VicenzaPiù Viva n. 293, 10 novembre 2024

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Migranti in arrivo e nostri giovani che emigrano.

Le due facce del problema

Giacomo Matteotti da Vicenza lo tratteggia Emilio Franzina

Alessandra Borin, la soprano fuori dagli schemi

Livio Pacella, con Stucky un artista libero

Storia e misteri La Thailanda di Malnati e Reniero

STAI IMMAGINANDO IL SUO DOMANI? PENSA IN GRANDE.

Con il Piano di Accumulo diversi cato, essibile, su misura per te, inizi già da oggi a costruire il suo futuro.

V icen za P iù Viva

Indice

• L’editorialino (Giovanni Coviello)

• L’immigrazione in Unione europea, uno snodo politico di difficile soluzione (Eleonora Boin)

• Gli str anieri in Italia: tutti i numeri (Salvatore Borghese)

• Immigr ati in Italia e Veneto, risorsa o problema? (Davide Bozzolan)

• Sono ar rivati in Albania i 16 migranti più costosi di tutti i tempi: la camera doppia deluxe al Tirana Merriot Hotel costa meno Briatore invidioso? (Marco Tullio)

• I nostri giovani emigrano all’estero mentre una certa Italia guarda all’oggi contro gli immigrati (Melania Diodà)

• Str anieri in città? Incontrarli è occasione di crescita . Purché non vadano in bicicletta . . . (Giulia Matteazzi) .

• Dialogo islamo-cristiano: un incontro di fede e comprensione nel solco di Papa Francesco organizzato da padre Gino Alberto Faccioli, Ordine dei Servi di Maria (Giovanni Coviello)

p 16

• Casa San Mar tino della Caritas Diocesana Vicentina, aumenta ancora il numero di persone accolte: al via l’accoglienza invernale (Marco Ferrero) p 22

• La pace nella Scrittur a: il rovescio sono l'ingiustizia e la mancata salvaguardia del creato (p. Gino Alberto Faccioli) . . . . p 24

• Giacomo Matteotti nel 100° anniversario del suo assassinio: ricordato a Padova, un po’ meno a Vicenza (Emilio Franzina) .

• “Che ce le hai 50 lir e?” La droga al tempo dei Boomers (Massimo Parolin)

• Vita da soprano fuori dagli schemi: Alessandra Borin, la rivoluzione con le note (Federica Zanini)

• Livio Pacella, un artista libero mai dimentico del teatro, della poesia e della musica (Federica Zanini) p

• Indiana Jones nella Casa del Grande Fratello L'incredibile storia di Aristide Malnati, papirologo di fama mondiale e protagonista di tre Reality (Virginia Reniero)

• Magia della Thailandia tra antichi templi e giungla immacolata (Virginia Reniero | Aristide Malnati)

• Pr aia a Mare: spiagge e borghi montani, buon cibo e movida (Andrea Polizzo)

• Oasi Rossi di Santorso: viaggio nella natura tra farfalle tropicali, fiori, piante e animali (Marta Cardini)

• Ciu(c)a Matta, ovvero la cucina rabbiosa del riciclo (Federica Zanini)

• ’e ver se in tecia ‘e spusa, ma ’e xe tanto bone La prima delle ricette di Umberto Riva raccolte nel suo libro: Arte culi ‘n aria (Umberto Riva)

• «Regaje, no le xera robe da siori, ma gnanca da pori cani» (Umberto Riva)

• In autunno tor na la voglia di vini rossi e corposi (Michele Lucivero)

• La str ada verso il lago (1980-2023) . Amori e orrori all'ombra dei Berici nel primo romanzo di Massimo Parolin (Giulia Matteazzi)

• Cr ash di David Cronenberg, il film che scandalizzò il mondo (Tommaso De Beni)

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L’editorialino

VicenzaPiù Viva arriva al n . 293 col 12° numero da quando è tornata . Ora comincia il bello con nuove firme, nuove rubriche e … Abbonarsi

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Era bimestrale, ora è mensile. Le pagine erano 48, poi 64 e dal numero di dicembre saranno 80. La trovavate a Vicenza, poi in città e dintorni, quindi sotto l’albero di Natale, dal 10 dicembre, VicenzaPiù Viva sarà distribuita anche nelle edicole delle aree di Montecchio, Schio e Thiene. Il nostro mensile, nato il 25 febbraio 2006, è ora leggibile in tutta la provincia tranne che, per ora?, nel… ducato degli amici del Bassanese che, però, come anche tutti i lettori interessati, potranno sfogliarlo online se abbonati. Allora abbonatevi! Con 24 euro all’anno alla versione online e con 36 euro anche a 12 numeri cartacei, che vi arriveranno per posta dove volete o da ritirare da noi a Vicenza in Contrà Vittorio Veneto 68, voi risparmiate e noi potremo continuare a scrivere per farci scoprire da voi a partire da ogni 10 del mese.

VicenzaPiù Viva Enigmi, storie, radici, farse, drammi, personaggi: vita vecchia, nuova e futura Nuova serie cartacea testata web ViPiu.it - VicenzaPiu.com

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I sentimenti di copertina

Una madre cammina, tra sogni e radici. Colori vivaci in vie antiche, Vicenza si arricchisce di nuove voci. Le nostre se ne vanno smarrite.

Anche questo numero, il 293° della serie, in attesa delle ormai indispensabili 16 pagine in più, è pensato per farsi leggere, con gusto attento, durante il mese grazie agli argomenti trattati, sempre più di approfondimento, (in)formazione e svago, e grazie alle nuove, prestigiose firme. Una su tutte è quella dello storico vicentino per antonomasia, Emilio Franzina, per non parlare di chi sta curando le nuove rubriche, della nostra meravigliosa redazione di giovani e… maturi scriba che picchiano sui tasti da Vicenza e Milano fino a Roma e Sicilia via Cosenza e Molfetta. E che dire delle foto più “parlanti” e attraenti come quelle di Corrado

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Giovanni Coviello

L’immigrazione in Unione europea, uno snodo politico di difficile soluzione

Dublino III, il sistema che sovraccarica le frontiere europee e alimenta la crisi migratoria

Boin

Nell'Unione europea, la gestione delle migrazioni rappresenta da tempo una delle sfide più divisive e complesse. Il Regolamento di Dublino III è il fulcro della politica europea sull'asilo, un sistema che ha finito per sovraccaricare i Paesi di frontiera e creare profonde tensioni tra gli Stati membri. Adottato nel 2013, Dublino III stabilisce le regole per decidere quale Stato membro sia responsabile dell’esame di una domanda di protezione internazionale, cercando di prevenire movimenti irregolari di migranti e ga-

rantire una gestione ordinata delle richieste d'asilo. Tuttavia, a oltre dieci anni dalla sua entrata in vigore, le sue carenze sono evidenti e la richiesta di una riforma è sempre più pressante.

Il Regolamento di Dublino III è l’ultima evoluzione di un processo iniziato con la Convenzione di Dublino del 1990, un accordo internazionale tra gli Stati membri della Comunità europea. La convenzione era stata pensata per risolvere il problema del cosiddetto "asylum shopping", ovvero la possibilità per i richiedenti asilo di presentare domande in diversi Paesi europei, cercando di ottenere condizioni più

favorevoli. La convenzione stabiliva che la responsabilità per l’esame della domanda di asilo spettava al Paese di primo ingresso, cioè quello attraverso il quale il richiedente era entrato per la prima volta nel territorio dell’Unione.

Il Regolamento di Dublino III stabilisce una serie di criteri gerarchici per determinare quale Stato membro sia competente per l’esame di una domanda di asilo. Tuttavia, il criterio più frequentemente applicato è quello del Paese di primo ingresso. Questo significa che, se un richiedente asilo attraversa le frontiere dell’Unione europea illegalmente e arriva, ad esempio, in

 Una fase del vertice pre Consiglio europeo, tenutosi a Bruxelles il 17 ottobre (frame da RaiNews.it)

Italia o in Grecia, questi Paesi diventano responsabili per l’esame della sua domanda. Se il richiedente si sposta in un altro Stato membro e lì presenta una nuova domanda, può essere trasferito nel Paese di primo ingresso, in base a quanto previsto dal regolamento. Questo è proprio uno dei problemi più evidenti del Regolamento di Dublino III, che impone un carico sproporzionato sui Paesi di primo ingresso.

Gli hotspot in Grecia e Italia, dove i migranti vengono registrati e “detenuti” in attesa di trasferimento, sono stati criticati da numerose organizzazioni umanitarie per le condizioni disumane in cui versano. Il sovraffollamento, la scarsa assistenza medica e le lunghe attese per l’esame delle domande sono solo alcune delle difficoltà che i migranti devono affrontare una volta arrivati in Europa. In alcuni casi, queste situazioni hanno spinto i migranti a protestare o cercare di fuggire dai centri di detenzione, aumentando le tensioni con le autorità locali.

In più, per i migranti, il sistema di Dublino rappresenta una trappola legale. Il principio di responsabilità basato sul Paese di primo ingresso significa che molti di loro sono costretti a rimanere in Paesi dove non intendono stabilirsi, spesso perché hanno legami familiari o opportuni-

tà migliori altrove in Europa. Quando tentano di spostarsi verso altri Stati membri, vengono considerati migranti "irregolari" e rischiano di essere detenuti e rimpatriati nel Paese di primo ingresso. Inoltre, nonostante venga prevista la possibilità di ricongiungimento familiare, la realtà è che questi processi sono lenti e complessi. Le lunghe attese e la mancanza di supporto legale rendono difficile per i migranti riunirsi con i loro familiari. Questo crea situazioni di isolamento e disagio psicologico, particolarmente gravi per i minori non accompagnati, che sono tra i più vulnerabili.

Negli ultimi anni, le pressioni per una riforma del sistema di Du-

blino sono aumentate, con molti Stati membri che chiedono una revisione del regolamento per renderlo più equo e sostenibile, ovviamente per i Paesi e non per i migranti stessi. Il recente Summit del Consiglio europeo, tenutosi a Bruxelles il 17 ottobre, ha posto questo tema al centro dell'agenda politica. I leader dei Paesi membri hanno affrontato nuovamente la questione, riconoscendo che la migrazione è una sfida collettiva che richiede una risposta comune. Le conclusioni del Consiglio Europeo hanno un focus sull'attuazione di un approccio globale e una maggiore cooperazione con i Paesi di origine e di transito. Il Consiglio ha ribadito l'importanza di un controllo più efficace delle frontiere esterne e della lotta alla migrazione irregolare, invitando a intensificare i lavori su tutte le linee d'azione definite a febbraio 2023. Tra le misure proposte, emerge la necessità di percorsi sicuri e legali per una migrazione ordinata, affiancata da un rafforzamento delle politiche di rimpatrio per i migranti che non soddisfino i requisiti per la protezione internazionale.

La presidente del Consiglio dei ministri italiano Giorgia Meloni si è esposta in modo particolare sulla questione rimpatri, rendendosi promotrice di un incontro informale tra Paesi “like minded” (che la pensano

 Barcone di migranti mentre sta per affondare (Immagine Marina Militare Italiana )
 L'hotspot costruito dal governo italiano al porto di Shengjin, in Albania (AP Photo_Vlasov Sulaj)  LONGFORM: flussi umani

VicenzaPiùViva

in modo uguale o simile) per sviluppare “soluzioni innovative” per la questione migratoria. Diversi Paesi hanno preso parte all’incontro, tra cui Austria, Cipro, Polonia, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Malta, Slovacchia e la stessa Commissione europea, rappresentata dalla Presidente Ursula von der Leyen. Durante il meeting il protocollo Italia-Albania, per ora modello fallimentare o, perlomeno, controverso per i rimpatri del governo Meloni, è stato oggetto di particolare interesse da parte dei Paesi membri, con l’apprezzamento della stessa von der Leyen che in una lettera ai leader prima del summit del Consiglio ha dichiarato che la piattaforma di sbarco italiana in territorio albanese può dare “lezioni pratiche” agli altri Paesi.

La Commissione è, comunque, tornata subito sui suoi passi, a seguito dell‘intervento del tribunale di Roma che, citando la sentenza della Corte di giustizia sui cosiddetti paesi sicuri, non ha convalidato i decreti di trattenimento – citandola - non ha convalidato i decreti di trattenimento dei 12 migranti deportati in Albania (in ottobre il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che rende norma primaria l'indicazione dei Paesi sicuri per il rimpatrio, ma la questione non appare chiusa, politicamente e giudiziariamente)

Meloni sembra essersi esposta anche a favore dei rimpatri dei rifugiati siriani, sostenendo per loro la necessità di un rimpatrio sicuro, dignitoso e volontario. La premier italiana avrebbe fatto pressioni all’Unhcr per individuare aree sicure all’interno del Paese di Bashar al-Assad per consentirne il rientro, peccato che, la stessa sentenza sopracitata, definisca un Paese sicuro solo se è sicuro nella sua interezza e che l’Unhcr abbia più volte definito la Siria come paese non sicuro, a causa dei continui bombardamenti.

Senza, poi, considerare che Bashar al-Assad 10 anni fa, nel pieno della guerra, si era guadagnato il soprannome di "macellaio" da parte dell’Occidente, a causa delle stragi di civili ad opera del suo esercito. Dieci anni sembrano aver apportato un forte cambiamento ma, forse, solo nelle coscienze europee.

Il Consiglio europeo ha anche sottolineato che la migrazione non deve essere utilizzata come uno strumento politico da parte di Paesi terzi, sostenendo, quindi, la decisio-

ne del primo ministro polacco Donald Tusk di revocare temporaneamente il diritto di asilo nel Paese. Tusk ha, infatti, accusato il presidente russo Vladimir Putin e il presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko di usare i migranti come arma, spingendoli ai confini con la Polonia per destabilizzare l’Europa, azioni che, secondo Tusk, sarebbero “contrarie allo spirito alla base del diritto di asilo”.

Il vento sta quindi cambiando in Europa e non è una notizia. La maggioranza che ha sostenuto la rielezione della presidente Ursula von der Leyen sembra avere in realtà molto meno peso di quanto previsto, con un Partito popolare europeo che tende ad allearsi con la sinistra o con l’estrema destra a secondo di temi e convenienze. Questa prospettiva e il cambio di alcuni Commissari, come il francese Breton, portano molto potere ad accentrarsi nelle mani di von der Leyen, che potrebbe manica larga nella gestione della sua presidenza.

Se la migrazione si conferma uno dei temi su cui le istituzioni europee si scontreranno con più ferocia anche in questa nuova legislatura, resta da vedere chi ne uscirà vincitore, sperando non siano le persone con i loro diritti.

 La nave Libra arrivata nel porto albanese di Shengjin con a bordo i primi 16 migranti, di cui 4 subito riportai in Italia e gli altri successivamente in base alla sentenza del Tribunale di Roma
 Giorgia Meloni al Consiglio europeo
 LONGFORM: flussi umani

Gli stranieri in Italia: tutti i numeri

Nell’ultimo periodo, in Italia si è tornati a parlare molto del tema degli stranieri, di gestione del fenomeno migratorio e delle regole sulla cittadinanza. Proviamo a fare il punto sui numeri di questo fenomeno così complesso, e a capire cosa ne pensano davvero – a torto o a ragione – gli italiani.

Stranieri: quanti sono e chi sono In Italia, la presenza di stranieri rappresenta un tema delicato e complesso, che peraltro suscita percezioni spesso distorte rispetto alla realtà dei numeri. Iniziamo proprio da qui, dalla risposta alla domanda “quanti stranieri ci sono in Italia?”. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dalla Fondazione Migrantes (settembre 2024), gli stranieri regolarmente presenti in Italia sono poco più di 5,3 milioni, pari a circa il 9% della popolazione complessiva. Un

dato che è aumentato progressivamente negli anni ’90 e Duemila, ma che è rimasto sostanzialmente stabile nell’ultimo decennio. A questi va poi aggiunta una quota di irregolari che per ovvi motivi può essere solo stimata, ma che da diversi anni si mantiene anch’essa stabile intorno al mezzo milione di persone.

Infine, come si vede bene dal grafico pubblicato dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), vi è una quota aggiuntiva di stranieri che cessano di essere tali, poiché acquisiscono la cittadinanza italiana. In totale, quindi, parliamo di circa 7 milioni di persone (11% della popolazione complessiva). Numeri molto inferiori rispetto a quanto percepito degli italiani: secondo l’ultima edizione del rapporto Perils of Perception condotto dall’istituto Ipsos, la presenza di stranieri percepita mediamente dagli italiani è quasi il doppio del dato reale, e pari

al 21%. Questa discrepanza tra percezione e realtà è in parte alimentata dal dibattito pubblico, in cui i flussi migratori sono spesso dipinti come una problematica di portata emergenziale, e dalle rappresentazioni mediatiche che concentrano l’attenzione sugli arrivi via mare e su situazioni critiche legate alla gestione dell’accoglienza. Inoltre, c’è da dire che la distribuzione degli stranieri sul territorio nazionale non è omogenea: nel Centro-Nord, ad esempio, l’incidenza di stranieri più che doppia rispetto al Sud; inoltre, gli stranieri tendono a concentrarsi maggiormente nelle grandi città e in specifici quartieri: per gli italiani che vivono in queste zone risulta difficile non credere alla narrazione di una vera e propria “invasione”. Un altro “bias” di percezione riguarda i paesi di provenienza: nonostante si creda che la maggioranza degli immigrati provengano dall’Africa o dal Medio Oriente, e che siano prevalentemente musulmani, ai primi posti ci sono invece paesi dell’est europeo come Romania e Albania, seguiti da Marocco, Cina e Ucraina; il 53% circa degli stranieri che sono in Italia è di religione cristiana, mentre gli islamici sono poco meno del 30%.

 Stranieri sbarcati in Italia negli ultimi 12 mesi, media mobile 2010-2023 (fonte: ISPI)

Sbarchi, clandestini e paura dello straniero

È vero però che nell’ultimo decennio il nostro Paese ha subìto un aumento dei flussi migratori irregolari, provenienti soprattutto dalle coste nordafricane attraverso i famosi sbarchi. L’intensità di questo fenomeno è variata in modo significativo negli anni, a seconda delle condizioni politiche e sociali dei Paesi di provenienza (e non, come pure si tende a credere, in base al colore del Governo in carica in Italia). Come evidenziato dall’ISPI, le instabilità politiche di alcuni Paesi africani, in particolare con le “primavere arabe” e la guerra civile in Siria, hanno causato un’enorme crescita degli sbarchi a cavallo degli anni 2013-2017, il cui numero di è poi sgonfiato drasticamente a seguito degli accordi tra il Governo italiano e quello della Libia (principale paese di partenza dei migranti via mare). Negli anni più recenti, questo numero è tornato a crescere, alimentato da fattori di crisi e instabilità come la pandemia e la guerra in Ucraina.

La percezione che gli sbarchi irregolari rappresentino una minaccia per la sicurezza è diffusa e

Gli stranieri in Veneto e nel Nordest

•⁠ Il Veneto è la quinta regione per incidenza degli stranieri (10,3% della popolazione) dietro Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana e Lazio (dati ISTAT 2022)

• La provincia veneta con più stranieri è quella di Verona (12%), quella con meno stranieri è Rovigo (8,7%) mentre

Vicenza è in linea col dato regionale

• Secondo l’Osservatorio Nordest di Demos (Veneto, FVG e provincia di Trento) il 41% dei cittadini di questi tre territori ritiene gli immigrati una risorsa per l’economia, in aumento rispetto al 31% del 2016

• ⁠ Secondo lo stesso rapporto, nel Nordest ben il 78% dei giovani under 25 ritiene gli immigrati una risorsa per l’economia

documentata da molti sondaggi, tra cui quelli dell’istituto Demos, che evidenziano come una parte crescente della popolazione italiana associ l’immigrazione a un pericolo per la stabilità sociale. Tale percezione è ovviamente influenzata dalla rappresentazione del fenomeno nei media, che tendono a focalizzarsi sui singoli casi di sbarchi più numerosi e sulle condizioni critiche degli approdi, oltre che sui casi di cronaca nera che coinvolgono stranieri –spesso irregolari – creando un’immagine di emergenza pressoché perenne: anche una certa retorica politica tende a collegare direttamente il tema dell’immigrazione a quello della criminalità, generando una paura diffusa verso lo “straniero” e un aumento della domanda di politiche restrittive.

