Gli echi della discussione americana le trovate nelle pagine che seguono, si tratta di una discussione interessantissima perché la scelta di Obama indica un trend globale. Così come di fronte ai disastri prodotti da un mercato più che libero, sregolato, percepito come foriero di mali e garante degli interessi di pochi si invoca lo Stato per salvare banche, aziende e posti di lavoro. Anche di fronte all’egemonia dell’individualismo che mina tutti i patti sociali ereditati dal Novecento, che non siano quelli di sangue e suolo, si invoca lo Stato perché garantisca e investa sulla tenuta e sulla coesione sociale, senza la quale non è ipotizzabile nessuna “Vita buona”. Scacciato e sepolto dal Mercato e dal Privato, lo Stato che batte moneta e non ha paura di aggiungere debito ai debiti, sta tornando come principio regolatore del nuovo ordine mondiale, invocato da destra e da sinistra. Ma attenzione, la fiducia, la responsabilità, la gratuità non le produce nessuna Zecca di Stato. La scelta di Obama ci dà l’occasione di inaugurare una discussione seria su un trend. Anni fa ci si divideva tra sostenitori del “Più Stato meno Società” e quelli del “Più Società meno Stato”, non vorremmo ci si riunisse, senza accorgersi, sotto le insegne di un inedito “Più Società prodotta dallo Stato”.

24 Lug 2009

L’invito di Benedetto XVI: non profit fuori dai recinti

L’Enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, cui abbiamo dedicato il servizio di copertina lo scorso numero, è scomparsa nel giro di 48 ore dal dibattito pubblico e politico. Un’Enciclica, lo sappiamo, non ha i tempi dell’informazione in tempo reale, richiede più di un colpo d’occhio, chiede il coinvolgimento di un po’ di pensiero. Perciò, oltre che impegnarci nel tenere vivo il dibattito sulle nostre pagine, crediamo sia giusto invitare i nostri lettori ad una lettura personale del documento. Infatti, la Caritas in veritate non solo è indirizzata a tutti gli uomini di buona volontà (come ogni Enciclica), ma affronta temi “nostri”. Ed è, senza dubbio alcuno, uno dei pochi documenti che prende di petto non solo la crisi economica e finanziaria che stiamo attraversando, ma anche le sue cause, proponendo possibili vie d’uscita. In particolare, l’Enciclica di Benedetto XVI mi pare lanci una sfida enorme a chi ogni giorno è impegnato nel non profit e nelle varie forme dell’economia civile. La sfida ad uscire dai recinti, non per uno spirito di conquista, ma per cambiare, almeno un po’, il mondo. Almeno tre paragrafi dell’Enciclica contengono quest’esplicito invito. Li cito,

per i più pigri. Il paragrafo 38, laddove Benedetto XVI scrive: «Il mio predecessore Giovanni Paolo II aveva rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il mercato, lo Stato e la società civile. Egli aveva individuato nella società civile l’ambito più proprio di un’economia della gratuità e della fraternità, ma non aveva inteso negarla agli altri due ambiti. Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l’aspetto della reciprocità fraterna». Il paragrafo 41: «La perdurante prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente all’imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall’altro.

In realtà, l’imprenditorialità è inscritta in ogni lavoro, visto come actus personae. Proprio per rispondere alle esigenze e alla dignità di chi lavora, e ai bisogni della società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre la sola distinzione tra privato e pubblico. Questa concezione più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit e viceversa».

Infine, il paragrafo 46: «Sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. In questi ultimi decenni è andata emergendo un’ampia area intermedia tra le due tipologie di imprese. Non si tratta solo di un Terzo settore, ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane e sociali».

Sino a qui l’Enciclica, il resto di questo editoriale tocca al coraggio di ciascuno di noi. Il coraggio di uscire dai recinti e di provare a diventare adulti, più grandi. Noi lo racconteremo.

12 Feb 2010

Nel 2011 il volontariato sarà cosa da museo?

C’è una domanda che rimbalza tra chi in queste settimane ha partecipato a convegni ed eventi che hanno messo a tema o che hanno avuto come soggetto il volontariato. Tanto per citare gli ultimi eventi: la Conferenza regionale del volontariato a Torino e I giorni del volontariato a Milano, un week end promosso da Aim - Associazione interessi metropolitani in collaborazione con Ciessevi, il Centro servizi volontariato di Milano, e l’assessorato comunale ai Servizi sociali. La domanda è questa: sopravviverà il volontariato alle celebrazioni previste per il 2011 dall’Unione Europea? Come è noto, l’Ue ha deciso – giustamente – di dedicare il 2011 al volontariato promuovendone la conoscenza e le attività. Ma come arriverà il volontariato all’appuntamento dell’Anno europeo? Il volontariato che forse mai come in questa stagione ci è parso così provato? Come evitare che invece della povertà (come ha proposto provocatoriamente Muhammad Yunus) a finire in un museo sia proprio il volontariato? Perché questo paradosso non s’avveri propongo un’agenda di riflessione.

Meno tavoli. Il volontariato oggi è sfiancato dalla partecipazione

(spesso inutile) a tavoli che pure anni fa aveva rivendicato. Qualcuno, oltre ai tavoli già previsti, ne vorrebbe altri ancora (nelle Asl o nelle Aziende ospedaliere). Io penso che si dovrebbero tagliare a iosa. Quello che era stato rivendicato per orientare la programmazione di enti pubblici e istituzione locali si è rivelato come uno strumento che ha fatto diventare il volontariato una variabile dipendente dei decisori pubblici e uno strumento di intervento a bassi costi per politiche comunque decise altrove. Occorre una moratoria. Meno burocrazia. Il tempo di scarsità di risorse che attraversiamo obbliga anche il volontariato a ripensare alle strutture e alle funzioni che tali strutture (previste dalla legge 266 del 1991) hanno sviluppato in tempi di “vacche grasse” o anche grassissime. Non c’è dubbio che nell’ultimo decennio si sia sviluppata una sorta di burocrazia del volontariato che è cosa diversa dalle forme di rappresentanza e di leadership. Una sorta– ci si passi il termine – di “addetti” al volontariato che dovrà ripensarsi per guadagnare, dopo la trasparenza che è ormai un dato acquisito, in efficienza e in efficacia d’azione.

Più identità. Proprio la Conferenza del volontariato in Piemonte ha reso noto un dato su cui torneremo sul prossimo numero. Crescono i volontari delle ambulanze e della protezione civile, ovvero i “volontari in divisa”. Cala, invece, del 12% il volontariato socio-assistenziale e di prossimità. Un dato che dice quanto, soprattutto tra i giovani, sia diffusa la domanda di proposte educative capaci di fascinazione rispetto al bisogno di identità e di appartenenza. Bisogni in sé ambigui e che necessitano di proposte chiare e il meno possibile esteriori. Possibile che la risposta si limiti alla distribuzione di distintivi e casacche, sia pur nobili? Che proposte il volontariato oggi è in grado di mettere in campo? Che percezione ha della propria identità e come la comunica?

3 Set 2010 La politica? Si rinnoverà solo per una spinta dal basso

Mentre la politica e l’informazione italiana si trastullavano sull’asse

Fini-Gaucci-Tulliani e la scena politica era occupata da dossier, ricatti e intimidazioni che hanno mandato a gambe all’aria la solida maggioranza uscita dalle urne (dal canto suo il Pd continua serenamente la sua storia di nullità politica sperando soprattutto nelle disgrazie altrui), i problemi che avevamo davanti ad inizio agosto (lavoro, economia, efficienza della macchina statale, politiche per lo sviluppo, scuola e formazione, ect) si sono incarogniti e si ripresenteranno alla ripresa con tutto il loro peso di realtà.

Un peso che rischia di essere insostenibile per troppi italiani e troppe famiglie se il quadro politico evolverà nella direzione di lunga e velenosa campagna elettorale o di qualche alchimia parlamentare per dotare il Paese di un governo quale che sia.

Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, intervistato in occasione del Meeting di Rimini, ha posto una questione interessante: «L’economia, il tessuto vivo dell’associazionismo, in questi anni è riuscito a rigenerarsi indipendentemente dal potere. Ma fino

a quando può reggere?». Dovrà reggere, viene da rispondere, bisognerà fare in modo che regga, trovando ancora una volta energie e legittimazioni dal basso piuttosto che dall’alto. Certo, pressando quel che resta di una politica sempre più lontana dalla realtà e dalla vita e a quel che resterà di un Governo in affanno e in ritardo su troppi problemi, gridando, per rubare uno slogan un tempo caro a Berlusconi, “Lasciateci lavorare”. Almeno. Non credo sia più possibile che questa politica e i partiti che oggi la agiscono siano capaci di autoriformarsi, di rinnovarsi. Occorrerebbe un ultimo spiraglio di ragionevolezza che suggerisca alla politica di ricostruire qualche nesso e un dialogo vero con la società civile. Del resto, i partiti se non si paragonano a esperienze di base, si ideologizzano, così come accade oggi al centrodestra che produce più ideologia che atti di Governo. Ma perché questa pressione sui partiti e sulla politica possa lievitare sino al sogno di una stagione costituente, occorre che tutti ci sentiamo in questione, fuori da ogni recinto e liberi da presunzioni morali. Occorre aver chiaro che il confine tra il bene e il male passa ogni giorno dentro ogni nostro atto, perciò ciascuno deve sentire il dovere di migliorare se stesso producendo la maggior dose possibile di bene, ogni giorno.

Evitando le trappole che i mass media ci confezionano ogni giorno facendoci sentire“spettatori”, come se la possibilità di male riguardasse solamente gli altri.

Occorre, invece, un popolo di attori protagonisti, di “liberi e forti” avrebbe detto don Luigi Sturzo, occorrono persone consapevoli che non serve condannare, lamentarsi, recriminare (attività da spettatori), ma vale di più rispondere al male con il bene.

Perché solo questo cambia davvero le cose; solo questo cambia le persone e, di conseguenza, la società.

Rimbocchiamoci le maniche, quindi. Non è più tempo di chiacchiere, direbbe Shakespeare.

21 Gen 2011 L’Europa senza

più anima resta senza voce

Esagera Benedetto XVI quando dice, riferendosi all’Europa, che «la religione subisce una crescente emarginazione»? Esagera quando lancia l’allarme sulla libertà religiosa nei Paesi europei, dicendo «si tagliano le radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni»?

Crediamo di no, anzi. Il Papa nomina un nodo che l’attualità s’incarica di rendere ogni giorno più evidente: la tendenza dell’Europa a liberarsi dalla storia e dalle radici cristiane che pure stanno all’origine delle sue mappe valoriali, compresa la laicità degli Stati. I suoi simboli sono visti come un residuo di superstizione e spesso vissuti con senso di colpa. Il Papa, sottolineando il problema, sente una doppia drammaticità, quella di una Chiesa che deve ricomprendersi come minoranza creativa, e quella di uno spazio pubblico che tende a non riconoscerle più un ruolo.

L’Europa, del resto, è il continente nel quale gli individui, nei due secoli passati, sono stati “forzati” a privatizzare il loro credo religioso. La Rivoluzione francese, infatti, è stata cosa assai diversa dalla Rivoluzione

americana. Da quest’ultima è disceso il principio di imparzialità, ovvero neutralità, dello Stato nei confronti delle religioni: lo Stato non può preferire una religione alle altre, ma tutte sono consentite e favorite nella loro espressività e operatività e concorrono alla formazione dell’ethos pubblico. Dalla prima è disceso, invece, il principio di separazione, che significa indifferenza, tra Stato e religioni, principio che ha via via escluso le religioni dalla costruzione dell’etica pubblica.

Eppure nell’Europa post secolare il concetto stesso di “laicità” è in crisi irreversibile. Avendo rescisso il rapporto con la possibile sorgente di moralità comune, essa non è più in grado di far presa sulla realtà, vale a dire di dare risposte credibili a interrogativi del tipo: quale ha da essere il rapporto tra etica ed economia tra valori fondamentali e diritto? quali risposte dare alle sfide della multiculturalità? quali sono gli elementi comuni delle diverse matrici culturali presenti in uno stesso Paese che devono entrare nella cosiddetta “ragione pubblica”?

Pretendendo di continuare ad applicare il principio di separazione, lo Stato per continuare ad autoproclamarsi laico non può far altro che fare ciò che oggi si osserva. E cioè: quel che è tecnicamente possibile, lo Stato deve consentirlo; ciò che l’individuo preferisce la legge non deve vietarglielo. Se lo Stato è laico – si ragiona – anche la sua legislazione deve essere “indifferente”, dato che non v’è un criterio da tutti accettato per fissare un ordinamento di valori su ciò che riguarda il bene.

Ma una posizione del genere è assai pericolosa e gravida di effetti perversi. Infatti, se la legge non può distinguere tra opzioni che riguardano il bene comune, bisogna accettare di ridurre l’agire politico ad un agire meramente procedurale. Ma lo Stato laico che, accettando la concezione proceduralista della democrazia, si autonegasse ogni potere di decisione in materie come la struttura e il ruolo della famiglia; la giustizia distributiva; la felicità pubblica; la manipolazione genetica; la definizione di ciò che distingue ultimamente l’umano dal non umano,

rischia di essere uno Stato che tende alla propria autodistruzione. Ed è il rischio di cui vediamo segni in Italia e in altri Stati europei (si pensi al Belgio senza governo da più di 210 giorni). È il rischio stesso che corre l’Unione europea che finisce per rappresentarsi sempre più come un mostro procedurale senza anima e senza voce. Quell’Unione europea che può produrre e pagare tre milioni di copie di diari scolastici che includono festività ebraiche, indù, sikh e musulmane senza alcun riferimento al Natale, e in cui Catherine Ashton, commissario per Politica estera, di fronte alle stragi di cristiani nel mondo può permettersi di fare spallucce.

1 Apr 2011

L’Occidente e Gheddafi. Il walzer delle ipocrisie

C’è qualcosa di sbagliato in questa guerra, non solo perché una guerra è sempre sbagliata, ma per i modi, i tempi e gli interessi così espliciti e insieme così malcelati sotto una coltre fitta di ipocrisie e propaganda. Nel giro di meno di 48 ore si è entrati in guerra senza che l’opinione pubblica mondiale potesse accorgersene, passando da una risoluzione dell’Onu (la 1973 del 17 marzo) all’intervento armato in modo automatico. Senza una parvenza di dibattito politico e senza una strategia militare e politica comprensibile. Protagonista, una “Coalizione dei volonterosi” già ribattezzata “dei litigiosi”, frettolosa e improvvisata che non si è degnata neppure di invitare al tavolo di Parigi i rappresentanti dell’Unione africana.

Le ipocrisie della comunità internazionale. Si interviene per salvare i civili dai massacri e dalle ritorsioni di Gheddafi, si è detto per giustificare l’intervento. Ma in questo caso il ritardo delle operazioni militari non sarebbe di qualche settimana ma di qualche decennio. La verità è che in Libia non abbiamo mai visto niente di simile alla egiziana piazza Tahrir. Abbiamo assistito invece a una guerra di propaganda,

da una parte e dall’altra, la cui prima vittima come sempre è stata la verità. Come ha notato Sergio Romano, dei ribelli della Cirenaica «ignoriamo quasi tutto».

Le ipocrisie dell’Onu. Appena nove mesi fa, il 13 maggio 2010 la Libia di Gheddafi veniva eletta membro del Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite con 155 voti. I Paesi aventi diritto al voto erano 192. A protestare furono soltanto alcune ong. Sarkozy, Cameron e Obama non fecero una piega così come gli altri Paesi occidentali e democratici oggi nella Coalizione dei volonterosi.

Le ipocrisie della Lega Araba. Ha appoggiato la creazione di una no-fly zone, salvo poi pentirsene a metà, ma non ha pronunciato una parola sull’intervento militare dell’Arabia Saudita (circa 1.000 soldati e 500 poliziotti) nel Bahrein per reprimere le proteste procurando morti e feriti. Ma, si sa, il Bahrein ospita la Quinta Flotta degli Stati Uniti, cruciale per il potere militare Usa nella regione. E cosa dire dello Yemen? Il presidente yemenita, Ali Abdullah Saleh ha avvertito che coloro che vogliono «ottenere il potere attraverso un colpo di Stato» devono essere consapevoli del fatto che ciò condurrà a una «guerra civile, una guerra sanguinosa».

Le ipocrisie italiane. Nell’agosto 2008 Berlusconi a Bengasi firmò l’accordo di partenariato con Gheddafi. Ma il percorso era iniziato nel 1999 con D’Alema (agli Esteri con Ciampi), primo ministro europeo a far visita ufficiale al Colonnello, e proseguito il 27 aprile 2004, con la prima visita di Gheddafi in Europa dopo la fine dell’embargo Onu contro la Libia. A Prodi, allora presidente della Commissione Ue, il Colonnello disse: «Voglio esprimere la mia gratitudine a mio fratello Romano». La strategia dell’amicizia proseguì l’8 settembre 2006 quando Prodi, da presidente del Consiglio, andò dal Rais e culminò nel 2008, con la sigla da parte di Berlusconi di quel Patto che, tra l’altro, stabilisce che l’Italia non solo non avrebbe mai più aggredito la Libia ma anche che non avrebbe mai concesso il suo territorio per eventuali aggressioni. Un

Patto suggellato dal Parlamento e dal Quirinale nel giugno 2009.

Ora, se consideriamo anche l’ennesima prova di impotenza e disunità europea, è del tutto evidente che la scoperta recentissima di Gheddafi come feroce dittatore copra altri ben più grevi interessi, economici e militari, nel disinteresse della sofferenza di intere popolazioni. La storia però insegna, vedi Afghanistan e Iraq, che spesso le azioni dei guerrafondai si ritorcono contro di loro.

25 Mag 2012 Innovazione e attivazione. Vita volta pagina

Questo numero di Vita, sulla soglia di un nostro compleanno importante, il diciottesimo, chiude un’epoca del nostro impegno per l’informazione indipendente che in questi anni abbiamo provato a fare con risultati anche importanti. Un’informazione che abbiamo sempre voluto mobilitante e capace di levare e di restituire la voce e le ragioni di quel terzo di società italiana che continua ad avere fame di futuro e voglia di costruire società e risposte ai bisogni di tutti. Meglio, questo numero di Vita chiude con le forme di questo impegno. Dobbiamo voltare pagina e rideclinare, insieme con voi, le forme della nostra indipendenza e del nostro lavoro. Dobbiamo farlo perché in questi anni è cambiato tutto, non solo il mondo, ma le forme del comunicare e dell’informare. E Vita è totalmente dentro il suo tempo, non ne vuole prescindere, è il tempo che ci è dato con le sue opportunità e i suoi rischi.

Da giugno le forme del nostro impegno e del nostro informare cambieranno radicalmente pur rimanendo incardinate nella stessa passione civile e voglia di cambiare in meglio il mondo che viviamo. Entriamo

nell’età adulta con qualche convinzione in più, oltre a quelle che già ci riconoscete.

La prima. Se vogliamo continuare ad influire sul nostro tempo non possiamo prescindere dai 22 milioni di italiani che stanno su Facebook, dai 14 milioni di italiani – l’80% di loro con meno di 30 anni – che ogni giorno si collegano in rete, dobbiamo provare a raggiungere il 30% di italiani che possiede uno smartphone e i 2,3 milioni che ormai leggono i giornali con l’iPad o i tablet. Come ha recentemente scritto il direttore de Il Corriere, Ferruccio De Bortoli, «il giornalista della carta stampata non esiste più. Il lettore dobbiamo andarlo a cercare noi, con umiltà, utilizzando ogni canale, ogni network».

La seconda. Un giornale non è la sua carta. Un giornale è una redazione al lavoro, un sistema di relazioni, la capacità di ricercare e organizzare gli attori di una comunità e i suoi racconti, un giornale è la capacità di far parlare i soggetti sociali, di metterli in confronto di farli contare nel dibattito pubblico. Un giornale è questo spazio pubblico, fatto sempre meno di pagine e sempre più di incontri.

Vita è già tutto questo, è una redazione al lavoro con tanti terminali, ma dobbiamo essere più convinti di quel che siamo se vogliamo davvero innovare. Vita è un luogo di incontro dell’associazionismo italiano e di tutti coloro che vogliono riappropriarsi degli spazi pubblici e dei beni comuni partecipando del cambiamento. Un luogo di elaborazione di pensieri ed idee capaci di cambiare le cose perché aiutano a capire ciò che stiamo vivendo.

Per tutte queste ragioni abbiamo scelto di voltare pagina. Dal prossimo mese, aumenterà la nostra informazione e i nostri servizi sul digitale e rallenterà la periodicità del magazine cartaceo che diventerà mensile. Tutte le novità le trovate raccontate nelle pagine interne.

Voltiamo pagina per poter essere ancor di più puntuali e utili. Quello che abbiamo disegnato è un percorso non semplice e che richiederà

qualche fatica in più e molte presunzioni in meno. Vi chiediamo di accompagnare questo cambiamento con la simpatia con cui ci avete seguito sin qui, che mai ci ha fatto mancare il riconoscimento del valore del nostro lavoro di informatori indipendenti. Noi ci attrezzeremo per parlarvi ovunque voi siate, voi non mancate di tallonarci e farvi sentire. L’appuntamento in edicola è per l’8 giugno con il nuovo Vita.

