In omaggio il calendario da collezione


In omaggio il calendario da collezione
Dalle coppole alla cravatte, la criminalità nel nord est per accademici e giudici
Natale tra gioie e drammi, personali e mondiali
Storie e misteri Terrasanta, kibbutz e gesta epiche
Musica e storie Puccini, Thurandot, auto e donne
È sempre stato un mio desiderio conservare memoria di ciò che ho vissuto cadesse nell’oblio.
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Un regalo a me stesso e a loro. Con pochissime pretese, essendo umile lo stile e povero il talento, ho iniziato pertanto a scrivere di com’era Vicenza negli anni ‘80, dei suoi costumi, del suo modo di vivere, della gioventù di allora. Nel contempo ho pensato di raccontare un amore importante, vissuto, ove i primi tre capitoli (Attimi) narrano vicende, fatti realmente accaduti e personaggi esistenti mentre
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suoi cittadini, restituisce poi uno spaccato di quell’epoca, di quella generazione denominata Boomer. Un’ambientazione che, forse, meriterebbe di essere letta prima del romanzo medesimo per contestualizzare meglio le gesta dei protagonisti di questo lavoro: un libro all’incontrario. Sia il lettore a decidere. Qualunque sarà la sua scelta, spero si divertirà.
Massimo Parolin, Comandante della Polizia Locale di Vicenza. Laureato in Giurisprudenza, Scienze Politiche, Lettere Classiche con un
Relatore in convegni nazionali, regionali e locali. Già membro del Comitato
Tecnico Consultivo della Scuola Regionale di Polizia Locale e del Comitato
Tecnico AnciVeneto. Collaboratore di ViPiu.it e del mensile cartaceo
VicenzaPiù Viva.
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148 pagine, € 14,00
Acquistabile in libreria, nelle edicole, presso la nostra sede di Vicenza in contrà Vittorio Veneto 68 e on line su Amazon e sullo shop di Vipiu.it
• L’editorialino (Giovanni Coviello)
• La pace senza la condanna della guerr a purché “giusta” nella riflessione teologica prima del Concilio Vaticano II (Padre Gino Alberto Faccioli)
• La difesa comune europea, una c himera o un futuro inevitabile? (Eleonora Boin)
• La fiducia dei cittadini nelle forze dell'or dine (Salvatore Borghese)
• Abrogazione abuso in atti d’ufficio, il punto dell’avv . pr of . Rodolfo Bettiol: grave errore oltre che violazione della normativa dell’Unione Europea (Rodolfo Bettiol)
• Mafia 2 0, dalle coppole alle cr avatte: il Veneto, nuovo campo di battaglia tra legalità e criminalità organizzata (Renzo Mazzaro)
• Alle soglie degli anni ’80 giovani giornalisti d’assalto e una Lettera 22 . C’er a una volta L’Altra Vicenza del sabato, cartaceo: una meteora, però… (Maurizio Mascarin)
• Serenissima Ristor azione festeggia 40 anni: da piccola società vicentina a leader in Italia della ristorazione aziendale e collettiva (Edoardo Pepe)
• Giov anni “Gianni” Rolando, l’Alpino della politica: “Eppure il vento soffia ancora” (Federica Zanini)
• Quella strada per il lago 1980-2023: con il romanzo del “comandante" Massimo Parolin sbarcano a palazzo Trissino ricordi, “philìa” ed esoterismo (Federica Zanini) p 29
• Ter rasanta: nel cuore della Spiritualità (Virginia Reniero | Aristide Malnati) p 33
• La diocesi di Vicenza: “compiti”, estensione, str uttura e numeri della chiesa vicentina, una tra le dieci maggiori diocesi italiane affidata a mons . Giuliano Brugnotto, suo 80° vescovo (Naike Monique Borgo | don Alessio Graziani)
• Gli oratori e i Boomer s (Massimo Parolin)
• Il magico pr esepe di Bariola Gesù (Bambino) si è fer mato a Sant’Antonio del Pasubio (Federica Zanini)
• Christmas Blues: come affr ontare la depressione natalizia (Sabrina Germi) p
• Il mio Natale con albero, presepe, consumismo affettuoso, distribuzione caotica di regali e… il bello dell’attesa (Giulia Matteazzi)
• I supplì prima del supplizio (gastr onomico e non solo) delle feste (Federica Zanini)
• Con l’avvicinarsi delle feste è sempr e meglio avere in cantina delle bollicine! (Michele Lucivero)
• Tommaso Cevese, iridescente artista dai tanti riflessi (Federica Zanini)
• Giacomo Puccini e l'incompiuta Tur andot (Alessandra Borin)
• Recensioni . Or este e Vittorio (Marco Ferrero)
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VicenzaPiù Viva augura buon Natale a chi crede nella Persona umana, buon anno a tutte le persone e arrivederci nel
Giovanni Coviello
ANatale, a prescindere dalla propria confessione e dalla libertà di non averne alcuna, l’aria che si respira dovrebbe essere quella della serenità se non della felicità. Ma per molti, troppi, non lo è tra guerre, distruzioni, sopraffazioni, crimini, singoli o di gruppo, contro la Persona e contro le persone, tante donne, enorme marea di bambine e bambini.
La conoscenza è il primo passo della presa di coscienza per cui VicenzaPiù Viva di conflitti, ‘ndrangheta, abusi ne scrive anche in questo numero di fine anno, che precede un nuovo anno.
Ma è a questo stralcio del 2024 e soprattutto al 2025 e agli anni a venire che dedichiamo qui la maggior parte di articoli per parlare di pace, di impegno di protagonisti positivi della vita vicentina e non solo, di come puntare a un sorriso, a una speranza ed a un sogno in più con la scoperta e riscoperta di luoghi, viaggi, tradizioni, storie, di musica e di arte, ricordi e amicizie…
VicenzaPiù Viva Fondato il 25 febbraio 2006 come supplemento di La Cronaca di Vicenza
Autorizzazione: Tribunale di Vicenza n. 1183 del 29 agosto 2008
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Con queste pagine, ancora una volta arricchite da firme prestigiose, una su tutte quella di Renzo Mazzaro, guardiamo avanti, non denunciando rassegnati, ma cercando cosa e come si vuole cambiare giorno dopo giorno,
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mese dopo mese nel 2025 e, poi, nel 2026, 2027 e così via.
Con questo numero vi omaggiamo, quindi, il calendario da collezione del 2025 con coinvolgenti immagini di Vicenza e con tutte le nostre 12 copertine del 1° anno dal ritorno al cartaceo e all’edicola: perché accompagni noi e voi, lettori, anima e carburante dei nostri media, per scandire i passi quotidiani. Se ci ritroveremo a fine 2025 col nuovo calendario 2026 di sicuro avremo raggiunto un obiettivo basilare: essere una comunità.
A chi crede nella Persona, quindi, buon Natale, buon anno e arrivederci, dopo le lunghe e… faticose feste di fine e inizio anno, a febbraio, anche in provincia come promesso.
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Solo con gli anni ’60 con l’enciclica di san Giovanni XXIII alla Pacem in terris è riemerso nella teologia cattolica il grande e attuale tema biblico della pace
Padre Gino Alberto Faccioli
Tutta la vita pubblica di Gesù e stata una perfetta attuazione sulla terra della pace e del suo significato più profondo Gesù e sempre, senza eccezione alcuna, dalla parte dell'ultimo (povero, debole, oppresso, emarginato, escluso); non necessariamente perché il povero sia più buono. In molti casi l'agire di Gesù dice la presenza di Dio dentro la storia, sia pure entro la povera storia di un popolo povero. L'impegno contro ogni Stato di cose oppressive e il sostegno incondizionato al povero che abbiamo visto essere la chiamata di Dio al suo popolo è un cammino verso la pace.
L'agire di Gesù, dunque, ci fa comprendere come l'essere operatore di pace sia una sorta di nodo teologico che domina tutta la storia della salvezza e non può essere relegato nella filosofia morale cristiana, né frantumato, e così dimenticato, nei singoli temi morali dei rapporti sociali né isolato né la tematica della guerra più o meno giusta. Solo con l’enciclica di san Giovanni XXIII alla Pacem in terris si incomincia una seria riflessione strutturale e specifica sul tema della pace.
Prima di questa enciclica di san Giovanni XXIII originata
dall'imminente scontro tra gli Stati Uniti e Cuba, si invocava la pace solamente quando c'era la guerra e al tempo stesso si giustificava la guerra in molti modi di fatto. Il grande tema biblico della pace viene affrontato solo quando si viene a confronto con la tragica realtà della guerra. Questo fin da quando la cristianità era arrivata al potere. Basti pensare che in Ambrogio e Agostino la guerra è vista come strumento di legittima difesa di popoli o città piccole o oppressi da poteri più forti. Ben presto nasce anche l'idea di guerra come promozione del cristianesimo o come difesa del cristianesimo dai sovrani pagani, come emerge dalla triste storia dell'evangelizzazione di alcune parti dell'Europa e delle
Americhe. Questo modo di pensare si protrae fino al XIX secolo e oltre, basti pensare allo scontro tra le “due Irlande” o tra cattolici e ortodossi nei Balcani. Al di là di tutto resta il crudo fatto che la religione cristiana è chiamata in causa per giustificare una guerra
Quella che doveva essere una lettura teologica della pace diventa invece la lettura teologica della guerra. La pace è argomento naturale da studiarsi in ambito del diritto naturale e delle scienze filosofiche o giuridiche questo è dovuto alla nascita degli Stati sovrani successivamente il frantumarsi dell'Europa in molti Stati sovrani, ciascuno mirante a massimizzare il proprio vantaggio anche a danno degli altri, dal diritto al diritto dà origine al diritto internazionale
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punto uno Stato sovrano non può sottomettersi a regole esterne se non di sua libera volontà virgola e perciò attraverso patti con altri stati sovrani punto ogni controversia deve essere risolta coi patti. Quando ciò non è possibile, viene considerato legittimo il ricorso alla guerra: e anche le azioni di guerra possono essere regolate da patti, come la convenzione di Ginevra, o da un piuttosto vago diritto naturale. Per questa via tutti i testi di teologia morale concordano che si viola la pace quando si fa una guerra non secondo tali principi, una guerra non giusta. Nasce così la guerra per giusta causa, la “guerra giusta”. Essa si ha solo tra Stati sovrani, dopo aver tentato invano la via della conciliazione. Tre sono le condizioni per poter dichiarare “guerra giusta”:
1) che sia indetta dal pubblico potere, unico titolare del bene comune;
2) che abbia una giusta causa;
3) che si attenga alle regole del diritto internazionale di guerra e il principio del diritto naturale. In questo modo la guerra viene istituzionalizzata sia nel diritto internazionale e sia nella teologia morale. Alle dette condizioni diventa moralmente lecita, ed è lecito uccidere (si ricordi che il problema morale non è la pace, ma il quinto comandamento: non uccidere). I
militari non possono obiettare agli ordini superiori perché solo la pubblica autorità è titolare del bene comune. Tuttavia, va rilevato che la condizione della giusta causa è estremamente elastica: prevede prima di tutto una necessaria promozione del bene comune, sia come tutela di diritti violati sia come acquisto di diritti pretesi; prevede la legittima difesa collettiva contro un'azione violenta, militare; prevede infine la difesa di stati deboli ingiustamente aggrediti da stati più forti. Va rilevato che anche la legittima difesa può dare causa a una guerra giusta, ma tale difesa è limitata solo dalle condizioni del diritto di guerra e non affatto dalle condizioni assai più restrittive - e più cri-
stiane - della legittima difesa. Una guerra iniziata per legittima difesa non è un atto di legittima difesa nel senso precisato dalla grande tradizione cristiana.
