Franco Bomprezzi collection
FRANCAMENTE 2024
A dieci anni dalla scomparsa, rileggiamo tutti gli articoli pubblicati su VITA nel 2014
Prefazione di Alberto Fontana

FRANCAMENTE 2024
Franco Bomprezzi collection
FRANCAMENTE 2024
A cura di redazione VITA
© 2024
Supplemento digitale al numero in corso della testata giornalistica VITA
Registrazione presso il Tribunale di Milano n- 397 dell’8/7/1994
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Indice
A dieci anni dalla scomparsa, avvenuta il 18 dicembre 2014, pubblichiamo una raccolta degli articoli che Franco Bomprezzi ha scritto su VITA in quell’anno con “Francamente”, la rubrica che teneva sulla nostra testata.
Un’antologia sorprendente per attualità e qualità di un grande giornalista e formidabile attivista.
Gli interventi raccontano di un personaggio eclettico capace di guardare al mondo in modo originale, usando la fragilità fisica come leva di mobilitazione e civismo.
Ieri come oggi, leggere Franco Bomprezzi significa condividere e diffondere i valori dell’inclusione e della solidarietà, e andare a scuola di buon giornalismo.
Stefano Arduini
Le parole sono contenitori: dentro c’è la vita
di Alberto Fontana
Sono ormai dieci anni che ci manca. Dieci anni durante i quali la sua assenza si è fatta sentire profondamente, ma altrettanto si è fatta viva la traccia indelebile che ha lasciato nelle nostre vite. Siamo cresciuti con lui, accolti e arricchiti dalla sua capacità di stimolare la consapevolezza dentro di noi, di spingerci a guardare oltre le superfici, oltre i pregiudizi, e di abbandonare le scorciatoie dell’autocommiserazione e del paternalismo. Attraverso le sue idee e la sua passione, ci ha insegnato a non accontentarci di una giustizia parziale, ma a muovere il cuore e la mente verso una giustizia sociale piena, autentica, inclusiva di tutti. Il linguaggio non è semplicemente un mezzo di comunicazione, ma un elemento costitutivo della nostra identità, un terreno su cui si sviluppano cultura, tradizioni e conoscenza. Ogni parola porta con sé una storia, un contesto, una serie di associazioni che vanno ben oltre il suo significato letterale. In ogni parola, in ogni scritto, si intrecciano fili invisibili che collegano le persone a un mondo, l’astratto col reale, l’idea alla vita.
Franco sapeva bene che il linguaggio non è mai solo uno strumento di comunicazione: è parte integrante di ciò che siamo, un elemento fondante della nostra identità. Attraverso di esso si intrecciano i fili della cultura, delle tradizioni e della conoscenza; ogni parola che pronunciamo o scriviamo porta con sé una storia, un contesto, e una rete di significati che vanno ben oltre ciò che appare in superficie. Michel Foucault, nel suo studio sul potere, ci ha messo in guardia sull’uso del linguaggio come strumento di controllo, di esclusione o di legittimazione di certe visioni del mondo a scapito di altre. Le parole non sono mai neutre: possono plasmare il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri, influenzare il nostro ruolo nella società, e persino contribuire a trasformare radicalmente le cose. Franco lo aveva capito profondamente, tanto da ripeterlo spesso con una delle sue frasi più incisive: «Le parole sono contenitori. Dentro c’è la vita. Ci sono le persone. Con la loro dignità.» Queste sue parole non erano solo un’osservazione; erano una guida. Ci ricordava che dentro ogni termine c’è un mondo intero, carico di emozioni, significati e valori, e che ognuno di essi racconta una visione della realtà.
Parlare con consapevolezza significa riconoscere che le parole non descrivono solo cose o concetti, ma toccano la vita di chi viene descritto. Ogni termine porta con sé l’unicità, le esperienze e i diritti delle persone, ed è capace di modellare, nel bene e nel male, la percezione e il trattamento degli altri all’interno della società. Quando parliamo di disabilità, ad esempio, le parole che scegliamo possono determinare se vediamo una persona come un soggetto pieno di diritti, esperienze e dignità, oppure se la riduciamo a un “problema” o a un “oggetto” di compassione. Franco ci ha insegnato che è nostro dovere etico considerare la persona disabile come un fine e mai come un mezzo, anche nell’informazione. Ogni narrazione dovrebbe essere uno spazio per far emergere la dignità e il valore intrinseco della persona, non una
cornice che rafforza stereotipi o pregiudizi. È solo attraverso una comunicazione consapevole e rispettosa che possiamo sperare di costruire una società più equa, in cui ogni parola contribuisca a unire piuttosto che dividere, a includere piuttosto che escludere, a dare valore piuttosto che sminuire.
Oggi, ricordiamo il potere trasformativo del suo messaggio: un messaggio che ci invita, ogni giorno, a riflettere sulle parole che usiamo e sulle vite che esse raccontano.
Oggi, ricordiamo il testimone della frase «Nulla su di noi, senza di noi», un invito potente a mettere al centro della discussione chi vive quotidianamente la realtà della disabilità, non come oggetto di intervento ma come soggetto attivo, capace di portare la propria esperienza e prospettiva. Una prospettiva che trascende il contesto della disabilità per diventare una lezione universale. Ogni gruppo sociale, ogni comunità emarginata, ha il diritto di partecipare alle decisioni che influenzano la propria vita.
15 Dic 2014 Cara VITA, vent’anni insieme. In Movimento
Cara VITA,
vent’anni e sentirli. Ma sentirli bene. In movimento. Ci sono dall’inizio, Riccardo lo sa bene. Ho imparato con la gente di VITA a ragionare largo, profondo, e prima di tutto ad ascoltare, incuriosito, i mondi che si interfacciavano, galassie a volte lontane, che però anno dopo anno si sono cimentate nell’impresa non semplice di uscire dall’orto di casa e condividere competenze, aspirazioni, visioni, esperienze, buone prassi. Il mondo del welfare è cambiato intorno a noi, ma anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo contribuito, con le parole e con le battaglie, con gli approfondimenti e con i servizi dedicati, a cambiare il mondo. Al punto che adesso ci stanno strette molte definizioni, non ci riconosciamo più in un ruolo secondario e sussidiario (nel senso riduttivo che spesso viene usato) e siamo largamente convinti che il cambiamento del quale ha assoluto bisogno questo Paese, ma non solo, passa attraverso la scelta di una direzione del tutto differente di marcia, abbandonando molti automatismi che di fatto mortificano creatività, produttività, sostenibilità, perfino solidarietà. Lo
sviluppo sociale ed economico nuovo, la possibilità di creare lavoro, di tornare carichi di speranza verso il futuro, passa attraverso le elaborazioni culturali e progettuali che questo splendido melting pot di VITA ha saputo nel tempo costruire, cementare, rinnovare.
Molto ha giocato lo sviluppo della rete, grazie anche al web, con la veloce circolazione delle idee, delle proposte, della documentazione che difficilmente è possibile intercettare sui media generalisti. Ambiente, cooperazione, impresa sociale, attività delle ong, volontariato, associazionismo: altrettante sfide che hanno i volti ben noti di persone che oggi hanno vent’anni di più anche se li portano bene e con disinvoltura, per il semplice motivo che il ricambio generazionale, anche in questo mondo, è difficile e non sempre perché i dirigenti non ce la fanno a lasciare gli incarichi di maggiore responsabilità. Il fatto è che le giovani generazioni sono alle prese con la più impressionante crisi di valori, prima ancora che crisi economica.
La nuova sfida di VITA è coniugare l’esperienza, la memoria, la storia, con le speranze, le rabbie, il vitalismo di chi si affaccia adesso al mondo e non lo trova granché attraente.
Sarà la nostra capacità di narrazione, di ascolto e di condivisione a fare di VITA per lungo tempo ancora un esempio di housing sociale nel mondo dell’editoria. Andiamo avanti.
8 Dic 2014 Liberi di volare
Sì, c’è anche il numero del letto: 15. Un piccolo progresso dal letto 14
dell’Unità Spinale di Niguarda, da dove vi ho scritto qualche anno fa piccole cronache di degenza e di umanità. Questa volta mi trovo al Centro Clinico Nemo, sempre a Niguarda. Ho scelto di ricoverarmi qui per capire bene che cosa stesse succedendo al mio organismo, che non sta funzionando a dovere, e non solo per le conseguenze di un’embolia polmonare. Avevo ragione, c’era altro, problemi per così dire di funzionamento nientemeno che del pancreas e del fegato. Lo hanno capito in poche ore di day-hospital e quindi non mi hanno lasciato andare a casa, ma sono stato accolto subito in questo reparto luminoso, caldo, dai colori pastello della speranza e della serenità: i colori del pesciolino Nemo. Perché qui c’è una rete che spinge verso l’alto, con affiatamento e competenze elevatissime. Dicevo del numero del letto. In realtà la camera nella quale mi trovo ha un nome: “Liberi di volare”, e dentro è piena di fumetti che rappresentano aerei in volo, e persino sul pavimento sono tracciati aeroplanini color arancio.
È un centro specializzato nato dall’incrocio di tante volontà e di personaggi tenaci: Alberto Fontana, Mario Melazzini, Renato Pocaterra, come dire Uildm e Telethon, Aisla, Famiglie Sma (atrofia muscolare spinale). Il tutto convergente nella Fondazione Serena, un modo concreto di coniugare ricerca e assistenza, e offrire un servizio di eccellenza a tante famiglie che non avevano fino a pochi anni fa un riferimento unico al quale rivolgersi con fiducia.
Ecco, è qui che sto combattendo una nuova battaglia per ritrovare salute e qualità della vita. Coccolato dalle oss e dagli infermieri, curato con attenzione certosina dall’équipe medica, sento già i primi segni della riscossa. Ma sono anche giorni nei quali il pensiero è davvero libero di volare. Il pensiero di ciò che ho fatto sino ad ora, di ciò che vorrei continuare a fare a lungo, l’analisi serena dei progetti che mi spingono a guarire in fretta, perché c’è tanto da fare.
In un Paese nel quale sembra che nulla funzioni, ho trovato la conferma che non è vero, non c’è da disperarsi. Volevo per ora condividere con voi questa mia sensazione di serenità. Ne scriverò ancora.
18 Nov 2014 L’eclissi della speranza?
Insomma in qualche modo bisogna reagire. Non riesco, in queste settimane di maggiore presenza a casa, nella lunga e non semplice convalescenza, ad accettare il livello sistematicamente distruttivo di qualsiasi programma televisivo che cerchi di raccontare e affrontare i tanti guai del nostro Paese. I disastri ambientali, le periferie urlanti, le tensioni in piazza, le sceneggiate nelle aule parlamentari, tutto un minestrone indistinto che contribuisce ad alimentare un disagio, una nausea, un rifiuto del presente e del futuro, in una parola, l’eclissi della speranza.
Raramente vedo analogo impegno mediatico a cercare chi possa raccontare soluzioni praticabili, anche tecnicamente, per affrontare correttamente uno qualsiasi di questi problemi. Eppure le competenze esistono, dalle università alla rete delle associazioni, dai tecnici onesti (che pure ci sono) ai divulgatori non faziosi. Anche all’interno della politica è evidente che vengono interpellate quasi sempre le persone più aduse alla polemica, all’invettiva, allo sfascio. Il quadro che ne esce è desolante e sicuramente contribuisce a quel degrado della coesione
sociale che è un pericolo tremendo per chiunque, da sempre, si batte riformisticamente e banalmente nel tentativo di fare la propria parte per risolvere un pezzetto alla volta.
Penso a Milano, squassata dalle acque di Seveso e Lambro, penso a quanto contemporaneamente si sta cercando di fare per migliorare complessivamente l’accessibilità e la mobilità delle persone con disabilità o degli anziani. E mi rendo conto che le ripetute esondazioni, con i danni alle linee della metropolitana, con i disagi improvvisi e pesanti, danno la sensazione che tutto sia inutile, che non ci sia niente da fare. Ci scopriamo tutti ignoranti rispetto alle scelte di intervento idrogeologico che dovrebbero essere fatte, rispetto ai tempi, ai finanziamenti, alle soluzioni a breve termine. Eppure non possiamo permetterci il lusso di buttare tutto via, assieme all’acqua sporca.
Mai come adesso ci vorrebbe uno scatto d’orgoglio, prepolitico, semplicemente di cittadinanza e di appartenenza, capace di farci riprendere il cammino, in ogni campo. Non è possibile, ragionevolmente, che questo Paese sia completamente a pezzi e soprattutto che la catastrofe stia avvenendo qui e adesso, negli ultimi mesi. Una mancanza siderale di memoria, un ripetuto e cinico tentativo di buttare tutto in caciara, sperando che alla fine crolli questo sistema ma non sapendo minimamente chi e come potrebbe davvero ricostruire un futuro civile e democratico.
Per certi versi sento crescere il desiderio di maniere forti, di scelte autoritarie, di plebisciti che facciano piazza pulita di tutto e di tutti. Come persone impegnate nella comunicazione, nell’informazione di servizio, nel racconto del welfare che cambia, non possiamo chiamarci fuori e lasciare che questo scempio continui indisturbato.
A 62 anni voglio continuare a sperare, a vivere, a lottare per fare meglio. E sono certo di non essere il solo.
7 Nov 2014
Io sto con le Fondazioni bancarie. E tu?
Non ci ho pensato un attimo, quando mi è stato chiesto, come presidente di Ledha, di aderire a una campagna di comunicazione, sostenuta dal Forum del Terzo Settore, per chiedere un ripensamento al Governo, che sta prevedendo nella legge finanziaria un inasprimento della tassazione sui rendimenti derivanti dagli investimenti delle Fondazioni bancarie. Mi sembra davvero impossibile che sia sfuggita, agli ingegneri del bilancio statale, quale sarà, inevitabilmente, la conseguenza di questa decisione. Se è vero che nelle casse dello Stato entreranno 340 milioni di euro per il 2014 e 360 per il 2015 (invece dei 170 milioni per anno versati dalle Fondazioni nel 2012 e nel 2013) è altrettanto vero che le Fondazioni dovranno per pari importo tagliare i finanziamenti destinati a progetti di grande importanza sociale. In parole povere le vittime della patrimoniale saranno le associazioni del Terzo settore, i Comuni, e, in ultima analisi, le persone più fragili ed esposte, come ad esempio le persone con disabilità, gli anziani, i bambini e via elencando.
Non occorre il Nobel per l’Economia per capire questo meccanismo
perverso e beffardo. Ognuno di noi, nel tempo, ha imparato a dialogare con le migliori fondazioni bancarie, spesso per necessità, dovendo trovare risorse aggiuntive per inserirsi in bandi di progettazione sociale, o molto semplicemente per continuare a svolgere attività che nascono in modo sperimentale e hanno assoluto bisogno di uno sforzo iniziale, un motore autorevole di start up, prima di raggiungere, e non sempre, una propria autonoma sostenibilità.
In Lombardia non è certo un mistero che di fatto molta parte del welfare sociale, molte esperienze di sussidiarietà reale, passano attraverso i bandi delle Fondazioni bancarie. Ma non c’è solo questo. La qualità di analisi della validità dei progetti, la capacità di diventare partner in modo intelligente e spesso intransigente, ha costituito negli ultimi anni un banco di prova serio e trasparente della capacità del mondo associativo e del terzo settore in generale di generare buone prassi, servizi utili per le persone, modelli ai quali, nel tempo, le istituzioni pubbliche possono attingere per migliorare, perfezionare, ampliare la propria capacità di intercettare i bisogni, di fornire risposte concrete e serie.
Non è dunque pensabile che questa minaccia si traduca senza modifiche significative in realtà. Vedremo adesso quanto si svilupperà la mobilitazione del Terzo settore, che è già stremato, e alle prese con difficoltà strutturali, rese più drammatiche, quasi sempre, dai tagli nei trasferimenti delle risorse destinate al welfare. Le Fondazioni per statuto si salveranno e terranno i bilanci in equilibrio, come è logico. A farne le spese saranno i cittadini. Perciò anche io dico #menotassepiùerogazioni. E voi?
31 Ott 2014 Siamo tutti filippini e cicciobelli
Certo, sono interista. E quindi potrei essere particolarmente suscettibile. Ma in realtà anche io ho qualche perplessità su questa prima fase di presidenza Thohir, ho la sensazione che si lasci condizionare in alcune scelte (a partire dalla conferma dell’allenatore), che abbia un po’ il braccino corto (chi acquista una squadra come l’Inter almeno per un paio d’anni, oltre a risanare il bilancio deve anche spendere per non compromettere qualità e prestazioni). Ma non mi è mai passato per la testa di giudicarlo negativamente perché è asiatico. Anzi, il suo arrivo a Milano conferma il patto fondante di questa squadra fondata da un gruppo di svizzeri, nel 1908: Internazionale. Fatta questa premessa che mi mette al riparo dall’accusa legittima di conflitto d’interesse (passionale) mi domando che cosa stia succedendo. In pochi giorni Erick Thohir è stato insultato in vario modo da: Massimo Ferrero, noto industriale e presidente della Sampdoria (lo ha definito “filippino” e poi si è scusato con i filippini), Evelina Christillin, intellettuale juventina ben collocata in una ventina di cariche (prima ha ironizzato sulla dentatura di Moratti, e poi ha definito “cicciobello
a mandorla” il tycoon indonesiano) e adesso persino da Enzo Iacchetti («Non sa nemmeno parlare italiano») ma in realtà ha ammesso che non gli piace perché gli ha tolto la tessera Vip e ora se vuole entrare a San Siro deve pagare (interista?). Si è aggiunto anche Matteo Salvini («Ho riso per un’ora quando ha detto di aver ringraziato Allah per essere entrato in Europa League»). Ma almeno Salvini è coerente, oltre che milanista.
Al confronto le parole di Tavecchio sono acqua fresca. E nessuno, a dire il vero, in queste ore ai livelli più alti del calcio sta intervenendo per bloccare questa vergognosa deriva razzista. Lasciamo perdere il tifo: proviamo solo a immaginare come notizie di questo tipo possano essere lette in giro per il mondo. Il bello è che poi si cerca di ascoltare i cori, di interpretare i “buuh…”, di fotografare le banane nelle curve degli stadi. Ne parlo qui perché credo che la questione esuli completamente dal calcio, dalla passione, dal tifo.
Ho come la sensazione che ormai il calcio sia ritenuto un terreno franco, nel quale poter dare sfogo al peggio del peggio, senza rischi. I giornali registrano le notizie, ma tranne rare eccezioni (un pezzo molto forte di Mario Giordano su Libero che distrugge l’immagine patinata della Christillin) non si è vista una reazione adeguata. Forse perché in fin dei conti Thohir viene vissuto come un corpo estraneo rispetto al panorama di presidenti spesso picareschi delle nostre società di calcio; forse perché l’Inter sta comunque sulle scatole dai tempi di Calciopoli.
Per quanto mi riguarda non posso che dirmi filippino e sicuramente cicciobello. Non ho gli occhi a mandorla, ma in compenso le gambe assai storte, se può servire.
