VicenzaPiù Viva n. 299, 15 giugno 2025

Page 1


Sanità pubblica mia, per piccina che tu sia salvi tu la vita mia? il

ho nessuno che mi immerga”

Sanità: il tema che preoccupa più degli altri

Sanità in Ue, l’ennesima conferma che la strada dell’integrazione è l’unica percorribile.

Una sanità più cara e più fragile

Dottor Lorenzo Trombetta: “La sanità italiana? È la migliore del mondo e in Veneto funziona bene”

Adriana Sartori

La sanità calabrese raccontata ai veneti

Viaggio nella “Leather Valley” del vicentino, dove si respira aria fresca e pulita

Un colosso da 200 dipendenti per tenere sotto controllo il livello di inquinamento

Concia e PFAS, parla Giampaolo Zanni

PFAS: il più grande processo ambientale in Italia attende la sentenza.

Protagonisti: Mauro Bellesia

Preti, una specie in via di estinzione?

Tutti i numeri dei referendum, l’analisi del voto e della partecipazione

Pier Carlo Padoan, l’arte di cadere in piedi

Rubrica: Due ruote

L’invenzione della bicicletta

Monopattini, velocipedi e micromobilità elettrica

La rinascita delle biciclette tradizionali

Eco mobilità su due ruote

Turismo in moto

Guida sicura in moto

L’EDITORIALINO

Sanità,

per goderne bisogna anche pedalare

Uno dei pochi ed essenziali (vitali?) temi che sta veramente a cuore ai cittadini e, quindi, ai lettori (il nostro “maschile” è neutro e, quindi, è anche femminile e di ogni genere) è la sanità pubblica. Per quella privata i discorsi sono paralleli, se è erogata in convenzione in sostituzione e/o affiancamento di quelle pubblica, e diversi, se chi la sceglie ne ha la possibilità o, talvolta, purtroppo sempre più spesso, la necessità. Il longform di questo numero è, quindi, dedicato alla sanità italiana, di cui quella veneta, oggettivamente, ha più pregi o meno difetti di quella di molte altre regioni. Partendo dalle povertà sanitarie e da come provano a superarle i 4,5 milioni gli italiani che rinunciano a curarsi per ragioni economiche e, in parallelo, per effetto delle liste d’attesa della sanità pubblica, come è sempre più tipico di VicenzaPiù Viva, a noi piace guardare non solo verso Vicenza, col rischio di accentuarne un certo provincialismo, ma, di più, da

VicenzaPiù Viva Fondato il 25 febbraio 2006 come supplemento di La Cronaca di Vicenza

Autorizzazione Tribunale di Vicenza n. 1183 del 29 agosto 2008

Responsabile direzione ed edizione Giovanni Coviello - direttore@vicenzapiu.com

Redazione tel. 0444.1497863 - redazione@vicenzapiu.com

Sede Viale Verona 41, 36100 Vicenza tel. 0444.1444959 - info@vicenzapiu.com

Vicenza verso il mondo per allargarne la visuale come auspica, nell’articolo dedicato a lui come protagonista del mese, Mauro Bellesia, che per decenni ha curato la “salute” dei conti pubblici comunali. Ecco, quindi, che da Vicenza esploriamo le diverse caratteristiche della sanità nella UE, nel Regno Unito e negli Usa mentre localmente diamo conto di storie di nostri medici e di come, anche per effetto del dramma dei PFAS, su cui vi aggiorniamo, siano costantemente più attenzionate la salute pubblica e la cura dell’ambiente anche nell’area della concia, che punta adiventare un modello di sostenibilità. Se parliamo di salute, anche quella spirituale è a rischio come ci evidenzia l’analisi su questo numero del crollo delle vocazioni, ma quella fisica può essere migliorata con l’uso, accorto e nel rispetto delle norme, delle due ruote, a pedale e a motore che siano, a cui dedichiamo un inserto dichiaratamente estivo. Memori, infine, del detto “Mens sana in corpore sano”, con cui

Impaginazione Aurea Italy

Concessionaria della pubblicità

Editoriale Elas - Editorale L'Altra stampa srl elas@editoriale-elas.org

Sede centrale Via XX Settembre 118, 00187 Roma tel. 06.86358980 - elas@editoriale-elas.org

Stampa CTO / Vicenza via Corbetta 9, 36100 Vicenza

Lettere dei lettori cittadini@vicenzapiu.com

Distributore Chiminelli Spa, Silea (TV)

Giovenale evidenziava come l’uomo dovrebbe aspirare a due beni soltanto, la sanità dell’anima e la salute del corpo, vi proponiamo alla fine le recensioni dei due ultimi libri di Editoriale Elas, che curo per le sue collane e che, sempre di più, ne scriveremo anche su ViPiu. it, intende sviluppare la sua attività editoriale promuovendo nuovi autori, maturi ma all’esordio come Massimo Parolin o giovani che vogliano sfuggire alla tirannia dei social sgrammaticati, virtuali e, perciò, sempre più disumanizzanti. Ecco perché le pagine sulla sanità sono inframezzate da pagine di vecchia, buona e… sana satira. Finché non ci verrà proibita anche quella. Per decreto.

Abbonamenti digitali e postali https://www.vipiu.it/vicenzapiu-freedom-club info telefoniche 06.86358980

Impaginazione chiusa il 10 giugno 2025 Associato n. 5967

Giovanni Coviello
“Non

ho nessuno che mi immerga”:

le povertà sanitarie e come superarle alla luce della

Costituzione Italiana e del Manifesto di Verona

Sono

4,5 milioni gli italiani che rinunciano a curarsi per ragioni economiche e, in parallelo, per effetto delle liste

d’attesa della sanità pubblica

di padre Gino Alberto Faccioli

“Non ho nessuno che mi immerga”. Universalità e diritto di accesso alle cure. È il titolo del XXV Convegno Nazionale della Pastorale della Salute, tenutosi a Verona il 7-15 maggio del 2024. “Non ho nessuno che mi immerga”, è stato declinato dal vangelo di Giovanni, dove un paralitico pur trovandosi vicino alla piscina di Betzatà (luogo dove era possibile guarire), non riesce ad avvicinarsi alla guarigione, perché non c’è nessuno che lo accompagni: il suo problema era avvinarsi alla cura.

Come prendersi cura di qualcuno è un tema che da sempre affascina l’umanità. Siamo passati dalla

semplicità di piccoli gesti di aiuto a forme di cura organizzata sempre più evolute. La sapienza del cristianesimo e il senso di una solidarietà diffusa hanno generato l’istituzione “ospedale” insieme ad altre strutture specializzate. Nel tempo, tutti i paesi nel mondo si sono dotati di un sistema più o meno ampio di assistenza.

In Italia, la cura delle persone affette da problemi di salute ha un carattere universalistico. Chiunque risieda, anche temporaneamente, sul nostro territorio ha diritto ad essere curato. Tuttavia, oggi, questo più che un diritto sembra essere diventato una sorta di privilegio, legato alla soglia della povertà. Scriveva, papa Francesco, in un messaggio del 13

aprile 2023 all’Associazione religiosa istituto socio-sanitario: «Ci sono persone che per scarsità di mezzi non riescono a curarsi, per le quali anche il pagamento di un ticket è un problema; e ci sono persone che hanno difficoltà di accesso ai servizi sanitari a causa di lunghissime liste d’attesa, anche per visite urgenti e necessarie! Il bisogno di cure intermedie poi è sempre più elevato, vista la crescente tendenza degli ospedali a dimettere i malati in tempi brevi, privilegiando la cura delle fasi più acute della malattia rispetto a quella delle patologie croniche: di conseguenza queste, soprattutto per gli anziani, stanno diventando un problema serio anche dal punto di vista economico, con il rischio di favorire percorsi poco rispettosi della dignità stessa delle persone». Le parole pronunciate nel 2023 dall’allora pontefice, hanno trovato conferma nel Rapporto Bes (Benessere equo e sostenibile) del 17 aprile del 2024.

In questo rapporto, come anche quello della Fondazione Gimbe, emerge chiaro come i dati del capitolo salute sono allarmanti: aumentano a 4,5 milioni gli italiani che rinunciano a curarsi, sia per ragioni economiche sia, soprattutto, per effetto delle liste d’attesa. A far aumentare gli italiani che rinunciano alle cure – l’anno scorso erano poco più di 4 milioni – sono state proprio le attese troppo lunghe.

Nel 2022 4,2 milioni di famiglie hanno limitato le spese per la salute,

in particolare al Sud.

Secondo i dati ISTAT sul cambiamento delle abitudini di spesa nel 2022 il 16,7% delle famiglie dichiarano di avere limitato la spesa per visite mediche e accertamenti periodici preventivi in quantità e/o qualità.

Risultati sovrapponibili, seppur in percentuali ridotte, vengono restituiti dall’indagine ISTAT sulle condizioni di vita. Il 4,2% delle famiglie dichiara di non disporre di soldi in alcuni periodi dell’anno per far fronte a spese relative alle malattie.

Secondo le statistiche ISTAT sulla povertà, tra il 2021 e il 2022, l’incidenza della povertà assoluta per le famiglie in Italia –ovvero il rapporto tra le famiglie con spesa sotto la soglia di povertà e il totale delle famiglie residenti – è salita dal 7,7% al 8,3%, ovvero quasi 2,1 milioni di famiglie.

Questi dati preoccupanti hanno portato le undici Federazioni e Consigli nazionali dei Professionisti della salute, a partecipare al Convegno di Verona sul tema delle povertà sanitarie e si sono impegnate, a firmare il cosiddetto Manifesto per il superamento della povertà sanitarie.

In questo documento dopo aver ricordato:

• che le professioni sanitarie e sociosanitarie sono garanti della dignità della persona e del diritto alla tutela della salute al di là di ogni logica di profitto;

• che l’universalità, l’equità e la solidarietà assistenziale sono e devono restare le finalità prioritarie del Servizio Sanitario Nazionale;

• che questo, dopo quarantacinque anni, rappresenta uno strumento in grado di garantire a tutti i cittadini elevati livelli di tutela della salute individuale pubblica, tra i migliori al mondo

alla luce di questa allarmante soglia di povertà indicano alcune possibili soluzioni, quali:

• un Piano Nazionale di Azione per il contrasto delle diseguaglianze nell’accesso alle cure;

• come compito delle autonomie locali garantire a tutti i cittadini il diritto alla tutela della salute (art. 3 e 32 Costituzione Italiana);

• promuovere un regionalismo solido;

• rivedere il sistema di compartecipazione alla spesa sanitaria degli assistiti;

• garanzia diritto salute non come mero calcolo di utilità economica, ma fondandosi su “dignità e libertà”, i due capisaldi del Servizio Sanitario Nazionale.

Tuttavia, alla luce del rapporto Bes del 3 marzo del 2025, in cui emerge che la soglia della povertà è rimasta costante se non aumentata rispetto

al 2024, le possibili soluzioni sono rimaste solo dei buoni propositi, e tali rimarranno se non si deciderà di mettere al centro l’essere umano, con la sua dignità e libertà come ricorda il SSN, e non l’aspetto meramente economico.

Infatti, quando i medici, vengono convocati per fissare il budget per il nuovo anno, a loro prima di tutto vengono fatte precise richieste in ordine di entrate economiche, ciò vuol dire che devono aumentare le prestazioni sanitarie con tutto quello che ne consegue.

Per uscire da questa situazione la politica, perché fondamentalmente si tratta di questo, deve avere il coraggio di guardare al passato, alla storia degli ordini e delle congregazioni religiose che hanno nel loro carisma l’attenzione ai malati, di come i fondatori e coloro che hanno proseguito la loro opera hanno messo sempre al centro l’essere umano, uomo o donna che sia, che prima di tutto va accolto ed aiutato e non lasciato in disparte perché «Non ha nessuno che lo immerga» (cf. Gv 5.7).

ManifestodiVerona(Manifesto perilsuperamentodellepovertà sanitarie delle Federazioni e ConsiglinazionalideiProfessionisti della Salute condiviso dall’UfficioNazionaleperla pastoraledellasalutedellaCEI)

Come sta la sanità in Italia?

Di recente, il tema della sanità è tornato in primo piano sulla scena politica nazionale. Proprio sulla sanità, ormai da molti mesi, il PD di Elly Schlein e le altre forze di opposizione incalzano il Governo Meloni, ritenuto colpevole innanzitutto di aver tagliato i fondi per la Sanità (o comunque di non averli aumentati in misura pari all’aumento dell’inflazione).

Lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è espresso con preoccupazione sulle disparità delle diverse situazioni regionali, denunciando “divari inaccettabili”. Con le Regioni – o meglio, con alcune di esse – ha polemizzato lo stesso Ministro della Salute

Spesa in crescita, ma non abbastanza

Negli ultimi dieci anni, la sanità pubblica italiana ha visto un costante incremento dei fondi a disposizione. Negli ultimi 10 anni, il fabbisogno sanitario nazionale –cioè la spesa complessiva stanziata dallo Stato per il funzionamento del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) – è cresciuto ogni anno. Nel 2024 ha toccato quota 134 miliardi di euro, e secondo le stime contenute nei documenti programmatici del Governo, nel biennio 2025-2026 verrà superata la soglia dei 135 miliardi.

Eppure, questa crescita –apparentemente rassicurante – va messa in prospettiva. Nei prossimi anni, infatti, la spesa sanitaria aumenterà meno rispetto al PIL nominale: 2,3% contro 2,8%. In termini relativi, quindi, il “peso” della sanità sul totale dell’economia risulterà in lieve

Orazio Schillaci, accusandole di non fare abbastanza per snellire le liste d’attesa, mentre la sua stessa riforma che prevede la trasformazione dei medici di

base a dipendenti del SSN è ferma a causa dei malumori interni alla stessa maggioranza di Governo.

Insomma, la Sanità rappresenta un tema “caldo”, allo stesso tempo molto complesso e problematico sotto diversi aspetti. Cerchiamo allora di capire qual è lo “stato di salute” (è davvero il caso di dirlo) della Sanità in Italia e quali sono le problematiche principali. Partendo proprio dal tema dei finanziamenti.

FinanziamentoSSN2010-2026.Fontedelgrafico:7°RapportoGIMBEsulSSN

calo. Già oggi, la spesa sanitaria pubblica italiana è pari al 6,3% del PIL, ma si prevede che possa scendere ancora leggermente.

Ma il 6,3% è tanto o è poco?

Se guardiamo agli altri Paesi OCSE, la risposta è chiara: è “un po’ poco”. L’Italia su questo fa leggermente peggio della media dei paesi sviluppati, pari al 6,9%. Tutti i principali partner europei –

Francia, Germania, Spagna –spendono più di noi in proporzione al proprio PIL, così come altri grandi paesi non europei come Canada, Giappone o Australia, tutti con valori della spesa sanitaria superiori al 7% del PIL. E poi ci sono gli Stati Uniti, che con quasi il 14% sono in cima alla classifica, anche se con un sistema sanitario molto diverso, in larga parte privatistico.

SpesasanitariainrapportoalPILneipaesiOCSE. Fontedelgrafico:7°RapportoGIMBEsulSSN

Più soldi dalle tasche dei cittadini

Ma se la spesa pubblica cresce poco, quella privata cresce molto. Nel 2023, secondo l’ISTAT, la spesa sanitaria “out of pocket” – cioè pagata direttamente dai cittadini per prestazioni private – ha raggiunto i 40 miliardi di euro, in aumento del 10% rispetto all’anno precedente. Si tratta di una cifra enorme, che dimostra quanto gli italiani ricorrano sempre più spesso a visite a pagamento, esami privati, e in generale a prestazioni sanitarie al di fuori del circuito pubblico.

Un fenomeno che non si può spiegare solo con la “libera scelta”: spesso si tratta di una necessità. Le lunghe liste d’attesa, la difficoltà di trovare specialisti nel pubblico o di accedere in tempi brevi a determinati esami spingono milioni di persone a rivolgersi al privato, anche a costo di sacrifici economici non indifferenti.

Non a caso, nel 2023 circa 2,5 milioni di italiani – il 4,2% della popolazione – hanno dichiarato di aver rinunciato a curarsi per motivi economici. Un numero impressionante, e in crescita: rispetto al 2022 si parla di oltre 600 mila persone in più che, per problemi di denaro, hanno scelto di non fare una visita, non acquistare un farmaco o non proseguire una terapia.

La sanità “a macchia di leopardo”

In Italia, la sanità è materia concorrente: lo Stato detta i principi generali, ma l’organizzazione e la gestione quotidiana spettano alle Regioni. E questa autonomia, se da un lato garantisce un certo grado di flessibilità, dall’altro ha prodotto forti diseguaglianze nella qualità e nell’efficienza dei servizi. Non a caso, in ben cinque Regioni italiane (Abruzzo, Calabria, Campania, Lazio e Molise) negli ultimi vent’anni si è reso necessario l’intervento di commissari straordinari per risanare conti pubblici fuori controllo. Altre cinque sono state coinvolte in piani di rientro.

Il risultato è un Paese in cui la qualità dell’assistenza cambia profondamente da una regione all’altra.

È proprio questa disparità ad essere stata nel mirino del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: a parità di diritto, non tutti i cittadini ricevono lo stesso servizio sanitario. Tra le altre cose, questo ha alimentato un fenomeno noto come “mobilità sanitaria” – o più efficacemente “turismo sanitario”. Ogni anno decine di migliaia di pazienti si spostano da Regioni in difficoltà verso quelle più efficienti. Le Regioni con saldo positivo – cioè quelle che ricevono più pazienti di quanti ne perdano – sono soprattutto Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Quelle con saldo negativo, invece, sono spesso le stesse – dal Lazio in giù – che presentano criticità strutturali e gestionali.

L’emergenza dei medici di base Un’altra importante crepa nel sistema riguarda i medici di medicina generale, comunemente noti come medici di base. Da tempo se ne denuncia la carenza, ma nel 2023 il fenomeno ha assunto contorni allarmanti: ne mancavano oltre 1.200 in Lombardia, circa 600 in Veneto, e più di 400 in Emilia-Romagna e Campania.

Il problema non è solo numerico, ma anche organizzativo. Da qui la proposta di riforma presentata dal Ministro della Salute Orazio Schillaci, che riprende alcune delle linee guida già elaborate dal suo predecessore Roberto Speranza durante il Governo Draghi: fare dei medici di base dei dipendenti pubblici, vincolati a un monte ore minimo da dedicare agli assistiti, e inseriti in una rete di assistenza di base meglio strutturata, in grado di alleggerire i pronto soccorso.

Ma la riforma, al momento, è bloccata. A impedirne l’approvazione è l’opposizione di Forza Italia, che teme uno snaturamento della figura del medico di base e solleva dubbi sulla sostenibilità economica del progetto.

Il diritto alla salute, oggi La Costituzione italiana, all’articolo 32, afferma che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Ma perché questo diritto sia effettivo, non basta proclamarlo: bisogna garantirlo nei fatti. E i fatti, oggi, raccontano un’Italia che spende meno di altri paesi (nonostante una struttura della popolazione mediamente più anziana e un’aspettativa di vita, per fortuna, molto alta), in cui milioni di cittadini pagano la sanità di tasca propria o rinunciano alle cure, e in cui la qualità dell’assistenza varia in modo inaccettabile da un territorio all’altro.

Stimadeimedicidimedicinageneralemancanti,perRegione. Fontedelgrafico:7°RapportoGIMBEsulSSN

I segnali di allarme ci sono tutti. Resta da capire se la politica – tutta – sarà in grado di rispondere con soluzioni concrete, capaci non solo di aumentare le risorse, ma soprattutto di usarle meglio.

Sanità: il tema che preoccupa più degli altri

Un’urgenza che cresce

La sanità è ormai diventata una delle principali preoccupazioni degli italiani. Lo confermano praticamente tutti i sondaggi, che mostrano un netto cambio di priorità nell’opinione pubblica negli ultimi anni. Secondo una rilevazione Demos di settembre 2024, la percentuale di cittadini che indicano la qualità del sistema sanitario

come il problema più urgente da affrontare è triplicata in soli due anni, passando dal 13% al 40%.

Un segnale forte, rafforzato da un sondaggio SWG secondo cui oggi la sanità è il tema maggiormente citato (50%) dagli elettori tra i principali motivi di preoccupazione, davanti perfino al costo della vita, che era al primo posto nel 2023. Storicamente centrali nel dibattito politico, temi come l’immigrazione o l’ambiente

sono stati sorpassati da quello sanitario. E un altro sondaggio, realizzato da EMG a dicembre 2024, ha mostrato come oltre 6 italiani su 10 (62%) indichino la sanità tra le principali priorità che il Governo dovrebbe affrontare nel 2025.