Proprio per questa elasticità della giusta causa e per il diritto assoluto di perseguimento del bene comune, nessuna guerra è stata mai dichiarata ingiusta, ufficialmente o ufficiosamente dalle autorità ecclesiastiche. L’accorato monito di Benedetto XV sull’inutile strage della Prima guerra mondiale si limita a dichiarare tale guerra inutile, non necessariamente ingiusta. Anche i nobili ansiosi appelli di Pio XII nei messaggi natalizi durante la Seconda guerra mondiale erano appelli ai governanti o esortazione alla pace in generale, mai invece condanna esplicita dei governi. Tutto ciò va tenuto ben presente per comprendere e valutare la svolta del tutto innovativa avvenuta nella teologia della pace durante la seconda metà del secolo XX. Si può dire che con gli anni ’60, e segnatamente col Concilio Vaticano II, è riemerso nella teologia cattolica il grande tema biblico della pace. Ed è questa la lettura teologica della pace che oggi dovremmo comprendere e sviluppare maggiormente.
Eleonora Boin
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da crescenti sfide per i governi di tutto il mondo, specialmente per quanto riguarda le tensioni geopolitiche. L’invasione russa in Ucraina e la crisi in Medio Oriente, con il genocidio in atto a Gaza, hanno messo l’Europa davanti all’evidenza che l’idea di pace perpetua kantiana su cui è nata e si è sviluppata è in realtà solo uno specchietto per le allodole. Senza contare poi il crescente disinteresse degli Stati Uniti per il continente europeo, accentuato ancora di più dall’elezione di Donald Trump come 47esimo presidente. Insomma, la guerra c’è ed è sulle porte di casa nostra, dove era anche prima del 2022 e la domanda è; siamo davvero pronti a difenderci?
La questione della difesa europea è vecchia come il progetto comunitario stesso. Già nel 1952, infatti, i Paesi fondatori dell’allora Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca), tentarono di creare la Comunità europea di difesa (Ced), che tra i suoi obiettivi aveva quello di creare un esercito comune europeo. Il progetto, tuttavia, fallì nel 1954 quando l’Assemblea nazionale in Francia - Paese inizialmente promotore della Ced - votò infine in maniera sfavorevole, anche per paura di una rimilitarizzazione della Germania. Da allora, il sogno di
un ‘esercito europeo’ è rimasto nell’ombra, oscurato dal peso della Nato e dal forte legame militare con gli Stati Uniti.
Negli anni ’90, con la fine della Guerra Fredda e l’indipendenza dai blocchi ideologici, l’Europa ha ricominciato a ragionare sulla necessità di rafforzare la sua autonomia strategica. Ma è solo negli ultimi anni, con il crescente isolamento americano e le nuove minacce globali, che il tema è tornato davvero rilevante.
Ad ogni modo, oggi di concreto c’è in realtà ben poco, anche se l’Unione europea ha fatto piccoli passi in avanti. Nel 1999 gli Stati membri hanno introdotto la Politica di sicurezza e difesa comune (Psdc), che permette loro di collaborare su operazioni di peacekeeping - mantenimento della pace - e gestione delle crisi. È più
recente, invece, la Cooperazione strutturata permanente (Pesco), avviata nel 2017 per rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri nel settore della difesa. La Pesco mira a sviluppare capacità militari congiunte e migliorare la prontezza operativa delle forze armate, concentrandosi su progetti pianificati e mirati a creare un panorama di difesa europeo più coerente.
Pesco opera in sinergia con il Fondo europeo per la Difesa, un meccanismo di supporto finanziario per progetti di ricerca e sviluppo che mirano a rafforzare l’industria della difesa europea, e con la Revisione coordinata annuale sulla difesa (Coordinated Annual Review on Defence), il cui obiettivo è monitorare i piani di difesa dei Ventisette per coordinare le loro spese e identificare
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possibili progetti comuni. Gli impegni assunti dagli Stati membri sono giuridicamente vincolanti, con decisioni prese a livello nazionale.
La Pesco è stata istituita sulla base giuridica dell’articolo 42 del Trattato sull’Unione europea; ogni stato membro può decidere autonomamente se aderirvi e conta oggi 26 partecipanti, ultima la Danimarca dal 2023 (Malta è l’unico Paese che non ha scelto di partecipare).
equipaggiamenti e standard diversi - limitano l’efficacia operativa dell’Ue.
In tale contesto poi si inserisce il concetto di autonomia strategica europea, tornato al centro del dibattito politico grazie al presidente francese Emmanuel Macron, che negli ultimi anni ha sottolineato la necessità di un’Europa capace di agire indipendentemente dagli Stati Uniti e dalla Cina, posizionandosi come una ‘terza superpotenza’. Questo obiettivo, da tempo evocato ma mai pienamente concretizzato, punta a rendere l’Ue autonoma in ambiti chiave come difesa, economia e politica estera.
L’autonomia strategica è, tuttavia, un traguardo complesso da raggiungere; politicamente, gli Stati membri sono profondamente divisi e se Francia e Germania sostengono un’Europa più autonoma, alcuni paesi dell’est come Polonia e Stati baltici si affidano alla Nato e alla protezione americana per la loro sicurezza. Queste divergenze, sommate alla frammentazione delle forze armate - 27 eserciti nazionali con
Anche sul piano economico emergono difficoltà; il bilancio dell’Unione è limitato e la maggior parte degli investimenti nella difesa resta nazionale. L’industria europea, frammentata e scarsamente coordinata, fatica a sviluppare progetti comuni.
Nonostante la proposta di Macron per un ‘esercito europeo’, l’idea per ora sembra irrealizzabile: i Ventisette non sono pronti a integrare le proprie forze armate, né a sostenere gli enormi costi necessari. Un progetto del genere richiederebbe non solo enormi investimenti economici, ma anche una coesione politica che oggi più che mai in Europa latita. I governi nazionali dovrebbero cedere parte della loro sovranità, accettando che decisioni cruciali come l’uso della forza militare siano prese a livello sovranazionale e per i più questa prospettiva è inimmaginabile.
Un altro nodo cruciale è il rapporto con la Nato. L’Alleanza atlantica rimane il pilastro della
difesa europea, soprattutto per i paesi dell’est che temono l’espansionismo russo. Gli Stati Uniti, che rappresentano la forza principale della Nato, hanno spesso guardato con sospetto i tentativi dell’Ue di rafforzare la propria autonomia militare, temendo un indebolimento dell’Alleanza. C’è da dire che, per alcuni, un’Ue più forte sul piano militare potrebbe contribuire maggiormente alle operazioni della Nato, rendendo l’Alleanza più equilibrata e meno dipendente da Washington. Di sicuro c’è solo che, come evidenziato dal Segretario generale della Nato Mark Rutte in occasione dell’ultimo consiglio della Difesa, la soglia del 2% del Pil da destinare alle spese militari è troppo bassa e necessita una revisione. Contando che alcuni Paesi - tra cui l’Italia - non arrivano nemmeno a quel minimo sarà interessante vedere che svolta prenderà il futuro.
In generale, un’Europa più forte militarmente potrebbe avere un impatto positivo non solo sulla sicurezza del continente, ma anche sulla sua capacità di mediazione nei conflitti internazionali. Una difesa comune non è solo una questione di armi: è un progetto che riguarda l’identità dell’Unione, la sua volontà di contare nel mondo come entità unita e non come guazzabuglio di interessi e opinioni distinte.
Ma il tempo stringe, le minacce si moltiplicano e l’Europa non può permettersi di restare indietro. Se non ora, quando?
Salvatore Borghese
In uno stato moderno, le forze dell'ordine e le forze armate svolgono un ruolo cruciale, in quanto sono l’unico strumento legittimato dallo Stato per esercitare la forza a scopo coercitivo. Anche i privati cittadini sono autorizzati, in certi casi, o a utilizzare la forza (rigorosamente a scopo difensivo) ma si tratta di casi molto specifici. Il monopolio dell'uso della forza da parte dello Stato, sancito dalle costituzioni e dalle leggi, è un principio fondamentale per mantenere l'ordine e la sicurezza all'interno delle
nostre società. Tuttavia, in un sistema democratico, non basta che lo Stato detenga tale potere: affinché il monopolio dell’uso della forza sia effettivo ed efficace, è necessario che sia legittimato da consenso, o comunque dall’accettazione, da parte della cittadinanza. Più i cittadini hanno fiducia nello Stato e nelle forze dell’ordine, più queste sono in grado di garantire efficacemente il rispetto della legge, proprio perché – in particolar modo nelle democrazie – quando i cittadini si fidano delle loro istituzioni, queste possono agire con maggiore autorità e efficacia.
