Lasciato il camice bianco ha preferito il volontariato alla libera professione
25 NOVEMBRE
Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Gioie e dolori
Il meglio del web di ViPiù di ottobre
Il silenzio e la voce: le donne che attendono spazio nella Chiesa di Padre Gino Alberto Faccioli
Come funziona il Centro Antiviolenza di Vicenza, spiegato dall’interno di Elonora Boin 13
La violenza di genere vista dall’altro lato. Chi aiuta gli uomini maltrattanti? di Elonora Boin 16
«Hai intenzione di fare figli?»: lavoro, diritti e pregiudizi nel Paese che non cambia di Serena Balbo 18
Michela Pretto, store manager di un negozio modaiolo di Cornedo: inseguendo le passioni i sogni diventano realtà di Marta Cardini
Leticia, l’intervista esclusiva a una donna italo-brasiliana che lavora a Vicenza da escort di Edoardo Pepe
Tre anni di Governo Meloni: risultati, promesse, consensi di Salvatore Borghese
La seconda vita di Luca Zaia retrocesso a consigliere e l’arrampicata di sesto grado per Giovanni Manildo di Renzo Mazzaro
“Tra urne, schede e ricordi: perché non ho mai smesso di votare” di Giulia Matteazzi
Luigi Creazzo
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Dalle colline veronesi alle Langhe di Michele Lucivero 6
Daniele Bernardini, un vicentino (Pomo) d’oro, che fa scuola (del Lunedì) di Federica Zanini
Fattoria Il PomoDoro: a Bolzano Vicentino sostenibilità ambientale e inclusione sociale. di Federica Zanini
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Giorgio Langella: “Una storia disonesta”, ma di dignità e coraggio. Il Teatro di Vicenza costruito anche con la lotta di Giovanni Coviello
Crac BPVI: Miatello “punta” i Liquidatori sui presunti conti dormienti della banca a loro ignoti. di Andrea Polizzo
Gps dichiara rischio di default: “la colpa è di… Vicenza” di Giovanni Coviello
Difesa europea e Ucraina: l’Europa tra autonomia strategica e divisioni, mentre la Germania investe nella spesa militare di Eleonora Boin
Come i dazi stanno plasmando le nuove relazioni Ue-Usa: tra pasta, auto e spese per la difesa di Eleonora Boin
l’altra
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FITA Vicenza: il teatro vicentino “ama”… di Mauro Brusarosco
Teatro Roi a Cavazzale: da dopolavoro degli operai a centro culturale all’avanguardia di Federica Zanini
Marco Martalar: quel che natura distrugge, l’artista ricrea di Federica Zanini 64 Medioevo Vicentino di Marco Ferrero 68
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Biancorossi, ma vestiti d'azzurro di Claudio Raimondi
Roma onora Simonetta Avalle con l’intitolazione di un palasport. di Giovanni Coviello
Basket in carrozzina, Vicenza debutta in Serie A di Giovanni Coviello
La vendetta del pesce ripescato (dal frigo) di Federica Zanini
L’EDITORIALE
Elezioni regionali in arrivo e politici (in senso neutro) veneti in competizione; grandi uomini vicentini (anche questi in senso neutro) protagonisti che non vogliono apparire ma che ci ricordano che siamo persone; qui e nel mondo donne offese, che lavorano, di successo e semplici elettrici; teatri nei borghi e teatranti per passione, ma non per questo meno professionali; storie di lavoro sfruttato del passato che hanno echi nel presente; casi e drammi economici; guerre con morti e guerre di dazi con altre ferite; ricordi ed esempi biancorossi non solo nel calcio; turismo e storia indigena…
Non ci bastano
64 pagine, ma neanche 80…
Di quante cose vorremmo scrivere quando iniziamo a farlo o, meglio, a farlo fare ai nostri autori, molti più che noti, altri e altre che lo diventeranno o a cui non importa esserlo ma a cui piace “parlarvi”!
Pensiamo sempre alle 64 pagine tipo che dovremmo offrirvi a 4 euro, ma poi le idee, gli argomenti, la penna, i tasti ci prendono la mano e, quando Antonio, il nostro capo tipografo (in effetti la nostra vittima mensile) della Cooperativa Tipografica degli Operai di via Corbetta, ci chiama per dirci che il tempo limite per andare in stampa è finito, ci accorgiamo che di pagine ne abbiamo riempite molte di più, questa volta ben 80. E sempre a 4 euro.
Grazie a chi con la pubblicità, non teleguidata da certi “interessi” ma scelta con attenzione ai suoi destinatari, e a chi ci legge, verrebbe da dire sempre di più, prelevando la copia in edicola, nei 40 taxi di Vicenza, presso teatri e punti di contatto con la “gente”, a casa grazie agli abbonamenti e online per comodità.
Allora, visto che Antonio mi ha già chiamato oggi, 3 novembre, più volte e che sabato 8, giorno di uscita programmato, è… domani, mi fermo qui, per gli articoli di questo numero vi rinvio all’indice qui a
VicenzaPiù Viva Fondato il 25 febbraio 2006 come supplemento di La Cronaca di Vicenza
Autorizzazione Tribunale di Vicenza n. 1183 del 29 agosto 2008
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fianco mentre vi regaliamo una vignetta del nostro Claudio Mellana.
Tanto sarete voi a dirci se ne sarà valsa la pena leggerli durante il mese di “lievitazione” del nostro mensile (anzi dei nostri due mensili perché c’è sempre all’interno anche L’altra Vicenza, che, prima o poi, si svezzerà e uscirà a parte).
Come?
Semplice: se vi ritroveremo qui, magari con vostri e nostri altri amici, per il prossimo mese per leggere, con calma, un altro pezzo di questa Vicenza e di questo Veneto che cambiano, che restano vivi e possono, e devono, tornare protagonisti guardando dentro e, di più, fuori le mura.
L’abbiamo già scritto? Pazienza, lo rifacciamo perché questo è l’obiettivo che ci siamo e ci avete dato. Questo Veneto che cambiano e che restano vivi e possono, e devono, tornare protagonisti.
Giovanni Coviello
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Pfas e Pedemontana: 12 indagati per inquinamento. CoVePA e Comuni chiedono chiarezza e tutele. Sis e Spv si difendono
Ottobre, per il Vicentino, è stato segnato soprattutto dalla chiusura delle indagini, da parte della Procura di Vicenza, nei confronti di 12 tra dirigenti e tecnici di Spv e Sis in riferimento ai reati di inquinamento ambientale e omessa bonifica commessi nel corso della realizzazione della Superstrada Pedemontana Veneta. Nel mirino degli inquirenti due tratti chiave del percorso: le gallerie di Malo, nei comuni di Castelgomberto e Malo, e di Sant’Urbano, a Montecchio Maggiore. Secondo l’accusa, avrebbero impiegato “Mapequick AF1000”, contenente acido perfluorobutanoico (Pfba), in concentrazioni superiori ai limiti di legge.
L'uso eccessivo di questa sostanza, appartenente alla famiglia dei Pfas, avrebbe provocato una contaminazione significativa delle acque superficiali e sotterranee nelle aree interessate dai lavori.
Impianto rifiuti Silva a Montecchio Precalcino: pressioni sulla Provincia di Vicenza per la Via
Dura opposizione, sociale e politica, al progetto di un impianto per rifiuti speciali e sanitari pericolosi a Montecchio Precalcino, proposto da Silva Srl (Gruppo EcoEridania). La battaglia viene portata avanti da tempo dal Comitato Tuteliamo la Salute, supportata da diversi esponenti della politica locale.
Persino i vescovi di Vicenza e Padova hanno espresso parole sulla necessaria
Secondo gli inquirenti, gli indagati erano consapevoli dell'inquinamento ma non hanno preso provvedimenti.
La Procura ha riferito l'intenzione di proseguire le indagini, mentre le due società si sono difese: "Le schede tecniche dimostrano che i materiali utilizzati non hanno Pfas e la procura lo sa, per questo siamo stupiti ci sia un’indagine", hanno fatto sapere i loro legali.
L'indagine ha suscitato forti reazioni da parte della politica vicentina. I sindaci dei comuni interessati hanno chiesto alle istituzioni preposte chiarezza e tutela per le popolazioni. Tra i primi a lanciare l'allarme sui contaminanti provenienti dai lavori della SPV, il Coordinamento Veneto PFAS (CoVePA).
salvaguardia dell'ambiente. A ottobre si sono registrate importanti novità sul piano istituzionale. La palla è in mano alla Provincia di Vicenza, che dovrà esprimersi con una Valutazione di Impatto Ambientale (Via), come ha anche confermato ufficialmente la Regione Veneto, la quale ha precisato che il Comitato tecnico VIA provinciale dovrà tenere conto della presenza a valle di un territorio ricco di acque, con captazioni idropotabili a servizio del pubblico acquedotto, sia dei prelievi privati di acque destinate al consumo umano. La battaglia prosegue.
A cura di Andrea Polizzo
Nuova RSA di Ipab Vicenza al Laghetto: avevamo sorvegliato, ora una nuova svolta
A inizio ottobre l'Ipab di Vicenza ha perfezionato la vendita per 1.826.000 euro di Palazzo Serbelloni ad una società con sede a Schio. La conclusione dell’operazione è importante perché apre alla progettazione della nuova Rsa al Laghetto. Infatti, il ricavato dalla vendita dell'e -
Ottobre Rosso: a Santorso tra pace e lavoro con Rifondazione anche ViPiù
C'era anche un po' di ViPiù e VicenzaPiù Viva a “Ottobre Rosso”, la festa provinciale di Rifondazione Comunista – Federazione di Vicenza presso la Casa del Popolo – Circolo ARCI di Santorso. Il direttore Coviello è stato infatti chiamato a moderare alcuni incontri, soprattutto “Lavoro, sangue e sudore: dal caporalato allo sfruttamento globale”, con al tavolo Paolo Benvegnù, Giancarlo Puggioni, Monica Coin, Monica Michielin e Gabriele Zanella.
Inoltre, lo storico e iscritto ANPI Emilio Franzina ha presentato “America sorella? Italiani e italo discendenti in Brasile e nelle altre Americhe” (Editoriale Elas), il saggio che racconta le vicende degli italiani e degli italo-discendenti tra Stati Uniti, Brasile e le altre Americhe, con l’intento di smontare miti e svelare “amicizie vere e presunte”. Il volume è disponibile nelle librerie, sullo shop di ViPiù.it, VicenzaPiù.com e su Amazon. Da ricordare nel corso della manifestazione il collegamento in diretta con gli italiani imbarcati sulla The Conscience, parte della Freedom Flotilla.
dificio finanzierà in parte il progetto da 15 milioni di euro per una residenza destinata a persone non autosufficienti su un terreno Ipab, come da accordo di programma tra l’ente, Comune di Vicenza e Regione Veneto.
Nei mesi scorsi, da queste pagine (oltre che sul web) – lo ricordiamo –ci eravamo occupati della questione della Rsa al Laghetto, in particolare evidenziando ritardi nel progetto, ma anche un “sentore” di interessi privati, alcuni con stellette politiche nella maggioranza, che stavano provando a influenzarne l’andamento premendo per un possibile cambio di localizzazione.
Era stato il direttore di questa testata, Giovanni Coviello, a riferire di “pressioni” da parte di alcuni residenti, evidentemente contrariati dalla
Acciaierie Valbruna: la crisi di Bolzano preoccupa anche Vicenza
Crisi per Acciaierie Valbruna Spa, azienda siderurgica vicentina e tra i principali produttori italiani di acciai speciali a seguito della decisione della Provincia autonoma di Bolzano di mettere a bando l’area sulla quale sorge lo stabilimento di Bolzano dopo lo scadere della concessione.
I sindacati sono sul piede di guerra perché sono a rischio i posti di lavoro bolzanini, ma per effetto domino, anche quelli della sede di Vicenza: complessivamente 1800 lavoratori, oltre a un vasto indotto.
La Provincia ha difeso questa scelta come unica via percorribile per rispettare le normative europee, ma è accusata di non aver voluto sospendere il bando e aprire una trattativa. Tuttavia, a margine della manifestazione dei sindacati del 7 ottobre ha firmato un parere positivo al piano di investimenti per 143 milioni di euro presentato da Valbruna a Invitalia per i due siti di Vicenza e Bolzano. A fine ottobre, il Ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso ha confermato che il Governo valuta l’eventuale esercizio della Golden Power sull’area dello stabilimento di Bolzano.
struttura e dal conseguente traffico di parenti, operatori, fornitori. Ma – è stato detto a chiare lettere – l’ipotetico “disturbo” di un quartiere non vale più della salute e della dignità di chi non può permettersi strutture private. Se da un lato avevamo registrato il silenzio dell’attuale amministrazione, dall'altro il presidente Ipab, l'ex sindaco Achille Variati, aveva rassicurato: “Nessuno spostamento altrove della RSA”.
La vendita di Palazzo Serbelloni e le sue conseguenze sul progetto sono state accolte positivamente da Giovanni Rolando, che dell'Ipab è stato a lungo presidente. “Ora è il momento di passare dalle parole ai fatti. Speriamo venga presentato quanto prima il progetto ed emesso il bando, così da dare finalmente inizio ai lavori di costruzione”, ha detto.
Fusione Ava Soraris: primi passi verso il Gestore unico del servizio rifiuti
Primi passi verso il gestore unico del servizio rifiuti per l'ambito territoriale Vicentino attraverso la fusione per incorporazione tra Alto Vicentino Ambiente (Ava) e Soraris, allo scopo di dare vita a una newco identificata al momento con il nome di Viambiente Spa. Se le amministrazioni comunali di Schio e Torrebelvicino hanno espresso nei rispettivi consigli comunali contrarietà alla fusione, l’assemblea dei 23 Comuni soci di Agno Chiampo Ambiente ha invece approvato all’unanimità l’avvio delle linee guida relative all’operazione di fusione.
In merito il Comune di Vicenza, per il tramite di Alessandro Marchetti, consigliere comunale e componente della Commissione “Affari istituzionali, finanze e partecipate”, ha confermato alla redazione di ViPiù di essere “decisamente interessato a seguire questo percorso”. Per questo motivo si punta a “staccare Valore Ambiente da Agsm-Aim per entrare nel gestore unico”. Marchetti ha anche ricordato l'orizzonte temporale: “Abbiamo tempo fino a marzo 2027 per trovare un accordo e concretizzare la configurazione del servizio a livello unitario”.
Il silenzio e la voce: le donne che attendono spazio nella Chiesa
Dalle discepole del Vangelo alle teologhe di oggi, le donne continuano a portare vita, cura e fede nella Chiesa, spesso senza il giusto riconoscimento. C’è l’urgenza di superare antiche resistenze e restituire il posto che a loro spetta nella missione evangelica.
Con la Mulieris dignitatem (1988), prima e successivamente con la Lettera alle donne (1995) di san Giovanni Paolo II la Chiesa ha iniziato una riflessione sulla "questione femminile" riconoscendo la dignità della donna e criticando le forme di discrimi-
nazione e violenza, pur nella cornice della dottrina cattolica. Infatti, in queste lettere, nelle quali ringrazia le donne per il loro contributo e ha chiesto parità di trattamento in ambito sociale, politico ed economico, san Giovanni Paolo II, è rimasto fermo su temi come l'aborto e il ruolo della famiglia, ha promosso il concetto di "genio
femminile" e denunciato la mercificazione del corpo femminile. Inoltre, con la Lettera alle donne, fa una sorta di mea culpa a nome della Chiesa, riconoscendo come la stessa abbia avuto un ruolo di responsabilità nella relegazione a un ruolo subalterno del genio femminile. Subalternità figlia della crescente istituzionalizzazione della Chiesa, perché nella chiesa delle origini le donne hanno avuto un ruolo attivo e significativo, spesso in contrasto con le norme sociali dell'epoca, partecipando all'insegnamento, alla predicazione e alla guida delle comunità, come dimostrano figure come Lidia, Priscilla e Febe. Questo ruolo attivo inizia con Gesù il quale, a differenza degli altri maestri del tempo, accoglie le donne come sue discepole, spiega anche a loro la Parola e affida proprio ad una di loro, Maria di Magdala (Maria Maddalena), l’importante messaggio della sua Risurrezione, con la conseguente sconfitta della morte. Questo ruolo attivo, fatto anche di predicazione e insegnamento, esprimeva una leadership in continuità con l’insegnamento di Gesù, perché si manifestava soprattutto nel servizio. Tutto questo in rottura con il contesto patriarcale dell’Impero romano, dove le donne erano considerate figure minori. Tuttavia, come anticipato, la crescente istituzionalizzazione della Chiesa, ha fatto sì che il ruolo della donna nella Chiesa fosse gradualmente limitato, escludendola da posizioni e ministeri importanti.
San Giovanni Paolo II riconosce questo
“errore” commesso e inizia con non poche difficoltà una sorta di ritorno alle origini, ma sarà soprattutto papa Francesco ad operare scelte concrete, affidando alle donne ruoli importanti di responsabilità, uscendo quindi dal campo della “teoria per entrare in quello della prassi”.
Per Papa Francesco, la Chiesa è donna, è sposa, è madre. E attraverso la donna essa deve imparare a parlare di sé, di ciò che fonda la naturale com-presenza delle donne nella Chiesa accanto agli uomini e, in particolare, ai sacerdoti ordinati, la conseguente necessità che siano loro riconosciuti degli spazi, affinché possano portare un contributo consapevole, specifico e differente all’edificazione del corpo ecclesiale. Due sono le caratteristiche della Chiesa che ci aiutano a comprendere in una prospettiva di senso il ruolo della donna come fedele laica, investita del sacerdozio comune: – la natura della Chiesa come Popolo di Dio, che in virtù del battesimo, comprende tutti i fedeli laici, uomini e donne (cf. LG 10 e 13);
– la natura della Chiesa come mistero di comunione (cf. LG 1), all’interno del quale ha senso ogni presenza, ruolo e azione da parte delle donne e degli uomini nella Chiesa. In altre parole, la realtà del genere umano come uomo e donna, perché così Dio li creò nella storia, fonda la necessaria com-presenza di entrambi nella vita della Chiesa, così come del mondo, nella complementarità, reciprocità, collaborazione e corresponsabilità.
Il problema della presenza delle donne nella Chiesa, dunque, in virtù del suo fondamento, non è riducibile ad una redistribuzione di ruoli, ma va esteso ad una doverosa comprensione di come fare spazio all’originalità femminile per poter arricchire in maniera più significativa e decisiva la Chiesa. È la dimensione sponsale a rendere l’uomo e la donna costitutivamente capaci di relazione, sinergia, collaborazione e comunio-
ne. La “dimensione sponsale” è quella capacità ontologica di amore e dono di sé, che caratterizza ogni persona umana, chiamata da Dio a realizzarsi in pienezza in una vocazione. Ma la donna, ben più dell’uomo, in virtù della sua intrinseca capacità generativa e materna di “dare alla luce” e di farsi carico di questo dare alla luce, è in grado di far presente al mondo quella necessaria relazione di collaborazione e corresponsabilità tra uomo e donna, che deve potersi manifestare anche nella Chiesa.
Comprendere questo privilegio e dono della donna oggi non è scontato. Nella cultura post-moderna, pervasa di incertezze identitarie e rivendicazioni di diritti, la voce delle donne va ascoltata non perché devono avere più potere - in una logica di empowerment e di rivendicazioni ridondanti - ma perché alla donna Dio ha affidato l’uomo (cf. MD, 30). È questo un mandato che è un dono, ed è necessario e urgente realizzarlo non in maniera autoreferenziale, ma in una sinergia costante con l’uomo per rendere la Chiesa più docile ai Doni dello Spirito.
La presenza delle donne nella Chiesa deve, in particolar modo, contribuire a rimettere al centro della questione sociale ed ecclesiale la maternità, non solo perché essa è il cuore del messaggio evangelico, ma anche perché concretamente essa costituisce l’essenza del femminile e deve potersi esprimere ed essere vissuta dalle donne che partecipano attivamente al lavoro nella Chiesa.
La maternità, infatti, è capacità di portare amore e protezione nei confronti della fragilità umana, è misericordia (trovo significativo che nella lingua ebraica lo stesso termine – rahamin – indichi la misericordia e il grembo materno), ospitalità e, soprattutto, capacità generativa morale e spirituale.
Per questo è un modo di essere della donna in sé, non necessariamente legata alla maternità biologica. Il femminile, infatti, ha la capacità di rimuovere quell’efficientismo maschile, tuttora presente nella Chiesa e nella società, che stanca l’essere umano, e che invece ha bisogno di sentirsi rigenerato nella sua identità filiale. In tal senso, un aspetto altrettanto importante è il ruolo che possono avere le donne nel riportare al centro della Chiesa la consapevolezza che siamo Figli di Dio. In fondo ogni madre, con il suo esserci, ricorda al proprio figlio che alla radice del suo esistere c’è un padre. Così la donna, con il suo essere nella Chiesa, può mostrare all’uomo contemporaneo, chiuso nel suo razionalismo e individualismo autoreferenziale, che all’origine della sua vita c’è il grande amore del Padre per ciascuno di noi. C’è un desiderio di Dio. Questa consapevolezza può restituire al mondo la fede, ossia la capacità di ogni uomo di fidarsi di Dio, e con la fede anche dei punti di riferimento per la nostra vita morale. E in questo le donne hanno una missione specifica, rendendosi così sorgenti di forza per la società.
Come funziona il Centro Antiviolenza di Vicenza, spiegato dall’interno
Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne
ManifestazionediNonunadimenoaRoma, in occasione del 25 novembre
di Elonora Boin
In occasione di questo numero dedicato in buona parte all’Universo donna, dato che il 25 novembre ricorre la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, abbiamo voluto portare la testimonianza di chi la violenza di genere la vive e la combatte ogni giorno, con un’intervista ad un’operatrice del centro antiviolenza di Vicenza (CeAV), che, per
VIVA
tutelare il centro e la privacy delle donne che segue, preferisce rimanere anonima.
Qual è il lavoro concreto del CeAV, come funziona un percorso dal momento in cui una donna si rivolge al centro?
Innanzitutto, noi preferiamo che sia la donna a contattare il servizio personalmente, anche se a volte arriviamo a conoscenza della situazione tramite forze dell’ordine o
familiari, perché crediamo che una donna possa fare un percorso utile solo se è lei in primis a voler prendere in mano la situazione. Nel caso di donne mandate da noi dal tribunale o da amici, e quindi con poca convinzione, abbiamo notato che il percorso è meno efficace. Per quanto riguarda invece il percorso vero e proprio, abbiamo diversi sportelli sul territorio: il centro principale si trova a Vicenza nel quartiere Ferrovieri in via Vaccari 113, ma abbia-
mo attivato due sportelli territoriali a est e ovest, uno a Pojana Maggiore e uno ad Arzignano, aperti meno giorni alla settimana ma fondamentali per garantire la possibilità di accedere al servizio a tutte le donne del territorio. Recentemente poi, abbiamo aperto uno sportello anche all’Università, per raggiungere più donne possibile in tutte le fasce d’età. Quando una donna viene da noi, procediamo innanzitutto con una valutazione del rischio, attraverso domande specifiche sul contesto, la presenza di armi, minacce, dipendenze, ecc. I colloqui in presenza avvengono in due, con due figure professionali diverse. In particolare, nel nostro centro sono presenti anche psicologhe, educatrici pedagogiste e assistenti sociali, ma con noi collaborano anche psicoterapeuti e avvocati esterni. Per me è importantissimo sottolineare che nel nostro lavoro di operatrici noi siamo soprattutto strumenti. Quello che deve passare alle persone è che l’importanza del nostro lavoro è il sostegno che forniamo: noi possiamo dare alle donne le informazioni che servono e dare quella mano che magari manca, quella spinta in più per uscire dalla situazione di violenza.
Quali strumenti e approcci usate durante i colloqui?
Alla base di tutti i nostri interventi ci deve essere la fiducia; quindi, il primo obiettivo è proprio creare un rapporto di fiducia e ascolto empatico con le donne con cui ve-
niamo a contatto. Usiamo strumenti come il questionario SARA per valutare il rischio di recidiva, comprese le situazioni più gravi come femminicidio. L’ascolto attivo e le domande precise ci permettono di capire frequenza, gravità e caratteristiche della violenza. Ogni percorso è personalizzato: alcune donne necessitano di misure di protezione immediate come case rifugio, altre di progetti più lunghi per emancipazione, lavoro, lingua o inserimento sociale. Nel nostro lavoro ci troviamo davanti ad ogni tipo di situazione, arrivano donne già molto emancipate e consapevoli ed altre che letteralmente non hanno niente e che sostanzialmente non esistono. In questi casi dobbiamo inventarci di tutto per poterle aiutare, coinvolgendo le associazioni di volontariato e ogni tipo di aiuto possibile. L’obiettivo è creare autonomia e sostenere le donne anche dopo l’emergenza, non solo durante la permanenza nel centro.
E per quanto riguarda il supporto legale e psicologico?
Abbiamo convenzioni con avvocati per consulenze legali gratuite e psicologhe interne per supporto iniziale. Lavoriamo insieme alle assistenti sociali per seguire il percorso della donna, anche quando decide di entrare in strutture protette. Il percorso
può durare anche anni, con monitoraggi periodici per verificare la sicurezza e il benessere della donna e dei figli.
Come si rapporta il centro con forze dell’ordine, ospedali e giudici, soprattutto per evitare la vittimizzazione secondaria, ovvero quella forma di sofferenza aggiuntiva che subisce la donna vittima di violenza, causata dalle procedure e dalle interazioni con le istituzioni dopo la denuncia?
La situazione è migliorata rispetto al passato. Ci sono figure femminili formate nelle stazioni dei carabinieri e nelle questure, e lavoriamo in rete per garantire un primo supporto adeguato. Ovviamente la vittimizzazione secondaria non è stata debellata e purtroppo riceviamo ancora segnalazioni, ma devo dire che la situazione è molto migliorata e davvero c’è un impegno da parte di tanti attori diversi per la formazione su queste pratiche con le forze dell’ordine, gli ospedali e i servizi.
Si sente parlare sempre più spesso di violenza di genere agita online (come ad esempio la condivisione non consensuale di materiale intimo o il cyberstalking), un problema allarmante perché riguarda moltissimo anche i giovanissimi, vi capitano casi al CeAV?
Per quanto riguarda i giovanissimi, dato che i centri antiviolenza per legge operano solo con le donne maggiorenni, l’associazione Donna Chiama Donna ha attivato il progetto “Il Filo Sottile”, uno sportello dedicato a ragazzi dai 14 ai 18 anni per affrontare problemi legati all’affettività, al controllo e al cyberstalking. Per quanto riguarda il centro invece, tutte noi operatrici siamo state formate dalla Polizia Postale, con la quale collaboriamo per gestire questo genere di situazioni. Non abbiamo un’equipe specializzata solo per la violenza digitale, ma tutte le operatrici sono formate per affrontarla.
Ci sono cambiamenti nelle tipologie di utenti?