Cause di insoddisfazione

Ma da dove nasce questa insoddisfazione crescente? I dati SWG di aprile 2025 parlano

Leprincipalipreoccupazionidegliitaliani. Fonte:sondaggioSWG–settembre2024

Soddisfazionerispettoadalcunetipologiediservizisanitari.

Fonte:sondaggioSWG–aprile2025

chiaro: solo il 35% degli italiani è soddisfatto del Servizio Sanitario Nazionale, un dato in netto calo rispetto al 62% del 2008. La fiducia sembra essersi erosa nel tempo, e le responsabilità ven gono attribuite in modo piuttosto equo: il 47% punta il dito contro lo Stato centrale, il 40% contro la propria Regione. Il nodo principale è rappresentato dai tempi di attesa: per visite specialistiche, esami diagnostici, ma anche per interventi chirurgici. Se i medici di base continuano a godere di un buon livello di fiducia (61% di soddisfatti), il resto del sistema arranca. Non stupisce, quindi, che il 16% degli italiani abbia scelto di farsi curare in una regione diversa da quella di residenza negli ultimi cinque anni. È il fenomeno noto come “mobilità sanitaria”, legato soprattutto a due motivi: trovare liste d’attesa più brevi (34% dei casi) o strutture e personale sanitario ritenuti migliori (31%).

Veneto e Nord-Est: luci e ombre

Anche in Veneto, una delle regioni storicamente considerate all’avanguardia nella gestione della sanità, la percezione è cambiata. Un’indagine Demos condotta nel settembre 2023 ha rilevato che oltre la metà dei veneti (53%) ritiene che la sanità regionale sia peggiorata dopo la pandemia. Peraltro, i giudizi divergono in modo netto tra sanità pubblica e privata: solo il 33% promuove la sanità pubblica, contro il 61% che si dice soddisfatto di quella privata. Nelle indagini Demos del 1998, la sanità pubblica nel NordEst godeva ancora del 46% di apprezzamenti: rispetto ad allora, quindi, si è registrato un calo non indifferente.

Tra le criticità più rilevanti in Veneto c’è quella dei medici di medicina generale sovraccarichi: secondo dati ISTAT del 2024, il 65% dei medici di base ha un numero di assistiti superiore alla

soglia considerata ottimale. Un segnale di stress strutturale che, nel medio periodo, rischia di compromettere anche quei livelli di eccellenza che la regione ha saputo garantire nel tempo. Tuttavia, il Veneto continua a fare meglio della media nazionale in alcuni indicatori chiave: il 43,4% dei cittadini si dice soddisfatto dell’assistenza medica (contro il 40% nazionale) e il 51% apprezza quella infermieristica (contro il 41% rilevato in Italia).

Una priorità reale (non solo percepita)

I numeri parlano da soli: la sanità è oggi la principale priorità percepita dagli italiani. Ma non basta registrare le preoccupazioni: servono risposte. Investimenti, riforme, personale. Il rischio, altrimenti, è che la frattura tra bisogni dei cittadini e capacità del sistema pubblico di soddisfarli continui ad allargarsi, con effetti tangibili sul diritto alla salute e sulla coesione sociale del Paese.

Sanità in Ue, l’ennesima conferma che la strada dell’integrazione è l’unica percorribile.
Una materia complessa, sulla quale l’Unione europea e i ventisette si contendono competenze e potere legislativo in un contesto, però, in cui è sempre più difficile agire da soli.

La sanità è uno di quei temi sui quali all’Ue manca la cosiddetta “competenza esclusiva”. Secondo l’articolo 168 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, infatti, sono proprio gli Stati membri a doversi occupare del proprio sistema sanitario, seppur coadiuvati dall’Ue. Ma allora perché parlarne?

Nel 2020 la pandemia di SARSCoV-2 ci ha messo davanti una realtà drammatica: i nostri sistemi sanitari, e con essi i nostri stessi Paesi, si sono rivelati fragili davanti alle centinaia di migliaia di morti, evidenziando con urgenza la necessità di una risposta collettiva. Nessuno Stato membro, soprattutto non l’Italia, era in grado, da solo, di approvvigionare le scorte necessarie di FFP2 e gel igienizzante. Senza parlare poi di sedersi singolarmente ai tavoli di

trattativa con le case farmaceutiche che in quel momento stavano preparando i vaccini. È proprio da questo bisogno che è nato il progetto di una European Health Union, un’idea che trasforma l’Ue da semplice emittente di linee guida a regista di politiche e programmi condivisi, anche in materia di sanità.

EU4Health: un investimento strutturale

Nel maggio 2021 la commissione europea sotto la guida di Ursula von der Leyen ha lanciato EU4Health, il programma comunitario più ambizioso mai messo in campo per il settore sanitario. La dotazione economica iniziale ammontava a 5,3 miliardi, poi ridotti a 4,4 dal nuovo quadro finanziario pluriennale, una cifra importante per un progetto che non vuole essere un fondo emergenziale ma un vero e proprio

investimento a lungo termine. EU4Health finanzia progetti di rafforzamento della preparazione alle crisi, campagne di protezione e prevenzione (soprattutto nei confronti del cancro), interventi di lungo periodo sulle risorse umane e, in generale, tenta di rafforzare e integrare i sistemi sanitari nazionali. L’obiettivo è duplice: evitare che una pandemia o un’epidemia metta ancora in ginocchio gli ospedali e, al tempo stesso, costruire sistemi sanitari più moderni ed efficienti, capaci di intercettare precocemente focolai e di garantire cure tempestive ovunque.

HERA, l’inizio del trend “anti-crisi”

Per accorciare i tempi di reazione, nell’autunno del 2021 è nata HERA (Health Emergency Preparedness and Response Authority, l’autorità responsabile della risposta e della

preparazione alle emergenze sanitarie), non un’agenzia separata, ma una struttura nuova all’interno della Direzione Generale per la Salute e la Sicurezza alimentare (DG Sante) della Commissione europea. HERA è l’autorità responsabile delle politiche pubbliche in materia di salute pubblica, sicurezza alimentare e sanità animale e vegetale e ha il compito di monitorare rischi sanitari emergenti (dalle varianti virali agli eventi chimico-ambientali), di finanziare in anticipo la ricerca su farmaci e vaccini e di stipulare contratti con le industrie per lo stoccaggio preventivo di attrezzature e principi attivi. Nel momento di massima allerta, HERA può attivare strumenti finanziari d’emergenza per l’acquisto rapido e centralizzato di contromisure mediche, evitando che ogni Stato corra per conto proprio come avvenuto nel 2020.

I dati sanitari al centro di uno spazio europeo

La mossa forse più rivoluzionaria è stata l’approvazione, il 26 marzo 2025, dell’European Health Data Space (EHDS), lo spazio europeo per i dati sanitari. Per la prima volta l’Ue disciplina il flusso transfrontaliero dei dati sanitari, definendo standard tecnici per cartelle cliniche elettroniche, referti e immagini diagnostiche. Il regolamento sull’EHDS istituisce un mercato unico per i servizi sanitari digitali, con criteri comuni di sicurezza e interoperabilità per le cartelle cliniche elettroniche. Ogni cittadino potrà non solo consultare i propri dati da un formato

standard, ma anche decidere chi può accedervi e opporsi al loro uso per fini secondari. Lo scambio sicuro dei dati permetterà diagnosi e trattamenti migliori anche all’estero, evitando esami ripetuti e costosi. Ricercatori e istituzioni avranno accesso a informazioni sanitarie anonime su larga scala per migliorare cure, sviluppare innovazioni e costruire politiche basate sui dati.

Affrontare i vari limiti: sovranità farmaceutica, diseguaglianze e mancanza di figure professionali

La sovranità farmaceutica è uno dei grandi problemi dell’Unione, a causa della forte dipendenza da produttori extra-Ue di principi attivi e antibiotici essenziali. Per risolvere questo limite, la Commissione ha lanciato gare per rilocalizzare impianti sul suolo comunitario, offrendo incentivi fiscali e garanzie di acquisto. L’obiettivo è costruire una “catena del farmaco” autonoma, che, in caso di chiusure o rallentamenti geopolitici, non paralizzi la disponibilità di cure salvavita. Tuttavia, le cose procedono a rilento e una vera e propria sovranità farmaceutica è ancora lontana. Allo stesso modo, un’altra questione rilevante è la disparità nell’accesso alle cure nei vari Paesi. Infatti, nonostante i progressi esiste un divario enorme tra i Ventisette e persino all’interno degli stessi Stati. Per ridurlo sono stati stanziati fondi per la prevenzione in zone rurali o socialmente svantaggiate, ma senza un monitoraggio costante e interventi mirati, rischiano di rimanere misure episodiche. La

terza problematica è che tra le corsie d’ospedale e i laboratori mancano migliaia di medici, infermieri e tecnici: un problema acuito soprattutto negli Stati dell’Europa sud-orientale come l’Italia. Per quanto riguarda gli infermieri, ad esempio, i dati Ocse ne evidenziano una presenza molto bassa (6,5 ogni mille abitanti). Una percentuale molto inferiore alla media europea che Ocse fissa a 8,4 ogni mille abitanti. Ma questo è spiegabile forse anche dagli stipendi: lo stipendio italiano medio di un infermiere è circa 32000 l’anno, ovvero 8000 euro in meno della media Ocse. Di questo problema forse però, dovremmo chiedere conto ai nostri attuali e precedenti governi, con buona pace dell’Ue.

Verso l’operatività concreta

Art.186delTrattatosulFunzionamentodell’Unioneeuropea: “L’azionedell’Unione[...]rispettapienamenteleresponsabilitàdegli Statimembriperl’organizzazioneelafornituradeiservizisanitari e dell’assistenza medica.”

La vera sfida ora è trasformare leggi e finanziamenti in servizi tangibili. Bruxelles definisce standard e stanzia risorse, ma sono, il governo, le regioni (che secondo il titolo V della costituzione hanno competenza in materia di sanità), gli ospedali e i medici a doverli tradurre in salute effettiva: referti disponibili in modo rapido in un altro Paese (ma in Italia spesso anche all’interno del Paese stesso), terapie e farmaci alla portata di tutti e una rete di allerta rapida per nuove crisi. Solo così il cittadinodalla Lapponia alla Sicilia - potrà percepire il valore di una comunità unita, dove la salute non è un privilegio legato al luogo di nascita, ma un diritto garantito da un unico grande sistema di protezione. In fondo, il successo non si misurerà sul numero di regolamenti approvati a Bruxelles, ma sulla capacità di salvare vite, limitare danni e far sentire ogni europeo al sicuro. Se domani dovesse bussare una nuova emergenza, la prova del nove sarà la rapidità e l’efficacia della risposta: un vero “European Health Union” non potrà più attendere. La strada è oggettivamente lunghissima, soprattutto se si parte da un Paese come il nostro in cui la situazione sanitaria in alcune zone è al limite del ridicolo, resta da sperare però, come diceva qualcuno, che il vento veramente soffi ancora.

Una sanità più cara e più fragile:

gli effetti delle prime mosse di Trump sulla salute degli americani, mentre il Regno Unito difende il sistema sanitario nazionale.

Due distinti modi di vedere la sanità nei Paesi anglofoni. Da una parte il modello Uk, inclusivo e pubblico come negli altri Paesi europei, nonostante la Brexit. Dall’altra il modello Usa, privato, che fa della salute una merce sulle spalle dei cittadini più poveri e che rischia di peggiorare per colpa della nuova amministrazione.

Dalla promessa di ridurre i prezzi dei farmaci al taglio secco dei fondi alla sanità pubblica, i primi mesi del secondo mandato di Donald Trump hanno avuto conseguenze tangibili - e spesso controverse - per la salute degli americani. Il presidente, tornato alla Casa Bianca nel gennaio 2025, ha riportato al centro della scena un’agenda sanitaria che privilegia il mercato e penalizza l’intervento statale. Ma mentre Trump insiste sulla retorica dell’efficienza, sul campo si registrano disagi, proteste e persino ritardi nei trattamenti salvavita. Con un contrasto sempre più evidente rispetto a modelli europei come quello britannico, dove il sistema pubblico - pur con tutte le sue difficoltà - continua a essere un pilastro della società.

Tagli, proteste e trattamenti oncologici sospesi

A fare notizia, a fine maggio, è stata la storia di Natalie Phelps,

una donna di 43 anni, madre di due figli, con un cancro al colon-retto al quarto stadio, a cui è stata sospesa una terapia oncologica sperimentale dopo i tagli al bilancio subiti dal National Institutes of Health (NIH), l’Istituto nazionale per la Salute. “Era l’unica speranza che avevamo, e ce l’hanno tolta da un giorno all’altro”, ha dichiarato al Guardian suo marito. Non è un caso isolato. Il Washington Post ha più volte denunciato nei suoi articoli quanto le riduzioni

dei fondi stiano già mettendo in difficoltà centri di ricerca, ospedali pubblici e programmi di prevenzione.

I tagli non riguardano solo il NIH. Infatti, a inizio maggio il governo statunitense ha annunciato il budget per il 2026, secondo il quale l’intero Dipartimento della Salute degli Stati Uniti (Department of Health and Human Services, DHHS) potrebbe subire una riduzione fino al 26% del budget, con ripercussioni su Medicaid, campagne vaccinali e programmi per le comunità vulnerabili. Un rapporto della Kaiser Family Foundation pubblicato il primo maggio ha rilevato che il 59% degli americani crede che l’amministrazione Trump stia facendo tagli sconsiderati alle agenzie federali di salute.

Farmaci meno cari? Solo in teoria

Uno dei cavalli di battaglia dell’amministrazione è stata la promessa di abbassare i costi dei farmaci. A maggio, Trump ha firmato un ordine esecutivo per allineare i prezzi statunitensi a quelli più bassi tra i paesi OCSE. Un’idea che, sulla carta, suona bene. Ma il Washington Post ha definito il provvedimento più retorico che reale, segnalando che l’attuazione richiede complesse negoziazioni con le case farmaceutiche e un passaggio dal Congresso tutt’altro che scontato. Nel

frattempo, i prezzi restano altissimi. Secondo Health at a Glance 2023 dell’OCSE, la spesa sanitaria pro capite negli USA ha superato i 12.500 dollari annui, più del doppio rispetto al Regno Unito, dove il sistema sanitario nazionale (National Health Service, NHS) garantisce cure gratuite al punto di accesso (si veda il grafico sulla spesa dei Paesi OCSE a pagina 8).

Ma il problema del costo dei farmaci non è l’unico. Bianca Balti, la celebre modella italiana, ha condiviso sui social media a fine maggio la sua frustrazione per la difficoltà nel reperire farmaci salvavita necessari per la cura del suo tumore ovarico. In un post su Instagram, ha dichiarato: “Sono una paziente oncologica. I farmaci che sto aspettando non sono facoltativi, mi salvano la vita. Ho una carriera, una vita e delle responsabilità”. Balti ha espresso la sua esasperazione per le ore trascorse al telefono senza ottenere risposte concrete, accusando le aziende farmaceutiche e le assicurazioni sanitarie di non assumersi la responsabilità: “State fallendo proprio quando c’è più bisogno di voi. Ed è inaccettabile”.

Il Regno Unito resiste: un sistema sotto pressione, ma pubblico

Proprio il confronto con il Regno Unito rende più evidente la distanza tra due modelli opposti. Nonostante difficoltà strutturali - carenza di personale, lunghi tempi di attesa e pressioni politiche - il NHS resta un caposaldo dell’identità nazionale britannica. Addirittura, in un sondaggio di TheKing’sFound del 2024, il 48% degli intervistati si è detto favorevole ad un aumento delle tasse per migliorare il NHS. Una larga maggioranza concorda sul fatto che il NHS dovrebbe essere disponibile per tutti (82%), gratuito (91%) e finanziato principalmente attraverso le tasse (82%).

In Gran Bretagna, l’accesso universale alle cure è garantito dalla nascita alla morte, indipendentemente dal reddito. Un sistema imperfetto e che sta affrontando notevoli problematiche legate al suo costo, ma che evita che una malattia diventi anche

una condanna economica. E non è solo una questione di immagine. L’aspettativa di vita nel Regno Unito è di 81 anni, contro i 78 degli USA. Il concetto alla base è che per il NHS le persone sono cittadini, non clienti.

L’uomo sbagliato nel posto sbagliato?

A suscitare polemiche è stata anche la nomina di Robert F. Kennedy Jr. a Segretario alla Salute. Kennedy fu candidato indipendente proprio contro Trump nel 2024 ed è celebre per le sue posizioni no vax, per le quali ha ricevuto una forte opposizione dalla comunità medica. Il Committee to Protect Health Care, un’organizzazione di medici statunitensi, ha pubblicato una lettera aperta firmata da oltre 17.000 medici in cui Kennedy viene definito “attivamente pericoloso” e “non qualificato a guidare” il Dipartimento della Salute. E il problema non si limita al livello simbolico: Kennedy ha già congelato “Wild to mild”, una campagna federale per la vaccinazione antinfluenzale negli stati del Midwest, sostenendo la necessità di migliorare il “consenso informato” per quanto riguarda il rischio dei vaccini.

Trump e la deregulation: un amore pericoloso

Dietro ogni decisione, c’è una filosofia ben precisa. Come scrive il New York Times nel suo editoriale del 23 maggio, Trump

vuole smantellare ciò che resta del modello di sanità pubblica costruito da Obama. Il suo obiettivo? Ridurre al minimo la regolazione del settore sanitario e lasciare più spazio al libero mercato. Una visione coerente con la sua idea di Stato, ma che collide con la realtà di milioni di cittadini che vivono senza assicurazione.

Secondo i dati più recenti del Centro per il Controllo e la Prevenzione delle malattie, nel 2024 circa 27 milioni di americani risultano ancora privi di copertura sanitaria, un aumento rispetto ai 25 milioni del 2023. E se il trend dovesse proseguire, le previsioni parlano di un ulteriore incremento entro fine 2025.

Un modello isolato anche tra i suoi cittadini

L’eccezionalismo americano in materia sanitaria non convince nemmeno più gli americani. Sempre secondo la Kaiser Family Foundation del 2019, 3 americani su 5 si dicono favorevoli a una copertura sanitaria universale. Ma tra interessi delle compagnie assicurative, polarizzazione politica e lobby farmaceutiche, l’ipotesi di una “Medicare for All” sembra ancora lontana. Intanto, milioni di pazienti aspettano. Non solo cure, ma risposte. E magari guardano oltre l’Atlantico, dove - nonostante tutto - il diritto alla salute continua a essere considerato un bene pubblico e non una merce, pilastro inalienabile della nostra democrazia.

Dottor Lorenzo Trombetta: “La sanità italiana? È la migliore del mondo e in Veneto funziona bene”

La storia, le esperienze e l’appello del medico di base nella Medicina di Gruppo Integrata Riviera Berica-Arcugnano, punto di riferimento per il territorio:

“Le Case di Comunità? Non distruggiamo quello che funziona”

Il dottor Lorenzo Trombetta ci accoglie con un sorriso cordiale e rassicurante e già ci piace immaginarlo alle prese con i suoi pazienti. È uno dei dottori della Medicina di Gruppo Integrata Riviera Berica – Arcugnano. La struttura, in via Salvemini a Santa Croce Bigolina, accoglie 7 medici che a turno sono presenti in modo da garantire che tutti i giorni dalle 8 alle 20 sia sempre a disposizione almeno un dottore, un’infermiera e una persona in segreteria. Ogni medico di base ha i suoi pazienti che segue regolarmente, ma in caso di assenza c’è sempre un collega che può sostituirlo, e la vicinanza di ambulatori permette rapporti diretti e di grande collaborazione. Una struttura che funziona bene, che razionalizza le risorse ma sempre con la cura del paziente come prima finalità, senza trasformare la medicina in una pura questione di numeri e conti da far quadrare. Nato a Catania, classe 66, sposato e con due figlie, il dottor Trombetta si è laureato nel 1993. Specializzato in otorinolaringo -

Dottor Lorenzo Trombetta in ambulatorio iatria, fino al 2019 ha lavorato in ospedale. Dopo esperienze a Verona e a Sirmione, è stato per un anno all’ospedale civile di Merano Franz Tappeiner, poi all’ospedale San Giovanni e Paolo a Venezia e quindi all’ospedale dell’Angelo a Mestre dov’è stato vice primario di ORL. “ Esperienze importanti – ricorda il dottore – accanto a grandi medici dai quali ho imparato molto. A Mestre avevo come primario il prof. Roberto Spinato, un luminare nel campo dell’otorinolaringoiatria e un grande maestro. Gli sono grato per tutto quello che mi ha insegnato.” Benché stimolante e piacevole, il

lavoro in ospedale a Mestre non si combinava proprio al meglio con il fatto che la famiglia invece vivesse nel Vicentino. Alla gestione di turni e reperibilità si aggiungeva infatti la logistica degli spostamenti, che non sempre era facile da gestire. “Da giovane ci facevo meno caso, ma dopo i 50 anni ha cominciato a pesarmi” . Così nel settembre del 2019 il dott. Trombetta ha deciso di diventare medico di base ad Arcugnano.