Fiducia nelle forze dell’ordine
Ma gli italiani si fidano di chi porta le armi e una divisa? In effetti, la risposta è affermativa. Secondo un sondaggio condotto da SWG, più di 7 italiani su 10 (il 73%) si fidano delle forze dell'ordine. Il dato degli ultimi anni è leggermente inferiore rispetto al picco registrato a marzo 2020 (83%), ma all’epoca era appena esplosa la pandemia e il desiderio di protezione da parte dei cittadini si declinò in un aumento generalizzato della fiducia verso tutte le istituzioni. È interessante notare come il livello della fiducia sia molto variabile in base all’età: tra gli adulti di età superiore ai 55 anni,
Circa 7 italiani su 10 si fidano delle forze dell'ordine (gli adulti più dei giovani) . Forze armate: per il 51% ok a un esercito unico europeo, ma l'Italia dovrebbe ridurre le spese militari La fiducia degli italiani verso le forze dell’ordine (fonte: SWG)
infatti, la fiducia è di circa 10 punti più alta rispetto alla media, mentre tra i giovani under 35 si scende poco sopra il 50%. Altro dato interessante è che non tutte le forze dell’ordine sono uguali: i vigili del fuoco sono di gran lunga i più amati, con un livello di apprezzamento del 91%, mentre i giudizi più freddi sono quelli che si registrano nei confronti della polizia penitenziaria (57%).
Nel complesso, comunque, le forze dell’ordine se la cavano decisamente bene anche rispetto alle altre istituzioni. Il Rapporto "Gli italiani e lo stato" di Demos nel 2022 ha evidenziato come le forze dell'ordine godano di un tasso di fiducia (70%) superiore a quella di tutti gli altri soggetti indagati, persino dei più illustri come il Papa o il Presidente della Repubblica. Questo dato pe-
raltro – come evidenziato anche da SWG – appare estremamente stabile nel tempo, a conferma di una solidità strutturale. Tuttavia, anche da questi numeri di certo molto positivi, si può evincere come questa fiducia non sia totale, dal momento che esiste una quota non trascurabile di italiani (fino a 3 su 10) che delle forze dell’ordine non si fida.
Secondo un’indagine internazionale condotta dall’istituto Ipsos, che ha coinvolto 31 paesi e si è conclusa ad aprile 2024, rispetto ai cittadini di diversi stati europei, americani e asiatici gli italiani non sono né più né meno fiduciosi nel fatto che l'azione delle forze dell'ordine sia utile a prevenire i reati. Nonostante questo, dalla ricerca emerge un altro dato: oltre il 40% degli intervistati ritiene che le forze dell'ordine non trattino
tutti i cittadini allo stesso modo, elemento al centro di polemiche e casi di cronaca anche di recente. Questa percezione è un indicatore importante e abbastanza preoccupante, poiché suggerisce che una parte significativa della popolazione potrebbe avvertire una mancanza di equità nel trattamento delle diverse categorie sociali, etniche o economiche – o persino politiche.
Le forze armate e il sentimento verso l’esercito
E per quanto riguarda le forze armate? Si tratta anche qui di una questione divenuta piuttosto di attualità, se non altro visti gli sviluppi recenti del panorama internazionale (ne abbiamo parlato anche su queste pagine nel numero estivo di ViPiù). La grande incognita di questi tempi è se si andrà verso un esercito unico europeo, con una forte rimodulazione dell’organizzazione (e dei finanziamenti) da parte dei singoli stati – come ci racconta Eleonora Boin in questo numero. Quella di un esercito unico europeo è un’ipotesi verso cui gli italiani mostrano una posizione tendenzialmente favorevole: un sondaggio condotto in primavera da Youtrend ha rivelato che il 51% dei nostri concittadini è favorevole a questa prospettiva, pur rimanendo un’opinione divisiva (i contrari sarebbero infatti un robusto 34%). Peraltro, se questa ipotesi viene messa in contrapposizione con il mantenimento degli eserciti nazionali, la preferenza si sposta lievemente verso lo status qui, con il 41% a favore di questa opzione rispetto al 36% favorevole alla creazione di un esercito europeo (dati Eumetra di febbraio). In sintesi, pur riconoscendo l'importanza di una difesa comune europea, molti preferiscono mantenere una struttura militare nazionale, con una protezione più diretta e controllata.
Le spese militari
Un approfondimento specifico merita il tema della spesa militare. Nonostante l’Italia sia uno dei pochi paesi della NATO a destinare una quota inferiore al 2% del proprio PIL nazionale alle spese per la difesa, la percezione diffusa è che le spese militari siano comunque troppo alte, e che anzi vadano ridotte. Secondo un sondaggio di Tecnè, solo il 27% degli italiani è favorevole a un aumento delle spese militari. Al contrario, una netta maggioranza, pari al 59%, ritiene che l'Europa dovrebbe aumentare la spesa militare, riflettendo quell’atteggiamento che vede come necessaria l’unione degli sforzi per una sicurezza comune nel nostro continente, da cui trarrebbero bene-
ficio i cittadini di tutti i paesi membri – purché questo non significhi dire addio al proprio esercito nazionale, come si diceva.
Le missioni di pace: servono davvero?
Infine, un aspetto che merita attenzione è la posizione degli italiani riguardo alle missioni di pace, come quella UNIFIL in Libano, che coinvolgono le forze armate italiane. Anche in questo caso è un sondaggio SWG a evidenziare che gli italiani sono divisi sull’utilità di tali missioni, con il 59% che le considera non utili. Questo dato riflette un certo scetticismo sulle operazioni internazionali e sul loro impatto concreto, nonostante l’impegno dei militari italiani in di-
versi scenari di conflitto all’estero. La percezione che queste missioni non siano efficaci potrebbe essere influenzata da una mancanza di visibilità sui risultati concreti, o dal fatto che spesso tali missioni non sembrano portare a una soluzione definitiva delle crisi internazionali – si veda proprio il caso della missione UNIFIL, del tutto impotente rispetto all’escalation militare degli ultimi mesi tra Israele e la milizia di Hezbollah. È importante sottolineare che queste operazioni, nonostante il giudizio spesso severo dei cittadini, giocano comunque un peso rilevante dal punto di vista della diplomazia internazionale, un aspetto con cui, comprensibilmente, molti cittadini non hanno molta familiarità.
Sondaggio Youtrend
Demos 2022
Sondaggio SWG forze dell’ordine
Sondaggio SWG missioni militari
Abrogazione abuso in atti d’ufficio, il punto dell’avv. prof. Rodolfo Bettiol: grave errore oltre che violazione della normativa dell’Unione Europea Di
Avv. Prof. Rodolfo Bettiol
L’abuso in atti d’ufficio e la sua abrogazione: implicazioni.
L’originaria formulazione dell’art. 323 C.P. dell’abuso in atti d’ufficio prevedeva il fatto del Pubblico Ufficiale che abusando dei poteri inerenti alle proprie funzioni commettesse un fatto non previsto da una particolare disposizione di legge per procurare ad altri un vantaggio o un danno.
Nel sistema originario del codice si trattava di una norma sussidiaria di limitata applicazione.
Le cose cambiano con la riforma del 1990, che abolisce il delitto di interesse privato in atti d’ufficio ed il peculato per distrazione e viene riformulato l’art. 323 C.P. per concentrarlo sulla condotta di abuso d’ufficio al fine di procurare a se o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale e non patrimoniale o di arrecare ad altri un danno ingiusto. Nell’intento del legislatore sarebbero rientrati nella fattispecie fatti che presentano i vizi dell’atto amministrativo (incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere), limitando l’intervento del giudice penale.
In quest’ordine d’idee si arriva alla riforma del 1997. Viene riscritto l’art. 323 C.P che prevede il fatto dal Pubblico Ufficiale o dell’incaricato di un Pubblico Servizio che nell’esercizio delle sue funzioni o del servizio in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presen-
L’abuso in atti d’ufficio e la sua abrogazione: implicazioni
za di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti procura un ingiusto profitto patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
L’originaria formulazione dell’art. 323 C.P. dell’abuso in atti d’ufficio prevedeva il fatto del Pubblico Ufficiale che abusando dei poteri inerenti alle proprie funzioni commettesse un fatto non previsto da una particolare disposizione di legge per procurare ad altri un vantaggio o un danno.
La nuova fattispecie si incentra sulla doppia ingiustizia quella della condotta e dell’evento.
Evidente l’intento del legislatore: eliminare dal controllo del giudice penale l’eccesso di potere, vizio che si riscontra particolarmente nell’ambito dell’esercizio discrezionale dell’attività amministrativa.
Di conseguenza nel 2020 è intervenuta una nuova formulazione dell’art. 323 C.P. sostituendo la violazione di legge o di regolamento con “la violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e delle quali non residuano margini di discrezionalità”.
Nel sistema originario del codice si trattava di una norma sussidiaria di limitata applicazione.
Resta l’obbligo di astenersi in presenza di un conflitto di interessi.
Le cose cambiano con la riforma del 1990, che abolisce il delitto di interesse privato in atti d’ufficio ed il peculato per distrazione e viene riformulato l’art. 323 C.P. per concentrarlo sulla condotta di abuso d’ufficio al fine di procurare a se o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale e non patrimoniale o di arrecare ad altri un danno ingiusto.
La giurisprudenza peraltro richiamando l’art. 97 della Costituzione con particolare riferimento all’imparzialità ha fatto rientrare l’eccesso di potere nell’ambito della norma incriminatrice.
In pratica la giurisprudenza ha affermato il proprio diritto e dovere da sindacare il merito dell’attività amministrativa anche in ipotesi di esercizio della discrezionalità dell’attività amministrativa stessa.
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Ancora una volta il legislatore tenta di escludere la rilevanza penale dell’eccesso di potere al fine di evitare il sindacato dell’autorità giudiziaria sull’attività discrezionale della pubblica amministrazione.
L’intento del legislatore è stato peraltro frustrato dalla magistratura.
Afferma la Cassazione che quando il contenuto di una norma di fonte secondaria specifica la condotta, la violazione di quest’ultima si traduce nella violazione della stessa fonte legislativa: vedi ad esempio la normativa urbanistica.