L'Italia e la gestione degli immigrati

La gestione dell’immigrazione in Italia è spesso criticata per la sua natura emergenziale e frammentata, senza un vero e proprio piano organico che contempli aspetti cruciali come l’accoglienza, l’integrazione e le necessità del

 LONGFORM: flussi umani

 Percentuale di italiani che associano immigrati e insicurezza, 1999-2024 (fonte: Demos)

sistema economico italiano. Recentemente, una soluzione temporanea che ha destato numerose discussioni è stata la costruzione di centri per migranti in Albania, un progetto sostenuto dal Governo Meloni per decongestionare i centri di accoglienza nazionali e per generare un supposto “effetto deterrenza”. Questa iniziativa, seppur appoggiata da alcuni, ha incontrato però un certo scetticismo tra gli italiani: diversi sondaggi mostrano una netta divisione tra chi vede questa misura come efficace o comunque utile e chi invece la considera un modo sbagliato, o comunque inefficace, e inutilmente costoso per le casse dello Stato. Secondo un recente sondaggio di Quorum/ Youtrend per SkyTG24, i centri in Albania sono bocciati dal 55% degli italiani, e promossi dal 45%. In generale, però, diverse indagini mostrano come tra gli italiani prevalga un orientamento favorevole a politiche di limitazione, piuttosto che di apertura, verso l’immigrazione.

Cittadinanza e ius scholae

Sullo sfondo di tutto questo, vi è il tema demografico di cui si parla ancora troppo poco: mentre l’Italia fatica a gestire i flussi migratori in entrata, si assiste a una crescente emigrazione di giovani italiani verso altri Paesi. La combinazione di questi due fattori – scarsa integrazione di migranti ed espatri in massa di giovani italiani qualificati – a cui si aggiunge il problema della natalità e dell’inevitabile invecchiamento della popolazione, rischia seriamente di compromettere il futuro demografico ed economico del Paese.

Anche per questo, il tema della cittadinanza rappresenta un nodo centrale nel dibattito sull’immigrazione, poiché coinvolge questioni di integrazione e inclusione. Attualmente, per gli stranieri ottenere la cittadinanza italiana è un percorso lungo e complesso, che richiede una residenza regolare di almeno dieci anni, come stabilito dalle normative del Ministero dell’Interno. Tuttavia, ultimamente si è discusso molto di una possibile modifica a questa normativa

attraverso l’introduzione del cosiddetto ius scholae. Questo principio consentirebbe di concedere la cittadinanza ai minori stranieri che hanno completato un ciclo di studi in Italia, permettendo a giovani nati da genitori stranieri, ma cresciuti nel nostro Paese, di accedere ai pieni diritti civili e politici. Secondo diversi sondaggi, la maggioranza della popolazione italiana si dice favorevole a questa riforma: si va dal 55% rilevato da Youtrend al 61% secondo SWG, passando per il 58% di favorevoli registrato da Tecnè. Anche tra gli elettori dei partiti di centrodestra, solitamente più critici sul tema dell’immigrazione, vi sarebbe una percentuale significativa di favorevoli: ma la categoria di italiani che apprezzano di più questa proposta è quella dei giovani con meno di 35 anni, dove i favorevoli sono il 70%. Lo ius scholae sarebbe quindi un criterio piuttosto popolare e molto meno divisivo dello ius soli, che ad oggi è la proposta ufficiale di molti partiti di centrosinistra. Tuttavia, gli stessi sondaggi indicano che molti italiani si dichiarano contrari a un’ulteriore riduzione dei tempi richiesti per la cittadinanza, preferendo mantenere il requisito di dieci anni di residenza regolare. Questo orientamento riflette una posizione prudente da parte dell’opinione pubblica, che è aperta a riforme mirate ma non intende abbassare drasticamente le soglie attuali, ritenendo prioritario mantenere un controllo rigoroso sui requisiti per la cittadinanza.

Migrantes 2024

Legge sulla cittadinanza

Studio Ipsos Perils of Perception 2023

Rapporto
Rapporto ISPI

Immigrati in Italia e Veneto, risorsa o problema?

Alla classica domanda rispondono numeri e previsioni . Alla richiesta di sicurezza si risponda con equilibrio e lungimiranza, senza slogan

In Veneto, la presenza di cittadini stranieri è ormai una realtà consolidata, con un impatto significativo su economia, società e cultura della regione. Al 1° gennaio 2024, i residenti stranieri erano circa 505.000, pari al 10,4% della popolazione regionale. Rispetto al 2023, si registra un aumento dell’1,4%, dato in attesa di conferma da parte dell’ISTAT entro fine anno. In provincia di Vicenza, la quota di stranieri è di 82.818 persone, pari al 9,6% dei residenti. Ma chi sono questi lavoratori e in quali settori sono maggiormente impiegati?

Le principali comunità straniere in Veneto provengono da Romania, Marocco e Cina. La provincia di Vicenza riflette In parte questo panorama: i cittadini rumeni costituiscono il 17,6% della popolazione straniera locale, seguiti da serbi (10,9%), indiani (7%) e marocchini (6,6%). I settori di impiego, che fino al 2017 vedevano la predominanza della concia, della preparazione alimentare e dell’edilizia, sono cambiati: secondo il rapporto 2023 sull’immigrazione della Regione Veneto, oggi i servizi alla persona assorbono il 31% dei lavoratori stranieri, seguiti dai trasporti (21,7%) e dal turismo (20,1%). Tuttavia, i lavoratori stranieri tendono ancora a ricoprire posizioni di livello medio-basso, con solo il 3% impiegato in professioni qualificate. Questa forza lavoro è diventata un pilastro dell’economia veneta.

Nei primi nove mesi del 2024, Veneto Lavoro ha registrato circa 37.479 assunzioni di stranieri, sebbene la maggior parte a tempo determinato, con limitate prospettive di stabilità.

Vicenza, con i suoi 17.514 residenti stranieri (15,8% della popolazione), rappresenta un buon esempio di integrazione: qui, gli stranieri contribuiscono attivamente ai settori dell’industria e dei servizi.

Gli stranieri sono per lo più giovani anche in Veneto dove, a fine 2022, il 44,9% degli stranieri aveva tra i 30 e i 44 anni.

Secondo i dati della Fondazione Leone Moressa, i lavoratori stranieri generano un valore di 164,2 miliardi di euro, contribuendo all’8,8% del PIL nazionale. Le proiezioni 2024-2028 indicano che le imprese italiane avranno bisogno di 3 milioni di nuovi lavoratori, di cui 640.000 stranieri, soprattutto per coprire i pensionamenti. Inoltre, nel 2023 i residenti stranieri hanno versato contributi Irpef per 1,257 miliardi di euro.

Tuttavia, resta il problema del lavoro sommerso. La CGIA di Mestre segnala che, sebbene in leggero calo rispetto al 2019, nel 2021 l’economia sommersa in Veneto pesava ancora per circa 15 miliardi di euro, pari al 10% del PIL regionale.

A livello nazionale, nel 2022 l’economia sommersa in Italia ha toccato i 182 miliardi di euro, con una presenza marcata nei settori dei servizi alla persona, commercio, trasporti e costruzioni, denotando una sinistra corrispondenza con i settori in cui gli stranieri sono più impiegati.

La forza lavoro straniera è indispensabile per l'economia veneta, colmando carenze di manodopera e bilanciando la demografia. Politiche di integrazione e regolarizzazione del lavoro sommerso, avviando al lavoro chi si vuole realmente integrare chiedendo il rispetto, economico e sociale, dovuto all’essere umano, garantirebbero diritti e nuove entrate fiscali, rendendo ancor più il loro contributo un elemento chiave per la crescita sostenibile della regione.

Davide Bozzolan

Sono arrivati in Albania i 16 migranti più costosi di tutti i tempi: la camera doppia deluxe al Tirana Merriot Hotel costa meno . Briatore invidioso?

Il 16 ottobre 2024 sbarcati i 16 migranti (de)portati in Albania dal pattugliatore d’altura Libra, nave militare di classe Cassiopea lunga 81 metri, dislocamento 1700 tonnellate e 7.500 cavalli di potenza. Anche se la questione è aperta a vari livelli, nel momento in cui chiudiamo il numero, è (e sarà) “roba” da far impallidire anche il leggendario Force Blue di Briatore.

E cito il patron del Billionaire non a caso, considerando le cifre

dell’operazione “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore” fortemente voluta dal Governo Meloni.

I numeri, nei report ministeriali sono piuttosto fumosi, ma sappiamo che è previsto un esborso di almeno 650 milioni di euro in cinque anni, comprensivi -immaginiamo- dei costi di realizzazione delle strutture.

300 milioni dovrebbero essere il costo di gestione delle strutture per 5 anni, considerando che il solo personale italiano dovrebbe pesare sulle casse dell’erario per 252.000 milioni di euro.

Ma quanti migranti saranno “ospitati” in queste strutture in Albania? Il 16 ottobre, che coincidenza di numeri!, 16, poi subito rispediti in Italia anche per decisioni della magistratura italiana sulla base di quella europea. Per il futuro non è dato sapere vista la lotta politica intrapresa a suon di nuovi provvedimenti governativo-parlamentari.

Di certo sappiamo che la capienza massima è di 1.100 persone per il centro di Gyader e di 300 per quello di Shengyn.

Che è il costo medio, per persona, di una camera doppia deluxe al Tirana Merriot Hotel, 5 stelle. Non sarebbe stato meglio mandarli lì?  LONGFORM: flussi umani

Ora, ragionando come farebbe un imprenditore del settore turistico come Briatore, possiamo dire che, nell’improbabile caso in cui i centri registrassero sempre il “tutto esaurito”, il numero massimo di presenze sarebbe pari a 518.000 in un anno. Alla modica cifra di 60 milioni, fa un totale di circa 120 euro a notte.

I nostri giovani emigrano all’estero mentre una

certa

Italia guarda all’oggi contro gli immigrati

Il Veneto punti all’autonomia delle menti e non solo a quella delle cose: i barconi di disperati che arrivano sono meno pieni degli aerei di nostri ragazzi che se ne vanno

Sono 550 mila i giovani italiani tra i 18 ed i 34 anni emigrati all’estero dal 2011 al 2023, con una perdita di capitale umano stimata pari a 134 miliardi secondo il Rapporto “I giovani e la scelta di trasferirsi all’estero” della Fondazione Nord Est presentato lo scorso ottobre al CNEL.

Un’emorragia continua di giovani talenti che impatta negativamente sulle statistiche demografiche del Bel Paese che, nonostante possa vantare di formare ricercatori tra i più premiati dal Consiglio Europeo della Ricerca, non riesce a fornire loro sufficienti certezze per poter edificare il loro progetto lavorativo.

Una fuga che penalizza l’ecosistema dell’innovazione in quanto non equilibrata da un numero sufficiente di giovani che arrivino in Italia dai Paesi avanzati: per ogni giovane che il nostro Paese accoglie otto italiani emigrano. E sebbene l’Italia sia prima per citazioni in pubblicazioni scientifiche, è ottava per competitività e soltanto dodicesima per capitale umano qualificato. L'Italia si piazza inoltre all'ultimo posto in Europa per attrazione di giovani, accogliendo solo il 6% di europei, contro il 34% della Svizzera e il 32% della Spagna.

E se talvolta qualcuno cerca di distogliere lo sguardo e pure l’ascolto da quelle storie di ragazzi

che raccontano di aver firmato un contratto in Germania dopo solo 3 ore di prova o di aver trovato impiego come fisioterapista a Londra dopo due settimane di ricerca occupazionale, non si può evitare una riflessione più profonda quando si incappa in parole come queste qui da noi: “A 30 anni mi ritrovo con 3 lauree, un’esperienza lavorativa negli USA, un elenco di articoli scientifici pubblicati in riviste internazionali, il titolo di dottorato in Medicina Biomolecolare e, ciononostante, non dispongo di un contratto per il prossimo anno, senza la possibilità di chiedere finanziamenti ed avere progetti a lungo termine dato l’impiego precario” oppure “Dopo 10 anni di studi universitari il mio stipendio è inferiore a quello di una qualsiasi laureata neoassunta, a parità di ore lavorative, ma perché non dovrei abbandonare il mio Paese?”

33% di ragazzi che non intende tornare.

Ma è questo che l’Italia e il nostro Veneto desiderano? Lasciare volare altrove quelle foglie che si sono nutrite della linfa delle radici del Bel Paese? Sottrarsi all’ascolto dei bisogni di una generazione (e delle future) rischiando di non trovare interlocutori nella ricerca di risposte alle necessità loro e di un intero Paese?

E non sembra allora così ingiustificata l’ormai diffusa convinzione che non ci sia spazio per i giovani, che non vi sia un ambiente culturalmente aperto ed internazionale perché il benessere oltre i confini nazionali giustifica le scelte di quel

Non possono rispondere positivamente e sulla loro pelle i singoli giovani ma un sistema Paese diverso dall’attuale. E, se risponderà non guardando al futuro fermandosi all’oggi degli abusati slogan anti immigrati sui barconi, gli stranieri in casa saremo noi che riempiremo treni ed aerei per andarcene. E il Veneto? È utopistico pensare che si svegli e, invece che pensare solo all’autonomia delle “cose”, si ritagli uno spazio, di cultura aziendale e non solo, per far tornare, prima, e trattenere poi i più giovani: sarebbe l’autonomia delle menti. Utopia? Forse, ma lasciateci sognare, almeno

Melania Diodà

Stranieri in città? Incontrarli è occasione di crescita . Purché non vadano in bicicletta . . .

Il bello dell’integrazione è che ciascuno mantenga le sue peculiarità

armonizzandole con quelle degli altri . Magari nella casa aperta a tutti i bambini del mondo che sognavo da piccola

di Giulia Matteazzi

Immigrazione, grande tema dei nostri tempi, su cui tanto avranno da studiare gli storici del prossimo secolo nell’analizzare i primi trent’anni del duemila. Ma nella vita di tutti i giorni, al di là delle disamine statistiche, politiche o economiche, la presenza di immigrati nelle città che cosa significa? E come viene vissuta all’ombra dei Berici, dagli abitanti della bella Vicenza, operosa città del nordest?

Non posso rispondere per tutti gli abitanti. In realtà non posso rispondere nemmeno per me stessa, perché non ho una risposta univoca.

Da bambina avevo una visione molto idilliaca del mondo globalizzato, mi immaginavo da grande a vivere in una grande villa, piena di figli di tutti i colori (no, non pensavo agli eventuali padri, mi immaginavo di adottare bambini a raffica, dato che tre quarti dei libri che leggevo parlavano di orfani…). L’idea che si potesse essere razzisti, l’orrore di quello che mi spiegava mia madre sulla schiavitù (pure quello era un tema che saltava fuori spesso nei libri) mi sembravano cose che non potessero appartenermi. Crescendo mi sono resa conto che, in re-

altà, il problema del razzismo non lo avevo mai realmente affrontato, perché di persone diverse, con un altro aspetto, di un altro continente, con abitudini totalmente differenti dalle mie, non ne avevo mai incontrate.

Appartengo infatti alla generazione X, quella che ha vissuto tutti i cambi epocali, dal telefono a disco allo smartphone, dalla teleselezione alle comunicazioni via web, dalla villeggiatura di un mese a cento km da casa alla vacanza di due giorni in aereo dall’altra parte del globo. Con il mondo che diventa sempre più piccolo, gli spostamenti più facili e, purtroppo, le continue crisi per cui intere popolazioni devono abbandonare la loro casa e cercare rifugio altrove, la situazione è molto cambiata rispetto a quando, da ragazzina, sognavo la grande casa aperta a tutti. Ho compreso che l'idea di vivere "tutti insieme appassionatamente" è un'utopia. E so che spesso l’immigrazione incontrollata, oltre a creare tensione sociale, nutre organizzazioni criminali pericolose. Ma non sono un’esperta e non è di questo che voglio parlare. Il tema è come vivo io la presenza degli immigrati a Vicenza, quando esco di casa e mi rapporto con le persone.

La risposta, ovvia, è che dipende da chi incontro. Mi è capitato, soprattutto via social, di leggere sondaggi del tipo “sei razzista o tollerante?”. La mia risposta è che tollerante non è l’opposto di razzista. Tollerare una cosa vuol dire che ti dà fastidio ma la sopporti. Il che va bene per il fumo di sigaretta, per chi parla a voce troppo alta, per chi non offre mai il caffè, per chi manda messaggi vocali superiori al minuto… no, quello è intollerabile. Ma tollerare la diversità di una persona è una forma di razzismo educato. Sarebbe come dire “Non mi piace

che tu sia nero, ma lo tollero”. Fa orrore quanto il razzismo dichiarato. Quindi no, in questo senso non sono tollerante. Sono semplicemente non razzista.

Semmai la mia tolleranza riguarda i comportamenti. Se un immigrato vive normalmente, lavora, va a scuola, fa sport, sta con gli amici, non è nemmeno argomento di conversazione. È come tutti gli altri 110mila abitanti di Vicenza (americani delle basi a parte) o gli 800.000 della provincia. Se capita interagisco, se non capita, no.

Se invece un immigrato cerca di vendermi borse, accendini, rose o sciarpe mentre sono seduta al bar, oppure mi chiede soldi mentre cammino per strada, francamente mi dà fastidio, ma lo tollero. A volte tollero un po’ meno, se esagera con la proposta di vendita, ma questo non c’entra col fatto che sia straniero, ho lo stesso atteggiamento anche con i presunti ex tossicodipendenti che vendono fazzolettini di carta o con i venditori al telefono: se sono importuni li mando a quel paese. Ovviamente, poi, se una persona mi chiede insistentemente soldi, mi segue, mi fa offerte non gradite, non è più questione di tolleranza ma di sicurezza personale. Però anche questo tipo di comportamento non è certo esclusiva degli stranieri, anzi, le poche volte che mi sono davvero

spaventata avevo a che fare con connazionali.

C’è un aspetto della presenza degli immigrati in città che mette davvero alla prova la mia apertura mentale, ed è il fatto che molto spesso quando vanno in bicicletta o in monopattino sono dei pericoli per sé e per gli altri. Quando li vedo arrancare a zig-zag, magari fuori dalla pista ciclabile, mi viene il nervoso. Me la prendo con loro, anche se in realtà a parte qualche colpo di clacson non faccio granché, ma la responsabilità è di chi li mette in bicicletta o monopattino come se fosse la cosa più naturale del mondo, senza sincerarsi che sappiano usarli e senza dar loro al-

meno un’infarinatura base sul codice della strada... Insomma, l’integrazione passa anche dal buonsenso di chi accoglie.

Poi è vero, la cronaca locale spesso (o troppo spesso perché… fanno notizia) racconta di episodi criminosi che coinvolgono immigrati, irregolari ma anche apparentemente integrati. Però credo che si torni al concetto del buonsenso nell’accoglienza e magari alla necessità di leggi più precise e meno cavillose: i paesi dove l’integrazione funziona meglio sono quelli in cui le regole sono più chiare. Nonostante qualche aspetto negativo, rimango decisamente convinta che l’immigrazione non vada vissuta come problema. Per una società è occasione di crescita poter interagire con chi arriva da diverse culture, esperienze, nazionalità, abitudini. Purché, naturalmente, il tutto avvenga in modo spontaneo, senza dover codificare ogni scelta con regolamenti che sfiorano il ridicolo, senza trovate assurde – tipo non festeggiare il Natale a scuola - pensate per forzare un’uguaglianza che non c’è, perché il bello dell’integrazione è che ciascuno mantenga le sue peculiarità armonizzandole con quelle degli altri. Insomma, a pensarci bene, la famosa casa aperta a tutti i bambini del mondo che sognavo da bambina non è poi un’idea così campata in aria...