Lug 2012

Un

nuovo magazine e ora la nuova

sfida digitale. Per essere utili ai costruttori di società. Ora tocca a voi

Là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva, dice un famoso verso di Friedrich Hölderlin, e la realtà, pur complessa, anzi di più, complicata e difficile per tutti, lo conferma in ogni frangente. Ne siamo i primi testimoni, in queste settimane vissute pericolosamente per far precipitare in una nuova forma, in una nuova grammatica e linguaggio i due cantieri a cui abbiamo lavorato in questi mesi, quello del magazine cartaceo e quello digitale. Sia pur ancora a metà dell’opera siamo stati travolti dai vostri messaggi di apprezzamento e condivisione del percorso intrapreso. Nei due cantieri, abbiamo provato a rideclinare in forme nuove la nostra indipendenza e la forma non profit della nostra impresa, il nostro modo di raccontare la realtà, valorizzando tutti i segni di speranza non rinunciando a denunciare le storture, la nostra passione e tenacia nel voler dar voce, strumentazione e pensieri a tutti i costruttori di bene comune che continuano ostinatamente, e nell’indifferenza delle istituzioni, ad impegnarsi per dare risposte ai propri e agli altrui bisogni e dare concretezza all’aspirazione di un mondo più giusto e per tutti. In queste settimane intense, dicevo, siamo stati

incoraggiati dai tantissimi messaggi ricevuti, via mail, via twitter, Facebook, via telefono e sms, che hanno salutato il nostro nuovo magazine apprezzando la nostra scelta di dar più valore al racconto su carta, con un’aggiunta di cura, di bellezza, di approfondimento, di condensazione di intelligenze che ci aiutino a capire il tempo che viviamo. In queste settimane, poi, imparerete a conoscere il nuovo sito web, la sua nuova grafica, i nuovi canali tematici, i servizi e, sono certo, sarete reattivi come per il nuovo magazine, incoraggiandoci o incalzandoci con suggerimenti o critiche. Ma ora è necessario che la vicinanza così calda di tanti lettori diventi contagiosa, bisogna che in molti di più ci diciate, comprandoci una volta al mese, che un magazine come Vita vi è necessario, che non ne potete più di un’informazione fatta di storie senza spessore e a buon mercato, che ci sfiorano e scivolano via divorandosi da sé senza produrre esperienza (da leggere il servizio sui disastri antropologici delle slot machine). Vita vuole diventare sempre più lo strumento di chi non si accontenta della reazione (sia essa un tweet, un like o un flash mob) a ciò che altri scrivono su di noi, di chi è consapevole che la sua salvezza non deriva dall’ennesimo, inutile quando non dannoso vertice europeo. Vita vuole diventare il magazine di tutti coloro che producono gesti, esperienze, storie dense di significato e di materia (come le tante storie che raccontiamo in questo numero: giovani che ritornano alla cura della terra, anche nelle forme più creative e innovative). Noi ci impegniamo rimettendoci in gioco, tenendo un prezzo abbordabile per tutti (un centesimo al giorno), studiando una nuova e migliore distribuzione (ora ci trovate anche nelle librerie Feltrinelli), promuovendo abbonamenti al magazine in Pdf sul web e a basso costo. Ma ora, abbiamo bisogno di voi, abbiamo bisogno di più da voi: la dimostrazione concreta che Vita serve alla vostra vita. Altrimenti, dovremo prenderne atto e lasciare il campo a ciò che Benjamin già nel 1933 definiva «indigenza nuova», ovvero la mancanza di esperienza e socialità. Ora tocca a voi.

Nov 2012

Per

Monti il welfare è solo un costo, non motore di sviluppo perciò l’ha brutalizzato.

L’Agenda Monti è da buttare

Dicembre 2011. Il neo ministro del Welfare, Elsa Fornero, a cui nessuno potrà mai rimproverare di non parlar chiaro, intervistata da Vita sui programmi del Governo da poco insediato, ci disse: «La priorità è quella di rimettere a posto i conti dello Stato, il resto viene dopo. Quello che posso dire, è che se in futuro – che non credo sia prossimo – grazie alla ripresa economica si libereranno risorse, il Terzo settore sarà in cima alle priorità». Era già tutto chiaro allora, anche se in molti, troppi, si erano illusi su un Governo, non eletto ma con un personale competente e autorevole e, in molti casi, già attento alla società civile e al Terzo settore (Riccardi, Ornaghi, Balduzzi, Passera, e lo stesso Monti, un quasi teorico dei quasi mercati e dell’economia sociale di mercato). Invece no, la Fornero già un anno fa e con uno stile per nulla choosy, aveva palesato la chiave culturale del Governo: il welfare è una spesa, perciò prima i tagli e poi, quando si tornerà a crescere, vedremo. Quasi un anno dopo, siamo più poveri, più indebitati, più tartassati, le prospettive di crescita di là da venire, i Comuni rischiano il default, il Terzo settore è in ginocchio.

C’erano già in quella frase tutti i prodromi della brutalizzazione del Terzo settore e del welfare (e di conseguenza delle fasce deboli della nostra società) che sarebbe, poi, seguita sino ad oggi e che è ampiamente illustrata nelle pagine del servizio di copertina con abbondanza di date, di numeri e di voci a cui nulla posso aggiungere. Questo Governo, come altri prima, s’è mosso secondo antichi assiomi e dottrine, quelle che ci hanno inguaiato sino a questo punto, non scommettendo sull’unico bandolo possibile per la crescita, la rigenerazione della fiducia, la protezione della popolazione fragile attraverso la sua inclusione e messa a reddito, la leva da liberare della capacità donativa e associativa di questo Paese. Né addolcisce il giudizio la notizia che il Governo ha inserito 900 milioni per il sociale in capo alla Presidenza del Consiglio (che è? il tesoretto del Principe da elargire ai miserabili?)

De Gasperi, con l’Italia ancora distrutta dalla guerra, disse in suo discorso: «Quando lo Stato non ce la fa, si affidi ai suoi cittadini». Ecco quello che un vero leader dovrebbe dire anche oggi, tirandone le adeguate conseguenze in termini di politica e di azione governativa. Invece il Governo Monti, in questo quasi anno di attività, anziché tagliare la spesa pubblica corrente (risibili sino a qui i pochi tentativi), invece di riconsiderare la spesa folle di 15 miliardi per gli F135, invece di aggredire i patrimoni e le rendite, invece di liberare le energie che la società italiana ancora esprime, come la sua capacità donativa, ha preferito proferir bugie ad ogni piè sospinto, mortificando queste energie, infierendo con tasse, accise, e mancati trasferimenti, sui soliti noti, pensionati, lavoratori, persone in difficoltà e persino volontari, cooperatori e donatori. Da che esiste Vita, 18 anni e diversi Governi (che abbiamo in proporzioni simili attaccati), forse non ci era mai capitato di leggere le enormità scritte nel decreto della Spending review a proposito di appalti pubblici vietati al privato sociale, o nella legge di stabilità a proposito di persone con disabilità (norme a cui si è messo una pezza

per una mobilitazione che anche Vita ha incoraggiato e promosso e che è approdata in Parlamento in forma di emendamenti).

L’Agenda Monti in questo anno si è risolta in due pistole puntate alla tempia: “Ce lo chiede l’Europa”, “Ce lo chiedono i mercati”, che hanno dato origine a provvedimenti concepiti male e in fretta e scritti, spesso, peggio (da qui le eccezioni e le difficoltà regolative). Si può far di più e meglio. Perciò crediamo che chiunque voglia mettersi a disposizione del futuro di questo Paese debba mandare in pensione proprio l’Agenda Monti. Evitando ogni velleitarismo e scrivendo, infine, una pagina davvero nuova.

Lug 2013

Per non annoiarsi vi proponiamo una estate di mobiltazione con noi. Sulla campagna #noslot

e per interrompere lo scippo statale sui fondi che i contribuenti destinano al 5 per mille

Chi ci conosce lo sa. Chi non ci conosceva, spesso, ci scopre proprio per questo. Vita è un media inquieto per la sua natura di piattaforma di informazione e di conoscenza non elitaria ma partecipata e che, perciò, mira alla mobilitazione per cambiare gli assetti, lo statu quo affinché si liberino tutte quelle energie positive, innovative e cooperative che ogni giorno raccontiamo. Questo mese rilanciamo due mobilitazioni che ci stanno caratterizzando per la mole di informazioni che produciamo in proposito e per la presenza sui territori: la mobilitazione contro le slot machine e la diffusione incontrollata dell’azzardo legale, e la mobilitazione contro gli scippi che lo stato sta consumando sul 5 per mille che i contribuenti, e in maniera crescente, destinano alle organizzazioni non profit e agli enti di ricerca ogni anno con una firma sulla propria dichiarazione dei redditi.

La mobilitazione #noslot ha raggiunto risultati importanti (ne troverete eco in questo numero). Con il blogging day dello scorso 13 giugno e la sua impressionate onda d’urto: 4.506 tweet, una media di retweet del 3,7, per oltre 18.000 tweett. 302 blogger mobilitati, 10 testate

online che hanno rilanciato l’iniziativa (da Linkiesta a Huffington Post. it), retweet da 206 influencer, da Fiorello a Mannoia a moltissimi amministratori locali. Con le imminenti leggi regionali in Lombardia ed Emilia Romagna e con i passi avanti del Ddl nazionale. Con l’indiretta risposta di papa Francesco a una nostra lettera: «C’è gente che vive senza speranza. Ciascuno di noi può pensare, in silenzio, alle persone che vivono senza speranza, e sono immerse in una profonda tristezza da cui cercano di uscire credendo di trovare la felicità nell’alcol, nella droga, nel gioco d’azzardo, nel potere del denaro». Il prossimo 12 luglio a Milano, nel corso del primo raduno nazionale dei circoli #noslot di Vita, ormai diffusi in tutto il territorio italiano, rilanceremo l’iniziativa. Sempre più necessaria visto che proprio l’azzardo e le sue zone grigie tra legalità e illegalità è diventata la seconda industria dei clan camorristici (55 arresti e 480 milioni di beni sequestrati).

La seconda mobilitazione in cui vi chiediamo di essere parte attiva, anzi attivissima, è quella contro lo scippo del 5 per mille consumato da due anni in qua dallo stato, che pure con il contribuente e gli enti non profit ha sottoscritto il patto più sacro e più inviolabile, quello della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche. Nel 2010 e 2011 lo Stato è venuto meno ai suoi impegni scrivendo il falso in un atto pubblico e vincolante, sottraendo in due anni, 172 milioni di euro dalle tasche dei contribuenti, invece di destinarli al Terzo settore come era nelle intenzioni dei cittadini che hanno operato la scelta del 5 per mille. Da due anni lo Stato dichiara il falso invitando i cittadini contribuenti a indicare la destinazione del 5 per mille delle loro imposte, giacché nel 2010 tale quota è stata decurtata al 4,1 per mille, e nel 2011 addirittura al 4 per mille! E lo ha fatto in modo omertoso, solo un’interrogazione urgente dell’on. Luigi Bobba ha permesso di sapere la verità da un imbarazzatissimo Stefano Fassina, vice-ministro dell’economia. Sul nostro sito (vita.it) trovate il testo dell’appello #sappiatelo che potete leggere in questo numero a pagina 109. È già sottoscritto da

tante realtà non profit che si faranno certamente parte attiva nella raccolta di firme elettroniche, ma è necessario un impegno di ciascuno per diffonderlo e farlo firmare. L’obiettivo è quello di portare 10mila firme in Parlamento entro settembre, per chiedere la stabilizzazione del 5 per mille entro il 2013 e l’abolizione del tetto. Molto opportunamente, Stefano Arduini nel servizio che dedichiamo al tema, ricorda che Enrico Letta e Maurizio Lupi pubblicarono sul Corriere della Sera (il 21 aprile 2012) un articolo a doppia firma: “La rivoluzione del 5 per mille non più precario”. Scrivevano: «...il 5 per mille ...è l’espressione massima della libertà di scelta. che, oggi, dunque, diventa stabile. Una vittoria che rivendichiamo con orgoglio». Dove sono finiti gli smemorati Letta e Lupi?

Dic 2013

È sempre possibile ri-iniziare.

Un nuovo inizio è quanto mai necessario per scrivere insieme pagine nuove per il nostro Paese.

Un appello e un manifesto

Il Natale che rotola (scrive Alessandro Manzoni) sino a noi, ogni anno, raggiungendoci dal cuore dei secoli e del tempo ci dice, puntualmente, una cosa: è possibile ri-iniziare, anzi, iniziare, ogni anno, ogni giorno. Hannah Arendt, a questo proposito, cita Sant’Agostino “affinché ci fosse un inizio, l’uomo fu creato”. Questo inizio è sempre e ovunque bell’e pronto, accade sempre. La sua continuità non può essere interrotta, poiché e garantita dalla natività (nascita) di ogni nuovo essere umano che si ripete nella sua unicità di creazione singolare, nel tempo. E anche dai nostri tentativi di iniziare ogni giorno, quando ci si alza per mettere mano alla giornata e provare a non subirla. Siamo principianti assoluti, canta David Bowie. Ecco, dovremmo prendere sul serio questo suggerimento del Natale alla fine di un anno faticoso (il settimo dentro la crisi) e che ci impone un cambiamento urgente, necessario. Ci impone di scrivere pagine nuove con il nostro impegno e con il nostro desiderio di giustizia per cambiare un Paese stremato, diseguale, prima che i cambiamenti dell’economia e della politica dello spreco, che comunque avvengono dentro le città e

i territori, cambino noi e spengano i nostri desideri e la nostra voglia di fare. Una voglia e un desiderio ancora imponenti.

Leggete questo numero, la grande inchiesta sugli oltre 340mila volontari nella sanità e le migliaia di associazioni dentro le corsie per umanizzarle o capaci di portare nei territori i percorsi di sanità e di assistenza, o la storia delle città candidate a capitali della cultura e i loro progetti partecipati. Una documentazione impressionante di come la nostra società, osiamo dirlo, come suggerisce Papa Francesco, il nostro popolo, sia ben vivo e non rassegnato malgrado profonde ingiustizie e una politica che non vede né bellezza né energie, né le capacità né i meriti.

Sappiamo ormai che al nostro desiderio di cambiamento e di giustizia non ci penserà lo Stato o ci penseremo noi, mettendoci in gioco senza paura, scrivendo pagine nuove ed uscendo dai recinti, oppure dovremo rassegnarci anche di fronte ai bisogni più urgenti che viviamo e che la realtà ci propone.

Sappiamo anche che ogni traguardo o è un nuovo inizio, o rischia di essere una tomba. Ed è per questo che arriviamo alla soglia del 2014, anno dei nostri vent’anni, con un appello e un manifesto – lo presenteremo a gennaio – a tutti voi lettori, alla rete delle nostre associazioni e dei circoli Vita e no slot – in cui siano esplicitate le ragioni di una ripartenza necessaria, di un nuovo inizio che poggia i piedi su esperienze vive, straordinarie, capaci di migliorare il mondo in cui viviamo.

Un inizio che vogliamo fare insieme a tutte quelle esperienze e realtà che non si accontentano dell’autoreferenzialità, non si sentono protette, pensano di avere molte cose da migliorare e da imparare, si sentono portatori di una storia significativa, ma che ha ancora molto da dire e da imparare incontrando la realtà e gli altri.

Una convocazione perché insieme si metta al lavoro per trasformare il nostro Paese, le nostre città, i nostri quartieri in un

posto dove i problemi e le difficoltà possono essere combattuti non con le buone intenzioni, ma con le buone idee, con la capacità di lavorare insieme e con l’impegno a rendere quelle idee delle azioni concrete. Cooperando.

Dove la miglior protesta è trovare soluzioni vere e positive, risolutive ai problemi e dove la miglior battaglia da combattere è quella di fare un buon lavoro facendo qualcosa in più del proprio dovere.

Dove l’indignazione si cura con la dignità, mettendo in campo percorsi che ridanno dignità, occorre ridare dignità all’impresa, ai territori, alle nostre vite, curando davvero ciò che ci suscita l’indignazione. Fermarsi all’indignazione non basta più.

Dove non valgono le mille giustificazioni per dire che non vale la pena tentare e quindi bisogna fuggire o ritirarsi, la più grande soddisfazione è restare e realizzare bene il proprio lavoro e le proprie passioni anche a costo di grandi sacrifici. Dove è chiaro che la responsabilità rende più semplice fare il bene e più complicato il male.

Dove la diseguaglianza non è vissuta come un destino. Dove la miglior definizione di politica è quella di spendersi per migliorare la vita propria e degli altri. Insieme.

Gen 2014

Caro Terzo settore, ti scrivo per dirti che non ti chiamerò più così. La realtà, l’esperienza nei territori, le

sfide che ci aspettano sono ormai altrove.

Ecco dove

Caro Terzo settore, che fatica chiamarti con questo nomignolo che non nomina più la realtà e neppure la sua rappresentazione e rappresentanza, credo che nel 2014 eviterò di usarlo ancora. Sono stufo di usare una definizione che non definisce se non per sottrazione (non profit) o per differenziazione (tra Stato e Mercato). Forse è anche per questo, caro Terzo settore che ti sei ammalato, perdendo voce, spinta, interesse alle cose del mondo. Già perché le parole sono importanti, lo urlava, toccandosi il cuore, il Nanni Moretti di Palombella rossa e recentemente lo ha sottolineato Papa Francesco, quando le parole impazziscono trascinano sul fondo quelle “verità” che vorrebbero nominare e di cui vorrebbero partecipare. È la questione delle «parole staccate dalla pratica», le parole vanno vissute. e quando la vita e l’esperienza vanno da un’altra parte, le parole impazziscono e fanno del male. Eppure, «queste parole sono buone», ha avvertito il Papa, «sono belle parole». ad esempio, «anche i Comandamenti e le beatitudini» rientrano fra queste «parole buone», così come anche «tante cose che Gesù ha detto. Noi possiamo ripeterle, ma se non ci portano alla vita non solo non

servono, ma fanno male, ci ingannano, ci fanno credere che noi abbiamo una bella casa, ma senza fondamenta», ha detto Francesco in una delle sue brevi prediche mattutine a Santa Marta. Se è così per il Vangelo, figuriamoci per la parola Terzo settore e le sue parole ormai stanche che sembrano così lontane dalla vita. Sono rimasto molto impressionato poche settimane fa nel vedere un gruppo di amici (veri) presentare un manifesto dal titolo“Fiducia e nuove risorse per la crescita del Terzo settore”.

No, basta per favore. Basta con l’autoreferenzialità. di risorse e di fiducia è il nostro Paese ad aver bisogno e ciò che chiamiamo Terzo settore dovrebbe essere sulla frontiera del disagio per darle, trasmetterle, senza pre-condizioni. I nostri nonni (magari vostri bisnonni) quando fecero la resistenza, o quando costruivano una casa o mettevano su un’attività, o criticavano un regime, non erano finanziati, sovvenzionati (quello lo hanno scoperto dopo, magari), ma rischiavano in prima persona per darsi e dare un futuro. Mandela rischiò nell’arrabbiarsi e nel perdonare, senza chiedere permessi. Il Terzo settore, parola cara ai dirigenti più che alle migliaia e migliaia di formiche che fanno e innovano senza chiedere permessi, faccia così. Basta con la difesa, arretrando sempre più, di un settore imponente sui territori, che è nato con la voglia di cambiare il mondo e non per difendere se stesso, ma per cambiare la realtà e le cose, le relazioni tra i viventi. Qui c’è di mezzo il nostro Paese, il popolo a cui apparteniamo, il suo futuro. Qui non è più questione di Terzo settore, non sono in questione le diverse énclave organizzate e, magari qualche residuo appalto, ma sono in questione i nostri figli, la loro educazione, il senso del lavoro e il lavoro che non c’è, i beni pubblici che vorrebbero svendere, la miseria diffusa e che continua a crescere, la concezione stessa dell’intraprendere (un altro anno si è perso per paura di far nascere vere imprese sociali in grado di affrontare il mare del mercato), di come concepiamo e interpretiamo la giustizia nel Paese delle sperequazioni, in questione è la nostra

concezione di accoglienza che non può essere quella espressa dalla cooperativa sociale che gestiva il Centro di accoglienza di Lampedusa.

Bene, allora, cara società civile, cittadini attivi in qualsiasi modo organizzati e in forme magari non ricosciute, dirigenti del Terzo settore, qui, ora, dobbiamo giocarci almeno quattro sfide da serie a, tre sfide per il futuro dell’Italia, senza aspettare la politica dei partiti. Dobbiamo stare davanti ai partiti e non dietro elemosinando qualcosa, davanti e senza voltarci indietro.

La sfida di un nuovo Servizio civile che permetta a tutti i ragazzi italiani di sperimentare la bellezza dell’impegno civico e magari di una professione che concili idealità e reddito.

La sfida di un’Impresa sociale capace di giocare la partita, che alcuni vorrebbero già scritta alla voce “privatizzazioni e svendite”, dei beni comuni, acqua, trasporto locale, fabbriche post-fordiste.

La sfida dell’Accoglienza, della cultura della solidarietà e della responsabilità che deve produrre nuove forme e nuove proposte. Dall’abitare ai luoghi.

La sfida del Lavoro e dei nuovi lavori non avendo paura né della tradizione né dell’innovazione.

Coraggio, si può fare. In movimento, allora.

Feb 2014

“Rompete le scatole” non è l’ennesimo invito a protestare o a insultare, ma è l’invito a fare. A costruire osando forme nuove e badando allo scopo: la risposta

ai bisogni nostri e di tutti

Vale la pena precisare: l’invito al “Rompete le scatole” che vedete nella copertina di questo numero di Vita illustrato nello stile perentorio e suggestivo di Sarah Mazzetti (tra l’altro tra le promotrici di Teiera Autoproduzioni), non è l’ennesimo invito a protestare o a mandare al diavolo gli altri o il sistema (sempre colpevole per chi preferisce pigramente l’autoassoluzione), ma è l’invito a fare, a costruire, l’invito a sentire l’urgenza e la necessità di mettere in campo ogni energia possibile per dare vita a fatti concreti, azioni di cambiamento, azioni al presente e non coniugate sempre al futuro. Rompete ogni scatola o gabbia pur di costruire. Come suggerisce, in un dialogo che trovate in questo numero, Giovanni Moro: «Il punto è superare la logica del primato delle forme, con cui le burocrazie dominano il mondo (non solo l’Italia) e riprendersi, come collettività, la prerogativa di giudicare l’interesse generale in base al modo in cui si realizza in azioni e nei loro effetti». Dobbiamo tutti rimetterci “In movimento”, come suggerisce il manifesto che trovate a pagina 42-43 e che sarà oggetto di una convocazione e discussione pubblica il prossimo 21 marzo (ci

avvicineremo all’appuntamento anche tramite una consultazione online), quando a Milano chiederemo l’adesione a tutti coloro che condivideranno i principi e la piattaforma che comporremo insieme a tutti voi. Attenzione però, “Rompete le scatole”, non è un invito astratto, un’intenzione, ma è ciò che già succede nella realtà e che solo un’informazione e una politica malate e autoreferenziali ci impediscono di vedere. È lo slogan di un’Italia che si è stufata di aspettare e che si è messa in movimento, autonomamente, fuori dalle solite appartenenze e gabbie, senza chiedere permesso e senza aspettare sovvenzioni spinta dalla necessità, anzi di più, dal desiderio di non rassegnarsi e di trovare risposte nuove per sé e per tutti.