24 Ott 2014 Renzi, non ce lo meritiamo
Leggo ancora una volta il solito copione e mi rattristo. Nella bozza della legge di Stabilità si prevede il taglio di 100 milioni di euro al fondo nazionale per la non autosufficienza, da 350 a 250 milioni, e il congelamento del Fondo per le politiche sociali. Le associazioni, unite come non sempre avviene, non ci stanno e chiedono un incontro urgente. Vorrebbero Renzi presente, si trovano davanti due sottosegretari, animati dalle migliori intenzioni, ma evidentemente non in grado di decidere un accidente. E si torna a parlare di mobilitazione necessaria. Quasi una forma di fisioterapia di massa, una ginnastica pericolosa, specie avvicinandosi la stagione invernale. Lo abbiamo visto e fatto tante volte. Con il risultato, spesso, di vincere la battaglia, sapendo che la guerra continuerà a svilupparsi in mille trincee, tra agguati, trabocchetti e altre diavolerie previdenziali e contabili.
Il mondo della disabilità non merita questo trattamento. Non lo ha mai meritato, anche quando è stato ripetutamente messo in un angolo con campagne furbe e detestabili che hanno inutilmente cercato di dimostrare l’indimostrabile, ossia che in Italia si spende
troppo per chi non è produttivo. «L’Istat certifica che in Italia la spesa sociale per la disabilità è inferiore di mezzo punto di Pil rispetto alla media Ue di 2,1% – documenta il sito della Fish, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap – In Italia la spesa pro capite è di 423 euro l’anno: la media Ue è di 536. In Germania se ne spendono 277 in più, in Croazia 100. Il divario rispetto alla Ue è di circa 8 miliardi di euro. Se osserviamo gli effetti pratici ciò significa esclusione sociale, marginalità, impoverimento progressivo delle persone con disabilità e dei loro familiari che spesso sono gli unici caregiver, in un’assenza di politiche certe e strutturate».
Caro Renzi, non tutte le donne con disabilità potranno mettere al mondo un bebè dal prossimo gennaio, anzi credo che in questa situazione saranno ben poche a poterselo permettere, perciò a loro quel bonus di 80 euro non fa né caldo né freddo. Non tutte le persone con disabilità hanno un lavoro che permetta loro di accedere agli 80 euro di bonus in busta paga o al tfr, per il semplice motivo che oltre due terzi sono strutturalmente disoccupati e dunque devono, necessariamente, avere accesso a servizi, a risorse, a progetti di vita indipendente, se non vogliono finire, come unica e ultima scelta, in una struttura protetta. Pensavo sinceramente che indietro, almeno rispetto all’esiguo bilancio degli ultimi anni, fosse impossibile tornare, e invece, almeno in prima battuta, ci risiamo. Almeno ci fosse un segnale di serietà e di trasparenza, una proposta di approfondimento e di riforma strutturale del complesso meccanismo procedurale che rende difficile costruire progetti concreti attorno alle persone, come vuole la Convenzione Onu. Niente di tutto questo, il Piano d’azione nazionale è fermo tra i buoni propositi, i tagli alle Regioni e ai Comuni sono l’unica certezza conclamata. Parlare di delusione, al momento, è pure poco. Caro Renzi, c’è solo una cosa da fare. Tra un tweet e l’altro, durante la Leopolda o subito dopo, manda un segnale forte: «Mi sono sbagliato, sulla disabilità non si taglia #statesereni». Che comunque, a dirla tutta, sereni non stiamo di sicuro.
20 Ott 2014 Il tempo del corpo
Sono tornato a casa dopo un ricovero d’urgenza, ho sconfitto abbastanza rapidamente il perfido trombo che si era aggrumato nei miei polmoni. Insomma non ho ancora vinto la guerra, ma le prime battaglie sì. Lo capisco perché mi ascolto. Ho imparato in questi giorni di convalescenza ad accettare la legge del corpo, i suoi tempi, i suoi messaggi, il suo linguaggio assolutamente chiaro e comprensibile. Ma faccio fatica ad adeguarmi a questo tempo del corpo. Se uno viene preso a bastonate è abbastanza semplice capire perché si sta male. Ma quando il nemico ti assale dall’interno, togliendoti letteralmente il respiro, la faccenda si complica.
Mi sto rendendo conto che la nostra ansia da guarigione, individuale e sociale, è talmente radicata da provocare, anche involontariamente, un certo senso di colpa quando ti accorgi che, a ben guardare, non sei effettivamente in forma come prima, anche se i miglioramenti sono evidenti, quotidiani e classificabili secondo una scala interiore, difficile da tradurre in numeri e algoritmi. L’esercizio di respirare bene, ad esempio, è un test particolarmente significativo dal punto di vista mentale e persino
spirituale. L’ossigenazione corretta è alla base delle nostre funzioni vitali, compreso il meccanismo cardiocircolatorio. Lo sappiamo bene, eppure tendiamo a ignorare la lezione che il nostro corpo ci propone ogni giorno, ogni istante. L’ansia del ritorno alla normalità, alla quotidianità delle azioni e delle relazioni umane, è comprensibile. E nel mio caso, del tutto evidente. Sto sfruttando le poderose opportunità degli strumenti di comunicazione, dallo smartphone al computer. Quasi tutto si può fare anche a distanza. Ma non è la stessa cosa, specie quando la presenza fisica ha un’obiettiva giustificazione, perché rassicura, favorisce la soluzione rapida di incomprensioni o di problemi, consente di prendere decisioni e di costruire una rete condivisa, rispetto alle tematiche nelle quali si è impegnati.
Ma ascoltare il tempo del corpo è un esercizio di umiltà e di rispetto per il mistero della nostra esistenza, e anche una forma di rispetto per se stessi. Questo involucro che non corrisponde esattamente a ciò che avrei voluto indossare attorno al mio spirito, mi accompagna pur sempre nella vita, in modo soddisfacente, da 62 anni. La mia intenzione è di procedere a lungo, con determinazione e buona lena, vivendo normalmente e senza rinunce. Ogni parentesi determinata da un improvviso stato di disequilibrio fisico sviluppa un meccanismo di resilienza, che fino ad oggi ha fatto sì che io tornassi a combattere ogni volta come prima e meglio di prima.
Ma ho imparato la lezione. Il tempo del corpo va rispettato. Il suo linguaggio va ascoltato. Poi si riparte, dopo aver fatto il pieno di energia. Tranquilli, sto arrivando.
10 Ott 2014 Cristo si è fermato ad Ebola
Non ho argomenti né competenza. Solo gli strumenti normali di chi è abituato da anni ad osservare l’andamento delle notizie relative a epidemie, a malattie devastanti e contagiose, a vecchi e nuovi incubi globali. Resto colpito, quasi annichilito, dal cinismo con il quale negli ultimi giorni viene veicolata, in modo crescente, l’informazione sulla diffusione in Occidente del virus di Ebola. L’unica preoccupazione sembra essere quella di scongiurare il contagio qui, nei Paesi evoluti e vaccinati, ricchi e istruiti. Il tema è come isolare, come bloccare, come evitare il contagio. I singoli casi vengono trattati con cauto allarmismo, un mix orribile di detto e non detto. Poi lo stacco, ogni tanto, sulle immagini che testimoniano il vero dramma, quello che si consuma laggiù, nei Paesi dove si muore a migliaia, non a singole unità.
Ho anche la sensazione, non suffragata da prove, che la comunità scientifica e le grandi imprese del farmaco si stiano muovendo con un ritardo colossale, e solo nel momento in cui la paura comincia a farsi largo qui in Occidente, dagli Usa alla Germania all’Italia. I volontari, civili
e religiosi, che hanno affrontato a mani nude o quasi l’epidemia là dove sta dilagando per ignoranza, miseria, mancanza d’igiene e di cure, hanno urlato nel deserto ormai da anni. Ebola sembra essere in qualche modo la variante virale dell’atteggiamento tenuto nei confronti dell’immigrazione di massa dall’Africa.
Nulla o quasi si fa per rimuovere alle origini le condizioni che generano, quasi endemicamente, l’insorgere di malattie devastanti. Nulla di concreto si è fatto per arrivare a risultati significativi in termini di ricerca scientifica. Ora tutto corre, e le notizie alternano speranza di cura a paura di contagio. Non è che la fase iniziale di un tormento che ci accompagnerà nei prossimi mesi. Ma lo spettacolo offerto dalle Nazioni evolute è indecente. E noi stessi, in fin dei conti, ben poco ci preoccupiamo di quegli uomini, di quelle donne, di quei bambini che ogni giorno cadono senza altra colpa che quella di essere nati nel Paese sbagliato, nel momento sbagliato. Per chi avesse ancora dei dubbi, consiglio di rileggere il bel post di padre Giulio Albanese “Ebola colpisce ancora” . Guardate la data: 16 luglio. Sono trascorsi tre mesi.
30 Sett 2014 Elogio del respiro
Ancora una volta sembra che il mio organismo, apparentemente fragile, stia superando i marosi di una bufera violenta e improvvisa. La paura assume l’aspetto del sudore freddo che ti invade in quegli istanti nei quali realizzi che stai effettivamente male come mai ti era capitato prima, e non per un dolore, ma per la mancanza di qualcosa di talmente immateriale da non essere quasi mai apprezzata come dovrebbe: il respiro.
Ero improvvisamente incapace di compiere qualsiasi gesto senza avere il cuore in gola e il respiro strozzato, breve, sincopato e aritmico, incontrollabile al punto da temere di non averne più a disposizione. Di qui la decisione di affidarsi alle competenze collaudate dei servizi di urgenza. Prima l’ambulanza, poi il pronto soccorso, codice giallo, una prima visita, la maschera, l’ossigeno, e poi la tac: embolia polmonare. Diagnosi secca, precisa. Una fucilata nelle orecchie, perché la parola fa effetto, spaventa. Ma un secondo dopo realizzi che una spiegazione così chiara di quanto è accaduto apre subito le porte della speranza: posso guarire e tornare come prima.
E così oggi scrivo con il tablet in ospedale e organizzo i miei pensieri
ascoltando con gioia il mio compagno di viaggio appena ritrovato: il respiro. Soffio di vento interno, misterioso messaggero e ambasciatore della nostra esistenza. Prometto di ascoltarne di più i consigli che costantemente mi invia e che io, presuntuosamente ho spesso ignorato.
La vita ricomincia ogni volta e ti sorride.
22 Sett 2014 Lavorare meglio, lavorare tutti (o quasi)
Ancora una volta ho scritto nella mia pagina di facebook una frase sgorgata di getto, dopo ore di telegiornali e di talk show dedicati all’articolo 18: «L’art. 18 fa parte della nostra storia civile, non c’è dubbio. Ma non ho mai visto i sindacati minacciare uno sciopero generale per chiedere l’applicazione della legge 68 del ’99 per il lavoro alle persone con disabilità. O mi sbaglio?». A giudicare dalla valanga di “mi piace” in poche ore (circa trecento) e di condivisioni sulle bacheche personali di 45 miei “amici” di ogni tipo e tendenza politica, devo dedurne che ho toccato un nervo scoperto e ho espresso un pensiero, in modo credo del tutto civile e rispettoso, che però apre una riflessione più vasta e forse ha bisogno di qualche aggiunta, qui, dove le parole mi vengono con facilità. Il mio rammarico infatti è in sostanza questo: si rischia ancora una volta di non cambiare seriamente il sistema di accesso e di mantenimento del lavoro perché attorno a un simbolo glorioso si concentra una battaglia da Armageddon, che sembra non consentire vie d’uscita. Sgombro subito il campo da qualsiasi dubbio: anche io sono un uomo del Novecento, e ricordo bene con quale orgoglio ho vissuto la fase politica e sociale
che ha consentito, nel nostro Paese, il varo dello Statuto dei Lavoratori, in un’epoca differente, complicata e spesso drammatica, ma che vedeva l’economia, l’industria, il Paese in crescita e con l’occupazione a livelli mai più raggiunti. L’articolo 18 fu un punto fermo di un percorso di tutela sostanziale del posto di lavoro, e tuttora, con le limitazioni che ha già ricevuto, ha una sua funzione importante di garanzia contro i soprusi e gli avventurismi. Sono fra coloro che ritengono assurdo e persino inutile concentrarsi su questo punto per decidere se approvare o mandare all’aria il disegno complessivo del Jobs act del governo presieduto da Renzi.
Ma se oggi i sindacati vivono il punto più basso di popolarità e di condivisione generale da parte dell’opinione pubblica, anche di sinistra, questo è dovuto anche ad alcune storiche e congenite pigrizie culturali e a precise dimenticanze di impegno e di lotta. Fra queste c’è sicuramente una insufficiente mobilitazione a sostegno della piena applicazione, nel settore pubblico e nel settore privato, della legge 68 del 1999, quella per il collocamento mirato delle persone con disabilità. Una legge frutto di un compromesso, come del resto sempre accade in Italia e non solo in Italia. Ma pur sempre una legge avanzata che avrebbe potuto negli anni seguenti alla sua entrata in vigore contribuire progressivamente alla riduzione della drammatica forbice esistente tra i livelli di disoccupazione generale e i livelli della disoccupazione dei potenziali lavoratori disabili. Ormai si parla di disoccupazione strutturale, con percentuali che superano il 70%. Una causa quasi persa, sia pure con alcune situazioni di eccellenza, e tenendo conto del ruolo prezioso svolto dalle cooperative sociali (specie per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità intellettiva, doppiamente penalizzati). Le aziende come è ampiamente noto preferiscono quasi sempre pagare una multa piuttosto che assumere una persona con disabilità. Il percorso di ingresso al lavoro passa attraverso la mediazione pubblica, le Province (che sono in fase di sparizione…), le associazioni di tutela, le cooperative, il sistema delle doti. Insomma tutto tranne il tradizionale confronto tra
impresa e lavoratori garantito dalla combattività dei sindacati. Sappiamo tutti che è difficile convincere i lavoratori non disabili a battersi per fare largo a persone che, nell’immaginario collettivo, subiscono uno stigma e un pregiudizio pesantissimi. Ma è anche vero che i sindacalisti che si battono seriamente anche per il lavoro delle persone disabili li conosciamo per nome, uno ad uno, regione per regione. È difficile dunque immaginare che adesso, da questo mondo tartassato ed emarginato, arrivi una solidarietà attiva per una battaglia di bandiera che nel migliore dei casi viene condivisa soprattutto nel timore che, caduto l’articolo 18, si arrivi di conseguenza a cancellare altre tutele, fino ad arrivare (come già si ipotizza) a eliminare ad esempio l’indennità di accompagnamento.
Si tratta insomma di una questione delicata e complessa, nella quale gli stati d’animo, le storie, le delusioni, le speranze, le rabbie accumulate, giocano un ruolo importante, quasi decisivo. Penso che questo sia il momento di concentrarsi seriamente sui contenuti della riforma, cercando casomai di alzarne il livello di inclusione e di tutela sostanziale, costruendo nuove alleanze sociali, con chi oggi si sente escluso dal mondo del lavoro e persino dal precariato.
Non è un tema che riguardi solo la disabilità, ovviamente. Ma vorrei che fosse chiaro: l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, quando avviene e funziona, modifica l’ambiente di tutti (dalle barriere fisiche a quelle mentali, dall’organizzazione degli spazi alla flessibilità e idoneità delle mansioni e delle competenze) e lo modifica in meglio. Le aziende pubbliche e private che utilizzano bene e in modo convinto i lavoratori con disabilità fisica, sensoriale o intellettiva, sono aziende migliori, dove il lavoro è un valore anche umano da condividere e supportare ogni giorno.
Insomma proviamo a lavorare meglio, e a lavorare tutti. E con questo spirito proviamo anche a smontare le barricate sull’articolo 18.
15 Sett 2014 L’Indignato Sociale
Confesso che questa volta non ho avuto coraggio. Dopo aver letto il sorprendente post di Riccardo Bonacina “Chi se ne frega di Daniza” ero tentato di cliccare “mi piace” e di condividerlo sulla mia pagina di Facebook e di Twitter. Al di là del titolo volutamente provocatorio, trovavo e trovo molto convincente larghissima parte del suo ragionamento. Io, per il mio carattere, sarei stato più sfumato, magari non cerchiobottista, ma insomma avrei tentato di non tirarmi addosso l’ira funesta degli indignati sociali. Però dentro di me e parlandone con chi mi sta vicino, avevo espresso la medesima insofferenza per l’enfasi del tutto esagerata che per alcuni giorni è stata garantita dai media di ogni genere a una vicenda sicuramente triste e sfortunata, ma comunque da ricondurre in una dimensione accettabile, senza toni minacciosi e richieste forcaiole. In realtà non ho cliccato “mi piace” e non ho condiviso il post perché ho temuto la valanga degli Indignati Sociali, che mi avrebbe travolto di sicuro (e magari lo farà adesso) e in quel momento non avevo neppure il tempo per seguire personalmente gli effetti di una semplice e umanissima solidarietà professionale con il direttore editoriale di VITA.
Non voglio entrare adesso nel merito della questione che in effetti, come ampiamente previsto, è già in parte scesa di peso e di attenzione. Personalmente mi sono fatto l’idea che siano stati commessi tanti piccoli e grandi errori, distribuiti nel tempo e nello spazio, nella gestione assai complessa di un equilibrio ecologico ed etologico difficile ovunque, Trentino compreso. Ma da qui a chiedere, ad esempio, le dimissioni del ministro dell’Ambiente ce ne corre. Minacciare il fungaiolo spaventato è al di là di ogni ragionevole dubbio un esempio di totale idiozia e inciviltà. Discutere seriamente del caso è certo possibile, protestare anche, ma non in questo modo. E qui vengo alla mia considerazione e al titolo del mio post: l’Indignato Sociale.
Ho l’impressione che ormai stia diventando quasi un’occupazione stabile. A colpi di hashtag si combattono ogni giorno battaglie e guerre planetarie per i motivi più disparati, e quasi sempre per sostenere cause delle quali si conosce poco o niente, mossi solo da un video, da una foto, da una frase, da una catena di Sant’Antonio alla quale non si riesce a sottrarsi pena la perdita inconsolabile di amicizie virtuali e magari persino reali. Il flusso costante di richieste di firme per le petizioni più incredibili è un fenomeno che si alimenta come un Moloch insaziabile. Facebook e Twitter agiscono a tenaglia e colpiscono senza tregua, di giorno e di notte. Occorre molto sangue freddo, contare fino a dieci e anche oltre, per riuscire a rimanere indenni, e non cadere nelle trappole disseminate ovunque. L’Indignato Sociale sa come farti sentire in colpa, o in ritardo. Invia il medesimo messaggio a una lista lunghissima di contatti, tecnicamente li “tagga” in modo tale che tutti possano vedere chi è stato coinvolto (in barba a qualsiasi rispetto della privacy…). Nei flussi di messaggi privati su Facebook si è costretti spesso ad “abbandonare la conversazione” ben sapendo che così si viene smascherati ed esposti al pubblico ludibrio. L’ingresso di “messenger” come strumento di gestione dei messaggi di Facebook sugli smartphone ha se possibile peggiorato le cose, rendendo insopportabile l’applicazione
(che infatti ho disinstallato immediatamente).
Il meccanismo dell’Indignato Sociale è potente e violento: chiunque si dissoci o almeno prenda le distanze da cause che forse all’origine potrebbero anche essere condivise, ma non in termini spesso arroganti o addirittura palesemente volgari, è sotto scacco e sa già che subirà l’anatema e l’aggressiva protesta dei Difensori Della Causa Giusta. Il fatto è che quasi mai questo spropositato spiegamento di mezzi virtuali di convincimento, questa coscrizione di massa, ha un esito pratico e risolutivo rispetto al tema che di volta in volta viene messo in campo. Non riesco, ad esempio, a immaginare le modalità concrete di boicottaggio del Trentino. Niente più speck sulle nostre tavole? E lo strudel? I vini friulani sì, quelli della Val d’Adige no? Niente vacanze in montagna? E poi se in tanti, magari animalisti convinti, perdono il lavoro, che si fa? Insomma, io scusate ma non me la sento. Mi spiace moltissimo per la sorte di Daniza, a differenza di Riccardo Bonacina. E spero che i suoi piccoli se la cavino e crescano sani e felici. Ma non ce la faccio ad occuparmi seriamente anche di questo.