Sì, negli ultimi anni vediamo più giovani tra i 18 e i 25 anni. La digitalizzazione ha complicato la violenza domestica: geolocalizzazione, accesso ai social e controllo costante peggiorano le dinamiche di controllo
e gelosia. Abbiamo poi notato un aumento anche delle situazioni di marginalità, ad esempio con donne vittime di tratta. Rimane comunque da specificare che purtroppo la violenza di genere è un fenomeno trasversale e colpisce donne di tutte le etnie, religioni ed estrazione sociale.
Molti Centri antiviolenza in Veneto sono in allarme per la modifica del principio di esclusività dell’Intesa Stato-Regioni, che vorrebbe tra le altre cose che questo genere di centri si occupasse solo di donne. Come sappiamo però, molti centri antiviolenza vengono gestiti da cooperative e associazioni che si occupano anche di progetti di integrazione, di tutela dei minori o altri, e rischiano perciò di chiudere. Voi a Vicenza come la pensate?
Siamo molto preoccupate. A Vicenza l’associazione Donna Chiama Donna (ndr. l’associazione che ha in appalto il CeAV) non è a rischio, ma molte case rifugio lo sono e nel momento in cui vengono a mancare le case rifugio manca un’importantissima tutela alle donne vittime di violenza. Per il nostro centro comunque, il problema principale al momento è la richiesta di introdurre la reperibilità h24. Tolto il fatto che con i fondi a nostra disposizione non è sostenibile eco-
nomicamente, rischia di concentrare molte delle nostre forze solo sull’emergenza, riducendo la capacità di noi operatrici di lavorare nel lungo periodo e nel cambiamento di consapevolezza e prospettiva che cerchiamo di infondere sulle donne che assistiamo. Noi crediamo che i percorsi debbano lavorare sull’autonomia e sulla consapevolezza, non solo sull’intervento immediato.
Per come è strutturato ad oggi il nostro sistema di tutele i pilastri sono tre: i centri antiviolenza che si occupano delle donne, i centri per uomini autori di violenza (Cuav) che si rivolgono agli uomini maltrattanti e i percorsi per i minori che assistono a violenza in casa. Crede che ci sia una mancanza di collaborazione tra queste realtà?
Sì, storicamente ogni servizio tende a seguire il proprio percorso. Tuttavia, negli ultimi anni vediamo una maggiore attenzione alla collaborazione. Noi, per esempio, stiamo lavorando con un ente del privato sociale che gestisce percorsi per minori e coinvolge anche noi nelle riunioni relative alla presa in carico dei bambini e delle madri. Con i Cuav, invece, la collaborazione è più complessa. Non possiamo condividere informazioni sui minori o sulla donna per motivi di privacy, e loro altrettanto. Ci
sono iniziative di formazione e sensibilizzazione congiunte, che ci permettono di capire meglio il percorso maschile, ma la rete operativa non è ancora consolidata.
Quindi, secondo lei, gli uomini autori di violenza potrebbero essere considerati anche loro vittime del patriarcato? Sì, in parte. Crediamo che il vero cambiamento passi dal lavoro con gli uomini, dagli autori di violenza. Oggi ci sono percorsi obbligatori previsti in ambito giudiziario, ma la motivazione spesso manca se l’uomo lo fa solo per ridurre la pena. Vale lo stesso discorso che facevo prima per le donne: la presa in carico deve partire dalla loro volontà, se non sono loro a decidere di intraprendere un percorso, è difficile aiutare davvero.
Il Centro Antiviolenza di Vicenza opera attraverso una sede principale in via Vaccari 113 e una rete di sportelli territoriali - ad Arzignano, Pojana Maggiore e presso la sede del Dipartimento di Tecnica e Gestione dei Sistemi Industriali dell’Università - per garantire un accesso più capillare e agevole ai servizi di supporto per le donne vittime di violenza.
Se sei vittima di violenza o stalking chiama il 1522. Il 1522 è un servizio pubblico promosso dal Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il numero è gratuito, attivo 24 ore su 24 e accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure chatta direttamente con una operatrice sul sito www.1522.eu o via app. L’accoglienza è disponibile in italiano, inglese, francese, spagnolo, arabo, tedesco, e su appuntamento: albanese, persiano, algerino, siriano, siro-libanese, marocchino, egiziano, berbero e cinese.
La violenza di genere vista dall’altro lato. Chi aiuta gli uomini maltrattanti?
Antonio Romeo è nato a Vicenza e da 15 anni si occupa di violenza di genere in Italia, una questione che lui reputa fondamentale e alla quale ha dedicato la sua vita.
AntonioRomeo,counselordi
Cambiamento Maschile
di E. B.
Con VicenzaPiù Viva siamo andati ad intervistare il counselor di cambiamento maschile, già assessore alle pari opportunità del Comune di Montebelluna, nonché co-fondatore e membro dello staff tecnico di “Cambiamento Maschile”, uno dei primi sportelli per uomini violenti attivi in Italia. Con lui proviamo a capire anche l’altra faccia della violenza di genere: quella degli uomini violenti con le donne.
Antonio, di cosa si occupa precisamente come counselor libero professionista nella relazione d’aiuto?
Io per tanti anni ho fatto altre cose: ho lavorato in azienda, sono stato assessore comunale,
ho avuto varie esperienze. Poi, quindici anni fa, ho iniziato a interessarmi del tema della violenza di genere, perché non riuscivo a capire certi meccanismi. Ero già laureato in scienze politiche, ho fatto un master triennale di counseling e da allora sono counselor. A questa prima esperienza ho poi aggiunto numerosi corsi di perfezionamento a Firenze, presso il CAM, ovvero il primo Centro per uomini autori di violenza (Cuav) in Italia. Ora lavoro come libero professionista, ma prima di mettermi in proprio ho co-fondato e lavorato in un CUAV. Il counseling è una professione nata negli Stati Uniti negli anni Cinquanta con Carl Rogers, che portò un cambiamento radicale nel modo di intendere l’aiuto psicologico. Rogers sosteneva che chi chiede aiuto non è “malato”: la maggior parte delle persone vive situazioni difficili, ma non patologiche. Che poi è quello che riscontro anche negli uomini che incontro, che non sono incapaci di intendere e volere: la stragrande maggioranza non ha disturbi tali da impedirgli di cambiare. Certamente mi sono trovato a seguire anche persone con disturbi bipolari, di personalità o borderline, ma ho riscontrato che le dinamiche che portano alla violenza sono identiche tra tutti gli uomini. Come da tempo sostiene la Società Italiana di Psichiatria, il cosiddetto “raptus di follia” non esiste: la violenza è una scelta e la rabbia è solo la punta dell’iceberg di un modo di relazionarsi ripetuto e sistematico.
E in cosa consiste il lavoro quotidiano che fa con gli uomini autori di violenza?
Il mio lavoro consiste nell’aiutare questi uomini a comprendere le cause del proprio comportamento e ad assumersene la responsabilità. Nel mio lavoro applico tre principi: ascolto, non giudizio e niente consigli. Un vero counselor non giudica e non dice cosa fare: ascolta. L’empatia ovviamente non significa giustificare la violenza, ma mettersi accanto alla persona per aiutarla a cambiare. Io non solidarizzo con gli uomini, li aiuto ad aiutarsi a riconoscere la violenza che hanno fatto, a prendersi la totale responsabilità dei loro comportamenti e ad impegnarsi a non farlo più. La violenza non ha nessuna giustificazione, né naturale né sociale né nella provocazione, non è un modo di essere, è un modo di comportarsi, una scelta opposta al rispetto e alla pari dignità che sono dovuti a tutte e a tutti. La violenza è il risultato di fattori molteplici - individuali, relazionali, comunitari e sociali - come spiega anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo il modello ecologico. In generale, sento molte storie sui motivi della violenza, ad esempio quella di un ragazzo che mi disse: “Quando mi sono sposato ho giurato che non avrei mai fatto a mia moglie quello che mio padre faceva a mia madre, e invece l’ho fatto anch’io”. Questo per dire che l’ambiente familiare può essere una causa prossima, ma non è mai la prima principale, come non lo sono l’abuso di alcol o sostanze. Certo, possono esacerbare situazioni di violenza ma non sono la loro causa primaria, che invece va ritrovata nella cultura maschilista con cui tutti noi cresciamo. Qualcuno non lo vuole più chiamare patriarcato, io lo chiamo bagaglio maschilista ma la sostanza è la stessa. Questo è evidente so-
prattutto quando incontro gli uomini in gruppo: cambiano i nomi, le professioni, gli indirizzi, l'educazione, la cultura ma in sostanza non cambia nulla, perchè dicono, pensano, provano e fanno tutti le stesse cose. E lo dico avendo seguito tipologie di uomini più disparate, medici, psicologi, professori, commercialisti, ingegneri, manager, atleti professionisti, cuochi stellati, operai, immigrati…
Occuparsi di violenza è diventato un ideale per lei?
Sì, per me è diventato un impegno civile. Ho quasi 75 anni e dico sempre ai ragazzi delle scuole: oltre a cercare un lavoro e una famiglia, trovatevi un ideale. Avere un ideale dà senso alla vita. Per me, aiutare anche una sola persona a cambiare, vedere una donna che dice “è cambiato” o i figli che dicono “abbiamo recuperato nostro padre”, vale più di qualsiasi compenso. Sono convinto che, prima o poi, gli uomini smetteranno di essere violenti. La storia va avanti: il cannibalismo, la schiavitù sono scomparsi; il razzismo, purtroppo, esiste ancora, ma finirà. E finirà anche la violenza di genere.
Vorrei chiederle anche un parere su una forma di violenza di genere più recente: quella online. Penso ai gruppi Facebook o Telegram che diffondono materiale non consensuale. Le capita di lavorare anche con uomini che agiscono violenza online? Sì, anche se la maggior parte dei miei casi riguarda la violenza domestica. Ma la radice è la stessa: la cultura maschilista millenaria. Molti uomini non si rendono conto di disprezzare le donne, ma dentro portano l’idea - antichissima - che la donna sia inferiore. È un retaggio che risale ad Aristotele e che ancora oggi sopravvive. Quando in rete si condividono immagini intime o si insultano le donne, chi lo fa non percepisce che quella persona ha una dignità. La vede come un oggetto. È la stessa logica di chi un tempo considerava la moglie “di sua proprietà”. E questa cultura si riflette anche nei casi di stupro di gruppo tra giovani: quando dicono “ci stava”, non comprendono che una persona ubriaca non può dare il consenso, quando dicono “ma ci stavamo solo divertendo”, evidenzia che non hanno il senso di cosa è bene e cosa è male. Queste parole danno il senso del vuoto che c’è in questi ragazzi, che davvero non capiscono la gravità di quello che hanno fatto. È la stessa radice di dominio e disumanizzazione.
Date le sue origini vicentine, le è mai capitato di lavorare anche in questo territorio?
Sì, ho seguito una decina di casi a Vicenza. Ma devo dire che non c’è differenza tra Vicenza, Roma o Palermo: le dinamiche sono le stesse. La violenza domestica è ovunque, e quella psicologica è la più diffusa e la più subdola, forse ancora più crudele di uno schiaffo. Ad esempio, una donna un giorno mi mostra una bruciatura su un braccio, fattale dal marito con una sigaretta, una violenza che - a detta sua - era niente in confronto alle urla, alle bestemmie, alle volgarità, alle umiliazioni e alle svalutazioni a cui era sottoposta. A volte, un “sei una pessima madre”, un “sei una pessima moglie” o un “non vali niente” creano un buco nell’anima peggiore di alcune violenze fisiche. Su un caso che ho seguito a Vicenza sto scrivendo un libro, la storia di quest'uomo che ha tentato di uccidere la propria moglie e dopo essere uscito dal carcere è venuto da me a farsi aiutare.
Molti Centri antiviolenza in Veneto sono in allarme per la modifica del principio di esclusività dell’Intesa Stato-Regioni, che vorrebbe tra le altre cose che questo genere di centri si occupasse solo di donne. Come sappiamo però, molti centri antiviolenza vengono gestiti da cooperative e associazioni che si occupano anche di progetti di integrazione, di tutela dei
minori o altri, e rischiano perciò di chiudere. Lei come la vede su questo tema? In generale cosa ne pensa della mancanza di fondi per questo genere di iniziative? È una contraddizione enorme. Tutti dicono di voler combattere la violenza sulle donne, ma poi si tagliano i fondi sia ai centri antiviolenza sia ai centri per uomini maltrattanti. Per quanto riguarda l’intesa Stato-Regioni le cooperative hanno molti ambiti di intervento - donne, anziani, minori, persone fragili e immigrati - e non possono occuparsi solo di un settore. Se le si obbligasse a occuparsi esclusivamente di donne, come dicono alcuni, chiuderebbero. E se chiudono i centri antiviolenza, viene a mancare il primo strumento di protezione per le donne e questo ha conseguenze dirette anche sul nostro lavoro con gli uomini: perché quando una donna non trova un centro di riferimento, aumenta il pericolo per lei. Molte volte sono proprio le operatrici dei centri antiviolenza che, riconoscendo un rischio reale, riescono a mettere in sicurezza una donna. Se il centro non c’è, dove va? Solo dai carabinieri. Ma anche lì, purtroppo, a volte resta un residuo di cultura maschilista. Parlo con rispetto, da ex sottufficiale dei carabinieri: oggi la situazione è molto migliorata, ma può capitare ancora che qualcuno dica “lasci stare, è suo marito, torni a casa”. Questo atteggiamento, seppur raro, è ancora un ostacolo. E poi ci sono anche giudici e professionisti che non hanno ancora un’adeguata formazione su questi temi. Per questo è fondamentale che i centri antiviolenza restino attivi: sono luoghi dove le donne
trovano sicurezza, assistenza legale gratuita e assistenza psicologica gratuita - tutto ciò che serve per uscire dal ciclo della violenza.
Secondo lei sarebbe utile un’integrazione maggiore tra i centri per uomini autori di violenza, i centri antiviolenza e i servizi per i minori che assistono alla violenza in casa? Mi sembra che spesso ognuno lavori separatamente.
Sarebbe non solo utile, ma indispensabile. Qui a Montebelluna, dove vivo, esiste una rete che funziona: collaboro con i servizi sociali, i carabinieri, i centri antiviolenza e ci sono tavoli comunali e regionali dove ci confrontiamo. Non è così ovunque: ci sono ancora centri antiviolenza che non vogliono collaborare con noi, perché mantengono la vecchia idea che l’uomo sia “il nemico”. Ma dove si lavora insieme, i risultati si vedono. Fare rete è essenziale - come in tanti altri ambiti della società - perché la violenza è un problema complesso e va affrontato da più prospettive contemporaneamente.
Lei va spesso anche nelle scuole, che tendenze ha notato tra i giovanissimi grazie a queste sue esperienze? Penso soprattutto ai casi di relazioni anche tra minorenni in cui certi comportamenti di controllo - come la richiesta di condividere la posizione su WhatsApp o di mostrare con chi stanno - vengono interpretati come segni d’amore o di protezione, quando in realtà sono i primi campanelli d’allarme di un rapporto possessivo.
Negli incontri che tengo da anni nelle scuole superiori noto, purtroppo, quanto certi stereotipi e atteggiamenti maschilisti siano ancora radicati tra i più giovani. Quando parlo con i ragazzi e le ragazze, mi accorgo che spesso il problema è ancora la minigonna. Faccio sempre lo stesso esempio: chiedo a un ragazzo cosa penserebbe se la sua fidanzata uscisse a cena con un amico di famiglia e lui risponde che non ci sarebbe alcun problema. Ma se aggiungo che quella sera la ragazza indossa una minigonna, all’improvviso scatta il dubbio, la gelosia, la domanda “ma perché si è vestita così?”. È lì che emerge quanto sia ancora diffusa l’idea che il modo in cui una donna si veste o si comporta possa in qualche modo “giustificare” il controllo o la sfiducia da parte del partner. È questa confusione tra amore e controllo, tra gelosia e cura, che preoccupa di più.
Secondo la sua esperienza, qual è il fattore più rilevante della violenza maschile?
La fragilità maschile. Chi fa violenza è una persona fragile, incapace di confrontarsi in modo civile. Lo dico spesso ai ragazzi: un bullo è una persona prepotente, ma anche insicura. Questo è particolarmente evidente nel caso di femminicidi, che accadono spesso quando lei lo lascia. Per lui, un vero uomo, non può accettare che la "sua" donna lo lasci: o mia o di nessuno. Le donne quando vengono lasciate, pur soffrendo anche loro, dopo un periodo di disperazione, se la mettono via e se ne trovano un altro. Chi è più "forte": lui o lei? La cultura maschilista ci ha insegnato che un uomo non deve piangere, non deve avere paura, non deve mostrare emozioni. Ma questo è disumano. Le emozioni le abbiamo tutti. Il problema è che agli uomini non è concesso esprimerle, e allora quando provano rabbia, paura o senso di fallimento, le trasformano in controllo, possesso e gelosia, che sono le spie che dovrebbero mettere in guardia una donna. La cultura maschilista ci ha privato dell’autenticità. Ci ha insegnato che la vulnerabilità è una colpa, ma invece è proprio lì che si trova la possibilità del cambiamento. Solo se un uomo impara a riconoscere e accettare la propria fragilità può smettere di essere violento.
Le interviste con Antonio Romeo e con l’operatrice del Centro Antiviolenza di Vicenza sono state lunghe e dense di contenuti, perché il problema della violenza di genere è molto più complesso delle narrazioni polarizzate che oggi dominano il dibattito
pubblico. Da un lato c’è la sacrosanta tutela delle donne, che devono poter uscire dalla violenza e la cui sicurezza deve essere sempre messa al primo posto; dall’altro, il principio cardine del nostro sistema giuridico e sociale - troppo spesso dimenticato - secondo cui chi commette violenza non va abbandonato, ma accompagnato in un percorso di consapevolezza e riabilitazione. E poi ci sono le vittime secondarie: i bambini che assistono a violenza e che portano con sé le ferite di ciò che vedono. In questo modo, il circolo della violenza continua, nonostante l’impegno di tutte le persone che di violenza si occupano. Forse è arrivato il momento di cambiare la domanda di partenza: non più chi agisce o chi subisce la violenza, ma come si può davvero spezzare questo ciclo. Quali strategie, quali strumenti, quali tutele servono perché la violenza smetta di riprodursi? E per me la risposta passa anche dall’educazione. È nelle scuole che bisogna intervenire, ripensando i percorsi di educazione affettiva e sessuale, che non possono essere lasciati solo alle famiglie, che non sempre riescono a far fronte da sole alle esigenze richieste su questi temi. Serve una comunità educante, perché - come si dice - “per crescere un bambino serve un villaggio”: un villaggio fatto di famiglie, scuole, istituzioni, Terzo settore, associazioni e cittadini. Perché non possono essere lasciate sole le donne, i bambini e nemmeno gli uomini, come non possono essere lasciate sole le famiglie. E solo tornando a fare rete, davvero, si può immaginare una società più giusta, più consapevole e meno divisa.
«Hai intenzione di fare figli?»: lavoro, diritti e pregiudizi nel Paese che non cambia
Storie di discriminazioni quotidiane, di stipendi negati e di talenti svalutati ma non solo al femminile. Dalla laureata “troppo qualificata” alla madre esclusa dai colloqui, un mosaico di ingiustizie che il recepimento della direttiva europea sulla parità retributiva potrà forse cominciare a correggere. Ma prima serve cambiare mentalità.
di Serena Balbo
«Vedo l’età sul cv, hai intenzione di fare figli a breve?»; «Non posso assumerti con laurea e master, ti dovrei proporre una retribuzione al 6° livello»; «Cercasi cameriera carina per bar»
Sono solo alcuni esempi di annunci o discorsi discriminatori che compaiono durante la ricerca e i colloqui di lavoro, e che tutte noi abbiamo visto o sentito almeno una volta nella nostra carriera.
A volte non c’entra tanto l’essere donne, ma l’essere giovani, e quindi i discorsi discriminatori si ripercuotono anche sugli uomini.
Ricordo ancora nella mia ricerca di un tirocinio durante la laurea magistrale che un’azienda locale mi ha tenuto in ballo un mese, salvo poi liquidarmi dicendo “Non abbiamo abbastanza personale in sede per formare stagisti, causa Covid-19”. Preciso che gli stage curricolari, svolti durante la scuola superiore, i percorsi di laurea triennale o magistrale, e i master, sono (quasi totalmente) svolti gratuitamente, ovvero senza alcun rimborso, ma necessari per poter prendere il diploma o laurearsi.
Altre volte invece ci dicono che siamo troppo vecchie e non ci possono pagare per la nostra esperienza. Chiara nella sua lunga carriera ha vissuto diverse situazioni di
discriminazione: poco più che trentenne, quando l’azienda per cui lavorava era in crisi, il suo diretto superiore le ha consigliato di «trovarsi un marito in modo da sistemarsi e non avere più problemi economici». Più avanti nel tempo, ha dovuto affrontare i problemi che toccano a una donna quando supera i trent’anni: la difficoltà del ricollocamento, perché alcune aziende spesso non assumono donne titolate e con esperienza per “evitare di pagarle di più”, mentre al contrario ci si può “permettere” di sottopagare un giovane facendo leva sulla sua speranza di acquisire esperienza. E sulla situazione dei giornalisti, maschi e femmine che siano, si dovrebbe aprire un capitolo specifico, dato che la maggior parte dei media cartacei, televisivi, radiofonici e online, offrono agli aspiranti la possibilità di fare il biennio per ottenere il tesserino senza essere retribuiti; ci sono poi le testate che ricercano collaboratori pro-bono (certo, è bello scrivere per passione, ma...). Per non parlare di colleghe e colleghi che da anni lavorano pro editore se non pro bono…
E poi, tante volte, subentrano anche le fatidiche domande sulla famiglia: Veronica, a poco più di vent’anni, quando iniziava a destreggiarsi nell’intricato mondo del lavoro, già si sentiva chiedere, durante i colloqui, se avesse intenzione di fare figli.
Sofia, un marito e due bambini, quando va a un colloquio di lavoro riceve sempre la fatidica domanda: «Hai figli?»; nonostante l’esperienza, di solito le vengono preferite
ragazze giovani, senza legami e senza bambini da portare a scuola, da accudire il pomeriggio o che si ritrovano spesso ammalati e quindi bisognosi di cure. Ma a suo marito, quando fa un colloquio, “succede lo stesso?”, mi chiedo…
Parliamo poi della formazione troppo “alta”: Marta mi racconta che durante i colloqui di lavoro veniva sempre “bocciata” perché aveva troppi titoli, mentre per quelle posizioni si ricercavano persone appena laureate e senza esperienza in modo da poterle pagare poco. Pare che oggi gli anni di formazione vadano quasi nascosti e tolti dal curriculum vitae, assieme ai titoli che, per quanto qualificati siano, vanno eliminati/celati/rimossi se si vuole lavorare.
E poi c’è anche l’estremo opposto: la ricerca di neolaureati con esperienza. Uno studente può aver lavorato per pagarsi gli studi, certo, ma probabilmente non nell’ambito in cui ricerca una professione dopo la laurea, e dunque che tipo di esperienza può avere?
Dopo la laurea, invece, la tendenza che va per la maggiore è offrire stage non pagati di (almeno) sei mesi (e ricordiamo che possono essere anche prorogati per altri sei); chiaramente chi non vive più con i genitori – perché già fuori sede dall’università o perché sceglie di andare a convivere – non può di certo pagare un affitto, anche perché gli stage sono solitamente full time e dunque è altamente improbabile riuscire a fare un secondo (primo?) lavoro per potersi mantenere. Terminata la fase dello stage, viene proposto il contratto di apprendistato che –pur dignitoso – rappresenta un triennio in ogni caso sottopagato rispetto al valore del lavoro effettivo.
Un po’ più “fortunati” in tal senso sono coloro che vengono assunti (in stage o in apprendistato) da grandi aziende o multinazionali, perché perlomeno possono ottenere buoni pasto, buoni welfare, smart working, con-
UNIVERSO DONNA
Discriminazionedigenere
venzioni con sconti su palestre, piscine, etc. Pur non avendo subito discriminazione, Elisa, che ha trovato un posto di lavoro con fatica dopo la laurea, anche a causa del Covid-19 e dei suoi lunghi strascichi, ha accettato una mansione per cui sarebbe in realtà troppo qualificata. Di conseguenza, mentre tutti i suoi colleghi hanno la maturità, lei ha due lauree per cui non viene valorizzata né pagata abbastanza. Tra l’altro non è retribuita quanto un uomo del suo stesso livello e per di più non ha le stesse possibilità di carriera dei suoi colleghi maschi. Infatti, quando il suo responsabile andrà in pensione, la scelta ricadrà – non su di leima su un uomo, che per giunta è “figlio di”. E la credibilità? Francesca, dopo la laurea in psicologia, aveva iniziato a fare pratica all’interno di un centro associato di psicologi; la direttrice un giorno l’aveva invitata a indossare scarpe con il tacco e abiti più eleganti che le dessero un tocco di serietà in più, perché «il suo aspetto estetico da 25enne la rendeva poco credibile per lavorare con gli adulti». Francesca aveva continuato a vestirsi come in precedenza, curata ma con un abbigliamento che la facesse sentire a suo agio alla sua età; la conseguenza era stata che i pazienti che le venivano affidati erano sempre e solo adolescenti. La parità salariale poi
è ancora lontana. Laura ha studiato cinque anni all’università e neppure dopo dieci anni di lavoro riesce a guadagnare tanto quanto un collega uomo dello stesso livello. Il Parlamento Europeo nel frattempo ha approvato la direttiva 970/2023 che renderà obbligatorio per le aziende inserire all’interno degli annunci la retribuzione annuale del lavoratore; il Parlamento italiano, con la legge n. 15/2024, ha dato mandato al Governo di scrivere il decreto, e il recepimento dovrà avvenire entro il 7 giugno 2026. La direttiva mira a contrastare il divario contributivo tra i generi, dato che secondo la recente stima fatta dal documento “Rendiconto di genere 2024” dell’Inps (che analizza le retribuzioni mensili), le lavoratrici sono pagate il 20% in meno rispetto ai lavoratori in quasi tutti i settori considerati. Questo è in parte dovuto anche al “segreto retributivo”, ovvero alla mancata dichiarazione della retribuzione all'interno degli annunci di lavoro. Infatti, secondo l’indagine compiuta da Reverse (azienda internazionale nel campo della selezione del personale), solo il 4% degli annunci italiani di offerta lavoro mostra la retribuzione spettante (e non siamo i soli in Europa).
Se è vero che “C’è un’ignoranza da analfabeti e un’ignoranza da dottori”, come affermò Molière, significa che in giro c’è molta ignoranza sulle parole da dire e sugli annunci da parte di responsabili risorse umane, direttori e proprietari di aziende. E allora è il caso di prendere una penna in mano e iniziare a riscrivere e a imparare a parlare. Di lavoro e dignità.