Dottore, è passato dall’ospedale alla medicina sul territorio proprio giusto in tempo per affrontare il Covid... Che ricordo ha di quei mesi?

“In realtà non ho mai smesso di visitare i pazienti, nonostante –sorride - qualche rimprovero di mia moglie che si preoccupava. Del resto, provenendo dall’esperienza ospedaliera, ero anche abituato a gestire situazioni complesse con pazienti a rischio e ho sempre preferito l’approccio diretto con i malati. Ma devo dire che tutti i colleghi non si sono tirati indietro. La cosa più difficile è che effettivamente all’inizio della malattia non si sapeva

nulla, letteralmente non avevamo indicazioni su come gestire la situazione se non linee guida poco specifiche. C’era preoccupazione ma nessuno di noi ha mollato. E quando è stato il momento, la nostra Medicina di gruppo ha partecipato a tutte le incombenze per la gestione della malattia. Al piano terra avevamo allestito un punto per i tamponi, poi ogni mercoledì lo dedicavamo ai vaccini. Insomma, la sanità sul territorio in quella occasione ha funzionato bene”.

Che eredità ha lasciato il Covid?

“ Ha un po’ cambiato il rapporto tra medico e paziente. Ho constatato che prima del Coid c’era più fiducia, più pazienza, più voglia di ascoltare il medico, più comprensione dei tempi di attesa. Adesso noto più tensione, oserei dire quasi più aggressività, prima se dicevo a un paziente di aspettare un po’ a fare una certa indagine perché il sintomo non la richiedeva, mi ascoltava. Adesso no, se vogliono la radiografia o la risonanza non c’è verso di far loro cambiare idea… ”

Crede sia il Covid o forse sono anche i social che diffondono troppe notizie non ben controllate?

“ Non saprei, i social c’erano anche prima del Covid. Certo, soprattutto certe notizie che girano sembrano fatte apposta per far perdere la fiducia nei dottori... ”

Tornando un attimo alla sua esperienza precedente, che dif -

ferenza c’è tra essere medico in ospedale e essere medico di base?

“ Cambia molto. In ospedale sei in un reparto ben preciso e dai il massimo su un settore che conosci, segui il paziente solo per quello che riguarda la tua specializzazione. Come medico di base il lavoro è più empirico e sicuramente più variegato. Devi conoscere il paziente a 360 gradi, devi dedicargli più tempo dal punto di vista umano, devi conoscere la sua storia, devi farti raccontare i sintomi e la casistica è davvero molto varia. Certo, la specializzazione e l’esperienza ospedaliera, per chi le ha, possono essere molto utili. Nel mio caso sono riuscito a diagnosticare alcune patologie serie proprio grazie alla mia preparazione. Ho ancora la lettera di ringraziamento di un paziente cui ho consigliato un esame per un sintomo generico come un fischio all’orecchio. Aveva un aneurisma. È stato operato e ora sta bene. La sua mail di ringraziamento la tengo come promemoria del perché faccio il dottore.”

Le capita di dare consigli anche ai colleghi della medicina di Gruppo?

“ Diciamo che c’è molta collaborazione tra noi, siamo un gruppo affiatato. Devo dire che per quel che riguarda la mia esperienza, la Medicina di Gruppo integrata funziona bene ”.

Il futuro della medicina territoriale sembrano essere le Case di Comunità. Lei che cosa ne pensa?

“ Non so, sono un po’ perplesso. Nel senso che, come le dicevo, proprio il periodo Covid ha mostrato che in Veneto il lavoro sul territorio è efficace e puntuale. Se non

ricordo male il Veneto era preso come esempio di efficienza nella gestione della malattia. Non vedo la necessità di cambiare una cosa che già funziona. Oltret utto razionalizzare va bene, ma già la medicina di gruppo integrata è una razionalizzazione. Vicenza è grande, avere un solo presidio, una sola casa di Comunità, per tutta la città più che razionale mi sembra caotico. Però staremo a vedere, in realtà non abbiamo ancora avuto comunicazioni ufficiali e nel frattempo noi continuiamo a funzionare. Spero sinceramente che la nostra Medicina di gruppo rimanga così com’è.”

Più in generale, che cosa pensa della sanità italiana?

“Che è la migliore del mondo. Da quando esiste il Servizio Sanitario nel nostro paese è un sistema perfetto che ci invidia tutto il mondo. Non è solo il discorso della gratuità, è che in nessun altro Paese è così radicata e così capillare sul territorio. Certo, ultimamente c’è qualche problema, devo dire che pur restando di alto livello, ha cominciato a perdere qualche colpo, soprattutto dagli anni Novanta in poi, da quando gli ospedali sono diventati aziende. Ovviamente capisco che mantenere certi livelli di servizio costa e i conti alla fine bisogna sempre farli, ma la medicina non può essere vista

Il Dott. Trombetta “a destra” durante un intervento

come una pura risorsa economica. Semmai si può rivedere qualcosa sulla gratuità, ma non certo andando a gravare sulle tasche delle persone, piuttosto pensando a qualcosa a livello assicurativo… Ma non voglio addentrarmi su cose troppo complicate. Però insisto, la sanità italiana è ottima e qui in Veneto funziona bene. Proprio per questo dico di andarci piano con i cambiamenti e di non smantellare le cose che funzionano...”

Ma lei a un giovane che volesse studiare medicina che cosa consiglierebbe?

“ Di farlo solo se ha tanta passione e con un’idea ben chiara di che cosa vuole diventare, perché gli studi sono lunghi e il lavoro è lungo e difficile. Però è un lavoro bellissimo. Dà immense soddisfazioni, fa conoscere tanta umanità. Certo, non sarebbe male se i compensi fossero adeguati alla fatica che si fa. Perché so di dire una cosa che suonerà impopolare, ma gli stipendi dei medici in Italia sono decisamente lontani dalla media europea e i compensi che si prospettano per le nuove organizzazioni future non promettono molto bene...”

E per il futuro della sanità che cosa ci vorrebbe?

“Bisogna tenere presente che la popolazione invecchia. Quin -

DasinistralefiglieMilaeMarinella, ilDott.TrombettaelamoglieKety

di credo sia verso quella fascia di popolazione che bisogna concentrare l’attenzione ma non solo sotto l’aspetto sanitario, sotto tutti gli aspetti, quello sociale, quello economico. Ci vogliono più posti nelle case di riposo, più strutture per il decadimento cognitivo, più centri riabilitativi, più sostegno per i familiari. Quanto alla sanità in generale, ci vogliono ovviamente le strutture, ma anche meno burocrazia e lasciare che i medici facciano i medici. Le faccio un esempio. Nel 2000 ero a Merano. Un ospedale stupendo, attrezzature all’avanguardia,

compensi mai più avuti. Non eravamo super controllati, non c’era da rendicontare ogni singola prescrizione né da giustificare ogni richiesta. Vi ho lavorato benissimo. Perché si parla sempre del giuramento di Ippocrate e del fatto di dover lavorare con scienza e coscienza. Ma io aggiungo anche con libertà”.

Ma lei sceglierebbe ancora di fare il medico?

“Certo, è ancora un lavoro bellissimo. Però, bisogna essere messi in condizione di dare il meglio.”

IlDott.Trombettainconvegno

Adriana Sartori,

medico di base dal 1994 preoccupata per il possibile “ruolo unico” del medico e del futuro nelle AFT con le Case di Comunità, per non parlare della situazione previdenziale

“Io lavoro sulla carta 18 ore settimanali, con 1.650 assistiti. Ma il mio lavoro non finisce certo con le ore di ambulatorio, che spesso in una giornata non sono
4 o 5 ma diventano 7 o più”

Adriana Sartori è un medico di medicina generale di 63 anni, lavora presso la medicina integrata di Chiampo e Altavalle, che conta circa 15mila pazienti e 9 medici associati. È medico di base dal lontano 1994 ed è specializzata in Diabetologia e Malattie del Ricambio. Ci ha raccontato come vede il presente e il futuro della sanità locale, dalla funzionale medicina integrata alla preoccupazione per il possibile “ruolo unico” del medico e del futuro nelle AFT (Aggregazioni Funzionali Territoriali).

Com’è la nostra realtà sanitaria nell’ambito dell’Ulss8? Come potrebbe diventare? Quali sono le preoccupazioni per il futuro? La nostra realtà attuale (della Vallata del Chiampo) è perfettamente integrata ai servizi del territorio. Come servizio sanitario garantiamo visite mediche ambulatoriali e domiciliari ai nostri assistiti, forniamo un servizio infermieristico di qualità 12 ore al giorno dal lunedì al venerdì, il sabato dalle 8 alle 10, e gestiamo anche i prelievi domiciliari per i pazienti fragili o non deambulanti oltre a quelli eseguiti presso la nostra struttura; abbiamo anche

il servizio CUP per le prenotazioni di visite ed esami. Per quanto riguarda il futuro esiste un piano sanitario, che grazie al PNRR, prevede l’attuazione delle AFT, Aggregazioni Funzionali Territoriali, dove i medici dovrebbero assicurare il servizio di comunità per 7 giorni alla settimana, 24 ore al giorno. In queste strutture ci sarebbe spazio, dunque, non solo per il rapporto fiduciario col proprio medico di medicina generale, ma anche per il medico pediatra, il servizio infermieristico, l’assistenza sociale e la segreteria. Il medico, libero professionista, do-

vrebbe dunque scegliere tra l’attuale rapporto di convenzione col Servizio Sanitario Nazionale o il cosiddetto Ruolo Unico di Dipendenza col SSN a 38 ore settimanali, di cui 20 in servizio presso la Casa di Comunità. Diventerebbe un’aggregazione dove i medici devono dividersi tra la cura degli assistiti in carico e impegnarsi a coprire tante altre mansioni mediche in carico al nuovo organigramma.

Questo cosa comporterebbe?

Con le AFT gli stessi medici che coprono 7 giorni su 7 e h24 dovranno avere anche il ruolo di copertura notturno e festivo, l’attuale guardia medica o continuità assistenziale, oltre che lavorare nelle case di riposo. Il lavoro andrebbe dunque ben strutturato. Questa riforma nasce dalla necessità di avere personale sanitario medico e infermieristico sufficientemente adeguato a coprire ogni bisogno sociosanitario della popolazione. E se non si arriva a costruire le Case della Comunità strutturate, entro massimo il primo semestre 2026, si perdono i contributi del PNRR. “Work in progress” dunque per le Case di Comunità e le AFT, che sono in fase di attiva discussione e elaborazione. Noi medici anziani

Un’infermiera con il carrello delle medicazioni

Personaledisegreteria

abbiamo un rapporto di lavoro come liberi professionisti convenzionati col SSN e la nostra cassa previdenziale è l’ENPAM. I giovani medici o i medici che potrebbero scegliere il ruolo unico diventerebbero dei dipendenti del SSN e avrebbero riconosciuta, a differenza nostra, malattie, periodo di ferie, maternità… con i contributi versati però non più all’ENPAM, ma all’INPS.

Quali sono le criticità?

Io lavoro “sulla carta” 18 ore settimanali, con 1.650 assistiti. Ma il mio lavoro non finisce certo con le ore di ambulatorio, che spesso in una giornata non sono 4 o 5 ma diventano 7 o più, viste le numerose incombenze burocratiche che l’assistenza sanitaria di base comporta. Un semplice esempio? L’applicazione delle note per ricettare correttamente, i Piani Terapeutici, le certificazioni Inps, Inail o assicurative e altro… certificati di invalidità civile e, non ultimo, le cartelle informatizzate sempre da aggiornare. Oltre l’ambulatorio in senso stretto ci sono poi le visite a domicilio, le visite per pazienti in assistenza domiciliare, e i PDTA, attuale ottimo strumento con il quale il medico segue i pazienti con patologia cronica come il diabete mellito,

la BPCO, lo scompenso cardiaco, la patologia tiroidea ecc… Con questo impegno lavorativo non indifferente mi sto interrogando su come potrò mai andare a prestare opera in Casa di Comunità, dove si dovranno coprire le esigenze più varie, vaccinazioni e tanto altro.

Il dilemma sarà allora su quanti medici potranno scegliere il ruolo unico delle 38 ore settimanali Sarà difficile che un medico quasi alle soglie della pensione possa scegliere il ruolo unico, come nel mio caso: vivo da oltre 17 anni ormai già in associazione con altri medici, infermieri e personale amministrativo. La nostra è una forma di assistenza sanitaria integrata nel territorio e la Regione Veneto negli anni Duemila si era distinta per la capacità di innovazione in tal senso con le UTAP (Unità Territoriale di Assistenza Primaria) di cui a nostra volta facciamo parte. Il ruolo unico si comprende che nasce da una politica sanitaria nazionale deficitaria. Oggi viene riconosciuta una mancata corretta pianificazione nei numeri del personale addetto e allo stesso tempo vi sono nuove esigenze di copertura socio sanitaria assistenziale. I conti non tornano e perciò occorre una nuova organizzazione per fronteggiare i nuovi bisogni. Negli ultimi 3 decenni, dopo la pletora di titoli sanitari degli anni ’80, si è istituito il numero chiuso alla Facoltà di Medicina e Chirurgia e non si è più investito su nuove emergenze in Sanità. Ora con i prepensionamenti e i pensionamenti dei medici, anche perché spaventati da queste novità, il debito di figure professionali mediche è l’emergenza per la medicina territoriale e per l’Ospedale.

Quali vantaggi ha l’attuale medicina di gruppo?

Le realtà mediche che sono già integrate hanno già svolto negli anni una grande funzione. In questo modo si ha anche la conoscenza dei pazienti degli altri col-

leghi perché condividiamo in rete tutte le informazioni sanitarie dei soggetti da noi assistiti. La Valle del Chiampo è anche Comunità montana riconosciuta con aree collinari montane come Nogarole, Marana, Crespadoro, Durlo. Con una Casa della Comunità ad esempio ad Arzignano, i pazienti residenti in queste aree disagiate dovrebbero recarvisi non senza un faticoso accesso in termini di lontananza, tempo, necessità di trasporto sicuro. Non possiamo distruggere una realtà come la medicina integrata, che ha anche ambulatori periferici proprio in questi altri Comuni della nostra lunga vallata, dove esiste popolazione anziana, fragilità del territorio e del paziente.

In Regione, nelle sedi Ulss, in Direzione Generale, medici e sindacalisti stanno discutendo sul futuro della sanità. Qual è la preoccupazione per il futuro?

Certo che abbiamo e ho preoccupazioni, comprendendo tuttavia che siamo in una fase nuova ancora in costruzione. Il mio lavoro attuale, già con molta responsabilità, compiti e incombenze temo non mi permetterebbe di svolgere con altrettanta cura un ulteriore ruolo. Noi non diciamo no a priori al ruolo unico, ma occorre condividere tutti i passaggi soprattutto anche come tutela sindacale dei lavoratori in sanità. Ho versato per 32 anni contributi lavorativi alla cassa ENPAM e i prossimi 3 anni non so con quale serenità potrò affrontare la nuova situazione in quanto sono preoccupata anche a livello contrattuale.

L’esperienza della dottoressa

Sartori in Ulss 8 è sempre stata positiva. La preoccupazione per il futuro riguarda appunto le future Case di Comunità e le AFT e come verranno strutturate, per non perdere tutto quello che finora si è acquisito e per continuare ad avere la possibilità di assistere al meglio i pazienti e soprattutto una popolazione sempre più anziana e fragile.

La sanità calabrese raccontata ai veneti: gareggiamo

tutti per un servizio migliore, ma scattando da posizioni diverse

di Andrea Polizzo

Il rumore delle pale dell’elicottero lo riconosci man mano che si avvicina al punto in cui ti trovi. Una sorta di “suono” di sottofondo che, nel suo crescendo, evoca film d’azione e di guerra. Qualcosa che per alcuni cittadini della Calabria, col tempo, è diventata quasi un’abitudine, fino ad essere percepito alla stregua dello sfrecciare dei motorini truccati nelle vie del paese o ai boati dei tir lungo le statali. Qualcosa di non convenzionale per territori che non sono affatto quelle metropoli nei cieli delle quali il traffico aereo trova maggiore giustificazione.

Prendete il Tirreno cosentino, che è il territorio in cui vive chi vi scrive: 100 chilometri di costa e colline che corrono già a Sud, paralleli come i binari di una ferrovia e punteggiati da una moltitudine di piccoli comuni da poche migliaia di abitanti. Una fetta di Calabria che ha familiarizzato da tempo con il sorvolo degli elicotteri. Ma non perché sia teatro di guerra: qui, da qualche anno, il cielo è quotidianamente solcato dai velivoli del 118 che arrivano e ripartono così spesso perché, per “prassi”, le ambulanze non sono medicalizzate a causa della carenza di personale. Il sistema ha partorito un paradosso: anche quando le condizioni del paziente non sono disperate, ma richiedono comunque una diagnosi medica

rapida per decidere il da farsi, è preferibile l’invio di un elicottero a supporto dell’ambulanza, perché almeno garantisce la presenza di un medico a bordo. Da diversi anni – grazie alla collaborazione quotidiana con le testate del gruppo – mi occupo di Vicenza e Veneto e, spesso, mi capita di riflettere di Sanità regionali. Ho trovato conferme di quanto la “vostra” sanità sia una concreta eccellenza. Una realtà non priva di ombre, eppure distante anni luce da quella della mia terra. Un gap che è ravvisabile anche trattando le problematiche comuni ai due sistemi sanitari, come liste d’attesa e la carenza di personale medico che da noi è perpetrata da quella che è stata definita la lunga stagione del blocco del turn over.

Sul Ss calabrese pesano altre grandi, grandissime criticità:

penso ai conti dannatamente in disordine delle aziende sanitarie provinciali, perennemente in “rosso”. Oppure – e qui si fa dura – agli appetiti della ‘ndrangheta sulla gestione delle risorse statali. Senza scendere troppo nel dettaglio, sono esemplari i fenomeni delle fatture pagate due volte, spesso neanche dovute, e degli interessi legali e moratori che lievitano perché gestioni compiacenti non li impugnano in giudizio. Milioni di euro che finiscono in un buco nero chiamato malaffare a fronte di strutture fatiscenti e male attrezzate. In esse non mancano i casi di “buona sanità”, ma vengono vissuti come “eccezionali miracoli” dalla popolazione e come tali vengono raccontati dai media.

Qui, i vuoti di sanità pubblica diventano per il privato praterie talmente sconfinate che, a

confronto, quelle del Mississippi impallidiscono. Il risultato è che sempre più persone rinunciano alle cure oppure finiscono per ingrossare i flussi dell’emigrazione sanitaria, con i cittadini che guardano da Roma in su, compreso ovviamente il Veneto, a caccia di una speranza.

Sulla questione della carenza di personale qualcosa negli ultimi anni si è mossa con l’impiego in Calabria di professionisti provenienti da Cuba.

Una circostanza che trova fondamento nel decretolegge “Cura Italia”, retaggio del periodo del Covid, e che è stato concretizzato nell’estate del 2022 con l’accordo tra i sistemi sanitari calabrese e cubano.

Se ne è parlato recentemente proprio in Veneto, a Venezia per la precisione, grazie a una iniziativa di Erika Baldin , consigliera regionale del Movimento 5 Stelle e segretario dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale.

L’occasione è stata quelle di un incontro avvenuto a maggio a palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio veneto, sul tema “Il ruolo dei medici cubani nel rilancio del Ssn: l’esempio della Regione Calabria”.