È il fenomeno delle scuole aperte che sta contagiando il Paese, con i genitori che assumono un ruolo di protagonisti attivi. Insegnanti e genitori che hanno ben presente quanto scrive Stefano Boeri in queste pagine: «La scuola, le mille e mille scuole italiane sono – prese tutte insieme – la più grande infrastruttura sociale del nostro Paese. Altro che aeroporti, autostrade o viadotti. Le scuole sono dappertutto; e dappertutto accolgono la trasmissione del sapere, l’incontro tra le generazioni, lo scambio di culture e linguaggi. Per questo, a ben pensarci, alla faccia di ogni elucubrazione sul concetto di “bene comune”, nulla lo è più della scuola. Perché le scuole tengono unite le famiglie, intrecciano le biografie, costruiscono il futuro lavorando sul passato e accompagnano i flussi del presente: milioni di studenti, insegnanti, genitori che ogni giorno si incontrano scambiandosi idee, emozioni, memorie, aspettative». Troverete in questo numero una documentazione impressionante di come l’Italia ribolla di energie e percorsi di costruzione sociale e di innovazione inediti, inaspettati. Migliaia e migliaia di esperienze.

È anche il fenomeno delle social street, la “socializzazione” tra abitanti della stessa via, partito da Bologna e che ora ha già 138 esperienze attive. Ed è il fenomeno dei Gruppi di acquisto, e della spesa solidale,

che rinnovano e allargano l’antica consuetudine del “caffè sospeso” sino alla cultura e gli spettacoli. O ancora delle esperienze creative e musicali che grazie al web hanno trovato l’energia di cambiare una legge. In movimento dunque, no excuses. Usate questo numero e scrivetemi.

Apr 2014

L’impresa sociale è diventata in breve tempo tema mainstream. Un paradigma possibile per l’alleanza tra non profit, profit, ente pubblico e finanza che insieme vogliono perseguire il bene comune

“In queste mura non ci si sta che di passaggio. Qui la meta è partire.” Giuseppe Ungaretti, Lucca (da L’Allegria)

Quali sono le mura evocate da Giuseppe Ungaretti? Sono quelle che nel numero di febbraio avevamo evocato con la bella copertina: Rompete le scatole. Invitando a rompere le forme conosciute, gli abiti giuridici noti per innovare e trovare nuove soluzioni, invitando a superare la logica del primato delle forme, con cui le burocrazie dominano il mondo (non solo l’Italia) per riprendersi, come collettività, la prerogativa di perseguire l’interesse generale. Un invito che è stato preso sul serio da tantissime organizzazioni, cittadini ed anche imprese dando vita a quello scatto oltre l’autoreferenzialità che abbiamo denominato #inmovimento. Una spinta a scrivere pagine nuove, e nuovi capitoli di un futuro di cui essere protagonisti e non passivi o lamentosi spettatori (si veda la piattaforma da scrivere insieme, non fate mancare il vostro contributo di critica e di idee collegandovi a inmovimento.civi.ci).

È anche forse per questa spinta che uno dei capitoli su cui insistiamo

da qualche mese, l’impresa sociale, è divenuto un tema mainstream. Ne parla in Tv il Presidente del Consiglio annunciando un Fondo apposito per il suo sviluppo, ne parlano Commissari europei e professori, il termine “impresa sociale” rimbalza da un quotidiano ad un working paper e un convegno che abbiamo convocato in Bocconi sul tema è stato preso d’assalto da un pubblico in gran parte di giovani.

L’impresa sociale, come suggerisce Paolo Venturi nel suo blog su Vita.it, si sta affermando oggi come un nuovo paradigma. Paradigma, cioè modalità adeguata per affrontare la complessità (sociale) e la modernità (economica). E come nuovo paradigma che interessa non solo il Terzo settore produttivo, ma anche per le imprese for profit, gli enti pubblici e persino importanti settori della finanza. L’impresa sociale viene sempre più percepita come “il” luogo dell’innovazione possibile per chi persegua lo sviluppo e l’occupazione, una crescita non solo economica ma sociale.

Il luogo dell’alleanza possibile tra diversi attori, diversi per natura giuridica, per missione, per composizione, ma che intendono, insieme, perseguire l’interesse generale, l’utilità sociale. Attori pronti ad assumersi le sfide che la realtà ci pone davanti con urgenza: i beni pubblici (come acqua e trasporti locali) che non vogliamo privatizzare secondo le modalità che purtroppo conosciamo; l’abitare sociale che promuova modalità di condivisione nuove; la promozione di esperienze di riattivazione di aziende tramite l’iniziativa dei dipendenti, la scommessa di un nuovo welfare di comunità e generativo, l’urgenza di promuovere imprenditorialità e buona occupazione tra i giovani.

Tutto sembra concorrere a che la Riforma dell’impresa sociale si faccia, come dice Ungaretti, “Qui la meta è partire”. Un Terzo settore che in forme più o meno riconosciute, produce beni e servizi, un ente pubblico in cerca di alleati e nuove forme per produrre welfare e servizi, un mercato che, per dirla con Michel Porter, è da “reinventare” se non vuole implodere, andato ben oltre il pannicello caldo della

Csr per mirare alla produzione di valore condiviso tra tutti gli stakeholder (quindi non solo per gli azionisti, ma per dipendenti, territorio, comunità), una finanza in cerca di asset nell’economia reale, che non cerca più il tutto e subito della finanza, ma persegue bassi e più certi investimenti.

Set 2014

Cambiare si può. Lo dimostrano i due casi del Servizio civile universale e dell’impresa sociale. Due proposte nate dal basso, discusse e messe a punto attraverso confronti promossi da Vita. E ora parte della Riforma

Sembrava impossibile. E invece, ancora una volta, un’urgenza reale e diffusa, una volta letta nelle sue ragioni e perciò restituita lealmente al dibattito pubblico (questo è poi il compito di un media come il nostro), è riuscita dapprima a conquistare un ampio e trasversale consenso e poi ad influenzare il legislatore. Ci riferiamo alla “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio civile universale”, che oltre a recepire il contenuto di una campagna avviata da Vita un paio d’anni fa, quella per il Servizio civile universale, ha fatto suoi anche i contenuti di una profonda riflessione sull’impresa sociale che esattamente un anno fa, Vita insieme a Iris Network avevano avviato in un seminario ristretto a Riva del Garda il 12 settembre 2013. La proposta del Servizio civile universale così come quella di una Riforma della legge 155/06 nascevano da un giudizio: il fallimento del Servizio civile volontario ormai incapace di rispondere alla voglia (residua) di impegno dei giovani italiani, e il fallimento della legge sull’impresa sociale scritta nel 2006 soprattutto da chi l’impresa sociale in questo Paese non la voleva. Non è mai facile

in questo Paese ragionare lealmente sui fallimenti giacché la colpa la si imputa sempre agli altri. Per questo promuovemmo a Riva del Garda un incontro protetto e a numero chiuso affinché fosse possibile ragionare senza paure o preoccupazioni da rappresentanze di settore (i cooperatori, i capitalisti buoni, i tecnici, ect). Tra gli altri erano presenti, oltre al sottoscritto, Carlo Borzaga, Andrea Rapaccini, Letizia Moratti, Roberto Randazzo, Pino Bruno, Leonardo Sacco, Felice Scalvini e Flaviano Zandonai. Ne uscimmo con la convinzione che i punti di una possibile e realistica riforma fossero cinque e riguardassero i modelli di governance, l’inclusione lavorativa, la leva fiscale, il nodo sulla redistribuzione degli utili che doveva andare oltre il tabù del divieto alla ridistribuzione, e l’ampliamento dei settori di intervento. Cinque punti che rappresentavano il minimo comun denominatore condiviso per provare a voltare pagina. Nella convinzione che si stava ormai aprendo una stagione nella quale ciò che si definisce non profit o Terzo settore, aveva finalmente l’occasione di compiere quel salto di qualità imprenditoriale che gli si chiede da tempo, per contribuire a sostenere un modello di sviluppo più adatto ad affrontare nuove sfide e a dare risposte innovative alla fase di recessione e di disoccupazione che l’Europa sta attraversando. Da quel 12 settembre iniziò poi un cammino in giro per l’Italia, convegni (tra cui uno partecipatissimo in Università Bocconi) e incontri sino alla formulazione più compiuta delle cinque proposte a fine ottobre in Parlamento, proposte parzialmente riprese anche in un disegno di legge (Stefano Lepri) e in un emendamento al decreto Sviluppo del gennaio scorso (Luigi Bobba). Ora dopo neppure 10 mesi, il 10 luglio il Governo ha licenziato la Legge delega di Riforma che recepisce quelle proposte. La morale? Cambiare si può. Basta avere fiducia nei dati di realtà che sempre suggeriscono ciò che davvero occorre e aver fiducia nelle proprie ragioni e nell’utilità del dialogo. Una fiducia di cui avremo ancor più bisogno ora che i contenuti della legge delega devono tradursi

nel più breve tempo possibile in leve di nuovo sviluppo e di nuova occupazione. E molto dipende ancora da noi prima ancora che dalla politica.

Feb 2015

«Non c’è dovere che sottovalutiamo di più del dovere di essere felici», scriveva Adriano Olivetti.

Un richiamo anche per il Terzo settore, troppo passivo di fronte alle sfide epocali che abbiamo davanti

Leggendo il bel libro di Roberto Scarpa su Olivetti (“Il coraggio di un sogno italiano”) mi ha colpito questo folgorante appunto di Adriano Olivetti che vi ripropongo: «Non c’è dovere che sottovalutiamo di più del dovere di essere felici. Quando siamo felici, seminiamo anonimi doni nel mondo, che restano sconosciuti anche a noi stessi o, se rivelati, sorprendono il benefattore più di chiunque altro. L’altro giorno un monello cencioso e scalzo correva per la strada dietro a una biglia, e aveva un’aria così allegra da mettere di buon umore chiunque lo vedesse... io approvo chi incoraggia i bambini sorridenti piuttosto che quelli piagnucolosi... È meglio incontrare un uomo o una donna felice piuttosto che una banconota da cinque sterline. Lui o lei, sono fuochi che irradiano benessere; il loro ingresso in una stanza sembra accendere una candela in più, dimostrano nella pratica il grande Teorema della Vivibilità della Vita».

Potremmo anche tradurre così la chiusa di Adriano Olivetti, un uomo e una donna felici dimostrano nella pratica il grande teorema della positività della vita. È una considerazione persino psicologicamente vera:

non ci muove e non ci si alza ogni mattina se non per la speranza di un più di positività e di felicità, non ci si mobilita e neppure si riposa se non per guadagnare un pizzico di felicità. Non ci si alza per lamentarsi né ci si mette in moto per lamentarsi o piagnucolare, per far questo basta rimanere a letto o in poltrona. Sant’Ireneo, un grande santo dei primi secoli, aveva riassunto così questa pietra angolare dell’essere al mondo “La Gloria di Dio è l’uomo vivente (Gloria Dei vivens homo)”.

Mi ha colpito quest’appunto di Olivetti perché mi pare che anche dentro il mondo che questo magazine racconta, quello del Terzo settore, dell’economia civile, della sostenibilità, sia diffusa questa sottovalutazione del “dovere di essere felici”. Chi vuole cambiare il mondo, chi non si accontenta dello status quo, chi esercita un po’ di responsabilità e di solidarietà dovrebbe essere persona in grado di contagiare gli altri con il sorriso e l’entusiasmo, con la positività pratica di chi ama essere in movimento. Di chi non s’aspetta che il futuro sia gentile concessione di altri o qualcosa di finanziabile. No il motore del nostro futuro non può essere il nostro desiderio di felicità e perciò di cambiamento.

Solo così il Terzo settore potrà diventare il Primo, non perché lo dice un Presidente del Consiglio, ma perché esso stesso si concepisce come motore della rimessa in moto del Paese, di una sua rinascita. Motore primo, perciò, anche della Riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e del Servizio civile. C’è troppa passività, a me sembra. Bisognerebbe punteggiare questo 2015 di momenti di convocazione anche simbolici in cui il Terzo settore sappia narrare la sua voglia e capacità di cambiamento. E la sua cifra più vera, quella della felicità.

Un grande evento sul dono, uno sul servizio civile come motore d’ingaggio per le comunità dei giovani e dei propri figli, uno sulla sfida della nuova impresa sociale capace di essere motore di nuova economia. Vita farà certamente la sua parte.

Mag 2015

Abbiamo protestato contro gli

egoismi delle istituzioni europee, ma noi siamo sicuri di essere a posto?

Chiese, non profit, sindacati, cosa siete disposti a dare per un progetto di cooperazione con l’Africa?

Bisognerebbe non rassegnarsi alle tragedie dell’immigrazione, non abituarsi, levarsi dall’indifferenza e prendere a calci chi quota sul mercato della politica le paure usando slogan e numeri falsi che fanno male innanzitutto a noi. La realtà presenta il suo tragico conto ed è vile stare in panciolle o voltarsi dall’altra parte tranne poi lasciar scivolare qualche lacrimuccia alla prossima strage. Ci lamentiamo, giustamente, della pochezza e degli egoismi delle istituzioni europee, ma siamo poi sicuri di essere migliori dei nostri rappresentanti e delle burocrazie? Dal 2000 al 2013 sono morti più di 23mila migranti nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare o attraversandone i confini via terra. Una strage con un bilancio simile a quello di una guerra per dimensioni e numero di decessi; in media più di 1.600 l’anno. Una delle tratte più pericolose è quella che coinvolge le acque del Mediterraneo tra l’Africa e il sud Italia: un vero e proprio cimitero sommerso, come fosse il campo di una battaglia per la sopravvivenza che i migranti combattono contro la fame e le guerre che si lasciano alle spalle. Facendo le somme, tra il 2000 e il 2013 almeno 6.400 tra donne, uomini

e bambini sono morti nel tentativo di raggiungere Lampedusa (quasi 8.000 se si allarga lo spettro all’intero Canale di Sicilia). Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati almeno 3.419 migranti hanno perso la vita nel Mediterraneo da gennaio 2014, 1.754 morti dall’inizio del 2015. Numeri ma anche nomi, occhi atterriti di donne e bambini, quelli: Katty, Minire, Naim, Salah, Youssef, Abdelatti, Maribel, Aferdita, Hysen, Yaniny, Aracely, Jahaira, Stepan, Hossam, Shukri, Emad...

Sarebbe stato bello vedere una manifestazione “No stragi” invece di una “No Expo”, sarebbe stata umanamente più giusta una manifestazione “Europa sveglia! Facciamo accoglienza”, ma anche la rabbia prende spesso le strade più comode e scontate. La realtà non fa sconti e fa inciampare ogni pigrizia e ogni ideologia. E la realtà ci dice che l’Africa nei prossimi trent’anni è destinata a raddoppiare la popolazione mentre quella europea a diminuire, 2 miliardi contro 700 milioni. Noi europei ci stiamo presentando a questo appello in condizioni disastrose, vecchi, pavidi e dopo aver fatto disastri negli anni scorsi in terra africana. Non ci sono soluzioni magiche, ma sono possibili molti passi avanti. Per questo come Vita abbiamo sostenuto l’appello di Johnny Dotti alla società civile: “Dobbiamo osare sfidare nella concretezza l’Europa, consapevoli del valore della posta in gioco.

Destiniamo liberamente nel 2015 a questa intenzione: metà dell’8 per mille destinato alle chiese in primis quello alla chiesa cattolica, metà del 5 per mille, metà dei fondi mutualistici cooperativi, metà del tesseramento del sindacato, metà delle erogazioni delle fondazioni bancarie, metà dei fondi di categoria sulla formazione permanente, metà degli utili che le nostre aziende ricavano dalle loro attività in Africa, metà dell’attuale finanziamento ai partiti (compresi i rimborsi elettorali e gli stipendi), metà del cosiddetto tesoretto previsto dal governo per quest’anno”. Noi, cosa siamo disposti a dare per un grande progetto nazionale di cooperazione con l’Africa? Proviamo a rispendere con sincerità e fare un passo in avanti?

Apr 2016

Innovare l’idea di giornale, per raccontare l’innovazione

La cover di Vita di gennaio scorso, 2016, tutta un’altra storia, era insieme un auspicio e una promessa. Un auspicio per la vita di tutti sostanziato da tante storie di innovazione e generatività sociale, e una promessa che riguardava innanzitutto noi. L’innovazione sociale, il cambiamento, non possono ridursi ad essere un argomento tra gli altri, devono diventare una pratica anche per chi li racconta, una sfida per il nostro stesso lavoro di giornalisti. Quando immaginammo quella copertina era da poco aperto il cantiere, coordinato dal nostro art director Matteo Riva e partecipato da tutta la redazione, da cui oggi esce un magazine del tutto nuovo nella concezione, nel disegno, nel linguaggio e nelle sue caratteristiche cartotecniche.

Abbiamo lavorato con una convinzione: che Vita dovesse raccontare l’innovazione provando a innovare a sua volta l’idea di giornale. «Non possiamo pretendere che le cose cambino se continuiamo a fare le stesse cose di prima», diceva con una delle sue uscite fulminanti Albert Einstein. Per questo dovevamo noi stessi rispondere per primi alle domande che il tempo ci impone: come raccontare

un mondo che cambia a una velocità così rapida? Come rispondere alla crisi di lettura che sta mettendo in crisi il mondo dell’editoria?

Più qualità. Oggi l’unica arma a disposizione della carta è la qualità dell’informazione che propone, la sua indipendenza, la capacità di leggere la realtà senza schemi, l’attenzione a offrire ai lettori strumenti e informazioni adatte a capire un mondo in rapida trasformazione. I nemici sono la retorica e la tentazione dell’autoreferenzialità. Non basta parlare di sostenibilità, responsabilità, solidarietà, imprenditoria sociale, economia civile bisogna documentarle, spiegarle, raccontarle, farne sentire non solo la giustezza e la necessità, ma il fascino, la bellezza, e tutta l’attrattiva. Per questo occorre anche la disponibilità e la fantasia nell’adottare linguaggi nuovi, nell’affrontare in maniera imprevedibile situazioni che magari sono prevedibili. Vedrete già in questo numero alcune soluzioni innovative, grazie alla collaborazione ormai consolidata con alcuni tra i più importanti e apprezzati illustratori italiani e grazie alla disponibilità di un grande economista come Giulio Sapelli, che in questo numero diventa per noi il protagonista di un fumetto.

Una visione del mondo. Nelle tante letture fatte in questi mesi ci ha colpito la frase di uno tra i cofondatori di Good, Casy Caplowe: «Penso che solo le riviste, ancor di più oggi, possano essere un manifesto per una comunità di lettori e utenti, un manifesto in cui riconoscersi come comunità di intenti e di pratiche, perché solo con una rivista si può confezionare un’idea e una visione del mondo che l’online non riesce a trasmettere». Vita da sempre propone una visione del mondo e dei valori da condividere. Il salto che vogliamo fare con il nuovo magazine è quello di allargare la nostra tradizionale comunità di lettori conquistandone di nuovi alla ragionevolezza e alla praticabilità delle nostre ragioni e delle esperienze che racconteremo. A partire da tanti nuovi collaboratori. Vita sarà un giornale-periscopio, che guarda fuori e oltre gli orizzonti consueti: un giornale che narra con entusiasmo tutte le forme di innovazione, sociale, culturale, di costume o di stili di vita. Un giornale

a grandangolo, aperto all’esplorazione delle tendenze che segnano il nostro tempo, senza pregiudizi, che si rivolge ad un pubblico trasversale, attivo, attento alle innovazioni, curioso rispetto a ogni forma di esperienza, capace di cambiare in meglio la vita di tutti.

Quello che avete tra le mani oggi è il risultato del nostro lavoro e della nostra sfida. Lo abbiamo chiamato “bookazine”. Qualcosa di più di un giornale. Perché affascinante ed esaustivo come solo un libro può esserlo. Qualcosa di più di un libro, perché sensibile ai fenomeni e alle tendenze di un mondo che cambia, come solo un giornale sa fare. È il nuovo Vita, un mensile che esce con l’ambizione di farsi leggere per molto più di un mese. Il bookazine è diviso con chiarezza in tre sezioni. La prima, Forward, è affidata a grandi firme e racconterà l’innovazione sparigliando sui più diversi fronti: dalla mobilità al food, dalla finanza alla televisione, dalla tecnologia alla comunicazione, dalla creatività alla politica. Una sezione caleidoscopica, tutta proiettata in avanti per immaginare le sfide e gli scenari di domani. La seconda sezione è il cuore del giornale, il Book dedicato al tema del mese. L’intento è quello di fornire al lettore contenuti caratterizzati da completezza e affidabilità. I temi sono scelti guardando ai fenomeni che stanno cambiando la nostra vita. Si parte con il boom del welfare aziendale, 50 pagine per analizzare il fenomeno e raccontarlo. Il giornale si chiude con uno sguardo a ciò che è appena accaduto, in una sezione chiamata Rewind, disegnata con la scansione a sezioni propria di un quotidiano, per ragguagliare i lettori in modo sintetico sui fatti di rilevanza sociale che hanno segnato il mese trascorso, stimolare consapevolezza e cambiamento. Sino a qui, noi; ora tocca a voi. Aspettiamo i vostri commenti e contributi.

Riccardo Bonacina e Giuseppe Frangi

Giu 2016 I sogni che la riforma realizza

Dopo un percorso di quasi due anni (fu approvata dal Consiglio dei ministri il 10 luglio 2014) la Legge delega di Riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e del Servizio civile ha finalmente avuto il via libera dal Parlamento.