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Sommerso criminale tra professionisti, logistica e turismo: le mafie si evolvono nei settori chiave del Nord Italia . Ricerca accademica e inchieste giudiziarie svelano dinamiche inquietanti, mentre emerge la sfida culturale e politica per il contrasto
Il mafioso con la coppola e la lupara dell’immaginario di un tempo, ma anche quello più recente delle stragi di Capaci e via D’Amelio o delle bombe a Roma, Firenze e Milano, ha lasciato il posto al medico, all’avvocato, al commercialista, al notaio. Oggi è un professionista in giacca e cravatta che si presenta a un collega per parlargli d’affari. E da collega a collega trova l’aggancio facile, quando non addirittura la strada spianata visto che fa proposte vantaggiose per entrambi. È necessario un salto di immaginazione per mettersi al passo con il nuovo identikit del mafioso in libera circolazione nel Veneto, in Lombardia e in Emilia Romagna, le tre regioni del nord Italia in cui si registra la maggior presenza di aziende legate alla criminalità organizzata.
Anche “l’operazione aggancio” non ha più le caratteristiche che conoscevamo: quelle del povero imprenditore veneto che ha bisogno di soldi, non li trova nel circuito legale e cade vittima del mafioso cravattaro, che gli presta il denaro ma finisce per rubargli l’azienda. Erano le modalità emerse con l’inchiesta “Aspide” che nel 2012 portò alla condanna di 22 imputati legati alla Camorra, specializzati in usura e in un feroce recupero crediti ai danni di aziende nei territori di Padova, Venezia e Treviso (215 anni di carcere comminati in tutto). Questa ti-
pologia rimane, ma sono cresciuti anche gli imprenditori che non hanno problemi economici e vanno a cercare i mafiosi ben sapendo che sono mafiosi. Si mettono consapevolmente nelle loro mani, pensando di utilizzarli per arricchirsi. Sono imprenditori che, invece di cercare lo sviluppo nell’innovazione dei prodotti o dei processi, lo cercano nell’abbattimento dei costi.
Lo fanno perché le mafie non sono soltanto “banca” ma anche “service”. Vuoi smaltire rifiuti tossico-nocivi risparmiando tempo e denaro? Ti arriva in azienda uno che carica i materiali e se li porta via a pecunia ridotta e senza scartoffie. Non trovi manodopera legalmente? È pronto un altro che te la fornisce alla bisogna e a prezzi stracciati. Vuoi tenere lontani i concorrenti da un bando, da un affare che ti sta a cuore? Il mafioso non chiede di meglio, ti fornisce un servizio rapido e invisibile come un sommergibile. E si prepara ad entrare come socio nella tua azienda, fino a quando non ti butterà fuori. A meno che non ti tenga come testa di legno a fargli da copertura.
In ogni categoria c’è chi apre volutamente le porte, attirato dall’odore dei soldi. La mafia non va mai in crisi di liquidità, al contrario, ha problemi di eccesso di denaro e necessità di riciclarlo per reinvestirlo nel circuito legale. Per riuscirci ha bisogno di professionisti che chiudano un occhio: direttori di banca, commercialisti, notai. La tentazione è forte: c’è chi pensa di poter fare qualche giro nella illegalità, incassare la busta premio e poi rientrare. Pia illusione. Quando si entra in un rapporto d’affari con le mafie, si rimane prigionieri a vita.
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Frutta, verdura e cocaina Chi traccia questo quadro è Antonio Parbonetti, prorettore dell’Università di Padova, professore ordinario di economia aziendale e coordinatore dal 2014 di un gruppo di ricercatori che si occupano delle modalità di funzionamento delle aziende legate alla criminalità organizzata. «Sono ricerche che portiamo avanti con molti colleghi, i più impegnati in questa attività sono i professori Michele Fabrizi e Francesco Ambrosini», spiega Parbonetti. «Quello che facciamo è identificare i soggetti che sono stati inquisiti o condannati per mafia, capire in quali aziende sono amministratori e soci e poi studiare quelle aziende e gli effetti economici che ne derivano. Un percorso di ricerca molto semplice e lineare». Base di partenza sono dunque le inchieste della magistratura, i sequestri, le confische di beni acquistati con denaro proveniente dal traffico di droga, le ordinanze di custodia cautelare, i processi, le sentenze di condanna. Dati di fatto, inoppugnabili, in un periodo di dieci anni che consentirebbe perfino un bilancio. «Fare una sintesi non è semplice», replica il professor Parbonetti. «Quello che si nota è che
sicuramente le mafie sono presenti nel Veneto mediante Srl e Spa, società di persone o di capitali. Se vogliamo azzardare una stima possiamo dire che circa il 7-8 per cento di queste società hanno legami con le mafie. È una media nazionale, resa possibile perché ci sono evidenze da varie fonti. Sul mondo dei professionisti invece manca qualunque stima. Le mafie operano in tutti i settori, alcuni li conosciamo già, l’edilizia e lo smaltimento di rifiuti, ma sono pre-
senti anche nel manifatturiero, nelle società di consulenza alle imprese, soprattutto nella logistica e nei trasporti, perché tutte le attività lecite o illecite comportano la necessità di trasportare. La cocaina si compra in Sudamerica ma si vende sul mercato europeo, i soldi si fanno qua. La droga viaggia mischiata a prodotti normali, ci vuole l’azienda di trasporti disponibile a farsene carico».
Frutta, verdura e cocaina? «Possono essere gli ortaggi, la rucola ma anche il marmo, hanno trovato di tutto», risponde Parbonetti. «L’importante non è la merce ma l’azienda di autotrasporto disposta a fare le consegne. Azienda che ovviamente è consapevole. Gli altri della catena non è detto che lo siano, anche se qualche domanda dovrebbero porsi: se io trovo uno che fa il trasporto di frutta e verdura a prezzi troppo bassi, dovrei chiedermi come mai. Ma posso anche limitarmi a valutare la mia convenienza. Su chi offre il servizio, invece, non ci sono dubbi». Magari viene da un Paese dell’Est? «No, tendenzialmente viene da vicino. L’autista può venire da chissà dove e non sapere nulla, ma chi fa l’offerta del trasporto è un normale imprenditore di casa nostra».
2014-2024, dieci anni di inchieste nel Veneto
Dai tempi dell’inchiesta “Aspide”, molte cose sono cambiate in peggio nel Veneto. «Lo dimostra l’accelerazione delle indagini che c’è stata a partire dal 2017», sostiene Parbonetti, che già un anno prima segnalava la presenza di almeno 400 aziende criminali nella nostra regione. Il numero nasceva da uno studio su oltre 160 operazioni antimafia condotte tra il 2005 e il 2016. Erano operazioni avviate dalla magistratura di altre regioni ma andavano a colpire ramificazioni decentrate anche nel Veneto. Come è accaduto con l’inchiesta “Stige” coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, che portò a un centinaio di arresti e 40 condanne, diventate irrevocabili nel 2018. O con l’operazione “Gambling” avviata nel 2015 dalla Dda di Reggio Calabria sul riciclaggio di denaro nel gioco d’azzardo on line, con 41 arresti e il sequestro di 56 società e 15.000 punti vendita in varie regioni italiane, tra cui il Veneto, per un valore di 2 miliardi di euro.
O ancora con la poderosa inchiesta 'Aemilia' avviata dalla Dda di Bologna sul controllo degli appalti pubblici post-terremoto a opera della ‘ndrangheta, con indagini estese in varie regioni, tra cui il Veneto, e in particolare a Verona. Ci sono stati 160 arresti nel gennaio 2015 e oltre 200 rinvii a giudizio. Di questi 71 hanno scelto il rito abbreviato finito con 40 condanne e 147 il rito ordinario, celebrato con un maxiprocesso iniziato il 28 ottobre 2015 e che è stato il più grande per mafia tenuto nel Nord Italia. È durato la bellezza di 195 udienze e terminato il 31ottobre 2018 con 118 condanne, per un totale di 1.200 anni di carcere.
Tutta veneta è invece l’operazione “Valpolicella” coordinata dalla Dda di Padova nel 2017 con epicentro nel Veronese, tre arrestati e 36 indagati per estorsione, rapina, usura, false fatturazioni e riciclaggio di denaro di provenienza illecita.
Il 2019 ha portato l’accelerazione di cui parla il professor Paronetti. Quell’anno prendono il via ben quattro inchieste su organizzazioni criminali di stampo mafioso operanti nel Veneto. La prima è l’inchiesta “Terry” avviata dalla Dda di Venezia sull’attività della cosca calabrese Grandi Aracri, insediata tra Vicenza e Verona ma operativa su tutta la pianura veneta.
La seconda è l’inchiesta “Grimilde”, battezzata con il nome della strega di Biancaneve, avviata dalla Dda di Bologna per colpire il braccio emiliano della cosca Grandi Aracri con sede nel comune di Brescello, il paese di Don Camillo. Niente di poetico, nonostante i nomi: le condanne sono state confermate in appello, anche ad amministratori locali, a dipendenti di banca e a funzionari infedeli del ministero del lavoro. Aveva ramificazioni dimostrate nel Veronese.
C’è stata l’inchiesta “Camaleonte” sulle attività di un gruppo criminale affiliato alla ‘ndrangheta e operativo nelle province di Padova e di Vicenza.
Ma è soprattutto l’inchiesta “At Last Camorra” l’operazione che ha fatto più rumore, terremotando il Veneto orientale con l’arresto di 50 persone collegate al clan dei Casalesi. Soggetti ritenuti responsabili di reati d’ogni genere finalizzati al controllo del territorio: usura, estor-
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sioni, droga, detenzione di armi, bancarotta, minacce, danneggiamenti, incendi, truffe, reati societari e fiscali. Tra gli arrestati anche il sindaco di Eraclea per voto di scambio. Nel gennaio 2023 il processo con rito abbreviato è finito con la condanna di 22 imputati a complessivi 130 anni di reclusione. Finora è stata l’operazione antimafia numericamente più rilevante nel Veneto. La Cassazione ha confermato l’associazione mafiosa che era accanitamente contestata dagli avvocati della difesa (art. 416 bis) anche se ha ridotto da 3 a 2 anni la condanna dell’ex sindaco. Il 14 novembre sono cominciate a Mestre le udienze del processo d’appello. Nel 2023 erano arrivati a sentenza altri due processi per mafia nel Veneto: l’inchiesta “Isola scaligera” e l’operazione “Taurus”. Per “Isola Scaligera” si è trattato del ricorso in appello della difesa: la Corte ha ridotto le pene ed escluso per alcuni capi d’imputazione l’aggravante mafiosa agli 11 condannati dopo la maxioperazione che nel 2020 aveva scoperchiato le infiltrazioni della 'ndrangheta nel veronese, portando all’arresto di 23 persone. Ha confermato invece la condanna a 2 anni e 8 mesi all’ex presidente di Amia, l’ex azienda municipalizzata (fino a pochi
mesi fa nel perimetro AGSM AIM), per un episodio di corruzione.