Un approfondimento sui risvolti dell’accordo calabro-cubano che – è stato detto – rappresenta un modello che può portare al rilancio del sistema sanitario anche in Veneto. “Con questa

iniziativa intendo portare delle testimonianze sull’impegno solidale di uno Stato economicamente in difficoltà, q ual è la repubblica cubana, ma in cui è difeso il diritto universale alla salute sul suo territorio e sul territorio di popoli amici”, ha detto Erika Baldin.

Attualmente, in Calabria sono in servizio 360 medici cubani in 27 ospedali e oltre la metà di essi è impiegato nei pronto soccorso. Incidono positivamente sulla riduzione dei tempi di trattamento e di attesa, in particolare per quelli legati agli esami ad alta tecnologia, ma anche nel rinforzare i reparti. Alcuni di essi operano nelle strutture del territorio in cui vivo ed è stato sorprendente notare la rapidità con la quale si sono integrati nella nostra cultura. Non tutto è risolto, anzi, ma la nostra è una terra che si nutre anche di questo: di piccoli passi verso un’esistenza migliore, con la pazienza tramandata dai nostri avi: contadini, pastori e marinai. È così che, scrivendo di come “un calabrese percepisce il servizio sanitario nella sua regione”, ho provato ad arricchire in qualche modo il racconto che fa della sanità (veneta, italiana, europea e non solo) questo numero del giornale, sempre più finestra verso il mondo di una Vicenza più viva se guarda al suo esterno. E giungo a una conclusionesuggerimento: la sanità è un diritto sulla carta, ma una corsa nella vita di tutti i giorni. Anche i veneti gareggiano come i calabresi per una sanità migliore. Lo fanno però – questo credo sia incontestabile – scattando da un blocco di partenza nettamente migliore. Con l’avvento dell’Autonomia differenziata, tema molto caro ai veneti, potremmo tutti correre verso un sistema sanitario regionale più flessibile, ma anche verso un rischio di disuguaglianze amplificate. E questo, inoltre, per colpa – altro dato assolutamente inconfutabile – di chi delle risorse di tutti ha fatto l’uso più meschino, come avviene nella mia terra.

Viaggio nella “Leather Valley” del vicentino, dove si respira aria fresca e pulita

Una volta poteva essere una battuta sarcastica ma adesso le cose sono molto cambiate (anche se non è ancora del tutto così, ovviamente).

Di sicuro la Valchiampo è il territorio più monitorato d’Italia.

di Martino Montagna

Sono finiti in tempi in cui il fiume Chiampo cambiava colore, a seconda delle tendenze moda del momento. Erano gli Anni ’70, quando bastava guardare le acque per capire quali fossero gli orientamenti dei “fashion stylist” della pelle per la stagione a venire. Anche l’aria era davvero irrespirabile, soprattutto era terribile l’impatto per chi arrivava da fuori, diversamente da chi ci abitava e che poi si abituava. Anche adesso c’è un certo “profumo” ma è sicuramente meno pesante, la differenza si sente, soprattutto per chi ha qualche anno in più e si ricorda bene di com’era la situazione una quarantina di anni fa. Molto è stato fatto anche se tanto altro deve essere ancora attuato, lo dice con onestà chi se ne sta ufficialmente occupando. Ma quello che appare in maniera concreta è che in questi anni è entrata nella testa degli imprenditori del settore concia (anche in quelle più dure) la consapevolezza che senza un cambio culturale verso l’ambiente, il futuro dell’intero settore sarebbe stato a rischio.

E stiamo parlando di un comparto industriale che ha del miracoloso, basta vedere il peso del suo fatturato nel 2024. Nonostante un calo che sta colpendo tutto il settore a livello mondiale, appesantito dalle varie crisi che hanno messo in ginocchio due comparti che storicamente

alimentano il settore della lavorazione della pelle come la moda e l’automotive, la fetta di mercato delle aziende della Valchiampo è di grandissima rilevanza. Si parte dal 58% del fatturato complessivo in Italia, si passa al 30% a livello europeo fino a quasi il 14% di quello mondiale. Quindi la parola miracolo può starci, anche perché dobbiamo aggiungere tutto l’indotto creato a favore di aziende dei settori della chimica, dei macchinari, dei trasporti, della ricerca e della depurazione.

Una comunità che ha sempre cercato di convivere con questa realtà, avvantaggiandosi dei notevoli ricavi del settore ma sopportando il rovescio della medaglia: l’inquinamento terrestre, acquifero, atmosferico e acustico. Allo stesso tempo non si è chiusa in sé stessa ma ha cercato di reagire e di guardare al futuro con una certa lungimiranza, grazie ad imprenditori che nel tempo hanno capito che l’investimento verso

una produzione più pulita non solo era necessario per la salute delle persone e per il rispetto dell’ambiente ma anche, appunto, per la stessa sopravvivenza del comparto.

Allora si è iniziato a ripensare ai processi chimici, a modernizzare le tecnologie ed i macchinari, a recuperare e a riutilizzare gli scarti di lavorazione e a creare nuovi servizi. Sono nati progetti e strutture che riescono a mettere insieme tutta la filiera con occhi nuovi e moderni, per creare una cultura diversa che guardi soprattutto alla sostenibilità anche attraverso slogan iconici come: “Difendiamo un’economia circolare rinnovabile”.

Se lo ripetono tutti i giorni al Distretto Veneto della Pelle, nato nel 2015 ma che da qualche anno ha trovato collocazione nel cuore della zona industriale ad Arzignano, in una conceria dismessa.

Dal 2023 lo guida una figura di spicco della valle, già sindaco del Comune di Chiampo con seconda elezione da risultati “bulgari”. D’altronde Matteo Macilotti l’attenzione per le tematiche ambientali deve averla nel proprio DNA visto che per diversi anni ha ricoperto il ruolo anche di consigliere provinciale con specifica delega, mantenuta con presidenti di diverso colore politico. Segno che se segui il tuo settore con capacità ed impegno, poi ti viene riconosciuto, e questo nuovo incarico, evidentemente, lo dimostra.

Salute e ambiente

Un colosso da 200 dipendenti per tenere sotto controllo il livello di inquinamento

“Acque del Chiampo”, struttura a partecipazione pubblica, è in prima linea anche per il monitoraggio dei PFAS, fin dal 2013.

Non ci sono dubbi sul fatto che il territorio della Valchiampo è il più monitorato d’Italia con le sue oltre 50 centraline stabili che controllano il livello dell’aria, i sistemi di verifica a monte e a valle dell’acqua e un mega depuratore che filtra i carichi da lavorazione di 130 concerie, con una capacità di smaltimento che potrebbe servire 1,6 milioni di abitanti.

La gestione del servizio idrico integrato di 10 comuni della Valchiampo e zone limitrofe ed il controllo dei livelli di inquinamento sono in carico ad “Acque del Chiampo”, una struttura che annovera 193 dipendenti, di cui due terzi rappresentano l’unità operativa che interviene anche nelle situazioni emergenziali ed opera h24. Ci sono tre direzioni tecniche che coprono i settori operativo, delle infrastrutture e della progettazione.

Come si diceva, da tempo i reflui conciari non vanno più nel Chiampo ma confluiscono negli stabilimenti di depurazione.

Il direttore è Andrea Chiorboli che sottolinea un piano di investimento importante per il 2026/2027 di ben 69 milioni per mantenere alta l’efficienza della depurazione industriale attraverso la realizzazione di nuovi impianti sempre più moderni. Ma non sarà l’unico investimento ed altri ne sono già stati fatti.

“AcquedelChiampo

“Abbiamo investito 9 milioni di euro per il centro idrico di Canove – afferma Andrea Chiorboli – dove abbiamo realizzato il trattamento delle acque per il contenimento delle sostanze PFAS, un progetto che rientra nei 37 milioni spesi per l’eliminazione totale dagli acquedotti. Investiamo molto anche sull’attività di ricerca e di laboratorio per poter fare indagini su altre sostanze micro inquinanti, in modo da essere sempre al passo con le normative europee che, giustamente, sono sempre più restrittive. “Acque del Chiampo” ha sempre rispettato i limiti PFAS ed è sempre stata sul pezzo anche con interventi in anticipo rispetto alle varie situazioni perché abbiamo sempre lavorato a stretto contatto con i Comuni soci, che sono stati sempre molto attenti e sensibili”. In effetti i primi interventi risalgono

al 2013, diciamo la prima fase di somma urgenza dopo le prime segnalazioni e con l’installazione dei primi filtri a Brendola e nei paesi più colpiti. Una seconda fase, nei successivi 5 anni, è stata dedicata alla messa in sicurezza con i filtri a carboni attivi e l’eliminazione dei pozzi più inquinati che hanno permesso di raggiungere la stabilizzazione dei valori. Infine la terza fase dopo l’introduzione della normativa nazionale che ha indicato i valori limite nel 2023 con la messa in sicurezza di tutti i sistemi acquedottistici.

Una veduta aerea del sistema di depurazionedellaValchiampo

È il mercato, baby!

Consapevolezza ambientale, certo. Ma anche il business globale ha dato una grossa spinta: la sostenibilità del prodotto ormai conta quasi più della qualità

Compatibilità e sostenibilità. Riduzione dei fattori inquinanti. Formazione e comunicazione per nuove le nuove generazioni che sono già molto più sensibili su questi temi, rispetto al passato. Me lo immagino, Matteo Macilotti, ripetere come un mantra questi concetti che sono poi quelli che gli imprenditori più importanti della Valchiampo stanno cercando di mettere in atto attraverso vari strumenti. Uno di questi è proprio il Distretto Veneto della Pelle, sostenuto da 100 aziende in rappresentanza del 95% del fatturato di tutto il comparto, che ha messo insieme tre aspetti fondamentali: risorse, idee, impegno.

“Un conto è dirlo, un conto è farlo – ci dice Matteo Macilotti, direttore generale del distretto e docente alla facoltà di Giurisprudenza all’università di Trento – perché non era così scontato, ma ci stiamo riuscendo. Stiamo puntando molto sulla formazione a tutto tondo, come ente gestore per conto di ITS Cosmo Formazione Veneto, perché credo sia fondamentale migliorare costantemente la conoscenza dei

“MatteoMacilottidirettoregeneraledel DistrettoVenetodellaPellediArzignano, giàsindacodiChiampoeconsigliere provincialeall’ambiente”.

dipendenti delle imprese socie sull’utilizzo delle nuove tecnologie in ambito conciario. Promuoviamo numerosi incontri di carattere divulgativo e scientifico su temi importanti come le normative europee per il settore (EUDR) assieme con UNIC Concerie Italiane, di recente abbiamo invitato anche il sottosegretario all’economia Bitonci sulle tematiche inerenti la legge sulla transizione 5.0 e anche attraverso l’ICE (Agenzia Italiana per l’internazionalizzazione) abbiamo affrontato il dato dell’internazionalizzazione e grazie ad esperti abbiamo dato la possibilità ai nostri soci di capire

come ci vede il mercato cinese, ad esempio”.

È indubbio che negli anni il settore della concia ha avviato alcune opere che hanno dato frutti importanti, basti pensare al progetto GIADA sorto nel 2001 per la gestione integrata del distretto e per promuovere la sostenibilità in tutte le fasi del ciclo produttivo. Tra i risultati concreti ottenuti in 20 anni di attività, vi è la riduzione del 90% della dispersione in aria dei solventi. Oppure la riduzione significativa dell’idrogeno solforato nella matrice aria che di fatto ha prodotto una consistente riduzione degli odori, soprattutto in quelle zone come Montebello Vicentino e Zermeghedo dove si registrava la situazione più critica.

“Negli anni c’è stata una presa di posizione – aggiunge Macilotti –una consapevolezza ambientale che è emersa sempre di più, prima dalla società civile e poi dagli stessi imprenditori che si sono accorti che il mercato globale iniziava a premiare non soltanto la qualità del prodotto e della sua lavorazione ma anche, e sempre di più, la sostenibilità ambientale dei processi di lavorazione, comprese le fasi pre e post.

Senza certificazioni ambientali riconosciute a livello globale le nostre imprese non potrebbero lavorare. Di conseguenza, coinvolgiamo i terzisti e tutta la filiera affinché riescano a seguire questa linea perché sono costretti ad adattarsi se vogliono sopravvivere”.

Il Distretto ha anche un ruolo di coordinamento per tutta la filiera e da un anno e mezzo sta seguendo le linee guida sull’utilizzo e la gestione del cromo assieme a Confindustria Vicenza, redigendo unilateralmente tutti gli aspetti tecnici del regolamento nella gestione dei rifiuti da conceria. Attraverso un bando regionale

CONCERIA DIDATTICA : “Lospazioall’internodelDistrettoVenetodellaPellechesaràdedicatoallaconceriadidattica”.

ha ottenuto, assieme ad altri soggetti, un finanziamento di 1,5 milioni di euro per un progetto che mira a sperimentare una serie di tecnologie innovative volte alla riduzione dei solfati nelle acque di produzioni tramite nuovi sistemi di trattamento come la “fotocatalisi” ed il “plasma”.

Ma Matteo Macilotti ha due obiettivi che consentirebbero al Distretto di fare un salto di qualità notevole, soprattutto sul piano

culturale e formativo/lavorativo. Ce li presenta lui, non senza un pizzico di orgoglio.

“Stiamo lavorando allo sviluppo di un museo interattivo dedicato non solo alla storia della pelle ma, soprattutto, al suo futuro. Grazie ad un finanziamento della regione e soprattutto al sostegno economico dei nostri imprenditori si è voluto creare un angolo culturale che sappia trasmettere emozioni a chi lo visiterà.

L’altro riguarda la realizzazione, sempre qui nella sede del Distretto, di una conceria didattica sperimentale per formare le nuove generazioni, anche attraverso un’Academy che permetterà di selezionare soggetti non occupati e di formarli da un punto di vista pratico nell’uso delle macchine. Solo una formazione costante e superiore potrà garantire un ricambio generazionale con lavoratori pronti e preparati.”

Salute e ambiente

Concia e PFAS, parla Giampaolo Zanni:

“Molto è stato fatto ma la Valchiampo resta un territorio fragile, servono investimenti costanti”

L’ex segretario generale della Cgil, ora nella segreteria regionale, lancia un appello sul progetto per l’impatto ambientale zero: “Serve una svolta vera”

di Martino Montagna

Giampaolo Zanni, già segretario generale della Cgil Vicenza per otto anni e dal 2024 attivo in Cgil Veneto con delega alla sicurezza sul lavoro e all’emergenza PFAS, interviene sulla situazione ambientale e sociale della Valchiampo. Un’area industrialmente strategica ma ancora segnata da criticità ambientali, soprattutto per quanto riguarda la presenza di sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e i residui delle lavorazioni conciarie.”Parlare della Valchiampo significa affrontare una delle zone più complesse e delicate del Veneto – spiega Zanni –. È vero che in questi anni si sono compiuti passi avanti, anche grazie al lavoro delle amministrazioni locali e dei soggetti produttivi, ma la fragilità

ambientale di questo territorio resta sotto gli occhi di tutti e richiede interventi strutturali e lungimiranti.” Zanni ricorda come, durante il suo mandato alla guida della Cgil Vicenza, abbia seguito il distretto della concia, portando avanti un dialogo serrato con le imprese e le istituzioni del territorio. “Quel confronto conteneva già in sé elementi chiave di sostenibilità sociale: parlo dell’integrazione dei migranti, della formazione, della casa, dell’inserimento nel tessuto comunitario. Ma anche –aggiunge – di sicurezza sul lavoro e di attenzione crescente agli impatti ambientali.” Il riferimento è al progetto “Concia verso l’impatto ambientale zero”, elaborato e condiviso all’interno del Distretto della Pelle con il coinvolgimento di tutte le parti sociali. “Un piano ambizioso, sostenuto anche da risorse importanti previste dal PNRR, che mira a rifare completamente la rete fognaria – soggetta a perdite – e a ridurre esalazioni e sali nella lavorazione, contribuendo anche alla diminuzione dei fanghi prodotti, in cui sono presenti residui di PFAS.”

Un progetto, quello per l’impatto ambientale zero, che rappresenta

Unavecchiaprotestaconpresidiodei cittadini e dei lavoratori Miteni

un punto di svolta. “Intervenire su questi aspetti – sottolinea Zanni –significa dare una risposta concreta e moderna a una delle emergenze ambientali più gravi del nostro tempo”. Tuttavia, nonostante l’ampia condivisione e il consenso tra imprese, sindacati e amministrazioni locali, il piano non è ancora attuato. “A quanto mi risulta non è stato ancora finanziato. Se tutti gli attori del territorio erano d’accordo, è evidente che c’era un’esigenza reale e urgente. Mi auguro – conclude Zanni – che il progetto venga attivato e reso operativo al più presto, perché la sostenibilità non può più aspettare.”

Il sito MITENI alla fine della Valle
Alcune Mamme no Pfas fuori dal tribunale di Vicenza

Sanità: caso PFAS

Opposizione a settembre 2022 a richiesta di archiviazione del PM (da sinistra l’avvocato Edoardo Bortolotto, gli allora segretario generale CGIL di Vicenza Giampaolo Zanni e segretario della Cgil del Veneto Paolo Righetti, la responsabile dell’INCA provinciale di Vicenza Valeria Baù e la responsabile dell’INCA di Valdagno

PFAS: il più grande processo ambientale in Italia attende la sentenza. Resta aperta la questione lavoratori e bonifica

di Martino Montagna

È in corso presso il tribunale di Vicenza quello che è stato definito il più grande processo ambientale mai celebrato in Italia: il procedimento giudiziario sui PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) legato all’attività dell’ex stabilimento Miteni, centro dell’inquinamento che ha interessato vaste aree del Veneto. La sentenza è attesa per il prossimo 26 giugno, e potrebbe segnare un punto di svolta in una delle vicende ambientali più gravi e complesse del Paese. Ma mentre il procedimento penale va verso la conclusione, resta ancora aperta la questione della responsabilità dell’azienda nei confronti dei circa 500 lavoratori impiegati nello

stabilimento. Tra questi, oltre

250 persone presentano livelli altissimi di PFAS nel sangue, ma le indagini a loro tutela sono state archiviate. “Una prova ritenuta significativa

come la riclassificazione del composto PFOA come sicuramente cancerogeno da parte dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) – dichiara Giampaolo Zanni –

NeveartificialeinquinatadaPFAS,sullepistedascitrovatedecinedi “sostanzechimichepersempre”

Giordana Ruzzolini)

non è bastata a far proseguire l’azione giudiziaria. Tuttavia, vi sono elementi per cui il caso potrebbe essere riaperto: sono in corso nuove valutazioni. Il sito della Miteni, identificato come fonte principale dell’inquinamento, non è ancora stato bonificato. Ad oggi esiste solo un piano di messa in sicurezza preliminare, senza un vero progetto di rimozione del terreno contaminato. Le falde acquifere continuano a peggiorare in qualità, a causa della persistente contaminazione del suolo: ogni risalita della falda comporta ulteriore diffusione degli inquinanti. Per questo, lungo il corso del torrente Poscola si sta costruendo una paratia per impedire all’acqua di entrare nell’ex stabilimento e peggiorare ulteriormente la situazione. Secondo quanto dichiarato dal procuratore capo di Vicenza, Lino Giorgio Bruno, il costo stimato per una bonifica completa ammonterebbe a 180 milioni di euro – una cifra elevata ma giustificata dall’enorme estensione della falda contaminata, paragonabile per dimensioni al Lago di Garda”. Nonostante l’origine principale sia localizzata, la contaminazione

PFAS ovunque: un inquinamento diffuso e trasversale

da PFAS si è ormai diffusa ben oltre la zona rossa e arancione attorno alla Miteni. Le sostanze sono state rinvenute anche in territori non direttamente coinvolti nella produzione, ma dove questi composti sono stati utilizzati o trasformati, come settori della concia, calzaturiero, tessile e dell’edilizia. “Particolare preoccupazione desta il recente ritrovamento di valori elevati di PFAS nei cementi a presa rapida utilizzati in nuove costruzioni a Castelgomberto – ricorda Zanni. I PFAS non provengono solo dal passato industriale dell’area. Ancora oggi, composti come il PFA a catena corta continuano a essere presenti, ad esempio presso lo stabilimento FIS di Montecchio Maggiore, e sono contenuti in pesticidi, neve artificiale, apparecchiature per il condizionamento dell’aria, schiume antincendio usate dai Vigili del Fuoco e persino nei

reflui dei depuratori. I PFAS ultracorti rappresentano ormai un problema ambientale nazionale, con livelli di diffusione difficili da monitorare”.