E neppure voglio costringermi, per richiamare l’attenzione su temi a me più consoni (magari, per dire, i diritti negati delle persone con disabilità) a gesti clamorosi o a raccontare storie tremende e commoventi. Vorrei un mondo nel quale, ogni tanto, anche gli Indignati Sociali si riposino e vadano in vacanza. Abbassiamo l’hashtag, per favore. Restiamo umani. La partecipazione è una cosa ben diversa. Ma non si spiega in 140 caratteri.
8 Sett 2014 Napoli ci riguarda
Mi sono stupito quando, due giorni fa, dopo aver inserito sulla mia pagina di Facebook questo semplice pensiero: «Ma perché a Napoli non si reagisce con la stessa rabbia popolare quando i morti li fa la camorra?», ho visto schizzare a livelli impensati le condivisioni e i “like”, ossia gli apprezzamenti. Il medesimo fenomeno in proporzione su Twitter. Non mi pareva di aver espresso un pensiero così clamorosamente originale, e infatti in molti hanno commentato di aver pensato esattamente la stessa cosa, vedendo le reazioni alla tragica morte di Davide Bifolco, raggiunto da una pallottola partita dalla pistola di un carabiniere. In realtà il mio era il sincero rammarico per un’occasione perduta, ossia quella di aprire un ragionamento positivo sugli anticorpi, che pure ci sono, nel tessuto sociale partenopeo. Certo, in occasione di delitti particolarmente efferati di camorra non sono mancati i cortei, le manifestazioni, i discorsi, le veglie di preghiera. Ma il tutto in un modo assai più composto, quasi come un atto dovuto di dignità più che come una vera indignata e arrabbiata protesta contro la criminalità organizzata. Pensavo e penso tuttora che la questione napoletana ci riguarda da
vicino e non possiamo far finta di non vedere, o lasciare che il tutto si risolva in un confronto tra Stato (debole e perdente) e illegalità diffusa e considerata del tutto normale. Disinteressarsi oggi di Napoli è a mio parere una vera e propria forma di razzismo. O almeno una totale dichiarazione di impotenza. Ma io non riesco a immaginare, in quartieri come quello di Traiano, come sia possibile ad esempio realizzare esperienze di inclusione sociale delle persone con disabilità o comunque delle persone più deboli. Come si possa far capire che una pensione di invalidità ottenuta con una falsa certificazione (ho letto anche questo nei pezzi degli inviati, a proposito di alcune delle famiglie del rione) è un reato grave e soprattutto toglie risorse pubbliche a chi ne ha veramente diritto e bisogno. Come si possa anche lontanamente immaginare che quei ragazzi fra qualche mese possano svolgere, che so, un servizio civile o un lavoro socialmente utile.
Una delle obiezioni che mi sono arrivate, qua e là, tra i tanti commenti di adesione, è che stavo pontificando su una situazione che non conosco affatto. Obiezione che arriva da giovani e meno giovani, napoletani e non solo. Io trovo questo argomento inaccettabile. Ognuno di noi ha il diritto e anche il dovere di farsi un’idea di quanto accade nel mondo. È come se non potessimo parlare o ragionare dell’Ucraina o del virus di Ebola in Africa solamente perché non siamo competenti in materia. Il mondo oggi è interconnesso attraverso i mille canali della comunicazione, soprattutto visiva, e quanto avviene adesso nella periferia di Napoli può essere immediatamente usato come esempio, come riferimento culturale. L’uso scioccante della foto del ragazzo morto, con il foro del proiettile, è ad esempio un tentativo evidente di forzare l’opinione pubblica, di spingerla contro lo Stato, di avallare senza contraddittorio e in modo assai cinico l’ipotesi del delitto volontario. Il video della telecamera collocata nella sala da biliardo (aperta alle due e mezzo di notte, e affollatissima di ragazzi) rappresenta un altro esempio di come un’attività del tutto discutibile, come quella del gioco e delle scommesse, possa essere utilizzata
tranquillamente per influenzare la gente, certamente non gli inquirenti. L’assoluta mancanza di un pensiero autocritico a proposito delle palesi violazioni delle regole minime della circolazione stradale (niente casco, in tre sul motorino, nessuna assicurazione, mancato rispetto dell’alt della pattuglia dei carabinieri) produce un effetto straniante e acuisce la distanza sociale, riduce il desiderio di solidarizzare di chi comunque emotivamente è rimasto colpito, come è giusto, dalla disgraziata fine del ragazzo. Ho anche la sensazione che il filone “Gomorra”, dopo il successo del libro di Saviano, del film, e ora della serie televisiva di Sky, stia creando involontariamente un clima da epopea tragica, nella quale vittime ed eroi si confondono, con il risultato grottesco che la situazione napoletana si riduca alla fine nella risposta: “Ma tu non puoi capire…”.
Raccontare i rivoli di azione sociale positiva, a questo punto, diventa ancor più difficile, ma Napoli ci riguarda. È Italia. La rassegnazione è il migliore regalo possibile alla camorra.
2 Sett 2014 Una doccia gelata
Torno da una decina di giorni di vacanza e trovo in Italia un dibattito molto articolato sul fenomeno dell’estate, l’Icebucket challenge, insomma la secchiata di acqua gelata per testimoniare a favore della raccolta fondi per la ricerca sulla Sla. Ero in Francia, dove ho visto sull’argomento solo qualche breve servizio di cronaca nei telegiornali, di taglio piuttosto neutro, senza enfasi di tipo politico. Non mi pare che nessun leader francese si sia dedicato in favore di telecamera all’esercizio della secchiata benefica, ma potrei sbagliarmi. Resta il fatto che in Italia la questione assume, ancora una volta, un taglio quasi ideologico, che mi pare del tutto fuorviante. Il tema è invece squisitamente mediatico, e tecnico, dal punto di vista delle prospettive del fundraising, e merita, fra un po’ di tempo, una riflessione accurata e non legata solo al risultato di questo primo successone mondiale, come nota giustamente Gabriella Meroni qui su Vita.it .
Personalmente ho trovato molto interessante e convincente l’analisi di Antonio Giuseppe Malafarina nel blog InVisibili di Corriere.it , ma anche la visione concreta e sostanzialmente positiva di Marco Piazza nel
medesimo blog. Io non ho potuto sottopormi alla secchiata, che pure mi era stata proposta sotto forma di possibile nomination, perché la mia bronchite cronica penso ne avrebbe avuto un colpo decisivo. Certo, il sacrificio in diretta youtube in favore della ricerca potrebbe essere un bel modo di terminare l’esperienza terrena, ma perdonatemi se ho preferito, per il momento, soprassedere.
La questione, in verità, è abbastanza complessa. Innanzitutto è evidente che c’è un bisogno quasi disperato di trovare nuove ed efficaci forme di raccolta fondi, per il semplice e buon motivo che di fondi ce n’è un gran bisogno, visto il calo irreversibile dei finanziamenti pubblici e delle sponsorizzazioni (ammesso che ci sia mai stato un momento magico…). Le forme spettacolari come quella ideata negli Stati Uniti e propagatasi in modo virale grazie ai social network si adattano evidentemente a iniziative destinate ad aiutare cause emotivamente impattanti, come in questo caso la ricerca per sconfiggere la sclerosi laterale amiotrofica. Difficile immaginare un effetto analogo, anche a parità di testimonial, per una raccolta fondi destinata a sostenere situazioni meno condivise, o meno trasversali. Secchi d’acqua per rimpinguare il Fondo nazionale per la non autosufficienza? Corsa sui carboni ardenti per finanziare la Vita Indipendente? Tuffo nelle acque gelate del mare invernale per aiutare le famiglie dei migranti? Che cosa mai potrà essere escogitato, da qui in avanti, puntando all’effetto emulazione e ripetizione? Non oso pensarlo.
Credo piuttosto che sia necessaria una riflessione etica seria, una sorta di nuovo codice applicato al web, soprattutto per educare i donatori a distinguere al volo le buone cause dai tentativi, che sicuramente fioriranno, di estorsione di denaro sotto forma di video dagli effetti subliminali. Nel web c’è davvero di tutto, e non sono soltanto le brave persone a dedicarsi ai social network. Senza demonizzare le nuove esperienze, ma trattandole con attenzione e rispetto per le persone alle quali si rivolgono: è questo il compito che ci attende, anche come comunicatori. Se c’è
una nuova sfida, è quella della capacità di rendere consapevoli i donatori avvicinandoli alla causa per la quale si sono impegnati, magari con un gesto in buona misura esibizionistico. Riuscire a far diventare i donatori dei potenziali volontari sarebbe il passaggio ulteriore. Ma c’è tanto da lavorare, e forse anche da ripensare, nel nostro mondo.
16 Ago 2014 Il coraggio di vivere, ovvero auguri Riccardo!
Caro Riccardo, ho controllato la tua pagina Facebook: hai ricevuto in poche ore quasi 400 auguri di buon compleanno, da amici di ogni tipo, contatti personali, familiari, colleghi, persone più o meno illustri nel mondo dell’associazionismo, della cooperazione, del volontariato e altro ancora. Un campione dell’umanità che hai incrociato nel tempo da quando hai deciso di declinare il tuo mestiere di giornalista verso una direzione del tutto speciale, e hai coinvolto, 20 anni fa, una piccola armata Brancaleone, della quale sono onorato di far parte. Ho aspettato il giorno dopo, e oggi, 16 agosto, ti faccio di cuore i miei auguri per i tuoi primi 60 anni. Posso farlo senza timore di irriverenza, visto che ti precedo di due anni e quindici giorni, come ben sai.
Ti ricordi “Il Coraggio di vivere”? Certo che sì. Ci eravamo conosciuti alla Vela d’oro, a Riva del Garda, più di 20 anni or sono, alla presentazione della stagione dei programmi della Rai. Simpatia reciproca a prima vista, e poco dopo dedicasti un servizio del tuo programma, condotto assieme a Nadia Di Bella (primo e rarissimo tentativo di coinvolgere una
persona con disabilità nella conduzione televisiva…), alla mia singolare esperienza di vita, professionale e personale, entrando in casa mia (allora c’era mia moglie Nadia, anche lei a rotelle, che ci ha lasciato nel 2003…). Tutto con simpatia e naturalezza, niente pietismo, ma semplicemente un racconto di vita (altro programma…).
Poi venne VITA, e mi coinvolgesti subito tra i collaboratori del settimanale. Questo per dire che hai fondato VITA all’età di 40 anni, l’età dei rottamatori, a quanto pare. Non c’era nulla di simile, allora, e direi che la situazione non è cambiata granché. Non tutto è andato come forse speravi, perché in Italia è difficile coniugare indipendenza (ovvero rinuncia a finanziamenti pubblici) con autosufficienza editoriale e professionalità. Ma adesso, a 60 anni appena compiuti, puoi secondo me dichiararti soddisfatto, tanto più che proprio in questi mesi, incredibilmente, il terzo settore (sic!) sembra tornare al centro della scena e dell’agenda politica e legislativa.
Ma ci sarà tempo per riflettere su questo aspetto. Adesso voglio solo augurarti una nuova stagione di vita e di impegno, superando di slancio le difficoltà fisiche di questo periodo (ci sono passato anche io proprio a ridosso del giro dei sixties… e ti assicuro che adesso mi sento un ragazzino, con tante cose da fare e da imparare…), e dedicando poi, con maggiore attenzione alla tua salute che è un bene comune, e non soltanto tuo, il tempo necessario a proseguire questo dialogo fra culture diverse, molto laico (pur nella tua profonda religiosità). Il mondo là fuori non è buono come vorremmo, questo è sicuro. I social network ci restituiscono anche autentici esempi di cinismo, egoismo, cattiveria, insensibilità. Ma noi abbiamo sempre e comunque “il Coraggio di vivere”. Insieme, mai da soli. Senza urlare, ma cercando ogni giorno di ascoltare, di spiegare, di accompagnare verso il futuro.
Buona VITA, amico mio, amico nostro.
11 Ago 2014 In ricordo di Vincenzo Langella
Ciao Vincenzo, mi hai colto di sorpresa. Ci sono persone che non vedi e non senti spesso, ma sai che ci sono, che stanno facendo cose che ti piacciono, che condividi. Sai che puoi contare sul loro impegno, usano le medesime parole, hanno voglia di cambiare il mondo in meglio, ma con il sorriso, mai con l’arroganza e con il lamento. Tu eri una di queste persone speciali. Vincenzo Langella, ci hai lasciato a 43 anni. Te ne avrei dati 30 o poco più. L’impegno di volontario a rotelle ti ha mantenuto fuori dal tempo fino ad ora, quando sei scomparso all’improvviso, lasciando intatta e piena di allegria la tua pagina di Facebook. Che ora si sta riempiendo di saluti, commossi ma non tristi. Non vorresti davvero che i tuoi amici si mettessero a piangere attorno a te. Sei sempre riuscito a farli ridere, nonostante tutto.
Ti scrivo adesso perché, ovviamente, sei riuscito a farmi sentire in colpa. Ora che ci penso tante volte mi hai cercato, tentando di coinvolgermi in qualche progetto, magari anche solo per una chiacchierata radiofonica. Mi pare di non essermi quasi mai sottratto, però sicuramente avrei potuto fare di più e di meglio. Ma io sapevo che a Torino, assieme
a tante altre persone in gamba, c’eri anche tu a presidiare le nostre idee. E dunque facevi parte della mia rete mentale, quella che ogni tanto mi elenco nel cervello, per rassicurarmi, per dire a me stesso che non siamo soli, anzi, che siamo in tanti.
Non passavi certamente inosservato. Ci siamo conosciuti tanti anni fa, quando frequentavo attivamente la Uildm, l’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, associazione di cui sono stato anche presidente nazionale per tre anni, in una delle mie vite precedenti. E tu, dalla mole robusta, occupavi uno spazio inconfondibile, muovendoti come una libellula con la tua carrozzina elettrica, fregandotene altamente degli sguardi, riuscendo a stabilire sempre una relazione, un contatto umano sincero e positivo. Eri quasi sempre circondato di amici e di ragazze, belle ragazze. Una persona speciale, combattiva ma senza esagerare. Convinta che il lavoro alla lunga paga, e la comunicazione è l’elemento fondamentale per la diffusione di una cultura inclusiva.
A Torino ti conoscevano tutti, io credo. Nel resto d’Italia forse no, perché non hai mai compiuto gesti eclatanti, hai preferito impegnarti nel territorio, come si dice. Ho scoperto che sei riuscito a incontrare Papa Francesco: eri credente per davvero, e così hai coronato un sogno meraviglioso, la foto nella tua pagina facebook è un inno alla gioia. Chissà, forse è stato il lasciapassare per la tua nuova vita. Sono sicuro che non sarai dimenticato, e che qualche bella iniziativa, a Torino o altrove, nascerà con il tuo nome.
Ciao Vincenzo, grazie di tutto. Farò del mio meglio per non deluderti.
2 Ago 2014 62 anni e non sentirli
Quest’anno non avrei voluto scrivere a ridosso di una data che non è particolarmente densa di significato. Compiere 62 anni, di per sé, non è un traguardo memorabile. In genere l’attenzione si fissa attorno ai passaggi ritenuti fatidici: i 20 anni, poi i 30, ancor più i 40, interessanti anche i 50, mentre i 60 creano già qualche apprensione. 62 è per così dire un anno qualsiasi. Il silenzio, in certi casi, è opportuno. Non per paura o perché mi preoccupi l’anagrafe, ma per il semplice fatto che non riesco ad abbinare niente di particolarmente significativo attorno a questo genetliaco. Ecco perché sono rimasto sorpreso, molto piacevolmente, da un regalo on line di Simonetta Morelli, blogger come me di InVisibili, il blog di corriere.it dedicato appunto ai temi della disabilità. Simonetta, senza dirmi niente, ha espresso molti pensieri attorno al mio compleanno, con grande delicatezza e profondità, come le è del resto abituale. Vi consiglio vivamente la lettura, non per narcisismo personale, ma anzi, al contrario, per cogliere, nel suo ragionamento, il senso di un lavoro collettivo sulla comunicazione positiva. Un lavoro che io porto avanti anche qui, su Francamente, da tanto più tempo, e con lettori
attenti anche se parchi di commenti. Poi, dopo aver condiviso quel suo post nella mia pagina Facebook e su Twitter, ho assistito a un fenomeno per certi versi impressionante: una valanga di auguri, affettuosi, personalizzati, provenienti da centinaia di “amici” di ogni parte d’Italia. Un fenomeno che è sicuramente determinato anche dall’avviso che i social network fanno a proposito dei compleanni dei propri contatti. Ma scorrendo la lista dei nomi mi sono accorto di tante cose. E le vorrei condividere con voi.
C’erano e ci sono i tanti mondi, le tante relazioni personali che nel corso degli anni ho stabilito, molto spesso in modo tutt’altro che virtuale, con uomini e donne, giovani e meno giovani, noti o meno noti, occupandomi a vario titolo di diritti, di cronaca, di persone, di storie, di associazioni, di battaglie di principio, di passioni (compreso il tifo calcistico), di amicizie personali, di affetti. Mi rendo conto di non essere capace in nessun modo di corrispondere in modo adeguato alle aspettative e alla stima che tante persone in un’occasione così semplice, come un banale compleanno, hanno sentito il bisogno di esternare, magari solo con un augurio, altre volte con un pensiero, con un incitamento, con un ricordo.
Mi sono reso conto di aver vissuto, in questi 62 anni, tante vite, persino diverse. Vite che sono state scandite dai trasferimenti di città in città, di lavoro in lavoro, di impegno in impegno. Una serie di passaggi che io tendo a trasformare in capitoli a se’ stanti, quasi impermeabili l’uno all’altro, forse perché non riesco, nella mia mente e nel mio cuore, a reggere contemporaneamente il carico, anche emotivo, di così tante relazioni umane, quasi mai superficiali o del tutto effimere.
Penso dunque che ciò che ci mantiene realmente vivi e giovani, al punto che davvero non sento il peso degli anni – anzi mi stupisco per primo e mi sorprendo a pensare al futuro con grande voglia di novità e di nuovi apprendimenti ed esperienze – è proprio questa possibilità di incontrare, ascoltare, condividere, partecipare. In poche parole la nostra vita è relazione. Senza questa spinta fortissima, che implica
purtroppo il contrappasso di non riuscire a garantire a ogni persona un contatto adeguato e forte come forse vorrebbe, la mia esistenza sarebbe molto più statica, e probabilmente mi sentirei già arrivato, appagato, magari non del tutto soddisfatto, ma comunque convinto di aver già dato molto.
Se un messaggio mi sento di affidare al blog e a tutti voi, è proprio questo. Non fermarsi mai, provare ogni giorno a rendere pieno di senso il nostro vivere, anche volendo bene a se stessi, per la verità. Non sempre è possibile, non sempre è facile. Ma guardare all’indietro non aiuta, mentre progettare il futuro ti permette di immaginare un mondo nel quale le nostre battaglie, i nostri ideali, le nostre speranze, in qualche modo potranno avere una risposta. Tutti insieme.