Dialogo

islamo-cristiano: un incontro di fede e comprensione nel solco di Papa Francesco organizzato da padre Gino Alberto Faccioli, Ordine dei Servi di Maria

A Monte Berico don Gianluca Padovan, delegato vescovile per il dialogo ecumenico e interreligioso, ha dialogato con Padre Luigi Territo, gesuita e docente di Trinità e dialogo interreligioso alla

Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale

Giovanni Coviello

Presso il Santuario di Monte Berico, nella sala dei Sette Santi Fondatori completamente piena, sabato 2 novembre si è tenuto un importante incontro dedicato al dialogo islamo-cristiano, a cui hanno partecipato figure autorevoli nel campo del dialogo interreligioso. L’evento, organizzato per promuovere una comprensione più profonda tra Cristianesimo e Islam, confessione di moltissimi degli immigrati a Vicenza e nel Vicentino, ha visto come relatori padre Luigi Territo SJ, gesuita e docente di Trinità e dialogo interreligioso alla Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale, don Gianluca Padovan, delegato vescovile per il dialogo ecumenico e interreligioso e padre Gino Alberto Faccioli OSM, organizzatore e padrone di casa.

Un dialogo costruttivo: riflessioni sulla storia e sulla fede

Padre Gino Alberto Faccioli ha aperto l’incontro ringraziando i presenti per aver risposto all'invito a partecipare a questa conferenza. Ha espresso l’importanza del dialogo come strumento non solo di conoscenza, ma anche di costruzione di ponti di pace e co-

operazione. Ha quindi introdotto padre Luigi Territo, ricordandone la lunga esperienza come studioso e docente, e il suo impegno nel campo della teologia interreligiosa e lo ha fatto insieme a Gianluca Padovan, che ne ha descritto la figura anticipando che, visto il tema molto complesso, avrebbe “condotto” l’incontro sulla base del dialogo e della selta di alcuni passaggi fondamentali.

Padre Luigi Territo ha accolto l’invito con entusiasmo, sottolineando come un dialogo islamo-cristiano sia una straordinaria opportunità per promuovere un messaggio di pace. Ha osser-

vato che spesso, in Occidente, il profeta dell’Islam, Maometto o Muhammad, come lo chiamano i suoi fedeli, è descritto in modo incompleto, focalizzandosi sulle sue lotte piuttosto che sul suo percorso spirituale. "Per conoscere Muhammad nella sua complessità," ha detto Territo, "dobbiamo accostarci alla narrazione islamica su di lui, considerando l’esperienza religiosa che lo ha portato a diventare il profeta dell’Islam."

Le radici del dialogo: gli incontri di Muhammad con i cristiani Uno degli obiettivi principali dell’incontro era esplorare l’auto-

 Cristianesimo e Islam, fratellanza possibile solo grazie al dialogo (n 5 anni dopo la dichiarazione di Abu Dhabi dxel 2019

percezione islamica della figura di Muhammad, riconoscendo le radici di questo dialogo fin dalle origini della sua vita. Padre Luigi Territo ha, quindi, ricordato alcuni episodi narrati nelle biografie islamiche, che descrivono come Muhammad, orfano di padre e madre fin da piccolo e affidato allo zio Abu Talib, un commerciante carovaniere, incontrò, all’inizio del suo percorso “profetico”, varie figure cristiane, tra cui il monaco Bahira nel nord della penisola araba. Secondo la tradizione, Bahira riconobbe nel giovane Muhammad un futuro profeta, rafforzando così l’idea di una connessione tra Cristianesimo e Islam, connessione che ancora oggi ci invita a riflettere sul comune desiderio di conoscenza di Dio.

Padre Territo ha poi approfondito come, attraverso i viaggi con lo zio Abu Tali Muhammad abbia incontrato altri cristiani e come queste esperienze abbiano contribuito alla sua formazione spirituale. Questi episodi, ha spiegato, sono ancora oggi considerati dalla tradizione islamica come segni di un dialogo religioso in fieri, che

mette in luce un rapporto di rispetto reciproco e di apertura.

Il magistero di Papa Francesco e la mistica della fraternità Durante l’incontro, è stato più volte sottolineato come Papa Francesco sia un promotore instancabile del dialogo tra le religioni. Don Gianluca ha citato il Documento sulla Fratellanza Umana, firmato ad Abu Dhabi nel 2019, come un esempio significa-

tivo dell’approccio del Papa, che vede nel dialogo con l’Islam una via di crescita spirituale reciproca. "Il Papa", ha detto, "ci invita a vivere la mistica della fraternità: non solo a tollerare l’altro, ma a riconoscerlo come fratello, a stimarne le esperienze di fede e a farci interrogare da esse".

Territo ha aggiunto che il Papa non solo parla di dialogo, ma lo vive con gesti concreti: "Francesco ha abbracciato l’imam di AlAzhar, ha visitato il grande ayatollah Al-Sistani, e in Centrafrica ha pregato insieme al leader musulmano locale. Ogni incontro è un segno tangibile di quell’amore per il dialogo che il Papa ci esorta a coltivare."

Cristianesimo e Islam: differenze e punti di contatto

Un momento particolarmente rilevante è stato quello in cui padre Luigi Territo ha esaminato la figura di Gesù, riconosciuto nel Corano come profeta. Gesù, ha spiegato, è venerato dai musulmani come il messaggero di Dio, nato da Maria Vergine. Questo riconoscimento di Gesù nel Corano rappresenta un’opportunità per costruire un

 Dialogo islamo-cristiano a Monte Berico (Vicenza), la sala dei Sette Santi Fondatori completamente piena
 Dialogo islamo-cristiano, nel solco di Papa Francesco grazie a (da sx) padre Gino Alberto Faccioli OSM con padre Luigi Territo SJ e don Gianluca Padovan

VicenzaPiùViva

dialogo profondo tra le due fedi, che condividono l’amore per il Dio unico.

Padre Territo ha proseguito osservando che, sebbene risalgano a molti decenni dopo la sua morte, fatto comune alla “storia” di Gesù, le biografie di Muhammad riflettono l’intensa devozione di una comunità in crescita e testimoniano un profondo legame con la figura cristiana di Gesù. Ha, quindi, invitato i presenti, che affollavano la sala (tra loro anche Yahya Zanolo, responsabile per il Triveneto CO.RE. IS., Comunità Religiosa Islamica, intervenuto a fine incontro elogiandone anche lo svolgimento e lo spirito ispiratore), a considerare questa connessione come un’opportunità per una maggiore comprensione, piuttosto che come una sfida da superare.

Un incontro che segna un passo verso la pace

La mistica della fraternità e il futuro del dialogo

L’evento si è concluso con un invito alla riflessione sui valori della mistica della fraternità, come spiegata da Papa Francesco. Secondo il Pontefice, la fraternità è una dimensione mistica della fede che va oltre il semplice dato antropologico. Essa rappresenta un legame profondo e spirituale che ci rende tutti creature di Dio. Padre Territo ha concluso il suo intervento dicendo: "Incontrare l’altro non è solo un atto di cortesia, ma è un modo per scoprire qualcosa di Dio, per vedere nell’altro il riflesso della presenza divina."

L’incontro al Santuario di Monte Berico si è dimostrato un’occasione importante per favorire la comprensione reciproca e promuovere il rispetto tra Cristianesimo e Islam. Alla fine, don Gianluca ha ringraziato tutti i partecipanti e ha sottolineato come l’incontro non sia stato solo un’opportunità di apprendimento, ma anche un momento per rafforzare la convinzione che il dialogo è possibile e necessario.

La serata si è chiusa con un sentimento di speranza, lasciando nei presenti il messaggio che solo attraverso la conoscenza e l’apertura all’altro si può costruire una società più inclusiva e pacifica, in linea con il messaggio universale di Papa Francesco. Il dialogo islamo-cristiano, come dimostrato in

questo incontro, non è un’utopia, ma una strada concreta per una convivenza armoniosa e rispettosa.

Confermano la validità del dialogo le due risposte di don Luigi Territo, concise, secche e convinte, alle due domande finali che era più che lecito aspettarsi (“come si può dialogare con chi al grido di Allah akbàr, Allah è il più grande, si macchia di terrorismo feroce?” e “come si può giustificare la sottomissione femminile, in parte presente anche nel nostro mondo, ma molto più mortificante nel mondo mussulmano?”).

“Dio è il più grande” è un’espressione che si ritrova anche in alcuni nostri testi sacri – ha detto padre Territo - e la sua valenza universale e mistica non va confusa con i gesti di alcuni mussulmani, la stragrande minoranza di fedeli di questa religione che amano la pace e la conoscenza reciproca e che, quindi, sono e si sentono nostri fratelli.

Per quanto riguarda la condizione femminile, ha aggiunto padre Luigi, il problema è molto complesso e andrebbe esaminata non solo sotto il profilo religioso ma sotto quello sociale: “Ho visto tante cristiane eritree ed egiziane, ad esempio, che evidenziano come la sottomissione femminile non sia targata con il credo”.

D’altronde, hanno osservato Yahya Zanolo e, in sintonia, i tre relatori, quale essere umano può descrivere compiutamente il suo unico Dio, se non dopo averlo incontrato a vita terrena conclusa?

Casa San Martino della Caritas Diocesana

Vicentina, aumenta ancora il numero di persone accolte: al via l’accoglienza invernale

Marco Ferrero

Nel 2024, Casa San Martino della Caritas Diocesana

Vicentina ha registrato un incremento nel numero complessivo di persone accolte, in particolare uomini italiani e donne in situazione di disagio. La struttura si prepara ora ad attivare la modalità invernale di accoglienza, che sarà in vigore dal 1° novembre al 31 marzo. Questa modalità offrirà ospitalità anche a coloro che non hanno ancora avviato un percorso di inclusione sociale ma che rischiano la vita a causa delle rigide temperature notturne. L’accoglienza è subordinata alla disponibilità degli ospiti a rispettare alcune semplici regole di convivenza. Per chi non potrà o non vorrà accedere al ricovero notturno, saranno distribuite coperte, sia presso Casa San Martino sia tramite l’unità di strada.

I numeri dell’accoglienza

Nei primi dieci mesi dell’anno, Casa San Martino ha accolto 210 persone, con un incremento rispetto alle 194 del 2023 (+18%). I pernottamenti totali sono saliti a 12.331, rispetto ai 10.841 dell’anno precedente, con una media di circa 41 persone ospitate per notte (la capienza massima è di 50 posti). Tra gli ospiti, gli uomini italiani sono stati 39 (contro i 28 del 2023) e gli stranieri 154 (165 l’anno scorso). Anche il numero delle donne è aumentato significativamente, con 17 presenze (una

sola nel 2023), di cui 5 italiane e 12 straniere. L’età media degli ospiti è scesa a 39,5 anni, rispetto ai 42 dell’anno scorso.

«Le accoglienze delle donne sono di breve durata, poiché Casa San Martino è principalmente una struttura per uomini – spiega Lorenzo Facco, responsabile dell’area grave marginalità di Caritas Diocesana Vicentina. – Le donne italiane accolte sono per lo più persone trovate in strada, spesso con fragilità psichiche, mentre le donne straniere sono principalmente rientrate in Italia dopo periodi trascorsi all’estero. Dopo una prima accoglienza, vengono indirizzate verso servizi a loro dedicati. Il profilo medio dell’ospite italiano è invece quello di un cinquantenne che ha perso lavoro

e casa, ritrovandosi a dormire per strada o in auto».

Secondo don Enrico Pajarin, direttore di Caritas Diocesana Vicentina, «il numero delle accoglienze è in aumento da alcuni anni. Ciò è dovuto sia al crescente costo della vita e alle fragilità internazionali che spingono molte persone verso l’Italia, sia a un maggiore turnover tra gli ospiti, segno dell’efficacia dei nostri servizi-segno, che aiutano le persone in difficoltà a ritrovare l’autonomia più rapidamente rispetto al passato».

L’appello per volontari e donazioni Il lavoro di Caritas, inclusi i servizi rivolti alle persone senza dimora, si basa sul contributo essenziale dei volontari, che offrono tempo e

 Casa San Martino, posti letto

competenze in favore di chi è in difficoltà. Formati alla relazione d’aiuto e all’ascolto empatico per affrontare le differenze socio-culturali e superare pregiudizi, i volontari sono il cuore di tutte le attività di accoglienza e sostegno.

Per chi desidera prestare servizio come volontario a Casa San Martino o a Casa Santa Lucia (che offre mensa, docce e altri servizi diurni), Caritas organizza corsi di formazione base da settembre a giugno. Gli interessati possono iscriversi compilando il modulo nella sezione “Formazione” del sito www.caritas.vicenza.it o contattare la Segreteria Caritas al numero 0444-304986, disponibile dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 13.00, oppure scrivere a volontariato@caritas.vicenza.it.

Le donazioni in denaro possono essere effettuate tramite bonifico

a favore dell’Associazione Diakonia Onlus, ente gestore dei servizi di Caritas Diocesana Vicentina, su Banca Popolare Etica – Filiale di Vicenza (Iban: IT 40 D 05018 11800 000011079332), con possibilità di beneficiare delle agevolazioni fiscali previste dalla normativa vigente. Scopri come donare e diventare volontario da questo link

https://www.caritas.vicenza. it/50-2/ oppure inquadra il QR code

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 VicenzaPiù Viva, spazio per il sociale
 Caritas Diocesana Vicentina, i vertici col direttore don Enrico Pajarin e Lorenzo Facco, responsabile dell’area grave marginalità di Caritas Diocesana Vicentina

La pace nella Scrittura: il rovescio sono

l'ingiustizia e la mancata salvaguardia del creato

Il vocabolo pace ritorna con frequenza nei testi del Nuovo Testamento (NT), il cui termine greco eirene non si scosta molto dal significato che ha shalom che viene utilizzato dagli autori dell’Antico Testamento (AT) quando parlano di pace. La pace nel NT non è mai compresa come il rovescio della guerra o di tensioni violente, né si può pensare ad una pace interiore, né puramente escatologica. La pace che si ispira allo shalom ha significato ben preciso: esso è la perfezione dell’ordine in una realtà complessa. Questa realtà è tutto il creato, così come è uscito buono e ben ordinato dalle mani del Creatore (Gen 1.31).

Già nell’episodio del diluvio universale Dio sembra pentirsi di aver creato l’umanità, questo perché in essa domina la violenza, la quale è l’unico peccato, indicato in modo esplicito come causa del pentimento di Dio (cf. Gen 6,5-7), e che i simboli della colomba e dell’ulivo, sono da sempre considerati i segni della fine del castigo di Dio (cf. Gen 8,1011). Anche la violenza dell’uomo sulla natura è parte del tradimento dell’umanità al progetto di Dio sul creato (cf. Gen 1,26-28). Infatti, Dio aveva affidato il creato all’umanità perché lo facesse crescere e non invece sfruttarlo. Per questo recentemente nel concetto di pace è stato inserito il tema ecologico. Negli incontri ecumenici di Basilea e di Seoul il tema globale “pace, giustizia e salvaguardia del creato” bene esprime ideale biblico di pace, tutta-

via, non va dimenticato che questo ideale ha radici e valenze più complesse.

La torah riletta dalla scuola deuteronomistica non è un insieme di precetti, ma il racconto delle grandi gesta di Dio verso Israele: misericordia, liberazione, difesa, perdono, dono della terra, sono segni della presenza operante di Dio, della relazione che Egli instaura con il suo popolo.

Questo è l’elemento chiave che illumina tutta la dimensione teologica del tema pace: la fede in Dio del deuteronomista non è semplicemente la fede in un creatore e ordinatore come emerge nel primo capitolo del libro della Genesi, ma è la fede in un eterno che è in tutte le sue opere, e che si rivela in ogni suo gesto, come liberazione, difesa, perdono, dono di grazia. Quindi un Dio di misericordia, da qui possiamo trarre due considerazioni.

1. Se questo è il modo con cui l'eterno, il creatore, si presenta alle sue creature, tale deve es-

sere anche il fondamento di ogni tipo di relazione interumana. L'etica sociale cristiana è etica intrinsecamente teologica, resta fermo il principio che la legge è in primo luogo il rispecchiare nella vita della comunità, e del singolo suo membro, la infinita benevolenza di Dio.

2. Se la pace è uno stato di cose nella vita di relazione fra esseri umani (e fra essi e il creato), stato di cose perfetto e perciò inevitabilmente escatologico, la giustizia è l'insieme di comportamenti che mirano alla realizzazione di questo stato. La giustizia umana deve misurarsi sulla giustizia di Dio e la giustizia di Dio è sempre giustizia resa al povero, al debole, all'oppresso. Il povero non è solamente quello senza soldi, ma nella varietà delle sfumature del vocabolo povero vi è un dato di fondo: povero è sempre chi è oppresso comunque esposto all'oppressione da parte di altri esseri umani e dalle strutture

 L'orrore della guerra

sociali e vigenti. Quindi povero è l’orfano, la vedova, lo straniero. Sono tre categorie deboli senza tutela.

Il rovescio della pace è perciò l'ingiustizia, e «ogni stato di cose oppressivo» (III Sinodo dei Vescovi, 1971, documento finale, introduzione alla seconda parte). Acquista quindi significato per molti sorprendente il testo di Isaia «frutto della giustizia sarà la pace» (Is 32.17), testo che Gaudium et Spes (GS) cita a fondamento della concezione teologica della pace (GS 78). La giustizia nell'AT, in sintesi, non è dare a ciascuno il suo e osservare gli ordinamenti umani di una società: giustizia è l'impegno contro ogni forma di dominio, prevaricazione, disumanizzazione dell'uomo da parte di altri uomini o anche degli ordinamenti societari. Il detto comune derivato da Agostino, che la pace è tranquillitas ordinis non è riferibile a qualunque ordine, ma solo all'ordine voluto da Dio e di cui gli umani dovrebbero essere interpreti e commisurati a tale traguardo.

Dovendo gli uomini assolvere a questo compito di essere interpreti di pace risulta fondamentale comprendere che “pace” non è parola né effimera, né astratta, né parola alla

quale si possono dare parecchie sfumature. Ma se non è tutto, allora che cos’è la pace? La pace è frutto di un dono, quello del Risorto e di conseguenza ha il volto del Cristo, un dono che ci è stato affidato: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14.27), e questa è diversa da quella del mondo, che spesso la “costruisce” con e sulle armi.

Certo non è facile “essere costruttori” della pace donata da Cristo, soprattutto se contiamo sulle nostre forze, per questo alla sera di

Pasqua manifestandosi ai suoi disse: «“Pace a voi!”. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 20-22). È questo dono (lo Spirito Santo) che ci permette di attuare lo spirito delle beatitudini, una grande esortazione ad essere operatori di pace (Mt 5.9), nella continua ricerca della giustizia di Dio, la quale spinge ad amare anche il nemico, a dare gratuitamente, a soccorrere il povero, ad essere segni di misericordia, a non giudicare. Consapevoli che anche noi saremo giudicati, e ciò avverrà sulla congruenza del nostro agire da costruttori di pace.

Saremo costruttori di pace nella misura in cui il Vangelo di Cristo, che è Vangelo di pace, saremo capaci di viverlo nelle sue dinamiche più profonde, le quali, le quali ci impongono di non considerare nessuno nemico: l’altro singolo o gruppo che sia, potrà farmi del male,ma ciò non mi autorizza dal cessare di amarlo e di fargli del bene.

 Assemblea ecumenica di Basilea del 1989
 Assemblea ecumenica di Seul del 1990

Giacomo Matteotti nel 100° anniversario del suo

assassinio: ricordato a Padova, un po’ meno a Vicenza

Il paradosso delle celebrazioni del socialista polesano mentre sono al potere gli eredi di coloro che di quella uccisione furono autori e primi responsabili a cominciare da Benito Mussolini

Emilio Franzina, storico

Per uno scherzo paradossale del destino le commemorazioni di Giacomo Matteotti a cent’anni dalla sua morte violenta si sono svolte e si stanno concludendo durante una fase della lotta politica che ha visto il ritorno al potere, in Italia, degli eredi di coloro che di quella uccisione furono autori e primi responsabili a cominciare da Benito Mussolini.