Nonostante la gravità della situazione, alla Conferenza dei Servizi che si tiene periodicamente a Trissino, non partecipa Mitsubishi, ex proprietaria della Miteni, ma solo aziende come ICIG, Eni e Marzotto. Questo aspetto solleva interrogativi sulla reale volontà e possibilità di attribuire responsabilità e avviare una bonifica efficace. “La bonifica completa resta la soluzione ideale – sostiene l’esponente regionale della CGIL - e consisterebbe nella rimozione totale del terreno contaminato. Tuttavia, al momento non esiste un piano operativo concreto. Sul tavolo ci sono diverse ipotesi alternative, come il lavaggio del suolo o l’installazione di barriere idrauliche, ma tutte queste soluzioni sono ancora in fase preliminare e lontane dalla realizzazione”.

Mauro Bellesia: la storica sentinella della ragioneria comunale tira le somme e sogna ancora una Vicenza con un tocco più internazionale

Buon arbitro non si cambia. Dal 1991 al 2025 ha guidato il settore bilanci e contabilità del Comune di Vicenza con discrezione e competenza, attraversando sette giunte diverse, da Variati a Possamai. Ora in pensione, ripercorre le sfide affrontate e quelle del futuro: è anche uno dei 15 membri tecnici dello Standard setter board del MEF.

di Federica Zanini

Fresco, fresco di pensionamento, dopo una vita a fare e a controllare conti; non facciamo, però, conti noi che lui si fermi nonostante il pensionamento… Prima ancora di conoscere di persona Mauro Bellesia - per 34 anni figura determinante, determinata e silenziosamente vigile del Settore Programmazione, Bilanci, Contabilità e Controllo di Gestione del Comune di Vicenza - basta questo a suscitare la mia ammirazione: chi scrive, coi numeri, per lo meno chi viene dalla mia scuola, non ha proprio un grande feeeling e spesso ci litiga. Eccomi davanti invece un vero e proprio calcolatore umano (in tutti i sensi!), per di più solido, integerrimo, onesto. Credibile, insomma.

Talmente credibile e apprezzato, da aver attraversato super partes, con sempre nuovi stimoli, sfide e soddisfazioni e con pari apprezzamento del suo operato ben sette giunte: Variati, Quaresimin, Hüllweck, Variati bis e tris, Rucco e infine Possamai. Il pensionamento, per quanto riguarda Palazzo Trissino, lo scorso 1° maggio: una coincidenza che ha qualcosa di intenso, la sospensione del lavoro, motore di una vita, proprio nel giorno della Festa dei Lavoratori. Che poi l’addio all’attività è in qualche modo solo simbolico: la mente, e non solo, di Mauro Bellesia è ancora tutto

MauroBellesia,riveveisalutidellasua ultimagiuntadiVicenza

un lavorio. Nel privato, da cui è partito, ma anche con importanti incarichi pubblici, a livello nazionale. Ma andiamo per ordine. Vicentino Doc, classe 1958, laureato in economia e commercio all’Università Ca’ Foscari di Venezia, sul finire degli anni 80 approda alla carriera pubblica con quello che definisce “uno

Il protagonista del mese

straordinario bagaglio di esperienza nel settore privato”, che molto lo ha aiutato. Ci spieghi meglio… Avevo una grande esperienza e familiarità con contabilità e amministrazione, affinata sul campo in una importante srl. Dopo un “riscaldamento” di 3 anni (dal 1988) come ragioniere capo al Comune di Trissino, vinto il concorso, ho varcato la soglia di Palazzo Trissino forte di quello di cui la pubblica amministrazione più necessitava in quel momento. Bisogna considerare che quello era un periodo di grande fervore, di numerose e importanti riforme. Era l’epoca della legge Bassanini (ndr: la 59/1997, che mirava a decentrare poteri e funzioni dello Stato a Regioni ed enti locali), si cominciava allora a far dotare i Comuni di un proprio statuto e soprattutto si cominciava a parlare seriamente di conti… Era una grande sfida e se i primi anni, molto stimolanti proprio dal punto di vista del creare un sistema nuovo, sono stati dedicati alle fondamenta, oltre che naturalmente al mio ambientarmi e organizzarmi, poi è stato tutto un lavorare in progressione. Con grandi soddisfazioni.

avevo un superiore sopra di me, poi dal 2009, con il Variati bis, sono diventato dirigente capo, con maggiore autonomia, ma anche determinazione. Non ho mai parteggiato per una corrente o l’altra, ho badato solo a quello che era il mio incarico e ho avuto modo, pur con tutti gli indispensabili confronti, di lavorare bene con tutti. Per riuscirci però devi essere non solo capace, ma soprattutto credibile. E sono particolarmente orgoglioso di potermi vantare di esserlo sempre stato.

Economia e Finanza) nel 2010, non tanto per il venirne fuori indenne, come poi è inevitabilmente stato, visto che tutto era in ordine, quanto per il riuscire a lavorare con la dedizione e la precisione di sempre. È stato come avere la Guardia di Finanza sul collo, costantemente. L’ispettore ha messo radici negli uffici per mesi interi e ha preteso persino le password dei computer… Ma il nostro settore, come era giusto che fosse, ne è uscito pulito. Anche grazie alla collaborazione di amministratori, colleghi e tutto lo staff, che hanno condiviso il mio modo di operare.

E con un grande rispetto da parte di tutti. Come si fa ad attraversare senza macchia e con un carico di ottimi risultati quasi sette lustri e, soprattutto, sette diverse amministrazioni?

Restando neutrale al colore politico e fedele al proprio incarico. Come detto, in un operare progressivo, dopo un primo periodo di assestamento, si ottengono la libertà di movimento e il carisma necessari a imporsi. Sotto la prima giunta Variati e quella Hüllweck ero responsabile del settore e

E lo ha anche dimostrato in più occasioni difficili, da cui è uscito sempre a testa altissima. Gli scogli non mancano mai, ma se sai di lavorare in modo onesto e affidabile, prosegui per la tua strada e li superi. L’episodio più impegnativo nella mia carriera è stato certamente quello dell’ispezione del MEF (Ministero

Altri risultati di cui va fiero? Non sono uno che ama apparire o sbandierare quello che fa. Quello che conta per me è fare e soprattutto come lo fai. Vado dritto alla meta, mi interessa il risultato. Ma, visto che me lo chiede, sì, di risultati che mi hanno personalmente inorgoglito ce ne sono. Innanzitutto l’aver attraversato incolumi il periodo dei derivati e degli swap, che invece ha travolto un po’ tutti gli altri Comuni del territorio (e non solo). Sono riuscito a convincere l’amministrazione a non stringere mai contratti a rischio. Abbiamo anche, da pionieri in Italia, attraversato con successo l’impegnativa era dell’informatizzazione. Non ci siamo fatti mettere in crisi nemmeno dal passaggio all’euro, né dal Covid. Poi, a tempo perso, diciamo così, mi sono dedicato a rimettere in ordine l’intero (ndr: manca solo qualche anno, relativo al periodo bellico) archivio dei bilanci del Comune di Vicenza dal 1866 a oggi, ora disponibile e consultabile in pdf. Lo considero un mio regalo di commiato.

Un commiato ancora molto recente. Adesso sicuramente indugia in quel dolce limbo di chi è giunto alla meta, ma sente ancora il piede saldo in campo… ma poi?

Sono soddisfatto e sereno, pronto a godermi affetti e vita privata, a dedicarmi più tempo libero. Non rinnego un solo attimo, ma non ho intenzione di crogiolarmi in nostalgie. Al contrario, non solo non mi fermo lavorativamente parlando, ma sono aperto a nuove sfide, ho ancora tanti progetti. Oltre a essere contento di potermi buttare ancora di più in quello che preferisco fare in assoluto, cioè scrivere (ndr. Bellesia è autore di un gran numero di autorevoli libri e pubblicazioni molto apprezzati, i cui temi spaziano dall’Iva al ruolo del revisore dei conti, dall’investimento pubblico al controllo di gestione ecc.), e di continuare anche a tenere corsi per le università e le scuole di pubblica amministrazione, tengo molto a due importanti incarichi, che mantengo ancora. Innanzitutto, da ormai vent’anni sono – dopo essere stato il primo a entrarvi con un ruolo tecniconell’Osservatorio per la Finanza e la Contabilità degli Enti Locali presso il Ministero degli Interni. Sempre come tecnico, sono uno dei 15 chiamati a far parte dello Standard setter board, una Commissione indipendente del Ministero dell’economia che, su iniziativa del Comitato direttivo, elabora proposte di principi e standard contabili basati sul criterio della competenza economica (accrual), seguendo le linee guida europee e internazionali.

Insomma, si è chiusa solo una partita, anche se è più da considerarsi un lungo campionato… La vittoria è netta, ma come definirebbe il suo ruolo in campo in tutti questi anni? In un’epoca di immagine, visibilità a tutti i costi, grandi slogan e autoreferenzialismo, a me piace invece considerarmi un arbitro, che tutto vede e dirige ma senza far parlare di sé. Se dell’arbitro non si arriva a parlare, allora

la partita è andata alla grande. Sono una figura tecnica, che ha trascorso oltre trent’anni in silenzioso, praticamente invisibile ai più, presidio dei bilanci del Comune di Vicenza. Firmando sempre e solo ciò che era giusto, ho dato il mio contributo al buon funzionamento della macchina, indipendentemente da chi la guidava. L’ho fatto seguendo sempre ciò in cui credo: credibilità, rigore e sobrietà.

Visto il richiamo al mondo calcistico, adesso che è un energico, carichissimo neopensionato, come vede il suo tempo libero, anche se c’è da scommettere che non sarà mai tantissimo?

Ho sempre adorato e praticato lo sport. Quasi tutto, calcio a parte. I miei preferiti in assoluto restano però lo sci di fondo e la bicicletta, rigorosamente

non elettrica! Quando ne ho l’occasione, organizzo delle vere e proprie trasferte con gli amici, ma amo molto farmi delle gran belle pedalate in questo nostro magnifico territorio.

A proposito, la nostra domanda conclusiva di rito: come vive Vicenza, la sua terra e la sua realtà?

Vicenza è la mia città. Mi ci sono dedicato anima e corpo e mi ha sempre dato tanto. La amo e la trovo semplicemente bellissima. Credo che non abbia nulla da invidiare alle altre ben più note e decantate città del Veneto. Solo, mi viene da dire con rammarico, le manca quel tocco internazionale, quell’apertura sacrificata ancora invece troppo spesso a un certo provincialismo. Ha un potenziale enorme, che però è come se spaventasse ancora il vicentino.

Vocazioni

Preti, una specie in via di estinzione?

Drammatiche prospettive in uno studio sulla Diocesi di Padova, la terza in Italia dopo Milano e Roma, che conta 459 parrocchie distribuite in 5 delle 7 province venete.

di Renzo Mazzaro

L’elezione di Leone XIV ha posto la Chiesa al centro di un’attenzione mondiale. I leader dei principali Paesi della terra erano presenti in Vaticano e anche gli assenti hanno manifestato nei confronti del Papa rispetto e deferenza. Il Pontefice si è visto riconoscere un’autorevolezza da giustificare perfino aspettative di soluzione delle sanguinose guerre in corso, grazie al suo ruolo. Situazione in qualche modo paradossale perché l’autorevolezza del Pontefice sta andando a braccetto con la crisi della Chiesa come istituzione. Le folle che riempivano piazza San

Pietro non fanno dimenticare le chiese quasi vuote di fedeli, i riti religiosi sempre meno frequentati, la secolarizzazione dilagante che obbliga gli stessi vertici ecclesiastici a porsi domande inquietanti sul futuro prossimo. La crisi della Chiesa istituzione ha una spia evidente nella progressiva riduzione del numero dei sacerdoti. I preti sono sempre meno. Una situazione nota ma non indagata a fondo: quanto veloce è questa progressione,

quali motivi la fanno accelerare, quanto tempo rimane per invertire una curva che punta decisa verso il basso?

Uno studio di due professori universitari, Felice Vian e Giorgio Franceschetti, che hanno insegnato scienze statistiche e demografiche al Bo, pone le basi per rispondere a queste domande. I due prendono come campo d’indagine la diocesi di Padova, la terza in Italia dopo Milano e Roma, con oltre un milione di abitanti e 459 parrocchie distribuite in 5 delle 7 province venete: 317 in provincia di Padova, 15 a Belluno, 13 a Treviso, 36 a Venezia e 78 a Vicenza. Un territorio che si presta ad una campionatura di valenza nazionale. I presbiteri attivi come parroci, collaboratori o con altri incarichi sono 434, di cui 105 con più di 75 anni. Ci

sarebbero altri 126 sacerdoti ma 84 di loro sono indicati come pensionati, 16 hanno incarichi fuori diocesi, 13 operano in Asia, Africa e America Latina (“fidei donum”) e i rimanenti non hanno ruoli definiti: per questi motivi non sono stati tenuti in considerazione, anche se l’annuario della diocesi inserisce 31 degli 84 pensionati nel ruolo di collaboratori. Tutti i dati sono riferiti al 30 giugno 2023 e sono tratti dall’annuario 2024 l’ultimo disponibile.

Tra 25 anni dimezzato il numero dei sacerdoti

La ricerca proietta questa situazione su un orizzonte di 25 anni (2023-2048) applicando le dinamiche in corso. Il reclutamento dei sacerdoti avviene con le ordinazioni: se prosegue con la tendenza registrata nel periodo 1989-2023 le nuove ordinazioni valutate per quinquennio sarebbero 8 entro il 2028 e altre 2 fino al 2033. Dieci preti in più e dopo basta. Un tonfo, spiegabile con il fatto che gli anni Ottanta appartenevano ad un’altra era: la secolarizzazione è dilagata negli anni Novanta con un “salto” che ha avuto caratteristiche uniche. Proiettarlo oggi sui 25 anni futuri probabilmente falsava le previsioni.

Forse per questo i due ricercatori, più prudentemente, hanno preso in esame il periodo 1999-2023. Qui le cose vanno meglio per la Chiesa: la dinamica pregressa consente di articolare la previsione su due ipotesi. Con un tracciato intermedio c’è da aspettarsi che le nuove ordinazioni siano 15 entro il 2028, seguite da 11 entro il 2033, da 8 entro il 2038, da altre 5 entro il 2043 e infine 2 entro il 2048. Totale 41. Con un’ipotesi alta, l’attesa sarebbe di 15 nuove ordinazioni entro il 2028, seguite da 13 entro il 2033, da 11 entro il 2038, da 10 entro il 2043 e da 8 entro il 2048. Totale 57. Non sono stati presi in considerazione gli abbandoni dei preti, per mancanza di dati certi. Ininfluente anche la migrazione in uscita verso, o in entrata da,

altre diocesi, che avviene a saldo praticamente nullo. La mortalità è stata valutata secondo i dati Istat del Veneto. Complessivamente, nella migliore delle ipotesi il numero dei sacerdoti attivi nella diocesi di Padova nel 2048 passerebbe dagli attuali 434 a 201 con una flessione del 53%. Avranno un’età media superiore a 64 anni.

La previsione intermedia fa scendere invece i preti attivi da 434 a 185 con una flessione del 57% rispetto ad oggi e un’età media sopra i 66 anni. Nella peggiore delle ipotesi si passerebbe dai 484 preti attivi oggi a 155 con una flessione del 65% e un’età media superiore a 70 anni.

Insomma, ben che vada, siamo al dimezzamento. La crisi delle vocazioni e la piramide di età dei sacerdoti che invecchiano, unite al cambiamento di spiritualità delle persone, possono portare ad un serio declino

della Chiesa cattolica. I due autori si sono posti anche il problema di come arginare questa deriva e hanno avuto incontri con la Curia di Padova. Scoprendo che anche il vescovo Claudio Cipolla ha fatto eseguire previsioni analoghe, fermandosi al 2040 ma arrivando a conclusioni che differiscono poco.

Burnout, frustrazione che logora fisico e mente

Bisogna dire che la ricerca di Vian e Franceschetti non è l’unica sull’argomento. Civiltà Cattolica, la rivista quindicinale dei Gesuiti diventata mensile dallo

Vocazioni

scorso gennaio, ha dedicato nel 2023 un’approfondita inchiesta al burnout (sindrome da esaurimento psicofisico) dei preti, citando dati impressionanti. Per esempio l’aumento dei suicidi tra i sacerdoti in Brasile: nel corso del 2018 si sono tolti la vita 17 sacerdoti e 10 nel 2021 ma già nel 2018 una ricerca condotta da un’associazione che si chiama Isma Brasil, con interviste a 1.600 sacerdoti, religiosi e religiose, denunciava che le cause del burnout erano la mancanza di privacy, l’eccesso di lavoro, la mancanza di svago, la solitudine, la perdita di motivazione.

Civiltà Cattolica citava anche un’altra ricerca effettuata in Francia, presentata e finanziata dalla Conferenza episcopale e dalla mutualità Saint Martin, pubblicata il 25 novembre 2020. E’ stato il primo studio di questo tipo condotto in Francia, sulla salute di 6.400 preti diocesani con meno di 75 anni di età, che lavoravano in 105 diocesi. Dei 3.593 che hanno risposto, il 40% aveva più di 5 parrocchie o chiese da amministrare, il 20% oltre 20, il 7,5% addirittura 40. Un prete su quattro per essere presente nei diversi luoghi del suo ministero doveva fare 1.200

chilometri al mese, il 17% tra i 2.000 e i 5.000. Uno di loro, citando un’espressione cara a Papa Francesco, diceva non essere un pastore con l’odore delle pecore ma della benzina. Anche in Francia sono risultati 7 suicidi di preti in 4 anni. Il 20% dei 3.593 manifestava sintomi depressivi, il 3% in forma severa, il che corrisponde a 240 sacerdoti. Due su cinque avevano problemi di alcolismo, l’8% era addirittura dipendente. Quello che più preoccupava i vescovi era il burnout che affliggeva la maggior parte: solo il 15% dei loro preti sembrava esente.

Una ricerca sul burnout dei preti è stata condotta anche nella diocesi di Padova da don Giorgio Ronzoni e don Pierluigi Barzon, docenti della facoltà teologica del Triveneto, assieme a Marcantonio Caltabiano, demografo dell’Università di Padova. Nel 2017 hanno interpellato 450 sacerdoti ottenendo 319 risposte. I risultati, riportati sul Mattino di Padova da Francesco Jori, raccontavano che 4 preti su 10 soffrivano della sindrome e 2 in modo grave. Tra le cause, molti indicavano la frustrazione perché ciò che il prete offre non sembra rispondere ad

una domanda reale. Da qui spersonalizzazione, esaurimento emotivo, sensazione di scarsa efficacia personale.

Conclusioni confermate da un’altra ricerca citata da Civiltà Cattolica, realizzata da Alessandro Castegnaro, presidente dell’Osservatorio socio religioso del Triveneto. Rispetto ad altre professioni, il burnout del prete ha come caratteristica particolare la spersonalizzazione, cioè la tendenza a vivere i rapporti con le persone senza partecipazione emotiva, in modo burocratico e ripetitivo. Quanto alla solitudine, molto sentita dai preti più giovani, non sarebbe tanto sociale o familiare secondo il docente, ma piuttosto ministeriale ed ecclesiale, povera di relazioni con i fedeli, accentuata dal fatto che non è mai vissuta come fraternità presbiteriale.