16 Lug 2014 Quando il lavoro diventa disabile
Ancora una bella idea, ancora un tentativo pubblico di far capire quanto e come possano essere produttive e realizzate le persone con disabilità quando trovano e mantengono un lavoro e lo svolgono al meglio. Accade domani, giovedì, a palazzo Lombardia, l’avveniristica sede della Regione, come racconta perfettamente Carmen Morrone sul portale di VITA. “Emergendo”, ovvero bilanci e prospettive di un lungo, paziente e competente lavoro di formazione, informazione, avviamento al lavoro, svolto dalla Provincia di Milano in collaborazione con le altre istituzioni e con il mondo delle associazioni delle persone con disabilità, della cooperazione sociale, delle imprese pubbliche e private. Pezzi di storia, battaglie vinte, perse e pareggiate. Bilanci nei quali ogni numero corrisponde a una persona, a un nome, e dunque a una famiglia. E quindi anche cinque, dieci, venti inserimenti lavorativi sono altrettante vite cambiate, migliorate, ricondotte a una dimensione di normalità. La Repubblica è fondata sul lavoro. Non sempre, non per tutti, e adesso assai meno di anni fa. È la dura legge della crisi, che travolge le leggi, le riduce a simulacri di legalità e di rispetto dei diritti, perché
quando i licenziamenti si sostituiscono alla contrattazione non c’è legge 68/99 che tenga. Tutti a casa, solo in questo caso c’è piena inclusione sociale dei lavoratori con disabilità.
Ma proprio per questo ora più che mai occorre agganciare i primi esili e contraddittori spiragli di ripresa a comportamenti virtuosi, corretti, coerenti con un processo culturale e politico che in realtà, in modo carsico, non si è mai interrotto. Spesso per merito delle singole persone, più che degli apparati e delle istituzioni. I nomi li sanno benissimo tutti coloro che vivono da vicino questo aspetto delicato e complesso del mercato del lavoro. Non è un caso se domani in teoria sarà presente il ministro del Lavoro e del Welfare, Giuliano Poletti. In teoria, perché di questi tempi sarebbe davvero un’apparizione miracolosa la sua, viste le situazioni che è chiamato a gestire in ogni angolo d’Italia, in terra, in cielo e in mare. Ma se anche non sarà presente di persona, credo che quanto accadrà nell’auditorium e nel piazzale della Regione possa servire a tutti come traccia, come indicazione operativa di quello che si può fare, partendo dai racconti e dalle esperienze – positive e negative – di chi il lavoro lo ha cercato e a volte lo ha trovato.
Sullo sfondo lo sfarinamento delle Province, che avevano larghissima parte del compito di promozione e di presidio dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità. La lunga e confusa transizione verso un sistema che non si capisce quale sia, rischia di vanificare o di disperdere un patrimonio ricco di competenze (anche personali) nel quadro di una risistemazione burocratica che difficilmente – spero di sbagliarmi –metterà al centro il destino dei soggetti destinatari veri degli interventi di sostegno e di inclusione. Il nostro compito è quello di non abbassare mai la guardia, di non stancarci, di essere sempre sul pezzo. Uniti come è giusto, combattivi come è doveroso.
7 Lug 2014 Speculare sulla casa
Chissà quanto ci avranno pensato. Brainstorming, agenzie specializzate, focus group, e poi la grande scoperta: fra i sogni degli italiani, fra le aspirazioni che uniscono tutti, ricchi e poveri, c’è la casa di proprietà. Ma no? Chi l’avrebbe detto. E così nasce l’ultimo sberleffo a chi cerca, con saggezza, argomenti e buon senso, di frenare il fenomeno dei giochi e delle scommesse, anticamera (anche fisicamente) delle slot machine: la Sisal lancia “Vinci Casa”, con lo slogan “Puoi vincere la casa dei tuoi sogni”.
Niente di particolarmente nuovo, il classico “gioco” che si basa sulla scelta casuale o “meditata” di numeri. Se si ha la fortuna di azzeccare tutti e cinque i numeri che verranno estratti ogni mercoledì sera, si vince una casa del valore di cinquecentomila euro. Una casa che il vincitore potrà persino scegliere (ma guarda un po’…). Nel sito della Sisal si legge, nella pagina “Quanto si vince” che la probabilità di vincita della casa (5 numeri azzeccati) è 658.008 . Non c’è scritto: 1 su 658.008. No, per arrivare ad avere questo corretto rapporto fra rischio e vittoria bisogna infatti cliccare su un’altra pagina, “Probabilità di vincita”, che ripete esattamente la
stessa tabella, mettendo correttamente il numero 1 davanti allo smisurato 658mila e rotti. Perché questa differenza? Non è così difficile immaginare quale meccanismo di comunicazione venga seguito per convincere gli italiani a tentare la fortuna. Infatti, in neretto, sempre nella stessa pagina, si precisa che “La probabilità di vincere almeno un premio è uno su nove considerando tutte le categorie!”.
Uno su nove: come si fa a rimanere indifferenti di fronte a una ipotesi così allettante e convincente? Ma il punto forte è quel simbolo, la casa. Nella vignetta che accompagna i tagliandi di gioco si vede una coppia felice, lei in abito da sposa che alza una gambetta, lui con il farfallino e non si sa perché porta gli occhiali, entrambi abbracciano una casetta in stile Lego, con il tetto a spiovente, e dal caminetto escono cuoricini rossi. Comunicazione finto ingenuo, l’ultimo grido per avvicinare gli incerti, o i delusi da troppe giocate andate a vuoto.
Speculare sul desiderio legittimo di una casa di proprietà è però un’operazione che dovrebbe indurre chi ci governa a un intervento deciso. Penso a me stesso, ho appena finito di pagare la trentesima rata semestrale di un mutuo durato quindici anni. Ora sono proprietario del mio appartamento a Milano, ho completato, con molta fatica, uno sforzo economico comunque commisurato a quanto ho guadagnato con il mio lavoro di giornalista, pagando le tasse fino all’ultimo euro, come è giusto. Non ho vinto la lotteria, ma sono ugualmente soddisfatto. Non mi è mai passato per la testa di sperare di vincere una casa buttando soldi in una lotteria. Ma oggi chi può permettersi seriamente di pensare al mutuo, se non hai neppure un lavoro garantito? A quanti giovani, adesso, può apparire giusto ogni settimana tentare la fortuna? Si colpisce un nervo scoperto, un punto debole, sapendo di farlo, coscienti della fragilità connessa al simbolo del gioco. Non è giusto. Questo Paese ha dei problemi seri.
30 Giu 2014 Azzardo e scommesse, la droga dei più deboli
Esco per un attimo dal terreno che frequento maggiormente, anche in questo blog. E mi associo ai tanti appelli che dalle pagine di VITA cercano (con crescente e meritato successo) di arginare un fenomeno mostruoso, soprattutto nel nostro Paese, ovvero la diffusione dell’azzardo legalizzato, in tutte le forme possibili. Non lo chiamo “gioco”, perché è proprio qui l’inganno delle parole, il trucco perverso che spinge tante persone semplici a tentare la fortuna, immaginando che non si tratti di niente di speciale, solamente – appunto – un “gioco”, che si abbina alla speranza di un riscatto economico, di un improvviso rovesciamento delle sorti della propria fragile esistenza. Non passa giorno che Simone Feder non segnali iniziative e non porti l’attenzione, nel blog di Vita.it ma anche attraverso i social network, sui tentativi di apertura di nuove sale che comunque non rispettano neppure i criteri previsti dalle recenti norme (distanza dai luoghi sensibili). Mi pare di aver visto, almeno in Lombardia, una risposta attenta e forte sia a livello della Regione che in molti Comuni, compreso Milano. Ma la sensazione è che si tratti di una guerra di trincea, condotta con pochi mezzi
e resa ancor più difficile dallo strapotere mediatico della pubblicità connessa alla promozione delle scommesse.
Testimonial di grande popolarità (ci mancava anche Totti) propongono in modo ipocrita e farisaico un uso non smodato delle scommesse, ma la sostanza è chiara: è un invito generalizzato a spendere i propri risparmi tentando la sorte, e cominciando magari con un comportamento che vagamente ricorda l’antico rito della schedina. Ma i tempi del Totocalcio da due colonne, o da sistemino con gli amici al bar, sono morti e sepolti. Ora si comincia con una piccola scommessa e poi si continua a grattare freneticamente, e poi si passa alla slot machine, senza soluzione di continuità.
C’è un nesso forte con la disabilità, tema che seguo con maggiore competenza (anche perché mi riguarda direttamente): paradossalmente le sale gioco sono i locali più accessibili del mondo. Mai un gradino all’ingresso, mai una porta stretta. Tutto è concepito in modo tale da consentire a chiunque, non vedenti compresi, la pratica della scommessa e del cosiddetto “gioco”. Non esistono statistiche in materia, ma non credo di sbagliare se immagino molti genitori, magari anziani, alle prese con problemi di economia familiare (quando c’è un figlio disabile i soldi non bastano mai) tentati da questa malattia che si presenta in modo apparentemente innocuo e amichevole. Ma penso che il fenomeno tocchi (non so quanto di striscio) persone con fragilità emotiva e intellettiva, più esposti alle suggestioni, più indifesi degli altri.
Non c’è calcolo utilitaristico che tenga. Su questo punto non si può essere morbidi o pronti alla mediazione, magari per incamerare grandi cifre di denaro da investire nel bilancio pubblico (quasi una pseudo giustificazione morale, in stile Robin Hood). Questo è un modello di comunicazione di valori sbagliati che va solo bloccato, frenato, interrotto. In modo duro e chiaro. E la battaglia del movimento “no slot” deve contagiare tutti, e non essere vissuta come una iniziativa circoscritta, o moralistica. Questa è l’unica scommessa da vincere. Tutti insieme.
22 Giu 2014 Rottamare la sfiducia
Ci sono ricascato. Non sono riuscito a frenarmi. Ho accettato – e pure volentieri – la richiesta del Comune di Milano di svolgere un ruolo di consulenza e di supporto tecnico alla task force dell’amministrazione impegnata a garantire la migliore accessibilità possibile della città in vista di Expo 2015. L’incarico è totalmente gratuito, sia chiaro. Lo scrivo perché la formula tecnica “pro bono” magari non è di immediata comprensione per tutti. Così come gratuito è il mio impegno di volontario, nel ruolo di presidente di Ledha, la rete delle associazioni delle persone con disabilità in Lombardia. Questo significa che ho dovuto ridurre il tempo da dedicare alle collaborazioni professionali retribuite, quelle che mi consentono di vivere dignitosamente, di pagare il mutuo della casa, di fare la spesa, come tutti. Non mi basterebbe del resto la pensione di giornalista, che ho dovuto anticipare in considerazione dell’aggravamento della mia disabilità. Non sono un benefattore, però. Vi racconto tutto in piena trasparenza, cari amici di FrancaMente, solo perché di questi tempi il nemico più insidioso che incontro ogni giorno è la sfiducia. Il pregiudizio, la convinzione che
chiunque si assume una responsabilità pubblica lo fa per un tornaconto personale, per acquisire potere, e magari anche denaro, in forme poco corrette.
È questo il frutto avvelenato, e dunque anche assai motivato, di quanto ogni giorno ci viene servito sotto forma di denunce, arresti, scandali, inchieste, confessioni, rivelazioni. Potrei persino sembrare “pirla”, per usare un termine milanese comprensibile ovunque nel mondo. Ma come? Arriva Expo e tu collabori gratis? Già. È proprio così. E ne sono orgoglioso. Per due motivi. Prima di tutto perché il mio impegno non è in favore di Expo, e neppure del Comune di Milano. È un incarico dalla parte dei diritti delle persone con disabilità. Voglio favorire il dialogo, concreto e operativo, fra le diverse competenze che si possono subito mettere in campo per migliorare la situazione. L’esperienza di persone con disabilità motoria e sensoriale, la cultura degli esperti che vengono indicati dalle loro associazioni, sono un patrimonio decisivo per fare le cose per bene, quando si vuole rendere accessibile un percorso urbano, un mezzo di trasporto, un marciapiede, un museo, un albergo, un ristorante, un negozio.
Non mi arrendo di fronte alla sfiducia. Ho visto in queste settimane che la reciprocità aiuta a superare gli ostacoli. Negli incontri, informali e concreti, con le categorie economiche, con i tecnici degli assessorati, nei tavoli tecnici ai quali hanno partecipato persone con disabilità ed esperti, alla pari, non in conflitto aprioristico, siamo riusciti a mettere a punto un metodo di lavoro mai visto a Milano. Molta parte del merito va attribuita alle capacità di un dirigente pubblico, Isabella Menichini, nominata da pochi mesi alla guida del settore Servizi per persone con disabilità del Comune di Milano. Avevamo già collaborato, molti anni prima, per l’organizzazione della conferenza nazionale di Bari, nel 2003. Ne conoscevo la competenza e la tenacia. Ne parlo apertamente perché questo è un presupposto fondamentale della lotta alla sfiducia.
Ognuno di noi deve gettare il cuore oltre l’ostacolo, metterci anima,
cuore e cervello. Un’occasione formidabile di diffusione di una cultura dell’accessibilità e dell’accoglienza per tutti come Expo 2015 non capita spesso. Certo, questo significa rischiare. Il ritardo è notevole, le barriere fisiche e sensoriali non mancano davvero. Le associazioni delle persone sorde e dei non vedenti in questi giorni sottolineano soprattutto ciò che manca e chiedono, reclamano, maggiore attenzione. Giusto, sacrosanto, doveroso. Ma detto questo: in quale altro modo si può cambiare il mondo se non partecipando attivamente al cambiamento? Abbiamo presentato un taxi accessibile a tutti, è il primo in Italia completamente ecologico e accessibile al tempo stesso. È l’inizio di un percorso che porterà Milano ad avere finalmente anche una discreta disponibilità di taxi a disposizione di chi si muove in carrozzina (turisti o residenti non fa differenza). Ebbene, fra le reazioni più diffuse nei social network vedo la diffidenza, la convinzione che tanto non funzionerà per tutti, che è caro, che non si sa come chiamarlo, che sono troppo pochi, e via elencando le lamentele possibili.
Questo Paese sta perdendo l’entusiasmo, la voglia di migliorare, di ripartire, di cambiare passo. Non credo che sia solo una questione generazionale, anzi. Io ho 61 anni e non mi sono mai sentito così giovane come adesso: ho voglia di imparare, di provare, di costruire cose nuove, per il bene comune. Ma vorrei al più presto passare il testimone ai giovani, alle generazioni seguenti. È giusto così. Il problema, a monte, è la rottamazione della sfiducia. Questo è un handicap che non possiamo portare addosso, ci frena, ci costringe a chiuderci nelle certezze delle corporazioni, protetti in famiglia, rinunciatari in partenza: in una parola, emarginati e sconfitti.
Mi spiace, per il momento non ci sto. E chiedo a tutte le persone di buona volontà di fare la propria parte. Ci sarà tempo per tirare le somme e per denunciare ciò che manca, ciò che non è stato fatto. Ora è il tempo dei fatti, e dell’impegno.
8 Giu 2014
Il Tribunale di Salute
Pubblica
Ho capito.. Finalmente una parola chiara, so a chi rivolgermi. Da 61 anni non riesco a camminare per colpa dei medici che non hanno saputo curare la mia malattia genetica, l’osteogenesi imperfetta. Incapaci, inetti, legati a doppio filo agli interessi delle case farmaceutiche. Io, che avrei potuto sicuramente guarire se solo avessi incontrato per tempo il Grande Guaritore da Tutti i Mali. Ma ora basta, vado alla Farmacia del Tribunale. Sì, perché finalmente è stato istituito il Tribunale di Salute Pubblica. In ogni città. Basta andare con la tessera sanitaria dell’Asl, prenotare una visita dal magistrato di turno.
Io l’ho fatto ieri. È stato magnifico. Mi hanno accolto con un sorriso e una carezza. Mi chiamavano per nome. «Caro Franco, che cosa possiamo fare per lei?». “Vorrei guarire dall’osteogenesi imperfetta, sono stufo di stare seduto in carrozzina. Perdo un sacco di tempo e poi ci sono ancora tante barriere, là fuori. A proposito, signor giudice, perché non vi occupate mai delle barriere architettoniche?». Il giudice mi guarda e sorride: «Non è di mia competenza, io mi occupo di dare speranza di guarigione alle persone come lei, che finalmente si rivolgono a noi giudici di Salute
Pubblica». E poi prende carta e penna, e mi consegna in pochi minuti la prescrizione. C’è l’indirizzo di un Guaritore, uno che può darmi una pozione magica, dentro la quale sembra che si trovi una formula miracolosa che nel giro di qualche giorno rinsalderà le mie ossa, mi allungherà lo scheletro, raddrizzerà la scoliosi, e pare anche che riesca a farmi dimagrire di venti chili in men che non si dica. Chiedo se devo pagare qualcosa. Il buon giudice sorride di nuovo: «No, caro Franco, è tutto gratuito. Il Ministero di Grazia e Giustizia ora è unito al Ministero della Salute, e come vedi noi magistrati indossiamo dei camici bianchi, basta con quelle toghe scure che sanno di antico». Esco confortato da questo miracoloso intervento. Finalmente Giustizia è fatta. Domani andrò dal Grande Guaritore, poi se volete vi racconto come è andata a finire.
È vero, stanotte non ho dormito bene. Ho fatto il sogno che vi ho appena raccontato. È che avevo letto notizie inquietanti, di magistrati che affidano a un medico inquisito l’incarico di effettuare l’infusione di un intruglio privo di qualsiasi validazione scientifica nel corpo di un bambino malato. Il tutto senza che nessuno glielo impedisca. E mentre il Ministro della Salute tace. Ammetto che dopo queste notizie ho bevuto qualcosa di forte e poi sono andato a letto. Il sogno però era bellissimo. Mi vedevo alto e forte, biondo e giovane, davvero un bel ragazzo.
4 Giu 2014 Vivere in un mondo parallelo
Non so che cosa stiano provando in queste ore tutte le persone per bene, e sono tantissime, che lavorano da sempre fra mille difficoltà, nel mondo che conosciamo e frequentiamo quotidianamente, fatto di progetti sociali, di cooperazione, di rapporti complessi con le istituzioni pubbliche, di ricerca di finanziamenti, anche minuti, per cose belle e giuste, delle quali siamo orgogliosi e fieri. E’ come se fossimo costretti a vivere in un modo parallelo, quasi immersi in un orrendo film di fantascienza, nel quale i detentori del potere fanno e disfano a loro piacimento, gestiscono e spartiscono enormi quantità di denaro, il tutto per anni e anni, quasi ovunque. Nel mondo parallelo gli altri cercano di non demoralizzarsi troppo, si impegnano, rispettano le regole, forniscono ingegno e lavoro praticamente in forma gratuita, specialmente se si paragonano le entità economiche. Ma girano praticamente a vuoto e tornano sempre alla casella del “via”.
Ho vissuto da giovane cronista la nascita del Consorzio Venezia Nuova, quando lavoravo a Padova. Ricordo un fiume in piena di dubbi e di polemiche, ma anche la convinzione che comunque si dovesse mettere
mano a questo enorme progetto pubblico destinato, così speravano in molti, a salvare la laguna e la città. Molti di quei protagonisti di allora sono i medesimi di adesso, altri no. Non sono in grado di entrare nel merito né delle accuse né delle difese d’ufficio. Ricordo che allora più o meno tutti avevamo la netta sensazione che l’enormità dell’impresa ingegneristica avrebbe comportato il rischio di un giro di denaro spropositato, in un contesto come quello italiano e veneto, difficilmente controllabile, per usare un eufemismo.