Al di là di ciò che ne abbiano scritto “in parallelo” non pochi storici, come ad esempio Mimmo Franzinelli, ricordare la figura e l’opera del deputato polesano implica dunque una inevitabile riflessione sui principali tratti distintivi che caratterizzano, da un lato, i regimi democratici e, da un altro, i regimi autoritari. Compresi quelli che oggi vengono definiti democrature come se fosse lecito rassegnarsi a considerare plausibili forme di gestione della cosa pubblica che pur “generate”, per così dire, da “libere elezioni” calpestano sistematicamente i principi di fondo della democrazia scambiando di proposito le funzioni di governo, sottratte al rispetto delle leggi costituzionali, con un presunto “diritto a comandare”.

Se mai la storia possa servire a qualcosa, del che, secondo Adriano Prosperi, sarebbe lecito dubitare, non sarà del tutto inutile soffermarsi, allora, sulle analogie che certi periodi del passato sottopongono attualmente alla nostra attenzione

come senz’altro insegna il caso di quel breve volgere d’anni che portò, fra il 1919 e il 1924, alla instaurazione nel nostro paese, e sottolineo paese, di una dittatura foriera, alla lunga, di tremende sciagure.

Giacomo Matteotti, socialista e per nulla sospettabile di estremismo ideologico o, se si preferisce, di cedevolezza all’ideologia comunista del tipo ai suoi tempi nascente, fu il tragico campione di una esperienza concreta di contrasto al fascismo e agì di conseguenza, in Parlamento e nella propria regione, il Veneto, opponendosi alle sue soperchierie e finendo per pagare con la vita un simile sforzo.

Dell’impegno da lui profuso prolungando quello già espresso con il ripudio del militarismo e della guerra, che gli era costato - come al suo primo capogruppo socialista alla Ca-

mera nel 1919, il vicentino Domenico Piccoli – una coscrizione triennale “di confino” in Sicilia, si sono occupati, nei mesi scorsi, parecchi studiosi e naturalmente, fra loro, quanti non avevano certo atteso l’anniversario secolare della sua tragica scomparsa per scriverne e per parlarne in libri fondamentali.

Inevitabilmente alcuni dei più illustri e stimati specialisti, spesso di fede a propria volta socialista come Caretti o Degl’Innocenti, si sono adoperati per mettere a fuoco l’ “anomalia” delle iniziative concrete prese contro la violenza e l’illegalità fascista dal deputato polesano anche in un paio di pubbliche conferenze tenutesi a Vicenza, dove da ultimo hanno provveduto storici d’altra generazione, come Ricciardi e Camurri, a enfatizzare invece i nessi fra Partito Socialista e Partito

 Politici nella storia
 Delitto Matteotti, i funerali (foto Wikipedia)

d’Azione nel solco così di Matteotti come, soprattutto, di Toni Giuriolo, ossia di un protagonista indiscusso della Resistenza veneta e italiana al cui nome nella città berica s’intitola non a caso, da qualche tempo, un benemerito circolo culturale.

Esso, a dir la verità, potrebbe anche vantare, oltre agli echi meneghelliani più scontati, alcuni precedenti remoti e alquanto significativi essendo sorto a enorme distanza di tempo dopo quello omonimo e forse sconosciuto ai più fondato nel 1961 presso la Casa di Cultura della Società Generale di Mutuo Soccorso (con sede in corso Andrea Palaldio, 176, ndr) per trattare di “Antifascismo ieri e oggi” da Licisco Magagnato.

Presieduto sino al 1963 da Lorenzo Renzi e poi da Silvio Lanaro esso coinvolse nella propria attività studenti universitari e altri giovani di allora fra cui Orio Caldiron, Emilio Renzi, Galdino Sartori, Dolores Zaccaria, Franco Barilà, Mario Isnenghi e Fernando Bandini.

Sicché, scorgendo a Padova, fra il pubblico venuto ad assistere giovedì 31 ottobre scorso ai lavori di un convegno dedicato a Matteotti e i socialisti veneti dalla Guerra di Libia al Fascismo (1911-1924), prima Mario Isnenghi e poi Lorenzo Renzi non mi sono stupito, ma casomai commosso. Data, infatti, per scontata la presenza a questo genere d’incontri di persone d’una certa età - e quasi mai, comunque, al di sotto dei cinquant’anni - la circostanza poteva essermi di conforto dando prova d’una continuità ideale che dura evidentemente ostinata dalle parti nostre ovvero in una regione a torto ritenuta soltanto, quantunque a lungo, prima conservatrice e clericale e quindi, con poche sfumature o eccezioni, reazionaria e leghista.

Il convegno in questione, promosso dal Centro Studi Ettore Luccini associato all’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, si stava svolgendo

nell’arco di una giornata a Palazzo Moroni e cioè nella sede del Comune di Padova impegnando dodici storiche e storici di tutta la regione in un percorso che fra mattina e pomeriggio si sarebbe snodato attraverso l’analisi dei casi provinciali di Feltre e Belluno (A. Lotto) , di Padova e Treviso (D. Verdicchio e L. Vanzetto), di Venezia e Verona (G. Sbordone e F. Melotto), di Rovigo e Vicenza (L. Contegiacomo e E. Franzina).

A me toccava, nell’occasione, anche il compito di aprire e di chiudere i lavori intervistando nel “prologo” Valentino Zaghi, noto esperto di cose matteottiane (ultima sua impresa pubblicistica la curatela di un numero monografico di “Venetica” sul caso Matteotti nella stampa italiana e straniera), e coordinando in conclusione una tavola rotonda fra Matteo Millan, Gianpaolo Romanato e Oscar Gaspari. A trattare, invece, il versante di genere sarebbero state al mattino Maria Teresa Sega (con una relazione su Pace, lavoro, diritti. Le socialiste venete) e nel pomeriggio Liliana Contin (con il profilo di una scrittrice socialista vicentina o meglio marosticense come Arpalice Cuman Pertile).

Viste e visti in azione nei loro “territori” di appartenenza e di prolungato impegno politico e sociale, le militanti e i militanti del PSI del tempo di Matteotti, sovente in diretta relazione personale con lui tra il 1919 e il 1924, sono apparsi sotto una luce nuova che ha contribuito a metterne in risalto le parabole non sempre o non del tutto scontate specie in rapporto all’ascesa e alla “affermazione” del fascismo.

Una affermazione che avvenne sì per effetto della violenza e delle intimidazioni, ma talora anche in virtù dei cedimenti e dei compromessi a cui una parte dei suoi oppositori dovettero piegarsi scomparendo quasi nel nulla (e nel “silenzio” come ha spiegato Sbordone per molti operai veneziani) o addirittura passando

tra le file (secondarie) del nuovo regime, come accadde, stando alla ricostruzione di Dario Verdicchio, ad alcuni leader sindacali del Padovano quali Furian e Panebianco.

E ciò mentre a livello nazionale lo stesso PSU di Matteotti e Turati, radicato a Vicenza, Verona e Trento, pagò il prezzo delle contraddizioni di molti suoi aderenti di punta ancora alla testa dei sindacati di classe (la CGIL blandita da Mussolini dei vari Rigola, Caldara e D’Aragona).

Non dissimile, sebbene più sfumata, fu del resto la “transizione” coatta verso la “non belligeranza” pubblica, sino al 1943, di vari esponenti di spicco del socialismo vicentino e bellunese sul tipo, ai piedi dei Berici da lui tanto amati, di Adolfo Giuriato, il (troppo) mite poeta recordman di preferenze socialiste nelle elezioni comunali del 1920 e del manovriero sindaco di Belluno Vincenzo Lante o anche di tanti compagni di altre province spesso, però, sostanzialmente a causa d’una loro diversa origine ed

 Politici nella storia
 La nuova lapide scoperta il 10 giugno 2024 al palazzo del Territorio in ricordo di Giacomo Matteotti, nel centenario della morte dello deputato socialista assassinato da sicari fascisti il 10 giugno 1924 (foto Comune di Vicenza)

VicenzaPiùViva

estrazione sociale ben tratteggiata per il Trevigiano da Livio Vanzetto. Naturalmente ci fu anche modo e modo di prestare, per dir così, una “resistenza passiva” al fascismo, trionfante dopo il 1924 non solo grazie alla repressione militare e poliziesca del dissenso ovvero mercé l’umiliazione dell’olio di ricino o la paura del carcere e del confino. Il che spiega come una minoranza di socialisti e di antifascisti riparati nel privato riuscisse in un modo o nell’altro (ora, cioè, con l’esempio ed ora attraverso l’educazione familiare) a somministrare lo stesso principi fondamentali di riflessione antifascista ai propri congiunti. Come senz’altro capitò ad Arzignano dove Pietro Giuriolo, il padre di Toni, debitamente “oliato” a suo tempo dagli squadristi locali, concorse certo alle scelte radicali del figlio e, in diversa maniera, a Vicenza all’ex sindaco del 1920 Luigi Faccio, stimatissimo dai propri concittadini, o allo scultore Ugo Pozza, le cui tra-

versie, prima e dopo il 1937, facilitarono al figlio Neri, il futuro editore che ne parlò in tanti suoi libri di memorie, le scelte che ne determinarono a tempo debito la partecipazione alla Resistenza.

A parte il fatto, tenuto in poco conto da troppi storici, che una serpeggiante e sotterranea ostilità al regime continuasse a sussistere nelle “congreghe” private degli ex socialisti urbani, descritte per Vicenza fascista proprio da Neri Pozza, ovvero in mezzo agli strati più poveri della popolazione di città operaie come Schio e di molte periferie rurali sia nella seconda metà degli anni ‘20 che in quelli del maggiore successo arriso a Mussolini fino alla guerra d’Etiopia, ciò non di rado accadde proprio nel nome e nel ricordo di Matteotti.

Lo sanno bene i lettori del Prete bello di Parise e molti cultori del canto popolare, a cui il rodigino Enzo

Bellettato ha offerto una vasta mole di esempi nel suo libro del 2020, da poco ristampato, su Matteotti nella memoria cantata tra storia e cantastorie.

A voler essere pignoli e andando in cerca di spunti anche cronologicamente successivi, già messi in evidenza peraltro da vecchi libri come quello, a cui non fui estraneo nemmeno io, curato nel 1993 da Mario Quaranta (Giacomo Matteotti: la vita per la democrazia), ci sarebbero tuttora da meditare episodi postbellici come la requisizione, ordinata dalla Questura di Rovigo, di tutte le immagini di Matteotti presenti nelle sedi camerali (CGIL) della provincia, dove socialisti (e comunisti) stavano capeggiando fra l’aprile e il maggio del 1957 uno sciopero di grandissime proporzioni.

Ma, senza spingersi tanto in là e limitandoci a quanto di nuovo e d’interessante il convegno patavino ha saputo mettere in luce, credo sia giusto segnalare il “recupero” di figure dimenticate come quella del già citato Luigi Faccio, che, meglio del bellunese Lante, anche lui ridiventato sindaco finita la guerra, tornò ad essere primo cittadino di Vicenza dal 1946 al 1948. Faccio fu più fortunato, certo, di Turati, costretto nel 1926 a riparare da esule

 Politici nella storia
 Giacomo Matteotti (foto Wikipedia)
 Il prof. Emilio Franzina a un convegno ANPI a Vicenza (foto VicenzaPiù del 2019)

in Francia, con cui aveva condiviso sino a un anno prima l’avventura del PSU, sciolto d‘imperio dal regime, e del suo giornale “Unità Socialista” al fianco di Matteotti fin che visse, ma senz’altro nemmeno immemore del proprio compagno e “maestro”, l’onorevole Domenico Piccoli. Questo fu un personaggio a suo modo straordinario del socialismo vicentino, morto in circostanze misteriose nel marzo del 1921 cadendo, ma più probabilmente venendo scaraventato fuori, da un treno in corsa in Calabria. Di lui, personalmente, ho fatto parola in breve a Padova ma molto più a lungo in un intervento del 2021 finito poi su Youtube (QR), il che un po’ mi esime da parlarne qui.

Ma devo quanto meno accennare in chiusura agli esiti della tavola rotonda nella quale Matteo Millan ha ridi-

scusso i termini della violenza diffusa che spianò a Mussolini la conquista del potere mentre Romanato ribadiva, come prefigurato in un suo libro (Giacomo Matteotti un italiano diverso), la personalità scientifica e la competenza giuridica del martire di Fratta Polesine assieme alla natura del tentativo da lui compiuto per smascherare in modo sistematico oltre ai brogli elettorali del ‘24, tutte le dinamiche criminali del fascismo, non escluse la corruzione e le pratiche affaristiche di alcuni suoi esponenti.

Tra le ragioni della soppressione di Matteotti, tuttavia, molto più della ventilata scoperta di un intrigo “petrolifero”, come quello della Sinclar Oil amplificato prima dalla stampa inglese e americana del tempo e poi rilanciato da storici come Caretti e Canali, potrebbe esserci stata semmai, secondo Giulio Scarrone, ma anche a giudizio oggi di Oscar Gaspari, la denuncia imminente da parte sua di un falso nel bilancio dello Stato dato in pareggio dal governo, ma in realtà deficitario per oltre due miliardi. Troppo per un analista attento ed esperto formatosi, come Matteotti, alla scuola dei piccoli comuni del Polesine ossia in un tirocinio amministrativo fatto nel profondo Veneto ancora per poco liberale (e libero) tra età giolittiana e primo dopoguerra.

 Giacomo Matteotti. La vita per la democrazia, di Mario Quaranta e a cui collaborò anche Emilio Franzina
 Il programma del convegno dedicato a Matteotti e i socialisti veneti dalla Guerra di Libia al Fascismo (1911-1924)

“Che ce le hai 50 lire?” La droga al tempo dei Boomers

Massimo Parolin

«Silvia lo sai, lo sai che Luca si buca ancora, Silvia chissà se a Luca ci pensi ancora, Silvia lo sai che Luca è a casa che sta male». Cosi cantava Luca Carboni nel 1984 in questa canzone capolavoro e di denuncia, che invito tutti ad ascoltare.

Vicentino di nascita e da sempre residente in questa Città, sono cresciuto con Lei e ne ho visto i profondi mutamenti sia urbanistici che sociali. Una Nobile Provinciale che nel corso degli anni ha subito, come anzidetto, molte trasformazioni, com’è giusto che sia, come sta nell’ordine naturale delle cose.

Pantha rei.

Così come Eraclito affermava “non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va”, il passar del tempo va pertanto analizzato in molteplici aspetti, dai fatti spiacevoli e negativi, ai momenti gioiosi e memorabili.

Il tempo ci travolge tutti e, ahimè, fugit. Io negli anni ’80 c’ero! Vivevo la Città assieme ai ragazzi di allora. Ho visto tossicodipendenti vagare per le strade come zombie di George Romero, dormire in ogni dove, Piazza dei Signori, Piazza Matteotti, poi mendicare (che ce le hai 50 lire?), prostituirsi, lasciare le siringhe (le spade) ovunque.

Ricordo ad esempio la strada sterrata, in mezzo ai campi, che portava al campo da calcio dell’Ars Audax dove ora troviamo il campo di Via Zanecchin, mediante un sottopasso ferroviario oggi scomparso, dietro lo stadio.

Non era diverso da oggi. No, non era diverso! Ho visto amici, compagni di scuola morire a 16, 18 anni.

Li ho visti litigare fortemente con i loro genitori, urlare in mezzo alla strada in pieno centro cittadino, per avere i soldi per comprarsi la dose. E gli stessi genitori impauriti farsi difendere da amici, conoscenti, addirittura negozianti che vivevano o lavoravano vicino.

La droga allora si comprava in Piazza Matteotti ed amici come Pulce, un ragazzino che giocava a calcio in modo delizioso, Mauro, Matteo, Walter, mandati a morire così. Così e basta.

Il pusher nascondeva la dose dentro un buco del muro perimetrale dei bagni pubblici (oggi ostello cittadino) e il tossico andava a prendersela dopo averne pagato il prezzo. Ciò al fine di evitare lo scambio. Noi ragazzi vedevamo e raccontavamo ai nostri genitori affinché informassero chi di dovere, non c’era la videosorveglianza allora, ma i nostri occhi: occhi attenti.

Nemmeno gli oratori con i loro giochi, le partite al pallone, al biliardo, al tennis da tavolo, servirono a infrenare il fenomeno. Troppo forte il richiamo del trip.

Negli anni ‘70/80 l’eroina ha decimato una generazione, quella “generazione scomparsa” narrata magistralmente in “Cristian F. ed i ragazzi dello zoo di Berlino”, il cult movie di quegli anni che riassunse crudemente il dramma. Vicenza visse quel periodo e potrei far cronaca di molti avvenimenti, della sofferenza (non voglio chiamarlo de-

grado, perché si parla di persone e pertanto preferisco un termine legato ai patimenti delle stesse non ad un sostantivo da sempre riferito agli edifici, che anima non hanno) della Città di allora. Ma, ricordo, non se ne fece un problema di insicurezza percepita o addirittura reale. La gente ne parlava, ma, forse perché erano i figli loro, tratteneva il respiro, il dolore e non rimetteva subito il problema alle forze dell’ordine, lamentando paura ed insicurezza, ma cercava invece e dapprima la soluzione tra le mura domestiche. Il più delle volte però senza fortuna.

Poi arrivarono le discoteche e il problema si spostò, togliendolo dalle strade. Anche la tipologia di sostanza stupefacente assunta dai ragazzi cambiò. Ecco apparire le prime droghe sintetiche come ad esempio l’ecstasy. Lo spaccio principale avveniva davanti ai templi della musica, od al loro interno; non facevano sentire la fame e la stanchezza e consentivano di reggere il ballo per ore ed ore a ritmo sfrenato e senza interruzioni. Ma come tutte le cose sono in continuo divenire, ergo anche i locali da ballo conobbero la loro fine, ma così non lo spaccio degli stupefacenti. Ed ecco oggi, ritornati al punto di partenza, al monopoliano via. Ancora sulle strade. Tutto cambia nulla cambia per dirla alla Tomasi di Lampedusa. Forse se invece di far studiare ai nostri figli Sumeri e Fenici insegnassimo loro, almeno per due ore alla settimana e per tutto l’anno, bocciando anche se del caso, “educazione al contrasto alle dipendenze da droga” prevedendola come vera e propria materia e non limitarci a meri spot informativi o apparizioni occasionali nei POF, avremo più chances di evitare il ritorno di una generazione scomparsa.

Vita da soprano fuori dagli schemi: Alessandra Borin, la rivoluzione con le note

Nata per il canto classico e non solo, trasuda energia tra teatro, scrittura, recital, podcast, vocal coaching e lezioni al… Quadri . Per trasmettere la “sua” arte firmerà la rubrica “Musica: la colonna sonora della storia”

La fuga dagli schemi, i suoi Concerti Teatrali, la mission di “scongelare” la musica classica e avvicinarla al pubblico di oggi, il recupero di quella vocale sacra dell’800 italiano con percorsi musicali inediti, il vocal coaching nelle aziende, l’impegno con i ragazzi al liceo Quadri, i podcast ironici sul suo quotidiano dietro le quinte. E presto anche una rubrica su questo giornale: “Musica: a colonna sonora della storia”. Conosciamo dal vivo un’artista vulcanica.

Come ogni vero artista pronto a sacrificare l’ego all’arte, anche a scapito anche di una facile fama, lei non molla. E combatte, distinguendosi. Unica a portare in scena spettacoli scritti, recitati e cantati da una sola persona (lei), unica a combattere con la musica classica quella consumistica ma con innovazione, unica in Italia a riscattare la musica vocale sacra dell’800 italiano troppo spesso dimenticata. Semplicemente, unica.

È questa la sola definizione che, dopo averla conosciuta, sorge spontanea per Alessandra Borin, che dentro qualsiasi altra singola definizione proprio non ci può stare. Soprano indipendente, studiosa e interprete lirica, scrittrice e attrice, paladina dell’arte e, dico io, mediatrice culturale di una cultura musicale che manca. Sono solo canzonette, non

 Borin vuole contagiare il pubblico con la stessa meraviglia e curiosità che la muove

mettetemi alle strette: la citazione di Edoardo Bennato è forse azzardata, ma proprio perché le performance artistiche di Borin sono tutt’altro che canzonette, di strette nella sua vita professionale ne ha subite (e respinte) tante.