L’operazione “Taurus” condotta dai carabinieri del Ros di Padova coordinati dalla Dda di Venezia ha portato alla sbarra 52 persone legate a famiglie malavitose (‘ndrine) di Gioia Tauro, accusate di estorsioni, riciclaggio, false fatture, traffico di droga, usura (applicavano tassi fino al 600 per cento), minacce, rapina, ricettazione, traffico d’armi. Operavano da vent’anni nel territorio veronese, ai confini con Lombardia ed Emilia Romagna. Il processo è terminato con la condanna di 28 imputati a complessivi 380 anni di carcere, 24 invece sono stati pro-
sciolti. Particolare interessante: il tribunale ha riconosciuto il diritto al risarcimento a chi si era costituito parte civile: 200.000 euro sono andati alla Regione Veneto, 20.000 alla Cgil Camera del Lavoro di Verona, altri 20.0000 alla Cgil del Veneto, 50.000 ad una società, 25.000 ad un privato.
Questo esempio sta facendo strada: il Comune di Verona si è costituito parte civile nel troncone 'Isola scaligera 2' scorporato dal processo già tenuto e che ha preso il via lo scorso ottobre. Nel primo procedimento non l’aveva fatto.
La parte sommersa dell’iceberg e Avviso Pubblico
Le inchieste e i processi colpiscono la parte emersa dell’iceberg. Quanto è estesa la parte che non affiora? Lo chiediamo a Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, una rete di Province, Comuni e Regioni, nata nel 1996 con il dichiarato scopo di mobilitare gli enti pubblici contro la corruzione istituzionale e le mafie. Oggi l’associazione conta 600 soci, di cui 125 veneti, in testa la Regione Veneto. «Un fatto deve farci riflettere», argomenta Romani. «Ai processi per mafia gli imprenditori e i professionisti interrogati dai pm rispondono quasi sempre “non so”, “non ricordo”, “non mi pare”, anche a fronte di intercettazioni telefoni-
che o ambientali che li smentiscono. Che sia complicità o timore di ritorsioni, questo è l’atteggiamento. È un errore considerare la mafia solo un problema da codice penale, di sicurezza o di ordine pubblico: la mafia è innanzitutto un problema culturale, quindi politico, sociale ed economico, non solo criminale. I mafiosi cercano la ricchezza, il potere e l’impunità. È fondamentale per loro rapportarsi con persone esterne al mondo criminale, per raggiungere questi obiettivi. Qui la criminalità mafiosa si incrocia con la criminalità economica: per far rientrare i soldi nel circuito legale servono persone esperte nel riciclaggio. E noi abbiamo avuto esponenti del mondo delle professioni, dell’imprenditoria e delle banche che sapevano molto bene con chi avessero a che fare. È emerso con chiarezza dai processi». I settori più a rischio di permeabilità mafiosa? Accanto all’edilizia,
che vuol dire l’intera filiera, dal movimento terra al trasporto di materiali all’uso delle macchine ecc., Romani pone la logistica: «A Verona nel Quadrante Europa girano 11.000 camion al giorno, tra entrate e uscite, che trasportano container. Più 60 treni al mese. Si può immaginare che tipo di relazioni possano nascere. Poi il turismo: sul lago di Garda la sola provincia di Verona totalizza 18 milioni e mezzo di turisti. C’è Venezia, ci sono le Dolomiti, tra poco ci saranno le Olimpiadi, ci sono gli investimenti del Pnrr. Il turismo è un settore che registra compravendite di ristoranti, alberghi, pizzerie, che ha bisogno di camerieri, cuochi e altri dipendenti, dunque di aziende che forniscano manodopera e servizi. Infine, ma non ultimo, c’è il gioco d’azzardo: le sale giochi sono grandissime lavatrici di denaro sporco». Di fronte ad una mafia che cerca sponde dovunque e a casi di evi-
denza conclamata, come si comportano le associazioni di categoria? Ne dibattono al loro interno, prendono posizione pubblicamente, avviano azioni di contrasto, come reagiscono? «Posso rispondere con il progetto che Avviso Pubblico ha attivato dal 2020 assieme alla Camera di commercio di Verona», risponde Pierpaolo Romani. «La presenza della ‘ndrangheta a Verona è un fatto accertato, non si parla più di infiltrazione ma di radicamento almeno trentennale. A fronte di questa evidenza conclamata, più che lottare contro la mafia bisogna ormai difendere l’economia scaligera. Lo facciamo attraverso la Consulta della legalità, una rete che mette insieme più di 30 categorie presenti nel territorio: artigiani, commerciali, piccole e medie industrie, ordini professionali, banche, assicurazioni, sindacati, consumatori, più i 43 Comuni che aderiscono ad Avviso Pubblico sui 98 della provincia. Promuoviamo incontri informativi bimensili con magistrati, investigatori, docenti universitari, amministratori locali, imprenditori di altre regioni; mettiamo in rete tutto quello che emerge da questi meeting; abbiamo costituito quattro gruppi di lavoro settoriali dedicati ad agricoltura, edilizia, logistica e turismo. Chi si collega al sito della Camera di commercio di Verona trova informazioni, esperienze e anche un percorso di segnalazione protetta di situazioni anomale, senza che questa diventi una denuncia formale. Chi più degli operatori ha interesse a difendere il mercato e il territorio dove lavorano?».
Storie di stampa
La fondò un eterogeneo drappello di giovani cronisti – tra i quali Massimo Manduzio, Alberto Franco, Maurizio Mascarin, Vincenzo Beni – sostenuti da giornalisti già affermati quali Franco Maria Silvestri, Vinca e Felix
Maurizio Mascarin
La macchina del tempo, grazie agli archivi dei periodici della Biblioteca Bertoliana (collocazione PER.VIC.810), ci porta al racconto di una Vicenza prossima agli anni Ottanta, quando il Veneto è ancora Vandea bianca e Vicenza è ancora la Sagrestia d’Italia. Ma qualcosa si stava muovendo. È in questo scenario che un eterogeneo drappello di giovani cronisti – tra i quali Massimo Manduzio (che nel settembre del 1981 fondò anche Segnocinema con Paolo Madron e Mario Calderale, ndr), Alberto Franco, il sottoscritto Maurizio Mascarin, Vincenzo Beni – sostenuti da giornalisti già affermati quali Franco Maria Silvestri, Vinca e Felix (la forza dello pseudonimo!), con zero budget e una mitica Olivetti Lettera22, alla vigilia degli anni Ottanta propongono ai lettori vicentini L’altra Vicenza, « un giornale alternativo alla mestizia dei verbali di cronaca offerti dai due quotidiani locali » C’era di tutto, in quei pochi fogli a colore 'scarsi' di pubblicità: dalla politica locale (esemplare una bella intervista a Lino Zio, consigliere comunale Dc dal 1951 al 1979 e tra le voci illuminate di Vicenza, dal ti-
tolo: L’ ultimo Consiglio di Lino Zio) ai retroscena dei palazzi romani («A chi telefona il sottosegretario alla difesa, il vicentino Onorio Cengarle? Con 10milioni 200 mila lire di spese telefoniche, è tra i parlamentari più affezionati al telefono…»).
Senza dimenticare curiosi pezzi di colore, dai toni surreali, come quello su Gianni Marchetti, il giovane avvocato chansonnier che, sulle orme di Paolo Conte e Jannacci, lontano dal freddo rigore del Foro cantava in ogni dove (io ne sono stato testimone a Parigi, a la Gare de Lione) il cosmico Lamen-
to indiano, la sentimentale Piangi nelle valli e nelle convalli, la mitica «Bagigi a Nairobi… tu mi offrivi del tokay/ mi parlavi dei tuoi guai/ ricordavi anche Shangai… Bagigi a Nairobi ho comprato per te»
L’altra Vicenza
È il 16 dicembre del 1979 quando esce in edicola, a £ 300, il primo numero de L’altra Vicenza settimanale del sabato. Direttore e tra i fondatori, insieme ad altri colleghi, un giovane e pacato giornalista, Massimo Manduzio, che dopo una breve gavetta approderà a Il Giornale di Vicenza.
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Per far capire di che inchiostro era questo debuttante giornale, il pezzo d’apertura del numero 1 fa subito scalpore, anche tra gli amici della Balena bianca. Titolo: All’avvocatoPierangeloFioretto,commissariogiudiziale del Cotorossi, una parcella di 420 milioni. Tanti, tanti soldi anche per il consigliere e assessore comunale Lino Zio che, da noi intervistato, ammette: «È una cifra enorme, vorrei non credervi. Ma è così»
Tutto regolare, comunque. Sia per il compianto, fu ucciso, avv. Fioretto («Senza di me non ci sarebbe il Cotorossi», ebbe a dire), sia per il suo avvocato di fiducia, l’avv. Francesco Barilà, che sulla questione argomentò con una lettera al direttore il perché di tale parcella liquidata al suo cliente.
Noi, quelli che
Eravamo giovani, giovani scaltri con la biro e il block notes sempre a portata di mano. Giovani pronti e attenti ad ascoltare le voci della città, i suoi sentimenti, a raccoglierne i suoi malumori. E come segugi cercavamo interviste, notizie e retroscena più o meno 'piccanti' per la quieta piazza palladiana. Tra i tanti temi sul tappeto, l’annosa questione del Teatro Nuovo firmato Gardella. «È un bel teatro, non costa molto, 8 miliardi. Chi ha votato contro non aveva proposte precise», dirà il sindaco Giovanni Chiesa, che così chiuderà in bellezza il suo mandato amministrativo.
Intanto le strutture scolastiche della città facevano acqua. Succede all’Istituto tecnico Rossi, dove le aule di laboratorio sono ridotte ad un colabrodo. «Cadono calcinacci, ma si continua a far lezione», denunciano gli studenti.