È la legge migliore? No, si poteva avere più coraggio spingendo un passo più in là gli aspetti innovativi che la delega comunque contiene. È però la miglior legge possibile in un contesto che ha visto il Parlamento attardarsi in discussioni lunari improntate più alla demagogia politica e di parte e a una concezione del bene pubblico ancora coincidente (ancora!?) con l’iniziativa statale. Impressionanti da questo punto di vista le posizioni del Movimento 5 Stelle che in ogni occasione ha dimostrato di guardare al Terzo settore non come motore di cambiamento culturale ed economico ma come mera croce rossa sociale non rendendosi neppure conto che questo è il più grande regalo che si può fare ai signori del profitto che vorrebbero speculare anche sui bisogni dei poveri e dei malati. Il contesto in cui il cammino della Riforma si è svolto, sottolinea Luigi Bobba sottosegretario alle Politiche sociali che

è stato un tenace e intelligente protagonista del lavoro di scrittura e di ascolto in questi due anni – “un viaggio per lo stivale che ha coinvolto migliaia organizzazioni non profit” – , ha dovuto fare i conti anche con la paura del cambiamento di una parte residuale del non profit italiano adagiata su posizioni di rendita sempre più fragili e incerte.

In ogni caso il via libera definitivo alla legge delega di Riforma segna una vera svolta per il Terzo settore italiano che davvero, come ha titolato in prima pagina Avvenire, ora può “farsi primo”. La Riforma rende possibili almeno tre sogni per cui Vita e le organizzazioni del suo Comitato editoriale si sono battute in questi anni spiegando in ogni occasione e con ogni mezzo le ragioni per cui le energie sociali andavano liberate e non imbrigliate se davvero si voleva procedere alla più importante opera pubblica (non statale ma pubblica, ovvero che riguarda i modi di vivere di tutti noi): quella di costruire un’infrastruttura sociale capace di rigenerare coesione sociale, fiducia e percorsi economici e di produzione di beni e servizi non orientati alla massimizzazione dei profitti ma piuttosto orientati all’impatto sociale.

Il primo sogno che ora si realizza è che il Terzo settore viene definitivamente tolto dal regime concessorio cui il Codice civile del 1942 (Libri I, Titolo II), ovvero fascista, lo costringeva. Ora il Terzo settore italiano avrà finalmente un pavimento civilistico su cui appoggiarsi e su cui appoggiare la sua crescita. Un pavimento civilistico che oltre a definire cosa il Terzo sia: “il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi” (art. 1), rende possibile una legislazione unitaria, un Codice unico del Terzo settore e un Registro unico, un Organismo di rappresentanza istituzionale. Basta con i 300 registri (nazionali, regionali,

provinciali), il Terzo settore ha bisogno di semplificazione e i cittadini di trasparenza.

Il secondo sogno che ora diventa possibile è quello di una vera impresa sociale capace di assumersi le grandi sfide che abbiamo di fronte, la gestione di beni pubblici (beni artistici e culturali, acqua, mobilità, nuovo welfare), la creazione di nuova occupazione, l’attrazione di investimenti orientati all’impatto sociale, l’internazionalizzazione delle realtà del Terzo settore italiano. Con l’impresa sociale disegnata nella delega diventerà ora possibile non solo la coprogettazione tra Pubblica amministrazione e privato sociale, ma la coproduzione di beni e servizi tra privato sociale, Pubblica amministrazione e investitori privati. Insieme per produrre nuovo valore e nuove risposte a bisogni sempre diversi e urgenti.

Il terzo sogno che si è realizzato, un sogno per cui ci siamo tanto battuti è il Servizio civile Universale, ovvero un Servizio civile che abbia una capienza tale da non dover dire no neppure a un giovane che si voglia impegnare a favore degli altri e della comunità, tendenzialmente un Servizio civile in grado di dire sì ad almeno 100mila giovani. I giovani italiani con un’età compresa tra i 15 e i 29 anni, che non studiano né lavorano, sono 2,3 milioni. Uno su quattro. Il presidente della Bce Mario Draghi teme che l’Europa, nel suo cupo immobilismo, rischi di perdere un’intera generazione. Il dato dell’Istat sui cosiddetti Neet (Not in education, employment or training) ne è una drammatica prova. Il Servizio civile universale è una grande opportunità per favorire l’ingaggio civico di migliaia di giovani. “Un master civile” l’ha definito giustamente Ferruccio De Bortoli. Un master di cittadinanza attiva. Rendendo possibile questi sogni, i sogni dell’Italia che fa qualcosa in più del proprio dovere, questa Riforma rende vivi e praticabili i principi costituzionali espressi negli articoli 2, 3, 18 e 118 ed è per questo che non sbaglia chi definisce questa Riforma come un vero e proprio Civil Act.

Feb 2017

Un’idea d’Italia da difendere

Giustamente, Stefano Zamagni nelle pagine del book di questo mese, sottolinea come «le istituzioni non sono un dato di natura, ma regole del gioco economico che vengono fissate in sede politica. Se la fame dipendesse da una situazione di scarsità assoluta delle risorse, non vi sarebbe altro da fare che invitare alla compassione fraterna ovvero alla solidarietà. Sapere, invece, che essa dipende da regole, cioè da istituzioni, in parte obsolete e in parte sbagliate, non può non indurci ad intervenire sui meccanismi e sulle procedure in forza delle quali quelle regole vengono fissate e rese esecutive». Per combattere la fame, per incidere sulle cause delle migrazioni forzate che interessano più 60 milioni di persone, non bastano quindi le azioni di advocacy o di denuncia, pur necessarie quando sottolineano che se la povertà assoluta è diminuita dal 1980 ad oggi è aumentata invece la povertà relativa ovvero la diseguaglianza tra chi è ricco e chi è povero (8 super ricchi possiedono una ricchezza pari a quella che si distribuisce la metà più povera del pianeta). Occorre che le organizzazioni della società civile e di chiunque ha a cuore un futuro sostenibile e più giusto,

assuma sempre più decisamente un ruolo di policy-making. Bisogna cambiare approccio e visione, generare nuove istituzioni e farle crescere, dotarsi di nuovi strumenti e far funzionare quelli che ci sono ma che restano solo sulla carta.

Questo numero fa il punto su un’Italia che negli ultimi due anni ha deciso di non restare a guardare sonnecchiando ciò che succede ai nostri confini, l’Italia della cooperazione allo sviluppo che è fatta da ong, da imprese, da fondi di investimento e da milioni di persone per cui la solidarietà non resta un’intenzione. È un’Italia che si è adoperata anche con scelte politiche e parlamentari che hanno messo in campo una nuova legge (la n. 125/14) che ha cambiato il nome del nostro ministero degli Esteri che oggi si chiama ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, nuovi strumenti (l’Agenzia italiana della cooperazione allo sviluppo), più fondi (si veda l’infografica a pag. 30), muovendosi sulla frontiera dell’innovazione (per esempio le prospettive di partnership tra profit e non profit aperte dalla nuova legge che stimolano non solo gli atti donativi ma anche meccanismi di immedesimazione e di attivazione collettiva) e facendo sentire la propria voce anche a livello europeo. Come ricorda sin dal suo primo articolo la Legge 125 approvata all’unanimità dal Parlamento: “la cooperazione allo sviluppo è parte integrante e qualificante della politica estera italiana”.

Tutto questo è stato reso possibile grazie ad un consenso diffuso su una visione del mondo e del possibile ruolo del nostro Paese, grazie alle battaglie della società civile, all’ascolto della politica, a un comune sentire della maggioranza degli italiani che vogliono un Paese che non si rinchiuda in protezionismo egoista, che chiedono che la questione dei migranti sia affrontata seriamente mettendo in campo politiche vere di integrazione. Un Paese aperto, serio e cosciente dei problemi, impegnato in politiche di sviluppo in Africa, cosciente che alla globalizzazione dei predatori bisogna opporre una globalizzazione della solidarietà.

Ora proprio in questo anno appena cominciato, il 2017 che verrà ricordato come un anno di opportunità irripetibili per l’Italia. Con l’assunzione della presidenza di turno del G7 che raggruppa le sette nazioni più ricche al mondo e l’accesso a un seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, tutto ciò che si è faticosamente costruito rischia di essere messo in pericolo e in discussione. Il mondo sta barcollando. Le prime uscite del neo presidente degli Usa, Donald Trump, sono solo un assaggio della nuova politica estera statunitense (il muro con il Messico e il bando all’immigrazione da 7 Paesi islamici). Putin fa Putin, e Pechino affila le armi per la guerra commerciale lanciata da Washington. Di mezzo, c’è l’Unione europea, impelagata in una crisi economica senza fine e che da tempo ha smarrito i fini del suo essere insieme.

Come rispondere a sfide così imponenti? «Principalmente con la pace e lo sviluppo sostenibile», sostiene il nuovo Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres. O come ricorda l’articolo 11 della nostra amata e bella Costituzione, «la cooperazione allo sviluppo contribuisce alla promozione della pace e della giustizia e mira a promuovere relazioni solidali e paritarie tra i popoli». Rimbocchiamoci le maniche non solo per difendere questa visione dell’Italia, ma per promuoverla dentro e fuori i nostri confini.

Mag 2017 Ong in mare e il reato di solidarietà

Non dimenticherò mai quando, a fine febbraio 2016 il Comandante in capo della squadra navale mi introdusse (credo anche violando qualche regola) per pochi minuti nella Centrale operativa della Marina Militare, cuore del Comando della Squadra Navale che ha sede a circa 20 chilometri da Roma. All’interno della struttura blindatissima un megaschermo con una mappa geografica elettronica in cui ogni presenza e movimento nel Mediterraneo viene monitorata e seguita. Indicandomi il pullulare di presenze sul megaschermo l’Ammiraglio, non riuscendo a mascherare una profonda tristezza, chiosò: «Non solo in mare raccogliamo decine e decine di cadaveri, ma qui ci tocca assistere impotenti a naufragi, spesso anche provocati, a poche miglia delle coste libiche. Quando sui mass media scrivete i numeri dei morti nel Mediterraneo, lei si ricordi di moltiplicare almeno per dieci quel numero. Sa quanti tra noi sentono questo peso che neppure i supporti psicologici riescono a toglierci?».

Cari lettori, facciamolo assieme questo esercizio: nel 2016, 4.733 morti nel Mediterraneo (fonte Unhcr); 1 gennaio – 23 aprile 2017, 1.089

morti di cui 160 bambini (fonte Oim)! Quel che resta di umano nel nostro cuore e nella nostra testa sente lo scandalo provando a dare un nome, un volto, una storia a quelle decine di migliaia di uomini, donne e bambini in fuga da povertà, carestie, guerre? Se stiamo ormai scivolando verso l’abitudine, l’indifferenza, il cinismo, facciamoci aiutare dalle immagini dei pochi che hanno documentato questa strage continua che si perpetua ormai da anni.

Pensavo a questo di fronte alla vergognosa campagna contro le Ong impegnate nel soccorso nel Mar Mediterraneo, per un totale di imbarcazioni impegnate quotidianamente che varia tra le otto e le tredici e che operano, è utile sottolinearlo, sotto il coordinamento e le indicazioni della Guardia Costiera italiana (Mrcc). «Ci rifiutiamo di restare a guardare dal molo» si legge nei siti delle Ong sotto attacco. E un comunicato di tutte le reti delle Ong recita: «L’aumento drammatico delle morti in mare e le migliaia di salvataggi a seguito dei naufragi dei barconi dei trafficanti – dovuti anche alla mancanza di canali regolari di ingresso in Europa – sono da alcuni ormai considerati una normalità e si rischia l’assuefazione a queste tragedie evitabili e alle sofferenze che esse comportano. Ma c’è chi, nella società non accetta questo tipo di “normalità” di chi si rifiuta di guardare la realtà e di affrontarla salvaguardando i valori di umanità e solidarietà, che sono la base della nostra convivenza». Il dilemma etico e umano è proprio questo: restare a guardare dal molo o girarsi dall’altra parte di fronte alla carneficina o attivarsi per salvare vite umane? Questo è il primo punto imprescindibile. Nel 2016 grazie all’impegno coordinato di Guardia Costiera, Marina Militare, navi delle Ong e, in misura minore, da Frontex sono stati salvati 178.415 migranti, nel 2017 (al 23 aprile) 35mila. Ora questo impegno che dovrebbe renderci orgogliosi è da qualche settimana sotto attacco a causa di una ben orchestrata campagna media all’insegna delle fake news, dell’attivismo mediatico del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, e di uno scatenato vice presidente della Camera Luigi Di

Maio secondo cui le navi delle Ong sarebbero “taxi” per migranti verso l’Italia organizzati in combutta con i trafficanti di esseri umani. Accuse gravissime, infamanti costruite sulla base di “si suppone”, “ si vuole capire”, “ci sono elementi che lo portano a pensare”, ”ci si domanda come sia possibile”, “parrebbe che”, e altre allocuzioni da bar sport. Allocuzioni che non fanno onore né al magistrato né al vice presidente della Camera che avrebbe al contrario l’onere di presentare una proposta politica seria di soluzione di fronte al fenomeno migratorio e alle condizioni di povertà dell’Africa.

Se gli sforzi di ricerca e salvataggio in mare venissero interrotti, non diminuirebbe il numero dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa, perché non cesserebbero i motivi che spingono uomini, donne e bambini a rischiare la vita in mare pur di non morire nei loro Paesi di origine o in Libia, né cambierebbe l’approccio disumano dei trafficanti senza scrupoli. Unica conseguenza sarebbe l’aumento del numero di morti in mare. La presenza di navi che operano per il salvataggio in mare non rappresenta un fattore di attrazione, ma solo un modo per consentire a un numero maggiore di persone di sopravvivere. Forse per coprire il fallimento delle politiche europee e nazionali si è pensato bene di introdurre oltre il reato di clandestinità anche il reato di solidarietà. Reagiamo per favore, prima che sia troppo tardi.

Nov 2017

#iostoconvita Una nuova stagione per il non profit: la produzione di valore

Il 69% dei ragazzi italiani di età compresa tra i 18 e i 24 anni crede che il Terzo settore svolga un ruolo fondamentale nel nostro Paese ci dice un’indagine realizzata da Swg per analizzare la conoscenza e la rilevanza del settore non profit e la percezione del nuovo ruolo dell’impresa sociale e delle nuove forme di economia collaborativa presentata alle Giornate di Bertinoro. E questa è già una bella notizia.

Ma quello che più sorprende in questa indagine è che poco meno del 20% di quegli stessi ragazzi pensa che dopo la Riforma, il Terzo settore potrà davvero rappresentare un’alternativa praticabile per il futuro dell’economia, di un’economia diversa, più giusta, con al centro la persona umana e il senso del lavoro. Ovvero, tra i giovani si fa largo una coscienza nuova che guarda al Terzo settore, come forma d’impresa, come esperienza di produzione di senso ed anche di valore economico, come «modello su cui innestare nuove forme di economia collaborativa e comunitaria», come ha giustamente notato Paolo Venturi.

Finalmente, il Terzo settore comincia ad essere guardato non come il recinto dei buoni (o peggio dei buonisti), non più come ai

crocerossini pronti all’uso per mettere qualche pezza a fronte dei disastri di Stato e Mercato, ma come a un motore di sviluppo, produttore di coesione sociale e di buona economia capace, se liberato e messo al centro delle politiche di questo Paese, di generare nuovo valore.

Solo tre mesi fa proprio su Vita il premio Nobel Stiglitz aveva detto: “Per cambiare l’economia e ridisegnarne i confini, occorre spingere sul Terzo settore, sulla sua capacità di agire sul legame sociale e di produrre valore condiviso e inclusivo”. Ora, il percorso della Riforma del Terzo settore giunto a compimento (parziale, poiché mancano i provvedimenti amministrativi attuativi) disegna un contesto normativo che, per la prima volta, dota la popolosa realtà della terra di mezzo di un diritto e un codice del non profit. Come più volte qui abbiamo sottolineato si tratta di una svolta epocale e ambiziosa che sarà bene capire bene, imparare, per sfruttare l’ampio spettro di opportunità che essa offre a donatori, investitori, imprese sociali, giovani che si vogliano impegnare al servizio delle proprie comunità. Per questo Vita, gettando il cuore oltre l’ostacolo, ha voluto proporre un corso di formazione in e-learning, in collaborazione con l’Università telematica Uninettuno, per aiutare e sostenere un percorso di comprensione efficace (le info sul corso alle pagg. 22/23) grazie alla disponibilità di docenti di prestigio e direttamente impegnati nei tavoli preparatori delle nuove norme.

Ma per non perdere questa nuova sfida e per non tradire questa fiducia che soprattutto i giovani dimostrano, sarà decisiva la creatività delle realtà di Terzo settore, il loro coraggio, il coraggio dei nuovi imprenditori sociali e la loro effettiva capacità di includere i mondi vitali che circuitano nella terra di mezzo fra Stato e Mercato e la volontà di effettuare investimenti significativi su competenze e culture digitali e comunque su progetti e servizi davvero innovati.

Nella realtà esiste un processo di ibridazione che tende sempre più a caratterizzare le relazioni tra le aree del Pubblico, del

Mercato e del Terzo settore. L’area di maggior contatto tra Enti Pubblici e realtà di Terzo settore è quella del profilo soggettivo e delle finalità; entrambi i soggetti perseguono la non lucratività e la pubblica utilità. Sconfinamenti e ibridazioni già in essere anche nel rapporto tra soggetti del Mercato ed enti di Terzo settore. Le nuove norme riconoscono alle realtà di Terzo settore la possibilità di svolgere attività economica e di redistribuire parzialmente gli utili, alle società di mercato è riconosciuta la possibilità di perseguire scopi non lucrativi come nel caso delle Società Benefit.

Sconfinamenti e ibridazioni che il nuovo quadro normativo prova a regolare ma che di fatto non scoraggia aprendo una possibile nuova stagione. Quella della coproduzione di valore sociale ed economico tra soggetti diversi che si obbligano reciprocamente rispetto alle proprie comunità.

Partecipare, donare e coprodurre costituiscono da sempre il “dna” del Terzo settore. Oggi, questo nucleo di principi e paradigmi grazie alla trasformazione radicale dei meccanismi di produzione del valore sociale in seguito all’emersione di nuove motivazioni e bisogni può uscire dal recinto in cui è stato costretto per troppi anni e contagiare ampi settori di economia e società. Siamo nel “già” (gli esempi sono già tanti) e “non ancora” ma una nuova stagione oggi pare davvero possibile per le istituzioni non profit capaci di vincere la sfida della modernità ricombinando equità e tecnologia percorrendo sentieri non battuti mossi dal desiderio di generare un cambiamento reale.

Una nuova stagione che Vita può e deve accompagnare, per questo anche questo mese, per l’ultima volta, chiediamo il vostro sostegno con abbonamenti sostenitore, se l’avete già fatto proponetelo agli amici. Per farlo andate qui: iostoconvita.vita.it/it/crowdfunding. Grazie

Gen 2018 #noslot Così l’azzardo legale devasta le comunità

Bisogna avere rispetto. Rispetto per chi, sui territori, tra mille difficoltà e con difetti e tempi e limiti propri di ogni azione dell’uomo, lavora a una lenta ricucitura di un legame sociale sempre più sfibrato e senza il quale nessuna ipotesi di comunità può non solo sopravvivere ma addirittura immaginarsi. Quel legame sociale che è oggi messo più che mai sotto scacco dal fiume di denaro legato all’azzardo legale. Novantasei (96) miliardi metà dei quali legati al machine gambling – parliamo di circa 470mila macchinette sparse per tutto il Paese – fruttandone quasi 10 a uno Stato autolesionista.

Nel luglio scorso, Vita (per una felice intuizione di Marco Dotti) ha lanciato una campagna di trasparenza alla quale hanno risposto migliaia di amministratori locali. Sindaci, consiglieri, associazioni che hanno chiesto ai Monopoli di Stato – l’ente di scopo che controlla il settore – di avere i dati relativi al loro territorio sul flusso/ consumo di denaro legato all’azzardo legale. I numeri parlano e spiegano solo quando incontrano i territori. Abbiamo scoperto le cifre di Milano (quasi 4 miliardi), di Roma (quasi 6) e quelle allarmanti della

provincia, con paesini di 4-5 mila abitanti e volumi d’affari letteralmente incredibili.

Abbiamo anche scoperto che la Bce, la Banca Centrale Europea, nella sua politica di sostegno all’economia finanziava l’azzardo acquistando corporate bonds (obbligazioni) di Novomatic, uno dei principali attori dell’azzardo legale. Il cerchio si chiude e il 23 gennaio Vita sarà al Parlamento europeo per chiedere conto di questo vulnus terribile.

Ma non basta. Non basta perché sono molti i sindaci, consiglieri comunali o assessori, e associazioni che si sentono lasciati soli. E ci scrivono, perché l’Anci tace, il ministero dell’Economia promette ma poi più che fare, disfa. Ci scrivono da Savignano in provincia di Modena, da Brescia, da Seriate, in provincia di Bergamo, da Mezzanino, in provincia di Pavia, un comune sconvolto dal fatto di aver appreso –proprio grazie a una nostra inchiesta – la cifra mostruosa della spesa in azzardo dei suoi cittadini, come ci scrive il sindaco Gianluigi Zoppetti. Cittadini e amministratori che hanno capito lo spirito del nostro lavoro e ci hanno chiesto aiuto per agire, per intervenire. Associazioni come le Acli di Piacenza che ci scrivono: «A Piacenza nel 2016 sono stati buttati nel gioco 244.944.734,46 euro, più della metà dei 466.073.521,96 euro giocati complessivamente in tutta la provincia, con una media per abitante (neonati compresi) di ben 2.401 euro che diventano l’astronomica cifra di 5.172 euro se rapportato ad ognuna delle famiglie residenti (47.357 secondo i dati Istat 2016). Non possiamo stare a guardare!»