Unalotta(vecchia)perlaparitàdiretribuzone
Michela Pretto, store manager di un negozio modaiolo di Cornedo: inseguendo le passioni i sogni diventano realtà
Le vie del commercio sono infinite: dal negozio storico di paese alla nuova visione del mondo della moda
di Marta Cardini
Una ragazza di paese, semplice e concreta. Fin da bambina sognava il mondo della moda e dell’abbigliamento in generale, tanto che da bambina giocava a fare la modella con una sua amica, con il fratello che presentava e lo zio che riprendeva. Ora Michela Pretto, 38 anni, sente che il suo sogno è di -
ventato realtà: nel gestire con passione il negozio Shèn di Cornedo Vicentino, ex negozio storico del paese.
Ricordo ancora quando negli anni Novanta si andava dalla Maria a comprare l’intimo perché non esistevano ancora le grandi catene dedicate all’abbigliamento intimo. Il negozio si chiamava Ipotesi ed è rimasto aperto dal 1990
al 2017. Maria è la suocera, che purtroppo non c’è più, di Michela. Ovvero Michela è la compagna del figlio di Maria, Stefano Zangani.
Stefano è già titolare di un negozio di abbigliamento uomo a Trissino e ha deciso dallo scorso anno di riaprire il negozio a Cornedo della mamma Maria facendolo gestire a Michela.
E cosa fa Michela? Inizia a lavorarci con lo stesso spirito di Maria, chiama il negozio Shèn, che in lingua cinese significa spirito, si sente protetta e amata dalla suocera, sua Musa ispiratrice dal cielo.
Attualmente Michela realizza anche sfilate di moda durante feste di paese e sagre.
Michela, ci racconti la tua storia?
Prima di organizzare le sfilate con le modelle, ho fatto io stessa la modella. A 16 anni ho partecipato a un concorso di bellezza regionale, che era Miss Mondo Italia 2004. Poi ho sfilato per fiere ed eventi locali, ho lavorato molti anni come commessa e organizzatrice di eventi. Ho sempre amato a relazione col pubblico e la tecnica di vendita. Venendo da una formazione professionale, ho appreso molto sul campo, anche partecipando a
programmi televisivi (tra il pubblico) a Domenica Live, Pomeriggio Cinque, l’Isola dei Famosi. Qui ho tratto ispirazione anche per imparare a realizzare le sfilate. Ho visitato numerosi negozi e
boutiques nel Quadrilatero della moda a Milano, il negozio di Chiara Ferragni a Cortina d’Ampezzo. Sono pezzi di vita interessanti perché insegnano come gestire un negozio e la vendita on line. A Cornedo, in particolare, ad esempio, ho organizzato le sfilate in concomitanza con la Notte Bianca o la Festa della Corniola. A Trissino nel 2019 abbiamo realizzato una sfilata riuscitissima per La Notte da Leoni con abiti rinascimentali.
Qual è la tendenza moda per il prossimo autunno-inverno?
Direi il colore cioccolatoso e dettagli brillanti per rendere ancora più preziosa la donna nel suo fascino di eleganza e femminilità.
Che rapporto hai avuto con la titolare storica Maria?
Maria mi voleva bene come una figlia. Ora sento il suo spirito (lo shèn?, ndr)
che mi incoraggia e mi dà ispirazione. È come se anche lei fosse qui presente con me. In un momento storico così incerto, c’è voglia di cambiamento, ma non si possono dimenticare le radici. Uso molto i social per fare pubblicità, ma curo molto anche la relazione “dal vivo” con i clienti.
E infatti, quando si entra nel negozio, Michela, esattamente come faceva Maria, accoglie col sorriso ed entusiasmo il cliente e lo invita anche a chiacchierare. Perché era proprio così che si faceva negli anni Novanta, prima dell’avvento dei cellulari: si andava dalla Maria per chiacchierare, per comprare l’intimo e qualche vestito per le occasioni speciali e si rimaneva, perché no, anche a spettegolare. Si entrava nel negozio e vi si rimaneva tutto il pomeriggio. Si socializzava con tutte le donne che entravano. Era come andare dalla parrucchiera, ma con un’accoglienza migliore. Ricordo anche quando, nel 2012, si pensava dovesse arrivare la fine del mondo e la Maria diceva alle clienti: A go ‘na paura… Speremo che il mondo vada avanti lo stesso....
Ora Michela, figlia dei nostri tempi, ha modernizzato la tradizione, ma lo spirito rimane lo stesso. E quando si entra nel negozio si prova la stessa accoglienza degli anni Novanta e Duemila.
MichelaaCortinainvisitaalnegoziodiChiaraFerragni
MichelaPrettonelnegozioche gestisceaCornedo
Michela sistema la vetrina del negoziodiCornedo
Leticia, l’intervista esclusiva a una donna italo-brasiliana che lavora a Vicenza da escort:
“ La sensualità è un’arte, non solo una provocazione
di Edoardo Pepe
C’è un profumo dolce e deciso che accompagna le parole di Leticia, nome di fantasia per ovvi motivi di privacy di una italo-brasiliana giovane e stupenda che ha fatto della raffinatezza il suo modo di essere. Educata, riservata, dallo sguardo che sa alternare dolcezza e determinazione, Leticia incarna una femminilità consapevole, fatta di piccoli gesti e attenzioni.
È a Vicenza e fa la escort, termine sdoganato da tempo, per fortuna, al posto del più ipocrita “accompagnatrice”, e ama definirsi “una donna che si prende cura del benessere e dei sensi”, ma dietro le sue parole si intuisce un percorso fatto di scelte, libertà e rispetto.
In un mondo che spesso confonde la sensualità con la volgarità, Leticia emerge come una figura sofisticata, riservata, educata, capace di coniugare eleganza e passione in un equilibrio raro.
Dietro un sorriso discreto e ma ammaliante, questa giovane donna racconta il suo lavoro come un percorso di libertà e consapevolezza, fatto di ascolto, rispetto e connessione umana.
Abbiamo incontrato Leticia per scoprire chi è davvero, al di là delle apparenze, e per capire come si possa essere sensuali
con classe, senza mai perdere la propria dignità.
Leticia, come nasce questa tua esperienza e perché hai scelto di intraprendere questo lavoro?
È nato tutto in modo naturale, come una forma di evoluzione personale. Ho sempre avuto un grande amore per la bellezza e per la cura del corpo, ma anche una sensibilità particolare nel comprendere le persone. A un certo punto ho capito che potevo trasformare questa attitudine in un lavoro che unisse benessere, sensualità e ascolto. Non è stata una scelta improvvisata, ma una strada che ho costruito con consapevolezza e rispetto di me stessa.
C’è stato un momento preciso in cui hai capito che questa sarebbe stata la sua strada?
Sì, quando ho percepito che la sensualità può essere una forma di comunicazione autentica. Il corpo parla, ma solo se è guidato dal rispetto e da un’intenzione pura. Ho capito che potevo offrire momenti di leggerezza e armonia, restituendo alle persone la calma e il piacere di vivere che spesso perdono nella vita quotidiana.
Qual è l’obiettivo che ti poni ogni volta che incontra una persona nuova?
Voglio che chi mi incontra si senta accolto,
non giudicato. Il mio obiettivo non è stupire, ma creare una connessione vera, anche solo per un istante. Ogni incontro è unico: a volte serve dolcezza, altre volte ascolto, altre ancora solo silenzio. L’importante è che chi va via porti con sé una sensazione di benessere.
Nel tuo modo di parlare di te c’è molta eleganza. È una scelta o un tratto naturale? Direi entrambe. L’eleganza non è una maschera: è un modo di vivere. Amo la discrezione, la delicatezza dei gesti, le luci soffuse e la calma dei momenti sinceri. Tutto contribuisce a creare un’atmosfera in cui ci si può abbandonare con fiducia e senza paura di essere fraintesi.
per altri un’occasione di rinascita dopo una delusione. E sì, a volte mi capita di essere la prima donna con cui un giovane scopre la fisicità dell’amore, e lo vivo come una responsabilità: non è solo piacere, è educazione al rispetto del corpo, proprio e altrui.
Tu parli spesso di rispetto e di selettività. Che ruolo ha il denaro nel tuo lavoro?
Il denaro, per me, è una forma di riconoscimento, non il fine. È il modo con cui si valorizza il tempo e l’energia che dedico agli altri, ma non è mai l’unico centro. Se mancasse il rispetto o la connessione umana, non ci sarebbe cifra che possa compensare le mie attenzioni. Per questo scelgo sempre con cura con chi incontrarmi: il mio tempo, come quello di chi mi cerca, è qualcosa di prezioso.
Ti capita mai di sentirti in competizione con le donne dei tuoi accompagnatori, o di pensare di avere un ruolo più profondo nel loro percorso personale?
Non mi sento mai in competizione. Anzi, credo che, in un certo senso, io rappresenti un momento di passaggio. Per alcuni uomini sono un modo per riscoprire la dolcezza del contatto,
Per chi invece ha già una compagna, il mio ruolo è diverso: offro un momento di distacco, di leggerezza, un modo per ricordare che anche l’intimità può essere armonia e non solo routine.
Cosa rappresenta per te la sensualità? È una forma d’arte. È la capacità di comunicare con il corpo senza bisogno di parole. Un gesto, un profumo, uno sguardo possono dire molto più di qualunque discorso. La sensualità non è provocazione, è ascolto reciproco. È creare un dialogo tra anima e pelle.
Che cosa desideri per il suo futuro?
Vorrei continuare a crescere come donna e come persona. Il mio desiderio è che il mio lavoro venga compreso per ciò che realmente è: un percorso di cura, benessere e consapevolezza, mio e di chi mi sceglie per un tuffo nel bello. E se, anche solo per qualche ora, riesco a donare pace, leggerezza o un sorriso autentico, allora so di aver fatto qualcosa di bello.
Come concludere questo incontro? Noi non potevamo per motivi professionali, ci crediate o no, ma voi provate per credere… con letizia. Davanti alla bellezza… in piedi!
Leticia,ilrichiamo
Leticia,tuttadascoprire:nonsoloilcorpo
Tre anni di Governo Meloni: risultati, promesse, consensi
di Salvatore Borghese
Analistapolitico
Lo scorso mese il Governo Meloni ha tagliato un importante traguardo, relativo alla sua longevità: quello dei tre anni consecutivi in carica. Un traguardo conseguito da pochissimi esecutivi nella storia politica del nostro paese, caratterizzata – soprattutto in età repubblicana – da governi perlopiù instabili e di breve durata. Nel recente passato si sono succedute svariate legislature in cui abbiamo visto alternarsi, alla guida del governo, diversi Presidenti del Consiglio (sostenuti da maggioranze parlamentari anche molto diverse). Ma la stabilità dimostrata finora dal Governo Meloni lascia ipotizzare che l’attuale esecutivo possa durare ancora a lungo, magari fino alle prossime elezioni politiche, arrivando così a insidiare il record di longevità detenuto da Silvio Berlusconi (il cui secondo governo durò per oltre quattro anni, dal 2001 al 2005).
Il dossier del Governo Meloni
Ma quali sono stati i risultati di questi tre anni? Cosa ha ottenuto effettivamente il Governo Meloni, anche rispetto alle promesse fatte in campagna elettorale? Diversi soggetti hanno approfittato della ricorrenza per stilare un bilancio. A cominciare dallo stesso esecutivo, che sul sito istituzionale ha infatti pubblicato un corposo dossier (di ben 68 slide) ricco di numeri e infografiche sui risultati raggiunti o comunque in corso di realizzazione. Naturalmente, si tratta di un dossier – per quanto basato su statistiche ufficiali – dai toni alquanto trionfalistici, e quindi da prendere con le proverbiali molle.
Il Governo rivendica innanzitutto i risultati legati all’economia, con i dati positivi sul lavoro (il tasso di occupazione al 62,6% è effettivamente un record per l’Italia) e quelli sulla finanza pubblica (deficit/PIL ridotto al 3%, spread in forte discesa); ma nel dossier troviamo anche la rivendicazione della crescita dell’export
nazionale, invero difficilmente ascrivibile a iniziative di natura legislativa. Nelle altre sezioni del dossier, il Governo rivendica poi le numerose iniziative in politica estera, quelle sulle infrastrutture e quelle in ambito sociale (come le misure per le famiglie e la natalità), ma anche sulla sicurezza e sulla giustizia, e poi ancora tanti numeri su investimenti e risorse per sanità, scuola, agricoltura e turismo.
Promesse rispettate?
Come valutare tutti questi risultati? Innanzitutto, possiamo partire da ciò che era stato promesso durante la campagna elettorale del 2022. Il sito “Pagella politica”, ad esempio, ha riassunto le 100 promesse contenute nel programma della coalizione di centrodestra oggi al governo, concludendo che solo 22 sarebbero state mantenute, 10 sarebbero state disattese e 9 addirittura compromesse (cioè ormai impossibili da realizzare); il grosso delle promesse (59) sarebbero però ancora “in corso”, quindi ancora in grado di essere potenzialmente soddisfatte da qui a fine legislatura (pur se, verosimilmente, non tutte).
Certo, in questi casi non ci si può basare esclusivamente su una dimensione quantitativa: alcune promesse inevitabilmente “pesano” più di altre, nel senso che sono state particolarmente importanti sia per chi ha fatto quelle promesse sia per chi (gli elettori) ha riposto fiducia in quelle stesse promesse. Particolarmente delicata, ad esempio, è quella che riguarda il tema dell’immigrazione. Il Governo rivendica di aver ridotto gli sbarchi e di aver aumentato i rimpatri di stranieri irregolari. Guardando “dentro” i numeri, però, si scopre una realtà più complessa. Innanzitutto, è vero che gli sbarchi sono diminuiti, ma questo calo è iniziato dopo che era stato raggiunto un picco elevatissimo nell’ottobre 2023, quando
il Governo era già in carica da un anno; è vero però che, dopo l’accordo con la Tunisia, gli sbarchi sono effettivamente tornati a scendere. Dall’altro lato, i decreti flussi varati dal Governo Meloni prevedono per i prossimi anni l’ingresso di un numero record di lavoratori stranieri nel nostro Paese (un dato che però l’esecutivo ha omesso di rivendicare nel suo dossier).
La promessa “tradita” più clamorosa, però, è probabilmente quella che riguarda le tasse. L’impegno a ridurre la pressione fiscale, da sempre cavallo di battaglia del centrodestra, dopo tre anni di governo risulta ancora non rispettato: nel 2025, nonostante i numerosi annunci di tagli alle tasse, si dovrebbe
raggiungere il 42,8%, il valore più alto degli ultimi 10 anni, in crescita di quasi un punto e mezzo rispetto a quando Meloni è entrata a Palazzo Chigi. C’è da dire che buona parte di questo aumento può essere ascritta a un maggior recupero dell’evasione fiscale, che infatti il Governo stesso rivendica nel suo dossier: ma questo aumento si deve verosimilmente a misure prese dagli esecutivi precedenti (su tutti, l’obbligo di fatturazione elettronica e la dichiarazione pre-compilata), che in molti casi erano stati fortemente contestati dal centrodestra al momento della loro adozione.
Governare a colpi di fiducia
Ma al di là delle promesse mantenute e di quelle tradita, c’è anche da fare un bilancio di “come” l’attuale esecutivo ha governato. Da questo punto di vista, chi sperava che un Governo retto da una chiara maggioranza politica avrebbe ridato un po’ di spazio al Parlamento, da anni esautorato della sua funzione legislativa, è rimasto fortemente deluso. Secondo i dati raccolti da OpenParlamento, il Governo Meloni ha emanato in tre anni ben 109 decreti legge, circa 3 al mese: una media praticamente identica ai due esecutivi precedenti (Conte II e Draghi) che però si reggevano su maggioranze più o meno trasversali e che soprattutto dovevano fronteggiare situazioni di emergenza (la pandemia di Covid-19, la predisposizione del PNRR e la crisi energetica successiva all’invasione russa dell’Ucraina). Non solo: nonostante la tanto rivendicata compattezza politica della sua maggioranza, il Governo Meloni ha posto la questione di fiducia sulle votazioni parlamentari in media 2,73 volte al mese, più di quanto fatto dagli esecutivi Draghi (2,68) e Conte II (2,22).
Il consenso
Nonostante tutto questo (le promesse non realizzate, il Parlamento esautorato) il Governo sembra non aver subito alcuna ripercussione sul piano dei consensi, a differenza di quanto avvenuto o sta avvenendo praticamente in tutti i maggiori paesi europei (dalla Francia alla Germania, dalla Spagna al Regno Unito). A
certificare questa stabilità non sono solo i risultati elettorali conseguiti dai partiti di centrodestra durante le tante elezioni “intermedie” che si sono tenute in questi tre anni (come le Europee o le Regionali), ma anche i dati registrati quotidianamente dai vari istituti di sondaggio. Nelle intenzioni di voto, infatti, il consenso ai partiti di centrodestra è, sulla carta, persino aumentato, passando dal 44% ottenuto alle elezioni politiche del 2022 al 48% circa di oggi: una crescita dovuta quasi interamente all’ascesa di Fratelli d’Italia, partito di Giorgia Meloni, che in tre anni è passato dal 26% raccolto nelle urne al 30% registrato da quasi tutti i sondaggi.
Certo, se si va oltre il dato sulle intenzioni di voto, il quadro è un po’ meno roseo per l’esecutivo. Se infatti guardiamo al dato relativo all’approvazione degli italiani, inteso come livello di fiducia o comunque gradimento nei confronti del Governo Meloni, vediamo come i giudizi favorevoli siano gradualmente diminuiti: se nei primi mesi di “luna di miele” questi oscillavano intorno al 50%, ad oggi si registrano valori molto più bassi, che vanno dal 33% al 43% (le variazioni sono dovute alla diversa metodologia adottata dai diversi istituti).
Ad oggi, quindi, si può senz’altro dire che la maggioranza degli italiani non ha un’opinione positiva del Governo Meloni. Ma questo non è necessariamente
un problema per l’attuale maggioranza. I dati sul gradimento, infatti, sono relativi a tutti gli italiani (perlomeno quelli adulti), compresi quelli che alle elezioni non votano. Ma quando si confrontano le intenzioni di voto i partiti di centrodestra risultano tuttora in vantaggio rispetto a quelli che compongono il “campo largo” delle opposizioni, che si aggirano intorno al 40-45% dei consensi. Peraltro, Giorgia Meloni continua ad essere la leader politica nettamente più apprezzata, con un gradimento personale di circa il 40%, molto superiore sia rispetto a quello dei suoi alleati (Tajani e Salvini) sia soprattutto a quello dei suoi avversari principali (Schlein e Conte).
La situazione, insomma, si può riassumere in questo modo: gli italiani non amano particolarmente Giorgia Meloni e il suo governo, ma lo preferiscono comunque alle alternative. Non a caso, gli stessi italiani ormai si stanno convincendo sempre più che l’esecutivo sia destinato a durare ancora a lungo: secondo l’ultimo atlante politico dell’istituto Demos (settembre 2025), la percentuale di elettori convinta che il Governo Meloni arriverà a fine legislatura è salita al 65% (quasi due su tre), in netta crescita rispetto al 39% registrato a novembre 2022, un mese dopo che l’esecutivo era entrato in carica.
Ma sarà davvero così? Di solito, per fare previsioni sul futuro può essere utile guardare al passato, ai precedenti storici.
In questo caso, per trovare l’unico caso paragonabile, dobbiamo risalire a oltre vent’anni fa, cioè al secondo Governo Berlusconi. Anche allora, dopo tre anni dalla netta vittoria alle elezioni politiche del 2001, il centrodestra si confermava in salute ottenendo un buon risultato alle Europee del 2004. Da lì in poi, però, successero diverse cose: il trionfo del centrosinistra alle elezioni regionali del 2005, e pochi mesi dopo il ritorno di Romano Prodi, incoronato leader della coalizione progressista da cinque milioni di votanti alle primarie, tutto ciò sembrava indicare che il legame sentimentale del Governo Berlusconi con il Paese si fosse ormai spezzato (anche se poi le elezioni politiche successive si incaricarono di smentire questa impressione). Non è da escludere che nei prossimi anni, o forse anche nei prossimi mesi, potremo assistere nuovamente a un’inversione di tendenza simile – per quanto, ad essere onesti, analizzando lo scenario attuale ciò appaia alquanto improbabile.
Fonti:
La seconda vita di Luca Zaia retrocesso a consigliere e l’arrampicata di sesto grado per Giovanni Manildo
Otto anni dopo il dimenticato referendum veneto per l’autonomia è
candidato in tutte le province per portare voti a Salvini con cui non va d'accordo. Il futuro di Alberto Stefani ostaggio di Fratelli d'Italia e di Giovanni Manildo vittima del rapporto tra persistenza culturale e mutamento sociale che fa vincere in Toscana
Una delle celebrazioni annuali del 22 ottobre scorso cadeva l’ottavo anniversariodelreferendumperl’autonomiadelVeneto
di Renzo Mazzaro
Il 22 ottobre scorso cadeva l’ottavo anniversario del referendum per l’autonomia del Veneto ma nessuno se n’è ricordato, in una regione che pure l’aveva fortemente voluto. La ricorrenza è passata sotto un pesante silenzio ufficiale. Nessuna citazione, neanche
a cercarla con il lanternino nei comunicati che la giunta regionale sforna a decine ogni giorno. Muti come pesci i promotori. Nel 2017 suonavano le fanfare, sembrava una marcia trionfale, poi il passo cadenzato ha perso vigore. L’ultimo squillo di tromba risale all’ottobre 2022 quando il presidente Luca Zaia scandiva perentorio:
«Non ci sono più alibi, non ci sono più scuse, sono passati cinque anni inutilmente ma adesso l’esecutivo che si sta insediando ha le forze politiche che hanno sostenuto il referendum, bisogna arrivare al risultato». L’esecutivo che si stava insediando era il governo Meloni, il risultato come sappiamo è la legge Calderoli, impallinata dalla Corte costituzionale e che adesso bisognerà rifare. Siamo in uno stallo, c’è poco da celebrare. Meglio non tirare fuori l’argomento, diventerebbe un’arma in mano agli avversari. Quanta malinconia fanno questi quindici anni vissuti con la carota dell’autonomia appesa davanti al naso del cavallo veneto, per fargli dimenticare tutto il resto. Quindici anni sono metà della vita lavorativa di un uomo, in politica sono ere geologiche. Con il massimo rispetto per un obiettivo che andrebbe ad incidere finalmente sul dannato centralismo dello Stato, dal 2010 ad oggi ne sono successe di tutti i colori nel Veneto. Quando Zaia è diventato presidente brillava ancora l’astro di Giancarlo Galan all’epoca ministro, in Italia non era ancora arrivato il contraccol -
po della Lehman Brothers, Berlusconi presidente del consiglio ci diceva che le nostre banche erano solide e la crisi un’invenzione perché i ristoranti erano pieni di gente. Nel 2014 è scoppiato lo scandalo Mose con uno sconquasso istituzionale mai visto, che abbiamo dimenticato in fretta aiutati da un sistema colluso che non vedeva l’ora di chiudere il capitolo. Con la stessa disinvoltura ci siamo buttati alle spalle il disastro delle due Popolari che nel 2017 ha azzerato il valore delle azioni di circa 200.000 soci di cui gran parte risparmiatori, provocando suicidi, tragedie familiari e aprendo una voragine nel tessuto economico. Voragine che nessuno ha chiuso da allora. Il Veneto ha vissuto disastri ambientali, anni di siccità e anni di alluvioni che hanno messo in ginocchio il territorio. Siamo passati da un’economia spregiudicatamente globale al protezionismo dei dazi, marce avanti e marce indietro che hanno pesato duramente sulle aziende e di conseguenza sulle famiglie. La classe dirigente veneta va misurata su molti parametri, non solo sull’autonomia o sulle colline del prosecco e le Olimpiadi Milano-Cortina. Dove mettiamo la sanità tanto decantata, che vanta eccellenze negli ospedali ma anche un pronto soccorso che registra il 53% di accessi con codice bianco, di gran lunga il più alto d’I -
talia? L’Emilia Romagna ha il 12%, la Lombardia 8%. E i codici bianchi pagano il ticket, tassa supplementare sulla salute. Per non parlare delle liste d’attesa disseminate ovunque, dalle visite specialistiche alle case di riposo. Viene da dire che l’autonomia ha funzionato egregiamente come arma di distrazione di massa. L’amarezza è aggravata dalla constatazione che il tesoro del 76,7% di consenso che
i veneti avevano consegnato a Luca Zaia, più che al Veneto è servito a tenere alte le quotazioni del presidente. Peraltro anche quelle oggi in forte ribasso.
Perché il Veneto è “naturalmente” di centrodestra
Andiamo a votare per rinnovare la classe dirigente, o per confermarla. Ma non succederà né l’una cosa né l’altra e purtroppo si fa presto a dimostrarlo. Il centrodestra ripropone Zaia candidato in tutte le province, per trainare la Lega di Matteo Salvini con il quale Luca non è mai andato d’accordo, in una corsa che non è più per la presidenza della Regione ma per un posto da consigliere. Figurarsi l’apporto che Zaia potrà dare alla continuità di governo dai banchi di un Consiglio dove, da presidente, ci andava il meno possibile. Altre sono le intenzioni, evidentemente. Ben messi, siamo.
A farne le spese sarà il giovane Alberto Stefani, astro emergente della Lega di Salvini, di cui è vicesegretario federale, con Zaia che dovrebbe fargli da tutor. Stefani balza, anzi rimbalza fulmineamente dalla poltrona di sindaco di Borgoricco a quella di palazzo
AlbertoStefani,MatteoSalvini,LucaZaiaconla bandiera di S. Marco
Balbi, passando per un rodaggio alla Camera dei deputati. Tanti auguri, ne avrà bisogno perché il prezzo pattuito di questa candidatura è mano libera a Fratelli d’Italia nel controllo degli assessorati.
Il brillante Stefani sarà circondato, condizionato e probabilmente prigioniero degli alleati. Se sarà eletto, naturalmente, e se il centrodestra farà man bassa di voti. Ma lo si dà per scontato, perché il Veneto è “naturalmente” una regione di centrodestra come la Toscana è “naturalmente” una regione di centrosinistra. Questo “naturalmente” l’ha spiegato molto bene Ulderico Bernardi, compianto sociologo veneto che per
tutta la vita ha studiato il rapporto tra persistenza culturale e mutamento sociale. Per quanto sia profondo, il mutamento sociale non riesce mai a scalfire l’identità e l’indole di una popolazione, la sua cultura, intesa come l’universo di aspirazioni, paure, desideri, sistema di valori assorbito con il latte materno. La persistenza culturale è il sottofondo che lega le generazioni. Sono le piccole patrie, l’Europa delle Regioni. Dall’Atlantico agli Urali Ulderico Bernardi ha contato 330 culture regionali. Cosa c’entra questo con le elezioni? C’entra se teniamo presente che il Veneto è sempre stato terra di piccoli proprietari, fin dai tempi dei roma -
ni quando faceva parte della X Regio e l’imperatore distribuiva le terre ai legionari. Borgoricco, neanche a farlo apposta, è al centro del Graticolato romano, un territorio dove la divisione in centurie è perfettamente conservata dal I secolo avanti Cristo. In questo ambiente si è sviluppata la mezzadria, grandissima scuola di imprenditorialità: il mezzadro doveva dare metà del raccolto al padrone e stava attento anche al filo d’erba lungo la sponda del fosso, se voleva che gli restasse qualcosa dopo la divisione.