L’innocenza fino a prova contraria è un principio sacrosanto, ma in Italia i tempi della giustizia e le possibili scappatoie procedurali sono tali da vanificare questo obiettivo minimo. In Germania, da un paio di giorni, Uli Hoeness, ex presidente del Bayern Monaco, è in carcere per frode fiscale. Ha ammesso le sue responsabilità, ha pagato e restituito il maltolto, ma questo non ha impedito la detenzione. Solo se si comporterà bene, forse, potrà accedere ai servizi sociali (sic!) fra un anno. Il processo è durato in tutto meno di dodici mesi. Regole chiare, condivise, dure. Penso che sia evidente il valore di questo spread morale e normativo fra i due Paesi. Avremmo sicuramente bisogno di qualcosa di simile in Italia, adesso. Subito.
E invece sento tornare l’aria di vent’anni fa, quando ogni mattina ci si chiedeva chi sarebbe stato arrestato, e dove. In questo momento è difficile immaginare la prosecuzione serena di programmi e di progetti civilmente condivisi senza che si delinei uno scenario diverso. Vivere in un mondo parallelo sta diventando frustrante, dà una sensazione di impotenza come cittadini, ma anche come sostenitori di iniziative, di programmi, di attività. Penso a Expo 2015, ovviamente, ma non solo. Stanno rubando il futuro, e anche il presente. Nel vero senso della parola.
Forse nel film di fantascienza toccherà a noi salvare il salvabile. Ma al momento pare che si tratti davvero solo di un film.
27 Mag 2014 Un pieno di energia e di futuro
Lo ammetto: era tanto tempo che non vivevo una situazione nella quale una discussione su temi caldi, come quello del futuro del nostro mondo, quello fatto di volontariato, associazioni, cooperazione, impresa sociale, si svolgesse in un clima di ragionevole speranza e di concretezza delle parole. È accaduto a VITA, la redazione era piena di persone speciali, ognuna di loro avrebbe potuto parlare per ore e raccontare le storie che ci riguardano: bambini, lotta alle malattie genetiche, cooperazione internazionale, sostenibilità ambientale, servizi alle persone con disabilità, anziani, imprese sociali, fondazioni filantropiche, e via elencando. Il meglio del Terzo settore, se questa definizione ha ancora un senso. Ci siamo salutati l’un l’altro come un gruppo di amici che scoprono, d’un tratto, di avere percorso insieme, seppure a distanza, molte miglia di cammino irto di fatiche, di incomprensioni, di sconfitte, ma anche di vittorie.
È vero, al centro della scena c’era lui, Matteo Renzi, assieme a Luigi Bobba. Renzi, il presidente del Consiglio, adesso, ma anche la persona che in tempi non sospetti era già stato in questa sede, dimostrando
competenza pratica, ed esperienza, sui temi che conosciamo bene e che spesso riusciamo a rovinare attraverso discussioni interminabili in gergo tecnico, incomprensibili persino a molti di noi. Renzi sta facendo da catalizzatore di questo mondo. Al di là delle promesse, persino prescindendo dai contenuti della pur validissima bozza di riforma del terzo settore, Matteo Renzi mi ha dato la sensazione di aver capito di che cosa questo mondo ha davvero bisogno: di adrenalina, di passione, di fiducia, di coraggio, di umiltà, di buon senso.
Mi sono lasciato contagiare al punto da scattare il primo selfie della mia vita, e infatti è venuto maluccio.D’altronde io, come soggetto fotografico, non sono davvero un granché. Ma questa mia sensazione positiva non è innamoramento politico, ché anzi, per molti aspetti, sono ancora in attesa di capire se il fenomeno di questo sindaco del tutto particolare arrivato al vertice del potere politico italiano sia il frutto solo di una strepitosa capacità di comunicazione e di fascinazione, oppure si sta consolidando attraverso competenze e battaglie sociali ed economiche in grado davvero di modificare e migliorare un Paese che appariva sull’orlo del tracollo morale, prima ancora della bancarotta della spesa pubblica.
Renzi oggi ha chiarito che qualunque sua affermazione avrebbe potuto apparire dettata solamente dall’intento elettorale. E ovviamente ha detto la verità. Ma il 27 giugno prossimo, se il governo sarà ancora saldamente in sella, avremo per la prima volta un testo di riforma del Terzo settore frutto del lavoro di consultazione più largo che sia mai avvenuto. Molti di noi hanno fatto osservazioni, hanno espresso perplessità, hanno insistito su singoli punti. Io mi porto a casa un consenso del presidente del Consiglio a insistere con forza sul rilancio del servizio civile, e anche una sottolineatura dell’utilità di Expo 2015 per affrontare e risolvere anche temi del tutto trascurati, come l’accessibilità per tutti dell’area metropolitana milanese. Ha compreso al volo le mie perplessità sulla voucherizzazione spinta, affidando il tema alle competenze di Luigi Bobba, ottima scelta. Ne riparleremo di sicuro.
La platea che lo ascoltava si è resa conto della sfida. Impossibile fermarsi alla ritualità della chiacchiere. Ora ci tocca buttare a mare gli steccati e gli orticelli, e costruire, se ne saremo capaci, una casa comune e un Paese migliore. Ci possiamo provare.
26 Mag 2014 Renzi, una sfida che ci riguarda
Comprendo oggi la delusione e lo smarrimento di tutti coloro che immaginavano il trionfo della lista del Movimento 5 Stelle. Non dev’essere facile accettare un responso popolare così netto e duro. La concomitante vittoria del Pd guidato da Matteo Renzi e la evidente sconfitta del sogno di Beppe Grillo e Roberto Casaleggio (#vinciamonoi) è sicuramente una doccia gelata per tutti coloro, e sono tanti, che credevano nella possibilità di modificare radicalmente la politica italiana, spazzando via l’intera classe dirigente e sostituendola con il partito degli onesti e dei puri. Ognuno di noi conosce elettori di 5 stelle, anche impegnati nel sociale. Si sono accodati, negli ultimi mesi, al clima di rissa verbale ansiogena, agli urli di Grillo, agli insulti, al dileggio. Ma molti di loro sono certamente consapevoli che quelle erano esagerazioni, e che la realtà è molto più complessa, e che ogni giorno dobbiamo cercare di fare qualcosa per cambiare in meglio il Paese.
Mi piace oggi il tono con il quale Matteo Renzi, evitando ogni trionfalismo, rivolge proprio al popolo degli sconfitti l’invito a lavorare insieme per cambiare in meglio l’Italia e l’Europa. Ho infatti la sensazione che
abbia capito che il peccato di orgoglio lo potrebbe pagare ben presto. Ora c’è bisogno di fare, di mantenere gli impegni, di costruire leggi ragionevoli ed efficaci, riforme capaci di buttare a mare per davvero il gigante burocratico che nel corso degli ultimi decenni è stato costruito a difesa degli apparati inossidabili, costoso oltre ogni immaginazione, e del tutto refrattario di fronte alle esigenze reali dei cittadini, delle famiglie, delle singole persone, specialmente quelle più esposte.
Ha ragione Riccardo Bonacina, questo è un voto di cambiamento, non di stabilità. Guai a considerare schematicamente la scelta popolare come un consenso acritico al governo di turno. Non è così, e non può essere così per il semplice motivo che i temi sul tappeto sono ancora lì a interrogarci. La mancanza di lavoro, l’impoverimento delle famiglie, la difficoltà addirittura esistenziale del nostro Paese sono sotto gli occhi di tutti.
Personalmente mi sono sempre sentito cittadino europeo. Ogni volta che mi trovo in un altro Paese dell’Unione, dalla Francia, alla Germania, all’Olanda, sono curioso di verificare che cosa viene fatto e pensato per vivere meglio, per rendere le città più accessibili e accoglienti. C’è da imparare, spesso, ma anche da insegnare. Ora l’Italia ha anche una responsabilità in più, di fronte al vento di paura che sicuramente spira quasi ovunque. Non possiamo permetterci di perdere una sfida così rilevante. Il nostro impianto di leggi inclusive, ad esempio per le persone con disabilità, può essere adesso portato ad esempio per costruire un’Europa meno attenta agli interessi delle banche e dei poteri forti.
E poi dobbiamo ancora una volta constatare come i cittadini scelgano liberamente come votare, anche quando le scelte non ci piacciono, o non piacciono ad una parte consistente persino degli opinion makers, capaci di sbagliare previsioni e di soffrire, adesso, per la vittoria di un parvenu della politica, di un personaggio rispetto al quale anche io, come molti altri un po’ snob di sinistra, avevo dato poco credito. Il tempo in questo
caso è galantuomo e consente a ciascuno di noi di riflettere e anche di modificare la propria percezione, senza per questo venire meno ai propri convincimenti, anzi.
Pochi giorni fa, prima dell’esito elettorale, avevo forse colto, parlando di un pieno di energia e di futuro, quello che Renzi stava rappresentando anche per il nostro mondo, per il Terzo settore, per il volontariato, per la cooperazione sociale, per l’associazionismo. Ho avuto la sensazione che il presidente del consiglio stia cercando di realizzare una nuova aggregazione del consenso sociale, dal basso, molto diversa dal tradizionale blocco sociale ed economico della sinistra postcomunista e socialista. Ma anche chi si ritiene progressista deve fare i conti con il cambiamento. Ognuno di noi può contribuire a costruire un pezzetto di risposta, compresi coloro che oggi si sentono esclusi, in quanto sconfitti. Andiamo avanti, forse ce la possiamo fare. Senza odio e con umiltà.
8 Mag 2014 In questo mondo di ladri
In questo mondo di ladri, cantava Antonello Venditti nel 1988: “Eh, in questo mondo di ladri c’è ancora un gruppo di amici che non si arrendono mai”. Già. Il fatto è che anche gli amici rischiano di sentirsi defraudati, impotenti, inascoltati. Le notizie di oggi, relative ai nuovi arresti nell’ambito di indagini sul malaffare che si è costituito attorno al business di Expo 2015, sembrano confermare una situazione gravemente compromessa. La ramificazione della corruzione, trasversale e impressionante, sembra riportarci indietro nel tempo, proprio agli anni cantati da Venditti. Nulla pare cambiato da allora, se non in peggio. Ma il punto, secondo me, è un altro. Come possiamo immaginare che nelle grandi opere di questo Paese si pensi, nella fase progettuale, alle esigenze, ai diritti, ai bisogni della gente normale, e magari addirittura della parte più debole, quella che ad esempio fa fatica a muoversi, a trovare lavoro, a ricevere servizi adeguati? La sproporzione del business è tale da rendere evidente la distanza fra i pensieri che attraversano le menti della casta burocratica, amministrativa e politica, e i pensieri di tutti noi, che vorremmo partecipare in modo
concreto e positivo alla costruzione di un Paese moderno, civile, solidale, onessto.
Non ho mai letto di una retata di arresti per stroncare il business della fornitura di sedie a rotelle; o per smascherare la cupola degli ascensori per tutti nelle stazioni e nelle metropolitane; o per denunciare le gare truccate negli appalti per garantire l’assistenza alle persone non autosufficienti. Il fatto è che in questi campi le risorse sono incomparabilmente inferiori rispetto all’ammontare del denaro che viene previsto per le grandi opere o per i grandi eventi. Certo, poi anche nelle miserie umane riusciamo a trovare situazioni imbarazzanti, perché anche le briciole, a volte, possono fare comodo. E persino il mondo dei servizi alle persone meriterebbe un’attenzione ferrea alla trasparenza e alla correttezza di tutti i soggetti interessati.
Ma ciò che sta avvenendo in Italia, in questa stagione confusa e tremenda, sembra allontanarci dalla speranza in un futuro possibile. E infatti la tentazione, del tutto comprensibile, è quella di affidarsi a chi dice di voler mandare tutti a casa, spezzare ogni legame con il passato, e persino con il presente. Ma il nostro è un Paese nel quale le rivoluzioni non sono mai avvenute, perché è sempre prevalso il trasformismo, l’accomodamento ragionevole, l’utile personale. Il gruppo di amici, quelli che possono sinceramente ritenersi estranei a questa melma dilagante, devono invece fare uno sforzo in più per non cedere allo scoramento. Dobbiamo continuare a fare la nostra parte, nel volontariato, nelle imprese sociali, nel lavoro, nella comunicazione, persino nelle relazioni umane. Il silenzio aiuta solo gli sciacalli.
27 Apr 2014 Francesco, il trionfo della parola
Ho appena finito di seguire, affascinato, la lunghissima trasmissione televisiva della cerimonia di santificazione di Giovanni Paolo II e di Giovanni XXIII. Non sono in condizione di entrare nel merito della liturgia, e neppure mi sono appassionato alle discussioni relative ai miracoli, o all’opportunità di fare Santi due Pontefici che, come dire, sono già in posizione avvantaggiata. Da laico di religione cattolica, e da persona che vive di parole e di comunicazione, sono colpito infatti soprattutto dal trionfo della Parola, del Messaggio, della Comunicazione Universale. La lezione che secondo me oggi viene da piazza San Pietro è di tipo politico, e persino di carattere economico. Attorno a un annuncio, già noto in tutto il mondo e amplificato dalle moderne tecnologie, e quindi attorno a un evento che si caratterizza esclusivamente per i gesti, per le parole, per le letture, per i canti gregoriani, per la scenografia spettacolare dei luoghi, si sono mobilitati milioni di persone. Una potenza incredibile del messaggio, che deriva da una forza impressionante della storia della Chiesa cattolica, capace di sorprendere anche i più increduli. La parola è tutto, e costituisce il cemento delle azioni, persino della
produzione di beni e di servizi. Attorno al Messaggio si è costruito un evento che ha mobilitato un vero e proprio esercito, organizzato ed efficiente. Si è consumata ricchezza, si sono spesi soldi, tanti o pochi a seconda delle disponibilità delle persone e delle famiglie, convenute a Roma da ogni dove. Si è dimostrata una capacità di mobilitazione che non ha paragoni nella politica e nelle istituzioni pubbliche.
Il segreto è forse nel significato, nella ricerca di senso alla nostra dimensione esistenziale. Francesco ha intuito che c’era bisogno di una prova di forza, di un lavoro di squadra (il coinvolgimento del Papa Emerito, Joseph Ratzinger, è da questo punto di vista esemplare). In un tempo di crisi economica e di valori durevoli, è bastato lanciare il Messaggio della Santità per ricomporre una comunità enorme e multietnica, commossa e partecipe. Francesco è bravissimo nello stabilire un ponte diretto fra la sua persona e il singolo credente che si sente protagonista dell’evento, anche se fisicamente collocato in fondo a via della Conciliazione, o davanti a un maxischermo, o con uno smartphone per fissare in una foto, magari in un selfie, la partecipazione all’eccezionale annuncio.
Nessuna azienda al mondo sarebbe capace di fare altrettanto. Nessun Capo di Stato, neppure in regimi totalitari, sarebbe in grado di mobilitare una partecipazione entusiastica di tali dimensioni. Neppure l’Islam, del quale spesso notiamo la profonda religiosità, mi pare sia mai riuscito a compiere eventi di tale gigantesca portata planetaria.
La giornata di oggi, ovviamente, interroga la Chiesa circa la capacità, da domani, di essere coerente ovunque, nelle periferie del mondo, nelle parrocchie, nelle comunità territoriali, con il messaggio di questo Papa che parla direttamente al suo popolo, forte della portata rivoluzionaria di un Messaggio, di una Notizia, che resiste all’usura del tempo, anzi si rivela di un’attualità sorprendente.
Non mi auguro sinceramente un ritorno al clericalismo dei decenni passati, sarebbe la negazione, a mio parere, del senso complessivo
dell’opera di questo Pontefice venuto dalla fine del mondo. Temo in questo senso che le gerarchie sperino di approfittare di questa nuova popolarità per consolidare il proprio ruolo e i propri privilegi, del tutto lontani dalle esigenze non solo dei fedeli, ma anche dal senso dei tempi che viviamo.
Si può produrre ricchezza, dunque, in modo diverso, valorizzando le risorse di ognuno e il desiderio umanissimo di far parte di una comunità, di non essere più soli. Il disagio, oggi, è forse provato da chi non appartiene a questo mondo, forse ingenuo, ma autentico e ricco di differenze. Per noi che viviamo attorno alle parole, c’è forse una nuova consapevolezza che vale la pena di esercitare la testimonianza dei valori e delle opinioni attraverso le parole, sincere e oneste, che siamo in grado di produrre e di condividere. Nulla di concreto, oggi, è accaduto. Tanto, tantissimo, di simbolico e di immateriale. Esattamente come i tempi che stiamo vivendo.
26 Apr 2014
Stamina, quando avere ragione non rende felici
Mi sono domandato spesso in questi giorni perché mai non avessi voglia di commentare la chiusura dell’inchiesta condotta dalla Procura di Torino nei confronti di Davide Vannoni e soci. Eppure le conclusioni, e soprattutto i documenti allegati all’inchiesta, confermano in misura impressionante tutti gli argomenti che, basandomi solo sul buon senso e sulla modesta conoscenza dei criteri e dei metodi della corretta sperimentazione scientifica, io stesso avevo a più riprese utilizzato, sia in questo blog, che durante la partecipazione a programmi di informazione televisiva (in particolare tgcom 24, che ha dedicato molti approfondimenti in diretta a questo tema). Non ne avevo voglia, perché non c’è da cantar vittoria, neppure avendo ragione, come in questo caso è del tutto evidente.
Ho provato e provo, invece, profonda tristezza per questo epilogo (tuttora incompleto) di una vicenda ancor più triste e dolorosa, prima di tutto per le famiglie ancora coinvolte in un vortice di speranza e di pena, e poi anche per la constatazione del fallimentare sistema italiano di poteri che si contrappongono e non si
preoccupano delle conseguenze di atti, di decisioni, di procedure, che rischiano di compromettere definitivamente la fiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche.
Trovo di grande equilibrio le dichiarazioni raccolte per Vita.it dalla brava Sara De Carli, che ha intervistato Luca Binetti, padre di due bimbi affetti da atrofia muscolare spinale, la Sma, patologia esclusa dalla sperimentazione con il cosiddetto “metodo Stamina” eppure largamente utilizzata nella fase della comunicazione che potremmo definire della “possibile cura”. «Parte del problema – commenta Binetti – è stata anche il potere dell’informazione, perché il caso Stamina è stato indubbiamente creato dalla bravura di alcuni giornalisti, così come la bravura di altri giornalisti ora lo sta distruggendo. Il problema è che in mezzo ci sono le famiglie e la loro sofferenza». Vero. Ma sulla bravura dei giornalisti ci sarebbe invece molto da discutere. Per me la bravura consiste nel documentare, nei limiti del possibile, la verità dei fatti, verificando le notizie oltre ogni ragionevole dubbio. La bravura sta nell’equilibrio, nella distanza anche emotiva dalle persone delle quali si parla, sta nel rispetto dell’immagine dei minori, sta nella capacità di modificare uno schema narrativo accogliendo con umiltà professionale gli elementi di segno diverso provenienti, ad esempio, da fonti non considerate all’inizio. Bravura di un giornalista è anche la capacità di documentarsi, in questo caso, sulle ragioni che stanno alla base di un metodo di validazione scientifica che, pur con tutti i limiti del caso, è condiviso dalla comunità internazionale al di là di ogni ragionevole dubbio, e non per puro ossequio agli interessi delle grandi case farmaceutiche.