Dopo 350 anni chiude il seminario maggiore di Padova

Di tutto questo ha dovuto prendere atto il vescovo di Padova Claudio Cipolla con una decisione a suo modo clamorosa: chiudere il seminario maggiore, un’istituzione secolare fondata nel 1670 da san Gregorio Barbarigo. La notizia è stata data in chiave edulcorata dal settimanale diocesano La difesa del popolo il 30 marzo scorso, riferendo di un incontro tra lo stesso Cipolla con i vescovi di Rovigo Pierantonio Pavanello, di Chioggia Giampaolo Dianin e di Vicenza Giuliano Brugnotto, insieme ai rispettivi consigli presbiteriali. La notizia della chiusura del seminario maggiore di Padova era diluita nel progetto di creare una nuova modalità di seminario, una istituzione itinerante collettiva tra le quattro diocesi. Il progetto prenderà avvio il prossimo settembre: i seminaristi di Vicenza, Padova, Chioggia e Rovigo vivranno assieme a Sarmeola di Rubano, nella Casa Madre Teresa di Calcutta, continuando a frequentare i corsi della

facoltà teologica del Triveneto nella sede centrale di Padova. Avranno contatti nor mali con l’esterno, faranno la stessa vita di molti studenti universitari, ma sono anche troppo pochi per avere un solo seminario per loro. Non parliamo di quattro. Edulcorata o meno, la chiusura del seminario maggiore di Padova segue il fallimento del seminario minore di Tencarola, opera gigantesca ideata negli anni Sessanta, realizzata con grande dispendio di energie e di offerte dei fedeli, mai servita allo scopo e lasciata in abbandono. Fatti accaduti

a distanza di anni, in epoche diverse, un accostamento che forse scandalizzerà ma che rivela l’importanza di inserire nei progetti corrette previsioni per il futuro. Quello che non si poteva chiedere nel 1670 a Gregorio Barbarigo, peraltro autore di un successo, lo stanno mettendo in pratica i vescovi di oggi per evitare un drammatico insuccesso.

A loro Felice Vian e Giorgio Franceschetti propongono alcune linee di cambiamento per evitare che la crisi diventi irreversibile. «Suggerimenti per avviare una discussione

– precisano – frutto di consultazioni su un campione di persone a diverso titolo impegnate nell’ambito cattolico italiano». Ne stralciamo qualche passo: uscire dal “recinto” dei fedeli che partecipano alla vita delle chiese; partire dalla dimensione umana per arrivare a quella spirituale; coinvolgere davvero i laici in tutte le fasi dell’azione pastorale; soprattutto «cambiare radicalmente la formazione di base e permanente dei sacerdoti». Questo almeno sembra cominciato.

Tutti i numeri dei referendum, l’analisi del voto e della partecipazione:

indicazioni interessanti sull’Italia (e su Vicenza “cosmopolita”)

I cinque quesiti su cui si è votato domenica 8 e lunedì 9 giugno non hanno raggiunto il quorum. Sul piano delle leggi, quindi, tutto resta com’è ma qualche ragionamento va fatto

di Salvatore Borghese

Domenica 8 e lunedì 9 giugno oltre 51 milioni di italiani (poco più di 45 milioni di residenti in Italia più circa 5 milioni di residenti all’estero) sono stati chiamati alle urne per votare su cinque quesiti referendari: quattro in tema di leggi sul lavoro, promossi dalla CGIL, e uno sui requisiti per l’acquisizione della cittadinanza italiana per gli stranieri regolarmente residenti nel nostro Paese promosso da +Europa, Possibile, Partito Socialista Italiano, Radicali Italiani, Rifondazione Comunista e numerose associazioni della società civile. Trattandosi di referendum abrogativi, dovevano recarsi ai seggi almeno il 50% più uno degli aventi diritto affinché la consultazione fosse valida: tuttavia, a votare sono stati “solo” 14,8 milioni di elettori, ossia poco meno del 30% degli aventi diritto (l’affluenza in realtà ha superato di poco la soglia del 30% in Italia, ma ha risentito di quella molto minore all’estero, dove si è fermata sotto il 24%).

Se l’obiettivo era raggiungere il quorum, dunque, si è trattato di un fallimento. Un fallimento di certo non imprevedibile, visto che negli ultimi 30 solo una volta erano andati a votare più di metà degli italiani

per un referendum abrogativo: ma era il 2011, c’era stato da poco l’incidente alla centrale nucleare giapponese di Fukushima e uno dei quesiti riguardava, guarda un po’, proprio lo stop alla produzione di energia nucleare in Italia. Stavolta, come allora, quasi tutti i partiti di opposizione si sono schierati a favore del Sì per dare un “segnale politico” al governo in carica: ma,

Mappa dell’affluenza per provincia

(fonte: elaborazione Youtrend su dati Ministero dell’Interno)

come era facilmente prevedibile (visto che in Italia oggi non c’è un clima insofferente – per non dire ostile – al Governo Meloni paragonabile a quello che c’era nel 2011 nei confronti del berlusconismo al suo ultimo stadio, bersagliato da scandali e da una crisi economica), anche questa “leva” non è bastata a mobilitare gli elettori in numero sufficiente.

C’è da dire subito che la scarsa partecipazione è stata alquanto omogenea in tutta Italia. In nessuna provincia si è raggiunto il 50% di votanti. Il quorum è stato raggiunto solo in 28 comuni, nessuno di grandi dimensioni, e in 11 di questi, peraltro, si votava per la concomitante tornata di ballottaggi per le elezioni comunali. In generale, però, la geografia della (non) partecipazione rivela qualcosa di interessante. Ad esempio, che si è votato di più nelle regioni del Centro-Nord (in particolare Toscana ed Emilia-Romagna, poco sotto il 40%) che in quelle del Sud (con il solo Trentino-Alto Adige a far peggio di Calabria e Sicilia, con meno del 23% di affluenza). Oppure che la percentuale di votanti è stata tanto più alta quanto più popoloso era il comune: se nel complesso delle città con più di 100 mila abitanti si è registrata un’affluenza superiore al 35%, nei piccoli comuni con meno di 10 mila residenti non si è andati oltre il 27,4%. Da questo punto di vista, Vicenza ha fatto leggermente meglio della media nazionale, con il 31,1% di partecipazione (dato tra i più alti di tutti i comuni della provincia, che nel complesso si è fermata al 25,5%).

C’è un’ultima cosa da dire sulla partecipazione a questi referendum. Forse è un dettaglio, ma è interessante dal punto di vista della sociologia politica: a livello provinciale, l’affluenza è

stata praticamente ovunque più alta tra le donne che tra gli uomini; l’unica eccezione è la provincia di Taranto, dove però nel capoluogo si votava anche al ballottaggio. Una novità, se si considera che di solito l’affluenza che si registra tra gli elettori è superiore a quella delle elettrici (da ultimo alle ultime europee, dove questo era avvenuto in ben 91 province su 106).

Veniamo ora ai risultati, cioè a come hanno votato quelli che alle urne ci sono andati. Come spesso avviene – soprattutto da quando le forze politiche di volta in volta contrarie ai quesiti oggetto di referendum hanno capito che era più conveniente far leva sull’astensione per far fallire le consultazioni piuttosto che fare campagna per il No – la percentuale di Sì è risultata di gran lunga maggioritaria in tutti i quesiti. Ma qui emerge l’altro elemento interessante di questi referendum: e cioè che mentre i quesiti sul lavoro hanno fatto tutti registrare (con poche variazioni) una quota di Sì vicina al 90%, il quinto quesito sulla cittadinanza si è fermato “solo” al 65% di favorevoli. In altre parole, quasi tutti quelli che sono andati a votare principalmente per votare Sì al quesito sulla cittadinanza hanno esteso il loro voto anche ai quesiti sul lavoro; viceversa, circa un terzo degli elettori che sono andati a votare principalmente perché favorevoli ai quesiti promossi della CGIL hanno poi bocciato il quesito sulla cittadinanza.

Un fenomeno interessante, e che apre a tutta una serie di interpretazioni sul comportamento degli elettori. Posto che non tutti gli italiani che sono andati a votare al referendum sono elettori dei partiti di opposizione (come confermato da una stima di SWG e dai flussi di voto elaborati dall’istituto Cattaneo), è evidente che l’elettorato “referendario” è mediamente un po’ più ostile verso gli stranieri di quello che si potrebbe pensare con riferimento a un generico elettorato “progressista”. Ricordiamo infatti che tutte le forze politiche di opposizione, anche quelle contrarie ai quesiti sul lavoro (come Azione e Italia viva), si erano espresse a favore del quesito sulla cittadinanza, con una sola eccezione: il Movimento 5 Stelle, che proprio sul quinto quesito aveva scelto la linea della libertà di voto.

Incrociando i dati sulla partecipazione al voto con quello del rapporto tra Sì ai quesiti sul lavoro e Sì al quesito sulla cittadinanza, Youtrend ha elaborato un’interessante classificazione* dei comuni italiani, suddividendoli in quattro “famiglie”: i comuni dell’Italia “scettica”, dove si è votato poco e dove i Sì sul lavoro sono stati molti di più dei Sì sulla cittadinanza, sono comuni di medie dimensioni, che votano tendenzialmente più a destra della media nazionale, e si trovano principalmente tra il Sud e il Triveneto; dell’Italia “laburista” fanno invece parte quei comuni dove i Sì sul lavoro sono stati molto prevalenti rispetto ai Sì sulla cittadinanza, ma dove l’affluenza è stata più alta della media nazionale, e sono comuni delle cosiddette “zone rosse” o comunque con una grande tradizione di lavoro operaio nel settore manifatturiero; dall’altro lato del quadrante troviamo, in alto, i comuni “cosmopoliti”, in cui rientrano tutti i maggiori centri urbani del Paese e dove si è registrata un’alta affluenza e un’alta percentuale di Sì ai voti sul quesito della cittadinanza

(e  di questo quadrante fa parte anche il comune di Vicenza ); infine, ci sono i comuni dell’Italia “mediterranea”, dove troviamo pochi comuni medio-grandi, quasi tutti del Sud, in particolare in Sicilia e Sardegna, dove si è votato poco ma con una scarsa preferenza dei quesiti sul lavoro rispetto a quello della cittadinanza.

Le “4 Italie” nella classificazione di Youtrend(fonte:elaborazioneYoutrendsu datiMinisterodell’Interno)

Insomma, se il referendum dell’8 e 9 giugno non ha avuto alcun effetto concreto sul piano legislativo, e ben pochi effetti “politici” (visto che l’annunciato “avviso di sfratto” al Governo paventato dalle opposizioni non si è manifestato), esso ha avuto quantomeno il risultato di fornire agli analisti politici e ai sociologi numerosi elementi e spunti di riflessione, tutt’altro che scontati, sull’orientamento degli italiani, sulle loro priorità e anche sulla geografia politica del nostro paese.

Un’interessante classificazione dei comuni italiani

Pier Carlo Padoan, l’arte di cadere in piedi:

da “accompagnatore” del crac delle banche venete, con Intesa a goderne, a presidente di Unicredit

La notte tra il 25 e il 26 giugno 2017 ha segnato la fine per i soci della Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. Per altri, come Pier Carlo Padoan, è stato l’inizio di un’altra carriera

CarloMessina(Intesa)ePierCarlo

Padoan,strategadellacessionedelleex PopolariveneteaIntesaSanpaoloeora presidentediUnicredit

di Giovanni Coviello Nel giugno 2017, nella notte, e che notte!, tra il 25 e il 26, mentre oltre duecentomila soci/risparmiatori veneti assistevano attoniti all’azzeramento delle loro azioni, l’allora ministro dell’Economia (dal 2013 prima con Renzi, poi con Gentiloni) Pier Carlo Padoan firmava il certificato di morte di  Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Con un colpo solo – e notturno col dl 99 a vedere la luce – le due banche venivano avviate all’amministrazione coatta, le attività “buone” passavano a  Intesa Sanpaolo per un euro (50 centesimi a banca), e le azioni, spesso acquistate con i risparmi di una vita venivano scaricate nella fossa comune del doppio crac.

Dietro le quinte,  tutto ancora oggi ci sembra già scritto: lo stesso Padoan aveva promosso il  Fondo Atlante, presentato come scialuppa di salvataggio ma in realtà imbarcazione affondata prima di salpare. A finanziarlo? Soprattutto  Intesa Sanpaolo e Unicredit, che prima ci misero i soldi per aumentare il capitale delle due banche (2,5 miliardi complessivi), e poi,

quando tutto fu perduto con sullo sfondo manovre mai chiarite di governi che si sono succediti ma sempre incapaci di (voler) trovare meno soldi di quelli dilapidati dallo Stato per (non) salvare Alitalia, si ritrovarono tramite Atlante 2 a gestire crediti deteriorati di MPS – i famigerati NPL – a loro affidati a condizioni e in quantità molto favorevoli e tali da ripagarli ampiamente del presunto “sacrificio”.

A distanza di anni, nonostante processi celebrati non con tutti gli imputati che li avrebbero meritati – i più “intoccabili” sono stati quelli del “Sistema” che non ha visto quello che succedeva sotto il suo “non” controllo -,  i nodi non sono mai arrivati al pettine, ma  Pier Carlo Padoan sì: è arrivato rapidamente, ad aprile 2021, dalla carriera politica alla presidenza di Unicredit, banca che ora e da mesi è impegnata in mosse strategiche in Italia (vedi Banco BPM) e in Germania (Commerzbank). Il presidente oggi rassicura che “il cda è compatto” mentre la stampa finanziaria racconta di tensioni, veti governativi e strategie “ostili” verso le banche tedesche. Ma per Padoan, tutto va bene: anche la memoria corta del Paese.

Sia chiaro, non ci sono accuse verso un esperto economista come Padoan, ma un dato resta:  chi ha perso tutto non siede nei cda, ma nei salotti amari dei truffati. Chi ha gestito il disastro, invece,  ha trovato posto ai vertici della finanza europea Come sempre in Italia,  il potere non evapora: semplicemente cambia abito, poltrona e… consiglio d’amministrazione

L’inserto di giugno

Due ruote, a pedali e a motore

Alan Kay, informatico statunitense, disse che per predire il nostro futuro, il modo migliore sarebbe quello di inventarlo, perché se la scoperta avviene sempre in modo casuale, l’invenzione invece è il frutto di tanto lavoro e osservazione che porta all’ideazione di un progetto. Grazie a creatività, talento, studio e possibilità economiche, è possibile migliorare la realtà e la vita di tutte le persone, migliorandone relativamente la qualità.

La storia dell’umanità è ricca

L'invenzione della bicicletta

di scoperte memorabili, nate dall’ingegno, dalla casualità o da una combinazione dei due fattori. Alcune hanno cambiato il corso della storia e plasmato il mondo intero; difficilmente potremmo immaginare il nostro stile di vita di oggi, senza di esse. In questa serie di articoli vedremo quali sono le invenzioni e le scoperte più grandi e più utili di sempre, considerando la loro storia e l’impatto che hanno avuto sulla società moderna.

Le invenzioni e le scoperte che hanno cambiato la storia: la

bicicletta

L'invenzione della bicicletta è da attribuire al barone tedesco Karl von Drais nel 1817. La bici quindi ha compiuto più di 200 anni! Il nome scelto dal barone per la bici fu Laufmachine (macchina da corsa) ma molti in suo onore la chiamarono draisina o draisienne in francese.

In Italia fece il suo debutto nel 1819. La draisina era costruita in legno, due ruote e niente pedali e freni: per muoversi bisognava spingersi

STORIA DELLA BICICLETTA

con le gambe, camminando da seduti. Lo sterzo piuttosto rudimentale consisteva in una leva anziché un manubrio.

La storia della bicicletta. La draisina con le sue ruote di legno provocava parecchi fastidi a chi la usava proprio a causa dei continui scossoni che riceveva il guidatore. Con il passare degli anni la Laufmachine ebbe un'evoluzione, trasformandosi vent'anni dopo nel velocipede: una bici con la ruota anteriore altissima, circa un metro e mezzo da terra, il sellino sopra la ruota anteriore e finalmente comparvero anche i pedali. Il velocipede, messo a punto in Scozia nel 1838-39 e poi migliorato a Parigi nel 1855, aveva le ruote in gomma piena e niente ammortizzatori, quindi continuava essere scomodo per chi lo guidava rispetto alla bicicletta moderna. Nel 1861, i francesi Pierre ed Ernest Michaux creano un particolare velocipede detto biciclo, dotato di pedali fissati nel mozzo della ruota anteriore: per farlo avanzare

occorre pedalare in senso rotatorio, proprio come facciamo noi oggi.

I primi raggi metallici posizionati in direzione tangenziale e non radiale compaiono nel 1870.

Solo nel 1885 arrivammo ad un modello simile alla bici moderna: il merito fu degli inglesi Sutton e Starley che fondarono la loro casa costruttrice e lavorarono al modello fino a renderlo migliore, con l’adozione della trasmissione a catena e il ridimensionamento delle ruote.

La mountain bike, infine, viene creata in California (Usa) tra 1975 e 1980.

Curiosità

1. Il primo ad aver concepito un'idea di bicicletta è Leonardo Da Vinci con un disegno a matita e carboncino risalente al 1493 e contenuto nel Codice Atlantico. Si trattava di una “macchina” con due ruote, un’asse di legno che le teneva assieme, un manubrio e una specie di catena che collegava

i pedali alla ruota posteriore.

2. Perché il velocipede aveva la ruota anteriore così alta?

Per ricordare la monta a cavallo, il mezzo di trasporto più diffuso nel 1800.

3. Le strade erano parecchio diverse due secoli fa rispetto a oggi: sterrate, piene di buche, dissestate... Andare in bici non era affatto agevole e il cavallo continuava ad essere considerato il miglior mezzo di trasporto mentre la bicicletta un trastullo per gente nobile con cui divertirsi.

4. La mountain bike è stata inventata sul finire del 1970 in America da Gary Fischer.

In Italia è arrivata solo nel 1985 con il nome di rampichino.

5. Il primo giro del mondo in bici, anzi in biciclo, fu portato a termine da Thomas Stevens che, nell'aprile del 1884 partì da San Francisco per farvi ritorno a dicembre del 1886, due anni e mezzo e 13.500 miglia dopo!

Nel 1985 il film Ritorno al futuro ipotizzava degli skateboard volanti. Oggi, alla convivenza non sempre facile tra biciclette e automobili, in molte città si affiancano nuovi mezzi di mobilità sostenibile. Ma non è vero che c’è anarchia.

I monopattini, tra odio e amore degli automobilisti e pedoni, fanno ormai parte della circolazione cittadina. Alcuni scelgono la cara bici ed altri la moderna bici a pedalata assistita cosiddetta elettrica.

In ogni caso, la praticità di entrambi è indiscutibile: sono veicoli che offrono una modalità di trasporto nell’ambito urbano utile

Cosa si può fare e cosa no

Monopattini, velocipedi e micromobilità elettrica

per piccoli spostamenti.

I monopattini, introdotti all’interno della micromobilità urbana in Italia nell’estate del 2019, si affiancano alle antenate bici e il via fu demandato ai Comuni con la condizione di aderire alla sperimentazione.

Vicenza partecipò e alle porte della città installò la segnaletica per delimitarne l’area.

Da allora in poi si sono succedute diverse norme, in particolar modo per i monopattini che, se dapprima furono equiparati alle bici, oggi

acquisiscono la maggiore età e sono veicoli a sè stanti restando comunque in qualche modo “parenti” poiché alcune regole per le bici valgono anche per i monopattini.

In attesa dell’emanazione di norme tecniche che li regolino più approfonditamente e gli restituiscano aree di sperimentazione, poiché ad oggi il periodo a loro dedicato è scaduto, restano indietro nella classifica della micromobilità urbana i segway, i monowheel e gli overboard. Segway, monowheel (o monoruota) e overboard sono mezzi elettrici di micromobilità basati sull’equilibrio dinamico.

Il Segway, più ingombrante, si guida col movimento del corpo; monowheel e hoverboard, più compatti, si controllano spostando il proprio peso.

Quindi, le classiche bici, le bici a pedalata assistita e i monopattini sono i tre veicoli alla griglia di partenza.

Alla griglia di partenza perché, se le classiche bici sono quelle più pacate (perché se vuoi andare devi pedalare), per quelle elettriche e i monopattini elettrici muoversi è meno faticoso (ricordo mio figlio la prima volta che guidò la bici elettrica la definì “la bici che non si suda!”).

Ma siccome sulla strada non si è in

competizione si deve andar piano perché ci si fa male!

Se da una parte gli automobilisti dicono che i monopattini sfrecciano e i ciclisti vanno ovunque, dall’altra i “monopattinisti” e i ciclisti affermano di non essere visti dagli automobilisti che tagliano loro la strada.

Chi ha ragione?