Cronisti di strada
L’Altra Vicenza non aveva logisticamente una sua redazione, ciascuno scriveva a casa il suo pezzo, dopo averlo concordato col direttore durante i quattro passi canonici in Corso Palladio. Così facendo, le notizie – meglio, i retroscena – non mancavano mai. Anche perché la Dc locale era tutt’altro che granitica e tra le contrapposte correnti le voci e i dissidi montavano presto a notizia.
Tutti contro
I retroscena sulle faide correntizie interne (rumoriani vs dorotei, Lorenzo Pellizzari vs Danilo Longhi), le battaglie di posizionamento tra veterani ed emergenti erano pressoché all’ordine del giorno. Bastava coglierle e scriverle. Come nel caso del governo urbanistico della città: «L’edilizia spacca la Dc: l ’assessore all’urbanistica Danilo Longhi contro l’assessore ai lavori pubblici Porelli», scrive L’altra Vicenza. Ed il dibattito tra falchi e colombe scudocrociati saliva alle stelle.
L’altra Vicenza e il parlamentare Cengarle
Sulla scena della politica vicentina non c’erano solo i litigiosi Dc. Non passava inosservata la voce dell’intellettuale socialista Fernando Bandini, quella insorgente dell’architetto comunista Secone; c’era poi una sconsolata signora liberale, la Dalla Via, che per uscire da un sordo anonimato, col tempo pensò bene di far carriera e di trasformarsi in leghista convinta. E poi c’era un protagonista, a suo modo originale e fuori dal coro, come l’eclettico editore/scrittore Neri Pozza: «I politici?
Una massa di ignoranti nel vero senso della parola: illetterati, idioti, totalmente privi di cultura. Sia a livello nazionale che locale – dichiara senza mezzi termini a L’altra Vicenza –. Prendiamo ad esempio la vicenda del teatro a Vicenza…».
Quando i politici… L’altra Vicenza se lo compravano tutti, politici e portaborse. Lo compravano, ma quasi sempre di nascosto, perché non si doveva far vedere. Qualche edicolante amico del Centro ci raccontava di questo o quell’altro assessore che, per non far vedere che leggeva questo giornalino insolente, se lo faceva comprare dal portaborse di turno o dall’amico del bar. Tanto per dire di com’era quella Vicenza che, per la verità, quanto a dose d’ipocrisia e provincialismo non ci sembra molto cambiata. Anzi.
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Non ebbe vita lunga L’altra Vicenza. Appena 9 numeri nell’arco di 6 mesi. Ma per molti di noi quel giornale che voleva vederci chiaro («…andremo oltre la notizia, ci saranno gli amati retroscena…», scriveva nel suo editoriale di presentazione il giovane Massimo Manduzio) rappresentò un’ottima palestra per il futuro, e fece da battistrada ad un’altra operazione giornalistica, il settimanale Nuova Vicenza. Tutto il resto è storia. Senza nostalgia.
P.S. Il direttore di questa testata non sapeva che L’altra Vicenza, anche da lui fondata, ma per il bello e il buono di Vicenza, aveva un siffatto antefatto…
Edoardo Pepe
Serenissima Ristorazione, nata nel 1984 come piccola realtà vicentina operante nella ristorazione aziendale, in 40 anni è passata da poche centinaia di pasti giornalieri a una produzione di oltre 250.000 pasti al giorno. «Dal 1986, quando abbiamo rilevato l’attività grazie all’intuizione di mia moglie, e sotto la guida della mia famiglia, abbiamo intrapreso un percorso di crescita straordinario. In 40 anni abbiamo vissuto ogni giorno con dedizione e passione affrontando sfide e cogliendo opportunità che ci hanno portato ad essere una delle realtà più importanti della ristorazione collettiva in Italia», ci racconta il presidente di Serenissima Ristorazione Mario Putin.
Serenissima Ristorazione è, infatti, diventata un gruppo che opera attraverso 14 società controllate con una forte diversificazione nel food, dalla ristorazione commerciale alla ristorazione automatica, dalla fornitura di prodotti alimentari e bevande a ristoranti e bar, fino alla birra artigianale Beer Table e agli omonimi locali a New York. Le società Rossi Giants, Imes e F.F.F. ope-
rano, invece, come piattaforme di distribuzione di prodotti alimentari e non per il settore Ho.Re.Ca e gli esercizi gastronomici. Infine, grazie a Ristovending il gruppo presidia anche il settore della distribuzione automatica. Tra gli obiettivi di Serenissima spiccano l’aumento della propria competitività, l’esplorazione di nuove aree di business e il consolidamento della presenza sui mercati esteri, tra cui Spagna e Polonia, dove opera attraverso le filiali Serenissima Iberia e Serenissima Polska.
«Nel 2010» – prosegue Mario Putin – «abbiamo realizzato il centro di produzione di Boara Pisani (Padova), dedicato alla produzione dei pasti in legame refrigerato e surgelato, il primo in Italia nonché uno dei più grandi in tutta Europa. E nel 2024, l’azienda ha presentato il secondo bilancio di sostenibilità, che riassume i risultati ottenuti negli anni 2022 e 2023 mettendo su carta come ogni operazione sia in linea con i pilastri ESG»
Le strategie di crescita di Serenissima Ristorazione si basano su una combinazione di sostenibilità, innovazione e diversificazione con la gestione familiare, elemento di-
Le cifre di Serenissima Ristorazione
Fatturato consolidato 2023: 535 milioni di euro
Utile netto consolidato 2023: 13,7 milioni di euro
Pasti preparati ogni anno: 50 milioni
Collaboratori: 12.000
Società collegate: 14
stintivo del gruppo, che consente di affrontare con flessibilità e rapidità le sfide e di pianificare investimenti con una visione di lungo periodo. Il futuro dell’azienda è, infatti, saldamente nelle mani della nuova generazione rappresentata dai quattro figli di Mario Putin: Tommaso, vicepresidente, Giulia, responsabile acquisti, Massimiliano, che guida lo sviluppo delle società estere e della logistica Ho.Re.Ca. tramite Rossi Catering, e Maria Leida, a capo della qualità e della parte tecnica.
Tra gli obiettivi principali del gruppo, un’eccellenza vicentina, spiccano, conclude Putin, «i 700 milioni di euro di fatturato nei prossimi tre anni sviluppando nuove linee di business, come il catering crocieristico e aereo con un focus sulla riduzione dell’impatto ambientale grazie al team apicale che garantisce continuità, innovazione e una visione strategica mirata a consolidare e ampliare la nostra presenza nei vari mercati».
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Ritratti di protagonisti
Lui, rosso, fece finanziare dall’altro Gianni, Agnelli, una baita a Bardonecchia, ma a Venezia non gli fecero incontrare Madonna: voleva farle comprare la settecentesca Villa Rubini di San Pietro Intrigogna per finanziare l’Ipab di Vicenza . Dietro il suo garbo di piemontese, arrivato a Vicenza per amore, cova ancora lo stesso fervore di esserci e fare dove più serve: tra la gente
Quando stringo la mano a Giovanni Rolando, per gli amici semplicemente Gianni - proprio come un noto ed elegante personaggio dell’alta borghesia di Torino, città da cui proviene, e di cui parleremo più avanti- e mi siedo con lui al tavolino di un bar del centro, non è decisamente giornata da caffè per me. Per motivi personali ho bisogno piuttosto di un calmante e mai avrei pensato di trovarlo proprio nell’amabile chiacchierata con Rolando: il suo garbo, la sua calma, la cortesia e la sua subito evidente umanità sono immediatamente un balsamo per me.
Incitato a raccontarmi di sé e della sua lunga carriera non solo politica, questo personaggio noto a Vicenza per il tanto che ha fatto per la città, ma soprattutto per la sua modestia e il suo (apparente?) non-presenzialismo ( « bisogna esserci, non mettersi in mostra » ) premette subito che non vuole suonare nostalgico. La nostalgia però prende me, per quella generazione che mi ha cresciuta e mi ha nutrita con valori che vanno scomparendo… Quei signori che ci si nasce, non si diventa.
Giovanni Rolando è un 'superstite' di un antico codice morale, che lo ha guidato lungo l’intera, pienissima sua vita. Una vita che comincia in Piemonte, a Torino, e che Rolando fin da giovanissimo farà intensa, concreta. Tra le borse cariche di fogli, appunti, libri e ricordi adagiate sulla poltroncina del bar non scorgo nessun cappello con la penna nera, eppure la sua integrità e la sua concretezza mi richiamano subito alla mente quella che è la definizione più densa e vera dei miei amati
Alpini: uomini del fare, non del dire. Adesso, qui con me, per Giovanni è tempo del dire, del raccontare, ma la sua carriera di azione, all’età di 78 anni (è nato a Carignano, in provincia di Torino, il 16 maggio del 1946) portati con naturalezza e soprattutto consapevolezza, non è affatto finita, né accenna a rallentare.
Finiti gli studi, ancora sotto la Mole Antonelliana, e subito dopo aver conquistato un trofeo di basket, il suo sport preferito che oggi continua ad amare da tifoso
biancorosso sempre sugli spalti, inizia subito a lavorare, o meglio a incarnare quella che lui chiama l’etica del lavoro, concetto forse troppo profondo per il nostro oggi, che lo accompagnerà per sempre e in cui crederà sempre. È un lottatore Rolando, gentile ma determinato. Lotta per tutto, per tutti, in nome soprattutto di dignità e giustizia, perché gli ideali non si limitino a esser tali, ma si traducano nel cambiamento. E non si arrende, mai. Mossi i primi passi in politica sotto la bandiera rossa -il colore, ricordiamolo, della passione- del PCI, vive, a 38 anni appena compiuti, come un lutto la tragica fine di Berlinguer (l’11 giugno del 1984 a Padova) e il conseguente, graduale declino del partito, ma per lui il vessillo sventola ancora. Il suo personale, intenso slogan recita proprio “Eppure il vento soffia ancora”. Eppur si muove, diceva Galileo Galilei… eppur li possiamo smuovere sarebbe il giusto adattamento a Rolando.