In tutta questa vicenda lo schema seguito, invece, dal mondo dell’informazione generalista, sia sui quotidiani che nelle emittenti televisive, è stato quello di dare voce praticamente alla pari sia ai sostenitori che ai confutatori delle teorie di Vannoni. Un equilibrio fittizio, che non ha quasi mai tenuto conto della disparità emotiva delle forze in campo. I
genitori ormai convinti di tentare questa strada, sorretti nelle loro convinzioni dall’operato dei magistrati, corroborati dalla decisione di un ospedale pubblico di avviare in modo massiccio le infusioni, confusi dalle contraddittorie decisioni (o meglio indecisioni) dei ministri di turno, hanno subito un vero e proprio massacro mediatico, usati, assieme ai loro bambini, e portati addirittura a gesti di ribellione e di protesta pubblica senza alcun precedente nella nostra recente storia sociale.
Una delle conseguenze peggiori è stata la divisione tra famiglie alle prese con patologie analoghe, dalla diagnosi infausta, e dalle cure inesistenti, nonostante la ricerca stia continuando a lavorare, ma con i suoi tempi, e con gli incerti esiti che tuttora attengono al campo delle cellule staminali, in tutto il mondo. Il nostro Paese è diventato il teatro di una guerra dai risvolti commerciali enormi, il che adesso sta emergendo in modo clamoroso. Smantellare attraverso Stamina le regole della validazione della ricerca era ed è, in buona misura, l’obiettivo reale di questa guerra combattuta senza esclusione di colpi.
Ecco perché oggi l’unica vera risposta dovrebbe essere il silenzio. Il rispetto per le vittime, troppe, di questa vergogna italiana. Nella speranza, non nella certezza purtroppo, che questa vicenda si chiuda definitivamente, senza un prolungamento di agonia mediatica, che nessuno si merita.
15 Apr 2014 Fenomenologia di Icardi
Ho seguito prima distrattamente poi con crescente interesse la vicenda di Mauro Icardi, giovane talento calcistico, oggi fra i migliori dell’Inter, la squadra per la quale, come è noto anche ai lettori di questo blog, io faccio il tifo molto intensamente, al punto da essermi creato persino un piccolo spazio personale, nel quale scrivo quando posso, in genere pochi minuti dopo il termine della partita (quasi un esercizio rilassante). Ma ho deciso di scriverne qui, dove assai raramente parlo di calcio, con qualche eccezione, dedicata a Mario Balotelli, e alla finale della Champions a Madrid. Sono infatti convinto che l’ondata di moralismo esplosa sui media e allo stadio, e anche nei commenti dei tifosi, sia del tutto sproporzionata rispetto all’entità della vicenda, se non per un piccolo aspetto, sul quale mi soffermo subito.
L’unica cosa che mi sento sinceramente di rimproverare al giovane argentino è l’uso, su Twitter, delle immagini che lo ritraggono con i bambini, figli della sua attuale compagna Wanda Nara. Lo dico anche da giornalista, i bambini vanno lasciati stare. Certo che si possono fotografare, ed è bello vedere che si sta creando un legame,
un affetto anche con una nuova figura genitoriale (perché questo, in fin dei conti, accade in tantissime situazioni della vita reale), ma questa cosa deve rimanere privata, nell’album di famiglia, se mai ancora ne esistesse uno. La generazione di Twitter e Facebook fa fatica, tanta fatica, a comprendere la questione dell’uso corretto delle immagini. Perché l’immagine ormai è tutto, e ci invade sotto ogni forma, sostituendosi spesso alle parole, che si riducono a battute in 140 caratteri. I giornalisti, non per moralismo, ma per tutela della dignità dei minori, hanno elaborato ormai molto tempo fa la Carta di Treviso, dove si raccomanda appunto di non usare in modo sconsiderato le immagini dei bambini.
Perciò a Icardi e a Wanda Nara chiederei di pensarci bene, perché questo aspetto nulla ha a che vedere con tutti gli argomenti, usati a sproposito e in funzione dell’appartenenza del tifo, nei loro confronti. Il fatto che la vicenda personale di tre adulti, per quanto noti a milioni di appassionati di calcio e di gossip, diventi così rilevante da condizionare palesemente persino lo svolgimento di una partita di campionato, e da scomodare un parroco di fede (sic!) sampdoriana a polemizzare con il giovane giocatore dell’Inter è un fenomeno che sicuramente sta interessando i sociologi e gli antropologi.
A me dà enormemente fastidio il moralismo applicato al calcio. Lo abbiamo vissuto, poco tempo fa, proprio nei riguardi di Balotelli (che in ogni caso conduce una vita assai vivace, e dunque non si fa mancare quasi nulla del repertorio del bad boy, come ben si sa). Ora sta succedendo con Icardi, poco più che ventenne, il quale peraltro conduce vita tranquilla, tutto casa e campo di calcio. Certo, in casa si dedica (almeno così pare dalle ripetute millanterie mediatiche) ad una robusta attività sessuale con una donna che è la moglie (in via di separazione) di un suo amico, Maxi Lopez. Tutti o quasi si affannano a ripetere (basta leggere i giornali e seguire qualche commento televisivo) che questi sono fatti loro, fatti privatissimi. Salvo poi aggiungere, spesso non richiesti, un ben preciso giudizio morale. Come ho letto acutamente in un blog interista,
Bauscia Cafè, è quanto mai opportuna la citazione di “Bocca di Rosa” di Fabrizio De Andrè: “Si sa che la gente dà buoni consigli, se non può più dare il cattivo esempio”.
Mi hanno stupito, anche in programmi di commento della Rai (la Domenica Sportiva) vedere giornalisti sportivi ammiccare divertiti all’idea che in fondo sarebbe stato giusto che Icardi, durante la partita di Genova, venisse raggiunto da qualche fallo punitivo, senza fargli troppo male, naturalmente. Moralisti e ipocriti si sono incontrati alla perfezione, senza curarsi minimamente del messaggio che ne deriva. Hanno preso le parti di un uomo, Maxi Lopez, del cui comportamento nei confronti della ex moglie forse sarebbe altrettanto interessante coglierne i tratti a dir poco maschilisti. Fatti loro anche questi, certo. Ma il tutto ha assunto un tono surreale, come se si fosse improvvisamente nel salotto di Maria De Filippi, con un paio di tronisti e una bella donna prosperosa e di indubbia vivacità comunicativa.
Non so se la situazione si placherà rapidamente, me lo auguro di tutto cuore. Per parte mia spero che il giovane talento continui a giocare bene e a segnare splendidi gol, dimostrando con questo un comportamento professionale, l’unico parametro in base al quale, come calciatore, può essere valutato dai tifosi e dagli avversari. Mi auguro che i bambini vengano lasciati in pace e protetti da questa notorietà del tutto ingiustificabile. Penso che il calcio, ancora una volta, si dimostra un grande romanzo popolare, e anche chi in modo snobistico ritiene che si tratti di un fenomeno minore dovrebbe riflettere sui messaggi, anche culturali, che vengono lanciati con troppa facilità. Moralismo bacchettone e tifo settario si sommano e fanno danni. Troppo facile prendersela con Icardi, e magari, nello stesso giorno, trascurare la notizia delle percosse subite dalla moglie di un altro calciatore, di un’altra squadra. Forse è il caso di fermarsi. E di riderci sopra, con ironia e leggerezza.
13 Apr 2014
Populismo senza solidarietà
Ho letto con attenzione le riflessioni contenute nell’editoriale domenicale di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera, “La sindrome della nostalgia”. Come spesso accade, nella foga iconoclasta, i grandi opinionisti esagerano un po’, forti del loro ruolo di abitanti dell’Iperuranio, dal quale osservano le vicende umane con saggezza e acume senza pari. Ma qualcosa di vero, e di impietoso, nell’analisi della sinistra borghese e benpensante del nostro Paese, c’è eccome. Soprattutto quella sottolineatura dell’incapacità, oggi, di leggere correttamente i bisogni e le urgenze di chi sta pagando gli effetti di una crisi lunghissima ed estenuante.
E mi convince anche la sua lettura dell’atteggiamento di Matteo Renzi, che risponde al populismo con ricette che non sono di destra, ma appartengono quanto meno alla cultura della solidarietà e della moralità pubblica. Il conservatorismo delle alte gerarchie dei burocrati (che non va confuso tout court con i lavoratori del settore pubblico, spesso vittime di un sistema che non ne valorizza le capacità e le competenze) sta cercando infatti di inceppare ogni segnale politico di cambiamento, e la
battaglia di questi giorni, magari un po’ retorica e altisonante, ma è sacrosanta e condivisa in modo trasversale, da destra a sinistra.
Quello che mi preoccupa non è l’analisi. Sono invece spaventato dall’ondata di populismo privo di razionalità, che si basa in buona misura sulla cultura dei “no”, e soprattutto sulla tutela della rabbia individuale. Ogni cittadino che si sente impoverito, incompreso, abbandonato a se stesso, trova motivi di rivalsa nei proclami che vengono urlati nelle piazze e sul web da Grillo o da Salvini o da tutti e due, con l’aggiunta di una parte di seguaci di Berlusconi, che sgomitano per guadagnarsi un futuro prima dell’irreparabile. In tutto questo vociare infatti mi pare che manchi il collante di una politica sociale degna di questo nome. La campagna antieuropeista è di sicura presa popolare, basta guardarsi in giro. E persino la raccolta di firme per togliere le prostitute dalle strade ha una forza basata sull’evidenza di una situazione mai affrontata in termini corretti e seri. Ma tutte queste proposte cariche di demagogia e di rifiuto del welfare statalista rischiano di attecchire e di favorire un nuovo blocco sociale, sostanzialmente reazionario (se possiamo usare parole desuete senza essere accusati di nostalgia).
Osservo con stupore ad esempio la tendenza a liquidare il tema della disabilità in termini di lotta ai furbi e ai profittatori, senza curarsi affatto delle condizioni reali di vita, e dei servizi che concretamente oggi gli enti locali, privi di soldi ma pieni di responsabilità pubbliche, sono in grado di assicurare in presenza di ulteriori e pesanti tagli alla spesa. E in generale sul welfare si assiste a un cupio dissolvi generico e ignorante, all’interno del quale il terzo settore, il volontariato, il mondo della cooperazione sociale, ma anche gli operatori pubblici e privati che vivono accanto alle persone e alle famiglie, faticano a vedere un futuro di speranza.
Dobbiamo forse riscoprire con forza la parola “solidarietà”. La rete umana, lo sguardo sul vicino di casa, sulla persona che ha scelto il nostro Paese per lavorare e non per delinquere (e sono la
stragrande maggioranza). Il piano del governo Renzi, anche secondo me, è quasi un’ultima spiaggia di resistenza civile, e quella parte di sinistra che con qualche ragione storce il naso sul metodo e su alcuni aspetti di dirigismo inusuale (specie in un Pd abituato alle mediazioni estenuanti e spesso ipocrite) dovrebbe interrogarsi maggiormente sul senso autentico della politica al servizio dei cittadini.
Forse anche per questo, da tempo, ho scelto con serenità l’impegno sulle cose, nella rete, con le persone che stimo e con le quali condivido sia la comunicazione che il fare. Anche questo, oggi, è politica. Non dobbiamo mai rassegnarci. Restiamo umani.
7 Apr 2014
Isee, ovvero l’evasione equivalente
Diciamolo francamente: uno dei temi di angoscia in molte famiglie italiane, soprattutto in quelle che vedono nel proprio nucleo una persona con disabilità non autosufficiente, o un anziano nella medesima situazione di necessità di accedere a servizi sociosanitari, è rappresentato dall’entrata in vigore dell’Isee, ovvero il famoso o famigerato Indicatore della Situazione Economica Equivalente. Il regolamento di attuazione è stato di recente approvato dal Governo e sia pure lentamente la macchina della sua possibile applicazione a livello territoriale si è messa in moto. In molti ci stanno mettendo la testa e le competenze, spesso con grande buona volontà, almeno per cercare di limitare le conseguenze più dannose rispetto alle effettive esigenze delle persone e delle famiglie, convinte (spesso non a torto) che andranno incontro a più spesa familiare e meno servizi garantiti dal welfare pubblico. Non mi addentro nella materia dal punto di vista tecnico, e rimando i lettori all’ampia e documentatissima analisi svolta da Carlo Giacobini, consultabile e scaricabile a questo indirizzo del sito www.handylex. org . Molte domande trovano una risposta, per fortuna, ma il margine di
ambiguità, nei criteri applicativi, è assai elevato. E non solo perché per la prima volta non è contemplato solo l’Isee individuale (per le persone con disabilità), ma quello familiare. Quello che mi preoccupa è il clima da caccia alle streghe nel quale questo provvedimento si sta inserendo. Mi sembra di rivedere il film della caccia ai falsi invalidi. Ora lo scenario potrebbe dilatarsi all’intera gamma dei servizi sociosanitari e delle agevolazioni (poche peraltro) delle quali fino ad oggi “godono” le persone con disabilità. L’opinione pubblica è continuamente bersagliata da messaggi niente affatto subliminali, ma espliciti: c’è tanta gente (si vede e si sente in televisione, si legge sui giornali) che riceve prestazioni gratuite quando potrebbe benissimo pagarsele. Con i soldi risparmiati – è il ragionamento diffuso a livello popolare – si potrebbero dare molti più servizi a “chi ne ha veramente bisogno”. Se oggi facessimo un referendum (speriamo di no), sono quasi sicuro che calerebbe la mannaia su quasi tutte le prestazioni pubbliche di welfare, compresa l’indennità di accompagnamento. È troppo debole la voce di chi con dignità chiede semplicemente il rispetto delle leggi vigenti, e vuole vivere alla pari, compensando, per quanto possibile, lo svantaggio dell’handicap fisico, sensoriale, o intellettivo. Molto più forte e diffuso il luogo comune, demagogico e di grande effetto, connesso ai racconti di truffe, di abusi, di dichiarazioni false, e così via.
In tempi di crisi prevale l’atteggiamento da homo homini lupus. O della guerra tra poveri. Ho paura che si annuncino mesi difficili per tutte le persone di buona volontà e di competenza indubbia che stanno cercando di applicare con razionalità e saggezza norme complicate, farraginose, e difficili persino da applicare alla lettera.
Ma c’è un aspetto, micidiale, sul quale vorrei che si avviasse una riflessione onesta e sincera, anche a livello di opinion makers, di grandi nomi del giornalismo e dell’intrattenimento da talk show. Possibile, mi domando, che nessuno veda la trave dell’evasione fiscale mastodontica di questo Paese? Del lavoro nero? Dei patrimoni non
dichiarati? Degli imprenditori che dichiarano un reddito inferiore a quello dei dipendenti? Come possiamo immaginare un sistema equo di prestazioni sociosanitarie e di agevolazioni se fin da adesso siamo certi di una sola cosa: le dichiarazioni Isee delle famiglie saranno sicuramente penalizzanti per tutti coloro che hanno redditi fissi da lavoro dipendente o da pensione pubblica. Rischieranno di uscire dai benefici persino le famiglie che oculatamente hanno investito sulla casa come bene rifugio e come sicurezza per i propri figli non autosufficienti. Risulteranno “ricchi” cittadini che hanno il solo torto di pagare le tasse fino all’ultimo centesimo. Questa è l’unica certezza, sperequativa, che oggi possiamo ragionevolmente condividere.
In queste settimane sento parlare di ogni possibile provvedimento, ma nemmeno una parola per denunciare l’assurdità di un Paese che vuole parametrare i servizi destinati ai propri cittadini più fragili ragionando come se fossimo in Svezia o in Norvegia, e non piuttosto in Italia, dove l’evasione fiscale si somma al deficit della spesa pubblica nel renderci del tutto inaffidabili, non solo in Europa, ma pure a noi stessi.
Ci vorrebbe una moratoria, almeno di un paio d’anni, per ripensare seriamente l’intero meccanismo. Se vogliamo riformare tutti gli istituti, anche di tipo previdenziale e assistenziale, dobbiamo farlo mettendo prima di tutto in sicurezza la vita delle famiglie qui e adesso. Prima che sia troppo tardi.
25 Mar 2014
I diritti sono importanti come le pietre
Una campagna di raccolta fondi attraverso l’sms solidale, il classico 455o2, è attiva in questi giorni, dal 24 al 30 marzo: 2 euro non per mettere su mattoni, o sostenere comunque una causa materiale, come avviene quasi sempre. Ma per difendere i diritti delle persone con disabilità. Il coraggio ce lo ha messo la Fish, la Federazione italiana per il superamento dell’handicap. Tutte le informazioni, anche sulle possibilità di donazione, si trovano nel bel sito www.personenonpesi.it. Certo, ne parlo bene perché conosco Fish sin dal suo primo giorno di vita, e ne faccio parte, come presidente di Ledha, la rete delle associazioni lombarde. Ma spendo questo appello a tutti coloro che lo leggeranno e, spero, lo diffonderanno, perché considero questa campagna a colpi di sms solidale quasi come un referendum popolare in favore di una seria e rinnovata attenzione alla realtà delle famiglie e delle persone con disabilità. Mai come adesso c’è bisogno di attenzione, di consapevolezza, di informazioni oneste e complete, sulle leggi, sui servizi, sulle opportunità di emancipazione e di vita indipendente delle persone con disabilità. Informazioni aggiornate utilizzando gli strumenti nuovi della comunicazione
interattiva, sul web, sullo smartphone, al telefono. Mai come adesso le parole sono pietre, sono mattoni sui quali costruire un edificio solido e non perennemente esposto alle raffiche di vento, come purtroppo accade spesso.
Ho constatato con piacere la pronta presa di posizione del presidente del Consiglio Matteo Renzi, a proposito della sventurata ipotesi di spending review (ma perché non li chiamiamo tagli?) legata allo smantellamento dell’indennità di accompagnamento. Mi ha piacevolmente sorpreso il curioso (anche questo è un segno dei tempi) apprezzamento di Graziano Del Rio, che ha inserito fra i tweet “preferiti” il mio appello a non fidarsi di dossier non veritieri (diciamo così) su questa delicata materia, che ha visto invece proprio la Fish realizzare documentate e rigorose analisi sulle cifre reali della spesa sociale con particolare attenzione alle reali condizioni delle famiglie (“Raccontiamola giusta”).
E infatti ancora una volta – almeno lo speriamo – è stata scongiurata, proprio grazie alla rete, alla credibilità, all’autorevolezza non settaria e non corporativa delle associazioni delle persone con disabilità, una manovra pericolosissima e destabilizzante persino della serenità delle persone coinvolte. Ma proprio per questo c’è bisogno adesso di testimoniare attivamente e concretamente da che parte si sta. Un sms, due euro di generosità, sono un contributo civile e dignitoso a un progetto che ha bisogno, per vedere la luce, di risorse non indifferenti, tenuto conto che la rete della Fish non gode di finanziamenti pubblici per legge, come avviene invece storicamente per alcune associazioni di tutela. In questa settimana molti programmi radiofonici e televisivi daranno voce ai protagonisti di questa battaglia.
Mi piace lo slogan “Siamo persone, non pesi”. Da troppo tempo la disabilità è considerata, a torto, solo un peso, un carico economico e sociale, un problema, e quasi mai una risorsa, umana, culturale, ma persino economica (come del resto testimonia la realtà dei servizi nel mondo della cooperazione sociale e non solo). La sfida è
difficile e complessa: nel marketing delle raccolte fondi, si sa, le campagne efficaci sono quelle che puntano sulla pietà e sul dolore. Una volta tanto proviamo a cambiare rotta e messaggio. Puntiamo, egoisticamente, sui diritti di tutti. Doniamo due euro a testa alta. Con dignità.