Citando un pensiero filosofico è da dire che la libertà è nelle regole e per essere liberi tutti devono rispettarle e conoscerle. Perciò, con la nuova legge (L. 177/2024 in vigore da dicembre 2024) per i monopattini cos’è cambiato? Le novità le possiamo così riassumere: possono circolare sulla carreggiata solo sulle strade urbane che hanno velocità non elevata cioè non superiore a 50 kmh; fuori dai centri abitati, la circolazione sulla strada e anche sulle piste e corsie ciclabili è sempre vietata; l’obbligo del casco è per tutti i conducenti, a prescindere dall'età; il casco deve essere conforme alle norme UNI EN 1078 o UNI EN 1080 (cioè i caschi per le biciclette); nuove sanzioni per assenza di frecce e freni su tutte le ruote; istituzione della “targa” e la conseguente assicurazione ma si attende uno specifico decreto del Ministero Infrastrutture e Trasporti (MIT) per l’attuazione; sono stati introdotti nuovi obblighi per i gestori di servizi di noleggio che devono installare dei sistemi automatici che impediscano il funzionamento fuori città (praticamente fuori città l’alimentazione elettrica si interrompe e il monopattino si ferma); possono esserci aree di sosta riservate ai monopattini prive di segnaletica orizzontale e verticale, purché le coordinate GPS della loro localizzazione siano consultabili pubblicamente nel sito internet istituzionale del Comune. E' comunque consentita la sosta negli stalli riservati ai velocipedi, ai ciclomotori e ai motoveicoli.

E per gli altri dispositivi di micromobilità elettrica (segway, monowhell, overboard) diversi dai monopattini?

Sarà emanato un decreto dal MIT contenente le caratteristiche tecniche e costruttive e che reintrodurrà o estenderà, vedremo, il periodo di sperimentazione attualmente scaduto. Quindi attualmente non possono circolare e i conducenti rischiano una “multa” da euro 200 a euro 800.

E per le bici quali novità?

Vediamone alcune

è stata definita la corsia ciclabile cioè laddove non è possibile installare a regola d’arte una pista ciclabile si può tracciare su parte della strada una corsia per favorire la circolazione delle bici; ad un incrocio con semaforo, laddove termina una pista ciclabile o una corsia ciclabile, davanti alla linea dove si arrestano le auto e le moto è possibile tracciare un’area riservata alle bici;

le luci devono essere sempre presenti e funzionanti come per le autovetture (da mezz’ora prima del tramonto a mezz’ora dopo l’alba); i conducenti dei veicoli a motore devono dare la precedenza ai velocipedi circolanti sulle corsie ciclabili delimitate da striscia discontinua; il sorpasso delle bici da parte dei veicoli a motore deve essere effettuato, ove le condizioni della strada lo consentano, ad una distanza di sicurezza di almeno 1,5 metri.

In conclusione, vari interventi normativi si stanno compiendo per aumentare la sicurezza stradale a tutela degli utenti vulnerabili, quali bambini, anziani, disabili, pedoni, ciclisti e conducenti di ciclomotori e di motocicli, e tutti siamo invitati ad analizzare e valutare con attenzione le situazioni nelle quali ci troviamo durante la guida in modo da poter prendere decisioni sagge e consapevoli.

La rinascita delle biciclette tradizionali

semplicità e sostenibilità in movimento

Negli ultimi anni, le città di tutto il mondo hanno assistito a una silenziosa, ma significativa, rivoluzione nella mobilità urbana. Mentre nuove tecnologie come le e-bike e i monopattini elettrici fanno notizia, anche le biciclette tradizionali tornano a popolare le strade, diventando un simbolo di praticità e di sostenibilità.

Una storia affascinante e in costante evoluzione. L’invenzione delle biciclette risale al XIX secolo, quando furono ideate come soluzione pratica per spostamenti rapidi e autonomi.

Dalla draisina del 1817, una bici senza pedali, fino agli eleganti modelli in acciaio del boom ciclistico di fine '800, la bicicletta non ha mai smesso di evolversi.

Tuttavia, con l'avvento dell'era automobilistica nel XX secolo, essa iniziò a perdere terreno, venendo spesso relegata a mero oggetto di tempo libero piuttosto che rimanere una valida alternativa per la mobilità quotidiana.

Ma oggi, in un'epoca in cui la sostenibilità ambientale è una tematica da considerare con urgenza, i vantaggi delle biciclette sono di nuovo in primo piano.

Una rinascita alimentata dal crescente interesse verso uno stile di vita più sano ed ecologico e dall'urgenza di ridurre l'inquinamento nelle metropoli congestionate. Il ritorno in voga delle biciclette può essere attribuito a diversi fattori chiave, ciascuno dei quali risponde a specifiche esigenze contemporanee: Sostenibilità ambientale. Le biciclette sono rispettose dell'ambiente, non emettono gas nocivi e richiedono meno risorse in termini di produzione e di manutenzione rispetto agli autoveicoli e persino alle e-bike.

Benefici per la salute. Pedalare è un'attività fisica che contribuisce in maniera significativa al benessere fisico e mentale. L'utilizzo regolare della bici, infatti, riduce il rischio di malattie cardiovascolari, migliora la tonicità muscolare e contribuisce alla salute mentale grazie all'attivazione di endorfine, i cosiddetti "ormoni della felicità".

Economicità. Le biciclette tradizionali sono generalmente più accessibili rispetto alle loro controparti tecnologicamente avanzate, il loro costo è inferiore e richiedono spese di manutenzione ridotte. Semplicità e affidabilità. A differenza delle moderne e-bike, che necessitano di componenti elettronici

avanzati e di una manutenzione specializzata, le biciclette tradizionali sono più semplici da riparare, spesso in modo autonomo, senza l’intervento di un tecnico.

Optare per la semplicità in un mondo sempre più frenetico, nel quale la tecnologia a volte risulta invadente, è una soluzione da considerare. Le biciclette, con il loro design pulito e le funzionalità semplici, permettono agli individui di riconnettersi con la città e con sé stessi.

Impatto sociale e urbano delle biciclette. L'incremento dell'utilizzo delle biciclette non è solo una questione di preferenze individuali o di tendenze di mercato. Al contrario, rappresenta una

trasformazione profonda della cultura sociale, a cui è dovuta anche quella delle infrastrutture urbane. Città in tutto il mondo, da Amsterdam a Bogotà, stanno riprogettando i loro spazi per accogliere e promuovere la mobilità su due ruote. La creazione di piste ciclabili, l'installazione di parcheggi per biciclette sicuri e l'organizzazione di eventi incentrati sulla cultura sostenibile e sull’uso dei veicoli sostenibili sono solo alcune delle iniziative in atto. Esistono poi i programmi di "bike-sharing", che rendono i modelli tradizionali accessibili a un’ampia gamma di persone, indipendentemente dal reddito; aumentano il numero di ciclisti e promuovono un senso di comunità e appartenenza tra i cittadini.

Spesso supportati da amministrazioni locali e aziende private, consentono di prelevare e restituire i mezzi in numerose stazioni sparse per la città, utilizzando applicazioni mobili per la gestione del noleggio. In questo modo, nasce un nuovo tipo di interazione sociale: le bici diventano simbolo di un'urbanistica più umana e meno orientata al veicolo privato. Con la riduzione del

traffico, le città diventano più silenziose, pulite e sicure. Allo stesso tempo, vi è un maggiore coinvolgimento della comunità nelle attività all'aperto. Non è da sottovalutare, infine, il fatto che i programmi di bike-sharing possono avere un impatto positivo sull'economia locale. Infatti, l'aumento dei ciclisti comporta una maggiore domanda di servizi correlati, come officine di riparazione o negozi di accessori e abbigliamento specifici.

Innovazioni tecnologiche per migliorare le funzionalità. Pur mantenendo la loro semplicità e le caratteristiche essenziali, le biciclette tradizionali non sono rimaste immuni dalle innovazioni tecnologiche. L’obiettivo è quello di migliorare il comfort e l'esperienza complessiva di guida senza compromettere il loro design e le funzionalità originali.

I materiali utilizzati sono migliori: un esempio è l’uso di leghe leggere e più resistenti, che aumentano la durabilità e riducono il peso, rendendo la pedalata meno faticosa, soprattutto in salita. I sedili e i manubri delle bici moderne sono ergonomici e offrono una maggiore comodità e adattabilità a ciclisti di tutte le età.

Il design rimane fedele a quello classico, per non stravolgere il concetto di essenzialità che lo caratterizza, ma i modelli più recenti sono indubbiamente più raffinati e attraenti agli occhi dei consumatori.

Un ulteriore vantaggio è la possibilità di personalizzazione: le opzioni su misura, oltre a essere pezzi unici e rappresentare delle espressioni personali, hanno la capacità di soddisfare appieno le preferenze dei ciclisti. In questo modo, è più probabile che l’individuo sia propenso a utilizzare il suo

mezzo di trasporto ecologico e ciò ha conseguenze positive dirette sulla riduzione dell’inquinamento dell’ambiente.

Le innovazioni dimostrano che è possibile rispettare e persino valorizzare la tradizione attraverso un'applicazione ponderata della tecnologia. Piuttosto che sostituire le vecchie bici con novità hightech, si possono elevare i modelli originali aggiungendo nuove funzionalità che soddisfino le necessità degli utenti contemporanei. In questo modo, si rispetta il passato e si propongono soluzioni più adatte al presente: un equilibrio che non deve mancare perché le bici tradizionali continuino a essere un’opzione in un mondo in rapida evoluzione.

Un futuro più attento alla sostenibilità globale. Nei prossimi anni, la bicicletta tradizionale potrebbe essere utilizzata per brevi spostamenti. Man mano che le città di tutto il mondo si evolvono per soddisfare i criteri di sostenibilità ambientale è possibile che le politiche urbane internazionali continuino a favorire la mobilità sui mezzi a due ruote ecologici, con ulteriori miglioramenti infrastrutturali e iniziative comunitarie di sensibilizzazione. L'adozione crescente di tecnologie ecocompatibili e la progettazione di design innovativi potrebbero abbattere ulteriormente le barriere all'uso della bicicletta, rendendola accessibile e attraente a un pubblico globale.

Ciò che si è appreso dalla sua “rinascita”, dunque, può guidare la popolazione globale verso un futuro sempre più responsabile e cambiare il modo in cui viviamo.

Eco mobilità su due ruote

Un viaggio nel mondo delle bici e dei monopattini elettrici

Ad oggi, l’adozione di soluzioni di mobilità sostenibile è un’urgenza, poiché si stanno affrontando sfide senza precedenti legate all'inquinamento atmosferico e alla congestione del traffico a livello mondiale.

Le biciclette e i monopattini elettrici fanno parte di una rivoluzione silenziosa ma efficace: rappresentano una valida alternativa ai veicoli tradizionali e utilizzarli pone le basi per un futuro orientato al rispetto dell'ambiente e alla riduzione delle emissioni di carbonio.

L’evoluzione dei mezzi elettrici nelle aree urbane

I primi brevetti di biciclette elettriche risalgono alla fine del XIX secolo, precisamente agli anni '90 del 1800. Tuttavia, è solo negli ultimi decenni che il loro utilizzo è tornato in primo piano, grazie a progressi tecnologici significativi e a una crescente consapevolezza ambientale.

I monopattini elettrici, d’altra parte, sono un'invenzione più recente, che ha iniziato a guadagnare popolarità all'inizio del XXI secolo. Pratici e a basso costo di manutenzione, hanno conquistato rapidamente il mercato, soprattutto nelle grandi città, dove il traffico e l’assenza di parcheggi a sufficienza

rappresentano problematiche significative.

La crescente urbanizzazione e la necessità di soluzioni di trasporto più efficienti hanno spinto molte città a investire in infrastrutture per la mobilità elettrica. Infatti, la disponibilità di stazioni di ricarica, piste ciclabili dedicate e politiche di incentivazione hanno contribuito a rendere le biciclette e i monopattini elettrici opzioni sempre più attraenti per i pendolari.

Impatto ambientale delle e-bike e dei monopattini a batteria A differenza dei veicoli a motore

tradizionali, le biciclette e i monopattini elettrici non emettono gas serra durante il loro utilizzo, contribuendo così alla riduzione delle emissioni di CO2 nelle aree urbane.

I monopattini elettrici, pur avendo un'autonomia della batteria inferiore rispetto alle e-bike, rappresentano comunque una soluzione ecologica e valida per brevi spostamenti in città. Più indicate per tragitti lunghi sono le bici elettriche. Entrambe le soluzioni riducono la dipendenza dai combustibili fossili e l'inquinamento acustico e migliorano la qualità di vita nelle città.

Effetti positivi delle innovazioni tecnologiche

sui mezzi di trasporto elettrici

Le e-bike sono dotate di motori elettrici che assistono la pedalata, riducendo lo sforzo fisico richiesto e rendendo le salite e i lunghi tragitti meno impegnativi.

Sono alimentate da batterie ricaricabili agli ioni di litio, note per la loro alta densità energetica e la lunga durata.

Molti modelli moderni includono funzionalità smart, come connessione Bluetooth, GPS integrato e la possibilità di monitorare le prestazioni tramite applicazioni dedicate.

Per quanto riguarda i monopattini a motore elettrico nelle ruote, sono leggeri e facili da trasportare e ciò è dovuto all'uso di materiali di composizione avanzati, come l'alluminio e il carbonio.

Tra le innovazioni più recenti vi sono i sistemi di frenata rigenerativa, che consentono di recuperare energia durante la frenata per ricaricare la batteria. Sono da menzionare anche le sospensioni avanzate, progettate per offrire un comfort di guida superiore.

In tutto il mondo, poi, sono sempre più comuni le flotte di biciclette e monopattini elettrici condivisi.

Grazie alle nuove tecnologie è possibile noleggiare un mezzo elettrico tramite applicazioni e trovare quello più vicino in tempo reale attraverso sistemi di localizzazione.

Sicurezza e normative

In termini di sicurezza stradale, si tratta di opzioni valide?

Gli incidenti che coinvolgono le biciclette elettriche e i monopattini a batteria sono spesso legati alla mancanza di infrastrutture adeguate, come piste ciclabili sicure, e alla scarsa visibilità dei mezzi nel traffico urbano.

Per migliorare questo aspetto, molte città stanno implementando normative specifiche che regolano il loro uso. Tra queste rientrano i limiti di velocità, l’obbligo di indossare il casco, restrizioni sulle aree di utilizzo e requisiti di illuminazione. Inoltre, è

essenziale educare le persone sulla guida sicura e su come comportarsi per evitare incidenti.

Le regole variano da Paese a Paese e, talvolta, anche tra diverse città.

Ad esempio, in alcune località europee l'uso del casco per i conducenti di monopattini elettrici è obbligatorio, mentre altre richiedono solo che i mezzi siano dotati di luci anteriori e posteriori. Si tratta di differenze che riflettono i vari approcci alla gestione della mobilità urbana.

Impatto sociale e culturale

A livello sociale e culturale, i veicoli elettrici promuovono un maggiore senso di comunità e una connessione più stretta con l'ambiente circostante.

Ciò ha effetti diretti sulla riduzione del traffico: con un numero crescente di persone che sfruttano le alternative alle automobili, le strade risultano meno affollate e, di conseguenza, diminuisce anche lo stress associato agli ingorghi stradali. Culturalmente, in alcune città l'adozione di mezzi di trasporto elettrici è stata rapida e massiccia, con un forte supporto da parte delle amministrazioni locali. In altre, c'è stata invece una maggiore resistenza, spesso legata a preoccupazioni riguardanti la sicurezza e la mancanza di infrastrutture adeguate.

Tuttavia, sono stati fatti tanti passi in avanti, traducibili nell’investimento da parte di molte località in reti di piste ciclabili e stazioni di ricarica. Inoltre, un altro vantaggio delle soluzioni ecologiche per muoversi in città è la promozione di uno stile di vita più attivo e salutare, che incoraggia i cittadini a trascorrere più tempo all’aperto, spostandosi in maniera più sostenibile.

Cosa avverrà in futuro? Prospettive sugli scenari di domani

La crescente sensibilità della popolazione mondiale e l’avanzamento tecnologico fanno pensare a un futuro promettente basato sull’eco-mobilità. Tra le tendenze emergenti vi è

l’integrazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi di gestione delle flotte di mezzi condivisi.

I vantaggi? L’ottimizzazione della distribuzione dei veicoli, la previsione delle esigenze di manutenzione e il miglioramento dell’efficienza operativa complessiva e della sicurezza.

L’IA, infatti, analizza i dati sui percorsi e suggerisce modifiche per evitare zone ad alto rischio di incidenti. Inoltre, le batterie sono sempre più potenti e leggere, grazie ai

progressi nella chimica dei materiali e nelle tecnologie di produzione.

Ciò contribuisce all’estensione dell’autonomia dei mezzi elettrici su due ruote, rendendoli ancora più pratici per un uso quotidiano. Lo sviluppo di infrastrutture di ricarica rapida, poi, li renderà sempre più convenienti.

Molte città stanno progettando interi quartieri a misura di bici e monopattino, con piste ciclabili dedicate, aree di parcheggio sicure e stazioni di ricarica accessibili. Si tratta di iniziative che facilitano l’utilizzo di mezzi di trasporto sostenibili e, al contempo, promuovono una cultura della mobilità attiva, basata sul rispetto ambientale. Infine, esistono già incentivi economici per il loro acquisto, tra cui sconti fiscali e contributi diretti, uniti a campagne di sensibilizzazione e a investimenti in infrastrutture per fare un reale cambiamento.

La sfida, dunque, è quella di continuare a promuovere politiche che facilitino l’adozione delle biciclette e dei monopattini elettrici, la quale non rappresenta più soltanto una scelta individuale, ma piuttosto un passo collettivo verso un futuro più responsabile.

Turismo in moto

Il turismo in moto rappresenta un'esperienza unica, che combina l'adrenalina della guida su due ruote con la scoperta di nuovi paesaggi e culture. Per rendere ogni avventura sia sicura che piacevole, però, è essenziale dotarsi dei giusti accessori. Questi articoli, infatti, non solo migliorano il comfort durante il viaggio, ma sono fondamentali per garantire la sicurezza del motociclista. Scopriamo subito, allora, quali sono i dispositivi essenziali da utilizzare durante le proprie escursioni sulle due ruote.

versatilità e comfort.

Indipendentemente dal tipo, naturalmente, è cruciale che il casco sia omologato secondo gli standard vigenti, così da offrire la massima sicurezza in ogni situazione. Inoltre, è importante che sia dotato di una visiera di qualità e anti-appannamento, che può fare una grande differenza in condizioni meteorologiche variabili.

ABBIGLIAMENTO TECNICO

Quando si parla di turismo in moto, l'abbigliamento tecnico gioca un ruolo cruciale non solo per la sicurezza, ma anche per il comfort durante il viaggio. Gli elementi

Tutti gli accessori per vivere le vacanze sulle due ruote

CASCHI

Il casco è senza dubbio l'accessorio più importante per chi viaggia in moto, poiché costituisce la principale protezione in caso di incidente. La scelta del modello giusto può dipendere molto dal tipo di viaggio previsto:

• Integrali. Offrono la massima protezione in quanto coprono l'intera testa e il viso. Sono ideali per viaggi lunghi e ad alta velocità grazie alla loro capacità di isolare dal rumore e dalle intemperie.

• Jet. Forniscono meno protezione rispetto ai modelli integrali ma sono molto più leggeri e traspiranti, ottimi per viaggi brevi o spostamenti in città durante la bella stagione.

• Modulari. Combinano le caratteristiche di un casco integrale con la flessibilità di un modello jet, grazie alla mentoniera sollevabile. Ciò li rende perfetti per i turisti in moto che apprezzano

principali includono giacche, pantaloni e guanti, che devono essere scelti con cura per adattarsi a varie condizioni climatiche e ambientali.

• Giacche e pantaloni. Per i motociclisti, è essenziale investire in giacche e pantaloni specifici che siano dotati di protezioni CE (normativa europea) su spalle, gomiti e ginocchia. Questi indumenti sono solitamente realizzati in materiali robusti come il cordura o il kevlar, noti per la loro resistenza all'abrasione. Molti modelli, inoltre, sono dotati di strati interni rimovibili e ventilazioni regolabili, che si adattano a temperature variabili.

• Guanti. Altrettanto fondamentali sono i guanti, che dovrebbero essere scelti con cura per proteggere le mani e fornire una buona presa sui comandi. Esistono modelli specifici per il clima caldo, realizzati in tessuti traspiranti e leggeri, e guanti per il clima freddo, spesso dotati di isolamento termico e impermeabilità.

• Stivali. Anche gli stivali meritano una menzione speciale, in

quanto devono offrire una buona protezione alla caviglia, resistenza all'acqua e al contempo essere comodi per lunghe ore di guida e per camminare una volta scesi dalla moto.