E poi c’è la Regione Piemonte che ha tenuto testa alle pressioni di Roma che voleva indurla a sospendere l’applicazione della sua legge di contrasto all’azzardo, la più efficace e coerente d’Italia. Ma questa Italia che sa dire “no”, quando i “no” servono, sa anche dire “sì”, quando i “sì” sono necessari. E il “sì” è per un cammino che vogliamo, dobbiamo proseguire assieme.

E ancora: Orzinuovi, in provincia di Brescia, 12mila abitanti e un

consumo in azzardo di 42milioni di euro o Pavia, tornata in questi anni a livelli spaventosi: 230mila abitanti e 170 milioni di euro bruciati in azzardo. Savignano sul Panaro, comune di 10mila abitanti additato come “la Las Vegas dell’Emilia” con i suoi 2.200 euro pro capite spesi considerando solo le macchinette. Ma il suo sindaco, Germano Caroli, lista civica, non ci sta a piegare il problema a una bega di partito e rilancia chiedendo alla società civile una mano per provvedimenti che non meramente di facciata. O a Seriate (38 milioni bruciati nel 2016), provincia di Bergamo, o a Gonzaga, provincia di Mantova, dove però i provvedimenti no slot hanno già permesso di ridurre il consumo in azzardo di oltre due milioni di euro, intervenendo soprattutto sulle macchinette.. Bisogna aver rispetto per chi, dinanzi a queste voragini, non guardandole da lontano, ma trovandosi nel mezzo, si trova a dover agire senza supporto che non venga dalla società civile. Quella minuta società che, senza gerarchie e spesso senza rappresentanze, ogni giorno si muove, nel concreto e nell’attrito quando non nel manifesto contrasto delle istituzioni centrali. Sono molti, oggi, i sindaci e gli amministratori che si sentono giudicati, sotto attacco. Si dice «si muovono in un vuoto legislativo». Non è così. Si muovono nel completo abbandono da parte di troppe istituzioni.

Insegnava Danilo Dolci che esiste una fondamentale differenza fra trasmettere e comunicare. C’è l’unidirezionalità del trasmettere. E c’è la bidirezionalità del comunicare. C’è chi cala dall’alto informazioni che, dal basso, istituzionalmente, è quasi impossibile avere. E chi col basso comunica interagendo e imparando. Noi speriamo di muoverci sempre lungo questa strada. Conoscono i nostri sindaci, i nostri bravi amministratori, le donne e gli uomini di volontà e passione quanto sia arduo avere a che fare con la palude del parastato romano. Eppure ci provano. Se una speranza viene, viene da questo “fuori” che chiamiamo provincia.

Vi auguro un anno di buone battaglie.

Mag 2018 Intelligenza artificiale. Qui ci vuole un pensiero

Tutto ciò che è tecnicamente possibile prima o poi accade. Ma non tutto ciò che accade ci fa bene ed è per noi. Per questo va gestito. La questione etica e sociale è tutta in questa possibilità di gestire, per non essere gestiti. Sapendo che le tecnologie emergenti stanno davvero riconfigurando le relazioni umane, i rapporti sociali, le idee stesse di reciprocità, di dono, di cura e di scambio. Fra queste tecnologie, la più radicale per il suo impatto sulla vita quotidiana, in termini di lavoro, salute, ma soprattutto per l’idea di umanità o disumanità che veicola sembra essere rappresentata da quel progetto di innovazione e ricerca che passa sotto il nome di Intelligenza Artificiale (Artificial Intelligence). Che muove da un’idea: la mente dell’uomo – e, in definitiva, l’uomo stesso – non è che un aggregato di computazione e calcolo e, come tale, è replicabile. Gli algoritmi invasivi che sempre più determinano e regolano i nostri ritmi di lavoro e di vita sono un esempio di come la tecnologia non è mai neutra: parte sempre da una visione del mondo. E ogni visione del mondo è, inevitabilmente, una visione dell’uomo. Nel caso dell’Intelligenza artificiale, la visione (dell’uomo e

del mondo) parte da una concezione radicalmente riduzionistica della mente e della coscienza. Considera l’uomo come un aggregato di automatismi e potenza di calcolo: ma poiché questa potenza nella macchina è, inevitabilmente, più veloce e più grande allora finisce per considerare l’uomo subalterno alla macchina. Che ne sarà dell’uomo, se l’uomo consegnerà le chiavi del suo mondo a software e algoritmi di Intelligenza artificiale, che replicano l’arroganza della biblica Torre di Babele? La profezia è stata delineata chiaramente dal grande astrofisico Stephen Hakwing, che a questo proposito osservava: «Se vorremo costruire macchine capaci di apprendere e di modificare il comportamento in base all’esperienza, dovremo accettare il fatto che ogni grado di indipendenza fornito ad esse potrebbe produrre un uguale grado di ribellione nei nostri confronti. Una volta uscito dalla bottiglia, il genio non avrà alcuna voglia di ritornarci, e non c’è motivo di aspettarsi che le macchine siano ben disposte verso di noi. In breve, solo un’umanità capace di rispetto e deferenza sarà capace di dominare le nuove potenzialità che ci si aprono davanti. Possiamo adottare un atteggiamento umile e condurre una vita buona con l’ausilio delle macchine, oppure possiamo adottare un atteggiamento arrogante e perire». Il nostro dovere non è solo pensare, ma pensare fino in fondo. Per questo, per capire ciò che ancora non riusciamo a capire ci siamo rivolti a un vero maestro: Roger Penrose (il prof che incoraggiò proprio Stephen Hakwing a Cambridge e di cui diventò collega). Vita, grazie a un gruppo di lavoro che vede coinvolto il nostro Marco Dotti, a cui questo editoriale deve molto, insieme all’economista Marcello Esposito e al fisico Fabio Scardilli, ha chiesto a Penrose di spiegare, in una conferenza pubblica che unirà rigore e passione, rivolta a tutti e non solo agli specialisti, perché l’uomo è ben più che potenza di calcolo, è tensione all’infinito. L’uomo, ci spiegherà Penrose il 12 maggio, in un incontro di eccezionale portata internazionale al Centro Congressi Cariplo di Milano, è intuizione, sorpresa, scarto laterale: non calcola,

pensa. Non computa, ma si rapporta all’altro. E con l’altro. Questo lo fa uomo. A sir Roger Penrose, professore emerito a Oxford, abbiamo chiesto un aiuto: come pensare, oggi, con quell’atteggiamento umile invocato da Hawking una possibile mediazione con la rivoluzione tecnologica prossima ventura? Come porci nel mezzo e gestire con sano pragmatismo ciò che accade, abbandonando inutili entusiasmi e altrettanto inutili paure?

Se l’Ai prenderà piede, non dovrà farlo a discapito dell’uomo. La tecnologia, lontano dal catastrofismo, potrà aiutare moltissimo la società. Ma va orientata e va pensata. Non può, in quanto mezzo, darsi fini da sé. I fini le devono venire da fuori. Dall’uomo, appunto. La tecnologia, e in particolare l’Ai, impatterà – questo è certo – sul mondo del lavoro, in termini di occupazione. Sulla sanità, in termini di relazione. Sulla scuola, in termini di educazione e apprendimento. Il tema è fondamentale, per la tenuta della nostra società e pensarlo è urgente. Come ha recentemente sottolineato Emmanuel Macron parlando al Collège de France: «Finché la tecnica serve il bene comune non ci sono problemi.

Ma le innovazioni radicali non devono corrompere l’esigenza democratica. Dobbiamo garantire un dibatto democratico e indipendente, favorendo quella mediazione che solo una società civile consapevole dei propri compiti e dell’urgenza di ripensare il presente può ancora garantire»

Solo il sociale può orientare questo processo di innovazione. Il sociale è chiamato a un grande compito: non rifiutare apocalitticamente le tecnologie (sarebbe folle); non accettarle aprioristicamente (sarebbe stupido). Ma pensare. Perché il pensiero vince sempre sulla macchina.

Giu 2018 Un giornale unico e necessario. Per il bene comune

Carissimi lettori, lo scorso luglio scrivevo: “Vita sta attraversando un frangente molto difficile e delicato a causa dei comportamenti di un amministratore contro cui l’Assemblea dei soci ha deliberato un’azione di responsabilità e di una situazione di contesto e di settore davvero negativa. Per affrontare queste difficoltà e per poter superare le rilevanti difficoltà finanziarie presenteremo la domanda di Concordato in continuità. Per mettere in salvaguardia ciò che abbiamo costruito insieme, noi e voi, in 23 anni e per poter rilanciare la nostra azione. Un’azione in cui abbiamo creduto e in cui, ora più che mai, continuiamo fermamente a credere sapendo di non essere soli. Sapendo di aver provato in ogni frangente a rigiocare il nostro Dna e la nostra missione sulle frontiere dell’innovazione e qualche volta anche della provocazione. Certo, anche sbagliando, ma mai stando fermi o seduti, guadagnandoci ogni volta un pezzo di futuro mettendoci in gioco. In tutti questi mesi mi hanno confortato due cose. Da una parte la qualità del nostro lavoro di produzione di contenuti e di organizzazione culturale che non ha subito

contraccolpi da una situazione difficile grazie allo splendido lavoro della redazione. Dall’altra il legame con le organizzazioni non profit che partecipano in prima persona al nostro lavoro di informazione che è diventato ancor più operativo e stringente”.

L’anno che è trascorso da quell’editoriale ha confermato ancor di più la crescita del gruppo redazionale e della sua guida operativa, Stefano Arduini, che non ha arretrato di un millimetro nella quantità e qualità del lavoro di informazione restituito ogni giorno e ogni mese ai nostri lettori e ai nostri stakeholders. Anzi. Il numero di utenti di vita.it è cresciuto del 20%, il numero di abbonati del 16%. La nostra traversata della crisi non è finita ma in questo anno travagliato sono state poste le basi per una via di uscita. La mia e nostra prospettiva non è quella di una scappatoia ma quella di una vera rinascita che implica il rilancio del nostro più autentico Dna, quello di essere un’impresa partecipata ad azionariato diffuso per poter offrire a tutti un luogo di incontro indipendente ed imparziale. Anche per questo il percorso è così lungo.

Vita deve diventare sempre più luogo indipendente che strutturi occasioni mediatiche e fisiche di scambio e di dibattito, anche critico, della società intera in un frangente tanto delicato per il nostro Paese. Per questo diventeremo un’impresa sociale secondo i dettami della Riforma del Terzo settore, ovvero un’impresa in cui le realtà di Terzo settore siano proprietarie della nostra Società.

Per favorire questi passaggi ho ritenuto fosse giusto procedere anche ad un cambio generazionale che valorizzasse la guida del gruppo redazionale, per questo ho proposto al CdA di Vita di nominare direttore responsabile Stefano Arduini che in questi anni ha guidato il lavoro della redazione con una passione totale e una piena consapevolezza di cosa significhi la storia di Vita. Come ho scritto a Stefano comunicandogli la nomina: «Siamo certi che sotto la tua direzione quanto costruito dal 1994 ad oggi, i valori codificati nel codice etico e le relazioni

generate sapranno dar vita ad una nuova stagione rispettosa della storia e insieme nuova». Io resterò al suo fianco, insieme a Giuseppe Frangi che con me ha condiviso in questi anni la direzione, per accompagnare il suo lavoro e i cambiamenti previsti.

Nov 2019 25

Ben 25 anni fa, quando fondammo Vita, il sogno, come scrivemmo sul numero zero nell’ottobre 1994, era quello di «un giornale capace di muovere le cose, di cambiarle, se possibile, capace di raccontare la vita intera capendone i problemi e proponendo risposte». Non so se in questi 25 anni siamo riusciti a realizzare il nostro sogno, di certo gli abbiamo dato sostanza, provandoci e riprovandoci ancora. Cambiando direzione quando sbagliavamo, facendoci aiutare dai tantissimi amici trovati sulla strada quando smarrivamo il sentiero. È un compleanno importante per noi, 25 anni sono tanti, particolarmente tanti per un editore indipendente che in questo quarto di secolo ha attraversato cambiamenti tanto veloci quanto radicali. Sono cambiati gli strumenti del lavoro, i supporti delle notizie, le modalità di lettura e di fruizione, da quando abbiamo iniziato è davvero cambiato tutto. Come è stato possibile attraversare questo lasso di tempo e durare nei cambiamenti? Provo a rispondere così.

Passione per la realtà intera

Mi ha molto colpito che Papa Francesco poche settimane fa abbia

detto ai colleghi: «Non abbiate paura di rovesciare l’ordine delle notizie, per dar voce a chi non ce l’ha; di raccontare le “buone notizie” che generano amicizia sociale: ma non raccontate favole, raccontate la realtà». Eccolo nominato il tema vero che abbiamo cercato di mettere al centro della nostra storia: la realtà. Saper stare nel proprio tempo e raccontarlo tutto intero. Riconoscendo il bene senza tacere dell’inferno. Una passione per la realtà intera; nasce da questo la storia di Vita. Non nasciamo per dare “buone notizie” o per proporre le retoriche del lato positivo, o del mezzo pieno, non ci interessa la pur apprezzabile battaglia per le quote di bontà nell’informazione. Non esiste l’informazione buona e quella cattiva, ma solo la buona e la cattiva informazione. L’informazione e la comunicazione hanno regole e linguaggi, mezzi e piattaforme da conoscere e da usare in tutte le loro potenzialità. Per raccontare la realtà intera. Lo scandalo da cui siamo nati è che della realtà si raccontava solo un piccolo pezzettino. Siamo nati non da un’idea ma da una passione, non avevamo idee da propagandare, volevamo solo andare incontro alla realtà per raccontarla stanchi di un modo di fare giornalismo scemo e pigro.

Alleanza tra giornalisti e soggetti sociali

Un secondo nodo della nostra storia è stata l’alleanza costitutiva tra un gruppo di giornalisti e le organizzazioni di Terzo settore. Vita è un’avventura editoriale nata dal basso, dai gruppi sociali intermedi e dalle libere aggregazioni di cittadini.

Fu chiaro sin dal primo giorno che il giornale nasceva su spinta di organizzazioni che non avevano parola nell’agenda setting tutta determinata dalla politica partitica. Per questo il cuore della nostra scommessa è quello che il nostro Statuto definisce come “Comitato editoriale”, ovvero l’aggregazione di organizzazioni non profit che scelgono Vita come piattaforma di comunicazione condivisa, spazio indipendente di confronto e di dialogo con tutti gli attori della vita sociale e produttiva.

Vita è diventata via via, da voce del non profit a voce dell’Italia responsabile, voce di tutti coloro che a prescindere dalle appartenenze, desiderano impegnarsi per costruire una casa comune sostenibile ed equa. Una caratteristica che ha reso Vita una piattaforma indipendente, pubblica e partecipata di informazione riconosciuta da tutti. Mi ha davvero colpito ed emozionato leggere il messaggio che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ci ha inviato e che trovate a pagina 65. Un messaggio in cui, tra le tante cose, riconosce e sottolinea la “capacità di dialogo con cui avete contribuito al cammino della società italiana di questi anni”.

Già, perché il dialogo non è mai fine a se stesso e non è mai esclusivo, si dialoga per cambiare e si dialoga per includere. Si interloquisce con tutti senza pre-giudizi e schierandosi sempre da una sola parte, quella della realtà e del tentativo di cambiare in meglio le cose, generando dibattito e confronto.

Credo che questa esperienza di alleanza tra giornalisti e organizzazioni abbia contribuito a far crescere sia i giornalisti che hanno imparato che non si lavora mai per se stessi, sia per le organizzazioni che hanno capito che la comunicazione non è qualcosa che viene dopo l’azione, ma è un lucido esercizio di presenza nel mondo che sta all’inizio di ogni azione e intrapresa.

Piattaforma di innovazione

La piattaforma multimediale di Vita è stata sin dall’inizio un’infrastruttura di innovazione del Terzo settore per il fatto che da subito ha favorito l’emergere della società civile organizzata nello spazio e nel dibattito pubblico e il suo riconoscimento giuridico e legislativo. Sono state tante in questi anni le battaglie anche legislative, dalla campagna per la deducibilità delle donazioni (Legge 80 del 14/5/2005) alla campagna per la stabilizzazione del 5 per mille norma rimasta per anni misura sperimentale e dalle coperture ballerine, dalla Legge del Buon

Samaritano (Legge 155 del 16/07/2003) sulla distribuzione dei prodotti alimentari ai fini di solidarietà sociale sino alla campagna per il Servizio civile universale, ovvero per un Servizio civile che non dica no ai giovani che vogliono impegnarsi per un anno in attività finalizzate al bene comune.

Ma se l’innovazione sta nei geni di Vita, essa si è dovuta ogni volta produrre e rigiocare a fronte dei tanti cambiamenti attraversati in un arco così significativo di tempo. Dalla scoperta che il sociale non era un tema ma un punto di vista e un modo di fare giornalismo, alla formazione rispetto ai nuovi media e alla piazza social, dalla scelta di passare da una frequenza settimanale a una mensile con l’originale formula del bookazine (una rivista da sfogliare e un libro da conservare) sino al quotidiano online con le sue news, storie e interviste su vita.it.

Per arrivare all’ultima scommessa, quella dei seminari dedicati alle modalità di una nuova narrativa delle realtà non profit, perché se non raccontiamo la nostra storia, qualcun altro la racconterà per noi. Se non usiamo le parole adatte, le parole non si allineeranno alle cose. E le cose – soprattutto le più importanti – resteranno mute. Il capitale narrativo – insieme di parole, pratiche, storie, esperienze – è quanto di più prezioso un’organizzazione possieda e su questo è importante lavorare «Scommettete sulle parole, perché lì si coltiva il senso» ci ha insegnato il grande antropologo Arjun Appadurai.

Queste mi sembrano le caratteristiche di un Dna che ha mostrato una indubbia capacità di resilienza e che è stato in grado di portarci sino a qui, ad un compleanno per nulla scontato.

In questo numero speciale proviamo a rilanciare con domande scomode ai tanti interlocutori che in questi anni ci hanno accompagnato. “Nell’era dei populismi che spazio e ruolo per il Terzo settore? Sarà ancora necessario al cambiamento?”. “E che ruolo per una piattaforma come Vita nei prossimi 25 anni”?

Ott 2020 Il pensiero sociale che ancora manca

Le pacche sulle spalle, gli elogi, i riconoscimenti a partire da quelli del presidente del Consiglio e giù giù sino ai presidenti dei consigli di zona, rappresentano una retorica tanto amplificata quanto effimera e insidiosa per chi è stato, prima e durante il lockdown, e ancora sta, sul fronte del sociale e dei suoi bisogni e delle sue emergenze, pensando di essere qualcosa di più di una buona notizia.

La prova la si è avuta nei mesi scorsi quando negli oltre dieci Dpcm del presidente del Consiglio e nei vari Decreti varati per far fronte alla pandemia di Covid-19 con abbondanza di risorse (100 miliardi), i soggetti sociali sono stati bellamente dimenticati: salvo poi, con due mesi di ritardo e in seguito alle proteste per palese discriminazione, recuperare almeno quelle misure che allineavano il Terzo settore a tutti gli altri (dai negozi alle multinazionali, dagli stabilimenti balneari alle partite Iva). Ma in sostanza, come ha perfettamente sintetizzato Ferruccio De Bortoli su Il Corriere della sera, «In questi mesi si è investito più sui monopattini (120 milioni) che sul Terzo settore (100 milioni)». Durante Covid-19 i soggetti del Terzo settore hanno raccolto ampi riconoscimenti

per ciò che hanno saputo porre in atto nell’emergenza sanitaria e sociale, «Il cuore pulsante della nostra società», disse enfaticamente Giuseppe Conte sul finire del lockdown. Eppure... eppure tutto questo ben di dio di energie, attenzioni, innovazioni persino economiche senza le quali ampi strati della società sarebbero condannati ad essere invisibili e destinati allo “scarto”, per usare una delle tante espressioni forti di papa Francesco, tutto questo resta confinato, per chi ci governa nel campo dei buoni sentimenti e delle buone azioni, svuotato di ogni carica politica e perciò trasformativa, e perciò alla fine irrilevante nello spazio pubblico se non come ruota di scorta per l’esternalizzazione dei servizi al massimo ribasso, o per consegnare pacchi di alimenti e medicinali nelle emergenze.

Questa politica, impregnata da una parte di neo statalismo a 5Stelle con le sue mire di protezione dei cittadini – cittadini che invece chiedono di essere protagonisti attivi – e dall’altra affamata di occupazione di fette di potere più che desiderosa di rimettere in sesto la casa comune, pare non capire, come ha scritto giustamente Aldo Bonomi su Il Sole 24 ore, che il Terzo settore «può essere un agente di sviluppo nei cambiamenti del cosa e del come produrre, nel fare impresa e non solo per il welfare aziendale, ma anche per l’abitare. Purché non lo si consideri solo come un semplice attore di contenimento delle esternalità della nuova normalità, può svolgere un ruolo attivo nel disegnare sostenibilità, green economy e green society». Detto dei deficit della politica, è utile però chiedersi se questa irrilevanza che al massimo si esprime con una sindacalizzazione debole delle sue istanze, non sia anche colpa di un Terzo settore afono dal punto di vista culturale e di pensiero, di un Terzo settore tutto piegato sulla salvaguardia dell’esistente e delle poche fette di fatturato e di piccolo potere locale.

Non può non colpire, per esempio, che tra i 557 progetti presentati per il Recovery Fund nessuno fosse espressione del Terzo settore e tra i numerosissimi progetti dei ministeri neppure uno fosse specificamente

dedicato al sostegno dei soggetti di Terzo settore e alla coesione sociale (uno dei tre assi portanti degli interventi previsti in Francia, per guardare ai cugini). Bisognerebbe porsi una domanda così rilevante su se stessi per provare ad andare oltre le logiche dei tavoli e delle commissioni e per provare a interrogarsi su quale carica ideale e quindi trasformativa resti dentro le organizzazioni. È da leggere l’instant book che trovate su Vita.it che si interroga sul ruolo politico del Terzo settore (http:// www.vita.it/it/magazine/2020/08/30/la-sfida-politica-del-terzo-settore/393/).