Affonda in questo passato la capacità d’iniziativa dei veneti, viene da una storia secolare. Dove non c’è stata la mezzadria ma il latifondo, servivano braccianti che lavoravano a giornata. In quei territori si è sviluppata una cultura diversa, l’opposizione frontale con i padroni, la lotta di classe. È quanto accaduto in Polesine, area non a caso marginale del Veneto dove l’orientamento politico prevalente è di sinistra. Nelle zone dove la proprietà era individuale, scatta invece ancora oggi la molla ancestrale della difesa. La parola comunista diventa una bestemmia e ben l’aveva capito Berlusconi, che batteva continuamente su questo tasto.
Processo storico inverso è avvenuto in Toscana, regione che per secoli ha fatto parte dello Stato Pontificio. L’avversione al Papa Re, stratificata nel tempo, ha fatto coincidere l’orientamento politico con l’opposizione sociale, permeando profondamente la cultura locale, al punto da determinare ancora oggi le scelte politiche. Come le recenti elezioni hanno dimostrato.
Tutti gli errori del centrosinistra dal 1995 ad oggi
Come se non bastasse, il centrosinistra nel Veneto ha sempre aggiunto del suo per far durare questo immobilismo nel tempo. L’occasione storica per ribaltare i rapporti di forza era arrivata con le elezioni regionali del 1995, dopo lo scandalo di Tangentopoli. Gli arresti eccellenti e i processi avevano messo in ginocchio
TinaAnselmi,l'occasionemancata del centrosinistra in Veneto
la Democrazia Cristiana, partito di comando. Le seconde e terze linee erano confluite per buona parte in Forza Italia, partito appena nato, che candidava Giancarlo Galan. La Lega si presentava da sola. Con il centrodestra diviso, al centrosinistra bastava presentarsi unito e il sorpasso diventava matematico. Molte cose, se non tutto, sarebbe cambiato nel Veneto, ma è restato un futuribile. Non è accaduto perché mancò l’intesa della coalizione sul candidato: venne scelto Ettore Bentsik, ex sindaco di Padova, invece di Tina Anselmi che aveva il gradimento di Rifondazione comunista. Ricostruzioni a posteriori hanno attribuito la responsabilità ad un’opposizione silente di Rosy Bindi, allora segretaria della Dc diventata Partito popolare. Ma la Bindi ha sempre negato. Sia come sia, Galan venne eletto con il 38,19% dei voti, Bentsik ebbe il 32,34% e a Paolo Cacciari candidato di Rifondazione andò il 6,86%. I voti di Paolo Cacciari avrebbero consentito il sorpasso, che invece sfumò.
Da allora l’autobus non è più ripassato. Alle elezioni del 2000, il candi -
dato del centrosinistra era Massimo Cacciari, il filosofo apprezzato e temuto anche a destra. Niente da fare, si ferma anche lui al 38,2% perché Bossi e Berlusconi trovano l’accordo e quando il centrodestra si presenta unito nel Veneto non c’è storia.
Alle elezioni del 2005 il candidato del centrosinistra è Massimo Carraro, un imprenditore padovano passato alla politica, che, col Doge al 50,58%, raggiunge il 42,35%. Il risultato più alto mai ottenuto dall’opposizione nel Veneto.
Nel 2010 spunta l’astro di Luca Zaia che comincia a strapazzare tutti i candidati del centrosinistra. Il primo è Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre che raggiunge appena il 29%. Alle elezioni del 2015 è il turno di Alessandra Moretti che fa ancora meno, 23%. Nel 2020 tocca ad Arturo Lorenzoni, un professore padovano che totalizza un malinconico 15%.
Fenomeno Zaia a parte, bisogna dire che il centrosinistra non ha mai investito sui propri candidati per portarli a vincere. E loro hanno ricambiato piantando in asso la com -
pagnia. Massimo Cacciari è rimasto in Consiglio regionale lo spazio di un mattino. Massimo Carraro è tornato alla sua azienda dopo un anno. Giuseppe Bortolussi purtroppo è mancato prematuramente. Alessandra Moretti è passata al parlamento europeo e chi s’è visto s’è visto. Arturo Lorenzoni ha avuto problemi di leadership. Sembra quasi, abbiamo scritto più volte, che l’opposizione si accontenti di amministrare il lato B del potere.
Siamo al 2025, come andrà? Luca Zaia non guida più la coalizione di centrodestra, l’hanno messo davanti solo in fotografia. Ma anche così è difficile che diventi l’occasione di una rivincita per il centrosinistra, partito senza rincorsa con Giovanni Manildo, ex sindaco di Treviso, che pure a suo tempo ha vinto la sfida cittadina contro un mostro sacro come Giancarlo Gentilini. Anche se, poi, non è riuscito a farsi eleggere la seconda volta. Sarebbe già tanto tornare competitivi. E poi investire in uomini e obiettivi per il 2030. Ma c’è ancora qualcuno che progetta per il futuro?
GiovanniManildovinceeperdeconGiancarloGentilini
“Tra urne, schede e ricordi: perché non ho mai smesso di votare”
Non è nostalgia, ma senso civico. Una vicentina racconta quarant’anni di appuntamenti con la democrazia, tra entusiasmo, disillusione e il dovere di esserci comunque. Come ci insegna Delia - Paola
di Giulia Matteazzi
Votare? Bisogna. Come lavorare, andare a scuola, stare con le persone, avere vita sociale.
Da vicentina media - anzi in questo caso ci sta più un “di mezza età”, tra il boomer e la generazione X - ho sempre considerato un dovere andare alle urne. Da quando ho l’età per votare credo di non aver mai saltato una tornata... forse un ballottaggio per influenza, ma non ne sono certa. Del resto, ho seguito l’esempio dei miei genitori, appartenenti alla generazione per la quale il diritto di voto è stato una conquista, e una volta ottenuto, chi era così sciocco da non approfittarne? Ricordo che da bambina, quando abitavo nella riden-
te Altavilla Vicentina, ogni tanto vedevo uscire i miei genitori in coppia a metà pomeriggio di domenica. “Dove andate?” chiedevo, e mi rispondevano “A votare”. Non capivo bene che cosa volesse dire, però mi sembrava una cosa importante. Come fare la comunione in chiesa. Che non vedevo l’ora di ricevere il sacramento per poterla fare anch’io. Per votare non avevo la stessa smania, però capivo che era una cosa seria.
A casa in realtà non si parlava molto di politica. La mamma era tendenzialmente democristiana, il papà aveva simpatie per il partito socialista, quello delle origini. Ogni tanto, soprattutto sotto elezioni, chiedevo spiegazioni, su destra e sinistra e sui vari partiti. Era soprattutto mio papà
Cortellesi dal 1946…
che me ne parlava. Aveva le sue idee e me le esponeva tranquillamente, ma non ha mai tentato di influenzare il mio modo di pensare, né prima che cominciassi a votare né, tantomeno, dopo.
Anche la preparazione al voto aveva il suo fascino, con le lettere e i volantini dei vari candidati che continuavano ad arrivare (uno dei miei primi lavoretti retribuiti da maggiorenne era stato proprio imbustare lettere per un candidato locale), e le tribune politiche che invadevano i palinsesti televisivi, cosa in realtà per me un po’ fastidiosa perché magari saltava qualcuno dei miei programmi preferiti… Ricordo ancora l’emozione quando per la prima volta arrivò anche il certificato elettorale col mio nome. Fino al 2000, infatti, nel mese precedente la scadenza elettorale un messo comunale passava di casa in casa a consegnare quel documento a tutti i componenti della famiglia con diritto di voto. Adesso il sistema è cambiato, c’è la tessera elettorale, molto più pratica. Consegnata a domicilio solo la prima volta (almeno nel duemila me la portarono a casa, oggi non so se funzioni ancora così), vale per 18 consultazioni, poi al rinnovo procede direttamente l’elettore: quando ha finito gli spazi, si reca all’ufficio elettorale del proprio comune per richiederne una nuova. Il prossimo passaggio sarà probabilmente fare tutto per via telematica, anche se temo la complessità delle procedure, perché ogni volta che si tratta di automatizzare un servizio entra subito in funzione l’UCAS, Ufficio Complicazioni Affari Semplici...
In ogni caso, ribadisco, raggiunta la maggiore età nel 1985, ho sempre votato, anche ai referendum, tutti, anche i più lontani dal mio interesse. Soprattutto, sono andata a votare anche se volevo votare no. Non ho mai accettato il concetto del “non andiamo a votare così invalidiamo la consultazione”. Che senso ha? Se sei convinto delle ragioni del no, a votare ci vai eccome. Ricorderò male, ma il referendum sull’abrogazione del divorzio fu una vittoria del no, non del non voto, e a votare ci andò oltre l’80 per cento della popolazione. Certo, il tema era particolarmente sentito, come poi per i referendum sull’aborto, sull’ergastolo, sul nucleare. Ma hanno raggiunto il quorum anche consultazioni su temi più specialistici: non credo che nel 1993 tutta Italia sapesse esattamente che cosa fosse il Ministero delle Partecipazioni Statali o che tutti capissero il senso di un quesito come “Abrogazione delle norme per le nomine ai vertici delle banche pubbliche”. Si dava semplicemente molta più importanza alla partecipazione al voto. Dal terzo millennio in poi, i referendum che hanno raggiunto il quorum sono stati sempre meno, anzi, negli ultimi dieci anni forse solo quello consultivo per l’autonomia del Veneto. Nemmeno gli ultimi relativi al lavoro hanno raggiunto il quorum, eppure il tema dovrebbe essere di interesse generale, e pure urgente. Del resto, anche la partecipazione alle elezioni va calando. Forse anche perché in Italia si vota troppo. Io ho già consumato due tessere elettorali, vuol dire 36 volte al voto in 25 anni, cioè in media circa 3 volte ogni due anni. Considerando che le scadenze naturali per Parlamento italiano, Parlamen-
to europeo, rinnovi di Sindaco e Presidente della Regione (e fino a una decina d’anni fa si votava pure il Presidente della Provincia) sono in media ogni quattro o cinque anni, e che in più di qualche occasione due consultazioni diverse sono state sovrapposte (i famosi election day), è decisamente una media importante visto che alle scadenze naturali si aggiungono quelle per scioglimenti delle Camere e referendum vari. Non sono un’esperta, ma non credo che nel resto d’Europa si vada a votare così spesso. Credo che anche questo abbia contribuito a creare una certa stanchezza e una certa distanza tra le persone e la vita politica. Però forse c’è dell’altro. Quando ho co-
minciato a muovermi nel mondo dell’informazione, intorno agli anni Novanta, i primi articoli di un certo peso che ho scritto erano stati proprio sulle elezioni. Interviste ai candidati, reazioni dei partiti allo spoglio delle schede… Ovviamente non ero in grado di analizzare l’andamento del voto, però una cosa la ricordo bene: in quegli anni c’era una consapevolezza politica molto superiore a quella di oggi. C’erano tanti giovani che frequentavano i partiti, proprio nel senso fisico delle sedi, e a livello nazionale le figure di riferimento, che piacessero o no, erano tridimensionali, non figurine più o meno urlanti che fanno campagna elettorale su Tik Tok. Soprattutto, i partiti avevano un’identità precisa, le idee politiche erano… politiche, avevano radici storiche e culturali, non partivano da considerazioni sul sociale o sull’ambiente o sulla salute. Che, intendiamoci, sono valori importanti per chi governa, ma appunto sono valori, sono ideali, e soprattutto sono concetti sui quali, almeno a parole, la pensiamo tutti allo stesso modo (vabbè, a parte qualche capo di stato straniero dalle idee balzane, ma quello è un altro discorso). Fare politica è altro. Detto questo, io a votare ci vado comunque. E continuerò ad andarci. Perché, come ci insegna Delia, Paola Cortellesi in “C’è ancora domani”, qualcuno può provare a privarti di questo diritto ma non deve riuscirci.
Vicenza sceglie il cambiamento partendo dalla regione: i candidati del Movimento 5 Stelle per un Veneto più giusto e sostenibile
Quando guardiamo al futuro della nostra regione, una domanda è ovvia: chi rappresenterà veramente i cittadini di Vicenza? Chi avrà il coraggio di mettere l'ambiente, l'energia pulita, le piccole e medie imprese e i giovani al centro delle scelte politiche? Chi non dimenticherà gli anziani, i fragili, coloro che la politica tradizionale ha lasciato indietro? La risposta che viene dal Movimento 5 Stelle sull’onda del Vaffanzaia è proporre “una squadra di candidati radicata nel territorio, genuinamente dedita al servizio della comunità, portatore di competenze concrete e di una visione chiara per il futuro”.
Guida questa lista Simone Contro, 48 anni, tecnico e manager nel settore macchinari medicali e di laboratorio, oggi coordinatore regionale del Movimento 5 Stelle in Veneto. Non è semplice retorica quella che lo anima, ma l'esperienza concreta di chi ha lavorato nell'innovazione internazionale e comprende come il Veneto possa diventare laboratorio di eccellenza europea senza sacrificare l'ambiente e la qualità della vita. Simone conosce il territorio, partecipa attivamente alla vita sociale della comunità e sa che il cam-
biamento vero nasce dalla competenza, non dalle promesse vuote. Accanto a lui Monica Gios, 56 anni, ostetrica che ha dedicato gran parte della sua vita alla cura della comunità. Ha visto da vicino, nelle corsie dell'ULSS7, le difficoltà che affliggono la sanità pubblica veneta. Non come teorica, ma come professionista che conosce intimamente i problemi. Gli anni trascorsi come assessora alle politiche sociali, famiglia e sanità le permettono di comprendere cosa significa non lasciare indietro i più fragili: gli anziani soli, i disabili, le famiglie in difficoltà. La sua dedizione al volontariato nella Croce Rossa e in Libera testimonia un impegno che va ben oltre l'orario di lavoro.
Edoardo Bortolotto, 50 anni, avvocato con più di vent'anni di esperienza, ha portato avanti concrete battaglie per l'ambiente e i diritti dei lavoratori. Candidato sindaco del Movimento 5 Stelle a Vicenza, ha dimostrato di saper lottare contro l'inquinamento industriale, la devastazione ambientale, la speculazione edilizia. La sua competenza legale diventa uno strumento potentissimo per scrivere norme che proteggano davvero
il nostro territorio. A completare la squadra ci sono professionisti che incarnano le sfide decisive del Veneto contemporaneo. Michela Chimetto, 56 anni, esperta amministrativa con formazione in scienze politiche, unisce competenza gestionale e sensibilità per i temi globali che toccano l'economia locale. Aurelio Marini, 67 anni, libero professionista della comunicazione tecnica, sceglie ancora una volta di impegnarsi per il territorio, coniugando sviluppo economico e sostenibilità ambientale. Francesca Stammelluti, 54 anni, assistente domiciliare dedita ai più vulnerabili, è voce della solidarietà e della coesione sociale che tiene insieme le comunità. Igor Ferrazzi, 49 anni, tecnico delle energie rinnovabili, lavora ogni giorno per la transizione verde e per bollette più leggere nelle case delle famiglie venete. “Noi del M5S – ci dicono i candidati vicentini pentastellati al Consiglio regionale del Veneto - non rappresentiamo la politica tradizionale. Siamo donne e uomini che investono la loro reputazione, il loro tempo, la loro competenza per servire la comunità. Portiamo visione concreta di un futuro dove l'ambiente non è sacrificato all'economia, dove i giovani trovano opportunità reali, dove le piccole imprese respirano, dove gli anziani e i fragili non sono abbandonati. Il 23 e 24 novembre, il Veneto ha l'occasione di scegliere un'altra strada. Di voltare pagina. Di scegliere una regione dove la politica torna ad essere quello che dovrebbe essere sempre: servizio consapevole, competente e solidale alla comunità”. Per loro, quindi,m la scelta, è ovvia: “Voltare pagina votando Movimento 5 stelle!”
Candidatipentastellaticol senatoreCappelletti
I 5 Stelle ina marcia verso la RegioneVeneto
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Luigi Creazzo
Il Veneto deve tornare comunità
la sfida socialista di Luigi Creazzo con Uniti per Manildo Presidente
Progettista, creativo e riformista, Creazzo rappresenta l’anima socialista della lista Uniti per Manildo Presidente. «Dopo quindici anni di governo della destra servono strategie di crescita, non tattiche di sopravvivenza. In gioco c’è il futuro di chi lavora, studia e costruisce ogni giorno questa regione».
Luigi “Gigi” Creazzo, libero professionista, studi alla NABA (Nuova Accademia delle Belle Arti) di Milano, città che, dopo la sua nascita a Vicenza, è stata fino ai trent’anni sua residenza e luogo di lavoro e formazione in teatro, allestimenti, progetti urbani e committenze private; è stato residente nell’Ovest vicentino dai primi anni ’90 e dal 2022 nella città del Palladio, in particolare sintonia con la sua formazione.
Ha fatto parte della Costituente Nazionale del Partito Democratico nel 2007 con Veltroni, ricoprendo incarichi provinciali e regionali, candidato alla Camera dei Deputati nel 2008 e nel 2013, Luigi Creazzo è sempre stato riconosciuto durante gli anni di militanza come punto di riferimento di una sinistra socialdemocratica e riformista, con un carattere umanista e libertario; oggi è iscritto al Partito Socialista e si candida in queste elezioni con la Lista “Uniti per Manildo Presidente”.
Perché?
“Perché l’ambito regionale è il luogo dove vengono prese molte decisioni che incidono sulla nostra vita di ogni giorno, dalla Sanità alla Scuola, dal futuro del nostro territorio urbano, agricolo e naturale allo sviluppo economico e infrastrutturale.
Il programma di Giovanni Manildo individua con realismo e slancio riformista un’idea di Ve-
neto che non è sterile contrapposizione di parte ma senso di comunità, condivisione tra le generazioni, con un programma articolato su semplici e qualificate proposte.
La Lista “Uniti per Manildo” nasce come naturale aggregazione di sensibilità politiche riformiste, laiche, liberali e socialiste intorno alla figura di Giovanni Manildo e alle sue idee di governo del territorio veneto.”
Un compito non facile nella roccaforte del Presidente Zaia, non crede?
“Alle ultime elezioni il Presidente Zaia prese il 76% dei voti espressi, un plebiscito. Disconoscerne la portata e la responsabilità sarebbe oltre che stupido, improvvido; il centrosinistra non può negare questa evidenza ma Giovanni Manildo sta dimostrando di anteporre le proposte e i fatti alle chiacchiere inconcludenti, in una civile confronto di competenze ed idee. Tuttavia…”
Tuttavia, quali critiche si sente di fare ai passati cinque anni?
“Altro che cinque anni, sono almeno quindici e comunque dico che un diverso approccio alle politiche sociali e alle emergenze generazionali, di pianificazione territoriale e tutela ambientale sarebbero una grande spinta verso un progresso economico, culturale e soprattutto sociale. L’alternativa è credibile perché promuove con spirito costruttivo più visioni strategiche di crescita
e rigenerazione. Ecco, non sempre ci si è mossi con strategia ma con tattiche utili a risolvere il presente, che però non sempre coincide con il futuro, anche quello prossimo.”
Quali sono le emergenze nel Veneto di oggi?
“Quelle che affliggono la maggior parte del nostro territorio nazionale con diversi gradi di gravità: famiglie e anziani fragili, politiche rivolte alle giovani generazioni, ambiente e salute, territorio troppo spesso umiliato, salari inadeguati, senso d’insicurezza… Dovessi evidenziarne solo due indicherei il tema infrastrutturale con le sue implicazioni di pianificazione territoriale e il problema della sicurezza sul lavoro sempre più drammatico nelle nostre province.”
Cosa si sente di dire ai nostri lettori e agli elettori?
“Il Veneto demograficamente decresce a comprova di una regione che ha bisogno di nuove energie e nuovi stimoli; stiamo affrontando tempi a dir poco difficili e sfide tecnologiche, geopolitiche e sociali che cambieranno il nostro mondo, il prossimo Consiglio regionale dovrà essere composto da donne e uomini consapevoli della complessità della sfida sempre più globale, chiamati a ben amministrare per tutti i veneti di oggi e del futuro.
Gli slogan da una parte e dall’altra non bastano più.”
GiovanniManildoconLuigiCreazzo
Reduce da uno dei suoi frequenti viaggi a Roma, dove ha incontrato i vertici di Fratelli d’Italia e rafforzato i rapporti con Arianna Meloni, sorella della presidente del Consiglio, Francesco Rucco parla con tono pacato ma determinato. È il linguaggio di chi, nella maturità, ha vissuto la politica come amministrazione concreta e non di contrapposizione. Oggi Rucco si prepara a una nuova sfida: la candidatura alle elezioni regionali del Veneto.
“Ho accettato questa sfida – spiega Rucco – perché credo che l’esperienza maturata da sindaco di una città chiave del Veneto e presidente di una Provincia fortemente sviluppata possa essere messa al servizio dell’intera comunità regionale. Dopo anni di lavoro sul campo, so bene quali sono i problemi reali e quanto serva un approccio pragmatico per risolverli”. Rucco individua nella sanità pubblica la priorità assoluta. “Non possiamo più permetterci liste d’attesa infinite, pronto soccorso congestionati e ospedali che mancano di personale. Il sistema va riorganizzato: servono investimenti nelle strutture, nella digitalizzazione e nella medicina territoriale. È tempo di una gestione che metta al centro la persona, non la burocrazia.”
Francesco Rucco
Avvocato, amministratore e uomo di famiglia Francesco Rucco:
“
Dal allapragmatismo visione, voglio portare in Regione l’esperienza di chi sa amministrare
Un altro tema che considera decisivo è quello delle case di riposo e del sistema IPAB, di cui in passato è stato anche membro del Cda:
“Ho visto da vicino, da sindaco, la crisi delle strutture e la fatica degli operatori. Bisogna riscrivere la normativa regionale, creando un fondo stabile per la sostenibilità dei servizi e la dignità degli ospiti. È un dovere morale prima che politico.”
Da sindaco e presidente della Provincia, Rucco ha vissuto le fragilità del territorio e le emergenze ambientali: “Occorre una manutenzione costante e preventiva del territorio – afferma –. I nostri fiumi e corsi d’acqua devono tornare ad essere una risorsa, non una minaccia. Serve un piano regionale per la prevenzione del dissesto idrogeologico e per la cura del paesaggio. È un investimento in sicurezza, ma anche in bellezza e attrattività.”
Alla voce sicurezza urbana, il tono si fa deciso ma mai aggressivo: “Io credo nella sicurezza come tutela reciproca, non come slogan. Le bodycam per la polizia locale, ad esempio, servono a garantire trasparenza e fiducia, sia per gli agenti sia per i cittadini. La sicurezza è un diritto, ma anche un patto di responsabilità.” Nel corso della conversazione, emerge la cifra politica di Rucco: un centrode-
stra sobrio, istituzionale, capace di costruire più che dividere: “Mi riconosco pienamente nei valori di Fratelli d’Italia e nel progetto che Giorgia e Arianna Meloni stanno portando avanti con tutto il partito di maggioranza. Ma il mio stile resta quello di sempre: dialogo, concretezza e rispetto, non slogan.”
Avvocato di professione, cattolico praticante, padre e marito, Rucco rivendica la dimensione umana della sua vita: “La famiglia è la mia forza. Mi aiuta a restare ancorato alla realtà, a non perdere mai di vista le persone dietro i numeri e le scelte politiche. Fare politica non significa vivere di potere, ma mettersi a disposizione. È questo lo spirito con cui mi candido: portare in Regione il senso del dovere e dell’ascolto che ho maturato negli anni.”
La chiusura, da uomo di centrodestra, ma prima di tutto di equilibrio e di sostanza, è un invito alla responsabilità condivisa: “Il Veneto, in cui Vicenza e il Vicentino devono contare di più, è una terra straordinaria, ma ha bisogno di una nuova stagione. Abbiamo la forza, le idee e la gente giusta per farlo. Io porterò la mia esperienza amministrativa, la mia competenza professionale e il mio equilibrio umano. Non servono urla, servono soluzioni.”
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Daniele Bernardini
Daniele Bernardini, un vicentino (Pomo) d’oro, che fa scuola (del Lunedì)
Uomo del dire poco e fare tanto, forte sostenitore del servizio pubblico ed esperto di bioetica, l’ex primario di gastroenterologia del San Bortolo, smesso il camice bianco ha preferito il volontariato alla libera professione. E non se ne pente. Discreto e riservato, lo abbiamo stanato per indagare cuore grande e giornate piene di chi crede fermamente in tutto quello che fa e si guarda bene dal vantarsene.
Almeno un danno, suo malgrado, la Fornero ha evitato di farlo… Prima di stravolgere il mondo pensionistico con la sua riforma, ha dato il tempo al dottor Daniele Bernardini di ritirarsi dal lavoro cui fino ad allora si era dedicato anima e corpo e permettergli quindi di dedicarsi, sempre anima e corpo, a chi ha bisogno, anche una volta deposto il camice. Non che come medico, con la sua preparazione e la sua fedeltà al servizio pubblico, non fosse un professionista stimato dal ruolo determinante, anzi. Ma quello che fa ora è non solo utile,
ma colorato, profumato, discreto, vivo… in una parola, bellissimo.
Siamo andati a trovarlo in quella che da anni ormai è la sua seconda casa. Niente lunghi corridoi che sanno di disinfettante, ambulatori angusti e facce intimorite, ma campi a perdita d’occhio, serre e le pareti in mattoni cariche d’atmosfera di un antico casale del Seicento. E, sparsi qua e là, i sorrisi dei “suoi” ragazzi, i giovani con disabilità intellettiva o fisica lieve e media che sono l’anima della Fattoria Il PomoDoro di Bolzano Vicentino, di cui raccontiamo in un altro articolo e di cui Bernardini è presidente (e tra i fondatori).
Dottore, lei che fa tanto per Vicenza, quanto è vicentino?
Totalmente. Sono nato, 74 anni fa, cresciuto e vissuto sempre a Vicenza e anche la mia carriera medica si è svolta interamente nella mia città. Mi sono occupato di igiene e medicina preventiva e specializzato in gastroenterologia, di cui sono stato primario al San Bortolo dal 1994 al 2010. E tengo a specificare che ho sempre creduto, e ancora credo, nel servizio pubblico e ho scelto di non praticare mai la libera professione, né durante gli anni di lavoro né dopo la pensione.