Perché quando un talento, un’anima sono puri non vengono compresi, se va bene, e danno fastidio se va male. E comunque non rientrano nell’economia del sistema. Che sono pazzo ed incosciente – Sono un irriconoscente – Un sovversivo, un mezzo criminale, continua Bennato. Borin, soprano fuori dagli schemi, per motivi che lei stessa definisce “etico-morali” non scende mai a facili compromessi e nella vita si muove contando solo sulle sue gambe. O

per meglio dire sulla sua - splendida e duttile -irrinun voce, che non usa “solo” per cantare, ma per “urlare” le sue convinzioni.

In realtà la nostra conversazione è stata tutt’altro che urlata: se sul palco Alessandra porta un’immagine nuova di soprano, che si spoglia di ogni rigido cliché, nella vita di tutti i giorni le riconosci subito modi eleganti, pacati e gentili che hanno qualcosa di lirico, che stride col mondo frenetico, a tratti brutale intorno a noi.

Nata a Roma da mamma trapanese e babbo veneziano, vissuta a Vibo Valentia, Viterbo, Venezia e Vicenza, “città tutte con la V” come sottolinea con un sorriso, dopo la laurea in critica musicale a Venezia, si sposta nel capoluogo berico per-

Federica Zanini

VicenzaPiùViva

ché è qui l’unico Conservatorio, il Pedrollo, in cui specializzarsi in Musica Antica, prima, e Musica Vocale da Camera poi. Con questo bagaglio iniziale, perché Borin come vedremo è una che di studiare, anche fuori dagli atenei, non smetterà mai, “sui 25-30 anni -racconta- comincio a occupare gli interstizi del mondo della lirica”. Si avvicina alla Commedia dell’Arte e al teatro di prosa, collaborando come soprano con importanti realtà vicentine, e mette sempre più a fuoco la sua personale definizione di artista. Le istituzioni che contano davvero, come l’Accademia Olimpica, non restano indifferenti alla sua personalità e al suo talento.

Contrariamente a quanto tanti mostrano di credere (e praticare), «non fai l’artista per l’ego personale, per mostrare agli altri quanto sei capace: l’artista è al servizio dell’arte, il tuo è un ruolo di caratterizzazione sociale, muovi gli animi, racconti quello che non è noto». E puoi mettere in una luce nuova quello che è noto per i motivi sbagliati… come la musica classica. La missione di Alessandra è dimostrare quanto la musica classica (dall’antica alla lirica) non solo non sia vecchia, ma se proposta con un approccio diverso, se contestualizzata nell’epoca che l’ha vista nascere e adattata emotivamente al sentire dei nostri tempi, se soprattutto mossa contro le logiche politiche ed economiche che in era moderna hanno stravolto il concetto di musica, può non solo affascinare ma tornare utile.

In che modo?

“La musica e l’arte in genere – spiega Alessandra Borin – è quello che ci differenzia dagli animali perché concretizza in materia il nostro universo interiore, è uno specchio in cui guardarsi. In un mondo che corre sempre, c’è bisogno di rieducare all’ascolto del dentro e del fuori. Quello a cui veniamo condotti con la musica di oggi è un ascolto superficiale, di

sottofondo mentre dobbiamo vedere la musica come una risorsa per noi stessi, uno spazio, sempre più raro, di riflessione. La musica con la M maiuscola, per come la vedo e la vivo io, non può essere la canzonetta che ti tiene compagnia al bar o mentre guidi, ma piuttosto un portale di accesso alla tua anima per dirti anche ciò che non sai di te stesso”.

Uno di quei concetti talmente “semplici” che è più difficile spiegar-

Da dicembre la nuova rubrica di Alessandra Borin "Musica: colonna sonora della storia"

Ogni epoca ha un paesaggio sonoro che la definisce; la musica è quindi, a tutti gli effetti, la colonna sonora della storia. La rubrica a firma di Alessandra Borin, che esordirà con il prossimo numero di VicenzaPiù Viva, in edicola dal 10 dicembre, accompagnerà i lettori in un viaggio nel tempo tra curiosità, aneddoti bizzarri, intrecci inaspettati, esistenze avventurose di artisti e compositori, per riscoprire che ogni evento del passato ha una sua melodia e che in ogni luogo o vicenda c'è molta più musica di quanto potessimo immaginare.

li, che metterli in pratica. Ecco perché Borin nella sua particolarissima arte, aborre le lunghe presentazioni prima dei concerti, le banalizzazioni e punta a parlare dritto al cuore del pubblico. “Si, perché rielaborare con i giusti criteri la ricerca musicale abbatte le distanze, sia fisiche che temporali. Con la musica antica e classica, se ti distacchi dalla mera esecuzione, dalla scelta dei soliti brani noti e sviluppi un racconto emotivo, scopri che il sentire non passivo di ieri e di oggi non è cambiato nei secoli”.

Concretamente, questo che cosa ha cambiato nella tua vita?

“Che mi sono concentrata nello sviluppare dei recital, diciamo così, che ho chiamato Concerti Teatrali (ndr: un marchio registrato) e che produco su commissione di enti pubblici e privati, dove a scrivere, recitare e cantare è una sola persona, cioè io. Così facendo riesco a prendere il pubblico per mano e a condurlo in luoghi sconosciuti, non solo della storia della musica, ma di se stessi. Fuori da questo mondo basato sull’immagine, come artista voglio essere un mezzo non solo per veicolare la musica, ma per condurre chi ascolta a guardarsi dentro, per riscoprirsi umano verso quello che dovrebbe essere l’obbligo di tutti: la felicità”.

 Ritratti d'artista
 Alessandra Borin in un suo recital

Quindi la musica classica è una incompresa?

“Si. Oggi come oggi è relegata a un ruolo polveroso, perché nel tentativo di conservarla la si è congelata. Occorre una rivoluzione, per rivitalizzarla e per stimolare la curiosità di chi ascolta. Per farlo io ho scelto di incrociare musica e racconto. Lavoro -e tanto, faticosamente, perché non smetto mai di studiare, di fare ricerche musicali, storiche e filologiche per i miei Concerti Teatrali- per persuadere il più possibile a rivedere il vecchio, statico e ammuffito concetto di musica classica. Quello a cui invito è un ascolto partecipato, contemplativo e innovativo”. Insomma, impariamo che la musica antica, che crediamo di conoscere o che non conosciamo affatto, è regalità, non ieraticità.

Quindi tu che ti muovi in un ambiente di sacralità e devozione, che incute quasi soggezione, invochi un po’ di leggerezza?

“Assolutamente si. Allora, facciamo chiarezza: fare arte non è facile, come si vuol far credere oggi,

complice anche il dilagare di talent show. L’arte è studio e passione e almeno fino agli anni ’80 si era consapevoli dell’impegno che implicava cantare. Ma quello che dobbiamo arrivare a trasmettere deve essere qualcosa di non faticoso (che non significa superficiale) per il pubblico, che deve sentirsi coinvolto, toccato, emozionato e spinto all’introspezione”. Vale a dire che il “sudore” dietro una performance artistica non deve comportare “sudore”, o peggio ancora noia, in chi assiste.

Ecco perché, oltre alle delusioni, le occasioni mancate, gli scontri con un ambiente che risponde a regole altre, la genialità e la lungimiranza di Alessandra Borin l’hanno spinta ad “andare contro” e mettere in atto la sua personale rivoluzione.

Hai rivoluzionato il ruolo di soprano ma anche il panorama musicale attorno a te…

“Si. Ho abbracciato percorsi di musica inedita, come ad esempio quello della musica sacra italiana

dell’Ottocento, che assieme a un collega organista tento di far conoscere come testimonianza della creatività italiana in questo ambito. Sono costantemente impegnata in ricerche su autori del nostro repertorio dimenticati in favore di autori stranieri. Porto al pubblico musica che seppur vecchia è “nuova”, nel senso che non è mai stata eseguita in tempi moderni. La libertà di diffondere il repertorio della propria nazione e l’afflato sacro che lo anima è impagabile. Adoro far rivivere mondi dimenticati in modo moderno, sono reduce proprio ora dalla creazione di un Festival dedicato esclusivamente alla Musica Vocale da Camera per far conoscere al grande pubblico questo repertorio così raffinato. Il canto per me è parte intrinseca della mia essenza. Sul palco io non mi esibisco, mi esprimo con canto e parole. Cerco di farlo al meglio di me stessa per condividere ciò che amo e suscitare empatia, perché mi si possa ascoltare con gioia, curiosità e sogno”.

Personalmente non ho ancora assistito a un tuo concerto, però di gioia ne ho provata e di risate me ne sono fatta ascoltando i tuoi podcast.

“Quello del Covid è stato un periodo duro per tutti, ma per me artista è stato una ferita: non solo il non potersi esibire, ma sentire come veniva trattato il mondo della cultura dai nostri politici è stato un colpo al cuore. È nato così il mio blog Vita da soprano, volutamente senza immagini dove la voce è sovrana, che vuole far capire come l’artista in fondo sia un artigiano, un outsider. Senza timore svelo tutti i dietro le quinte, cioè quelli della mia vita vera prima, durante e dopo i concerti, in modo leggero e autoironico. Alla gente piace e registrarli diverte anche me.

Sei anche vocal coacher nelle aziende e tieni lezioni comparative e interdisciplinari di storia della musica al liceo Quadri di Vicenza, altri obiettivi?

 Nei suoi Concerti Teatrali Alessandra Borin è scrittrice, attrice e cantante
Ritratti d'artista

VicenzaPiùViva

«Quella nella scuola è un’esperienza bellissima, cui tengo molto perché, grazie alla lungimiranza del dirigente e alla concomitanza di intenti con un docente appassionato di musica ho potuto sei anni fa iniziare questo progetto che mi consente di far conoscere la storia della musica in una scuola superiore, là dove, inspiegabilmente, il programma ministeriale non prevede la materia. I ragazzi sono molto recettivi e questo mi da molte speranze! Mettere a servizio degli altri il sapere acquisito dà valore a tutti gli sforzi compiuti. Anche per questo mi metto a disposizione nei progetti di public speaking per le aziende in modo che le persone in vari ambiti possano comprendere l’importanza del suono e della voce. La dimensione del suono pervade ogni aspetto della nostra vita. Anche per questo mi piacerebbe poi poter diffondere ancor più il mio monologo Vita da soprano tratto dai podcast, che ha visto ancora troppo poco la scena… un altro modo che con ironia vuole sensibilizzare ad ascoltare e ascoltarsi. I progetti poi sono tanti, ma l’obiettivo che li anima è uno, la mia missione: dimostrare che la tradizione musicale è sacra ma ha bisogno di innovazione come dell’ossigeno, che educare alla musica è essenziale ma farlo pedagogicamente è controproducente, che comprendere i diversi linguaggi, della musica ma anche di chi ti sta di fronte, è essenziale. Quando il vil denaro (il commercio) entra nell’arte, l’arte diventa consumismo e questo si chiama regime, quindi il mio obiettivo principe è restare libera e indipendente. Voglio semplicemente essere io. Io sono la Borin, voglio poterlo dire sempre».

E con l’accenno al regime, alla (mal)gestione della cultura da parte della politica e all’arte come forma e libertà di espressione, non posso che chiudere col citare, Borin mi perdoni, altri due passaggi della canzone di Bennato:

 Nei suoi divertenti podcast Borin racconta con ironia la sua Vita da soprano

 Una simpatica citazione di Borin del quadro ottocentesco Fuga dalla critica, di Pere Borrell del Caso

Elavogliadicantare

Elavogliadivolare

Forsemièvenutaproprioallora

Forseèstataunapazzia

Però è l'unica maniera

Didiresemprequellochemiva (…)

Ma che ci volete fare

Non vi sembrerò normale

Ma è l'istinto che mi fa volare

Nonc'ègioconéfinzione

Perché l'unica illusione

Èquelladellarealtà,dellaragione

ma invitando a scoprire tutto di Alessandra nel suo sito www.alessandraborin.it e soprattutto a seguire la sua nuova rubrica che aprirà anche ai lettori di VicenzaPiù Viva.

Le immagini di questo articolo sono state scattate da Marco Chierico.

 Ritratti d'artista

Fin dalla fondazione, il 7 aprile 1880, in 144 anni sono state realizzate grandi opere e importanti infrastrutture, portando l’eccellenza italiana nel mondo e affrontando sfide audaci con progetti che hanno spesso superato i confini nazionali. Dai primi decenni sono stati costruiti ponti, strade, ferrovie, dighe, porti, gallerie, metropolitane, con impegno costante verso la qualità e l’innovazione. Un patrimonio di esperienza e competenza che proietta Condotte 1880 verso nuove sfide.

In foto: Spostamento dei Templi di Philae, Egitto

Livio Pacella, un artista libero mai dimentico del teatro, della poesia e della musica

L’attore vicentino sta andando forte sul piccolo schermo, dove è l'informatore

all'osteria dell'ispettore Stucky (Rai 2) e un usuraio senza scrupoli nella fortunata serie La vita di Lidia Poët (Netflix) . Al cinema nel 2025 sarà con Chris Pine

ne Il rapimento di Arabella, di Carolina Cavalli

Quando si tratta di artisti, quelli veri, quando al centro non ci sono notorietà e autocelebrazione ma l’arte, quella vera, intesa come sentimento naturale prima ancora che talento, non si può parlare semplicemente di intervista. Durante l’incontro con Livio Pacella, attore ma soprattutto artista, è nata con grande spontaneità una conversazione piacevole, reciproca, amichevole, arricchente. E divertente. Davanti a un caffè americano -ordinato, con sorpresa di entrambi, all’unisono- non la giornalista e il personaggio, ma due persone con la loro umanità; al centro del discorso, non tanto un curriculum, quanto visioni. Ha punti di vista precisi Pacella, infatti, ma resta anche un fantastico visionario, un ribelle dei cliché.

Anche se, in particolare da quando è cominciata a grandi falcate la sua carriera televisiva e cinematografica, oggi è soprattutto della recitazione e del volto di Livio Pacella che si parla, costringerlo dentro la definizione di attore è non solo difficile, ma profondamente sbagliato. Regista, drammaturgo, sceneggiatore, pedagogo teatrale, direttore artistico, conduttore ra-

diofonico, poeta… Livio è stato ed è un po’ di tutto (e anti-tutto), purché l’ispirazione gli parta da dentro e si traduca in passione. Poliedrico? Il termine non gli rende giustizia: a me personalmente suona come qualcuno che prova di tutto un po’. Livio no. Livio ci si butta in quello che fa, è che semplicemente è bravo (ma lui non lo direbbe mai) a fare tante cose ed è aperto a nuove esperienze che siano di crescita personale ancor prima che professionale.

Sui giornali è spesso definito semplicemente come 'attore vicentino' (che era il motivo principale per cui lo avevamo contattato per questa rivista), ma anche qui c’è

da discutere… L’irrinunciabile pizzino anagrafico di Fazio ne Il Commissario Montalbano reciterebbe così: nato a Taranto il 29 settembre 1976, trasferitosi a Camisano quando era in prima elementare e dalla maggiore età stabilitosi a Vicenza città, si dedica agli studi classici e si laurea col botto in filosofia, a Padova. Ma Pacella, che quando serve ha anche il dono della sinteticità, riassume con “mi sento assolutamente apolide”. Facile ribattere che la sua casa è il mondo: no, la sua alcova, ovunque vada, è l’arte, perché “l’anima te la porti sempre dietro”. Non è questione di non avere radici, piuttosto di non avere padroni e infatti

Federica Zanini
 Livio Pacella, attore vicentino, predilige i ruoli da cattivo perché "in fondo, sono i più interessanti"
 Ritratti d'artista

 Livio Pacella ha lo sguardo altrove, fa tesoro di ogni esperienza ma è sempre pronto a nuove avventure, per "crescere come uomo, non solo come artista"

si premura subito di spiegare che lui è un artista “freelance, per scelta”, tanto free da potersi permettere di sperimentare tutto. Ed è quello che fa fin da giovincello, accumulando esperienze, crescendo come uomo. Inizialmente si dedica quasi esclusivamente al teatro, nelle forme più disparate, da quello recitato a quello diretto, fino a quello insegnato, passando sempre attraverso la sperimentazione.

A 33 anni, a Vicenza, è direttore artistico del Festival Teatrofuturo, fortunato laboratorio, organizzato dall’omonima associazione e Theama Teatro, che porta in città i migliori nomi della ricerca teatrale italiana e si conclude con una maxi performance in piazza dei Signori, dal titolo Non è un teatro per vecchi. Poi la sua relazione amorosa con il teatro (o per meglio dire con i teatri) in genere entra in crisi profonda: in un mondo utopistico, o forse semplicemente migliore, all’artista dovrebbe essere concesso di dedicarsi anima e corpo all’arte, con purezza. Il backstage fatto di conti e conteggi, codici e codicilli, regole e cavilli alimenta la delusione di Livio verso qualsiasi tipo di attività teatrale. Pacella, per cinque anni, entra nella sua fase di “poeta maledetto”, come si autodefinisce.

Poi che succede? Come approdi dal palcoscenico allo schermo?

«Una coppia di amici registi di Roma (ndr: Giulia Brazzale e Luca Immensi) mi chiede di scrivere la sceneggiatura di quello che non sapevo ancora sarebbe stato il mio primo film come protagonista: Le guerre horrende (con l’H perché è una citazione cinquecentesca di Guicciardini)». Letto lo script della favola noir surreale e paradossale, liberamente tratta dall’omonima commedia teatrale di Pino Costalunga, i registi decidono che è tagliato su misura per Livio, che così da dietro la telecamera passa anche dietro il ciak. A questo punto, a Roma un agente che stava mettendo in piedi la sua agenzia lo nota e gli propone un contratto. La porta di televisione e cinema si schiude. E Pacella non resta certo sulla soglia…

Al contrario, e oggi spara una tripla cartuccia di novità sul piccolo e grande schermo. Mentre andiamo in stampa, su Netflix debutta la nuova stagione de La legge di Lidia Poët (impersonata da Matilda De Angelis, nei panni della prima donna italiana a essere entrata nell’Ordine degli Avvocati), produzione italiana più vista nel 2023 e nello stesso anno vincitrice del Nastro d’Argento per la miglior serie crime. In un episodio Pacella interpreta un usuraio spietato, dai metodi di riscossione brutali. Quando gli chiedo se preferisca i ruoli da cattivo o da buono, Livio risponde che lo cercano perlopiù per i primi e che ne è felice, perché “sono decisamente i più interessanti”.

Su Rai 2 invece esordisce la nuova serie poliziesca Stucky (da leggersi con la U), ambientata in Veneto e basata sui romanzi di Fulvio Eras, il cui protagonista è un ispettore qui interpretato da Giuseppe Battiston. Livio sarà il suo informatore sui generis: un habitué dell’osteria, cui nulla sfugge. E anche il tema osteria mi costringe a una bellissima parentesi: in passato Livio usava ritrovarsi in compagnia all’Antica Osteria Trastevere, in zona Ponte degli Angeli, che ora non c’è più “perché era troppo bello per essere vero”. Negli anni i suoi uffici sono sempre stati non convenzionali, come lui. “Quando il pub ha chiuso -racconta- i miei amici e io non ci rassegnavamo e abbiamo fondato una radio web (ndr: Radio Zonkie, che per chi se lo sta chiedendo è un animale a metà tra l’asino e la zebra) per ritrovare quell’atmosfera. “Ma anche perché a Vicenza mancava una radio pirata”. Rieccolo il ribelle.

Dai, noi dovremo aspettare il prossimo anno per vederlo, ma per te è già tempo di meritati festeggiamenti: parlaci del tuo nuovo film.

«Con Carolina Cavalli (ndr: regista milanese già nota per Amanda, successo di pubblico e critica) abbiamo appena finito di girare, tra il Veneto e Ferrara, Il rapimento di

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Arabella, in cui io interpreto l’autista di un gangster». Che nientepopodimeno è Chris Pine, celebre attore hollywoodiano protagonista tra l’altro del reboot di Star Trek, figlio d’arte (suo padre è Robert Pine, per i boomer come me il sergente Getraer di Chips, serie fortunatissima di quando non esisteva ancora lo streaming). Accanto a lui un cast d’eccellenza, che include anche Benedetta Porcaroli e il “nostro” Pacella.