In tempi così carichi di minacce e di paure, senza grandi progetti, senza una visione che accenda i cuori e la mente delle persone, dobbiamo chiederci se il Terzo settore e i suoi soggetti sono ancora in grado (lo furono negli anni 80) di restituire fiducia nel futuro individuale e collettivo. Se siano ancora in grado di esprimere grandi progettualità. Non si uscirà dalla crisi drammatica che attraversiamo aggrappandosi ai brandelli del vecchio mondo, ma con una visione che suggerisca come governare l’alba del nuovo. L’autunno si preannuncia assai complicato con il previsto calo dell’occupazione e la chiusura di tante micro attività. Gli attori del sociale sono chiamati ad essere avanguardia di ascolto e innovazione sui territori, e la politica è chiamata, infine, ad ascoltarli se non vuole che le scosse sociali possano coagularsi in rancore senza la mediazione di un’economia inclusiva e capace di redistribuzione di senso e reddito.

Feb 2023 Il seme della pace possibile

Il compleanno della sciagurata e crudele invasione dell’Ucraina da parte della Russia ci pone davanti un catalogo di sofferenze, di crimini, di sangue, difficile da sostenere per gli occhi e per il cuore. Sul corpo della “martoriata Ucraina” come la chiama papa Francesco, e perciò sui corpi dei suoi cittadini, si sono consumate ogni tipo atrocità dall’uso di torture e violenze a quello di ordigni vietati dalle convenzioni internazionali, si sono colpite deliberatamente infrastrutture che permettono un residuo di vita normale come le centrali elettriche, quasi 8 milioni di ucraini sono stati costretti a fuggire all’estero e più di sei milioni hanno lasciato le proprie case e i propri affetti per cercare riparo in regioni dell’Ucraina meno soggette agli attacchi missilistici quotidiani. Decine di migliaia di ragazzi ucraini e russi sono morti negli scontri (si stimano almeno 200mila vittime) e non potranno tentare di dar corpo a ciò che sognavano per il loro futuro. La Russia da autocrazia si è trasformata in un feroce Stato di polizia, in una sterminata caserma, dove si arrestano migliaia di cittadini se si pronuncia o scrive la parola guerra invece che “operazione speciale”, uno Stato da cui i migliori scappano.

Ma l’anno passato da quel 24 febbraio non ci restituisce solo questo catalogo degli orrori, ma anche un’infinità di bene, di azioni che hanno il merito non solo di sostenere le vittime ma anche di indicare la via per un futuro desiderabile, non più di guerra ma di pace e perciò di fraternità. Una fraternità intravista come almeno desiderabile anche se ancora lontana.

Tre settimane dopo quel 24 febbraio, avevo scritto: «C’è una sola cosa da fare, io credo, abbracciare le vittime, soccorrerle, aiutarle, prenderle per mano, accoglierle. Questo deve rubarci ogni energia, ogni anelito, ogni parola. Tantissimi italiani, polacchi, rumeni, moldavi, ungheresi, slovacchi lo stanno facendo, lasciamo i dibattiti a chi sta sul tavolino e al computer o sul divano ora e sempre». Un sentimento e una decisione, ora possiamo dirlo, che è stata la stessa per decine di migliaia di italiani ed europei impegnati nell’accoglienza, nell’aiuto umanitario, nel sostegno financo spirituale. Una catena di solidarietà e di amicizia talmente imponente e diffusa che non bastano 100 libri per raccontarla.

Come scrive Vassilij Grossmann ne “La Madonna Sistina”: «La forza della vita, la forza di ciò che vi è di umano nell’uomo è una forza immensa, e la violenza più estrema e più assoluta non può soggiogare questa forza, perché può solamente ucciderla. (...) Non abbiamo lasciato che morisse ciò che di umano c’è nell’uomo. Guardando la Madonna Sistina, noi conserviamo la fede che la vita e la libertà sono una cosa sola, e che non c’è niente al di sopra di ciò che di umano c’è nell’uomo. Ed è questo che vivrà in eterno, e vincerà».

In queste migliaia e migliaia di azioni pacifiche, nonviolente e solidali sta il seme di una pace possibile, in questa orizzontalità di azione, nell’impasse delle istituzioni preposte (Onu, Ocse, Governi), sta il segno di una speranza praticabile che non lasci solo il campo all’odio cresciuto a dismisura in tutta l’Ucraina e fomentato da una propaganda feroce, ininterrotta e irresponsabile in Russia.

Occupy Ucraina è il titolo di questo numero che sta a indicare quanto

quella marea di azioni nonviolente sia riuscita a riempire l’Ucraina abbracciandola nei suoi bisogni e che insieme nomina un auspicio, quello di un desiderio forse un po’ visionario ma reale, quello di invadere l’Ucraina con la presenza di milioni di cittadini europei come forza di interposizione che impedisca il protrarsi delle violenze. Anche rilanciando una battaglia politica in Italia e in Europa quanto mai necessaria, quella dei Corpi civili di pace proposti da Alex Langer nel 1994 e mai davvero realizzati e ancora nel limbo delle buone intenzioni e di una interminabile sperimentazione.

Un anno dopo è certamente più chiaro che significa essere uomini e donne di pace. Cosa significa educare alla pace ed essere artigiani di pace. Non è pacifista chi urla slogan a favore della pace, ma chi fa qualcosa di concreto per produrre pace. Non è guerrafondaio chi sostiene che gli ucraini hanno il diritto di difendersi dall’aggressore anche con le armi, ma chi pensa che le armi siano l’unico modo per reagire all’aggressione russa. Nell’anno trascorso si è consumato il passaggio dall’essere pacifisti parolai e presuntuosi al riconoscerci reciprocamente come costruttori di pace, pacificatori, produttori di relazioni nuove e più umane.

L’11 aprile di 60 anni fa (tra poco l’anniversario) Giovanni XXIII pubblicò l’enciclica Pacem in terris; nel 1963, il Concilio Vaticano II era ancora in corso, era il periodo della Guerra Fredda, della costruzione del Muro di Berlino e di una crescente minaccia di guerra nucleare. La Pacem in terris fu una risposta alla crisi dei missili cubani che precipitò il mondo a un soffio da una guerra nucleare, scenario anche oggi evocato. L’enciclica diceva che la pace deve essere basata su quattro pilastri: la verità, la libertà, la giustizia e la solidarietà e l’amore. Si legge “Come vicario – benché tanto umile ed indegno – di colui che il profetico annuncio chiama il Principe della pace, (Cfr. Is 9,6) abbiamo il dovere di spendere tutte le nostre energie per il rafforzamento di questo bene. Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine che il presente documento ha tracciato con fiduciosa speranza: ordine

fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà”.

L’anno che è trascorso dal 24 febbraio 2022 certifica l’esattezza di quella visione e di quella proposta su cui sarà utile ritornare, senza libertà, verità, giustizia e solidarietà, tutte insieme, la pace non si dà.

Feb 2024

Lezioni dal caso

Ferragni: care non profit non fatevi usare

A bocce ferme, ora che Chiara Ferragni è stata iscritta nel registro degli indagati di Milano non solo per la vicenda del pandoro Pink Christmas della Balocco, ma anche per quelle delle Uova di Pasqua della Dolci Preziosi e per la bambola Trudi, con l’accusa di truffa aggravata e di uso di “un unico disegno criminoso” (parole del procuratore Eugenio Fusco); ora che il Governo Meloni nella sua foia normativa ha regalato anche su questo caso di cronaca un disegno di legge (a mio parere non necessario e che aggiunge burocrazia invece di trasparenza), ora che le aziende coinvolte cercano goffamente di prendere le distanze, e che le onlus coinvolte, come pugili suonati, si rendono conto che a loro sono arrivate pochissime briciole di un business milionario, possiamo provare a tirarne una morale così che, a futura memoria, le organizzazioni non profit non si facciano più buggerare in maniera così clamorosa come nella vicenda Ferragni.

Ingannare le associazioni senza scopo di lucro e, di conseguenza i consumatori è cosa davvero gravissima perché mina un bene pubblico fondamentale, la fiducia. Quella fiducia che, come ben documenta il

nostro Italy Giving Report che fa il punto sulle donazioni portate in detrazione e in deduzione nelle dichiarazioni dei redditi del 2022 (da pag. 83 a pag. 92), è pilastro fondamentale del fundraising.

Giuseppe Ambrosio su Vita.it ha ben spiegato cosa sia il Cause related marketing – Crm pratica seria in cui marketing incontra una causa sociale e che si sostanzia in un’azione di marketing in cui imprese e organizzazioni non profit formano una partnership al fine di promuovere un’immagine, un prodotto o un servizio traendone reciprocamente beneficio. Si tratta, tra l’altro, di una pratica che ha radici lunghe nel nostro Paese. Alcuni tra voi ricorderanno quando nel 1987 un Adriano Celentano in formissima lanciò durante Fantastico 8, il varietà del sabato sera, l’operazione “Mille lire per un mattone”, un’iniziativa di Csr con cui Dash (tramite la vendita del fustino) destinava parte dei proventi alla realizzazione di un villaggio per ragazzi in Kenia. Da allora numerosissime sono state le buone pratiche a dimostrazione che una norma non era necessaria: Wella Italia & Azione Aiuto, Banca Nazionale del Lavoro & Fondazione Telethon, Unilever & Opera San Francesco, Ikea & Fondazione Ospedale Meyer, Avon Cosmetics & Istituto Europeo di Oncologia, Golia & Wwf, ect.

Esperienze che indicano come il Cause related marketing si basi su un contratto tra impresa e organizzazione non profit. Contratti che ovviamente definiscono la percentuale o la cifra fissa per ciascuna unità che sarà retrocessa alla non profit, le modalità della rendicontazione delle vendite e della eventuale donazione. Il punto centrale è che l’organizzazione non profit siede al tavolo ed è una delle parti del contratto, è un rapporto di pari dignità con l’impresa. In operazioni di questo tipo, la comunicazione del prodotto e dell’intera operazione viene decisa congiuntamente e di fatto il soggetto non profit tutela il consumatore perché obbligato dalle leggi esistenti a praticare la trasparenza.

Questo è mancato del tutto del caso Ferragni: l’attore non profit non

era al tavolo in quell’operazione i soggetti in campo erano solo due, la Balocco (e negli altri casi le altre aziende) e la Ferragni, con i loro marchi e il valore che essi hanno sul mercato.

Nella vicenda le organizzazioni non profit non sono mai entrate in partita. Balocco e Ferragni hanno trattato la causa sociale e il non profit come un terzo marginalissimo rispetto al tavolo commerciale, è stato un grande errore che gli si è ritorto contro. Speriamo che l’accaduto sia una lezione per tutti, per le imprese che dimostrano un’imperizia e non professionalità (avrete letto le mail tra Balocco e Ferragni?) degna di un centro sociale e che ancora vivono l’attività filantropica come ingrediente della sola comunicazione, per gli enti del Terzo settore perché evitino per una miserevole mancia di mettere la faccia, ovvero il marchio, su iniziative di cui non hanno il controllo.

IL RICORDO. L’ADDIO A RICCARDO SUI GIORNALI

Stefano Arduini Vita

—11 dicembre 2024

Questa mattina è mancato Riccardo Bonacina, il fondatore di Vita. Un grande maestro e amico per tanti di noi che, come me, insieme a lui hanno percorso un lungo tratto di vita che non si può definire solo professionale.

Dopo gli inizi al “Sabato” negli anni Ottanta, l’esperienza in Fininvest e ppi in Rai, nel 1994 Riccardo fonda Vita, che allora in molti definirono “L’Espresso del sociale”. Il primo numero uscì il 27 ottobre 1994. Un giornale quasi clandestino, certamente ribelle nato da «un moto di rabbia», come amava ricordare, di fronte al fatto che nella dieta mediatica di allora i temi del sociale e dell’impegno civile erano considerati ancillari: buone azioni di buona gente, ma che in fondo contavano poco. Non era così. E 30 anni di storia dimostrano che quell’intuizione, costruita sulla base di un’alleanza fra un gruppo di giornalisti e un network di organizzazioni non profit (il comitato editoriale), aveva colto un bisogno reale di rappresentanza e racconto.

Riccardo è stato un uomo appassionato. Una passione che quelli che hanno lavorato con lui hanno toccato con mano

quotidianamente, nella sua intensità e radicalità, nel modo di fare giornalismo e nel racconto sociale di cui, di fatto, è stato l’inventore nel nostro Paese. La stessa passione e la stessa radicalità le metteva nelle relazioni umane, coltivate con cura delicata e con cultura profonda, ma mai esposte, mai sbandierate. Così come mai sbandierata era la sua fede. Che considerava una grande fortuna nell’affrontare con realismo e fiducia le sfide e le difficoltà della vita.

Riccardo è stato anche un uomo e un giornalista coraggioso. Del resto, chi avrebbe lasciato il posto in Rai per fondare un giornale sul Terzo settore? Proprio ieri, perché fino all’ultimo è stato “sul pezzo” (in questi giorni stava scrivendo un ricordo per il decennale dalla scomparsa di Franco Bomprezzi, un suo grande amico), come spesso ci capitava, ci interrogavamo sulla crisi del giornalismo e su come dare solidità all’avventura di Vita.

La chiave di volta era la “libertà”. Per lui mantenere la libertà di pensiero e d’azione nel fare Vita è sempre stato il primo criterio su cui fondare anche il modello di impresa che si era inventato e che, insieme a Giuseppe Frangi, suo fraterno amico ed ex direttore di Vita prima che io ne assumessi la carica nel 2018, aveva portato avanti per tanti anni.

Un coraggio che ha dimostrato anche nel passaggio di consegne con il sottoscritto. Vita è stata la sua vita. Ma a un certo punto, come mi ha detto e scritto, ha scelto di distaccarsene (sempre però avendone cura) affinché Vita potesse esprimere nuove potenzialità e generatività grazie alla sua natura di organo di informazione indipendente e comunitario, senza che il suo carisma potesse in alcun modo frenarne il futuro. Oggi il dispiacere è enorme. Il peso della perdita si sente in tutta la nostra redazione. Già stanno arrivando i messaggi commossi di tanti suoi e nostri amici, compagni di avventura di Vita. Ma oggi è anche il giorno in cui possiamo toccare con mano la ricchezza e la potenza dell’eredità e degli insegnamenti che ci lascia. Lui che di fatto ha creato una

vera e propria scuola di giornalismo, innovativa e ferocemente ancorata alla realtà («Vita si chiama così perché racconta la vita, così com’è»).

Aver conosciuto Riccardo Bonacina è stato un dono preziosissimo. Ne avremo grande cura, Riccardo.

Un abbraccio strettissimo da tutte le persone di Vita va alla moglie Nicoletta e ai figli Paolo, Lucia, Maria e Francesca.

Lucio Brunelli Osservatore romano

—13 dicembre 2024

Di Riccardo Bonacina giornalista, conduttore televisivo e fondatore di Vita, il settimanale (poi trasformato in mensile) del mondo non profit, hanno già scritto in tanti, con serietà e stima sincera. Passione per la realtà, ironia, libertà di pensiero, erano i suoi tratti umani e professionali. Il segreto della sua umanità però era l’esperienza di fede che viveva con una purezza commovente e che aveva riscoperto ed abbracciato con entusiasmo negli anni giovanili. Di questo Riccardo vorrei raccontare, ora. Lui ricordava ridendo che da studenti entrambi avevamo venduto in modo militante “Umanità nova”, il giornale degli anarchici. Una volta mi disse con fierezza che suo padre si definiva un “anarco-cattolico”. E questo spirito di indipendenza, ribelle ai conformismi, certo non l’aveva perduto nella conversione al cristianesimo. Anzi. L’ho conosciuto negli anni Ottanta, quando eravamo colleghi al settimanale “Il Sabato”.

Non eravamo solo colleghi. D’estate andavamo ogni anno in vacanza insieme, in Trentino, con gli amici della sua “Fraternità” intitolata a sant’Ambrogio: Giuseppe Frangi, il suo più grande amico con il regista

teatrale Emanuele Banterle (lui ci ha lasciato nel 2011), lo scrittore Luca Doninelli, i giornalisti Paolo Biondi, Andrea Tornielli, Maurizio Crippa e diversi altri. Si scherzava, si camminava in montagna, si pregava insieme. La giornata iniziava con la recita delle lodi. Noi, laici, mai un prete alle nostre vacanze. Amici veri, con le mogli e i bambini, numerosi, che s’aggiungevano man mano al gruppo. Non ci siamo mai persi. Come fai a perdere qualcosa di così vero e bello?

Quando la scorsa estate Riccardo apprese che il tumore era tornato e stavolta non c’erano molto speranze, gli scrissi il mio dolore. Una notizia che ci prese tutti impreparati. Lui rispose: “Eh sì, non me l’aspettavo. Ma è un momento della vita e perciò un’opportunità per andare più a fondo del mistero che ogni giorno, davvero ogni giorno, ci fa. Con le mie mani non posso regalarmi tempo, posso però regalare vita al tempo”. La moglie di Riccardo si chiama Nicoletta. Una donna straordinaria, piena di vitalità e sana allegria. Si sono voluti bene sempre, in modo mirabile. Commentava: “Come possiamo recriminare con Dio? Siamo dei privilegiati, Lui ci ha regalato una vita stupenda”.

L’inizio delle cure gli rese impossibile partecipare alla grande festa milanese per il trentennale di Vita, la sua amatissima creatura. Riuscì a inviare un messaggio video però e a scrivere un bellissimo articolo, per il Corriere della sera. Mi complimentai con lui. Così rispose: “Con Vita non ho fatto altro che fare una piccola eco ai doni che ho ricevuto, in particolare con don Giussani e Giovanni Testori”.

Nelle ultime settimane Riccardo faceva avanti e indietro nell’ospedale. Agli amici della Fraternità, pochi giorni fa, ha raccontato con molta semplicità dell’amicizia che era nata con gli altri pazienti della sua stanza. Lo vedevano ricevere la comunione tutti i giorni, dal cappellano della struttura sanitaria. E allora, anche loro, che non mettevano piede in chiesa da una vita, avevano voluto imitarlo. Non lo raccontava per sentirsi dire “bravo” ma per la gioia che gli procuravano queste nuove amicizie, erano un segno che il buon Dio agiva, anche in quel luogo in

apparenza privo di speranza. Era contento. In pace.

Giovedì scorso gli ho inviato un vecchio filmino ritrovato a casa mia, ricordo di una vacanza comune in montagna, all’inizio degli anni Duemila. Ero riuscito a trasformarlo in un file digitale. Mi ringraziò, emozionato: “che regalo!”, scrisse subito. Replicai che il vero regalo per la mia vita era stata l’amicizia sua e degli altri della Fraternità. Lui commentò: “Siamo regalo gli uni agli altri”. Proprio così.

Luigi Bobba Terzjus.it

—11 dicembre 2024

Mille pensieri, ricordi, sentimenti si affollano nella mia mente e nel mio cuore ora che si è diffusa la notizia della morte di Riccardo Bonacina. Notizia per me non sorprendente, perché sapevo della sua malattia ormai irreversibile. Ero stato a trovarlo a metà settembre all’Istituto Nazionale dei Tumori a Milano. Era provato, ma sereno nonostante fosse pienamente consapevole che gli restava poco tempo da vivere. E, in questi mesi, con le forze residue ha continuato a scrivere, ad orientare, ad incoraggiare. Sì, Riccardo è stato prima di tutto un ottimo giornalista. Sapeva raccontare e interpretare, sferzare e rassicurare, pungolare ed apprezzare. Mai banale e scontato, sempre fedele nel raccontare la realtà, le persone, gli avvenimenti piccoli e grandi. E, il suo merito principale è di aver imboccato una strada radicalmente innovativa: quella di Vita, la sua creatura, fonte di preoccupazioni e di grandissime soddisfazioni. Difficile oggi immaginare il racconto dell’impegno civico e volontario, del Terzo settore e dell’economia sociale senza il cambio di passo maturato con Vita.

Lo conobbi circa trenta anni fa, al tempo della fondazione di Vita.

Ero stato delegato dalle Acli a partecipare al Comitato editoriale che, fin dalle origini, ha accompagnato la nascita e lo sviluppo di Vita. Sembrava una “mission impossibile”. Invece quel seme gettato ha generato molte altre attività, trasmissioni, imprese giornalistiche che, ieri come oggi, raccontano ciò che per lungo tempo era rimasto nell’ombra, ai margini. Ricordo l’aprile del ’98, la Convention a Padova del Forum del Terzo settore. Come portavoce del Forum, lo avevo coinvolto nella preparazione della Convention. Mescolando generi diversi e apparentemente estranei al racconto del Terzo settore, contribuì in modo decisivo ad un appuntamento intenso e partecipato, tanto che l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi, sorpreso e felice, si complimentò per aver dato voce al popolo della solidarietà.

Riccardo è stato un giornalista attento al quotidiano, alle notizie apparentemente minori, ma anche un capace di visione. Le linee guida della Riforma del Terzo settore, lanciate con un tweet notturno dal presidente del Consiglio Matteo Renzi nell’aprile del 2014, furono sottoposte alla sua scrupolosa e competente revisione. E, alla sede di Vita, di fronte al Comitato Editoriale, nel maggio del 2016, come sottosegretario al Lavoro con delega al Terzo settore , andai a presentare la legge delega dalla quale sarebbero poi scaturiti i provvedimenti successivi: dal Codice del Terzo settore, al Servizio civile universale, alla nuova disciplina dell’impresa sociale. Un seminatore che ha sempre largheggiato nello spandere la sua semente, sicuro che il seme buono avrebbe attecchito anche nei terreni apparentemente più ostili ed impervi. Riccardo, oltre che un grande giornalista, è stato un una persona sempre impegnata sul piano civile. Storiche le sue battaglie alla guida di Vita per il 5 per mille, per il Servizio civile universale e per una pace giusta in Ucraina.

Un uomo generoso mai preoccupato della sua carriera o della sua fama. Ha servito una causa senza riserve, senza sosta, senza scoraggiarsi.

Dietro tutto questo una persona di una fede autentica, genuina, inquieta. Mai esibita, ma sempre testimoniata nella vita quotidiana, come

negli avvenimenti della grande storia.