Lei ha tutto fuorché l’aria del pensionato. Non l’ho conosciuta ai tempi del camice bianco, ma mi pare perfettamente a suo agio qui, all’aria aperta, immerso (e sommerso) in quella che è pur sempre un’attività (dolcemente) terapeutica… Sono andato in pensione a 60 anni, un soffio prima della riforma Fornero e, escludendo appunto l’opzione assai comune tra i colleghi di continuare a esercitare privatamente, ho trovato subito, in modo naturale, il modo di dedicarmi ad altro (ndr: gli altri). L’allora sindaco Variati mi propose di entrare nel consiglio di amministrazione dell’Ipab (Istituto pubblico di assistenza e beneficenza) e ne assunsi poi la vicepresidenza, quando presidente era Giovanni Rolando. In seguito, sotto la presidenza Tur-
ra di Ipab, assunsi la presidenza della Rsa di Parco Città. Ma non sono tanto le cariche a importare, almeno per me, ma è il fine ultimo, il servizio pubblico appunto. Poi da cosa nasce cosa.
Ecco appunto, come è nata l’associazione onlus il PomoDoro?
Venne da noi, nel 2012, un gruppo di genitori di ragazzi con disabilità a chiedere che venisse messo a loro disposizione un luogo a loro misura, dove riunirsi, aiutare a crescere e proteggere i loro figli. Con Giovanni Rolando, l’avvocato Gianni Cristofari, Vanna Santi (allora preside dell’Istituto Montagna) e l’avvocato Giovanni Gozzi, rompendo gli schemi, decidemmo di concedere in comodato d’uso l’edificio, con annesso fondo agricolo, di proprietà dell’Ipab ma in disuso, dove mi sta intervistando.
Come è passato lei dalle scartoffie alla fattoria?
Semplice: venni a sbirciare come andavano le cose, mi fermai come volontario e da allora non me ne sono andato più. Entrai nel direttivo dell’associazione per dare una mano. Ma siccome queste realtà sono meravigliose ma non immuni dal tritacarne della burocrazia, delle cartacce e soprattutto del budget, a seguito di alcuni cambiamenti all’interno dell’associazione, nel 2020, Il PomoDoro da onlus passò ad Aps (associazione di
promozione sociale) e dovemmo aprire anche una impresa sociale, per questioni di ordine puramente fiscale. Oggi presidenti dell’Aps e della srl siamo rispettivamente Rosanna Rossi e io. E nuovi cambiamenti sono in arrivo, ma non voglio spoilerare nulla.
Chi lavora al PomoDoro?
Oggi abbiamo 13 dipendenti e poi i nostri ragazzi, una ventina circa, a turnazione. Sono giovani fuori dall’obbligo scolastico, quindi dai 16 anni in su, più che disabili, diversamente abili. Si tratta di quella bolla, insomma, di persone troppo abili per un centro diurno, ma non abbastanza per essere “accettati” dal mondo del lavoro. La loro capacità di relazione è enorme, proporzionale alla soddisfazione che ci dà vederli sereni e appagati dai singoli ruoli che affidiamo loro o in cui li affianchiamo. Dalla coltivazione alla raccolta, dalla mondazione degli ortaggi alla vendita in bottega, fino al servizio di sala nel nostro ristorante.
Non è solo una questione di lavoro, di muovere e sporcare le mani, vero? Assolutamente no, è molto di più. È inclusione, autostima, realizzazione, stimolo, crescita, responsabilizzazione e anche disciplina. Qui i ragazzi trovano non solo un contesto lavorativo, ma imparano a sviluppare il rapporto con l’altro (ndr: loro che sono sempre considerati “gli altri”) e le regole della vita in comune. E questo non con lavagne, rimproveri o imposizioni, ma “semplicemente” con le attività di agricoltura sociale, respirando aria buona e soprattutto libera. Dico sempre che da noi le porte sono sempre aperte, ma non scappa mai nessuno.
E se nessuno scappa mai, come fate ad accogliere tutti? Avete un numero chiuso?
No, perché in realtà i ragazzi si alternano, sia a livello di turni, sia di esperienze. Vanno e vengono. La disabilità in realtà non esiste, ma è la risultante del rapporto tra chi ha una menomazione e il mondo in cui è costretto a vivere. Ciononostante, per una presa di coscienza della nostra inadeguatezza, non accogliamo chi ha dipendenze, patologie psichiatriche o un autismo grave. Il nostro
non vuole essere un rifiuto, ma cerchiamo di orientarli verso realtà competenti e in grado di essere loro davvero utili.
Sembra una favola ma, non diciamolo troppo forte, le favole a volte si avverano…
Siamo orgogliosi del nostro progetto, e dei nostri ragazzi, ma le difficoltà sono davvero tante. Portarlo avanti è molto impegnativo. Detto questo, io sono sereno e tranquillo e ogni giorno torno qui con entusiasmo.
Una scuola di vita. Ma c’è un’altra scuola per cui, in barba alla sua riservatezza, dobbiamo dirle grazie. Il merito non è mio, è un progetto che viene da lontano, ma sono felice di farne parte. Si chiama la Scuola del Lunedì ed è l’eredità (o il recupero) del diritto allo studio che nel 1974 prevedeva un monte di 150 ore l’anno di lezione per gli operai che non avevano avuto modo di conseguire la terza media. Anche dopo, a metà degli anni 80, quando ormai il diploma delle medie era più diffuso, il progetto è proseguito sotto forma di corsi monografici di approfondimento. Sul finire del decennio, la mannaia: niente più fondi da parte del Ministero. Ma don Carlo Gastaldello, cappellano ai Ferrovieri, non si arrende e nel 1989 dà vita all’avventura della Scuola del Lunedì, appunto, rivolta a lavoratori e pensionati. Da 36 anni l’esperimento, patrocinato dal Comune, continua,
grazie a insegnanti e professionisti volontari. Gestita da un gruppo spontaneo di cittadini, ogni settimana, dalle 15 alle 17, propone incontri a tema presso la Biblioteca La Locomotiva, sempre ai Ferrovieri, aperti a tutti (adulti e senior). Dopo la morte nel 2020 di mio fratello Giuseppe, che ne era coordinatore responsabile, ho sentito di assumere il suo ruolo, che svolgo coadiuvato da un
bel gruppo di persone. Oggi i corsi, che sono a ingresso libero e gratuito, vengono sempre più tenuti da relatori di calibro, su vari temi culturali, sociali, di attualità ed etici. Neanche a dirlo, questi ultimi sono i miei preferiti. Sempre durante la presidenza Turra di Ipab, ho fondato il Comitato Etico interno alle case di riposo (ndr: poi “scaduto”, o fatto scadere, nel dopo-Covid) che operava in collegamento con il Comitato Etico per la Pratica Clinica della Ulss, di cui sono stato membro dal 2005 al 2015. Ho anche scritto molto di bioetica e protocolli comportamentali.
Allora le chiedo, in questo luogo pieno di vita e di prospettive, che cosa pensa del fine vita?
È un argomento molto delicato e ahinoi sempre più attuale. Devo confessare che prima ero molto più critico, ma la coscienza deve contemplare anche una rivalutazione. Infatti da tempo collaboro con l'Associazione Luca Coscioni, nel senso che partecipo a diversi convegni e incontri sul tema nel territorio vicentino e porto la mia esperienza per sensibilizzare su una questione che non può più essere ignorata.
Fattoria Il PomoDoro: a Bolzano Vicentino sostenibilità ambientale e inclusione sociale.
In un casolare del Seicento, circondato dai campi, va in scena una favolosa realtà. A nutrire ortaggi e frutta biologici sono la dedizione e la passione di ragazzi disabili, che qui trovano la propria dimensione e si sentono realizzati, e degli operatori e volontari che li accompagnano.
Oltre all’attività agricola, vendita diretta e tramite punti di acquisto solidale e un ristorante di campagna che sa sorprendere, non solo i palati.
di F. Z.
Adoro la realtà e la mission dell’ormai celebre PizzAut e ritengo che Nico Acampora e i suoi ragazzi autistici (che di recente sono approdati persino a Bruxelles per cucinare la loro pizza al Parlamento Europeo) meritino tutto il successo, gli apprezzamenti, la fama e la pubblicità di cui godono dopo tanti sacrifici. Come al solito, però, dovremmo imparare a guardare intorno a noi, a sbirciare dove non luccicano i riflettori, ad ascoltare anche quando i media non urlano… Perché in alcuni casi, l’erba del vicino (inteso come non lontano) è davvero più verde.
Ed è proprio una distesa di prati verdissimi, orlati di alberi e punteggiati da qualche serra, compresa quella per l’imbianchimento del radicchio, ad accogliere chi oltrepassa il cancello della Fattoria Il Pomodoro, a Bolzano Vicentino. Qui non si coltivano solo ortaggi e frutta bio, ma vera inclusione, condivisione e… libertà.
L’impagabile senso di libertà, oltre che di autonomia nei propri singoli ruoli,
che provano i ragazzi affetti da disabilità intellettiva o fisica lieve (o al massimo media, per gli altri occorre una risposta specializzata) coinvolti ogni giorno nelle attività di quello che è molto più di un luogo di lavoro. Il periodo dell’obbligo scolastico, con tutte le restrizioni e i disagi che poteva comportare, è finito e il rischio di essere parcheggiati in un centro diurno -per il quale sono troppo abili, in realtà- è scongiurato. Qui si lavora tutti insieme, all’aria aperta e con le porte aperte, in tutti i sensi. Eppure nessuno se ne va mai… Nato nel 2009 da un’associazione onlus (oggi Aps) di genitori di ragazzi disabili e dal 2023 affiancata per motivi fiscali da una impresa sociale srl, Il Pomodoro gestisce appunto una fattoria con annesso fondo agricolo messa a disposizione da Ipab Vicenza. Qui, all’ombra di un casale secentesco, in questo momento soggetto a opere di consolidamento ma non per questo meno affascinante, oggi si concretizza un esempio sereno e gradevole di comunità aperta, secondo un preciso progetto di multifunzionalità di attività e servizi -coltivazione (biologica/ organica), raccolta, vendita, lavorazione
e ristorazione- che fonde inclusione sociale e sostenibilità ambientale. In un ambiente lavorativo a loro misura, in una relazione “alla pari”, in un contesto dove la menomazione non fa
paura, i cosiddetti soggetti fragili non sembrano nemmeno più così fragili, ma felici, al loro posto. Realizzati, insomma. Anche se, come per tutti, c’è sempre da imparare. E questo li stimola. Se
possono essere se stessi, pur nelle regole della convivenza e della comunità, forse, credo imparino a pensare, possono essere (e fare) qualsiasi cosa. Certamente, ora come ora, possono lavorare nei campi, selezionare gli ortaggi e privarli dello scarto, venderli in bottega senza litigare con la cassa elettronica, trasformarli in piatti golosi in cucina e infine servirli nel ristorante. E non è cosa da poco, perché la difficoltà non è tanto fisica, ma emotiva e relazionale: avere a che fare con i clienti (beh, diciamocelo: non facile per nessuno), contenersi negli exploit, relazionarsi con persone esterne al loro mondo, rispettare i protocolli… Sì, perché nulla è improvvisato nel progetto e operatori e volontari che affiancano i ragazzi seguono precisi protocolli educativi ed etici. Insomma, si fa del bene, ma fatto bene. Con solide fondamenta anche in ambito medico e sanitario, con il supporto della Ulss e con scambi attivi con il mondo della cultura, della scuola, della pubblica
amministrazione, dell’associazionismo, dell’agricoltura sostenibile, della valorizzazione delle risorse territoriali e del recupero delle tradizioni locali.
Un’impresa dal valore enorme, eppure -come spesso accade- a conti fatti, i conti tornano a malapena. E, ci perdoni Machiavelli, al fine non corrispondono i mezzi (economici).
Il rapporto con la natura e quelli interpersonali, il tripudio di profumi e i colori nelle cassette di legno, i mattoni sapienti ma stanchi della fattoria, l’autostima che cresce nei ragazzi come le erbe aromatiche nel campo e persino il loro sorriso sempre al pallottoliere finiscono, senza pietà. I finanziamenti pubblici e le tante iniziative (eventi, matrimoni, corsi, laboratori, orto didattico e terapeutico ecc.) rischiano di non bastare mai e comunque quello che germoglia entro i confini de Il PomoDoro merita davvero di più.
Allora cominciamo tutti, soprattutto ora che si avvicinano le feste, a guarda-
re il giardino (e l’orto) del vicino, senza invidia ma con ammirazione e consapevolezza. Facciamo del bene a chi fa bene ma soprattutto a noi stessi: facciamo la spesa fresca, sana, di stagione e a km 0 (si può anche ordinare online e ritirarla in punti specifici della città, ma l’esperienza in bottega tra vecchi mobili, lavagne e scaffali in legno è poesia), pensiamo a cesti-regalo colmi di buonissime conserve, prenotiamo un tavolo (o regaliamo un buono) al ristorante di campagna La Frasca, inserito in diverse autorevoli guide gastronomiche e aperto da giovedì a sabato solo a cena, il sabato e la domenica a pranzo. Poi, volendo, si può pensare anche di affittare la suggestiva e restaurata ex-stalla per i nostri eventi, di fare una erogazione liberale o di destinare il 5x1000. O proporsi come volontari. Tutte le info su www.ilpomodorovi.org.
La prima cosa da fare, comunque, è andare a dare un’occhiata. Il resto verrà da sé. Garantito.
Giorgio Langella: “Una storia disonesta”, ma di dignità e coraggio. Il Teatro di Vicenza costruito anche con la lotta
Intervista all’autore del libro dedicato a Toni Toniolo e agli operai del Teatro di Vicenza
di Giovanni Coviello
Nel suo libro Giorgio Langella, già autore di “Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante” e di “Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori”, ricostruisce la vertenza del 2005 degli operai della COGI, impegnati nel cantiere del Teatro Comunale di Vicenza. È il racconto dello sfruttamento di quei lavoratori e della loro lotta per ottenere i diritti negati. Il libro è dedicato a Antonio “Toni” Toniolo, storico segretario della FILLEA CGIL vicentina, simbolo di una battaglia per la dignità del lavoro che parla ancora all’Italia di oggi.
Giorgio Langella, nel titolo del tuo libro c’è già un messaggio forte. Cosa rappresenta “Una storia disonesta”?
Il titolo nasce da un ossimoro: una vicenda nata “disonesta” per il modo in cui furono trattati i lavoratori ma che poi è diventata profondamente onesta grazie alla determinazione con la quale è stata condotta la lotta. Nel libro, che spero possa anche rappresentare la concitazione di quelle settimane, ho voluto raccontare la vertenza del 2005 al cantiere del Teatro Comunale di Vicenza, dove una ventina di operai, quasi tutti immigrati, si ritrovarono senza salario e senza diritti a causa di un sistema irresponsabile. Quella storia, apparentemente
locale, parla in realtà di un’Italia intera: della fragilità del lavoro, del sistema “appalti e subappalti” imperante allora e adesso, della forza collettiva che può vincere, della memoria che deve resistere.
Il libro è dedicato a Toni Toniolo, figura centrale nella vertenza. Chi era e cosa rappresentava per te?
Toni è stato un sindacalista vero. All'epoca dei fatti era segretario generale della FILLEA-CGIL di Vicenza. Toni è stato, sarebbe più giusto dire “è” perché per me è ancora vivo, uno di quelli che non hanno mai vissuto il sindacato come mestiere, ma come missione. Era incapace di non agire di fronte ai soprusi. Aveva un linguaggio diretto, schietto, pieno di passione e ironia. Per mesi fu al fianco dei lavoratori del teatro, giorno e notte, davanti ai fuochi del presidio e, quando tutto sembrava perduto, trovava sempre le parole e le azioni giuste per ricominciare.
Il libro è anche un atto di gratitudine: a Toni e a tutti quelli che, come lui, hanno fatto del
GiorgioLangella
MorganPrebianca,ToniToniolo, Oscar Mancini
lavoro una causa di giustizia sociale. Non a caso, il volume si apre con una dedica semplice: “A chi ha ancora la forza di lottare”.
Cosa accadde davvero nel 2005 al cantiere del Teatro Comunale?
Gli operai furono licenziati “a voce” dopo aver scioperato perché chiedevano il pagamento di stipendi arretrati. Erano quasi tutti immigrati, e molti rischiavano di perdere anche il permesso di soggiorno o la possibilità del ricongiungimento familiare. Erano sfruttati, lavoravano, di fatto, sotto ricatto costante ma decisero di non piegarsi. La lotta cominciò il 20 gennaio 2005, in pieno inverno, tra freddo, indifferenza istituzionale e isolamento politico.
Grazie al lavoro della CGIL, alla solidarietà di studenti e cittadini e, lasciatemelo dire, alla presenza costante dei comunisti italiani, riuscirono a farsi ascoltare. Dopo settimane di presidi e trattative, furono reintegrati, ottennero i salari dovuti, la cassa integrazione e nuove assunzioni. Fu l'esempio di una vittoria, forse per alcuni, simbolica ma concreta: la dimostrazione che anche i più deboli possono vincere se restano uniti.
Oscar Mancini, all’epoca segretario generale della CGIL Vicenza, nella prefazione, scrive che “la memoria è un’arma”. È questo il senso del tuo libro?
Sì. La memoria è un antidoto all’indifferenza. Se non raccontiamo queste storie, esse diventano invisibili, “mai state”, sostanzialmente inutili. Viviamo in un tempo in cui tutto si consuma in un istante, dove l'uso sconsiderato e acritico di internet ci spinge a passare da un contenuto all’altro senza fermarci a capire. Ma le lotte, i volti, le voci dei lavoratori non sono una delle tante notizie (vere o false) che si trovano nella rete, fanno parte della nostra storia collettiva, sono la realtà.
Come diceva Toni, “la lotta per il lavoro non è un divertimento, ma è l’unico modo per ottenere il giusto, perché nessuno regalerà mai
Toni Toniolo con i lavoratori dell'Est ecolleghisindacalisti
niente ai lavoratori”. Questo libro nasce per rimettere al centro quella verità.
Nel volume dedichi spazio anche al tema dei subappalti, un problema ancora attuale. Purtroppo sì. Quella del teatro di Vicenza non è una vicenda isolata: è un paradigma. Oggi, vent’anni dopo, nei cantieri italiani e veneti la situazione non è migliorata, anzi. Il sistema degli appalti e subappalti continua a scaricare i rischi verso il basso: stipendi non pagati, sicurezza violata, lavoratori ricattabili. Cause reali delle tragedie che si consumano nei luoghi di lavoro, delle malattie, degli infortuni, dei morti che sono in costante crescita in un paese, come il nostro, che si considera “civile”. Pensiamo al crollo del cantiere Esselunga di Firenze nel 2024, o al caso del Villaggio Americano di Vicenza nel 2025, dove operai egiziani sono saliti su una gru dopo mesi senza salario. È la stessa storia che si ripete, con nuovi nomi e nuovi lutti.
La verità è che la “responsabilità solidale” dei committenti, prevista per legge, resta spesso un principio solo sulla carta. Servono leggi più efficaci, ma soprattutto una cultura del lavoro diversa, fondata sulla dignità, non sul ribasso. La recente approvazione del decreto sicurezza sul lavoro non cambierà la situazione. È solamente un pannicello neppure caldo che non serve se non alla propaganda. Pensiamo forse che la questione sicurezza sul lavoro si possa risolvere con l'assunzione di poche centinaia di ispettori e carabinieri o si debba risolvere con un cambiamento radicale del sistema?
Hai scritto che “la storia del teatro è una storia di dignità”. Cosa intendi?
Significa che quell’edificio, oggi simbolo della cultura cittadina e non solo, poggia letteralmente sulla fatica di uomini che volevano essere ri-
spettati. Ogni mattone, ogni trave, ogni colata di cemento porta le impronte di chi ha lottato per essere riconosciuto come persona, non come un numero o come un ingranaggio. Per questo ho voluto raccontare quella vicenda non come un ricordo nostalgico, ma come un monito: dietro ogni opera, grande o piccola, ci sono lavoratori in carne e ossa, e la vera qualità di un’opera specie se pubblica si misura anche da come sono stati trattati.
Vent’anni dopo, che insegnamento possiamo trarre da quella vertenza?
Che nulla è davvero cambiato ma anche che nulla è perduto se si conserva la memoria e la volontà di cambiare. I lavoratori del teatro di Vicenza hanno dimostrato che l’ingiustizia può essere sconfitta, che anche da un’“offesa” può nascere un riscatto collettivo.
Oggi, in un tempo di disillusione e precarietà, quella lezione vale ancora: non bisogna accettare come inevitabile ciò che è sbagliato. L’onestà della lotta, anche se scomoda, resta la via più alta per restare umani. Ecco, il messaggio che vorrei che questo libro regalasse ai delusi e ai rassegnati è che si può vincere ma che bisogna lottare.
E cosa direbbe oggi Toni Toniolo di fronte a questo libro?
Ma, penso che sarebbe soddisfatto. Credo sorriderebbe, con quel suo modo ruvido e affettuoso allo stesso tempo. E forse direbbe, dopo averci mandato a quel paese: “Bravi, ma adesso torniamo a lavorare per chi ha bisogno.”
Perché Toni era così: un combattente, ma anche un uomo semplice, capace di unire cuore e rigore. Il suo esempio è la spina dorsale di questo libro. E la sua voce continua a ricordarci che la giustizia non è un privilegio: è un diritto che dobbiamo conquistare, ogni giorno.
Una storia disonesta diGiorgioLangella
Prefazione di Oscar Mancini
Contributi diGiancarloPuggioni e Riccardo Martin
Editore:L’altrastampasrlVicenza,2025
Collana: Storia e storie
Dedicato alla memoria di Toni Toniolo, segretarioFILLEA-CGILVicenza
Pagine112,14euro
Crac BPVI: Miatello “punta” i Liquidatori sui presunti conti dormienti della banca a loro ignoti. Senatrice Stefani: “LCA spieghi”
di Andrea Polizzo
L’audizione il 30 ottobre scorso dei Liquidatori della Banca Popolare di Vicenza (BPVI) presso la Camera in commissione Bicamerale e di inchiesta sulle Banche, ha evidenziato un quadro definito “allarmante” per i soci e i risparmiatori vittime del crac. A sostenerlo è Patrizio Miatello, Presidente del Comitato TASCA MIA – Comitato Nazionale Fondo Ristoro Integrale e dell’associazione Ezzelino III da Onara, il quale interviene sull’esito della seduta. Se i Liquidatori della BPVI hanno confermato che non resteranno fondi disponibili per i risparmiatori e Miatello lamenta la scarsa, a dir poco, attenzione sulla richiesta di chiarimenti avanzata nell’audizione dalla senatrice Erika Stefani in merito ai 334 conti dormienti “della BPVi“, che il Comitato avrebbe individuato e segnalato a partire da marzo 2023 (ne scrivemmo qui l’11 marzo stesso). In risposta, il professor Giustino Di Cecco, in rappresentanza della liquidazione, ha dichiarato: “Qui penso ci sia un equivoco. Abbiamo ricevuto delle PEC sempre dallo stesso soggetto (Miatello, ndr), alle quali abbiamo risposto, che ci segnalava questi conti dormienti, che non sono della banca ma saranno dei clienti, non della banca”. Patrizio Miatello, tuttavia, respinge con forza l’affermazione e precisa che la Liquidazione BPVI, alla data odierna, non avrebbe mai risposto alle loro PEC. Inoltre, il Comitato afferma che i conti dormienti da loro ritrovati, come risulterebbe dall’elenco e dal verbale di ritrovamento, sono intestati a Banca Popo-
lare di Vicenza e non a clienti della banca e sono tutt’ora attivi (pur non conoscendosene l’ammontare complessivo) nel senso che, ci ribadisce al telefono Miatello, “se i conti BPVi sono stati conferiti al MEF in quanto dormienti, gli stessi posso essere reclamati dai liquidatori nell’arco di 20 anni dalla loro… dormienza“.
Per Miatello le risposte fornite dal commissario Di Cecco in rappresentanza dei Liquidatori, risulterebbero, pertanto, “inadeguate e non soddisfacenti”. Il Comitato Ezzelino TASCA MIA ha espresso alla Commissione la piena disponibilità a essere audito per presentare ufficialmente l’elenco e la documentazione completa relativa a questi conti ritenendoli recuperabili a favore della LCA e, quindi, dei creditori.
Sulla stessa lunghezza d’onda appare Erika Stefani che, oltre a quanto dettoci al telefono in cui ribadisce la sua domanda sui “conti della BPVi” e non di suoi clienti, dichiara anche: “il 30 ottobre ho partecipato, come componente, alla seduta di commissione inchiesta banche al Senato nel corso della
quale sono state fatte, sia da me che dal Presidente Zanettin, incalzanti domande ai commissari liquidatori. Alla fine, i commissari hanno lapidariamente concluso che i denari che saranno recuperati dalla liquidazione saranno destinati a coprire i crediti in prededuzione, fra cui Banca Intesa, ed i privilegiati lasciando in coda, e si teme insoddisfatti, i numerosi creditori chirografi, fra cui i risparmiatori”.
Se le spiegazioni che la senatrice chiede “sulle ragioni per cui Banca Intesa (che ha acquistato BPVi per 50 centesimi) sia creditore da preferirsi rispetto a tutti gli altri e per quale somma” sono nel famigerato DL 99, che questo dispose, Erika Stefani si è impegnata “affinché la commissione compia quanto nei suoi poteri per ottenere i chiarimenti e le spiegazioni che i risparmiatori truffati e le associazioni che li rappresentano chiedono a gran voce e per fare sì che le procedure di liquidazione siano rispettose dei diritti di coloro che si sono visti sfumare i risparmi di una vita”.
E per Miatello è “inaccettabile” che i risparmiatori non ricevano ancora risposte concrete, mentre le banche in liquidazione continuano a sfuggire alle proprie responsabilità. Il Presidente del Comitato TASCA MIA ribadisce con forza che la tutela dei risparmiatori vittime del crac BPVi deve essere ripristinata al 100% attraverso una nuova legge per il Fondo Ristoro Integrale. Tale Fondo, secondo la proposta del Comitato, dovrebbe essere finanziato anche con gli oltre 3 miliardi di euro dei conti dormienti prescritti nel frattempo.
Patrizio Miatello
Gps dichiara rischio di default: “la colpa è di… Vicenza”
La società della sosta chiede tutele al tribunale di Piacenza addebitando la sua crisi al flop della gestione dei parcheggi vicentini con 7 milioni di debiti verso il Comune che, forse, ora mai li incasserà
stione del servizio di sosta a Vicenza. Secondo quanto riportato a ottobre da La Libertà di Piacenza, Gps ha chiuso il 2022 con una perdita dell’8%, già ben prima della crisi vicentina e dell’asseganzione del bando, e prevede di recuperare nei prossimi anni, con un margine operativo lordo stimato al 7,8% per il 2024. Ma i dati finanziari, pur segnando una parziale ripresa, non cancellano le difficoltà: la crisi di liquidità è stata aggravata dalla controversia con il Comune di Vicenza, che le contesta il mancato pagamento di circa 7 milioni di euro di canoni.
la risoluzione del contratto da parte del Comune – per inadempienze e debiti accumulati – GPS ha perso la gestione dei parcheggi cittadini, aprendo una stagione di contenziosi dopo che anche l’allora Stazione Unica Appaltante della provincia di Vicenza aveva allertato, invano l’amministrazione comunale sull’anomalia, in eccesso, dell’offerta economica, poi, non a caso, non rispettata.