Intanto, però, era stato l’amore a muovere lui da Torino a Vicenza. Unica conditio sine qua non per seguire in terra berica quella che
oggi è sua moglie è, ancora una volta, il lavoro. Trentenne volenteroso, sveglio e competente, lo trova subito. Anzi, appena assunto (parliamo di 3 giorni dopo, solo 3!) trova subito anche di meglio e il promettente tecnico progettista di apparecchiature elettroniche, emigrato da quella piazza torinese che è storicamente meta di
grandi migrazioni operaie, diventa pendolare sulla tratta Vicenza - Montecchio Maggiore, « quando ancora c’era il trenino per Valdagno » . Alle 8.10 ogni mattina timbra il cartellino su quello che non sapeva ancora sarebbe stato molto più di un posto di lavoro, ovvero il trampolino verso quella vita di dedizione alla causa che ancora lo vede impegnato.
Nell’azienda per cui lavora, in cui non c’è l’ombra di un sindacato, accadono cose non proprio etiche. Con alcuni colleghi Giovanni va in delegazione dal 'padrone', che risponde, cito Rolando, 'NIET'. La miccia è accesa: Gianni promuove una prima organizzazione sindacale interna, quindi viene eletto nel Consiglio di fabbrica. Tutto questo senza mai smettere di fare quello che fanno quelli che rappresenta: lavorare. Da lì il passo è breve. Qualcuno gli chiede: perché non entrare attivamente nel partito? Il fidanzamento è brevissimo, il matrimonio con il PCI lunghissimo e all’insegna dell’assoluta fedeltà. Ritratti di protagonisti
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Lei è un politico vecchio stampo, diciamolo all’inglese old style, perché io ci vedo tanto stile. Come giudica la politica di oggi?
« Il mondo è cambiato e non è un modo di dire. Ai miei tempi il partito era legato a doppio nodo alla società, i politici avevano il polso di come andavano le cose, di che cosa c’era bisogno, erano parte di quel bisogno, lo vivevano in prima persona. Sotto elezioni non si facevano le costose, appariscenti campagne elettorali di oggi. Noi avevamo la Festa dell’Unità per finanziarci. Con 107 iscritti, nella mia sezione Antonio Gramsci di Montecchio Maggiore cominciavamo a Natale a organizzare per bene quelle due settimane di condivisione, festa e sostegno e sono orgoglioso del fatto che in soli 4 anni riuscimmo a finanziarci una sede tutta nostra, nella nuova piazza Carli. Ho avuto splendidi compagni, di partito e di viaggio, con cui si condividevano ideali ma anche principi, come il rispetto della pluralità. C’era partecipazione, sentimento. Alla morte di
Berlinguer ho visto la gente piangere. Quel mondo non c’è più. La democrazia liberale, non solo da noi, è in crisi. La destra-destra si è saldata con il capitalismo ipertecnologico, tutto ruota intorno ai soldi, mentre bisogna capire che le condizioni di partenza dovrebbero essere uguali per tutti »
Ma, come premesso, Rolando non è un nostalgico. Dopo tanta acqua, tante lotte e tante cariche politiche prestigiose sotto i ponti, a muoverlo è ancora la stessa passione, a nutrirlo la stessa capacità di emozionarsi, a renderlo a chi simpatico a chi scomodo la stessa determinazione. Lo scorso anno ha fatto notizia la sua decisione di abbandonare le cariche ufficiali (ndr, allora era consigliere comunale, dopo essere stato anche consigliere regionale), ma il suo non è stato affatto un addio. Il vero politico non va mai davvero in pensione, l’attivismo continua, anzi insiste lontano dai riflettori. Al momento, a vederlo schierato, con l’arma invincibile della consapevolezza e con una cartuccera carica di perseveranza, sono due trincee in particolare: la campagna non solo ambientalista per la conclusione della Bretella dell’Albera e l’impegno per gli anziani.
Si dice che Vicenza non è città per giovani. Polemiche a parte, come stanno i non più giovani?
« Non bene, non come dovrebbero. Il 25% dei vicentini è over 65, dato
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destinato a salire per quella che io chiamo la glaciazione demografica. Sono stato presidente dell’Ipab e conosco la situazione delle case di riposo a Vicenza e nel Veneto. Ancora mi sto battendo perché si superino gli ostacoli legali e burocratici che hanno fin qui fermato il progetto di una nuova RSA da 120 posti letto in zona Laghetto. Proprio di recente ho portato la mia relazione in Commissione. Quanto ai finanziamenti, personalmente non li colloco alla voce impedimento. Sono sempre stato e resto del parere che i soldi, se si vuole, si trovano » .
Dice, e fa, sul serio Rolando. Ancora ragazzo, ancora in Pie-
Ritratti di protagonisti
monte frequentava l’oratorio, le Acli ecc. sotto la guida del giovane don Paolo. Questi aveva trovato, per ospitare le vacanze in montagna dei ragazzi, una baita in Alta Val di Susa, dalle parti di Bardonecchia, ma era da ristrutturare e mancavano i fondi. Gianni, quasi fosse una battuta, disse allora « Andiamo da Gianni! » . L’altro Gianni, Agnelli. Detto, fatto. Nell’ufficio all'ultimo piano di corso Marconi 10, li accoglie Tota Maria, come era nota la segretaria personale dell’Avvocato. Non fanno a tempo a perorare la causa, che sulla soglia si affaccia Agnelli in persona. « Cosa iè? » , chiede. Quanto serve? I due prodi non lo sanno, non hanno fatto ancora una stima. « Maria, quel che serve, diamo » . La Maison des Chamoix è ancora lì e serve ancora allo stesso scopo, per i ragazzi. La famiglia Rolando ogni estate va a farle un saluto…
Non gli è andata altrettanto bene, ma l’importante è provarci, quando, molto più di recente, ha saputo dai giornali che la rockstar Madonna cercava casa in Veneto, meglio ancora a Vicenza, e pro-RSA si è fiondato all’Hotel Bauer di Venezia, dove alloggiava, per proporle di acquistare la settecentesca Villa Rubini, patrimonio dell’Ipab. Non l’hanno nemmeno lasciato avvicinare...
Il nobile (d’animo) Rolando invece ha permesso a me di avvicinarlo. Non gli ho venduto nulla, anzi ho portato a casa molto, gratis. Tra cui il privilegio di chiamarlo, ormai, anch’io Gianni.
“comandante"
Il neo scrittore allora bocia con la ragazza sul cinquantino ma col gomito mai alzato parla ai suoi amici boomer(s) e a chi vorrà conoscere la Vicenza di quegli anni : “Damiana mi lasciò la mano, ancora la cerco”
Dopo la calda accoglienza da padrone di casa di Massimiliano Zaramella, presidente del consiglio comunale di Vicenza, che ne aveva fatto le veci in sua attesa, il sindaco Possamai, che gli anni dei boomer non li ha vissuti, parla nei suoi saluti di «belle pagine della storia di Vicenza. Ci voleva il comandante della Polizia Locale per riempire così Sala Stucchi». È stata questa l’introduzione del sindaco Possamai alla presentazione del libro di Massimo Parolin Quella strada per il lago 1980-2023. Storia vicentina di amore edemonialtempodeiboomers, ospi-
tata martedì 3 dicembre pomeriggio nella sala più prestigiosa di Palazzo Trissino.
«Ed è giusto che sia così, perché tra queste pareti è passata davvero tanta vita ed è di vita, della vita a Vicenza negli anni ‘80 che parla il libro». Nelle pagine, infatti, rivive un mondo ormai lontano, dove si viveva e ci si divertiva con poco: i ritrovi, il motorino, il cinema e le domeniche pomeriggio in discoteca, dove bruciare in un sol giorno la paghetta settimanale di 4-5.000 lire tra ingresso e consumazione, sigarette e multe per il trasporto di… una passeggera, nel caso si incappasse nei temuti vigili urbani. E oggi, ironia o dono della
sorte, l’autore è stimato comandante a Vicenza con la saggezza e l’equilibrio nati dalle esperienze giovanili che tutti hanno ma che, per lui multato per amore sul “cinquantino”, come ha sottolineato Matteazzi, non hanno mai compreso neanche minimamente (un difetto per un veneto?) l’alzare il gomito.
Il volume, che consta di un romanzo e di racconti (e l’autore invita a invertire l’ordine nella lettura: prima i 14 aneddoti per conoscere i personaggi e i tempi, poi la storia), è fatto di pagine che scongiurano eccessi di nostalgia con uno stile spiritoso, ma che a un certo punto cede alle ombre del noir, anzi del gotico.
«Ho sempre avuto una passione per il gotico, l’horror. I miei miti, che non mi sogno di emulare, sono Edgar Allan Poe, Bram Stoker e Stephen King. Dopo un inizio sommesso, leggero e spensierato, dove si parla di amore e di amicizia, ecco che viro improvvisamente al misterioso e all’esoterico» Gli amici, le ragazze, LA ragazza (chi è Damiana che gli 'lascerà la mano'?), i motorini incolonnati lungo la Riviera Berica puntati verso il lago di Fimon (evocato in copertina da una foto di Tommaso Cevese), quel senso di libertà… poi una scomparsa nel nulla, le ricerche, la paura, l’incognito, gli anni (ben oltre 40) che passano e le domande che restano. Dalla realtà alla fantasia, dall’autobiografico al sovrannaturale. Tutto in un attimo, perché il libro si legge tutto d’un fiato. A incalzare l’autore del romanzo, edito dalla romana ma con solide radici locali Editoriale Elas, delle cui collane è curatore, 'onorato e volontario', ci ha tenuto a precisarlo il direttore delle nostre testate VicenzaPiù Viva e Vipiu.it, è stata la sempre 'nostra' Giulia Matteazzi, disinvolta e ben calata nel suo ruolo di non-boo-
mer-per-poco. Alla domanda Come un vigile si scopre scrittore? Massimo Parolin ha spiegato: «A 61 anni non pratico più sport, ma con il lavoro che faccio ho bisogno di una via di fuga dai problemi sulla sicurezza che mi trovo ad affrontare ogni giorno. Evadere, rasserenarmi sono una
via verso l’equilibrio indispensabile a trovare la soluzione a quegli stessi problemi. È stato poi naturale orientarmi verso quello che è un vizio di famiglia…». Il fratello Luciano Parolin era infatti noto come la memoria storica di Vicenza. Senza pretese, 'con stile umile e povero talento', Massimo restituisce anche lui, a suo modo, un pezzetto della Vicenza che fu, quella dei Boomers, volutamente scritto con la 'S' finale, come direbbe la gente comune, di quel mondo semplice che racconta e di cui ha fatto parte. E che restituisce anche puntualmente nella sua brillante rubrica su VicenzaPiù mensile sui Boomer(s).