La settimana scorsa il tuo cortometraggio Mosto ha vinto il primo premio al FIPILI Horror Festival di Livorno (e tu quello di miglior attore), ma raccontaci come è andata con il grande cinema?

«Quello delle produzioni cinematografiche è un mondo difficile (ndr: e io sento nelle orecchie le note di Nino Carotone, altro che boomer, sono cariatide), ma questo ultimo anno è stato bellissimo, stimolante e divertente»

E adesso? Mica vorrai riposarti, vero?

«Per carità, non sia mai. A giorni sarò sul set della serie tv Portobello, dedicata a Enzo Tortora (interpretato da Fabrizio Gifuni), per la regia di Marco Bellocchio, in cui il mio sarà il ruolo di un poetico carcerato. Contemporaneamente stiamo lavorando per mettere in scena, nel 2025, una produzione degna di questo nome, con un debutto in grande stile, de I crolli di Shakespeare, testo inedito di Vitaliano Trevisan (ndr: icona culturale vicentina, con cui Pacella è cresciuto, teatralmente parlando) affidatomi dalla sua stessa compagna e di cui ho dato un assaggio lo scorso autunno a Villa Albrizzi Marini di San Zenone degli Ezzelini. Devo dire che lavorare sugli scrit-

ti di Trevisan è per me un grande onore, ma al contempo anche una vera e propria avventura, perché i suoi sono testi molto intensi e quindi anche in qualche modo pericolosi. Al loro cospetto l’attore deve annullarsi per lasciarli protagonisti assoluti. Seppure l’aver conosciuto molto bene Vitaliano mi regali una certa disinvoltura, non ne trascuro le insidi»

Che cos’è più stimolante? Il teatro o lo schermo? «Il teatro -non quello di cui si è nutrita in passato l’Italia con i grandi caratteristi, impostati, compresi e sovraccarichi- è dentro di me, ma questa nuova avventura mi ha insegnato tanto. Ho imparato per esempio che il tipo di recitazione richiesta sul palco e davanti alla telecamera è diversissimo. In teatro sei un corpo qui e ora, con cui devi magnetizzare il pubblico davanti a te, senza l’ausilio dei primi piani e devi ricorrere a un’energia esuberante per farlo, il che si traduce per forza in una performance irreale. Sul set, invece, la parola d’ordine è togliere. Eliminare ogni sovraccarico, non pensare. Devi essere immediato, naturale, come un musicista che suona senza guardare lo spartito». E anche qui scatta l’inciso: Livio ha da sempre un rapporto fortissimo con la musica, che porta anche nei suoi spettacoli: «La poesia è nata per essere musica»

Non togliamogli il gusto di definirsi maledetto, ma averlo come concittadino questo poeta mi pare più che altro una benedizione.

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 Livio Pacella si definisce senza alcun dubbio apolide, perché "l'anima ce la portiamo dentro", non importa dove

Indiana Jones nella Casa del Grande Fratello .

L'incredibile storia di Aristide Malnati, papirologo di fama mondiale e protagonista di tre Reality

Virginia Reniero

Un Indiana Jones, che si è formato in Università prestigiose (Milano, Zurigo, Strasburgo), che ha condotto scavi in Egitto e che poi, dopo un percorso tortuoso ma con una certa logica, ha varcato la porta rossa della Casa del Grande Fratello.

Aristide Malnati, milanese di 60 anni, ne ha da raccontare, alternando i misteri delle Piramidi e le tresche alla corte dei faraoni alle liti per futili motivi nella Casa più spiata d'Italia.

«Liti a cui non ho mai partecipato, ma solo assistito con distacco british. Mai neanche una banale parolaccia in tre mesi di GF. E nemmeno durante gli altri Reality».

Sì perché oltre al GF ne hai fatti altri due, giusto?

«Non mi sono fatto mancare niente: prima L'isola dei famosi (2016), poi appunto Grande Fratello (2020) e infine La Pupa e il Secchione (2022): 6 mesi davanti all'occhio impietoso delle telecamere, sommando le tre esperienze»

Un percorso affascinante, il tuo, ma fortemente insolito. Ma procediamo con ordine. Inizi da Ramses e Cleopatra, o più precisamente dallo studio dei papiri.

«Precisazione doverosa. Io sono un Papirologo greco non un Egittologo. Non leggo i geroglifici, ma i documenti e i testi letterari scritti nella

lingua di Platone. Perché appunto l'Egitto, che grazie al clima secco del deserto è quasi l'unico posto al

mondo ad aver conservato fragili papiri, è stato conquistato da Alessandro Magno (332 a. C.), è diventa-

Virginia Reniero, nata a Vicenza, è appassionata di viaggi e arte. Ha conseguito una doppia laurea di impronta economico-turistica studiando tra Verona, Bicocca di Milano e Mosca. Dal 2014 collabora con l'archeologo Aristide Malnati per "Storia e Misteri" come autrice e co-conduttrice e con lui ha scritto I mille volti d’oriente. Modella e amante degli animali, vive con Renée, cucciola di Péinscher, reincarnazione del dio Anubi. Dipinge e adora i viaggi avventurosi.

Storia

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to Regno macedone sotto i Tolemei e in seguito in esso, passato sotto Roma dopo la sconfitta di Cleopatra e Marco Antonio ad Azio (31 a. C.) il greco, l'inglese dell'epoca, continuò a essere lingua ufficiale».

Affascinante! E sotto le sabbie di questi antichi villaggi cosa avete scoperto?

«Un mondo. La vita quotidiana dell'epoca: attrezzi agricoli, strumenti di lavoro, stoviglie in terracotta, anfore, vasellame, monete anche con il volto di Cleopatra (che era bruttina), mummie anche di coccodrillo, stoffe, giochi per i più piccini come dadi o trottole, senza dimenticare strumenti per il trucco e gioielli per le giovani fanciulle in fiore o per matrone più attempate. E, infine, i preziosi papiri».

Ecco, citami quello più importante trovato da te.

«Trovato dai nostri formidabili operai, erano loro a eseguire manualmente lo scavo. Io li decifravo,

"Storia e Misteri", da Telenova a VicenzaPiù Viva

"Storia e Misteri" diventa una rubrica per il nostro giornale. Il fortunato format, condotto da Virginia Reniero e Aristide Malnati su Telenova (Canale 18 del Digitale terrestre in Lombardia, Piemonte orientale e Canton Ticino), racconterà ai nostri lettori i viaggi avventurosi dei due giornalisti reporter: viaggi che Reniero e Malnati hanno fatto tra imponenti vestigia storiche, di cui hanno indagato i segreti più misteriosi, e spettacolari scenari naturali, dai ghiacciai alpini alla giungla del Sud est asiatico. Itinerari inconsueti ed estremi, raccontati con pathos e aneddoti incredibili e corredati sempre da immagini accattivanti.

Storia e misteri
 Costanza De Simone e Aristide Malnati
 Aristide Malnati a Douch, oasi di Kharga in Egitto
 Papiro greco di filosofia stoica che cita Socrate scritto attorno al 200 a. C.

insieme ad altri colleghi (siamo sul sito di Tebtynis, a 90 km sud-ovest del Cairo). Il più importante, dunque... Sicuramente un ampio frammento di quasi mezzo metro di un'opera della prima filosofia stoica, scritta forse da Zenone di Cizio o da Cleante. Un testo che parla degli 'Indifferenti', enti che sono importanti dal punto di vista pratico ma di nessun peso morale, come il denaro o la buona salute. E sai a un certo punto del testo chi viene citato, come maestro insuperabile di virtù?»

Chi?

«Niente meno che Socrate, il più grande filosofo della storia. Immaginati l'emozione nel leggere il suo nome».

Da Socrate, appunto, al GF. Un miracolo di comunicazione.

«Miracolo fino a un certo punto. Perché anche al GF o all'Isola intrattenevo i miei compagni di avventura televisiva con aneddoti su Platone o su Nefertari, la più bella tra le mogli del faraone Ramses II. Paragoni tra mondo contemporaneo e civiltà antiche, che poi era stata un'idea di Alfonso Signorini»

Perché Alfonso? Spiega che sono curiosa.

«Era il mio compagno del primo banco al Liceo classico Omero di Milano. Pensavamo solo a studiare e divo-

rare i classici della letteratura. Ebbene lui mi coinvolse nel Signorini Show, su Radio Montecarlo dal 2006 al 2014, e mi spinse a paragonare i vizi e le virtù di oggi con le stesse cose di 2-3000 anni fa. Sai che già Nerone faceva cene eleganti nella Domus Aurea? Hanno trovato circa 15 anni fa la 'coenatio rotunda', la tavola girevole dove l'Imperatore si at-

tovagliava con la sua corte dei miracoli».

E adesso non ti fermi più. Giriamo il mondo insieme, ormai da quasi dieci anni.

«E' vero. Per Storia e Misteri, la nostra trasmissione sui misteri della storia e sui grandi scenari naturali, siamo stati in posti incredibili. Da Palawan, la paradisiaca isola delle Filippine (dove DiCaprio ha immaginato il film The Beach, che poi ha girato a Phuket in Thailandia e noi siamo stati anche lì), fino ai templi di Angkor in Cambogia (secondo alcuni costruiti dagli extraterrestri quando c'erano i dinosauri); dal parco con il drago di Komodo (Indonesia) al parco di Maerim, nel Nord Thailandia, a fare il bagno con gli elefanti selvaggi. Senza dimenticare gli obelischi delle moschee e i mercatini con le spezie di Muscat (Oman) o addirittura il Santo Sepolcro di Nostro Signore a Gerusalemme (ma quella è un'esperienza che merita un'intervista a sé). E dopo che i nostri viaggi in Oriente sono diventati un libro (I mille volti d'Oriente, Giraldi Editore), adesso Storia e Misteri diventa una rubrica a nostra firma su questa testata. Sei pronta per partire di nuovo?»

Storia e misteri
 Aristide Malnati alla mostra Il rinascimento a Ferrara, a palazzo dei Diamanti a Ferrara
 Aristide Malnati al Grande Fratello

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Magia della Thailandia tra antichi templi e giungla immacolata .

Il Nord della Thailandia: tra misteriosi santuari buddhisti e gli elefanti selvaggi arrivando fino al Mekong, il fiume della guerra del Vietnam

Il grosso bimotore scende verso la pista, fendendo la coltre di umidità che avvolge la pianura sottostante. Chiang Mai nel Nord della Thailandia ci accoglie con un traffico già vivace pur essendo l'alba: arrivati freschi freschi dall'Italia (con cambio aereo in rapida successione all'aeroporto di Bangkok) facciamo fatica a entrare nell'ottica di guida all'inglese che contraddistingue numerosi Paesi del sud est asiatico, retaggio di un passato british ormai sbiadito.

Il resort Aleenta non è distante dall'aeroporto, in un'area lussureggiante; un'oasi sufficientemente asettica, protetta da piccole distese di palme e alberi tropicali, un gioiello di quiete all'interno di un quartiere a casupole basse. L'ingresso nella sala yoga, in legno di teak ammantata di fragranze speziate, è un invito al viaggio, a un viaggio mentale, manna per i nostri corpi ancora scombussolati dal viaggio fisico sorvolando due continenti. Il corpo snodato della giovane insegnante ci conduce nella pratica antica dello yoga con posizioni inizialmente difficili ma che poi si rivelano benefiche. Questo primo approccio al benessere cancella gli sbalzi del fuso e ci consegna alla sera fresca di Chiang Mai. Cogliamo l'occasione del Night Market, occasione obbligata visto che è un appuntamento che si tiene solo la domenica, il giorno del nostro arrivo, e noi la domenica successiva saremmo già stati altrove. Bancarelle illuminate con prodotti un po' prevedibili: il vociare confuso di idiomi incomprensibili ci ricorda che siamo in estremo Oriente, ma le merci, ammassate in spazi angusti, potrebbero figurare anche in suk arabi o in centri commerciali latino americani. Non molto stimolante, parecchio ripetitivo, ad iniziare dall'offerta gastronomica di cibi fortemente speziati e al nostro gusto tutti abbastanza simili. Per finire in bellezza la prima giornata thai optiamo per una pedicure con tanto di stimolazione podale impartita da mani esperte, questo sì, in un bugigattolo striminzito e maleodorante. Ma Chiang Mai e in generale la Thailandia del Nord è la regione della spiritualità con antichi santuari buddhisti che

si stagliano negli imponenti scenari di fiumi e fitte foreste. Inizialmente non andiamo tanto lontano: dieci minuti a piedi dal nostro hotel e arriviamo al complesso religioso di U-Mong, tra alberi di grosso fusto, una piccola giungla di città. Un labirinto di corridoi appena rischiarati dalla fioca luce delle fiaccole; ogni corridoio sfocia in una nicchia, antri con al centro la statua di Buddha nelle classiche posizione della meditazione e del fiore di loto.

A proposito di meditazione non ci facciamo mancare il "meditation walking", un lento andirivieni all'aperto sotto una statua imponente lungo un percorso lastricato, seguendo la nostra maestra yogi nella sua andatura cadenzata che ci permette di "ascoltare" il movimento dei piedi

 Aristide e Virginia all'interno di una nicchia con statua di Buddha nel tempio di U-Mong, a Chiang Mai

dal tallone ai diti. Tuttavia i santuari più sacri sono fuori Chiang Mai, non distanti ma già immersi nella giungla più oscura. Iniziamo da Doi Suthep, alle prime luci dell'alba in tempo per ascoltare le preghiere dei monaci, intense litanie nella sacralità del chedi, l'ambiente più santo dell'intero recinto.

Canti rituali che ci accompagnano durante l'ascesa dei 300 gradini della struttura. Una sensazione mistica, un'esperienza profonda, ma anche colorata: ogni settore ha un cromatismo diverso, ogni colore ha un suo preciso rimando simbolico. Un'esperienza che si conclude con l'irrinunciabile e benaugurante benedizione dei religiosi, che serve loro anche per raccogliere le offerte di cibo dei pellegrini schierati in preghiera. Ma il tempio per veri Indiana Jones è il tempio segreto nella giungla, non molto distante, ma già perduto nel mare verde della vegetazione. E' la

zona più selvaggia, a volte anche la più pericolosa. Lo capiamo bene quando un attendente dei religiosi ci raggiunge trafelato e in lingua thai, semisconvolto, indicando un grosso albero a 20-30 metri da noi, dice qualcosa di "shoccante" alla guida. Guida che impallidisce e prontamente traduce: "C'è un pitone di oltre 5 metri che dorme sotto quell'albero".

Non una parola di più, ma alla frase subito segue il movimento deciso e silenzioso in direzione opposta. Con una simile ansia e un po' incoscienti visitiamo nel dettaglio la costruzione sacra, i suoi cortili e i suoi ambienti, attraversati da ruscelletti, coperti da muschio e vegetazione e delimitati da scalinate logore e da passamani a forma di serpenti, di pitoni con grosse spire (e capiamo il perché...).

Ma la giungla vera arriva il giorno successivo. Con un robusto 4x4, lasciata la carreggiata che abbiamo percorso per 35 km da Chiang Mai

tra piantagioni e sparute fattorie, ci addentriamo nella foresta vergine. Non tanto, pochi chilometri di strada sterrata, ma basta per essere in una sorta di "Lost World", di mondo perduto, dove la natura la fa da padrone. L'Elephant Sanctuary di Maerim è un gioiello per rispetto degli animali e per ecosostenibiltà: non ce ne sono molti così e l'abbiamo scelto dopo accurata ricerca su guide e soprattutto in rete. Gli elefanti, 7 pachidermi, gravitano in un'area circoscritta ma naturale, da dove escono più volte al giorno, perché - va detto - non sono in cattività.

E, dopo un antipasto a base di noci di cocco che spezzano come se fossero grosse uova al cioccolato, i bestioni si inoltrano nella vegetazione più intricata, seguendo un istinto che rivela loro un percorso abituale. Il cammino dei grossi mammiferi lascia tracce visibili di un passaggio burrascoso e interrotto ogni volta

 Storia e misteri
 Virginia davanti al laghetto posto difronte all'entrata del Tempio bianco
 Tempio blu vicino a Chiang Rai. Si distingue parte del grosso drago che svolge funzione protettiva

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 Una ragazza con il collo lungo (fatto crescere artificialmente tramite grossi anelli) per una forma di superstizione (si pensa che allontani le tigri)

che hanno fame: con la proboscide divellono grandi quantità di arbusti e di fogliame, decine di chili di vegetale che servono per il loro lauto pasto quotidiano. Poi giungono all'ansa dell'ampio e, in quel punto, placido torrente e si tuffano senza esitazione, per rinfrescarsi (spruzzandosi l'un l'altro) e ovviamente per bere. E noi con loro, dando vita a un felice connubio tra uomo e natura.

Con un ruvido guanto li aiutiamo a liberare la spessa epidermide dai parassiti e loro gradiscono, innaffiandosi e innaffiandoci contenti; e completano l'operazione di spulciamento grattandosi lungo la corteccia degli alberi una volta usciti dall'acqua. Lasciamo Chiang Mai, antica e venerata capitale del Regno Lanna durante il medioevo, e ci dirigiamo a Chiang Rai, altra città storica della stessa civiltà, con grandi esempi di edifici sacri. Il primo di questi è il più celebre, una meraviglia imperdibile, il Tempio Bianco, esempio lampante di come sia oggi la religione buddhista e di come la sua portata spirituale venga comunicata al mondo. In una frase: qui la trascendenza diventa uno scatto per Instagram. Con il White Temple il simbolismo sacro del Buddhismo ha trovato una forma concreta che sarebbe molto piaciuta a Walt Disney e che ricorda il mondo dei ghiacci di Frozen. La sago-

ma fosforescente nelle giornate più terse lancia intense luminescenze al visitatore o al fedele che si avvicina e gli comunica un'idea di candore e di purezza. Era infatti questo il principale obiettivo di Chalermchai Kositpipat, l'archistar che nel 1997 ha completato la prima versione del grande santuario. Un intrico di guglie e pennacchi, di tetti spioventi e cornicioni con fregi che ricordano vagamente quelli della Grecia classica, scalini luccicanti con corrimani a forma di draghi o serpenti, che esprimono un sovraccarico di simbologie a mostrare la complessità dell'universo e dell'umana esistenza. E poi c'è l'aspetto più contemporaneo, quello della comunicazione soprattutto ai più giovani.

Come? Rendendo il tempio un must per Instagram.

Sì perché è il regno indiscusso delle più avvenenti e famose influencer asiatiche, che lo mitragliano di scatti fotografici, orientando i bastoni per selfie per riprendersi in pose studiate al millimetro. Una recente esistenza, quella del Tempio bianco, contraddistinta oggi da critiche verso chi lo vuole rendere terreno del business, laico e spietato, dei social e dei tour operator. Poco distante la storia non cambia, soprattutto non cambia lo stile di comunicazione. Eccoci al Tempio blu, a 15 km dal precedente (costruito dallo

 Tempio buddhista di Doi Suthep, vicino a Chiang Mai. Momento di preghiera dei monaci nel chedi, la parte più sacra dei templi buddhisti

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stesso architetto nel 2005 pur con uno stile più classico): anch'esso lega la sua potenza espressiva a un colore ben preciso. Cogliamo appieno la santità emanata dalla magnifica statua del Buddha, ricoperta da foglia d’oro al centro della sala principale. Anche qui il simbolismo abbonda. Lo schema di toni blu rappresenta la saggezza del Buddha (il bianco era la purezza), mentre le forme più intricate rimandano alla difficoltà del percorso verso l’illuminazione. Il nome, poi, Wat Rong Suea Ten, si traduce come “tempio della tigre danzante” e ha anch'esso una forte valenza allusiva, legata alla forza e al potere. Una costruzione che affascina per i rimandi arcani, dal fiore di loto, che rappresenta l'illuminazione, al terribile Naga,

un serpente mitologico creduto proteggere l'universo con i templi

buddhisti al centro. La spiritualità, poi, lascia spazio alla natura. Proseguiamo ancor più verso nord, nel cuore della pianura del Mekong, dove fitte piantagioni si susseguono generose di frutti tropicali lungo brevi corsi d'acqua che convergono tutti nel grande fiume. Il Mekong, il fiume della guerra del Vietnam, per un breve tratto dei suoi 4880 km separa la Thailandia dal Laos, solcato da lunghe imbarcazioni che fanno la spola tra animati villaggi. Ci siamo fermati in uno di questi, Chiang Saen: persone semplici, sorrisi spontanei tra mercatini e templi variopinti. Questa immagine dolce riassume un viaggio, che è stato viaggio degli occhi, ma soprattutto viaggio dell'anima.