La società GPS Spa controllata dalla Final Spa di Palermo del principe Filippo Lodetti Alliata, che gestiva i parcheggi del Comune di Vicenza con un’assegnazione e una loro gestione a dir poco critica, come denunciato su queste pagine e su ViPiu.it fin da maggio 2023, ha presentato circa due mesi fa al Tribunale di Piacenza – dove ha sede – una richiesta di misure protettive nei confronti dei creditori per evitare il rischio di default. È, quindi, il tribunale, che ha tempo dai 6 agli 8 mesi per esprimersi, a dover decidere se accogliere l’istanza di tutela, dopo una crisi che affonda le radici, a detta del principe, nella fallimentare ge-
La società ha spiegato di essere penalizzata da un “crollo dei flussi di cassa”, dovuto – si legge nel documento – al blocco dei crediti e alla mancata riscossione di alcuni importi dovuti dai Comuni serviti. Per questo ha chiesto al tribunale l’attivazione di una procedura che consenta una sospensione temporanea delle azioni esecutive dei creditori, così da poter rinegoziare i debiti e garantire la continuità aziendale. L’istanza chiede di evitare il sequestro di beni e,. in via eccezionale, la revoca delle polizze fideiussorie che garantiscono i rapporti con i Comuni, tra cui quello di Vicenza. In caso contrario, scrive la società, ci sarebbe “la totale paralisi dell’attività”.
Le misure, se concesse, avrebbero durata da uno a quattro mesi, dopo la loro emissione, e mirano a stabilizzare i rapporti finanziari con banche e fornitori.
La crisi, secondo La Libertà, si sarebbe innescata, incredibile a dirsi, proprio a partire dall’esperienza vicentina. Dopo
Il Comune di Vicenza, alla buonora diremmo su queste pagine, aveva, infatti, avviato le procedure per risolvere il contratto e recuperare i crediti dovuti. La vicenda vicentina, che avrebbe fatto da detonatore alla crisi di GPS, che però scricchiolava da tempo anche altrove tra cui, in primis, proprio a Piacenza, rischia ora di trascinare nel vortice, oltre ad altre società collegate alla capogruppo Final Spa, anche il bilancio del capoluogo berico che vede allontanarsi se non azzerarsi la possibilità di incassare ben 7 milioni di euro.
La storia GPS, che si arricchisce continuamente di nuovi capitoli, continua a produrre danni economici ed operativi con annessa sfiducia dei cittadini per le lentezze dell’amministrazione nel prendere contromisure adeguata quando già, fin dall’inizio, erano evidenti le inadempienze contrattuali dei palermitano-piacentini. Ora sarà il Tribunale di Piacenza a decidere se GPS potrà contare su una… sosta finanziaria realmente efficace o se la sua parabola si concluderà con un vero e proprio default. Con effetti dirompenti anche a palazzo Trissino cioè, in definitiva, a carico dei vicentini.
di Giovanni Coviello
Difesa europea e Ucraina: l’Europa tra autonomia strategica e divisioni, mentre la Germania investe nella spesa militare
Il 23 ottobre si è tenuto a Bruxelles il Consiglio europeo, ovvero il forum in cui tutti i leader politici dei Ventisette si riuniscono per decidere l'indirizzo politico generale dell’Unione europea. Anche questa volta, il dibattito si è concentrato su uno dei temi più rilevanti degli ultimi anni: il sostegno a lungo termine all’Ucraina, a conferma di quanto sia cambiato il paradigma della sicurezza nell’Ue. La guerra in Ucraina ha evidenziato i limiti strutturali delle capacità europee di difesa, mostrando come l’Ue dipenda ancora in larga parte dagli Stati Uniti per la protezione militare, l’intelligence e la fornitura di armi sofisticate. Da qui la volontà
di costruire un “pilastro europeo” all’interno della Nato, senza sostituirla ma rafforzandola con una maggiore capacità di deterrenza propria e l’arrivo, ormai da un po’ di tempo, del concetto di autonomia strategica nel dibattito pubblico europeo.
La svolta tedesca
Promotore primaria di questa nuova visione è la Germania del cancelliere Friedrich Merz. Già nel marzo 2025 il Bundestag ha approvato una modifica costituzionale che esenta le spese militari dal “freno al debito” e così facendo ha aperto la strada a un piano di investimenti da oltre 1000 miliardi di euro in infrastrutture e difesa. Un piano che trasformerà la Bundeswehr nell’“esercito convenzionale più forte
d’Europa”, secondo quanto affermato da Merz. Nei prossimi anni, è previsto un aumento del bilancio da 108,2 miliardi nel 2026 a 161,8 miliardi nel 2029, il 70% in più rispetto al 2025 e il 387% in più sul 2020, dei numeri che porteranno il Paese a superare Francia, Regno Unito e Russia, arrivando al terzo posto mondiale per spesa militare dopo Stati Uniti e Cina. Merz ha definito la misura una necessità strategica, spiegando che la Germania intende contribuire in modo più deciso alla sicurezza del continente, ma a differenza di quanto auspicato dai cugini oltreoceano, la maggior parte dei fondi non sarà destinata a fornitori americani: oltre il 90 per cento degli investimenti finanzierà programmi e industrie europee. Le commesse includono la costruzione delle nuove fregate F-127, che sono state affidate alla ThyssenKrupp Marine Systems, l’ammodernamento dei caccia Eurofighter prodotti dal consorzio Airbus-BAE Systems-Leonardo e l’acquisto di blindati Boxer da Rheinmetall e KNDS. Restano in programma alcune forniture statunitensi, come i missili Patriot, ma in quantità limitata. È un segnale politico che è stato interpretato come una presa di posizione netta: Berlino vuole contribuire alla sicurezza collettiva della NATO, ma anche costruire una filiera industriale europea della difesa. Per la Germania, storicamente prudente sul tema della militarizzazione a causa del suo ruolo nelle due guerre mondiali si tratta di un cambiamento a dir poco radicale.
di Eleonora Boin
E dell’Ucraina che cosa rimane?
La prima questione affrontata durante il vertice è stato il cosiddetto "reparations loan", il piano europeo per utilizzare gli asset russi immobilizzati e finanziare un prestito da 140 miliardi di euro a sostegno dell’Ucraina. L’iniziativa, promossa dalla Commissione europea, nasce dall’urgenza di garantire a Kyiv risorse economiche e militari per il biennio 2026-2027, dato che il Paese rischia di trovarsi sull’orlo della bancarotta già all’inizio dell’anno. Il progetto prevede che i circa 175 miliardi di euro derivanti dagli asset della Banca centrale russa bloccati presso Euroclear, a Bruxelles, siano trasferiti all’Ue, che emetterebbe poi un prestito a nome dell’Unione. Kyiv sarebbe tenuta a restituire la somma solo dopo la fine della guerra e un eventuale accordo con Mosca per il risarcimento dei danni, motivo per cui la misura è stata definita un “prestito di riparazione” e non una confisca. Nelle conclusioni del Consiglio i capi di Stato e di governo dell’Ue hanno riaffermato il loro “perdurante e fermo sostegno” all’indipendenza, alla sovranità e all’integrità territoriale dell’Ucraina, rinnovando l’impegno a fornire un sostegno “politico, finanziario, economico, umanitario, militare e diplomatico globale” al Paese invaso. Tolte come al solito tutte le belle parole e le liste di aggettivi, il reparations loan è al momento un fallimento. Infatti, nella re-
altà la sua discussione - quindi senza che sia data per assodata un’approvazione - è slittata al consiglio previsto per dicembre, perché non si è riusciti a raggiungere il consenso unanime tra i leader dei Ventisette. “Abbiamo concordato sul cosa, ora dobbiamo lavorare sul come”, ha sintetizzato Ursula von der Leyen al termine del vertice, mentre il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha ricordato ai leader europei che l’Ucraina avrà bisogno dei fondi “già all’inizio del 2026”, sottolineando che non sa se sia possibile, “non tutto dipende da noi: è una decisione politica” ha detto.
Gli ostacoli del primo ministro belga
Questa volta, comunque, a bloccare il prestito non sono stati i soliti sospetti, ovvero gli ungheresi (che comunque hanno votato contro), ma il Belgio, poiché i fondi si trovano proprio in una delle sue società finanziarie, Euroclear. Il governo belga teme di essere esposto a un rischio enorme, quello di dover risarcire la Russia in caso di arbitrato inter-
nazionale o di un veto ungherese sul rinnovo delle sanzioni. Il primo ministro belga Bart De Wever ha presentato tre condizioni per accettare la proposta: la piena mutualizzazione dei rischi, garanzie che eventuali restituzioni dei fondi siano condivise tra tutti gli Stati membri e un impegno collettivo dei Paesi che detengono attivi russi. Le sue parole hanno colpito duramente i leader dei Ventisette: “Se prendiamo i soldi di Putin, lui si riprenderà i nostri”, ha avvertito De Wever, ricordando che Mosca potrebbe confiscare capitali e aziende occidentali in Russia. Le sue parole hanno convinto diversi leader a rinviare la decisione.
Oltre i prestiti: le sanzioni alla Russia
In questi giorni, comunque, l’Unione europea ha adottato anche il 19º pacchetto di sanzioni contro la Russia, dopo che Ungheria e Slovacchia hanno ritirato le proprie obiezioni. Tra le misure principali: il divieto totale di importazione di gas naturale liquefatto (GNL) russo dal 1º gennaio 2027, il blocco delle transazioni con le grandi aziende Rosneft e Gazprom Neft e l’inclusione di 557 navi della “flotta fantasma” russa nella lista delle sanzioni. Per la prima volta, le sanzioni toccano anche il settore delle criptovalute e dei servizi finanziari. La decisione è arrivata pochi giorni dopo la nuova stretta americana: il presidente Trump ha sanzionato Lukoil e Rosneft, che rappresentano circa il 40 per cento delle esportazioni di petrolio russo. La misura prevede penalità anche per le aziende straniere che continueranno a commerciare con Mosca, spingendo già alcune raffinerie cinesi e indiane a sospendere gli acquisti. Il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di una “vera svolta”, che riavvicina le strategie di Washington e Bruxelles.
Come i dazi stanno plasmando le nuove relazioni Ue-Usa: tra pasta, auto e spese per la difesa
DaziUsasullapastaindustriale(Fonte-Dissapore)
di E. B.
Le relazioni commerciali tra Stati Uniti ed Europa si stanno di nuovo irrigidendo. Dopo il fallimentare accordo commerciale siglato tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a luglio 2025, il tycoon è nuovamente tornato all’attacco e questa volta mira al cuore del Made in Italy: la pasta. A ragion del vero, la cultura culinaria italiana non è - purtroppo - l’unica sotto attacco, ma è forse quella che smuove di più i nostri italici animi. In particolare, l’amministrazione Trump ha avviato un’indagine antidumping sui pastifici italiani, accusati di vendere negli Stati Uniti a prezzi inferiori ai costi di pro-
duzione. Se la misura verrà confermata, dal 1° gennaio 2026 la pasta italiana sarà colpita da un dazio complessivo del 106,74 per cento, una maggiorazione del 91,74 per cento in aggiunta alla tariffa del 15 per cento già in vigore sulle merci europee.
Come si è arrivati a questo punto Ma facciamo dei passi indietro. Il 2 aprile 2025 Donald Trump, armato di cartellone esplicativo, annuncia l’introduzione di dazi praticamente verso tutto il mondo e lo chiama “Liberation Day”. Nei confronti dell’Europa annuncia dazi per il 20%, 25% nel caso del settore automobilistico. A questo annuncio seguono delle sospensioni e mesi di trattative, arrivando fino al
luglio 2025, quando Trump e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen concordano l’introduzione di un dazio del 15 per cento sulla maggior parte delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti. L’accordo, giustificato da von der Leyen come soluzione per garantire “prevedibilità” e “stabilità” alle imprese europee, rappresenta, di fatto, un passo indietro rispetto al libero scambio che aveva caratterizzato per decenni i rapporti transatlantici. Nella realtà, secondo quanto riportato da David Carretta sulla newsletter “Il Mattinale Europeo”, l’accordo commerciale di luglio è strettamente legato alla difesa europea, o almeno è quanto ha sostenuto l’alta funzionaria della Commissione europea Sabine Weyand che ha dichiarato che l’Ue ha dovuto accettare un cattivo accordo perché altrimenti “gli Stati Uniti avrebbero abbandonato il partenariato per la sicurezza con l’Ue”.
E ora?
Ed infatti eccoci qui, a pochi mesi da quell’accordo a parlare di nuovi dazi “antidumping”, con buona pace della stabilità e della prevedibilità. L’impatto economico per il nostro Paese sarebbe significativo, poiché l’Italia esporta ogni anno negli Stati Uniti circa 700 milioni di euro di pasta, un mercato che rappresenta la seconda destinazione mondiale dopo la stessa Europa. Le aziende coinvolte sarebbero 13, e comprendono alcuni dei marchi più noti del settore - tra cui Garofalo e La Molisana - che hanno già annunciato ricorsi
legali. Secondo le associazioni di categoria, una simile tariffa potrebbe rendere i prodotti italiani troppo costosi per i consumatori statunitensi, aprendo la strada ai produttori locali o ad altri Paesi con cui gli USA non hanno contenziosi commerciali. L’origine di questa nuova ondata di dazi è duplice. Trump sostiene di voler riequilibrare la bilancia commerciale americana, che a suo dire registra da anni un deficit con l’Unione europea, ma la misura è parte di una strategia politica più ampia: un segnale rivolto agli elettori americani, che associa la difesa della produzione nazionale alla protezione dei posti di lavoro. Ma il ritorno del protezionismo potrebbe avere conseguenze profonde anche sul sistema commerciale globale. Le relazioni Usa-Ue avevano già attraversato una fase difficile durante il primo mandato di Trump, quando la disputa sui sussidi all’industria aerospaziale aveva portato all’introduzione di dazi su vino, formaggi e altri prodotti italiani, poi in parte rimossi sotto l’amministrazione Biden.
La risposta dell’Ue
L’Unione Europea, per ora, si muove con cautela. A Bruxelles si lavora a una possibile risposta coordinata, che potrebbe includere ricorsi presso l’Or-
ganizzazione mondiale del commercio (WTO) o misure compensative su prodotti americani. Ma l’obiettivo dichiarato resta evitare un’escalation che danneggerebbe entrambe le economie. Secondo Eurostat, gli Stati Uniti sono il primo mercato per numero di esportazioni, mentre l’Europa rappresenta per Washington il secondo mercato estero dopo il Canada. In generale, le nuove misure protezionistiche introdotte dall’amministrazione Trump stanno iniziando a produrre i loro effetti sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti e sul saldo commerciale dell’Eurozona. Secondo i dati pubblicati da Eurostat, ad agosto la bilancia commerciale dell’area euro ha registrato un avanzo di appena 1 miliardo di euro, contro i 3 miliardi dello stesso mese del 2024. Nel periodo compreso tra gennaio e agosto, il surplus è sceso da 123,3 miliardi a 107,1 miliardi di euro, con un calo generalizzato delle esportazioni in tutti i principali settori: alimentari e bevande, materie prime, energia, chimica, macchinari e altri prodotti finiti. Il dato più significativo riguarda le esportazioni verso gli Stati Uniti, diminuite del 22,2 % su base annua. L’avanzo commerciale dell’area euro con Washington si è ridotto da 15,3 miliardi a 6,5 miliardi di euro,
un calo che riflette direttamente l’impatto dei nuovi dazi voluti da Donald Trump. Per l’Italia, l’eventuale impatto sarebbe duplice: economico e simbolico. Economico, perché la filiera agroalimentare - uno dei motori dell’export italiano - risentirebbe direttamente di un aumento dei costi doganali; simbolico, perché la pasta rappresenta uno dei prodotti più identificativi del “made in Italy” nel mondo. Il settore teme che i nuovi dazi possano compromettere il lavoro fatto in vent’anni di promozione e penetrazione del mercato americano, dove l’appeal dei prodotti italiani è in costante crescita.
Resta incerta la prospettiva per i prossimi mesi. L’amministrazione Trump sembra intenzionata a continuare a usare la leva commerciale come strumento di pressione politica sull’Unione Europea, in particolare sui Paesi con ampi surplus commerciali come la Germania e l’Italia. Per Bruxelles, la sfida sarà trovare un equilibrio tra la difesa degli interessi economici e la necessità di mantenere aperto il dialogo con il principale alleato politico e militare del continente. Ma il rischio di una nuova stagione di tensioni commerciali tra le due sponde dell’Atlantico è ormai concreto.
'Tau-Nel segno di Francesco'' (compagnia Mercanti di Sorrisi)
l’altra
IL TEATRO VICENTINO “AMA”
FITA Vicenza: il teatro vicentino “ama”… E fa numeri da record con amatori e spettatori
La nostra città è al secondo posto in Italia e solo dopo Roma per numero di compagnie tesserate FITA-Federazione Italiana Teatro Amatori. Qual è la ragione di questo record? La parola a Renato Poli, presidente del comitato vicentino di FITA
di Mauro Brusarosco
Nel Veneto batte un cuore votato al teatro. E a Vicenza in particolare. Stando ai numeri esposti da FITA Vicenza - comitato vicentino facente parte di FITA Veneto, là dove l’acronimo sta per Federazione Italiana Teatro Amatori - la nostra città è quella che vanta il maggior numero
di compagnie tesserate (attualmente 59) della regione, confermandosi al secondo posto, dopo Roma, nell’ambito di FITA nazionale. Ci sono, a Vicenza e provincia, quindi, centinaia e centinaia di attori non professionisti che, nel tempo libero e con l’obbligo statutario di non trarne profitto, sono accesi dal sacro fuoco del palcoscenico. E sono migliaia gli spettatori che in un anno si recano a teatro per assistere ai tanti spettacoli in cartellone delle compagnie FITA e delle rassegne da essa organizzate o promosse in collaborazione con qualche illuminato Comune. Per comprendere più approfonditamente una situazione numericamente e, lo vedremo, qualitativamente così significativa ma non abbastanza conosciuta se non dagli appassionati, iniziamo da questo numero un percorso accanto al mondo FITA Vicenza intervistano Renato Poli, presidente del direttivo vicentino.
Renato, qual è lo scopo che si prefigge FITA Vicenza?
Animare Vicenza e provincia con l’estro, la passione, l’originalità e il talento delle tante compagnie che costituiscono la nostra ossatura. Il teatro può essere molte cose diverse a seconda di chi ne fruisce in base alle proprie esigenze. C’è chi cerca la mera evasione, chi un divertimento ruspante, chi
invece segue con attenzione la programmazione di quei soggetti specializzati nel contemporaneo. Per ognuna di queste richieste e per molte altre c’è una compagnia FITA attiva nel territorio in grado di fornire un intrattenimento ad hoc.
Amatoriale, nel pensiero dei più, è qualcosa di scarso valore, una serie B rispetto al mondo del professionismo. Se analizziamo la cosa sotto un profilo tecnico, beh, posso affermare che, negli ultimi decenni, la qualità delle compagnie è andata decisamente affinandosi: oggi l’amatoriale, non facendo dell’arte teatrale il suo mestiere, può permettersi il lusso di un repertorio che molti professionisti, per ragioni di riscontro di pubblico e, dunque, di ritorno economico, non si azzardano più a fare. Ci sono compagnie che portano in scena fino a 20 attori, altre che cesellano con abilità artigiana complesse scenografie costruite nei ritagli di tempo. Altri ancora portano in scena titoli di nicchia, sapendo di poter contare sulla fidelizzazione del proprio pubblico.
Qual è l’intenzione principale della sua presidenza?
In primis, consolidare quanto già costruito con amore e dedizione da chi mi ha preceduto. In secondo luogo, il direttivo FITA
RenatoPoli,presidentediFITAVicenza
Vicenza - e dunque, insieme a me, il vicepresidente Stefano Chiolo, il segretario Alberto Trevisan, il tesoriere Davide Berna e il consigliere Silvia Ada Filippilavora in sinergia su diversi obiettivi. Uno dei più ambiziosi riguarda le rassegne di cui ci occupiamo a vari livelli, capaci di abbracciare l’intero arco temporale di un anno e dunque Teatro Popolare Veneto - giunta quest’anno alla trentesima edizione - Invito a Teatro, Teatro in Giardino e Teatro Sotto le Stelle. Ma c’è una questione fondamentale. Il problema dei giovani.
Mancano forse attori tra le nuove generazioni? Affatto. Le nostre compagnie possono fregiarsi di
talenti freschi e motivati. Il problema è semmai il cambio generazionale del pubblico. È qui che bisogna lavorare, su più livelli. Innanzitutto, attribuendo maggior peso alle nuove generazioni all’interno delle nostre iniziative. È stato il caso della conduzione della tappa vicentina del concorso regionale di FITA Veneto “Pillole di Teatro”: la serata di selezione provinciale vicentina quest’anno è stata affidata a una coppia di ragazzi imprevedibile e assolutamente centrata. Questa semplice scelta ha portato al Teatro Roi di Monticello Conte Otto un buon numero di giovani spettatori, intrigati all’idea di seguire una manifestazione in cui sul palcoscenico
si parlava un linguaggio simile al loro. E poi ancora, nell’ambito del concorso nazionale di FITA Veneto “Maschera d’Oro”, durante l’edizione 2025 abbiamo lanciato l’iniziativa “Giornalisti per un giorno”, in cui un manipolo di ragazzi e ragazze hanno intervistato gli attori protagonisti dei sei spettacoli in gara mettendosi alla prova davanti alla telecamera. Sui nostri social l’iniziativa ha ottenuto ottimi riscontri.
Un altro pensiero ricorrente è che il teatro amatoriale abbia un carattere prevalentemente dialettale. Altro luogo comune che possiamo tranquillamente sfatare. Senza nulla togliere alla nostra blasonata tradizione dialettale veneta, attualmente la maggioranza delle nostre compagnie investiga con coraggio autori che dialettali non sono. Quando, poi, sono scelti i grandi Classici, molto spesso il linguaggio impiegato è
decisamente innovativo, con scelte nette riguardo alla regia, ai costumi, alla selezione musicale. A ciò si aggiunga un ventaglio di compagnie decisamente variegato: si va dal teatro drammatico a quello per i bambini, dalla commedia in ogni sua declinazione al musical e fino al teatro delle marionette e a compagnie radicate in un repertorio originale scritto in proprio. Spesso, nell’ambito delle molte rassegne teatrali nazionali sparse lungo il Bel Paese, queste ultime sono quelle che raccolgono il maggior numero di premi e riconoscimenti.
Qual è il vostro messaggio a chi non vi conosce?
Al prezzo di pochi euro l’amatoriale offre a un pubblico eterogeneo un intrattenimento di qualità. Il nostro lavoro come direttivo è, invece, quello di far sentire la nostra presenza a ogni singola compagnia associata, accompagnando -
la nei talvolta complessi iter burocratici ma anche creando un dialogo attivo, che procuri un interscambio di idee utile a tutta la nostra grande famiglia. Ai Comuni che scelgono di affidarci le loro rassegne teatrali va un plauso speciale: in questi tempi, in cui arte e cultura paiono a molti accessori sacrificabili, credere nel teatro significa dar voce a quelle tante realtà locali le quali, armate di talento e di un’inestinguibile passione per il palcoscenico, contribuiscono a vivacizzare le nostre vite, raccontandoci storie capaci di rivelare, con la forza di un sorriso e di una battuta arguta, quelle piccole e grandi saggezze utili ad alleggerire lo spettatore dal carico della quotidianità. Anche questo è welfare.
E allora da oggi partiamo ogni mese alla scoperta di questo teatro fatto per passione e amore. E amiamolo.
Galliano Rosset,
“le roi” dei disegnatori, realizza sul palco le scenografie
del teatro Roi a Cavazzale
Teatro Roi a Cavazzale: da dopolavoro degli operai a centro culturale all’avanguardia
di Federica Zanini
Prima che si accendano i riflettori sul suo centenario, il prossimo anno, siamo andati a scovare un altro dei piccoli teatri-gioiello del Vicentino, che brillano sì di luce propria (nel vero senso della parola, visto che contano solo sulle proprie forze), ma che meriterebbero maggior fulgore. Siamo a Monticello Conte Otto, frazione Cavazzale, e le porte che andiamo a schiudere sono quelle del Teatro Roi, originariamente intitolato Dopolavoro Roi.
Lo avevamo “incrociato” già il mese scorso, il Marchese Roi, tra i sostenitori eco-
nomici del Teatro San Marco a Vicenza. Qui però impariamo a conoscerlo meglio e a cogliere la lungimiranza e genialità del personaggio. Pietro Roi, originario della Carnia, trasferitosi prima a Sandrigo (1823) e poi a Vicenza (1835) lavora e commercia canapa. Ma il primo industriale della stirpe sarà il figlio Giuseppe, che ammoderna e amplia il canapificio, con sedi a Vicenza, Vivaro, Cavazzale e Debba. Alla sua morte, nel 1889, le sue proprietà vengono divise tra i figli (nati dal matrimonio con Teresa Fogazzaro, primogenita del letterato), ma a portare avanti le idee e lo spirito del padre sarà il suo omonimo, detto Gino, titolato
Marchese nel 1901, sindaco di Vicenza nel 1906 e padre di Giuseppe Roi, detto Boso, nato nel 1924, pronipote di Fogazzaro e ultimo mecenate di Vicenza, morto nel 2009. Tornando a Gino, da uomo illuminato segue l’esempio dei Marzotto e dei Rossi e crea la sua città sociale, che prevede tra i servizi agli operai anche attività di svago per il dopolavoro e, tra queste, nientemeno che un teatro. Un’idea all’avanguardia, che diventa realtà nel 1926. A causa della morte di Gino proprio allora, viene però inaugurato nel 1929, lo stesso anno dei Patti Lateranensi, quando, tanto per capirci, il demonio era il comunismo, in Italia il socialismo, e si faceva sempre più strada il fascismo. Per “distrarre” i suoi operai e le loro famiglie, Roi fa realizzare un teatro innovativo, che allora conteneva (un po’ stipate) fino a 500-600 persone e che può ancora vantare il palco più grande di tutta la Provincia di Vicenza. Questo per quanto riguarda la struttura in sé, ma il Teatro Roi è molto più di un bell’esempio di architettura: voluto per essere la casa di tutti e centro culturale ad ampio spettro (Roi era tra i dirigenti dell’OND-Opera Nazionale del Dopolavoro), comincia ad aprirsi a diverse attività, con impianti sportivi (e persino un tetto-terrazza per ginnastica all’aria aperta), una prestigiosa scuola di ricamo interna e un salone da ballo. Senza tralasciare di coltivare e specializzare l’offerta artistica, avvalendosi di collaborazioni qualificate e di prestigio, come quella di Primo Piovesan ed Emanuele Zuccato. Cominciano così ad arrivare diversi premi in seno alle Filodrammatiche del Triveneto.