17 Mar 2014 Vittorio Sgarbi e le capre disabili
Non volevo scriverne, davvero. Ma alla fine penso che sia giusto rendere conto ai miei affezionati (?) lettori di FrancaMente di una intervista elettorale a Vittorio Sgarbi, personaggio che non necessita di particolari presentazioni, questa volta nei panni di candidato per i Verdi (sic!) a sindaco di Urbino. L’intervista è stata pubblicata, assieme a quelle con gli altri candidati, su “Il Ducato online”, ossia il giornale dell’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino, e i virgolettati abbondano, come è giusto quando si vuol riportare fedelmente il pensiero dell’intervistato. Il punto in questione è il giudizio del Grande Critico rispetto alla proposta urbanistica che sembra affascinare i cittadini di Urbino, ossia la realizzazione di scale mobili e di ascensori gratuiti per rendere accessibile il centro storico, attualmente impraticabile non solo per chi si muove in sedia a rotelle, ma anche per chiunque faccia fatica a inerpicarsi nel cuore di una città splendida quanto sicuramente preziosa e delicata. Questa mia lunga premessa per cercare di essere sereno e obiettivo, e non pregiudizialmente pronto a insultare con un ripetuto “Capra! Capra! Capra!” il nostro showman dell’arte e della politica.
Anche io, lo dico sinceramente, sono preoccupato quando leggo di progetti avveniristici che possono compromettere in modo definitivo l’estetica e la storia delle nostre città d’arte. Non sono un troglodita, non mi piacciono gli sventramenti e gli scempi in nome del progresso o dell’archistar di turno. Ho combattuto – qualcuno lo ricorderà forse – di fronte all’obbrobrio del ponte di Calatrava a Venezia (e contro gli errori clamorosi nella ricerca di rimediare alla sua evidente inaccessibilità).
Ma sono anche rimasto ammirato – ad esempio – dalla splendida soluzione trovata per arrivare al forte di Bard, con ascensori trasparenti che consentono a tutti di raggiungere questo gioiello all’ingresso della Valle d’Aosta.
Ed eccoci alle frasi inquietanti di Vittorio Sgarbi. «Guai a nominare scale mobili o ascensori – scrive Maria Gabriella Lanza – davanti al candidato dei Verdi: “Mi fa schifo solo la parola. Una città civile non ha né ascensori né scale mobili. Solo quelle abitate da nani, zoppi e handicappati hanno le scale mobili. Se le devono mettere nel culo”».
Nani, zoppi e handicappati. Proprio così. Greve, insultante, direi pure razzista (nel senso della razza pura, ariana). Incredibilmente privo di qualsiasi freno inibitorio, ma questa non è la novità. Potrei spiegargli che le scale mobili non sono esattamente il nostro problema, di persone con disabilità motoria, ma sarebbe inutile. Potrei riferirgli alcuni dei commenti crudeli arrivati da ieri sera nella mia pagina facebook . Ma preferisco concentrarmi su di una riflessione ancor più preoccupata. Eccola. Secondo me ciò che ha urlato sgangheratamente Sgarbi è condiviso, in modo soft e silenziosamente, da larga parte del mondo di critici d’arte, di cultori del passato, di sovrintendenti, di esperti, di urbanisti, di architetti più o meno famosi. Lo stigma e il pregiudizio nei confronti di soluzioni capaci di rispondere alle esigenze di un’utenza universale, in nome della salvaguardia elitaria e aristocratica della bellezza sono sicuramente assai più diffusi di quanto possa apparire, e sono la premessa, il sottofondo culturale, che consente a Sgarbi
di infierire, di maramaldeggiare impunito. Adesso probabilmente qualcuno protesterà, e in modo sottilmente ipocrita si dirà che Sgarbi è una capra ignorante. Ma poi tutto continuerà come prima e le nostre città, in pianura come in collina o in montagna, resteranno fruibili appieno solo dalla minoranza atletica e performante che domina la nostra società postmoderna.
La verità amara è che vince il pensiero di Sgarbi. Oddio: pensiero, mi rendo conto, è una parola grossa.
11 Mar 2014
Accompagnamento, non provateci
Conosco da troppo tempo Pietro Vittorio Barbieri, le sue idee, il suo modo di fare interlocuzione politica e sociale, prima come presidente di Fish, la Federazione italiana per il superamento dell’handicap, poi, da qualche tempo, come portavoce del Forum del Terzo Settore, per non allarmarmi seriamente leggendo oggi un suo comunicato estremamente duro, anche se basato su “rumors” e non su notizie definitive. “Non si tocchino le indennità di accompagnamento!” scrive il presidente della Fish, rivolgendosi evidentemente al nuovo Governo.
«Per chi si chiedesse dove il Governo Renzi troverà le risorse per attuare i suoi fascinanti annunci – commenta Barbieri – , c’è forse una prima risposta: prendendole dai disabili gravi e dalle vedove». Di norma il presidente della Fish, tra l’altro alla vigilia del congresso della rete delle associazioni delle persone con disabilità, giunta al ventesimo anno di vita, è assai prudente e portato al dialogo senza clamori, come è giusto. E nei giorni scorsi aveva salutato con soddisfazione, ad esempio, la nomina a ministro del welfare di una persona come Giuliano Poletti. Se dunque oggi si sente in dovere di intervenire a gamba tesa, quasi con un tackle
preventivo, significa che quei “rumors” che rimbalzano dal Parlamento sono qualcosa di più di una voce incontrollata, quanto piuttosto il riaffacciarsi di un vecchio e mai desueto disegno che nasce quasi sempre negli ambienti del ministero dell’Economia, salvo poi scontrarsi (finora con successo per le associazioni dei disabili) con la volontà di segno diverso in sede di commissioni parlamentari. Ma forse adesso la confusione generale, e il tentativo evidente di imprimere uno choc positivo per far ripartire l’economia e i consumi, rischiano di combinarsi in modo imprevedibile.
«Un significativo e repentino contenimento della spesa pubblica deriverebbe da interventi di riduzione nell’erogazione delle indennità di accompagnamento – argomenta il presidente della Fish – prestazione assistenziale riservata agli invalidi totali e ai ciechi assoluti, non in grado di deambulare o non in grado di svolgere i normali atti della vita. Cioè persone con fortissime necessità di supporto che spesso contano solo sull’assistenza continua dei loro familiari. Un altro intervento di riduzione riguarderebbe poi le pensioni di reversibilità, cioè quelle riservate ai familiari superstiti di lavoratori che per tutta la vita lavorativa hanno versato contributi. Un colpo particolarmente violento, questo, all’equilibrio di migliaia di famiglie italiane».
Sapremo forse ben presto se questa preoccupazione è frutto di un timore eccessivo oppure è fondata su elementi che si paleseranno all’interno dei provvedimenti in fase di definizione da parte del Governo Renzi. L’indennità di accompagnamento è forse rimasta l’ultima bandiera alla quale aggrapparsi in un welfare malridotto e ancora non rivisitato alla base. Stiamo parlando, si badi bene, di 500 euro al mese che costituiscono di fatto l’unico strumento universalista di risposta a un bisogno reale di persone alle quali è stata certificata (e non revocata) una invalidità totale.
Ogni governo nuovo, di centrodestra o di centrosinistra, o di emergenza, ci prova a legare ad esempio l’indennità di accompagnamento al
reddito, magari tentando di inserirla come elemento determinante per l’accesso ai servizi essenziali. Ma questo tentativo, sino ad oggi, è stato rintuzzato regolarmente, costringendo però le associazioni che tutelano le persone con disabilità a una battaglia puramente difensiva, vanificando così qualsiasi possibilità di dialogo per andare oltre, per rivedere ad esempio i criteri di accertamento, per ragionare meglio sul tema difficile delle persone anziane non autosufficienti (altra situazione rispetto alla disabilità di minori e adulti).
Spero vivamente che Pietro Barbieri questa volta abbia esagerato. Non credo che sia così. Ma spero anche che Matteo Renzi non perda di vista, in questa prima convulsa fase di governo, la tutela delle fasce oggettivamente più deboli, anche contrattualmente, di questo Paese.
5 Mar 2014 Auguri Francesco, un altro anno da Papa
Un anno e non sentirlo, volato con la freschezza della novità e del carisma. Papa Francesco è sicuramente una delle poche buone notizie degli ultimi 365 giorni, e lo è non solo per i credenti, ma per tutti, comprese le persone come me, che un po’ di fede ce l’hanno, ma si sono allontanate da molto tempo da una Chiesa difficile da amare, e a volte persino da capire. Ho letto l’intervista a Ferruccio de Bortoli, sul Corriere della Sera. Mi ha colpito un passaggio. De Bortoli butta lì: «C’è qualcosa nella sua immagine pubblica che non le piace?». E Bergoglio: «Mi piace stare tra la gente, insieme a chi soffre, andare nelle parrocchie. Non mi piacciono le interpretazioni ideologiche, una certa mitologia di papa Francesco. Quando si dice per esempio che esce di notte dal Vaticano per andare a dar da mangiare ai barboni in via Ottaviano. Non mi è mai venuto in mente. Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione. Dipingere il Papa come una sorta di superman, una specie di star, mi pare offensivo. Il Papa è un uomo che ride, piange, dorme tranquillo e ha amici come tutti. Una persona normale». Vedo che la medesima frase ha colpito la sensibilità di Giuseppe Frangi, senza che
ci fossimo parlati, nello stesso momento… Ha dato corpo al mio unico dubbio, maturato in questi tempi così difficili. Ho avuto come la sensazione che la sua semplicità dirompente nel dire le cose stia assumendo, nel meccanismo infernale della comunicazione contemporanea, una valenza eccessiva. Penso che sia molto facile costruire comunicazione attorno a Papa Francesco, trasformandolo – come in parte è già avvenuto – in un’icona pop, una star che stordisce le masse dei fedeli, conquistandole con il gesto e con l’accento argentino, ma rendendo troppo superficiale la lettura dei contenuti che il Pontefice sta cercando di veicolare nel mondo conservatore della Chiesa e in una opinione pubblica imbevuta di materialismo e di paure. E infatti la parola “profondità” torna spesso nelle sue considerazioni. La consapevolezza dei dubbi, delle incertezze: ecco che cosa oggi mi affascina e mi interroga, da laico cristiano. Mi conforta sapere che il Papa non ha risposte immediate. O meglio: non ha risposte scontate e scolastiche. Si interroga sulla modernità risalendo alle origini della fede, e sceglie l’umiltà del parroco per dialogare con chi quotidianamente affronta le difficoltà aspre di un’esistenza che è quasi impossibile vivere seguendo unicamente le regole della Chiesa. Non so se riuscirà nell’impresa titanica di fornire al mondo di oggi risposte comprensibili, moralmente ferme, ma compatibili con la varietà di situazioni che caratterizzano la nostra società, con la famiglia in crisi, con le tante discriminazioni che vengono tollerate, o combattute solo a parole. Per quanto mi riguarda attendo con speranza una pastorale sulle persone con disabilità, che sembra affiorare tra le pieghe di singoli gesti, simbolici e forti, e da parole importanti, come quelle sugli “scarti”. La dignità e il rispetto nei confronti delle persone disabili, non più oggetti di solidarietà, ma soggetti attivi, capaci di modificare la comunità nella quale vivono: questo messaggio forte e chiaro ha bisogno di tempo per tradursi in azioni coerenti. Ma se lo dice il Papa, la speranza si ravviva. In un mondo nel quale regna l’incertezza, e governa il cinismo dei potenti, mi piace augurare buona vita a un Papa venuto dall’altro mondo.
21 Feb 2014 Eutanasia per i bambini? Filippo, non firmare quella legge
Ho appena firmato un appello internazionale per chiedere a Filippo, re del Belgio, di non firmare la legge, approvata dal Parlamento, che consente il ricorso all’eutanasia infantile. Forse è tardi, ed è comunque assai difficile che il sovrano decida di utilizzare questo strumento estremo per fermare un provvedimento che viene da lontano, sorretto e sospinto persino dal consenso di un’ampia parte della popolazione, stando ai sondaggi. Ma è giusto alzare la voce, ovunque possibile, contro un’aberrazione inaccettabile, che si basa su una serie di pregiudizi e di stereotipi dei quali, inutile dirlo, siamo impregnati anche noi, qui in Italia, e non solo.
Prima di tutto la mitologia della sofferenza inaccettabile, tanto più inaccettabile quando riguarda i bambini. In realtà la sofferenza riguarda sicuramente i genitori, mentre un bimbo, per quanto gravemente malato, può certamente soffrire per il dolore fisico, ma è sempre e soltanto un bambino, che percepisce prima di ogni altra cosa l’affetto e il sorriso di chi gli sta accanto. Il dolore fisico si può lenire e annientare con le cure palliative, che finalmente esistono e
consentono di eliminare qualsiasi sofferenza inutile e ingiusta.
Anche io da bambino ho sofferto tantissimo, nei primi anni di vita, per le continue fratture delle ossa fragili, e per il ricorso a ingessature rigide (come si usava allora) mettendo in trazione gli arti su lettini ortopedici che assomigliavano moltissimo a letti di tortura. Solo un po’ di etere, allora, e tanto, tanto dolore. Ma vedevo il sorriso di mia mamma e di mio papà accanto a me, e sopportavo tutto, perché avevo una voglia smisurata di vivere, e sapevo che non era colpa loro se le mie ossa erano così brutte, storte e rotte. Certo, si dirà, la mia non era una malattia terminale, non rischiavo la vita, non ero nelle condizioni previste da una legge – quella belga – che pone molte condizioni cautelative prima della sua applicazione concreta. Ma quelle condizioni sanno di ipocrisia, quando affermano che si può procedere solo in caso di cosciente comprensione della decisione da parte del bambino che sarà soppresso. Stiamo scherzando? Quale bambino coscientemente può davvero desiderare di morire? È la premessa a una serie di sotterfugi legali, di dichiarazioni false, con il consenso di genitori disperati, e di medici che osservano esclusivamente la parte patologica della questione, non essendo tenuti a una valutazione complessiva di carattere bioetico.
Non voglio farne una questione di tipo religioso. Non lo è. O meglio: per chi ha una forte fede religiosa questa legge è sicuramente un obbrobrio e non si capisce come possa un Paese a forte maggioranza cattolica aver così sottovalutato gli aspetti etici della legge. Il problema è semplicemente umano. E siamo alla premessa (già più volte palesatasi, in Olanda e altrove) di una deriva eugenetica difficile da arginare. Una scelta che fa breccia anche perché siamo in tempi di grande crisi economica e le persone “malate” sono un costo, che appare persino inutile quando si ha la convinzione che non ci sia alcuna possibilità di guarigione e di sopravvivenza dignitosa.
Non è così che si difende l’uomo. E in ogni caso: salviamo i bambini, loro sono innocenti.
13 Feb 2014 Il futuro secondo Matteo
Provo a mettere in fila adesso, mentre i giochi si stanno compiendo, le mie sensazioni di persona che della politica ha vissuto sempre e solo la dimensione della passione, dell’impegno, del servizio, del rapporto fra società civile e rappresentanza istituzionale. Sono passato attraverso i momenti bui di questa Repubblica, quando si poteva ragionevolmente temere una svolta autoritaria, sotto la spinta eversiva di un terrorismo spesso teleguidato da menti che agivano nell’ombra. Oggi, di fronte all’atteggiamento strano, per certi versi sorprendente, della direzione nazionale del Pd, ho la sensazione che qualcuno, là dentro, abbia davvero paura che siamo vicini all’ultima spiaggia della democrazia così come in qualche modo si è dipanata negli ultimi decenni. Non frequento ormai da molti mesi il mondo della politica militante, concentrato come sono, e opportunamente, in un ruolo di rappresentanza attiva dei diritti delle persone con disabilità, e di informazione giornalistica su tutto quanto, attorno alla clamorosa negazione di tali diritti, avviene ogni giorno nell’indifferenza, nella quasi totale invisibilità. Ho maturato personalmente la decisione di non essere più disponibile
a impegnarmi in competizioni nelle quali soltanto il consenso già consolidato attraverso l’appartenenza alle élites della politica o il censo permettono di fatto il successo elettorale, in un sistema che in modo molto ipocrita mantiene una parvenza di partecipazione reale.
Fatte queste premesse, mi rendo conto che ormai il futuro è quello scritto dal sindaco di Firenze, qualunque cosa questo rappresenti. La sua scommessa, dirompente e quasi sfacciata, chiude definitivamente i giochi di un Parlamento strano, tripartito, ingovernabile. Riuscirà a governare? Non lo sappiamo, è presto per dirlo. Penso che ci riuscirà, al momento. Non so se sarà il nostro Tony Blair, che però veniva dopo la Thatcher, non dopo Enrico Letta. Lo sfinimento nazionale è profondo, la sfiducia talmente diffusa da essere patologica fino al parossismo verbale.
Di fronte a questa situazione la società civile non può rimanere neutrale, e neppure accodarsi al carro del vincitore pro tempore. Occorre riprendere vigore di interlocuzione senza sconti, perché sappiamo bene che non esistono governi amici, anzi, quelli che sembrano più vicini spesso si rivelano, nei comportamenti concreti, lontani mille miglia dalle esigenze reali dei cittadini più fragili, dando per scontata la loro condivisione quasi “ideologica”. Il Partito Democratico è oggi qualcosa di molto ibrido, non rappresenta certo il sentimento di base di un popolo che ancora potremmo definire “di sinistra”.
Ci sono troppe incrostazioni vecchie e nuove, personalismi, vendette trasversali, conti in sospeso (i famosi 101 misteriosi affossatori della presidenza Prodi). Non è possibile fidarsi, neppure per chi vuole continuare a esercitare virtù zen. In buona sostanza adesso occorre osservare, come in uno show, che cosa sarà capace di fare Matteo Renzi, in Parlamento, nei rapporti con il Presidente della Repubblica, con le opposizioni, con Berlusconi, con il Movimento 5 stelle. Una crisi extraparlamentare ancora una volta decide delle nostre vite, delle leggi che aspettiamo, dei conti che dobbiamo regolare con la convivenza civile.
Il “Terzo settore” (sic!) può svolgere un ruolo determinante nell’immediato? Io non credo, penso anzi che mai come adesso sia indispensabile difendere un’autonomia di pensiero e di rappresentanza sociale, pronti a fornire stimoli, proposte, contenuti, a difesa di chi in questo momento non ha alcuna voce in capitolo. Ossia quasi tutti noi. Chi più chi meno.
Una cosa è sicura: Matteo Renzi ha coraggio, si stima tantissimo, ed è convinto di vincere. Ha una squadra giovane di persone determinate e fresche, difficilmente possono fare peggio di chi li ha preceduti. Ma c’è un problema: non può fallire. È condannato a vincere. Come è accaduto, per 20 anni, a Berlusconi.