 Attraversamento di un torrente
 Il fiume Mekong che divide Thailandia e Laos visto dal villaggio
 Elefanti selvaggi nel torrente nella giungla vicino al Maerim Elephant Sanctuary
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Praia a Mare: spiagge e borghi montani, buon cibo e movida

La perla della Riviera dei Cedri riscoperta non per i veleni della Marlane

Marzotto: anche quando il bagno a mare è sconsigliato, si può fare affidamento sulla vicinanza ai borghi montani per attività invernali, tra cui sci ed escursioni

Andrea Polizzo

Il mare, certo. Soprattutto. Ma anche la montagna, che dista pochi chilometri. Bellezze naturali e monumenti religiosi. E poi movida e buon cibo. Praia a Mare, una delle perle della Riviera dei Cedri in provincia di Cosenza, è una località che offre molteplici soluzioni ai visitatori. Ecco allora qualche informazione utile ai lettori vicentini che probabilmente ne conoscono il nome per la triste vicenda dello stabilimento tessile “Marlane” che fu del Gruppo Marzotto.

Un po' di Storia

Praia a Mare è un comune relativamente giovane, essendo stato borgo marinaro del centro montano di Aieta, dal quale si distaccò nel 1928. Anticamente il suo territorio era identificato, appunto, come Praia d'Aieta, derivante a sua volta da Plaga Scalvorum per via della funzione svolta di punto di approdo (plaga, spiaggia in greco) per il traffico di uomini (Sclavorum, “degli schiavi” in latino). Nella scelta del nome della nuova entità amministrativa rimase Praia, al quale venne aggiunto... il mare.

Praia a Mare: cosa vedere?

Nomen omen: Praia a Mare, non a caso, è nota soprattutto per le sue

spiagge e i suoi stabilimenti balneari. In particolare, Capo da Rena, spiaggia in località Fiuzzi sulla quale sventola la Bandiera Blu della Foundation for environmental education (Fee) e preservata dal fenomeno dell'overtourism da un regolamento comunale che vieta ombrelloni, sedie e gonfiabili sull'arenile più ambito per via della presenza a pochi metri di “Dino”, la più grande isola calabrese.

L'Isola Dino è meta irrinunciabile per via delle grotte, formate dall'erosione marina lungo i fianchi che presentano strapiombi alti oltre 80 metri, e dei fondali che la circondano e che ospitano praterie di Posidonia e Gorgonie.

Altra attrazione è la grotta naturale all'interno della quale sorge

il Santuario della Madonna della Grotta, patrona di Praia a Mare, situata nella collina che protegge l'abitato. Vanta una storia secolare, lunga da raccontare in questa sede, nella quale si narra di marinai turchi, di un capitano cristiano, di un pastorello muto, di superstizione, miracoli, fede e devozione religiosa. Tutto, celebrato il 15 agosto di ogni anno, con la statua della Vergine con bambino che per tre giorni viene condotta in processione per le strade di quello che un tempo era il borgo marinaro. Particolarmente suggestiva è la processione di barche per mare che, partendo dall'Isola Dino, approda nel punto della spiaggia praiese in direzione del Santuario, dove infine la Madonna fa ritorno.

 Praia a mare, l'isola Dino

Inoltre, soprattutto nei mesi estivi, Praia a Mare è affollato luogo di movida giovanile per la presenza di discoteche e locali pubblici disseminati lungo e nei pressi del cuore pulsante della cittadina: il Viale della Libertà.

L'offerta di intrattenimento, tuttavia, non disdegna la cultura grazie ad alcune manifestazioni consolidate negli anni. Tra esse, la rassegna “Praia a Mare con...”, il salotto culturale in Piazza Italia al quale, nei suoi 17 anni di vita, hanno seduto tra i maggiori filosofi, scrittori e personaggi della culturale nazionale. Da segnalare anche Prajazz, rassegna di musica jazz ad ingresso gratuito (9 edizioni), con concerti dal vivo in piazza Luigi Sturzo.

state avviate vinificazioni in purezza e che nella zona del Tirreno cosentino annovera tre DOC: Verbicaro rosso, Verbicaro rosato e Verbicaro rosso riserva, ricompresi nella denominazione Terre di Cosenza DOC.

gere Praia a Mare dopo essere atterrati all'aeroporto Internazionale di Lamezia Terme o a quello di Salerno - Costa d'Amalfi. In entrambi i casi, bisogna però mettere in conto un trasferimento di circa due ore. Tolto questo, il prezzo vale la candela!

Quando venire a Praia a Mare

La sua storia di località balneare, pionieristica nel settore turistico calabrese, fa sì che il periodo migliore per visitarla sia l'estate. Un consiglio spassionato: il mare di giugno e settembre è imbattibile! Ma anche quando il bagno a mare è sconsigliato, si può fare affidamento sulla vicinanza ai borghi montani per attività invernali, tra cui sci ed escursioni.

Cosa mangiare e bere a Praia a Mare

La cucina locale è fortemente determinata dalla geografia, essendo Praia a Mare incastonata tra mare e monti, oltre che influenzata dalle vicine Basilicata e Campania. Per questo motivo, qui è possibile soddisfare il palato dei più golosi, tanto con piatti di pesce quanto con quelli derivati dalla tradizione contadina. Una citazione su tutte la meritano le Alici chine (ripiene). In senso generale, inoltre, sono da provare i piatti a base di ortaggi e, nel pieno rispetto della tradizione culinaria calabrese, tutte le pietanze che prevedono il condimento con il peperoncino locale utilizzato, a queste latitudini, praticamente ovunque. In riferimento ai vini, a farla da padrone è il Magliocco Dolce, vitigno del quale, da qualche tempo, sono

Come arrivare a Praia a Mare Volendo essere pignoli, ha il neo di non essere facilmente raggiungibile. Discretamente collegata col resto dello Stivale grazie alla stazione ferroviaria, raggiungerla su gomma prevede un po' di pazienza: lungo l'autostrada del Mediterraneo, la mitologica Salerno – Reggio Calabria, le uscite più comode distano qualche decina di chilometri di strada provinciale. Sia in treno che per strada, è inoltre possibile raggiun-

Praia a Mare è infatti in posizione privilegiata di un territorio che comprende le altre rinomate località turistiche della Riviera dei Cedri come Scalea, Diamante, San Nicola Arcella, Tortora, Santa Maria del Cedro, Belvedere Marittimo e la “Perla del Tirreno” Maratea, nella confinante Basilicata, oltre che impianti sciistici situati sul vicino Monte Sirino, e caratteristici borghi e aree naturali ricadenti nel Parco Nazionale del Pollino, il parco nazionale più grande d'Italia, patrimonio mondiale Unesco (del quale proprio Praia a Mare rappresenta l'avamposto costiero, ndr). Solo per citare i borghi più vicini: Aieta, Orsomarso, Buonvicino, Castrovillari, Civita, Grisolia, Laino Borgo, Laino Castello, Lungro, Maierà, Mormanno, Papasidero, Sangineto, San Sosti, Sant'Agata di Esaro, Santa Domenica Talao, Tortora e Verbicaro.

 Praia a mare, il santuario della Madonna della Grotta
 Gorgonie

Oasi Rossi di Santorso: viaggio nella natura tra farfalle tropicali, fiori, piante e animali

Partendo da Vicenza, si arriva in auto fino a Santorso e si trova facilmente il parcheggio dell’Oasi Rossi, aiutandosi con google maps. Quando si sta per entrare nel parco, si ha subito l’idea che si farà un’esperienza naturalistica nuova e straordinaria. L’entrata è quella di una bella fioreria, ma poi ci si immerge in qualcosa di impensabile.

Una serra riproduce il clima caldo umido tipico delle aree tropicali del nostro pianeta. All’interno vi si trovano piante tropicali, cascate, laghetti e pesci. Ma la sorpresa più grande è quando iniziano a volare intorno a noi le coloratissime farfalle tropicali. Libere, in questo ambiente adatto a loro, di sostare sui sentieri, di mangiare frutta come mele e arance, di volare sopra le cascate o di appoggiarsi sulle piante. Alcune si appoggiano anche sui capelli o volano davanti al viso. La sensazione è di volare assieme a loro. Il giardino tropicale è una iniziativa sorta 25 anni fa e rientra tra i diversi progetti che la cooperativa si è “inventata” per qualificare e valorizzare l’Oasi Rossi, dove da ormai quaranta anni svolge la sua attività..

La più estesa area protetta d’Italia dedicata alle farfalle

La serra climatizzata di oltre 1200 mq offre al visitatore la possibilità

di avvicinarsi a numerose farfalle che volano libere. Le crisalidi sono di specie originarie da diverse parti del mondo (Malesia, Uganda, Filippine, Ecuador, Costa Rica, dove grazie al loro allevamento divengono fonte di una economia locale di piccoli villaggi che oltre ad allevarle hanno il conseguente interesse di mantenere integro e la dove possibile ripristinare ampie zone di foresta tropicale e pluviale. Il giardino tropicale, così come l’intera oasi , è curato dalla Cooperativa Sociale Nuovi Orizzonti- Onlus che offre il suo lavoro, il suo entusiasmo e la sua competenza.

Gli altri animali

Nel giardino non ci sono solo farfalle tropicali. Nei laghetti si possono scorgere alcuni esemplari di tartaruga californiana dalla guancia

rossa e numerosi pesci rossi. Sono poi presenti alcuni uccellini tropicali: diamanti mandarini, diamanti del Gould, canarini e tortore.

Il progetto Voglia di Volare

Il progetto “Voglia di Volare” è nato nel 1998 per avvicinare al mondo delle farfalle tropicali e scoprire alcuni aspetti della loro vita, che dipende profondamente da un delicato e corretto equilibrio della gestione dell’ambiente. Le farfalle, leggere e silenziose, sembrano cogliere le particelle più minute del variegato mondo naturale, per condensarle nelle loro ali in un’armonia di forme e colori di incomparabile bellezza.

Il parco

L’immenso giardino ci accoglie coloratissimo e carico di tulipani. Si possono percorrere i vialetti a pie-

Marta
 Un'aiuola di tulipani all'interno dell'Oasi Rossi

di o con il trenino. Ci si imbatterà in fiori coloratissimi, in aiuole, in case sugli alberi, in una nave dei pirati, in laghetti popolati da germani reali, in tronchi d’albero trasformati artisticamente in personaggi o animali o matite giganti… Si tratta di un piccolo paradiso per i bambini che amano giocare all’aria aperta. Ci si imbatte poi in vari animali (tutti recintati) che fanno tenerezza: dai cinghiali alle oche, dai pavoni alle caprette, dai pony ai lama…

L’appartamento “casa in fiore” All’interno dell’oasi è presente anche un appartamento che ospita 4 persone parzialmente autonome che possono sperimentare forme nuove di autonomia in un contesto adeguato e accogliente. L’appartamento è gestito dalla Cooperativa Nuovi Orizzonti che ha unito le proprie risorse economiche al contributo della Fondazione Cariverona.

L’idea di base dell’intero progetto “Le Chiavi di Casa” è quella di differenziare a seconda del livello di disabilità le risposte abitative, in modo da stimolare l’autonomia delle persone accolte e dando risposte intermedie a persone con disabilità e difficoltà meno gravi.

La “casa” pertanto non è solo una struttura che accoglie ma anche un luogo che cerca di ricostruire una dimensione familiare in un clima di relazioni che responsabilizza e facilita autonomie o potenzialità magari ancora inespresse. L’appartamento ospita persone

con disabilità residenti nel territorio dell’ULSS N°4.

La Comunità Casa Gialla

A fianco dell’oasi si trova la Comunità Casa Gialla, una struttura che scaturisce dall’esperienza di condivisione e servizio profuso dalla Cooperativa Sociale Nuovi Orizzonti nei suoi 30 anni di presenza e di storia. Condivisone e Servizio che si sono concretizzati attraverso le attività che la Cooperativa svolge nella tensione continua di coniugare il proprio obiettivo sociale di inserimento lavorativo di persone in disagio con le esigenze di mercato e di un equilibrio economico. Queste persone e i loro operatori non sono stati accolti in una logica puramente assistenziale, ma in una competitività di mercato dove ogni persona accolta ha un suo ruolo con i suoi limiti, difficoltà e risorse.

Dove mangiare

All’interno del parco c’è un ristobar, ma nell’oasi si possono fare anche pic-nic e grigliate in compagnia!

 Oasi delle farfalle tropicali a Santorso
 Farfalle tropicali all'interno della serra

Ciu(c)a Matta, ovvero la cucina rabbiosa del riciclo

Per pigra abitudine i semplici ma evidentemente irrinunciabili du’ spaghi oppure porte aperte alla dispensa e alla… fantasia

Come tutto ciò che nasce spontaneo, che fa eco alla tradizione popolare e che incarna innanzitutto un sentimento, non è dato sapere come si scriva esattamente Ciu(c)ca Matta. Se la dicitura esatta sia ciuca, con una sola C, o ciucca con due C. Nel primo caso chiamerebbe in causa la femmina dell’asino, nel secondo una sbornia, ma il nostro simpatico neologismo non ha a che fare con nessuna delle due. O forse si. In effetti, a ben vedere, la storia che vado a raccontare si riconduce in qualche modo all’asinità e anche ai fumi, se non dell’alcol, quelli che escono dalle orecchie. Nessun dubbio su Matta: è proprio una storia di matti, che fanno diventar matti. Una storia che però ha il suo lieto (e gustoso) fine: il ritrovato senno, se non altro rispetto allo spreco alimentare.

Ok, vi ho confusi abbastanza e prima che impazziate anche voi, comincio a raccontare.

C’era una volta una famiglia molto formale in visita semi-formale, di più giorni, a una famiglia (la nostra) molto rispettosa della forma, ma nemica della formalità. Siccome a casa nostra l’ospite è sacro e la tavola ancora di più, partì con giorni di anticipo la giostra del che-cosa-cucino-che-cosa-gradiranno-mangiare. Una questione tutt’altro che amletica chez nous, visto che -tra fantasia e scioltezza ai fornelli- la risposta non si è mai fatta attendere, anzi è sempre arrivata fulminea, oltre che profumata e invitante.

Ahinoi però, quella volta è stato l’oste a fare i conti senza avventori. O almeno senza quel tipo di avventori. Ogni pasto amorevolmente preparato veniva infatti puntualmente rifiutato, con fare non abbastanza formale da camuffare la sostanziale maleduca-

zione, invocando dei semplici, anonimi ma evidentemente irrinunciabili… du’ spaghi.

Spaghi dopo spaghi, nel frigo si accumulavano gli avanzi (si potranno poi chiamare avanzi, se proprio non sono stati nemmeno assaggiati?), ma soprattutto nell’animo si accumulava la rabbia.

Finché un mattino, vagando tra le bancarelle del mercato, ecco -in un colpo solo- la fulminazione e l’ispirazione. Da una cassetta di ortaggi verdi non meglio definiti emergeva precario un cartello con scritto a mano, in maniera non perfettamente decifrabile, qualcosa che il destino volle interpretassimo come, appunto, Ciu(c)a Matta. Come questo abbia automaticamente portato a concepire il piano diabolico -che vado subito a svelare- resta un mistero, ma è probabile che quel Matta ci abbia fatto definitivamente ammattire, appunto: messa a dura prova per giorni, la no-

 Polpettine tutto quel che c'è
 Maxi gnocchi ripieni di trito di polpette al sugo, formaggio grana ed erbe aromatiche fresche

 Enogastronomia, tutti gusti

stra pazienza e anche il nostro atavico e proverbiale senso dell’ospitalità, abbiamo perso ogni freno inibitorio e meditato vendetta. Che nel nostro caso sarebbe stato un piatto (davvero, senza metafore) servito ben caldo, altro che freddo. La nostra personale interpretazione di Ciuc(c)a Matta, appunto.

Si, perché, una volta rientrate sul luogo del delitto (quello di disdegnare i nostri manicaretti), abbiamo versato in un’ampia casseruola tutto il banchetto “cortesemente” rispedito al mittente durante la settimana e relegato tristemente in frigo, abbiamo aggiunto acqua, insaporito, regolato di sale e spezie -nonché condito idealmente con un sano pizzico di rivalsa- e, infine, abbiamo frullato tutto per bene con la miglior invenzione dell’uomo, prima della friggitrice ad aria: il Minipimer. Se gli altri elettrodomestici si possono definire infatti semplici alleati, il Minipimer è un vero complice, senza il quale sarebbe difficile far riuscire la truffa di far mangiare (con gusto) quel che non era gradito. Ma non voglio spoilerare troppo. Proseguiamo la storia.

La vellutata originale (e ovviamente irripetibile) che è nata dal forse azzardato ma riuscitissimo remix culinario, una volta portata in tavola e spacciata come specialità poco nota, dall’insolito ed enigmatico nome di Ciuc(c)a Matta, non solo ha fatto scordare agli ignari commensali i soliti, venerati du’ spaghi, ma ha incontrato un altissimo gradi-

mento, tanto che… non ne è avanzata nemmeno un po’. Ci è stato persino chiesto come poterla replicare e noi: “spiacenti, ma è una ricetta segreta di famiglia”. Mica abbiamo mentito… Dopo anni ne ridiamo ancora e credo ne rida sollevato anche il frigorifero, mai più sovraffollato di cibi disdegnati da chi non è degno.

Se la ripicca ha avuto la sua bella parte, la morale della favola no, non è chi la fa l’aspetti, ma piuttosto impara

amangiarebeneevario,faispazioalla creatività e soprattutto non sprecare il cibo. E oggi che, con una figlia adolescente dimentica di come è stata svezzata e nutrita, il “nemico” non ce l’ho in visita ma “a pensione”, ogni giorno a casa mia la cucina del riciclo si conferma la più sfiziosa, la più fantasiosa e la più apprezzata. Quello che viene mangiato solo sotto minaccia o tenacemente rifiutato dalla donzella, mescolato a quanto avanzato nel frigo, segue la regola del niente muore, tutto si trasforma. Spaghetti (ancora loro, mannaggia) che tritati finiscono nella frittata, risotto che alimenta pseudo arancini, polpette al sugo che diventano il ripieno di maxi gnocchi di patate, arrosticini di agnello che si fanno protagonisti di couscous con cipolle e menta, indecifrabili ma buonissimi sughi misto tutto per la pasta, polenta a fettine per un pasticcio (ndr: lasagne per i non veneti) sui generis, pane vecchio ingrediente principe di canederli dalle vaghe evocazioni tirolesi (ma molto più buoni)… e naturalmente vellutate a gogo. E la cosa più bella è che non sono solo i commensali a gioire (l’adolescente, ciucca lei si, è riuscita a mangiarsi di gusto una ventina di polpettine Ciuc(c)a Matta!), ma ad avere soddisfazione sono sia la cuoca che l’economia domestica.

Mixate gente, mixate!

 Torta al cioccolato (avanzato dalle uova di Pasqua) e cachi
 Zuppa di pollo fatta con le ali usate per il brodo e disossate  Schiacciatina alla zucca avanzata e impastata con farina, olio e sale

’e verse in tecia ‘e spusa, ma ’e xe tanto bone . La prima delle ricette di Umberto Riva raccolte nel suo libro:

Arte culi ‘n aria

Una rubrica dedicata alla memoria di Umberto e alle sue innumerevoli “arti”, tra cui quella gastronomica

Umberto Riva

Prima della ricetta leggi la Prefazione e il glossario di Arte culi ‘n aria“. “’e verse in tecia ‘e spusa”, ma “’e xe tanto bone.