La facciata del Teatro Roi a Cavazzale
Come sempre, però, su tanta vivacità ecco calare la ghigliottina della Seconda Guerra Mondiale: i giovani attori reclutati e il teatro trasformato in alloggio per i soldati tedeschi che presidiavano la stazione ferroviaria di Cavazzale. Nel dopoguerra un’illusione di ripresa, ma gli attori sono, se non morti, invecchiati e negli anni 50 la crisi si abbatte sul teatro così come sul canapificio, indebolito dall’arrivo dei tessuti sintetici.
Per salvare il gioiellino, il Marchese Roi cede il teatro alla parrocchia. Peccato che all’epoca la Chiesa non vedesse di buon occhio la recitazione, considerata causa di perdizione. Fino agli anni 70, quindi, il Roi diventa solo cinema. Persa la sua vitalità iniziale e acquisiti anni sulle spalle, la struttura viene presto abbandonata perché vetusta.
Ed ecco che nel 2019, dopo un oculato restauro durato vent’anni e a dieci lustri dalla chiusura, il Teatro Roi è tornato a splendere. E a coinvolgere la comu-
nità che lo ha sostenuto, nel pubblico e nel privato.
A gestirlo è la locale, apprezzata Compagnia Teatrale Astichello (www.compagniateatraleastichello. it), che cura una rassegna autunnale (in corso fino ai primi di dicembre) e una invernale, con propri spettacoli, ma anche con quelli di altre produzioni, spesso provenienti dal Festival Maschera D’Oro di Fita. Va svelato, infatti, che il direttore artistico (e regista) della Compagnia -Aldo Zordan- è vicepresidente nazionale della Federazione Italiana Teatro Amatori.
Ma soprattutto presidente della Compagnia è quel poliedrico, intenso Galliano Rosset, storico e artista che da sempre vive (benissimo) della passione per Vicenza, le sue tradizioni e la sua cultura, noto per le sue illustrazioni e incisioni, autore delle enormi scenografie (8x4 metri) e dei manifesti del Roi e maestro che mi ha onorata dei suoi racconti sul Roi (e molto altro).
A un certo punto, potresti tornare su per leggere questo testo. Ma anche no.
PRIMA LEGGERAI QUESTO GRAN TESTO
Poi ti sposterai su questa frase
Se sei arrivato fin qui a leggere, significa che vuoi davvero scoprire qualcosa in più. Non è facile: il testo è fitto, senza grassetti, con poco spazio tra le righe. Ed è proprio per questo che la maggior parte delle persone tende a saltarlo, a meno che non sia già molto interessata.
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Marco Martalar: quel che natura distrugge, l’artista ricrea
Itinerario tra Vicentino e Trentino sulle orme delle monumentali, splendide opere che lo scultore di Mezzaselva di Roana ha realizzato utilizzando radici, cortecce e legna degli alberi abbattuti rovinosamente dalla furia della tempesta Vaia. Animali reali e mitologici che paiono vivi e che in effetti sono un inno alla rinascita dopo la distruzione.
(creditiGiornalealtopiano.it)
di F. Z.
Ora che lo spettacolo del foliage si è dissolto, è il caso di dirlo, come le foglie al vento, accanto a conifere sempreverdi sono, come statue contorte, tronchi dormienti e rami nudi ad attirarci nei boschi. Il periodo ideale per intraprendere, a cavallo tra Veneto e Trentino, un itinerario unico alla scoperta di altre statue, vere e proprie sculture d’autore, ispirate al mondo animale e mitologico e create sempre col legno, ma quello martoriato dalla tempesta Vaia.
A concepirle e realizzarle, come arabe fenici che risorgono non dalle ceneri ma comunque da una tragedia, è Marco Martalar (www.martalar.it, FB Martalar scultore, IG @martalar_scultore), scultore che trae ispirazione dai boschi e dalla forte natura dell’Altopiano di Asiago, dove vive e lavora, ma che, in un progetto di rinascita dalla tempesta Vaia -quella che a fine 2018 ha devastato, tra gli altri, il patrimonio forestale delle nostre montagne-, ha punteggiato dei suoi capolavori lignei un territorio vasto tra le Province di Vicenza e di Trento. Più qualche incursione nel Bresciano e nel Veneziano e alcune sculture itineranti. Se, come talvolta accade, qualcuno ne ha sentito parlare solo per essere, suo malgrado, balzato alle cronache quando, nell’estate 2023, il suo Drago alato a Lavarone fu ridotto in un mucchio di cenere da un vile incendio doloso, per poi risorgere un anno
MarcoMartalareilsuocavalloHaflinger
dopo grazie alla caparbietà dell’artista con l’appellativo di Drago Vaia Regeneration, beh è ora di rimediare. Non lontano da Vicenza, sconfinando in Trentino (www.visitrentino.info), vi aspetta un intero zoo firmato Martalar.
Prima di puntare alle montagne, un piccolo assaggio del suo genio e del suo stile si può avere a San Pietro in Mussolino, dove la gigantesca Ape Vaia ricorda l’importanza di questi insetti laboriosi per il pianeta. Ora siamo pronti per salire in quota.
Prima tappa, ovvio, è la montagna dei vicentini, l’Altopiano. Forse senza attribuirlo a Martalar, avrete certamente fatto caso al Gallo di Gallio, ben piazzato sulle zampe davanti al Municipio a simboleggiare la rinascita dopo la tempesta (altro che Leopardi!). Peccato che, ironia della sorte, di recente un forte vento abbia fatto cadere il gallo e la stupidità umana lo abbia abbandonato in un campo a marcire, tra il disappunto dell’autore e le polemiche politiche.
Alla sua terra l’artista ha però dedicato anche la possente Aquila che, seppure ufficialmente per un soffio già su suolo trentino, dal suo cocuzzolo domina con le ali spiegate la piana di Marcesina e osserva, ancora evidente, la devastazione di Vaia, quasi a sbeffeggiarla. Proseguendo tra le montagne trentine ecco poi il Grifone del Tesino (che tra l’altro nelle sue fattezze di metà aquila e metà leone simboleggia la fusione tra Trentino e Veneto), in posizione panoramica sull’omonima conca, l’Orso del Pradel, sopra Molveno, il mu-
scoloso Cavallo Haflinger di Strembo (Val Rendena, Giudicarie), omaggio a quello che per i contadini un tempo era come il trattore dei giorni nostri, slanciato sulle due zampe all’interno del Parco Giorgio Ducoli. E poi ancora, la Lupa del Lagorai nei pressi di Vetriolo (Valsugana), la più alta stazione termale d’Europa, e il Cervo a Millegrobbe sull’Alpe Cimbra. Sulle sponde del Lago di Santa Giustina, nel Parco delle Plaze, invece, l’ultimo arrivato, inaugurato lo scorso marzo: il Radicosauro, figlio sempre di Martalar, ma non più di Vaia. A comporlo questa volta sono radici e legname restituiti alla spiaggia dalle acque del lago. L’arte non ha confini, ma se doveste esser colti da un impeto di campanilismo, lasciato il Trentino, nel vostro Veneto potete ammirare altre opere firmate Martalar: il Cervo di Fertazza, nelle Dolomiti di Zoldo (BL), un Leone Alato a Jesolo, un altro a Fratta di Tarzo (TV), tra le colline del Prosecco, davanti al Lago di Revine. Da non dimenticare, infine, che Martalar è l’ideatore di SelvArt-Parco Arte Natura realizzato nel bosco di Kantrega, a Mezzaselva di Roana. Perfetto per una gita fuori porta all’insegna della land art, lungo un percorso ad anello aperto e gratuito propone installazioni rigorosamente realizzate con materiali naturali e perfettamente integrate nell’ambiente. Opere, come quelle di Vaia, destinate già nel concetto che le origina a essere consumate (o plasmate?) dal tempo e le intemperie. In un ciclo vitale… naturale. Come il talento di Marco Martalar.
Da Longare a Barbarano ... e oltre Medioevo Vicentino
di Marco Ferrero
Ipotizzando di compiere una ideale camminata medievale lasciamo la città e, attraverso quella che era una volta la porta di San Pietro, presidiata dalle monache benedettine dell’omonimo monastero, ci inoltriamo verso sud e imbocchiamo la lunga strada della Riviera Berica che corre parallela alla catena montuosa (si arriva a 450 m.) che le dà il nome.
compiere una ideale camminata medievale lasciamo la città che era una volta la porta di San Pietro, presidiabenedettine dell'omonimo monastero, ci inoltriamo imbocchiamo la lunga strada della Riviera Berica che a montuosa (si arriva a 450 m.) che le dà il nome. indubbiamente di un territorio ad alta densità per quanto storici, non soltanto di epoca medievale ovvero quelli queste pagine, ma omogeneamente collocati in tutti particolare tra XV e XVIII secolo.
Si tratta indubbiamente di un territorio ad alta densità per quanto riguarda gli edifici storici, non soltanto di epoca medievale ovvero quelli di cui ci occupiamo in queste pagine, ma omogeneamente collocati in tutti i secoli avvenire, in particolare tra XV e XVIII secolo.
Sulla destra, superata la superba architettura della rotonda palladiana, dopo un km circa trascuriamo la deviazione a destra che ci porterebbe in un luogo affascinante, all’interno della quale possiamo vedere i resti, ben visibili e comprensibili della commenda templare o giovannita di Vicenza. Proseguendo alcuni chilometri, Imbocchiamo sulla destra, dunque sempre dirigendoci verso i colli, la strada che ci porta verso il centro di Costozza, una frazione del Comune di Longare, che tuttavia fa vita a sé anche dal punto artistico, tale e la concentrazione di edifici di assoluto pregio. Soffermandoci soltanto sulle chiese medievali, nel raggio di poche centinaia di metri ne troviamo tre: S. Mauro, S. Sofia e S. Antonio abate. Della prima, che fu pieve di questa porzione del territorio dei Colli Berici, anche se demolita alla fine del ‘600 e completamente ricostruita nel 1719 su probabile disegno di Francesco Muttoni, è importante menzionare il campanile, unica testimonianza rimasta del periodo medievale, risalente a un periodo compreso tra la fine del XII se-
colo e i primi decenni del successivo. La sua tipologia costruttiva è del tutto inconsueta per il territorio vicentino e si avvicina in misura maggiore a esempi altoatesini, primo fra tutti quello della parrocchiale di Tarces e della chiesa di S. Procolo a Naturno, in alta Val Venosta, dimostrando una volta di più che il Medioevo non fu periodo di chiusura, ma di scambi anche culturali, tra aree lontane tra loro. Scendiamo ora dalla piccola altura sulla quale è posta la chiesa di San Mauro attraverso il breve sentiero che direttamente ci riporta sulla piazza del paese e, svoltando a destra, arriviamo al semaforo a ridosso del quale si trova la chiesa sconsacrata di S. Sofia. Dalle poche notizie forniteci dall’abate Maccà sappiamo che un documento del 1236 ne attesta l’esistenza; altri due riferimenti sono contenuti in atti risalenti al 1265-1266. Nulla invece conosciamo intorno alla sua origine, anche se è possibile, sulla base dei dati documentari citati, che essa sia sorta nella prima metà del XIII secolo, Probabilmente sul luogo già doveva esistere un edificio sacro la cui prova potrebbe essere il rinvenimento di un lacerto di scultura ad intrecci, murato ora alla base della recinzione alla destra della chiesa, che rimanda ad una tipologia assai diffusa sul territorio e collocabile
Superata la superba architettura della rotonda palladiana, trascuriamo la deviazione a destra che ci porterebbe in un all'interno della quale possiamo vedere i resti, ben visibili commenda templare o giovannita di Vicenza. ProseguenImbocchiamo sulla destra, dunque sempre dirigendoci verso i colli, la strada che ci porta verso il centro di Costozza, una frazione del Comune di Longare, che tuttavia fa vita a sé anche dal punto artistico, tale e la concentrazione di edifici di assoluto pregio. Soffermandoci soltanto sulle chiese medievali, nel raggio di poche centinaia di metri ne troviamo tre: S. Mauro (foto 1), S. Sofia e S. Antonio abate. Della prima, che fu pieve di questa porzione del territorio dei Colli Berici, anche se demolita alla fine del ‘600 e completamente ricostruita nel 1719 su probabile disegno di Francesco Muttoni, è importante menzionare il campanile, unica testimonianza rimasta del periodo medievale, risalente a un periodo compreso tra la fine del XII secolo e i primi decenni del successivo. La sua tipologia costruttiva è del tutto inconsueta per il territorio vicentino e si avvicina in misura maggiore a esempi altoatesini, primo fra tutti quello della parrocchiale di
potizzando di compiere una ideale camminata medievale lasciamo e, attraverso quella che era una volta la porta di San Pietro, presidiata dalle monache benedettine dell'omonimo monastero, ci inoltriamo verso sud e imbocchiamo la lunga strada della Riviera Berica che corre parallela alla catena montuosa (si arriva a 450 m.) che le dà il nome Si tratta indubbiamente di un territorio ad alta densità per quanto riguarda gli edifici storici, non soltanto di epoca medievale ovvero quelli di cui ci occupiamo in queste pagine, ma omogeneamente collocati in tutti i secoli avvenire, in particolare tra XV e XVIII secolo. Sulla destra, Superata la superba architettura della rotonda palladiana, dopo 1 km circa trascuriamo la deviazione a destra che ci porterebbe luogo affascinante, all'interno della quale possiamo vedere i resti, ben e comprensibili della commenda templare o giovannita di Vicenza. Proseguendo alcuni chilometri, Imbocchiamo sulla destra, dunque sempre dirigendoci verso i colli, strada che ta verso il Costozza, del Comune che tuttavia che dal punto di assoluto medievali, viamo tre: Della prima, ritorio dei ‘600 e completamente disegno di il campanile, medievale, del XII secolo tipologia costruttiva rio vicentino altoatesini, Tarces e della Venosta, dimostrando
Costozza(Longare),chiesadiS.Mauro
1. Costozza (Longare), chiesa di S. Mauro
L’ALTRA VICENZA XII
VicenzaPiùViva
VicenzaPiùViva
VicenzaPiùViva
VicenzaPiùViva
VicenzaPiùViva
VicenzaPiùViva
Costozza(Longare),chiesadiS.Sofia
Antonio Abate, sempre all’unica
renzo, originari mente del dormitorio
compravendita e di livelli riguardanti il convento di S. Antonio Abate, che furono effettuati con una frenesia – e sempre all’unica condizione che i frati minori di S. Lorenzo, originari proprietari, potessero disporre liberamente del dormitorio e dell’edificio di culto.
2. Costozza (Longare), chiesa di S. Sofia
tra VIII e IX secolo.
Ora, se ci poniamo di fronte alla facciata della chiesa e guardiamo in alto a sinistra possiamo scorgere la parte absidale del terzo edificio cui facciamo riferimento, la chiesa di Sant’Antonio.
La facies dell’edificio rappresenta nel territorio considerato un unicum assoluto e crediamo sia possibile sostenere la realtà di un suo impianto prettamente “romanico”.
non fu periodo di chiusura, ma di scambi anche culturali, tra aree lontane tra loro.
Per raggiungerla ci sarà sufficiente proseguire lungo la strada e superare il “volto” per poi svoltare subito a destra e dopo poco ci troveremo di fronte a uno dei più interessanti edifici sacri di tutta la provincia.
non fu periodo di chiusura, ma di scambi anche culturali, tra aree lontane tra loro.
Scendiamo ora dalla piccola altura sulla quale è posta la chiesa di San Mauro attraverso il breve sentiero che direttamente ci riporta sulla piazza del paese e, svoltando a destra, arriviamo al semaforo a ridosso del quale si trova la chiesa sconsacrata di S. Sofia (foto 2).
La prima attestazione dell’esistenza del convento e della chiesa di S. Antonio risale a un testamento del 1253. All’ultimo ventennio del XIII secolo risale una lunga serie di atti di compravendita e di livelli riguardanti il convento di S. Antonio Abate, che furono effettuati con una frenesia –esempre all’unica condizione che i frati minori di S. Lorenzo, originari proprietari, potessero disporre liberamente del dormitorio e dell’edificio di culto.
La facies dell’edificio rappresenta nel territorio considerato un unicum assoluto e crediamo sia possibile sostenere la realtà di un suo impianto prettamente “romanico”.
Dalle poche notizie forniteci dall’abate Maccà sappiamo che un documento del 1236 ne attesta l’esistenza; altri due riferimenti sono contenuti in atti risalenti al 12651266. Nulla invece conosciamo intorno alla sua origine, anche se è possibile, sulla base dei dati documentari citati, che essa sia sorta nella prima metà del XIII secolo, Probabilmente sul luogo già doveva esistere un edificio sacro la cui prova potrebbe essere il rinvenimento di un lacerto di scultura ad intrecci, murato ora alla base della recinzione alla destra della chiesa, che rimanda ad una tipologia assai diffusa sul territorio e collocabile tra VIII e IX secolo.
Ora, se ci poniamo di fronte alla facciata della chiesa e guardiamo in alto a sinistra possiamo scorgere la parte absidale del terzo edificio cui facciamo riferimento, la chiesa di Sant'Antonio (foto 3). Per raggiungerla ci sarà sufficiente proseguire lungo la strada e superare il "volto" per poi svoltare subito a destra e dopo poco ci troveremo di fronte a uno dei più interessanti edifici sacri di tutta la provincia.
La prima attestazione dell’esistenza del convento e della chiesa di S. Antonio risale a un testamento del 1253. All’ultimo ventennio del XIII secolo risale una lunga serie di atti di
Le problematiche legate alla nascita dell’edificio e alla sua collocazione nel contesto dell’architettu ra sacra vicentina non possono certo esaurirsi in poche righe, tanto più se consideriamo che solo nel corso degli ultimi trent’anni gli studi relativi all’architettura minoritica – con particolare ri ferimento alle aree extraurbane – hanno trovato nuova linfa e vigore, indirizzandosi su un terre no più consapevole delle influenze locali e meno condizionato da una visione generalistica e uni formante (Diano 2004, p. 37 e relativa bibliografia). I legami evidenti tra la chiesa di S. Antonio
e l’importante S. Lorenzo vicentino impongono allo stesso tempo cautela nell’interpretazione e rinnovati sforzi per comprendere un fenomeno, quello appunto della capillare presenza minoritica sul territorio, che dovrà essere affrontato con particolare attenzione. L'Ufficio è quasi sempre chiuso, ad eccezione del giorno a febbraio in cui si celebra il santo cui la chiesa è dedicata e che vale la pena segnare sul calendario per poterla visitare. Infine, al termine dell’auspicabile visita, sarà certo interessante, tornati sulla piazzetta del paese, fermarsi alla Botte del Covolo, antica ghiacciaia della villa dei conti Da Schio e ora Bistrot, per gustare un ottimo calice di vino e, perché no, un panino o uno dei piatti preparati dalla curata cucina.
Scendiamo ora dalla piccola altura sulla quale è posta la chiesa di San Mauro attraverso il breve sentiero che direttamente ci riporta sulla piazza del paese e, svoltando a destra, arriviamo al semaforo a ridosso del quale si trova la chiesa sconsacrata di S. Sofia (foto 2).
Le problematiche legate alla nascita dell’edificio e alla sua collocazione nel contesto dell’architettura sacra vicentina non possono certo esaurirsi in poche righe, tanto più se consideriamo che solo nel corso degli ultimi trent’anni gli studi relativi all’architettura minoritica – con particolare riferimento alle aree extraurbane – hanno trovato nuova linfa e vigore, indirizzandosi su un terreno più consapevole delle influenze locali e meno condizionato da una visione generalistica e uniformante (Diano 2004, p. 37 e relativa bibliografia). I legami evidenti tra la chiesa di S. Antonio e l’importante S. Lorenzo vicentino impongono allo stesso tempo cautela nell’interpretazione e rinnovati sforzi per comprendere un fenomeno, quello appunto della capillare presenza minoritica sul territorio, che dovrà essere affrontato con particolare attenzione. Ufficio è quasi sempre chiuso, ad eccezione del giorno a febbraio in cui si celebra il santo cui la chiesa è dedicata e che vale la pena segnare sul calendario per poterla visitare.
La facies dell’edificio siderato un unicum sostenere la realtà manico”. Le problematiche sua collocazione tina non possono se consideriamo gli studi relativi lare riferimento nuova linfa e vigore, sapevole delle visione generalistica relativa bibliografia).
Dalle poche notizie forniteci dall’abate Maccà sappiamo che un documento del 1236 ne attesta l’esistenza; altri due riferimenti sono contenuti in atti risalenti al 12651266. Nulla invece conosciamo intorno alla sua origine, anche se è possibile, sulla base dei dati documentari ci tati, che essa sia sorta nella prima metà del XIII secolo, Probabilmente sul luogo già doveva esistere un edificio sacro la cui prova potrebbe essere il rinvenimento di un lacerto di scultura ad intrecci, murato ora alla base della recinzione alla destra della chiesa, che rimanda ad una tipologia assai diffusa sul territorio e collocabile tra VIII e IX secolo.
Ci lasciamo alle spalle l’affascinante borgo di Costozza e come moderni pellegrini proseguiamo verso est lungo la strada della Riviera Berica rag -
Infine, al termine dell'auspicabile visita, sarà certo interessante, tornati sulla piazzetta del paese, fermarsi alla Botte del Covolo, antica ghiacciaia della villa dei conti Da Schio e ora Bistrot, per gustare un ottimo calice di vino e, perché no, un panino o uno dei piatti preparati dalla curata cucina.
Costozza(Longare),chiesadiS.Antonio,facciate
Ora, se ci poniamo di fronte alla fac-
Antonio e l’importante allo stesso tempo sforzi per comprendere capillare presenza sere affrontato sempre chiuso, celebra il santo segnare sul calendario Infine, al termine interessante, si alla Botte del conti Da Schio di vino e, perché dalla curata cucina.
Arte vicentina
3. Costozza (Longare), chiesa di S. Antonio, facciate
2. Costozza (Longare), chiesa di S. Sofia
Barbarano-Mossano,chiesadiS.Maria
giungendo il paese di Barbarano-Mossano, che si trova lasciando la strada principale e avvicinandosi ai Colli Berici, sempre presenti alla vista, e che ora presto lasceranno spazio a un breve tratto di pianura prima di scorgere i Colli Euganei.
Qui troviamo 3 interessanti edifici risalenti ai secoli centrali del Medioevo, anche se fermeremo la nostra attenzione oggi soltanto su quello principale: S. Maria, S. Martino e S. Giovanni, discosto dall’abitato. Su questi ultimi due torneremo magari in altra occasione.
La chiesa, meglio pieve, di S. Maria si trova proprio sulla piazza principale e a una prima vista poco sembra dire al cacciatore di vestigia medievali. In effetti il suo aspetto attuale risale ai secoli XVII-XVIII, quando sostituì, non del tutto, la chiesa medievale.
La prova dell’esistenza di un edificio precedente viene da una pietra incisa ‒ datata 1124 e conservata nel piccolo museo adiacente alla chiesa attuale ‒, che ricorda l’insediamento dei nuovi canonici nella pieve; testimonianza ancor più rilevante perché conferma l’importanza del luogo già nei primi decenni del XII secolo.
Tuttavia, per taluni aspetti si tratta di una delle chiese più interessanti del
territorio, interesse che si concentra in particolar modo sullo splendido campanile, sugli affreschi lì racchiusi e su alcuni momenti scultorei conservati nel piccolo, ma ricco, Museo visibile chiaramente accanto al campanile stesso.
Il campanile, si diceva, è certamente il momento di maggiore interesse dell’edificio: esternamente, ad altezza d’uomo, corre un’interessante cornice caratterizzata, ai due angoli, dalla presenza di un volto di animale, forse un cane, forse una sorta di drago nell’atto di divorare un altro serpente (un Ouroboros?), che rimanda a un soggetto collocabile in pieno XIII secolo. L’unico esempio simile, sotto il profilo prettamente iconografico, riscontrabile nel nostro territorio è quello che si può osservare in una scultura conservata presso il monastero dei SS. Fermo e Rustico a Lonigo.
Alla base del campanile, cui si accede dal museo, il piccolo ambito costituisce un esempio unico in tutto il territorio vicentino – e veneto per quanto ci è dato di conoscere – inserendolo nel contesto di un filone di studi che tende a mettere in rilievo gli stretti rapporti tra sacralità, liturgia e architettura. Di particolare rilievo sono gli affreschi, trecenteschi, che rivestono le pareti del
locale: scoperti nel 1978 nel corso dei restauri resisi necessari dopo il terremoto che colpì il Friuli – e di riflesso anche il Vicentino – nel 1976, essi rappresentano un momento rilevante della vivacità culturale della località nel corso del periodo medievale. Il piccolo ambiente è ricoperto con una volta a crociera con lunghi costoloni che scendono sino alla metà dell’altezza e poggianti su peducci; la volta viene dunque ad essere suddivisa in quattro lunette, all’interno delle quali compaiono gli affreschi, alcuni dei quali purtroppo piuttosto rimaneggiati, ma non tanto da non consentirne la lettura. Sulla parete settentrionale rimane la traccia di una cinta di mura merlate, senza dubbio riferibili alla cerchia murata di una città, iconografia non lontana dall’affresco proveniente da quella che era la cappella di S. Giovanni Evangelista nella cattedrale di Vicenza e ora conservato presso il locale Museo Diocesano; presente inoltre una figura di santo che, per la peculiarità della tonsura e per le caratteristiche dell’abito potrebbe essere identificato in un francescano.
Una seconda scena mostra, sia pure mutila nella parte centrale a seguito dell’apertura della porta che consente la comunicazione tra il campanile e l’aula della chiesa, una Crocifissione grazie alla presenza di una donna a sinistra – Maria? – e un santo a destra, molto probabilmente s. Giovanni, il discepolo “prediletto”.