Scegliere l'abbigliamento tecnico adatto non solo incrementa la sicurezza del motociclista proteggendolo in caso di cadute, ma contribuisce anche a una guida più rilassata e piacevole, proteggendolo dagli agenti atmosferici e dalle variazioni climatiche repentine.

BORSE

E SISTEMI DI CARICO

Per i motociclisti che pianificano viaggi di lunga durata, è fondamentale avere un sistema di carico efficiente e sicuro. Questo non solo massimizza lo spazio disponibile, ma garantisce anche che il bagaglio sia

stabile e sicuro, senza influenzare negativamente la performance di guida.

• Borse laterali. Molto comuni sono i modelli rigidi, che offrono una grande capacità di carico e protezione dai furti grazie alla loro struttura solida e alla presenza di chiusure ad hoc. Per chi cerca opzioni più flessibili e leggere, esistono anche borse laterali morbide, realizzate in materiali impermeabili e facilmente rimovibili.

• Bauletti. Installati nella parte posteriore della moto, sono ideali per conservare oggetti che necessitano di un rapido accesso. Anche in questo caso possono essere rigidi o morbidi, a seconda delle necessità personali di spazio e sicurezza.

• Sacche da serbatoio. Si tratta di speciali sacche da fissare sul serbatoio della moto, perfette per conservare

oggetti più piccoli come portafogli, smartphone o mappe.

NAVIGAZIONE

E

STRUMENTI ELETTRONICI

Nell'era digitale, la navigazione è diventata una componente essenziale del turismo in moto. Disporre di strumenti elettronici adeguati può trasformare un viaggio da stressante a piacevole e sicuro.

• GPS. Un buon sistema GPS specifico per moto è impermeabile, leggibile alla luce del sole e dotato di comandi utilizzabili anche con i guanti. Alcuni modelli offrono funzionalità avanzate come suggerimenti di percorsi panoramici o avvisi sulle condizioni delle strade.

• Interfono. Per chi viaggia in gruppo o desidera restare connesso con il passeggero, l'interfono permette comunicazioni chiare anche a velocità elevate, oltre a connessioni Bluetooth per ascoltare musica o ricevere istruzioni dal GPS.

• Sistemi di ricarica.

Considerando la crescente necessità di mantenere carichi dispositivi come smartphone e fotocamere, molti motociclisti scelgono di installare sistemi di ricarica USB direttamente sul loro veicolo, assicurandosi così accesso continuo all'alimentazione.

Utilizzare la tecnologia non solo migliora la navigazione durante il viaggio, ma aumenta anche la sicurezza,

permettendo al motociclista di rimanere concentrato sulla strada e informato sulle condizioni del traffico.

MANUTENZIONE

E ATTREZZI DI EMERGENZA

La manutenzione re golare della moto è fondamentale per assicurare viaggi sicuri e senza inconvenienti, specialmente quando si è lontani da casa. Portare con sé un kit di attrezzi di emergenza è quindi essenziale per gestire piccoli problemi meccanici, senza dover cercare un’officina.

• Kit di attrezzi di base. Dovrebbe includere chiavi a bussola, cacciaviti, pinze, nastro isolante, legacci e un kit per la riparazione delle forature. Questi strumenti possono aiutare a risolvere problemi comuni come viti allentate o guasti minori.

• Prodotti per la manutenzione. È utile portare anche articoli specifici come lubrificante per catena, fluidi per freni e motorino, e spray per pulizia.

• Manuale di manutenzione. Avere a portata di mano il manuale di manutenzione della propria moto può essere di grande aiuto per consultazioni rapide su problemi specifici e configurazioni tecniche.

COMFORT E

PERSONALIZZAZIONI

AGGIUNTIVE

Per viaggiare in moto per

lunghe distanze, il comfort è tanto importante quanto la sicurezza. Alcune opzioni di personalizzazione possono fare la differenza in termini di piacere di guida e riduzione della fatica.

• Selle ergonomiche. Investire in una sella ergonomica, progettata per supportare la postura e ridurre la pressione sui punti critici, può significativamente migliorare il comfort durante i viaggi più lunghi e impegnativi.

• Parabrezza. Un buon parabrezza non solo protegge dal vento e dagli insetti, ma riduce anche la fatica causata dal rumore e dalla pressione dell’aria a velocità elevate.

• Manopole riscaldate. Per chi viaggia in climi freddi, le manopole riscaldate sono un accessorio immancabile, concepito per mantenere le mani calde e migliorare allo stesso tempo la presa.

A ciò, poi, si aggiungono ulteriori personalizzazioni come sospensioni regolabili, sistemi di scarico migliorati e luci supplementari, da considerare a seconda delle esigenze personali e delle condizioni di viaggio. Investire in attrezzature di qualità e mantenere la propria moto in condizioni ottimali, in ogni caso, significa poter affrontare qualsiasi sfida che la strada può presentare. Con una preparazione adeguata e gli accessori giusti, il turismo sulle due ruote può offrire un’esperienza di viaggio unica, che unisce libertà, avventura e il puro piacere della guida.

Guida sicura in moto

Consigli pratici per evitare rischi

Guidare una moto offre un senso di libertà ineguagliabile, ma comporta anche rischi significativi. La sicurezza sulle due ruote è un argomento di vitale importanza: proprio le statistiche, infatti, mostrano che gli incidenti in moto possono avere conseguenze molto più gravi rispetto a quelli in macchina.

Secondo dati recenti, i motociclisti sono 28 volte più a rischio di morte in un incidente stradale rispetto ai passeggeri di auto. Passiamo in rassegna, dunque, alcuni consigli pratici e varie tecniche per ridurre i rischi associati alla guida di una moto, migliorando al contempo l'esperienza complessiva sulla strada.

Equipaggiamento di sicurezza

Il primo passo fondamentale per una guida sicura inizia dall'equipaggiamento. Il casco è l'elemento più critico, essenziale per proteggere la testa in caso di caduta o collisione. È vitale selezionare un modello omologato, che si adatti perfettamente alla forma del proprio capo.

Allo stesso modo, l'abbigliamento protettivo, che include giacche, pantaloni e guanti rinforzati, può fare una grande differenza in termini di protezione da abrasioni e impatti. È importante che questi articoli siano specifici per la moto, realizzati con materiali resistenti come il cuoio o tessuti avanzati dotati di inserti in materiale protettivo.

Chiaramente, è essenziale selezionare anche le giuste calzature: stivali robusti che proteggono caviglie e piedi da

fratture e contusioni sono cruciali. Inoltre, un suggerimento non meno importante riguarda l'uso di dispositivi riflettenti o ad alta visibilità, particolarmente utili per aumentare la riconoscibilità del motociclista sulle strade, soprattutto di notte o in condizioni di scarsa luminosità.

Tecniche di guida difensiva

La guida difensiva è particolarmente importante per i motociclisti, data la loro maggiore vulnerabilità sulla strada. Questa pratica richiede una costante attenzione e previsione delle azioni degli altri utenti, nonché una conoscenza approfondita delle tecniche di guida che possono salvare vite.

Ad esempio, mantenere sempre una distanza di sicurezza adeguata dai veicoli che precedono consente ai motociclisti di avere tempo sufficiente per reagire in caso di imprevisti. È fondamentale anche imparare a leggere il comportamento dei conducenti attraverso i loro movimenti e segnali, anticipando possibili cambi di corsia o frenate improvvise. Fra le altre tecniche utili, possiamo ricordare la pratica del frenaggio progressivo. In particolare, evita blocchi improvvisi delle ruote e implica l'uso strategico dello sguardo per guidare le manovre anziché affidarsi solo agli specchietti retrovisori. In aggiunta, posizionarsi sulla corsia al fine di rendersi visibili agli altri automobilisti, è un altro punto chiave della guida difensiva.

Manutenzione della moto

Una moto ben mantenuta è sinonimo di una guida più sicura e piacevole. È essenziale eseguire controlli regolari su componenti chiave come freni, pneumatici, luci e catena. Gli pneumatici devono essere sempre gonfiati alla pressione raccomandata dal produttore e sostituiti quando il battistrada è eccessivamente usurato, in quanto una buona aderenza è cruciale per la sicurezza.

I freni, che sono vitali in situazioni d'emergenza, devono essere controllati regolarmente per assicurarsi che le pastiglie e i dischi siano in buone condizioni e che il liquido sia cambiato secondo le indicazioni del produttore. Anche la catena necessita di una regolare lubrificazione, per garantire una trasmissione efficiente della potenza al posteriore. Infine, assicurarsi che tutte le luci siano funzionanti non solo garantisce una completa visibilità agli altri utenti della strada, ma anche che il pilota possa vedere chiaramente in condizioni di scarsa illuminazione.

Conoscenza delle condizioni stradali

Una guida sicura, naturalmente, implica anche la comprensione delle condizioni della strada. Per i motociclisti, piccoli dettagli del manto stradale all’apparenza insignificanti, infatti, possono rappresentare grandi rischi. È essenziale imparare a riconoscere e reagire adeguatamente a condizioni come strade bagnate, scivolose, o coperte di foglie, che possono drasticamente ridurre l'aderenza degli pneumatici. Anche le buche possono essere pericolose, specialmente per le moto. Quindi, è importante mantenere la concentrazione e prepararsi a evitare ostacoli improvvisi. Inoltre, guidare in

condizioni meteorologiche avverse, come pioggia o nebbia, richiede un adattamento del proprio stile di guida: ridurre la velocità, aumentare la distanza di sicurezza dagli altri veicoli, e utilizzare luci adeguate sono tutti passi fondamentali per mantenere il controllo in strada.

Comportamento in strada e consapevolezza ambientale Mantenere la consapevolezza ambientale è vitale per la sicurezza dei motociclisti. Questo include essere coscienti di tutto ciò che accade intorno a sé, dai movimenti degli altri veicoli alle condizioni delle strade e alle eventuali segnalazioni.

Essere in grado di prevedere le azioni degli altri e reagire prontamente può fare la differenza in situazioni critiche. Un elemento chiave è la posizione sulla strada: mantenere una posizione che massimizzi la visibilità e riduca gli angoli ciechi può migliorare significativamente la sicurezza. Ad esempio, è bene evitare di viaggiare nel punto cieco di un altro veicolo e posizionarsi in una parte della corsia dove si è più visibili agli automobilisti. Inoltre, l'importanza della distanza di sicurezza da tutti i lati non può essere sottolineata abbastanza: permette di avere un maggiore margine di manovra in caso di emergenza.

Formazione continua e corsi di guida sicura

La formazione continua è un pilastro fondamentale per qualsiasi motociclista che desideri migliorare la propria sicurezza e abilità sulla strada. Partecipare a corsi di guida sicura non solo rafforza le tecniche di base, ma può anche introdurre pratiche avanzate e strategie che sono indispensabili in situazioni critiche.

Questi corsi sono spesso offerti da scuole guida professioniste e organizzazioni motociclistiche e variano da lezioni per principianti a moduli avanzati che coprono aspetti come la guida ad alta velocità, la gestione di situazioni di emergenza e tecniche di evasione. Inoltre, molti corsi includono sessioni pratiche su piste chiuse, dove i motociclisti possono esercitarsi in un ambiente controllato e sicuro. Partecipare a queste iniziative costituisce un investimento nella propria sicurezza e può significativamente ridurre il rischio di incidenti, anche potenzialmente letali.

Guida sicura, il valore di un investimento nel lungo termine

La guida sicura in moto richiede più di una semplice conoscenza delle regole stradali: necessita di una preparazione completa che include l'uso dell'equipaggiamento giusto, una manutenzione regolare del veicolo, la capacità di adattarsi alle condizioni della strada, e un'alta consapevolezza ambientale. In quest’ottica, la formazione continua gioca un ruolo essenziale, fornendo ai motociclisti le competenze indispensabili per navigare le strade in modo sicuro.

Seguire questi consigli, infine, non solo contribuisce ad incrementare la sicurezza personale del motociclista, ma aiuterà anche a creare un ambiente stradale più sicuro per tutti gli utenti. La prudenza in moto, del resto, non è mai eccessiva: è una vera e propria responsabilità che ognuno deve prendere seriamente per godersi ogni viaggio al meglio.

La manutenzione della moto è un aspetto cruciale per garantire performance ottimali e sicurezza sulla strada. Molti appassionati delle due ruote scelgono di prendersi cura del proprio veicolo attraverso la manutenzione fai-da-te, non solo per il concreto risparmio economico che ne deriva, ma anche per il piacere e per la soddisfazione che derivano da queste attività.

Quali sono, allora, le principali procedure che ogni motociclista dovrebbe conoscere e imparare a gestire per far sì che la propria moto sia sempre in condizioni ottimali? Passiamo subito in rassegna quelle più importanti.

Cambiare l’olio del motore. Il cambio dell’olio è uno degli interventi di manutenzione più frequenti e importanti per mantenere la propria moto in ottime condizioni. Il consiglio è quello di effettuare la sostituzione ogni 5.000 km o almeno una volta all’anno, affinché il motore rimanga ben lubrificato e funzioni in modo efficiente. Per effettuare questa procedura, avrai bisogno di alcuni strumenti essenziali: chiave per rimuovere il filtro vecchio; olio motore adatto (verifica il manuale della tua moto per il tipo specifico e la quantità); raccoglitore di olio usato per raccogliere l’olio esausto mentre lo

dreni; guarnizione nuova per il tappo di scarico per evitare perdite dopo il cambio dell’olio. Passaggi per il cambio dell’olio: Riscalda il motore: fai girare il motore per alcuni minuti per riscaldare l’olio, così da facilitare il drenaggio. Posiziona il raccoglitore: colloca il raccoglitore sotto lo scarico e rimuovi il tappo. Drena l’olio: lascia che tutto l’olio scorra nel raccoglitore. Sostituisci il filtro dell’olio: rimuovi il filtro vecchio e installa quello nuovo, avendo cura di ungere leggermente la guarnizione. Riempimento con nuovo olio: aggiungi l’olio fresco attraverso l’apposito ingresso, facendo attenzione a non superare il livello massimo indicato sul misurino.

Questi semplici passaggi non solo prolungano la vita del motore, ma offrono anche al motociclista un’ottima opportunità per conoscere meglio la propria moto.

Manutenzione della catena. La catena della moto è cruciale per trasferire in modo efficiente la potenza dal motore alla ruota posteriore. Mantenerla in buone condizioni non solo migliora le prestazioni, ma prolunga la vita dello stesso veicolo.

Strumenti necessari: spazzola per catena per rimuovere lo sporco e i residui; detergente specifico per catene per una pulizia efficace senza danneggiare i materiali; lubrificante per catene per ridurre l’attrito e proteggere dalla ruggine.

Procedura di pulizia e lubrificazione: solleva la ruota posteriore, se possibile, usa un cavalletto per facilitare l’accesso e il movimento della catena, applica il detergente e usa la spazzola per eliminare residui di olio vecchio e sporco accumulato. Se necessario, risciacqua con acqua e asciuga completamente. Applica il lubrificante lungo tutta la catena, concentrandoti sui rulli e i perni, girando la ruota per distribuire uniformemente il prodotto. È anche

Manutenzione fai-da-te: piccole riparazioni per prendersi cura della propria moto

importante controllare regolarmente la tensione della catena. Nel caso in cui sia troppo lenta o troppo tesa, infatti, potrebbero verificarsi danni al motore e alla trasmissione.

Verifica e sostituzione delle pastiglie dei freni. Le pastiglie dei freni sono vitali per la sicurezza sulla strada. Verificare la loro usura e sostituirle tempestivamente garantisce che la frenata sia sempre efficace e sicura.

Materiali necessari: kit di sostituzione delle pastiglie dei freni specifico per il modello della tua moto; strumenti di base come chiavi a brugola o a socket, a seconda del tuo impianto frenante.

Passaggi per la verifica e la sostituzione: verifica dello spessore delle pastiglie, solleva la moto sul cavalletto e rimuovi la ruota o accedi al caliper del freno; controlla lo spessore delle pastiglie , se inferiore al minimo consigliato dal produttore, è tempo di sostituirle.

Per la rimozione delle pastiglie usurate svita i fermi che bloccano le pastiglie nel caliper e rimuovile delicatamente. Posiziona le nuove pastiglie, assicurandoti che siano ben allineate e fissate correttamente. Ricorda di non toccare le superfici di frizione con le mani sporche di olio. Controllo e test: una volta installate le nuove pastiglie, verifica il corretto montaggio e fai una prova su strada per assicurarti che la frenata sia fluida e potente. Il cambio regolare delle pastiglie, unito alla corretta manutenzione della catena, assicura che la tua moto sia sempre pronta a offrire prestazioni sicure e affidabili, riducendo al minimo il rischio di guasti improvvisi.

Controllo e manutenzione delle gomme. Le gomme sono uno degli elementi più critici per garantire la sicurezza e le prestazioni di guida della tua moto. Una corretta manutenzione di queste componenti non solo migliora l’aderenza sulla strada, ma riduce anche il rischio di incidenti dovuti a forature o a usura. Strumenti necessari: manometro per pneumatici per verificare la pressione; profondimetro del battistrada per misurare l’usura delle gomme.

Procedura di controllo e manutenzione: è essenziale verificare regolar -

mente la pressione delle gomme , preferibilmente a freddo, per assicurarsi che corrisponda alle specifiche del costruttore. Una pressione corretta garantisce una migliore aderenza al battistrada. Utilizza il profondimetro per misurare la profondità del battistrada , se è inferiore al limite legale (generalmente 1,6 mm), è tempo di sostituire la gomma. Fai una ispezione visiva , cerca segni di usura irregolare, tagli, incrinature o piccoli oggetti incastrati

nelle gomme che possono richiedere attenzione immediata.

Pulizia e verifica dei livelli dei fluidi. Mantenere i fluidi della moto ai livelli appropriati e in buone condizioni è fondamentale per la longevità e l’efficienza del motore e di altri componenti meccanici. Un’attività di verifica periodica può prevenire danni e costose riparazioni.

Materiali necessari: liquidi per moto (olio motore, liquido dei freni, liquido refrigerante e liquido della frizione); strumenti per il controllo (un misurino o una bacchetta di livello).

Verifica il livello dell’olio attraverso la bacchetta di livello e, se necessario, aggiungi olio fresco. È importante anche controllare il colore del liquido se scuro o sporco, potrebbe essere il momento di un cambio completo. Liquido dei freni e della frizione: controlla i livelli nei rispettivi serbatoi e assicurati che siano puliti nei limiti suggeriti.

Se presentano un colore insolito, potrebbe essere necessario sostituirli. Liquido refrigerante: verifica il livello nel serbatoio di espansione e, se basso, aggiungi la quantità necessaria per prevenire il surriscaldamento del motore.

La manutenzione regolare dei fluidi e delle gomme assicura che la moto funzioni in modo sicuro ed efficiente, migliorando l’esperienza di guida complessiva e riducendo i rischi di problemi meccanici mentre sei sulla strada.

Consigli per la manutenzione della batteria. La batteria della moto è fondamentale per garantire che il veicolo si avvii senza problemi e supporti tutte le funzioni elettriche quando il motore è spento. Mantenere questa componente in buone condizioni è particolarmente importante durante i mesi invernali o periodi di inattività prolungata.

Per cominciare, dovresti assicurarti che la batteria sia sempre completamente carica e conservata in un luogo asciutto. Un caricabatterie da mantenimento può essere utile per prolungare la vita di questo elemento, poiché conserva la carica ottimale. Inoltre, è bene controllare regolarmente i terminali della batteria per assicurarsi che siano puliti e ben collegati, poiché i contatti ossidati o allentati possono causare problemi di avviamento. Sicurezza e precauzioni. Quando si effettuano riparazioni fai-da-te, la sicurezza è sempre la priorità. Seguire le corrette linee guida non solo previene infortuni ma assicura anche che il lavoro sia svolto correttamente. È essenziale utilizzare attrezzi adeguati e lavorare in un ambiente sicuro. Per esempio, quando si solleva la moto, sia per lavori sulla catena sia per la rimozione delle ruote, è importante assicurarsi che il cavalletto o il sollevatore siano stabili e affidabili. Inoltre, indossare abbigliamento protettivo come guanti e occhiali può proteggere da scintille, schizzi di fluidi e altri rischi. Infine, è sempre una buona pratica consultare il manuale di servizio della moto, che fornisce istruzioni specifiche e consigli di sicurezza per il modello specifico.

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.