3 Feb 2014
Sordi, in un mondo che non sa ascoltare
Travolto dalle notizie di cronaca ho trascurato un impegno, quello di ragionare attorno a un convegno, non uno dei tanti appuntamenti, pure lodevoli. Ma un incontro speciale, costruito con sapienza da Martina Gerosa, a Milano, in gennaio, dal titolo che è tutto un programma: “Sentiamoci! Riflessioni sulla disabilità uditiva”. Una bella sede, l’auditorium San Vittore dove ha sede la cooperativa “La cordata”, un programma denso e coinvolgente, aperto dal film “Sento l’aria” di Mirco Locatelli. Un pubblico composito, nel quale non erano certo prevalenti i sordi, e comunque sarebbe stato difficile distinguere chi sentiva con le proprie orecchie, chi con l’ausilio degli impianti cocleari, chi seguendo il labiale, chi la sottotitolazione, chi la lingua dei segni. Ognuno poteva scegliere e sentirsi incluso, come è giusto, o meglio, come sarebbe giusto sempre. Mi è tornato in mente questo incontro splendido, al quale ho avuto l’onore di partecipare e di dire la mia, assieme ad altre persone assai preparate, leggendo lo splendido post di Claudio Arrigoni su InVisibili di corriere.it, dedicato a Derrick Coleman, il primo giocatore di rugby americano riuscito ad arrivare fino al mitico Superbowl, la finale stellare
diffusa in tutto il mondo, pur essendo sordo, in uno sport nel quale la comunicazione verbale, spesso urlata, è fondamentale per chiamare gli schemi di gioco.
Una storia di normalità, in un mondo in cui questa risulta comunque una impresa enorme, resa possibile dalla tenacia di un campione, ma anche dall’ottima relazione con il contesto della propria squadra, e dall’uso di tecnologie compensative in grado di ridurre il deficit uditivo, che pure rimane e pesa. Derrick, per la cronaca, ha pure vinto il Superbowl con i suoi Seattle Seahawks. Sarebbe stato un argomento in più, nel nostro incontro di gennaio. Ma non avrebbe aggiunto molto alla sostanza di un ragionamento “a più voci”, che partiva da esperienze di vita vera, con storie di generazioni diverse, ragazzi, adulti, professionisti, artisti, aspiranti genitori. Un dialogo importante che mi ha aiutato a conoscere meglio un punto di osservazione della realtà che naturalmente conosco meno, e che mi incuriosisce non poco.
Rispetto alla sordità, infatti, continuano a sopravvivere gli stereotipi peggiori, basati sul pregiudizio. Innanzitutto si tratta di una disabilità non evidente come tante altre, e che dunque spesso comporta un impatto ruvido quando si tratta di stabilire un qualsiasi tipo di dialogo: allo sportello di un ufficio pubblico, in una coda, su un mezzo di trasporto, in un ambiente affollato e rumoroso, in un cinema o in un teatro, in un palazzetto dello sport o in uno stadio. I sordi hanno scelto storicamente la strada dell’identità, della comunità, del gruppo autosufficiente grazie all’abitudine, nel passato ma anche oggi, di ricorrere all’uso della lingua dei segni che però ha comportato la conseguenza, quasi inevitabile, di un isolamento rispetto alla generalità delle persone, che non conoscono tale lingua e non hanno, salvo eccezioni, alcun obbligo di apprenderla.
La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità spiega correttamente come sia doveroso utilizzare qualsiasi strumento per consentire la comunicazione libera delle persone sorde. E fra questi
strumenti c’è sicuramente anche la lingua dei segni, diversa peraltro da Paese a Paese. Lo sviluppo tecnologico ha favorito negli ultimi decenni la crescita di soluzioni basate sulle protesi acustiche, sugli impianti cocleari, ma anche la diffusione della sottotitolazione, delle applicazioni per smartphone, l’uso di internet. È paradossale come, in realtà, il mondo di chi sente benissimo sia invece totalmente sordo rispetto alla realtà dei non udenti. È come se ci passassero accanto senza sfiorarci. E invece dalle loro vite, dai desideri normali e spesso complicati dal deficit, dalle abilità sviluppate nel lavoro, dalle realtà di famiglie splendide, dalla capacità di autoironia e di ironia, si apprende una lezione di umanità concreta che arricchisce e ci riguarda, ci stimola, ci coinvolge, ci interroga.
È il paradosso della società della comunicazione. Solo il silenzio, a volte, ci permette di ascoltare davvero.
28 Gen 2014 L’Italia dei Mastrapasqua
Lo dico subito. Niente di personale. Antonio Mastrapasqua è sicuramente una persona di grande intelligenza, persino di indubbio carisma e buone capacità di comunicazione. Un manager eccellente con ottime capacità di incassatore, depositario di moltissime e proficue relazioni politiche trasversali. Un numero uno, insomma. Ma sempre Uno. Non venticinque, o trenta, o quanti ancora non si sa bene. Il punto è tutto lì.
Se Mastrapasqua è al suo posto di presidente dell’Inps dopo anni di circostanziate inchieste giornalistiche e televisive che hanno messo perfettamente in luce la miriade di incarichi di altissimo livello da lui ricoperti contemporaneamente, ciò si deve esclusivamente al fatto che al Potere uno come Mastrapasqua è funzionale, quasi insostituibile, pena un gioco al massacro di ricatti reciproci, con un effetto domino del quale non credo riusciamo neppure a immaginare le dimensioni e le conseguenze. Il motivo per il quale non mi sono sino ad ora espresso, sul caso giudiziario, ma anche politico, è semplice. Lo ha detto bene VITA: avevamo già scritto tutto, più e più volte. Senza che accadesse nulla, neppure, a dire il vero, una protesta, una richiesta di rettifica. Nulla. Perché era
tutto vero e palese, oserei dire trasparente, nella sua assurdità. E poi, sinceramente, trovo un po’ vigliacca, adesso, la corsa ad attaccarlo, nel primo momento di oggettiva debolezza, dopo la presa di posizione (tuttora rimasta sul terreno delle parole) del presidente del consiglio, Enrico Letta (che rimanda comunque al ministro Giovannini, il quale, a sua volta, al momento tace). Si attacca Mastrapasqua secondo il cliché consueto della stampa italiana, che si diverte a muoversi solo quando parte per prima la magistratura. Ecco, al riparo di un avviso di garanzia, il re diventa improvvisamente nudo. Prima no. Come se l’impressionante sequela di conflitti di interessi che si dipana da una carica all’altra del Nostro non esistesse, palese e sfrontata, anche prima di questo patetico scivolone sulla buccia di banana dell’ospedale romano, di cui Mastrapasqua è nientemeno che Direttore Generale, incarico che credo in quasi tutti gli ospedali italiani sia svolto da un manager a tempo pienissimo.
Non volevo poi scriverne di nuovo anche perché temo che non succederà nulla. O quasi nulla. L’intera governance di Inps, e anche degli altri enti nei quali il Nostro è presente a livello altissimo, è infatti assolutamente d’accordo col Capo, e dunque difficilmente si può trovare un nome per sostituirlo, senza che il poveretto rischi di rompersi le ossa in poco tempo. Il risultato di questa tristissima vicenda italiana è dunque soprattutto la paralisi, questa sì probabile, rispetto ai temi che ci stanno a cuore. In che modo ad esempio l’Inps intende affrontare la gestione dell’Isee. In che modo continueranno i controlli e le revisioni delle pensioni di invalidità. Come si disboscherà il malaffare che ha provocato il bubbone delle false certificazioni di invalidità (altro che “falsi invalidi”). Come si riformerà l’intero iter della certificazione di invalidità, tenendo conto della Convenzione Onu. Ecco, dubito fortemente che il signor Mastrapasqua avrà tempo e testa per questi problemi da niente. Lui però ha le idee chiare: “Non mi dimetto”. Ha ragione. Questa è l’Italia dei Mastrapasqua.
23 Gen 2014 Povertà, le parole e i pensieri
Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche Sociali a Milano, mi ha scritto giorni fa, un sms: “Ho bisogno che mi coordini una tavola rotonda sulla povertà il 24 gennaio. Non puoi dirmi di no”. Infatti gli ho detto di sì. E domani per tre ore, al teatro Elfo Puccini, guiderò, per quanto possibile, una conversazione a più voci, che prevede gli interventi di autorevoli docenti universitari, di operatori del sociale, del credito, di soggetti attivi nel volontariato e nella cooperazione, di amministratori di comuni grandi e piccoli. Tutti molto più esperti di me, che sono soltanto un giornalista, per di più concentrato, ormai da tempo, sul tema dei diritti delle persone con disabilità. Majorino mi ha spiazzato, mi ha messo in difficoltà. Ma mi ha costretto a pensare. Ho paura di affrontare un argomento come questo.
Prima di tutto per rispetto nei confronti delle persone povere. Che sono tante, e che magari saranno in sala, dignitose o scettiche, pronte a cogliere le sfumature, le tendenze alla retorica, al fumo, al messaggio politico. Che cosa si possono aspettare, di concreto, da un convegno nella giornata di apertura del Terzo forum delle politiche sociali? Sicuramente
qualche buona notizia, qualche segnale onesto, da chi di dovere, da chi comunque ha la responsabilità di gestire le scelte amministrative, politiche, economiche, di sostegno. E poi forse un po’ di umanità, di semplice umanità.
La povertà fa paura solo a nominarla. Si insinua nelle nostre vite da tempo, e assume di volta in volta l’aspetto più o meno truce della disoccupazione imprevista, della malattia, dello sfratto, delle bollette non pagate, del mutuo che non si riesce ad onorare, oppure quello più sottile, della rinuncia a un acquisto importante, a un regalo, a una vacanza, a un abito nuovo, a un gadget che non ci si può permettere. Il confine è sempre più liquido, la transizione dall’insicurezza alla povertà è evidente, e ci costringe, quotidianamente, a voltare la testa dall’altra parte, oppure a rimboccarci le maniche, interrogandoci sulla nostra singola responsabilità individuale.
La povertà è figlia di un modello di ricchezza che ci ha logorato, condizionato, stressato, e condotto a vite perennemente votate all’affannosa ricerca del denaro, del benessere materiale per vivere, in modo individuale, o di singola famiglia, il sogno di una società ricca e sovrabbondante di consumi, quanto povera di relazioni umane, di vicinanza, di solidarietà attiva. Milano è città simbolo della ricchezza e della povertà. Assume su di sé i volti della contraddizione e del contrasto indecente, il lusso da una parte, i senza dimora lì accanto. Le code alla mensa dei poveri, la ricerca di un sussidio, di un lavoro, la guerra tra poveri, nel vero senso della parola, con gli ultimi che hanno paura di quelli ancora più ultimi, che magari vengono da un Paese lontano e speravano di trovare qui la soluzione dei loro problemi di miseria, e invece incontrano una miseria diversa, e si adattano alle nostre strade, ai nostri anfratti, alle rovine urbane, in centro e in periferia, diventando invisibili e grigi come le pietre consumate dall’umidità e dall’inquinamento.
La povertà assume i volti di persone giovani, si insinua assieme alla disabilità, all’invecchiamento, alla perdita di senso e di dignità. La povertà
costringe a una umiltà che non conosciamo più da tempo. Il campanello del vicino che non vogliamo suonare per vergogna, quando una volta era normale dividere quel che si aveva, perché tanto la fortuna, si sa, gira veloce e spesso cambia direzione. Oggi la persona povera si sente in colpa, e comunque viene vissuta come colpevole della propria situazione. Il che contrasta con qualsiasi dato scientifico e sociologico, ma è sufficiente per entrare come pregiudizio nelle teste di chi, ostinatamente, crede di meritarsi un po’ di ricchezza in più, un benessere fragile ma colorato e divertente.
La povertà è perdita di speranza, di senso, di libertà di scelta. La povertà è la sconfitta di un Paese che ha saputo pure costruire un sistema di welfare vero, importante, pieno di buone leggi, ma con troppa burocrazia e compartimenti stagni. La povertà però si può vincere solo se ci crediamo tutti, e tutti insieme facciamo la nostra parte, senza presunzione, senza arroganza. Imparando da chi può indicarci la strada, prendendo le decisioni giuste, investendo adesso i soldi che servono, ma soprattutto creando una nuova comunità di cittadini. Milano può ancora indicare la strada, come tante volte in passato. Se non vinciamo la sfida della povertà, quale senso potrebbero avere gli altri traguardi, le altre frontiere? Quale significato potrebbe avere una metropoli delle eccellenze? O il successo di Expo? Ecco domani credo che starò ad ascoltare. Non ho la verità a portata di mano. Ma cercherò di capire.
14 Gen 2014 Stamina, la lezione giornalistica di Riccardo Iacona
Ci voleva dunque Riccardo Iacona con la sua brillante e appassionata ricostruzione del caso Stamina, ieri sera a Presadiretta su Raitre, per scuotere probabilmente in modo definitivo le coscienze e l’opinione pubblica, almeno quella non schierata a priori, ma ancora in grado di distinguere tra informazione corretta e ciarlataneria superficiale? Evidentemente sì, a giudicare dai commenti che oggi si rincorrono sul web e sulle testate online. Per me è stata solo la conferma, ancor più documentata e ampia, di ciò che già sapevamo e che in larga misura avevo scritto, con i miei piccoli argomenti a disposizione.
Certo, rimane attivo, combattivo e spesso sprezzante, il nucleo degli irriducibili sostenitori di Davide Vannoni, e si tratta non solo delle famiglie ancora convinte della validità delle sue misteriose infusioni, ma forse soprattutto di un grumo consistente di fruitori di internet, che si nutrono di notizie non verificate, di fonti spesso manipolate e comunque inattendibili o più volte smentite. Tifosi accaniti al di là di ogni possibile fecondo dubbio, e dunque non in condizione di cogliere l’ampiezza e la qualità dei contributi che sono stati proposti durante il programma.
Immagini, interviste, approfondimenti, con una scaletta che non ha escluso nessuno, a partire proprio dalle famiglie (si comincia con l’intervista ai fratelli Biviano), senza dimenticare le immagini cariche di pathos delle manifestazioni romane. Eppure oggi leggo che non è stata data voce ai sostenitori di Stamina. È quasi incredibile questa rimozione di quanto in effetti è stato trasmesso. È vero però che Iacona e la sua redazione hanno lavorato, pur senza preconcetti, seguendo un ordine logico, determinato dalla ricerca della “verità”, ossia tentando di rispondere alla domanda fondamentale: questo cosiddetto metodo è utile? Può fare bene? Oppure al contrario non solo non produce risultati in termini di cura, ma può risultare persino dannoso? È questo il punto, e lo dovrebbe essere per chiunque. Scettici compresi.
Iacona ha dimostrato che si può ancora fare televisione pubblica di inchiesta, senza piaggeria, senza retorica, rispettando i minori (le immagini dei bambini sono state solo quelle autorizzate dai genitori e comunque positive, in momenti di speranza e di fisioterapia o di gioco, mai di dolore o disperazione). È sorprendente però come un onesto e serio lavoro di documentazione giornalistica risulti oggi una sorpresa, quasi una prestazione eccezionale, tanto che, in effetti, ne sto scrivendo. Dovrebbe essere pane quotidiano, specie nel servizio pubblico radiotelevisivo, ma non solo.
La televisione, per sua natura, è difficile da trattare. Perché ha problemi di tempi, di ritmo, di qualità del documento visivo, che va prima raccolto, registrato, messo da parte, e poi, nella fase di post-produzione, trasformato in conduzione argomentata secondo una scansione capace di rimanere comprensibile a tutti (il pubblico non è necessariamente composto di laureati in biologia). Non era facile, poi, mantenere l’equilibrio fra temi molto differenti: la cronaca di questi mesi, le inchieste giudiziarie, le decisioni politiche, il parere degli esperti, le voci e le passioni dei protagonisti. È una puntata da rivedere e conservare, magari anche ad uso delle scuole di giornalismo. È la morte del “copia e incolla”, perché
richiede tempo, sacrificio, ore di lavoro che magari si buttano via perché nel frattempo, mentre stai producendo la puntata, le notizie più recenti superano di slancio quanto hai messo da parte.
Non tocca certo a me validare scientificamente quanto è stato detto, in modo quasi definitivo, a proposito di questa tremenda storia italiana. Io sono solo un giornalista, e una persona che convive con una malattia genetica rara da 61 anni. A me basta sapere, oggi, che un bravo collega non si è tirato indietro, ci ha messo la testa e la faccia. Ora mi sento più sereno. E spero che con il tempo anche le famiglie più fragili comprendano in quale guaio sono state cacciate. Ma per questo non basta neppure Presadiretta.
9 Gen 2014 A Padova, niente
su di noi senza di noi
Torno a casa, nella città in cui ho vissuto 25 anni, dal 1970 al 1995. Torno a palazzo Moroni, la sede del Municipio, dove sono stato consigliere comunale per cinque anni, dal 1975 al 1980 (avevo 22 anni, al mio esordio sui banchi). Torno là dove ho costruito relazioni, affetti, amicizie, lavoro, battaglie. Là dove vive ancora solo mio fratello, dopo che i miei genitori ci hanno lasciato. Torno per inaugurare una mostra fotografica della Fish, domani, venerdì, alle 17.15, dal titolo eccellente: “Nulla su di noi senza di noi! Le persone con disabilità e le loro famiglie: una partecipazione da protagonisti. Appunti per immagini”. Un momento particolare, dunque, anche per me, carico di suggestioni, di ricordi, di significati. Ci sarà il saluto del sindaco Ivo Rossi, eravamo giovani insieme, un bel po’ di anni fa. Sui banchi del consiglio, il primo caso di larghe intese, c’era fra gli altri il giovane Flavio Zanonato, ora ministro di questo governo. Fu proprio la scelta mia e di un altro consigliere socialdemocratico, di passare dal Psdi al Psi, a segnare la svolta che consentì un inedito, per Padova e per l’Italia di allora. Tempi durissimi, vivemmo i fuochi di Autonomia Operaia, il sequestro Moro, gli attentati terroristici. Non mi tiravo
certo indietro, con la mia carrozzina. Ricordo l’incontro emozionante con Sandro Pertini, allora Presidente della Camera, quando parlò in piazza delle Erbe, e venne a salutarci, uno per uno, in Consiglio Comunale. La sua stretta di mano non potrò mai dimenticarla. Giusto fra i giusti, simbolo del nostro desiderio di libertà e di democrazia partecipata. Ci ripenso adesso, a quella città confusa e a tratti sconvolta. Assieme alle associazioni delle persone “handicappate” (allora così si diceva) facemmo le prime battaglie per l’accessibilità, per i servizi, per la cittadinanza di tutti. Ricordo i primi due pulmini accessibili dell’Acap, l’azienda di trasporto pubblico, nulla di paragonabile a quello che oggi si può fare, eppure un segno di cambiamento, di apertura. Le battaglie assieme a Federico Milcovich, il mitico fondatore della Uildm, al quale adesso è intitolato un parco pubblico. Le vittorie del basket in carrozzina, con l’Aspea di Ruggero Vilnai, dove pure io mi cimentai da incosciente, con le mie ossa fragili. Colpa di Nadia, che divenne mia moglie, e che mi ha lasciato ormai dieci anni fa.
Tutto questo e molto altro, per me, è Padova. Un fiume di emozioni che cerco sempre di sopire e di sedimentare, perché guardare al passato serve solo per pensare meglio al futuro. Ma domani ci sarà anche questo, quando scorrerò le fotografie bellissime che testimoniano il cammino che abbiamo compiuto tutti insieme, a Padova, e in tante città italiane, in Lombardia, a Roma, in Calabria, a Torino, ovunque, ormai da vent’anni sotto le bandiere della Fish, una federazione con l’acronimo di un pesce, un pesce che riesce a nuotare in un mare grande, perché solo nel mare di tutti possiamo coronare i nostri sogni. Vi aspetto. A domani.
L’intero archivio degli articoli di Franco Bomprezzi per VITA è disponibile a questo link