Un ultimo lacerto sul muro meridionale ci riporta a quell’ambiente di predicazione degli ordini mendicanti che siaffermarono nel Vicentino nel pieno XIII secolo; anche in questo caso la figura è mutila per metà in senso longitudinale, ma quanto rimasto ci consente di ipotizzare trattarsi di s. Francesco, il quinto nel territorio vicentino (cui si aggiunge, ma non compreso nella presente ricerca, quello affrescato in una lunetta all’esterno della chiesa di S. Lorenzo a Vicenza): oltre a S. Vittore di Monte di Malo (Priabona), possiamo citare anche quello di S. Maria Fossadragone a Monteforte d’Alpone, dell’Immacolata Concezione di San Vito di Leguzzano, di S. Giorgio a Sarcedo e di S. Donato di Cittadella. Utilissimi per l’identificazione del san -
to raffigurato sono il saio e ancor più le orecchie ‘a sventola’ che caratterizzano s. Francesco a partire dalla celebre raffigurazione di Cimabue e che si ritrovano anche nei due altri esempi vicentini. Nel piccolo Museo annesso alla chiesa troviamo infine altri due elementi interessanti: una Madonna con il Bambino, già all’interno della chiesa, databile tra XIII e XIV secolo, e una lapide, murata dietro l’altare della chiesa, che ricorda la consacrazione dell’edificio primitivo nel 1307 da parte del vescovo di Vicenza, Altigrado di Lendinara. La scultura in origine era caratterizzata da una vivace policromia, come del resto molte opere, architettoniche e scultoree, del pieno medioevo. L’ultimo elemento cui facciamo riferimento è una pietra scolpita (una chiave di volta?) con raffigurata una croce patente che potrebbe essere relativa a un ordine cavalleresco, templare o giovannita non è dato sapere. Pur nella totale impossibilità di approfondirne la derivazione è tuttavia da sottolineare come la critica, locale ma non solo, abbia dato per certa la presenza nel territorio di Barbarano di una Domus templare, sia pure senza riuscire a individuarne la posizione e che taluni identificano con chiese di S. Martino e di S. Giovanni in Monte, entrambe di Barbarano-Mossano. Infine, al termine dell’auspicabile visita, sarà gratificante fermarsi in uno dei locali che si affacciano sulla piazza e che offrono soluzioni diverse sia per un aperitivo sia per un più sostanzioso pranzo.
Sono 40 i giocatori del Vicenza che in 123 anni di storia hanno difeso i colori azzurri durante la loro permanenza in biancorosso. La statistica in esame comprende le presenze ufficiali (non fanno testo le amichevoli contro squadre non nazionali o le presenze in panchina) con l'Italia A, Under 23, Under 21 (in precedenza Nazionale giovanile), Olimpica e Sperimentale. Sono escluse le presenze nelle rappresentative azzurre di serie B e C, nell'ex nazionale Militare, nell'ex Juniores, nell'Under 20, Under 19 e quelle precedenti sino all'Under 16. Nella storia il primo in assoluto fu Osvaldo Fatto-
ri che vestì la maglia azzurra (si trattava della nazionale giovanile) il 6 gennaio 1943, nell'amichevole Italia-Croazia disputata a Padova e finita 0-0. L'ultimo è stato il centrocampista Filippo Ranocchia, che nella stagione 2021-2022, collezionò 3 presenze nell'Under 21. Al termine di quella annata il Lanerossi è retrocesso in C, da allora non è più arrivata nessuna chiamata dall'Under 21, il cui selezionatore "pesca" solamente nei club di A e B.
POKER IN NAZIONALE A. In testa alla lista c'è Paolo Rossi (26 presenze complessive, di cui 14 in nazionale A, 11 nelle giovanili e una nella Sperimentale), che assieme a Giorgio Puia (2
presenze), Mario David e Giampiero Maini (1 ciascuno), sono gli unici quattro che vestito la maglia della nazionale maggiore, tutte presenze collezionate nel secolo scorso. L'esordio di colui che successivamente venne soprannominato "Pablito" avvenne il 21 dicembre 1977, all'età di 21 anni e qualche mese, nell'amichevole contro il Belgio (vinta 1-0), organizzata in vista dei Mondiali di Argentina 1978, che poi disputò anche dopo aver vinto la classifica cannonieri con 24 reti. Il primo in assoluto a giocare nella nazionale maggiore fu Mario David che giocò l'unica partita durante la permanenza in biancorosso il 23 marzo 1958, all'età di 24 anni, nel match valido per la Coppa Internazionale disputato a Vienna contro l'Austria, che si impose 3-2; alla fine di quella stagione passò alla Roma e successivamente al Milan, giocando ancora in nazionale maggiore. Il secondo in ordine di tempo fu Giorgio Puia che debuttò con Italia l'11 novembre 1962, anch'egli al "Prater" di Vienna, in un'amichevole vinta dagli azzurri per 2-1, mentre la seconda presenza risale al 27 marzo 1963, in una gara valida per la fase eliminatoria dell'Europeo 1964 contro la Turchia, vinta dall'Italia 1-0 ad Istanbul. Infine Giampiero "Jimmy" Maini ha disputato l'unica partita in nazionale A in 4 giugno 1997, a pochi giorni dalla conquista della Coppa Italia (il 29 maggio): la sfida contro l'Inghilterra, che vinse 2-0, era valida per il Torneo di Francia.
GIOVANI IN RAMPA DI LANCIO. La speranza è che presto, soprattutto se dovesse arrivare la promozione in B del L.R. Vicenza, le statistiche possano essere riaggiornate. Nel mese di ottobre di quest'anno grande soddisfazione per i colori biancorossi che hanno visto nei raduni azzurri, ospitati nel Milanese, delle rappresentative nazionali di Lega Pro ben sette giovani promesse convocate agli ordini di mister Daniele Arrigoni. Si tratta dell'attaccante degli Allievi Nazionali Under 17 Edoardo Martini e del centrocampista della stessa squadra Mattia Balzan. Convocati anche il portiere degli Allievi Nazionali Under 16 Pierluigi Arena, mentre sono quattro tra i Giovanissimi Nazionali Under 15: i difensori Gabriele Pretto e Alessandro Rossi, il centrocampista Giosuè Rampazzo e l'attaccante Filippo Collicelli.
UN POKER IN NAZIONALE A
Giocatore / Presenze / Periodo
Paolo Rossi 14 1977-1979
Giorgio Puia 2 1962-1963
Mario David 1 1958
Giampiero Maini 1 1997
I CONVOCATI IN UNDER 21 NEGLI ANNI DUEMILA
Giocatore / Presenze / Periodo
Gianni Comandini 8 1999-2000
Fabio Firmani 8 1999-2001
Paolo Zanetti 4 2002-2003
Christian Maggio 2 2002
Davide Biondini 1 2004
Simone Padoin 6 2004-2007
Gabriele Paonessa 2 2006-2007
Piermario Morosini 8 2007-2009
Davide Bottone 1 2008
Davide Brivio 3 2009-2010
Francesco Signori 1 2009
Gianvito Misuraca 8 2010-2011
Fausto Rossi 10 2011-2012
Carlo Pinsoglio 1 2012
Roberto Gagliardini 1 2015
Filippo Ranocchia 3 2021-2022
SUCCESSE A... NOVEMBRE
L.R. Vicenza-Roma 4-3, come ai Mondiali 1970
C.R. Il 27 novembre 1977 va in scena allo stadio Menti (sugli spalti 22 mila spettatori) uno dei match più avvincenti ed emozionanti della storia biancorossa. L.R. Vicenza-Roma finisce 4-3 (come Italia-Germania nella mitica semifinale ai Mondiali 1970 a Città del Messico) al termine di una gara che sembra non finire mai. All'intervallo la squadra di G.B. Fabbri è avanti 2-1, in virtù dei gol di Cerilli al 4', pareggio di Di Bartolomei al 35' e rete di Faloppa al 35'. Nella ripresa al 56' segna Paolo Rossi, ma 1' dopo Maggiora riapre l'incontro. Il 4-2 di Rossi al 77' su rigore sembra chiudere i conti ma all'80' Casaroli firma il terzo gol romanista, creando ulteriore pathos. A 6' dalla fine l'arbitro internazionale Menicucci di Firenze concede un penalty alla squadra giallorossa: sul dischetto va il 22enne Di Bartolomei, a Vicenza nella stagione precedente (in prestito dalla Roma), ma il portiere Galli, che sapeva come calciava i rigori l'ex compagno, intuisce l'angolo e vola sulla sinistra, deviando il pallone sul palo e poi in angolo. Con la doppietta Rossi diventa il capocannoniere della serie A con 8 gol.
Roma onora Simonetta Avalle con l’intitolazione di un palasport. E Vicenza dimentica Antonio Concato, il presidente del grande basket berico
di Giovanni Coviello
Roma si muove, Vicenza tace. Mentre nella Capitale l’Assemblea Capitolina ha approvato a ottobre all’unanimità la mozione per intitolare un palazzetto dello sport a Simonetta Avalle, scomparsa “solo” il 27 gennaio del 2025, figura indimenticabile della pallavolo italiana e allenatrice anche della Minetti Vicenza, la città del Palladio, a oltre sei anni dalla sua morte, resta immobile nel ricordare chi l’ha resa celebre nello sport di squadra, “La leggenda del basket femminile” come lo defi-
niva il sottotitolo della sua biografia “Quando Vicenza trionfava in Italia ed in Europa" firmata da Roberto Pellizzaro. Nessuna decisione, infatti, è stata presa per onorare Antonio Concato, lo storico presidente del Vicenza Basket, artefice di successi nazionali ed europei della squadra che, agli albori della sua storia, giocò persino nella Basilica Palladiana, simbolo della città e delle sue eccellenze. La differenza di sensibilità tra le due città è evidente: Roma sceglie di celebrare Avalle, riconoscendole un’eredità sportiva e umana profonda, mentre Vicenza, tra non dichiara-
te gelosie di parte, non ha ancora trovato il coraggio o la volontà di legare il nome di un suo grande protagonista sportivo a un luogo della memoria pubblica, nonostante l’iniziativa lanciata su questa testata per il PalaConcato già il 23 ottobre 2018, a pochi giorni dalla sua scomparsa nella notte tra il 22 e il 23 settembre, e nonostante una successiva petizione del 2023 su Change.org firmata, tra i tanti, da Roberto Pellizzaro, dal Csi e, ovviamente, da chi vi scrive, già presidente del volley femminile cittadino, vincente ma mai, anche per la vile complicità dei poteri locali
che ne interruppero il cammino gioioso, come il basket rosa del patron vicentino.
Nella mozione approvata il 15 ottobre 2025, il Consigliere capitolino e Presidente della X Commissione Sport Nando Bonessio ha, infatti, proposto l’intitolazione di uno dei nuovi palazzetti romani — tra via Maroi, Colli d’Oro e Cesano — alla memoria di Simonetta Avalle, “una docente di Lettere e Filosofia che ha saputo trasformare la sua cultura in passione sportiva, ottenendo risultati di prestigio regionale e nazionale”. Avalle, che aveva portato quartieri popolari come Tor Sapienza e Casal dei Pazzi ai vertici della pallavolo femminile conquistando la Serie A, è stata ricordata come “una figura stimata in tutto l’ambiente del volley, capace di formare generazioni di giovani atlete e di coniugare cultura, educazione e sport”.
Bonessio ha aggiunto che l’assessore capitolino allo sport, Alessandro Onorato, si è già detto pronto a sostenere l’iter per l’intitolazione ufficiale. “Con questa mozio-
ne — ha dichiarato — Roma rende omaggio a una donna che ha saputo unire intelligenza e passione, lasciando un segno indelebile nella storia dello sport italiano”. Un riconoscimento che arriva a meno di un anno dalla sua scomparsa e che conferma, come abbiamo scritto su ViPiù, l’immortalità umana e sportiva della “signora del volley”, amata da atlete, colleghi e tifosi per la sua forza morale e la capacità di insegnare la vita attraverso lo sport.
Vicenza, che aveva ammirato anche “Simo” Avalle per la sua professionalità alla guida della Minetti, ha oggi un’occasione preziosa per riflettere. Perché se Roma ha deciso di costruire memoria e gratitudine a lei, la “signora del volley”, la città berica non può continuare a dimenticare il suo ambasciatore principe nello sport, Antonio Concato. Riconoscere il suo valore non è solo un atto di nostalgia: è un dovere di civiltà e di memoria collettiva. Roma lo ha fatto per Simonetta.
SimonettaAvallecelebrataancheinPerugia-Tarantodi
Basket in carrozzina, Vicenza debutta in Serie A: “In piedi o seduti, nessuna differenza”
di G. C.
Il campionato di basket in carrozzina di Serie A è cominciato. Ora anche a Vicenza dove da quest’anno al Pala Baracca gioca la Banca delle Terre Venete – Wheelchair Basket Vicenza, la squadra locale neopromossa con la guida della presidente Franca Borin e del suo staff, dirigenziale, organizzativo e tecnico, entusiasta e competente: da serie A, insomma. Il campionato è iniziato in salita come prevedibile per una debuttante nella massima serie e, poi, in Champions. “Contro Giulianova abbiamo perso – ci dice la presidente dell’A.S.D. Polisportiva Disabili Vicenza Onlus, ma chi c’era sabato al palazzetto sa che non è questo il punto. Perché il palazzetto era pieno, la gente entusiasta, i bambini con gli occhi accesi, la musica, gli applausi”.
Era una festa, insomma?.
“Sì, una di quelle che ricordano che lo sport, che, quando è vero, non dipende dal risultato ma dal coraggio. La nostra squadra da neopromossa deve affrontare le big che da anni militano nelle TOP 10 delle squadre Italiane ed Europee e per questo ha bisogno di tempo
per rodarsi, amalgamarsi, giocare e pensare di squadra”.
Anche di fronte agli imprevisti…
“Abbiamo avuto un inizio complicato: un giocatore turco bloccato da problemi di visto, un altro infortunato gravemente durante la prima partita. Due assenze pesanti, che si fanno sentire. Ma la nostra squadra, la Banca delle Terre Venete – Wheelchair Basket Vicenza, non cerca scuse. Scende in campo comunque, a testa alta, con quella determinazione che non si compra e non si insegna: si costruisce ogni giorno, allenamento dopo allenamento, sorriso dopo sorriso”.
Noi, anche da ex dirigenti sportivi, sappiamo che il vostro progetto ha un valore particolare e aggiuntivo.
“Lo possiamo dire con orgoglio anche grazie ai partner che già ci sostengono, tra cui in primis Banca delle Terre Venete e De Bona Motors, due importanti realtà che hanno scelto di credere nello sport inclusivo e nella sua forza di cambiamento. Sappiamo anche che siamo una squadra di livello medio-alto, con ambizione, serietà e un’identità chiara. Ma per restare competitivi, per garantire ai
nostri atleti carrozzine efficienti, trasferte sicure e la possibilità di crescere, abbiamo bisogno di nuovi alleati. Per questo abbiamo lanciato la campagna su www.ideaginger. it: “Adotta il tuo campione, e diventa protagonista con lui” (Qr code in fondo”). Non è una semplice raccolta fondi, è un invito a diventare parte della nostra storia”.
Parallelamente, prosegue il vostro impegno sul territorio con il progetto “Palestra senza Muri”
“Sì, certo, portiamo lo sport là dove di solito arrivano solo le barriere. E grazie al protocollo firmato con il Provveditorato agli Studi di Vicenza, nella persona della dirigente dott.ssa Nicoletta Morbioli, stiamo entrando anche nelle scuole, per far conoscere ai ragazzi il valore della presenza, della consapevolezza e dell’inclusione. Il nostro è un viaggio attraverso lo sport, che ambisce, soprattutto a coinvolgere quante più persone possibili a rompere gli schemi e a cambiare l'approccio alla pallacanestro in carrozzina”.
“In piedi o seduti, nessuna differenza”, conclude Franca Borin con tutto il mondo che le sta intorno, tra cui anche noi come partner editoriali.
Campagna su www.ideaginger.it: “Adotta il tuo campione, e diventa protagonista con lui”
L’ALTRA VICENZA
La vendetta del pesce ripescato (dal frigo)
di Federica Zanini
Venerdì pesce. Ok, ma il resto della settimana? E, soprattutto, che fare con quello che resta?
Operazione riciclo, ovvio. Per la gioia di chi in famiglia “Uffa, odio il pesce. Devo pulirlo, è pieno di lische e poi… sa di pesce”. A rieccola. A rieccoci: tu me provochi? E io mo’ te (ri)frego.
Frigo mio che ti sei fatto capanna, è ora di svuotarti e lasciarmi creare qualcosa di nuovo. Tra i ripiani, due bei tranci di salmone grigliato della sera prima, un po’ di polpo e chips di patate arrostiti in friggitrice ad aria, tristissimi carotine e piselli lessi e dell’insalata valeriana mescolata con fettine di pera e olive taggiasche.
Anche in questo caso, è escluso che nelle vostre cucine vi ritroviate esattamente con gli stessi avanzi, ma il tema è il riciclo, che include come amalgama indispensabile tanta fantasia. Insomma, io vi racconto le mie acrobazie gastronomiche, ma voi fate come volete, con quello che avete.
Fatto l’inventario di ciò che non va sprecato (e va rifilato all’adolescente schizzinosa, ormai è una sfida), chiamo in soccorso ricotta, uova, farina, pan grattato e grana grattugiato.
E metto a lavorare il mio scassato, ma fedelissimo robot.
Prima trito abbastanza finemente, ma senza farne una poltiglia, polpo e patate arrosto, aiutandoli ad amalgamarsi con la ricotta (meglio quella “vera”, densa e granulosa, rispetto a quella pannosa nelle scatolette a lunga conservazione). Fermate le lame, insaporisco con il sale ed erbe aromatiche a piacere (perfetta sarebbe la mentuccia selvatica, ma vabbè io sono maniaca, come dicono i miei figli). A questo punto, aggiungo nel mixer un uovo e le verdure: carotine, piselli e insalata con pere e olive (denocciolate, ovviamente!). Dopo un paio di giri, fermo di nuovo tutto e inserisco,
Verdure,pesce,uova,pane...
non prima di averlo privato della pelle e dell’osso centrale e di eventuali altre lische, il salmone, sbriciolandolo grossolanamente con le mani, e faccio ripartire. Attenzione: il contenitore del mio tritatutto-dinosauro è molto grande, ma se così non fosse il vostro, dopo ogni operazione svuotate l’impasto ottenuto in una terrina e alla fine amalgamate bene con l’aiuto di un cucchiaio o, meglio ancora, una forchetta. Procedura che devo comunque fare anche io alla fine, quando vanno aggiunti a legare il pane grattato e il grana grattugiato.
Quello che dobbiamo ottenere è un composto omogeneo, morbido ma non consistente, con cui, inumidendoci le mani, andremo a formare delle polpette (io le ho fatte a forma di quenelle), che andranno poi
Formatelepolpette,vannoinfarinate
infarinate.
Una volta pronte, si possono friggere nell’olio bollente o rosolare in padella, ma anche cuocere al forno o in friggitrice ad aria per un quarto d’ora circa, dopo averle irrorate con un filo sottile d’olio extravergine di oliva.
In tavola le potete portare così, belle calde, accompagnate dalla verdura che preferite, ma io le consiglio tiepide, o anche fredde, con insalata e una salsa fresca in cui intingerle. Io mi sono ispirata alla cucina greca e ho preparato un simil-tzatziki (non avevo in cetrioli freschi) con yogurt bianco denso, aglio in polvere, erba cipollina, un cucchiaino di maionese leggera e un goccio di aceto bianco, meglio se agrodolce. Cena spazzolata, adolescente fregata.
Dalle colline veronesi alle Langhe: quando le dolci alture offrono paesaggi e vini memorabili
di Michele Lucivero
Lo spettacolo paesaggistico che offre l’Italia è ineguagliabile e questo va detto senza necessariamente dover ricorrere a meschini paragoni con altre zone del mondo, ma solo per imparare a valorizzare la varietà idrogeologica e geomorfologica del nostro territorio. In Italia abbiamo la fortuna di poter passare con disinvoltura dal mare al lago e poi dalla collina alla montagna nel giro di poche ore di viaggio e questo non è così scontato girando per l’intero globo. In questo frangente, tuttavia, vorremmo valorizzare una formazione geologica, la collina, che non solo è diventa una meta turistica estremamente apprezzata a livello internazionale, ma è, per quanto ci riguarda, la zona climatica d’elezione della viticoltura grazie all’escursione termica e alla particolare esposizione solare in combinata con il tipo specifico di terreno, elementi che rendono il prodotto vinicolo unico e irripetibile. Basti pensare alle colline toscane, a quelle trevigiane di Valdobbiadene oppure a quelle trentine per richiamare alla memoria vini di grande qualità, ma qui, in verità, vorremmo esaltare le peculiarità delle colline piemontesi delle Langhe e quelle veronesi della Valpolicella e non solo.
Proprio intorno alla Valpolicella si estende la maggior parte dei vigneti della casa Tenimenti dal Moro, una cantina storica che lavora in vigna da tre generazione e che offre il top di gamma dei vini veronesi di quella zona. Del resto la vocazione vitivinicola della Valpolicella è scritta della sua presunta etimologia, sebbene sia piuttosto fantasiosa, documentata solo a partire dal XII secolo e, quindi, tutto sommato, altamente improbabile. Molti, infatti, fanno risalire il termine Valpolicella a Vallis-polis-keller, che richiamerebbe il latino “vallis” per valle, il
I sedici ettari di vigneti di Gianni Doglia, enologo e profondo conoscitore del territorio del Piemonte, si trovano a Castagnole delle Lanze, in provincia di Asti, e sono coltivati direttamente da lui e dalla sua sorella Paola, produttori che hanno deciso di rimanere una piccola azienda a conduzione familiare con lo scopo di dedicare un’attenzione particolare all’intera filiera produttiva. Certo, loro ci mettono passione ed esperienza, ma inutile nascondere che ci troviamo in un territorio vocato alla produzione enologica d’eccellenza, non a caso Patrimonio
SoaveDOC,TenimentidalMoro 2021,12,5%
Barbera Nizza DOCG Viti vecchie 2020 di GianniDoglia,15%vol.
L’ALTRA VICENZA
SoaveDOC,TenimentidalMoro2021,12,5%
greco “polis” per molte e, infine, la radice germanica “keller” per cantine, così da forgiare ad hoc un nome per ciò che si vuole raccontare, cioè una “valle dalle molte cantine”, che è anche molto romantico! Ad ogni modo, quello che vogliamo presentare in questo numero è un vino che viene prodotto da vigneti situati nelle altrettanto dolci colline di Soave, più a est rispetto alla Valpolicella, caratterizzate da suoli prettamente vulcanici. Questo Soave DOC 2021 è un bianco prodotto interamente da uve Garganega, raccolte durante la seconda metà di settembre. Alla vista si presenta di colore giallo dorato, brillante e trasparente, e una volta avvicinato al naso svela profumi floreali di gelsomino, acacia e poi un fruttato di pesca gialla e agrumi con spiccate note minerali e di erbe aromatiche. In bocca è secco, sapido con una media persistenza da elevarlo tra i vini bianchi di discreta qualità.
Barbera Nizza DOCG Viti vecchie 2020 di GianniDoglia,15%vol.
dell’UNESCO. Tra le varie proposte di Gianni Doglia, abbiamo degustato un Barbera Nizza DOCG Viti vecchie, un rosso prodotto da vitigni Barbera della zona di Nizza Monferrato che hanno ben 45 anni. Caratteristico è anche il processo di vinificazione, infatti, dopo la macerazione il vino affina in barriques nuove e già usate per circa 18-24 mesi e riposa per altri 6 mesi in vasca d’acciaio per favorire una stabilizzazione naturale. Alla vista si presenta di un rosso rubino limpido e trasparente, mentre al naso emergono sentori di lampone, ciliegia, more, un florale definito di viola, ma anche sentori eterei e balsamici tipici di un vino dalla persistenza lunga e dalla qualità definita. All’assaggio i tannini sono ancora poco polimerizzati, in fondo è un vino giovane che ha bisogno di affinare ancora, ma è evidente la struttura e l’equilibrio di un vino che tra qualche anno potrà dare grandi risultati.
Lessinia,Prealpivenete
Abbinamenti
Per l’abbinamento ci piace molto spesso, anche per esaltare le tipicità regionali, rimanere nel territorio di produzione del vino, per cui abbiamo pensato di accostare al Soave DOC un pesce di lago, una trota, magari in crosta di pane per avere un piatto piuttosto completo o, in alternativa, un risotto leggero in-
sieme ad un carpaccio di orata. Per quanto riguarda il Barbera Nizza, invece, abbiamo pensato di esaltarlo con uno spezzatino di selvaggina oppure con una sella di capriolo, ma se proprio non ci si vuole appesantire, noi non disdegniamo mai una bottiglia di una certa importanza come questo Barbera in compagnia di nient’altro che di ottimi amici!
Viacqua accelera sulla lotta alle perdite idriche: investimenti per oltre 12 mln nell’Alto Vicentino
Piano strategico con fondi PNRR per salvare milioni di litri d’acqua e rendere più efficiente la rete idrica vicentina.
Ridurre le perdite e ottimizzare la gestione della risorsa idrica: è questa la sfida che Viacqua ha raccolto nell’Alto Vicentino grazie ai fondi del PNRR – NextGenerationEU L’obiettivo è chiaro: digitalizzazione della rete e meno sprechi
Il progetto, denominato “Sustainable Water Management – Reti di distribuzione Ambito Bacchiglione”, è finanziato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti con un investimento complessivo di 33 milioni di euro. A coordinare il piano è il Consiglio di Bacino Bacchiglione, in collaborazione con i gestori idrici AcegasApsAmga, Acquevenete e Viacqua, quest’ultima capofila per gli interventi nel territorio vicentino.
Solo nel territorio servito da Viacqua – 67 Comuni e oltre 500 mila abitanti – gli investimenti ammontano a 12,3 milioni di euro. Gli interventi si concentrano soprattutto sull’acquedotto consortile dell’Astico, una rete lunga circa 1.200 chilometri che rifornisce venti Comuni dell’Alto Vicentino.
Il traguardo è ambizioso: ridurre le perdite idriche dal 37% al 23% entro il 2026, risparmiando ogni anno oltre 2 milioni di metri cubi di acqua potabile.
Ecco cosa puoi fare tu per ridurre gli sprechi d’acqua. Inquadra il QR code qui accanto e scopri come piccoli gesti quotidiani possono farti risparmiare anche sulla tua bolletta.
Per raggiungerlo, Viacqua sta puntando su tecnologia e innovazione:
• già 36.847 contatori “smart” installati (su un totale previsto di 46.000), in grado di segnalare in tempo reale eventuali dispersioni;
• 698 chilometri di condotte mappati nel 2024 in 11 Comuni, saliti a 916 chilometri nel 2025 con l’estensione dei lavori a Lugo, Sarcedo e Zugliano;
• un recupero stimato di oltre 35 litri al secondo.
Le squadre tecniche utilizzano oggi strumenti fondamentali – noise logger e geofoni – che consentono di individuare le perdite senza scavi, riducendo tempi, costi e disagi per i cittadini.
Prosegue inoltre la distrettualizzazione della rete idrica, con nuovi punti di misura a Isola Vicentina e Cogollo del Cengio. Questa tecnica consente di suddividere la rete in piccole porzioni – i cosiddetti distretti – ognuna monitorata costantemente tramite sensori che controllano flussi, portate e pressioni. Grazie al telecontrollo, è possibile intercettare in tempo reale eventuali anomalie e intervenire in modo mirato, limitando al minimo i disagi per l’utenza.
Innovazione, monitoraggio e sostenibilità sono le chiavi per una gestione sempre più responsabile dell’acqua, una risorsa vitale che Viacqua intende proteggere con azioni concrete e risultati misurabili. Un lavoro spesso invisibile, ma fondamentale, che dall’Alto Vicentino sta contribuendo a costruire un sistema idrico moderno, efficiente e vicino alle esigenze del territorio