Che piatto: “verse sofega’ co ‘l coesin”. Le verze migliori? quelle che “ga ciapa’ ‘a brosema”. Il tempo delle brinate È anche il tempo del maiale, il tempo “de far su ‘l mascio”.

Il menu

Osi de mascio col cren

Costesioe ai feri

Verse sofega’ co ‘l coesin Poenta fresca e brustola’ Vin fato co ‘a mescola

Cafe fato co ‘l bacheto Graspa de contrabando voendo, un toco de putana ge staria ben

Un attentato al fegato. Ma di qualcosa si deve pur morire, e quanto sarebbe bello morire con le gambe sotto la tavola! (c’è un altro tipo di morte auspicato, ma quello è scritto in un altro libro).

Quando si “fa su el mascio” a lavoro ultimato si fa festa.

“’a sena del mascio”. Si consumano gli avanzi della lavorazione e qualcosa in più. Le ossa per il primo piatto, e poi le costole con

qualche fetta di carne ed un po’ di fegato, il cotechino. Solo un po’ di fegato che buona parte, tagliato a grossi pezzi, viene avvolto nel “radeseo” per completare lo spiedo di uccelli di qualche giorno dopo.

La siora Vittoria gestiva le operazioni.

“’a sparagagna” tagliata a meta’ per il lungo, veniva messa sulla griglia, dove, un po’ piu’ tardi, trovavano posto le fette di carne e di fegato.

Profumi paradisiaci.

Si diceva che la siora Vittoria, dalla goduria e dall’estasi, si facesse la pipi’ addosso. Le mutande di certo non se le bagnava e quando si spostava, spesso, il pavimento era bagnato da una “poceta”. Lei diceva fosse sudore.

Le ossa della carcassa e degli arti venivano bollite.

Cren sottaceto, ma, più spesso, grattato al momento in maniera grossolana. Sale grosso.

C’erano stati tentativi anche con la salsa verde ed addirittura con la

“peara’”, ma, da noi, non avevano trovato spazi. Le ossa venivano servite bollenti ed i nervetti, con dei residui di carne, dovevano essere morbidi e nello stesso tempo consistenti, ma, fondamentalmente, “tacaisi”.

Gli ossicini dei piedi dovevano appiccicarsi alle dita, e quella pattina appiccicosa, seccandosi, ti dovevano incrostare le dita.

Chi mangiava, meglio ciucciava, le ossa della testa si trovava il boccone della delizia “l'ocio”...

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 Umberto Riva
«

Regaje, no le xera robe da siori, ma gnanca da pori cani» .

Una delle ricette di Umberto Riva dal suo libro «Arte culi ’n aria»

Umberto Riva

Nella famosa «botega» del signor Francesco, macellaio e pollivendolo, proprio di fronte alla chiesa di San Marco, niente si buttava. In una terrinetta in terra rossa smaltata bianca con fiorellini, finivano le interiora dei polli quando li «curava». Erano lì per i clienti. Chissà se le vendeva o se le regalava. I destinatari erano sempre frutto di sue scelte e le scelte erano frutto di ragionamenti tutti suoi. Importante era che c’era sempre qualcuno che ne usufruiva. La misura era una presa fatta con la punta delle dita della mano sinistra, che ne definiva anche la quantità. Le «inscartosava» in carta oleata e le infilava nel cartoccio della spesa fatto sempre di carta oleata e un foglio di carta paglia, quella ricavata dalla paglia del frumento, gialla.

Allora nei negozi alimentari esistevano varie carte: quella bianca detta fioretto come soprainvolto per i formaggi, quella grigio celeste per lo zucchero e le farine, quella azzurra per la pasta come quella che usava la Garofalo per confezionare gli spaghetti di Napoli. C’erano poi i giornali vecchi, particolarmente per la verdura (quando portavi i giornali vecchi alla fruttivendola, ti dava sempre qualcosa). Le famose interiora, una volta a casa, venivano lavate una prima volta, poi aperte per il lungo e raschiate col dorso

del coltello per eliminare ogni tipo di sporco, alla fine venivano messe a bagno e rilavate. Mischiate a volte con il fegato del pollo, quando ti capitava, tagliuzzate, finivano in un tegamino di ferro smaltato con cipolla trita ed un po’ di condimento, «profumo de bon»

Si faceva il risotto «riso co ‘e regaje» oppure risotto con le ‘ratatuie’ per il francesismo di quelli dal linguaggio raffinato. Con quella spruzzatina di vino, «va da ‘a siora Catina se par piasere ‘a te da’ mezo bicere de vin bianco«, ne veniva un risotto gustoso e nutriente. Un piatto domenicale. Le regalie andavano anche con le tagliatelle in brodo dove i fegativi erano d’obbligo, «le taiadee co i figadini«. Quel piatto, «’e tajadee co i figadini», servito alle dodici e trenta proprio alla domenica al rientro dalla messa in San Lorenzo delle ore 11,30, dopo la predica del frate, novello fra Cristoforo, che dal pulpito tuonava spiegando quale fosse il mondo del buoni e quello

dei cattivi, indicava la giusta via per la salvezza dell’anima, chiedeva pace e bontà. E quando alla fine, l’organo, forte di tutte le sue canne, frantumava il silenzio, iniziava il rito del pasto domenicale.

«Tajadee in brodo co i figadini» o senza se non c’erano, «un quartin de gaina, un tocheto de manzo e tanti osi da rosegare» per quattro persone. Era domenica, il giorno della carne.

Erano quattro persone felici; felici per la messa, per la predica, per la suonata dell’organo e per il ricco pasto.

«No le xera robe da siori, ma gnanca da pori cani».

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In autunno torna la voglia di vini rossi e corposi .

Dal Veneto Nodo d’amore, Rosso Trevenezie IGT di Cantine Farina .

Dalla Puglia Vulgaris, Di Reda Domini, Nero di Troia 2017

Grazie alla sua posizione strategica, circondata da montagne, corsi d’acqua, mare e tante colline, il Veneto risulta una regione particolarmente vocata alla vitivinicoltura e questa particolare inclinazione fu avvertita sin dai tempi antecedenti alla presenza dei romani nell’area, addirittura a partire dal VII secolo a.C. Con il tempo il Veneto si è guadagnato un posto di tutto rispetto sul mercato italiano e internazionale, soprattutto con

le due punte di diamante, un bianco e un rosso, che rappresentano il fiore all’occhiello della produzione vinicola locale.

Dalla provincia di Treviso fino a quella di Verona si aprono un paio di terroir, cioè zone pedoclimatiche del tutto peculiari, davvero interessanti dal punto di vista paesaggistico e vitivinicolo: da un lato possiamo apprezzare le Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, patrimonio mondiale dell’UNESCO dal 2019, che ci restitui-

scono la perla della produzione italiana con le bollicine, un vino beverello e fresco per tutte le occasioni e i palati, il Prosecco DOCG, principalmente prodotto da uve Glera. Dall’altro lato, spostandosi verso ovest, non si può non restare affascinati anche dalla bellezza naturalistica della Valpolicella, che con i suoi vitigni principali, Corvina, Corvinone e Rondinella, ci regala vini rossi importanti nella struttura e nella qualità come l’Amarone e il Ripasso

Michele Lucivero
 Nodo d’amore, Rosso Trevenezie IGT di Cantine Farina
 Calice di degustazione al bar Minerva in contrà S. Corona, Vicenza

E proprio dalle colline veronesi della Valpolicella proviene la maggior parte delle uve di un vino rosso molto evocativo nel nome, un vero e proprio manifesto d’amore per un appuntamento di cui si vorrebbe conservare un ricordo indimenticabile: Nodo d’amore, Rosso Trevenezie IGT

Si tratta di un vino rosso prodotto dalla Cantina Farina di Pedemonte (VR), una casa vitivinicola ultracentenaria della zona della Valpolicella. Nodo d’amore Rosso viene abilmente vinificato con uve Corvina al 65%, Merlot al 25% e Teroldego al 10%. Dopo la fermentazione, il vino fa un affinamento per il 30% in barriques nuove e per il restante 70% in botti di rovere di Slavonia, oltre ad un successivo affinamento in bottiglia.

Alla vista il vino si presenta di colore rosso rubino con unghia granata, mentre al naso si sprigiona immediatamente un sentore di marmellata di more, lampone, ribes, oltre al floreale di viola, al rosmarino, alla nota di grafite, alla cannella, ai chiodi di garofano, alle tostature di tabacco da sigaro, al cioccolato e all’inchiostro. In bocca il Nodo d’amore si apre come un vino caldo, secco, rotondo con tannini setosi con una persistenza sicuramente lunga e con una qualità definita da fare evolvere ulteriormente.

All’estremità opposta del nostro Paese, la Puglia presenta una tradizione ed un territorio completamente diversi rispetto al Veneto, ma si può dire che siamo al cospetto di vini altrettanto interessanti e corposi, soprattutto se facciamo riferimento ai rossi della zona situata tra la provincia di Bari e quella di Barletta-Andria-Trani, quelle legate alla bellezza e alla storia di Castel del Monte, la nota struttura ottagonale fatta edificare dall’imperatore Federico II di Svevia.

Dalla cantina Di Reda Domini, un’azienda giovanissima, fondata solo nel 2020 da due giovani ragazzi che hanno raccolto il sogno del loro nonno, vecchio produttore di uve ed estimatore dei vitigni autoctoni, abbiamo selezionato un vino in grado di reggere il confronto con il suo cugino veneto.

Quello che abbiamo degustato per questa rubrica è Vulgaris, un Nero di Troia in purezza del 2017, un vino che fa due anni di affinamento, di cui uno in barrique. Dal colore granato con unghia rubino, si presenta limpido e compatto, mentre al naso appare fruttato, con note di frutta rossa, prugna, amarena, giuggiole. Il floreale emerge con una piena nota di viola, una nota leggera di peperone nel vegetale, mentre nella famiglia delle erbe aromatiche riconosciamo origano e timo. Chiude la sensazione olfattiva una nota minerale di grafite e, tra le spezie, si avverte del pepe nero e della salvia, accom-

pagnate da tostature di cacao, tabacco da pipa, vaniglia e nocciola, per finire poi con profumi di caramella balsamica e leggera affumicatura nell’etereo. Assaggiandolo è secco, caldo di alcool, avvolgente, quasi grasso con tannini astringenti, giovani, morbidi. È un vino sapido, di corpo strutturato, lungo nella persistenza.

Abbinamenti

Con il Nodo d’amore Rosso Trevenezie IGT ci troviamo nel Veneto occidentale, per cui accompagnarlo ad una bella bistecca di carne vaccina sarebbe l’ideale, ma anche con della tipica cacciagione questo rosso potrebbe dare grandi soddisfazioni gustative e sensoriali.

Per il Vulgaris Nero di Troia, invece, potremmo scegliere qualcosa di tipico pugliese, come, ad esempio, un piatto a base di carne brasata, oppure un intenso ragù della domenica, rigorosamente con pezzi di carne misti, dal manzo all’agnello, ma anche ad un fegato alla veneziana, giacché è vero che gli abbinamenti sono interessanti se rispettano la territorialità, ma anche la contaminazione, da sempre, ha dato grandi risultati in termini di bellezza e di gusto!  Enogastronomia, tutti gusti

 Vulgaris, Di Reda Domini, Nero di Troia 2017

VicenzaPiùViva

La strada verso il lago (1980-2023)

Amori e orrori all'ombra

dei

Berici

nel primo romanzo di Massimo Parolin

Èun libro che sorprende “Quella strada per il lago (1980-2023)”, opera prima di Massimo Parolin, che oltre ad essere il comandante della Polizia Locale di Vicenza è anche un brillante collaboratore di questo giornale, cui regala deliziose pagine sul “come eravamo”, raccontando la vita quotidiana della Vicenza che fu, in fondo nemmeno tanti anni fa, confrontandola con la città di oggi, nell’epoca frenetica del tutto subito e soprattutto postato sui social. Storie da boomers, come infatti viene definita la rubrica, ma narrate col giusto disincanto di chi sa bene che ogni epoca ha il suo bello e il suo brutto. Tutti gli articoli sin qui pubblicati da Parolin si trovano anche nel libro, in appendice. E forse non è un cattivo suggerimento quello che dà l’autore in prefazione, di leggerli prima del romanzo, per meglio figurarsene l’ambientazione.

Ma veniamo appunto a “Quella strada per il lago”, sottotitolato “Storia vicentina di amore e demoni”. Nelle prime pagine appare quasi una versione romanzata degli articoli: una galleria di personaggi e uno spaccato di vita vicentina negli anni Ottanta, con la città dipinta sin nei dettagli e l’atmosfera resa con efficace vivezza. Un mondo per certi versi idilliaco, anche se non si sa se davvero la città fosse migliore di oggi o se a renderla cara all’autore e a molti dei lettori sia il ricordo della

QUELLA STRADA PER IL LAGO (1980 – 2023)

Storia vicentina di amore e demoni

giovinezza, di un’epoca in cui tutto sembrava possibile, con la vita ancora piena di promesse.

L’io narrante, che è l’autore stesso, Massimo, un adolescente come

tanti, si presenta raccontando una sua domenica tipo, tra risveglio con calma, colazione abbondante, pomeriggio al lago e poi in discoteca con gli amici, perché sono i bei tempi in

Finito di stampare nel mese di Novembre 2024
Massimo Parolin

cui per andare in discoteca non serviva aspettare le due di notte… E in uno di quei pomeriggi in discoteca Massimo incontra l’amore. L’Amore vero, con la A maiuscola, assoluto, totale, irragionevole come solo quello degli adolescenti riesce ad essere. Come Dante con Beatrice, anche Massimo si innamora di una fanciulla semplicemente guardandola, senza scambiare con lei nemmeno una parola.

Siamo dunque davanti ad una classica love story? Sembrerebbe di sì, anche a giudicare la suddivisione in capitoli, ciascuno intitolato con un numero progressivo di “attimi d’amore”. Il secondo capitolo, quasi seguendo il codice di una presentazione di dame e cavalieri, è una carrellata di figure maschili, gli amici di Massimo, i compagni delle domeniche in motorino e in discoteca, i confidenti dei momenti difficili, gli alleati di ogni avventura.

Ciascuno viene presentato col nome di battesimo e col nome latino di una virtù, che si scopre subito essere la sua caratteristica principale. C’è il buono, l’onesto, il mite, il forte… Bei ritratti maschili in cui probabilmente qualche lettore vicentino crederà di identificare un conoscente dell’epoca, o magari sé stesso, e non si discosterà troppo dalla realtà perché la narrazione, benché di fantasia, poggia saldamente sulla memoria dell’autore e sulla realtà vicentina di quegli anni.

La vicenda prosegue con un nuovo incontro di Massimo-Dante con la sua Beatrice, che scopriremo chiamarsi Damiana. Tra i due è simpatia immediata, dopo gli scambi

muti si passa subito alle chiacchiere in scioltezza e davvero sembra che la storia si avvii lungo i binari del lieto fine, ma al quarto “attimo d’amore” avviene il drammatico imprevisto: Damiana scompare durante una gita. Il cambio di registro è immediato. L’atmosfera da serena e accattivante diventa cupa e sinistra. La Vicenza degli anni ottanta diventa ostile, plumbea. Sembra percorsa da entità crudeli. E Damiana non si trova più.

Con un salto temporale si arriva a 40 anni dopo. Il protagonista non è più l’adolescente sognatore. La vita l’ha messo alla prova e la scomparsa di Damiana continua a tormentarlo. Non l’ha dimenticata, continua a pensare a lei. E ad un certo punto, complice una serie di sogni e un nuovo amico, ricomincia a cercarla. E comprende di dover andare in una direzione cui nemmeno la fantasia più sfrenata lo avrebbe potuto accompagnare. Ben presto Massimo scopre – e in fondo lo aveva sempre saputo - che non era suggestione o una sensazione provocata dal dolore, c’era davvero qualcosa di malvagio in città…

Non diciamo oltre per non togliere il piacere della lettura, che è agile e veloce, grazie anche ad uno stile che non perde mai di freschezza e immediatezza, tanto nelle descrizioni leggere quanto nei momenti più cupi. E si comprende come l’autore, benché alla prima prova con il romanzo lungo, avesse ben chiare le idee di come muovere i suoi personaggi per consegnare un finale completo e senza punti sospesi. Insomma, un romanzo che si legge d’un fiato e si chiude guardando con un po’ di inquietudine le ombre della sera...

M. Parolin, Quella strada per il lago (1980-2023). Storia vicentina di amori e demoni, Roma, Elas Editoriale, 2024. Acquistabile in libreria, presso la sede di Vicenza in contrà Vittorio Veneto 68 e on line su Amazon e sullo shop https://www.vipiu.it/shop/#libri

 Massimo Parolin

Crash di David Cronenberg, il film che scandalizzò il mondo

Nel 1996 il regista canadese portò in scena l’oggetto più moderno della vita quotidiana: l’automobile . Ovviamente a modo suo

Tommaso De Beni

Come ci insegnano Marcuse e Adorno l’erotismo è una chiave di lettura fondamentale di una società. La sua repressione infatti può avere scopi politici e ripercussioni psico-sociali importanti. Ne sa qualcosa Bill Clinton, e di recente anche Donald Trump, ne sanno qualcosa anche quegli italiani che per anni hanno seguito la vita sessuale di Silvio Berlusconi sui giornali. E del resto anche ai tempi del Duce la sua virilità e potenza sessuale veniva esaltata con scopi propagandistici. Spesso l’eros si trasforma in pornografia e viene sfruttato a livello commerciale. Nella pubblicità è insito un meccanismo di seduzione/attrazione del consumatore. Difficile trovare un prodotto che non sia reclamizzato usando l’immagine di una bella donna, rigorosamente mezza nuda, anche se in tempi recenti le cose stanno cambiando. A volte, tanto più manca l’eros nella vita privata delle persone e tanto più esso viene esasperato nello scenario pubblico. Sesso e violenza, fin dai tempi degli antichi romani, sono due elementi che aizzano e intrattengono la folla. L’intuizione che lega sesso, violenza e automobili è dello scrittore inglese James Graham Ballard, dal cui romanzo è tratto questo film, e non poteva non affascinare il regista David Cronenberg, che nelle sue pellicole

ha sempre esplorato sia l’elemento corporale umano, sia il rapporto tra l’uomo e la tecnologia e in particolare la macchina. Il binomio donne e motori viene declinato sia da Ballard che da Cronenberg in maniera molto drammatica. L’automobile nella seconda metà del XX secolo è l’oggetto più moderno della vita quotidiana. La spettacolarizzazione della violenza e l’ossessione per il sesso, associati all’automobile, fanno di Crash un film decisamente postmoderno, ideale per dire addio alla modernità e scavallare nel terzo millennio. La sua uscita fu posticipata di sei mesi in USA, la ministra della cultura britannica avviò una campagna per la sua censura e il consiglio comunale di Napoli, pur ammettendo di non averlo visto, discusse un’interpellanza per vietarne la visione. Dal canto suo il regista ha dichiarato che «Se ci si preoccupasse delle reazioni

del pubblico si sarebbe completamente paralizzati, perché si sa che qualunque sia la direzione presa si verrà criticati e che alcuni saranno delusi. Se si pensasse allo spettatore-tipo e alle sue attese sarebbe la morte di ogni creatività». L’automobile, oltre che alimentare un mercato enorme dal punto di vista economico, pone il problema della frenesia della società contemporanea, ma anche della sicurezza stradale. Sono proprio gli incidenti stradali infatti, le ammaccature delle auto e le ferite provocate sui corpi umani ad eccitare i protagonisti, che, come si dice, ne fanno una malattia arrivando a cercare di causare volutamente degli incidenti stradali. La loro droga è questa nuova sessualità decadente e nonostante il suo spietato pessimismo il film di Cronenberg resta uno dei più iconici degli ultimi 30 anni.

 Una scena di Crash di D. Cronenberg

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