Ma il ricordo più intenso è quello che ho vissuto quando sono stato a trovarlo in ospedale qualche mese orsono. Mi fece leggere un biglietto che gli aveva fatto pervenire un amico monaco. Era stata trascritta una frase di una poesia di Raymond Carver perché lo accompagnasse nella sua “dura traversata”: E hai ottenuto quello che volevi da questa vita nonostante tutto? Sì. E cos’è che volevi? Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra”. Sì, Riccardo ti abbiamo voluto bene, in tanti. E ora che sei “ là dove non vi è più lutto e lamento”, continua a guardarci con affetto e ad accompagnarci con simpatia perché “quello che eravamo prima l’uno per l’altro, lo siamo ancora” (S.Agostino).

Aldo Bonomi Il Sole 24 ore

—6 gennaio 2025

Terzo settore o terzo racconto? Mi chiedo guardando all’inizio di quel quarto di secolo che ha visto la moltitudine del Terzo settore superare i metalmeccanici fuori dalle mura nella fabbrica sociale a supporto o sostituzione del welfare state o entrare dentro le mura con il welfare aziendale. Numeri interroganti che se evitiamo disquisizioni statistiche e ci inoltriamo nella composizione sociale, ci rimandano sia al salto d’epoca del modello produttivo che al Forum del Terzo settore come nuova rappresentanza di passioni ed interessi. Per questo non mi pare una domanda banale. Denominare e denominarsi rimanda alla soggettivazione, alla coscienza e conoscenza di sé e al come e dove collocarsi nello spazio di rappresentazione sociale. Anche perché in quell’essere denominati come terzo settore o aggettivarsi come racconto si sfiora una questione tutta politica che rimanda all’eterotopia della terza via che ci porterebbe oltre un microcosmo. Rimanendo ai fondamentali della crisi del welfare e del municipalismo sociale, che ne fanno da sole una questione prepolitica, si delineano due strade da percorrere. La prima induce a scalare la montagna della statualità tornante dopo

tornante affermando numeri e ruolo per risalire dal terzo posto. La seconda meno tracciata, induce a raccontare la crisi sociale e al raccontarsi assieme nel darsi visibilità per contare nel nuovo secolo dove senza rappresentazione non c’è rappresentanza. Parrebbe una questione da filosofia da aut-aut, risolvibile con una ardita sintesi da et-et. Si percorre la filiera della statualità che oggi porta anche in Europa ed a confrontarsi con i fondi ESG che sgocciolano dai flussi che sorvolano il mondo e ci si rappresenta come rete funzionale di un terzo welfare per i tanti che non hanno né il welfare state né quello aziendale. Ma nello scomporre e ricomporre la composizione sociale della moltitudine lillipuzziana del sociale molecolare, ci accorgeremo che pochi sono quelli che salgono i tornanti per arrivare in cima e tanti sono quelli che percorrono i sentieri di una terzietà fatta di impegno nel raccontare e volere un altro mondo possibile mobilitando le inquietudini che attraversano la società sabbia. Facendo di quelle inquietudini un racconto sociale e quindi politico che viene prima e non dopo le economie, ai fondi europei Pnrr o di Esg e di un welfare prosciugato come un ghiacciaio in piena crisi ecologica. Questo è spesso ciò che si trova in cima alla montagna dopo l’ultimo tornante e ci si mette in mezzo tra Stato e Mercato, tra Economia e Politica, tra Terra e Territorio raccontando comunità, società e crisi ecologica. Racconti di vite minuscole, altro dalle retoriche dei flussi che stanno in cima alla montagna delle differenze, per prender parola e contare oltre le statistiche che danno conto delle povertà e ogni tanto delle buone notizie da “per fortuna c’è il terzo settore”. Sono economie delle vite minuscole che rimandano all’abitare, al formarsi, al curarsi, spostarsi, socializzare oltre la solitudine, alle forme di convivenza…alla “vita nuda” delle economie fondamentali e della riproduzione della capacità umana vivente (Alquati) che fanno dire a Zamagni “non siamo Terzo settore, siamo e denominiamoci quelli dell’economia civile”. Racconti del legno storto del territorio nel suo essere spazio di posizione e costruzione di piattaforme sociali dai comuni polvere

alle città medie ai quartieri metropolitani sul confine del margine che fa racconto e voce ponendo oggi come centrale, la questione sociale. A cui dar voce con un intelletto collettivo sociale in grado di rigenerare quella intimità dei nessi (Becattini) dappertutto e rasoterra (De Rita) che producevano tracce di comunità operose che oggi producono capitale sociale in distretti sociali evoluti che anticipano e interrogano l’economia sul confine della crisi ecologica e del modello di sviluppo. Più che arrancare sui tornanti per arrivare primi, o potenziare la comunicazione nella società dello spettacolo, forse sono i tempi del come rigenerare società. Spostando lo sguardo critico da ciò che è istituito alla prassi istituente (Esposito) con un terzo racconto che si confronta con la metamorfosi sociale delle rappresentanze, delle istituzioni, del welfare, mai come oggi urgente e necessario. Ci hanno appena lasciati due maestri di racconti di vita: lo psichiatra Eugenio Borgna e il fondatore di Vita e di Communitas Riccardo Bonacina. Eugenio con la sua rivoluzione gentile educandoci all’ascolto dell’altro e Riccardo insegnandoci a comunicarlo ci hanno lasciato un metodo. Pratichiamolo…

Massimo Calvi Avvenire

—12 dicembre 2024

Le parole più ricorrenti nei pensieri che tante persone in queste ore stanno esprimendo nel ricordare Riccardo Bonacina, giornalista, morto all’età di 70 anni questo mercoledì 11 dicembre 2024, sono due: passione e impegno. Chiunque lo abbia conosciuto, anche per poco, anche da lontano, può facilmente ritrovarsi in questi termini, che curiosamente paiono l’eco di un tempo diverso, appartenere a un contesto che nell’estremo saluto può persino delineare un’eredità. Bonacina è stato tante cose, il suo curriculum di giornalista dice che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso è stato tra i protagonisti del primo telegiornale delle reti Fininvest, “Studio Aperto”, poi ideatore della testata giornalistica su Rai2 “Il coraggio di vivere”, soprattutto fondatore di un periodico che ha fatto la storia del giornalismo sociale in Italia: “Vita”. Poi, certo, molto altro: trasmissioni radiofoniche, progetti editoriali, eventi, elaborazione culturale, impegno civile e sociale, dunque politico.

“Vita” – all’inizio settimanale, oggi mensile e sito internet – è stata però la creatura capace di definirne la figura di padre e, a discendere, di

maestro.

Era il 1994, esattamente trenta anni fa, quello che tutti avevano sempre e solo definito “volontariato” o “mondo del bene”, stava conoscendo una trasformazione radicale, tra evoluzione culturale e novità normative: nasceva il Terzo settore, l’economia Non profit, prendeva forma e coscienza, convergendo, un aggregato di associazioni, cooperative e nuove imprese sociali, fondazioni, donne e uomini uniti dall’impegno e dal desiderio di far esprimere al massimo le migliori energie, con l’ambizione di essere interlocutore e parte sociale, e dove il valore dell’interesse si declinava principalmente nell’attenzione per gli altri. Alle aspirazioni serviva un racconto, e di quel racconto Bonacina è stato il protagonista indiscusso.

C’eravamo anche noi, ovviamente, c’era “Avvenire”, presenza ampia, autorevole, costante, ma era difficile prescindere da Riccardo Bonacina, impossibile non domandare consigli, suggerimenti, confronti. Il Terzo settore italiano ha trovato in quegli anni la giusta narrazione per spiccare il volo, definirsi, nessun dubbio sul ruolo di chi è stato guida, riuscendo ad esserlo anche da lontano, persino nell’inconsapevolezza del ruolo. Come a pochi riesce. Per ricordare una persona le parole giuste sono quelle più intime, dei veri vicini e compagni di viaggio. E qui il registro cambia, si fa meno istituzionale. Passione e impegno lasciano il campo ad altro, molto di più. Uomo di fede, non conosceva confini, dialogava con tutti, intellettualmente onesto.

Amava Péguy, dicono, e poteva essere altrimenti? È stato padre, non solo dei suoi figli, non solo del giornalismo sociale. Un padre spinge i figli nel mondo, non è nel controllo la sua autorevolezza, ma nella fiducia, e sprona a non accontentarsi della superficie, mai, incoraggia a cercare la storia, e a scriverla. Un dono, un altro passo, di un altro tempo. Nel ricordo, la voce si rompe: «Di quelle persone che pensi non muoiano mai». Ecco.

Maurizio Carrara Bergamo News

—21 dicembre 2024

Buon viaggio, Ric. Ho lavorato con Riccardo Bonacina per 8 anni, dal settembre 2002 al marzo 2010.

Ora che i giorni dell’assenza riemergono, rivivo i ricordi e delle cose fatte insieme a lui, a Giuseppe Frangi, al compianto Daniele Villa, Giuseppe Ambrosio e alle decine di persone della redazione di Vita e di Vitaconsulting nella stupenda sede di via Marco d’Agrate al 43 nel quartiere Corvetto di Milano.

La nostra conoscenza personale risale al 1997 dopo il mio rientro dalla prima missione di Cesvi in Nord Corea.

Ricevo una telefonata: “Pronto, sono Riccardo Bonacina direttore del settimanale Vita e vorrei parlarti della tua missione in Corea del Nord, avrei piacere che ci vedessimo, verrei a Bergamo”. Riccardo era già un mito. Dopo pochi giorni sarebbe venuto nella sede di Bergamo e lì nacque un rapporto di molti decenni, finito con l’ultima video call del 3 dicembre 2024 in cui abbiamo parlato, per l’ultima volta, delle sue condizioni di salute, della sua serenità nell’affrontare quelli che sarebbero stati gli ultimi giorni di vita. Poi l’ultimo saluto a

casa…pieno di tristezza e di ricordi.

Riccardo fu determinante per la prima campagna Cesvi Sos Nord Corea: grazie a lui arrivarono sostenitori come Lorella Cuccarini ed Ezio Greggio, grazie a Vita la campagna stampa prese forma e vita. Il primo appello fu firmato da Cesvi e Vita e fu durante quella campagna che approfondimmo la nostra conoscenza e nacque una reciproca stima e confidenza.

Un paio di volte venne a Bergamo, in compagnia della giornalista di Vita Gabriella Meroni, per mangiarci una pizza e ragionare della campagna, che lanciò Cesvi nel mondo della Raccolta Fondi. Grazie a questa partecipazione, alla spinta che Riccardo diede a Cesvi, gli proponemmo di far parte dei Soci Fondatori, cosa che accettò con entusiasmo.

Fu proprio durante una di quelle pizzate che Riccardo mi prese da parte proponendomi di andare a lavorare a Vita.

Tre anni dopo ero a lavorare in via Marco D’Agrate ad occuparmi di sviluppo e marketing, a seguire divenni Consigliere Delegato e Amministratore Unico di Vitaconsulting.

Anni di lavoro duro a fianco di Riccardo per contribuire al reperimento di risorse per dare forza al settimanale Vita non profit, bandiera del Terzo settore italiano.

Un momento importante fu quando insieme a Riccardo decidemmo che era giunto il momento per una grande campagna di coinvolgimento e di lobby per una legge determinante a favore del Terzo settore: le donazioni liberali e le deduzioni fiscali.

La campagna si chiamò “Più dai, meno versi” e, grazie alla chiara penna di Riccardo, il settimanale raccontò settimana per settimana gli avanzamenti: prima mossa pochi articoli per una legge chiara (e qui ci lavorò lo studio Ukmar di Milano), due parlamentari di partiti con opposte visioni la presentarono in parlamento ( Giorgio Benvenuto per i Ds e Giorgio Jannone per Forza Italia). Migliaia di associazioni coinvolte, decine di riunioni tra Milano e Roma, un costante lavoro di relazioni con

parlamentari e senatori e nel febbraio 2005 la grande vittoria, accompagnata immediatamente dal 5×1000.

Ricordo con gioia gli abbracci e il brindisi con Riccardo nella redazione di Vita e in quel momento capimmo che il Terzo settore, grazie a Vita non profit magazine, era diventato il motore di un non profit moderno e ben rappresentato. Da qui avviammo un rilancio stringente di partecipazione delle associazioni al Comitato Editoriale di Vita, in pochi anni oltre 110 associazioni aderirono al Comitato impegnandosi a fare 100 abbonamenti e ad utilizzare le pagine del settimanale per raccontare le proprie esperienze. Mensilmente una riunione plenaria con Riccardo intento a organizzare il dibattito e a raccontare la linea editoriale del settimanale.

Cresceva il settimanale grazie alla direzione di Giuseppe Frangi, cresceva Vitaconsulting grazie al lavoro di Giuseppe Ambrosio e i conti erano sotto controllo grazie a Daniele Villa, con la sua grande esperienza nel settore dei giornali e periodici.

Per me furono anni di formazione e di sfida: capire come si gestiva un giornale, cogliere le potenzialità della raccolta pubblicitaria, contribuire ad ideare idee nuove per aumentare le potenzialità della società di consulenza (Vitaconsulting) nel lavoro di Corporate Social Responsability.

Siamo stati un gruppo di persone molto legate dal tema fondamentale: portare a pareggio i costi e investire su idee nuove.

Riunione quotidiana pranzando in una trattoria-bocciofila di via Brenta, scambiando opinioni e idee e programmi con Riccardo sempre al centro dei nostri dialoghi. Otto anni di condivisione intensa delle nostre vite lavorative. Un piccolo ricordo: sapendo che non sono battezzato, un giorno, durante una camminata in via Marco d’Agrate, mi disse: “Mau (l’unico che mi abbia mai chiamato così) ma perché non ti fai battezzare? Vorrei farti da padrino” e mentre lo diceva mi guardava con un leggero sorriso sornione e la sigaretta appesa

alle labbra. Risposi che, non avendo il dono della fede, mi sembrava sbagliato battezzarmi. L a risposta di Riccardo fu : “ Mau, inizia a battezzarti e poi vedrai che la fede viene”.

Quando circolarono voci di un mio ipotetico cambio di lavoro (la presidenza di UniCredit Foundation) ne parlammo a lungo Riccardo ed io, dispiaciuti entrambi di lasciare il percorso comune: per Riccardo continuare con il gioiello che aveva fondato e per me, avviarmi ad una nuova impresa piena di incognite.

Con un grande abbraccio accompagnato da parole bellissime e indimenticabili, le strade si sono divise.

Spesso ci si invitava a pranzo e ci si raccontava la vita che passava, le difficoltà del giornale, il nostro ruolo nel CdA della Fondazione Vita. Lo scorso 15 agosto, come tutti gli anni da quando ci siamo conosciuti, ho mandato un whattsapp di auguri per i 70 anni, ma nessuna risposta mi è arrivata. A settembre gli ho scritto e mi ha detto che era in ospedale, mi ha chiamato e raccontato della sua malattia, dei tempi stretti che aveva davanti, che considerava una grazia avere qualche mese per curare anche affetti e amici. L’ho sentito contento quando gli ho detto che avrei detto una preghiera per lui che, a modo mio, ho fatto. Riccardo mancherai.

Maurizio Crippa Il Foglio

—12 dicembre 2024

Poiché amava come la vita i libri e il teatro, primo amore, l’ultima intuizione regalata agli amici l’aveva presa da un’immagine di Chesterton, quando scrive che san Francesco vedeva il mondo come lo vede un saltimbanco che cammina sulle mani: “Ogni scena può essere vista più chiaramente e in modo più fresco se la si osserva da capovolti” Per guardare la vita dal lato giusto bisogna raddrizzarne il senso. Lo aveva raccontato un mese fa, nel messaggio inviato per la festa dei 30 anni di Vita, il magazine-network del mondo non profit che aveva fondato nel 1994, nato da “un moto di rabbia”, dopo anni di tv: “Avevamo deciso di fare una scommessa di libertà e di senso rispetto a una professione che vedevamo avvilita”, aveva detto Riccardo Bonacina, che ieri in tanti hanno salutato come “il padre del giornalismo sociale” Definizione giusta, ma come sempre non è tutto, per Riccardo contava molto di più delle formule la passione per la realtà come unico metodo di lavoro: “Vita, senza articoli e senza aggettivi: l’indicazione della direzione scelta”. Libero di pensiero, intransigente e con un’infinita vulcanica dedizione al lavoro, ma allo stesso tempo ironico, sorridente come chi ha ricevuto molto:

“Con Vita non ho fatto altro che fare una piccola eco ai doni che ho ricevuto, in particolare con don Giussani e Giovanni Testori”. Giussani, seguito con intelligente umiltà e senza chiacchiere. Testori, maestro anche nella passione per il teatro che era stata la sua prima vocazione. Citava sempre un suo insegnamento: “Basta amare la realtà, sempre e in tutti i modi”.

In trent’anni di fedeltà alla scintilla di quell’intuizione iniziale, e di continue rivoluzioni editoriali, Vita ha attraversato tante epoche e oggi è più di un giornale, è una “impresa editoriale sociale”, retta da un comitato editoriale e con uno specifico Statuto, riferimento di migliaia di associazioni. Un network, anche, capace di portare avanti campagne e proposte di legge sui temi sociali. Una eccellenza che non ha eguali in Italia e pochi altrove.

Un’idea di giornalismo e di società declinata con una grinta bonaria e una grande capacità di creare reti e amicizie cui restare fedeli. Matteo Renzi l’ha ricordato ieri in Senato come “padre della legge sul Terzo settore”, e il punto di riferimento, e di giudizi mai edulcorati sul mondo del volontariato, che Vita è stata in grado di diventare negli anni è ben noto anche al distratto mondo politico. L’orizzonte non è stato solo in Italia. Dal 2022, dopo l’invasione dell’Ucraina, aveva promosso molti viaggi di aiuto, di incontri di discussione e di preghiera, di idee di pace assieme a Mean, il Movimento europeo di azione non violenta di cui era portavoce. C’era andato più volte, già malato.

Lo scorso anno per una conferenza europea per l’istituzione dei Corpi civili di pace europei, rilanciando idealmente una proposta fatta molti anni fa dal parlamentare europeo Alexander Langer per creare una formazione politica sovranazionale composta per lo più da civili. Era nato a Lecco nel 1954, amava le sue montagne. Era stato lui molti anni fa a farmi la mia prima “prova” da giornalista. Ma spero che questo il buon Dio non glielo imputi a colpa.

Luca Doninelli Il Giornale

—12 dicembre 2024

Nella notte fra martedì e mercoledì si è conclusa la straordinaria vita terrena di Riccardo Bonacina, settant’anni, grande giornalista, inventore come pochi altri di un nuovo modo di raccontare la realtà. Non ha cercato mai la larga notorietà, nemmeno quando ne ha avuto l’occasione (qualcuno ricorda la sua trasmissione Rai “Il coraggio di vivere”), nemmeno quando il suo prezzo era alto. Cresciuto nelle file de “Il Sabato” settimanale cattolico di battaglia, fondato nel 1978 e chiuso nel 1993, migrò all’inizio degli anni ‘90 prima a Mediaset e poi alla Rai, dalla quale si staccò nel 1994 per fondare quella che resterà la sua grande opera: la rivista “Vita”.

“Vita” apriva un capitolo completamente nuovo nella storia dell’informazione in Italia: nasceva il racconto sociale. Alla guida di un gruppo di eccellenti giornalisti, Riccardo ha cominciato a raccontare il nostro Paese, e in seguito l’Europa e il mondo, dal punto di vista di tutta quella materia oscura della nostra società, ossia di quella umanità, onesta e numerosa, che si dona nel campo del volontariato in tutte le sue declinazioni (onlus, ong, enti religiosi),

dell’educazione, della formazione e in altri campi per sostenere la parte più debole e vulnerabile della società. Quando ancora quasi nessuno ne parlava, Riccardo ha sdoganato parole come “non profit” e “Terzo settore”, contribuendo anche a creare una legislazione meno inadeguata in quel campo.

Ha dovuto combattere molti nemici, tanto a destra quanto a sinistra, tanto nel pubblico quanto nel privato, tanto nel mondo cattolico quanto in quello laico: perché chiunque, prima o poi, cerca di comprarti, qualcuno in buona fede, i più in malafede. Pochi capiscono che un racconto libero aiuta la libertà di tante persone che da sole non ce la potrebbero fare.

Ma Riccardo non è soltanto “Vita”. È stato grazie a lui che, nel 1978, avvenne l’incontro, decisivo per entrambi, tra Giovanni Testori e don Giussani. Nessuno somigliava a Testori come Riccardo: tutti e due anarchici nell’anima, difensori a oltranza della libertà propria e altrui, tutti e due tanto pieni di una fede cristiana incrollabile quanto spregiudicati nella visione della realtà.

E questo è, ancora una volta, solo un particolare tra mille. Ha ragione mia moglie quando dice che Riccardo ha passato tutta la vita obbedendo a un compito, che investiva tutti gli istanti della sua vita, lavoro famiglia vacanze amicizia interessi extracurricolari: come il Teatro. Già malato, come nessun altro Riccardo ha seguito e sostenuto – anche criticamente – la nascita e la crescita dell’esperienza teatrale che io e altri amici (Gabriele Allevi e Giacomino Poretti) abbiamo cercato di promuovere insieme a un gruppo di giovani under-30. Fino a diventare un punto di riferimento fondamentale per tutti loro.

Confesso però, mentre scrivo queste cose, la mia totale inadeguatezza. Non so se avesse ragione Roland Barthes quando scrisse che “si fallisce sempre quando si cerca di parlare di ciò che si ama”: quello che so è che un qualunque bravo giornalista, mettendo insieme qualche notizia d’agenzia, avrebbe disegnato il ritratto pubblico di Riccardo Bonacina

molto meglio di me.

Perché Riccardo è stato il grande amico di tutta la mia vita, l’amico con il quale ho costruito tutta la mia esistenza, istante per istante, mattoncino dopo mattoncino, prima da giovane scapestrato e poi da uomo adulto. Quando, 40 anni fa, mi innamorai della donna che poi ho sposato, solo a lui chiesi “secondo te è quella giusta?”, e il suo sì sarebbe stato fondamentale anche se poi si fosse rivelato un errore, perché negli anni eroici della gioventù è meglio sbagliare costruendo insieme che fare tutto giusto in solitudine.

E adesso, anche se so che è solo un’impressione, anche se so che passerà e che la vita ricomincerà, a me sembra di non esistere più. Cammino per strada, vado a visitare il feretro, prego con sua moglie e i suoi meravigliosi figli (Paolo, Lucia, Maria, Francesca), vado a fare un paio di cose che lui avrebbe avuto piacere io facessi, e intanto mi sembra di non esserci più. Guardo le automobili, le motociclette, le biciclette, e d’un tratto trovo insensato tutto questo, non capisco perché esistono, perché esiste Milano, vorrei che non ci fosse più niente, perché adesso Riccardo non c’è più e io mi sento un po’ più inutile. Ripenso a tutte le vacanze passate insieme, decine e decine di vacanze, e so che non ce ne saranno più, e capisco che farne a meno è più duro del previsto.

Sono pensieri passeggeri ma anche salutari e giusti perché mi ricordano chi sono io al di fuori di come mi vedo e di come mi voglio.

La vita è strana, e io credo di essere cristiano anche per questo, perché nessuna religione o filosofia al mondo sa comprendere la stranezza della vita meglio del cristianesimo. Noi cristiani non siamo molto sensibili al tema dell’immortalità dell’anima. Ci pensavo mentre guardavo il povero cadavere del mio più grande amico: m’interessa davvero sapere se, in questo momento, lui è in Paradiso? Certo, se un angelo venisse a rassicurarmi ne sarei lieto. Ma quello che m’interessa davvero è poter riabbracciare Riccardo, poter andare con lui in gita da qualche parte, poter parlare di teatro e di poesia, poter mangiare

insieme. Questa è la giustizia spiccia che cerco: si chiama Resurrezione della Carne. Questo è ciò che la carne chiede, e grida. Cristo non ci promette che canteremo nei cori eterni, ma che berremo con Lui vino, vino vero.

Ecco, oggi è a questo che penso. Hasta Riccardo, sei stato unico su questa Terra. Adesso cerchiamo come possiamo di andare avanti noi.

Giuseppe Frangi Il Sussidiario

—12 dicembre 2024

Quanta vita nella vita di Riccardo. Senza far retorica, se c’è una cosa che ha contrassegnato l’avventura umana di Riccardo Bonacina, morto ieri all’età di 70 anni, è stata proprio la sua apertura incondizionata alla vita, al punto di aver dato questo nome al giornale e all’avventura editoriale, un’avventura davvero unica, che ha fondato nel 1994 e guidato fino a poco tempo fa. C’è un fattore importante per capire una persona come Riccardo: veniva dal teatro, credeva nel teatro come luogo in cui l’umano trovava piena e libera rappresentazione. Luogo necessario alla vita, per stare sempre a quella parola chiave. Il teatro è anche il luogo del coraggio, dove ci si mette in gioco, con la parola e anche con il corpo. E il suo modo di fare giornalismo è sempre stato così, appassionato, ogni volta a diretto contatto con le cose, senza schemi, senza mai accondiscendenza verso qualsiasi moda. Un giornalismo sulla pelle della realtà, nella convinzione che gli era stata trasmessa nell’amicizia con Giovanni Testori. «Basta amare la realtà sempre e in tutti i modi, fuggite le astrazioni, fate parlare la realtà, la vita, cercatela lì la parola, fatela scaturire da lì»: nelle

parole di Testori aveva trovato l’orizzonte del suo lavoro, ribadito anche nel bellissimo messaggio che ha registrato a ottobre in occasione dei 30 anni di Vita. Era bravissimo a compulsare le notizie, quando le notizie toccavano le fibre vere della vita. Era accaduto anche in quel maggio 1978 quando dopo aver letto sul Corriere un articolo del tutto imprevisto sul caso Moro si era dato da fare, coinvolgendo nell’impresa alcuni amici, per andare a bussare alla porta del suo autore. E così suonò al campanello di via Brera 8 dove era lo studio di Testori. Da quella sua intraprendenza è nata una storia. Testori uomo di teatro, ma anche uomo che metteva in campo un’idea di giornalismo diverso, capace di incrociare i fatti della cronaca con le domande che la vita ogni istante suscita. Su quell’onda era nato Il Sabato, avventura giornalistica alla quale Riccardo partecipò negli anni ’80; e poi era nata l’altra avventura, questa volta sul fronte del teatro, quella della Compagnia degli Incamminati, con Emanuele Banterle, Luca Doninelli e Franco Branciaroli. Tutte avventure incoraggiate con convinzione, benevolenza e curiosità da don Giussani. Dunque ancora giornalismo e teatro che si muovevano all’unisono nel far vibrare, ciascuno con il proprio linguaggio, le corde più vere e profonde dell’esistenza. Riccardo era lì, sempre allineato con l’uno e con l’altro, nella convinzione che il teatro costringesse il giornalismo ad una serietà rispetto al valore e alla responsabilità della parola, e il giornalismo chiamasse il teatro a misurarsi con l’urgenza della vita. A questo proposito, appena qualche giorno fa dialogando con noi amici aveva citato alcune righe dalla “Vita che ti diedi” di Pirandello. È una battuta della protagonista Donn’Anna Luna: «Ah mio Dio, non resisto più; fammi piegare i ginocchi!». E poi aveva commentato: «Non c’è niente di più umano di quel piegare i ginocchi. Chi non ha provato questa esperienza del non bastare a se stesso e di aver bisogno di aiuto, dice Pirandello, non è compiutamente uomo». Nel bagaglio professionale e umano di Riccardo, passione e coscienza del limite andavano sempre di pari passo e le certezze erano sempre attraversate da domande.

Giancarlo Giojelli

Tempi

—12 dicembre 2024

Ognuno di noi ha una casa e attorno alla casa un giardino, scrive in un racconto Dino Buzzati, e nel giardino un giorno come un altro, ma diverso dagli altri, scopre una gobba. Per alcuni è piccola, per altri più grande, per altri ancora enorme. Ogni gobba è un segno, una cicatrice, un amico, qualcuno di caro che ci ha lasciati. È più si cresce più le gobbe nel giardino si fanno alte, fino a chiudere la vista, almeno in apparenza. Perché quelle gobbe, forse questo Buzzati lo intuiva, lo sperava, ma non osava scriverlo, sono anche montagne da scalare per avere una vista più grande, uno sguardo più in là.

Nel mio giardino ci sono tante gobbe, e alcune di queste sicuramente confinano con il giardino di Riccardo: Pino Marcello, Giovanni, Luigino, Roberto. E tanti altri ancora. Riccardo per me è un’amicizia, l’amicizia stabile di un teatro, una compagnia stabile nel tempo, il tempo della vita.

Riccardo è la scalata di una montagna, il Piz Boè, noi due da soli salendo e scendendo dalla via sbagliata, con le scarpe sbagliate e le corde sbagliate e lui che mi dice: «Siamo nei guai, diciamo un Angelo di Dio».

E l’Angelo ci ha assistito quel giorno, e siamo tornati alla baita scendendo dal sentiero pieno di aghi di pino, giurandoci di non dire nulla agli altri (ovviamente lo sapevano tutti pochi minuti dopo).

Riccardo è la Compagnia stabile degli Incamminati che aveva costruito con Giovanni Testori, Emanuele Banterle e Franco Branciaroli. Tre parole: una compagnia stabile nel tempo che ora è eterno, ed è eterno cammino. Il teatro con loro era vita vera. Giovanni ed Emanuele lo hanno preceduto e dall’alto di quelle montagne ci hanno aiutato a guardare lontano. Il Monte Rosa, le Dolomiti, la Grigna sotto la quale Riccardo è cresciuto, sulla quale Riccardo tante volte è salito. Riccardo era il cuore che aveva portato nei giornali, radio e tv dove abbiamo lavorato insieme. Si parlava seriamente e Testori ci diceva sempre di prendere sul serio tutto della vita. Ho la registrazione di una frase che mi disse un giorno Giovanni, e che mi ripeto spesso, sempre più spesso: «La vita è una cosa terribilmente seria e che non può essere buttata ma che va percorsa. È come un grande dono, è un grande sacrificio, e va attraversata tutta, tutta, messa sulle proprie spalle, mai evitata perché diventi il luogo di speranza e non di disperazione». Questa frase ora mi sembra forse la più adeguata a descrivere l’impegno di Riccardo con la vita, la vita “tutta, tutta”, avrebbe detto Testori.

Ma si scherzava, anche perché la drammaticità della vita non escludeva una lieta ironia tra noi, e Giovanni ci aveva accompagnato anche in questo.

Che maestro è stato per noi Testori, e quanta amicizia ci ha regalato. Poi l’avventura di Vita. Ecco la parola che torna sempre se penso a Riccardo, la Vita, un’avventura che aveva costruito con Giuseppe [Frangi, ndr] e altri amici. Prima un giornale e poi un’opera che ha coinvolto migliaia di persone. La vita di Riccardo era una vita di impegno nella carità, quella vera, non fatta di melassa buonista, ma di opere che sempre la fantasia e il cuore gli facevano nascere dentro. Il suo lavoro era carità e la carità era diventata il suo lavoro. Così aveva lasciato un importante

programma televisivo per la scommessa di Vita.

Non era solo un impegno sociale, era coinvolto personalmente in tutto e coinvolgeva tutta la sua famiglia in questa impresa. Nicoletta ne era consorte, ne divideva la sorte, l’entusiasmo e anche l’ironia. Due dei nostri figli erano stati battezzati insieme e Giovanni aveva letto un messaggio per loro. Un altro messaggio di vita.

Riccardo era passato dal giornalismo scritto alla tv, dalla radio al teatro, all’impegno nella costruzione di una gigantesca rete sociale che unisce le opere del Terzo settore, senza dimenticare l’amore per il teatro e senza mai lasciare nulla. Tutto in lui conviveva, tutto era Vita. Mi domandavo cosa tenesse tutto insieme, e la risposta stava in una grande amicizia. Riccardo era capace di una grande amicizia, perché senza farne una bandiera sapeva guardare alla vera grande amicizia, quella che gli aveva fatto recitare quel giorno, su quella montagna, quella preghiera all’Angelo. L’Angelo che ora lo accompagna davanti alla vera Maestà della Vita.

Monica Mondo Credere

—n.51/2024

Tanti anni fa, il volontariato era esperienza e dono di tempo e denaro a cura di benemerite e antichi associazioni, nate intorno alle parrocchie, alle diocesi, dalla scuola di carità dei santi sociali. Poi i movimenti ecclesiali hanno educato soprattutto i loro giovani a imparare dalla carità, a crescere nella carità, che è innanzitutto un bene per chi vive e testimonia l’amore a Dio e al prossimo, secondo i comandamenti di Gesù. La testimonianza, si sa, si dilata per contagio, quasi a gara, anche se alla carità si è sostituita sempre più la parola solidarietà. Va bene comunque. Quanti uomini e donne e ragazzi e ragazze di buona volontà e amore alla vita sono diventate presenze insostituibili nelle periferie, per i compiti e il gioco ai più piccoli, per la compagnia e l’assistenza agli anziani, per le coperte e il cibo ai senza casa, per sostenere la giustizia dei più poveri, delle donne e dei bambini abbandonati, violati, per preparare pasti e pacchi alle famiglie più bisognose, per regalare un sorriso negli ospedali a chi è malato e un conforto a chi muore, per costruire chiese e luoghi di incontro, campi sportivi, case famiglia, per accogliere chi è solo e diseredato, per aiutare lo straniero o il carcerato, vestire

gli ignudi, dar da mangiare e da bere agli affamati… Sono le opere di misericordia, corporale e spirituale, che salvano l’anima di tanti, credenti e non, perché ti cambiano il cuore. E in questi giorni di solerti compere per le feste, di corse affannose per apparecchiare le tavole, c’è chi si ricorda di chi non ha e muove la fantasia , le mani e le gambe. Trent’anni fa, nasce in Italia il Forum del Terzo settore: quello cosiddetto del volontariato, che unisce tutti i gruppi, comunità, organizzazioni che non hanno come scopo primario il profitto e se fanno profitto, lo reinvestono per il bene comune. Mi piace ricordare un campione di creatività e passione, Riccardo Bonacina, fondatore e primo direttore del settimanale del non profit,Vita. Una testata rivoluzionaria nel panorama giornalistico, che ha aiutato la formazione, l’impegno per le normative, che ha dato voce e spessore alla galassia di opere nel sociale. Una scommessa di libertà per raccontare l’Italia che vuole e sa costruire, proporre, più che lamentarsi soltanto o urlare, rompere, odiare. Vita, cioè amore e lavoro per la vita, per la realtà tutta e per gli uomini che la abitano. Bonacina, che tanti hanno conosciuto e stimato, se n’è andato la settimana scorsa, dopo una lunga malattia serenamente vissuta. Nella fede, che ha mosso sempre la sua intelligenza, da quando lavorava al glorioso settimanale Il Sabato, sentinella di un impegno dei cattolici nel mondo politico, sociale, culturale. Fino agli ultimi anni, quando partiva coi camion carichi di viveri per le lande fredde e devastate di Ucraina, perché la pace non si fa sventolando striscioni, ma essendo uomini e donne di pace. Per fortuna, in questi tempi di consumismo e individualismo tristi, ci sono i santi, cioè gli uomini veri, che donano tutto, prendendo sul serio quel “gratuitamente riceveste, gratuitamente date”. Non per volontarismo, non per sforzarsi di essere generosi, non perché i cristiani “fanno” le opere buone, ma per ricevere grazia su grazia.

Angelo Moretti Il Riformista

—12 dicembre 2024

Un po’ come la definizione che Gian Maria Volontè diede degli attori, che a suo parere non potevano scindersi dalla realtà che interpretavano come da quella che abitavano, così Riccardo Bonacina ha vissuto il suo giornalismo inedito.

Nessuno di noi potrebbe dire con certezza dove finiva la sua professione di comunicatore e dove iniziava la vita dell’attivista.

In Bonacina erano perfettamente fuse la narrazione e l’impegno sociale, la ricerca delle fonti e la ricerca del bene, senza mai scadere nel racconto ideologico o nel bene fazioso.

La sua creatura non poteva che chiamarsi “Vita”, il giornale del non profit italiano, il magazine che da trent’anni approfondisce ogni notizia dell’universo sociale senza parteggiare per nessuno fuorché i più vulnerabili della storia. Perché la Vita vera, nell’interpretazione di Bonacina, non è solo quella delle idee ma è quello spazio fisico della realtà che non pone confini tra un cittadino e un lettore, un volontario ed un politico, un attivista ed un intellettuale. Riccardo ha lottato per dare nuova cittadinanza alle buone azioni del mondo

emergente del Terzo settore, ma anche perché avesse una dignità giuridica, un giusto riconoscimento nella vita economica e culturale del paese.

Di fronte all’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina non ha avuto dubbio alcuno, è partito per mettere piedi, occhi e cuore sulla terra offesa, ha raccontato fin dai primi giorni ma ha anche organizzato una risposta possibile, senza di lui il Mean, il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta, che ad oggi ha compiuto undici missioni a Kiev e che sta perorando in Europa l’istituzione dei Corpi Civili di Pace, non sarebbe mai nato, senza il suo racconto costante ed appassionato non sarebbe cresciuto.

Con il modo in cui ha affrontato la sua malattia ci ha offerto l’ultima lezione ed ora sappiamo cosa fare: continuare. Continuare a vivere e a scrivere, con la penna e con il sorriso. Con l’umiltà del ricercatore ed il coraggio dell’uomo libero.

Ciao Riccardo, non ci mancherai, perché non puoi non esserci nella nostra Vita.

Chiara Saraceno La Stampa

—16 dicembre 2024

In questi giorni il mondo del Terzo settore è stato colpito da due importanti perdite. La prima riguarda la morte, pochi giorni fa, di Riccardo Bonacina. Un giornalista capace di raccontare l’Italia dei soggetti sociali, del welfare più o meno efficiente, dei diritti da conquistare e difendere, delle molte esperienze di innovazione sociale che vengono realizzate in modo diffuso e spesso poco conosciuto. Il tutto non solo con grande competenza professionale e utilizzando tutti i mezzi di comunicazione disponibili, ma con una lucida e generosa passione che, mentre era sempre accompagnata da un lucido spirito critico, gli permetteva di costruire ponti e creare legami tra soggetti diversi. Trent’anni fa, lasciando il posto sicuro alla Rai, aveva fondato Vita: una rivista e una newsletter che è diventata un punto di riferimento importante non solo per chi lavora nel Terzo settore, ma anche per tutti coloro che si ostinano a ragionare e agire per costruire relazioni, istituzioni e pratiche sociali più eque e sostenibili. Nelle parole di Bonacina, per «raccontare il mondo non in modo disperante, né pettegolo, ma generativo»: per mettere in

comunicazione riflessioni, pratiche, esperienze, al fine di costruire reti di saperi e di pratiche, facendole uscire dal frammento autoreferenziale o dalla riflessione solo accademica. Il gruppo che ha lavorato con lui in questi anni sicuramente continuerà lungo la stessa strada e Vita rimarrà uno spazio di confronti e approfondimenti prezioso, la cui continuità nel tempo è affidata al suo essere una public company autonoma, partecipata da persone, organizzazioni non profit, imprese, senza dipendere da nessuno. Ma si sentirà la mancanza della lucidità appassionata del suo fondatore. La seconda perdita non riguarda una persona, ma un’altra newsletter di riferimento per il mondo del Terzo settore. Redattore Sociale, una agenzia di stampa nata nel 2001 per informare sulle diverse forme di disagio sociale e sulle attività e iniziative del Terzo settore, a gennaio chiuderà definitivamente, con il licenziamento di tutti coloro che ci lavorano perché l’editore, la Comunità di Capodarco, non può più sostenerlo economicamente. Una crisi iniziata qualche anno fa, con la riduzione dei contributi statali e culminata con quello che ormai è un fenomeno ricorrente nel mondo del Terzo settore: la perdita, in seguito a una gara al massimo ribasso vinta da una agenzia concorrente, di un contratto importante con l’Inail per l’affidamento dell’organizzazione e gestione del servizio di contact center denominato «SuperAbile Inail», dedicato alle persone con disabilità. Senza entrare nel merito della qualità dell’una e dell’altra agenzia, non si può ignorare che il continuo ricorso a bandi, ancor più se al massimo ribasso, è una delle cause del precariato che affligge molti lavoratori non solo nelle imprese manufatturiere e nei servizi privati, ma anche nel Terzo settore: dipendenti da cooperative, imprese sociali, associazioni che vivono da un bando all’altro pur fornendo servizi essenziali, e consumando una quantità sproporzionata di energie, tempo e intelligenza per concorrervi. Una precarietà che spesso si riflette anche sugli utenti dei servizi così attivati – dalle mense scolastiche ai nidi ai servizi per le persone con disabilità, fino, appunto, alle agenzie di notizie. I dipendenti di Redattore

sociale sono ora vittime degli stessi meccanismi che in questi anni hanno denunciato a difesa dei soggetti deboli. Fa specie, ma non stupisce purtroppo, che ciò avvenga in conseguenza di una competizione interna tra soggetti del Terzo settore, non su come meglio fornire un servizio, ma sulla riduzione dei costi. Fermo restando che è importante preparare budget non gonfiati (ma neppure sotto-dimensionati) ed essere oculati sulla spesa, forse è ora che il mondo del Terzo settore apra una riflessione sistematica al proprio interno sulle regole della competizione, anche per poter negoziare con più forza con i potenziali committenti. Nel frattempo, con la chiusura di Redattore sociale si perde un pezzo di informazione, di uno sguardo su una parte di mondo per lo più ignorato, comunque ai margini, dell’informazione mainstream. Peccato.

Elisabetta Soglio Corriere della sera

—12 dicembre 2024

«Continuiamo a raccontare il mondo in modo non disperante né pettegolo ma generativo». La voce gentile di Riccardo Bonacina era già a tratti affaticata, quando lo scorso ottobre ha registrato il messaggio destinato alla Festa per i 30 anni di Vita, la sua creatura editoriale venuta al mondo proprio nell’autunno del 1994. Riccardo è morto ieri, a settant’anni, dopo una malattia che non ha mai fiaccato il suo entusiasmo, le sue idee, la sua generosa passione per il giornalismo e per il Terzo settore. Ancora l’altra sera, dicono increduli e sgomenti gli amici più cari, si era attardato a discutere della situazione in Siria, a pensare cosa scrivere, come intervenire, come aiutare i cristiani di laggiù. Lecchese, giornalista prima in Fininvest e poi in Rai, era stato autore di programmi capaci di proporre un diverso sguardo sulla quotidianità come Il coraggio di vivere. Nel ’94 aveva lasciato posto fisso e sicurezze per mettersi alla guida di questo progetto editoriale che univa un gruppo di giornalisti e una cordata di soggetti del non profit ancora oggi espressione del comitato editoriale: «Un pezzo di Italia – aveva riassunto in un suo pezzo per le pagine di Buone Notizie il 22 ottobre scorso – che

indicava un modo di vivere ragionevole, sostenibile, auspicabile, persino fraterno. Ecco l’intuizione prima del nostro modo di fare giornalismo: la realtà e la vita innanzitutto, prima delle teorie e delle opinioni». Il suo lavoro è stato una delle ispirazioni più importanti anche per la nascita di Buone Notizie. Riccardo è stato punto di riferimento per chiunque in questi anni abbia cercato di occuparsi dei temi che soltanto lui conosceva così nel profondo per essere stato uno di loro: pensatore, innovatore, narratore e anche coscienza critica ogni volta che è stato necessario. Oggi, che sentiamo davvero un vuoto nel cuore, gli siamo ancora più grati per i suoi insegnamenti e la sua amicizia e abbracciamo la sua famiglia e la famiglia di Vita.

L’intero archivio degli articoli di Riccardo Bonacina pubblicati su vita.it è disponibile a questo link

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Riccardo Bonacina, trent'anni di pensiero sociale by Vita Società Editoriale - Issuu