A intervallare il dialogo Parolin-Matteazzi, la lettura da parte di Letizia Tonello di alcuni brevi passaggi del libro. Come quello in cui si descrivono gli amici – schierati tutti in prima fila alla presentazione, compreso il mitico dj Lele -, dal confessore speciale dalle sentenze scomode, ma giuste, al ragazzo della porta accanto che monopolizzava l’interesse delle ragazze, dal figlio del campanaro che lavorava duro in officina senza lamentarsi mai e regalava barzellette irripetibili, fino a tanti altri.
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«È anche per loro questa mia memoria delle avventure e dei tempi vissuti insieme. Il mio è un libro d’amore e d’amicizia, che è la mia autobiografia e contemporaneamen-
te la biografia di chi ha vissuto con me i famosi e famigerati anni ‘80». Chiamati in causa non solo tra le pagine, ma anche alla stessa presentazione del libro, tra l’imbarazzato e
il lusingato, gli amici di Parolin sono avvisati: il prossimo libro sarà solo sull’amicizia, quella vera, “quella che i greci chiamano philìa – tiene a specificare il comandante Massimo richiamandosi a Roberto Vecchioni – ovvero la più alta forma di amore, disinteressata perché basata sull’affinità spirituale”.
E di amici, vecchi e nuovi martedì sera a fine presentazione, il comandante ne ha salutato e abbracciato tanti e tante, come si vede anche dalla piccola galleria fotografica che pubblichiamo, e altri ne abbraccerà fisicamente in varie presentazioni (la prima al bar Minerva, giovedì 12 dicembre alle 18 insieme a questo numero di VicenzaPiù Viva, la successiva il 27 dicembre alla stessa ora alla Libreria Galla e poi…) o virtualmente mentre, esotericamente, starà accanto ai lettori della sua opera prima.
Reniero | Aristide Malnati
Il suono vivace delle campane a festa si confonde con il canto ritmato del muezzin che invita alla preghiera: il nostro percorso ci porta ad avvicinarci al rimbombo che si è fatto incessante di potenti batacchi. Un invito ai fedeli a partecipare all'imminente funzione religiosa che verrà recitata in lingua italiana dai frati francescani in una cappella all'interno del monumento più simbolico della cristianità. La Basilica del Santo Sepolcro, nel cuore della Città Vecchia di Gerusalemme, appare quasi all'improvviso in tutta la sua maestosità una volta varcato un piccolo passaggio ad arco che dà sullo slargo davanti alla Basilica stessa. Una costruzione che affascina con i suoi quasi 1700 anni di storia, una storia che scandisce secoli di presenza cristiana in Terrasanta, che si è concentrata proprio nella difesa del suo simbolo più prezioso, dove è racchiuso il Mistero della religione più praticata al mondo e dove è avvenuto l'episodio che da solo sostanzia la Fede in Gesù, che appunto qui morì, fu sepolto e resuscitò, come dicono le Scritture.
L'edificio moderno, ancora oggi visibile, è il risultato di una serie di rifacimenti partiti in origine dalla chiesa primitiva fatta costruire da Sant'Elena, madre dell'Imperatore Costantino (quello che nel 311 con il suo famoso editto a Milano decretò la libertà di culto per tutte le religioni dell'Impero, ad iniziare dal Cristianesimo). Eravamo attorno al 330 ed Elena, fervente cristiana, si recò in Terrasanta per riconoscere fisicamente tutti i luoghi legati alla predicazione di Gesù, ad iniziare dai più importanti, quelli della Passione. E, ovviamente, identificarono, lei e gli archeologi ante litteram al suo seguito, il luogo che fu la sepoltura di Nostro Signore: un loculo scavato nella roccia dove venne posto il corpo che poi resuscitò. Uno spazio angusto che fu venerato per secoli e che recentemente (è notizia che diamo in esclusiva!) gli
archeologi dell'Università La Sapienza di Roma, diretti da Francesca Romana Stasolla, hanno datato con certezza proprio al periodo di Gesù, all'interno di una necropoli ebraica, anch'essa funzionante nel medesimo arco di tempo e all'epoca posta fuori dalle mura di Gerusalemme, come dicono i Vangeli. L'archeologia conferma il racconto evangelico; e questo è straordinario, soprattutto per chi ha Fede. Con il cuore ancora vibrante per l'emozione, dopo avere fatto la fila ed essere entrati nell'edicola con il sepolcro, assaporiamo la santità delle altre parti della basilica al suo interno. Il Golgota con le rocce che lo formano proprio a forma di cranio (a confermare anche in questo caso i testi sacri, che così lo descrivono); poi la pietra dell'unzione fino a spingerci, scendendo incerti scalini, nel cuore della antica basilica
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fatta erigere da Sant'Elena, ricca di simboli cristiani come croci o pesci. Un'emozione che ci esalta, ma che subito distilliamo catturati dal caleidoscopio di colori e di sapori di spezie e di fragranze aromatizzate del più famoso souk al mondo, il mercatino che si snoda nell'intrico di viuzze lungo la Via dolorosa, la Via crucis che i frati francescani identificarono durante il medioevo, cioè il percorso che Gesù fece per arrivare al calvario. Stoffe pregiate, profumi di incenso e varie essenze, spezie, gioielli e pietre preziose, oggetti in alabastro, ma soprattutto piccoli souvenir a tema sacro in legno di ulivo o sicomoro; oggetti simbolici da vedere e, magari, anche comprare contrattando in tutte le lingue con i proprietari dei negozietti, quasi tutti palestinesi di religione cristiana.
Per poi concludere l'esperienza tra il mistico e il prosaico con una sosta per gustare un thè alla menta con qualche immancabile dolcetto al miele. Una pausa, intensa ma breve, perché ci aspetta la visita al monumento principe dell'ebraismo e della storia di Israele: il muro del pianto, che raggiungiamo passando dal quartiere cristiano a quello musulmano e poi ebraico in una gimcana di viottoli, a tratti segnati da resti di lastricato, di piccoli muri diroccati e qualche colonna, che ci ricordano il dominio dell’Impero Romano per secoli di storia. Ar-
riviamo al muro occidentale del secondo Tempio (quello di re Erode) – il cosiddetto muro del pianto -, che è ormai il tramonto del venerdì e che quindi offre il suo spazio maestoso ai riti ebraici dello Shabbat: sono centinaia i gruppi di ebrei osservanti che danzano e cantano versetti dell'Antico Testamento ebraico, soprattutto salmi, per salutare l'inizio del loro giorno di festa (il sabato, che va dal tramonto del venerdì fino al tramonto dello stesso sabato). Una festa che ci coinvolge e che viene accompagnata e quasi sfidata dal canto del muezzin islamico, che nella moschea di Al Aqsa o della Cupola della roccia (sulla spianata sopra lo stesso tempio erodiano) invita i fedeli della mezzaluna alla preghiera della sera. Un confronto serrato tra religioni che da secoli convivono, purtroppo con continue tensioni, nella Città Santa, a Gerusalemme la “hàghia pòlis” dei greci, El Quds (la santa) per gli arabi; fedi che si sfidano ancora oggi, in un periodo dai risvolti drammatici, in cui la città, capitale del moderno
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stato di Israele, ma soprattutto città-simbolo dei tre grandi monoteismi, quindi riferimento per quasi tre miliardi di persone, non ha perso comunque la sua voglia di profonda spiritualità.
La nostra esperienza a Gerusalemme si completa con la visita del Cenacolo – anch'esso edificio del periodo crociato, ma costruito su resti di abitazioni del I sec. d. C., proprio come la casa di Marco, dove avvenne l'ultima cena, secondo il Vangelo –; e con la visita del Palazzo di Erode, dove Erode il Grande, il più famoso Re di Giudea, ebbe il quartier generale nella città; e dove c'è ancora il sinedrio, il tribunale in cui Pilato si lavò le mani, di fatto mandando a morte Gesù.
Il profilo della Città Santa, soprattutto della sua parte più elevata posta sul Monte degli ulivi, svanisce alle nostre spalle, allorché ci dirigiamo verso la
depressione del Mar Morto, in un primo momento tra aspre rocce e in seguito tra le dune del deserto di Giuda. Il viaggio è piacevole e relativamente breve.
Il paesaggio sembra ripetitivo: una striscia tortuosa d'asfalto che si snoda tra alture rocciose scendendo gradualmente di dislivello: raggiungiamo lo zero sul livello del mare e poi procediamo verso il basso, verso il centro della maggior depressione al mondo. Ed ecco all'improvviso lo specchio azzurro-biancastro del Mar Morto, bacino lacustre ad alta concentrazione salina, tanto da potervi galleggiare leggendo comodamente il giornale.
Subito incontriamo la storia, il sito di Qumran, il piccolo villaggio del II secolo a. C. abitato dagli esseni, ebrei asceti (anche se non disdegnavano la pastorizia e il commercio), che molto dialogarono con le prime comunità
cristiane (probabilmente anche Giovanni Battista appartenne agli Esseni). A Qumran fanno da sfondo grotte nella montagna rocciosa, antri a picco sulla vallata sottostante dove un pastore beduino nel 1947 recuperò manoscritti preziosi: libri noti, ma anche segreti della Bibbia ebraica (come il Libro di Enoch), e addirittura il più antico frammento del Nuovo Testamento, un pezzettino di una copia del Vangelo di Marco (Mc, 6, 52-53) risalente attorno al 50 d. C. a neanche 20 anni dalla morte e
resurrezione di Gesù: un'autentica bomba, ancora oggi controversa. Passiamo oltre e ci dedichiamo alla serenità dei kibbutz, vere oasi di pace, distese di rigogliose coltivazioni tra aspre dune tutt'intorno. Prima Kalia, famoso per la qualità dei suoi datteri e di altri alberi da frutto, coltivati secondo precisa disposizione geometrica e studiata alternanza di colture; e poi En Gedi, uno dei kibbutz più antichi, esempio insuperato di comune socialista ebraica, permeato di pace autentica. Qui ai
benefici di una terra rigogliosa e amica (fiori e frutti di ogni tipo la fanno da padrone nel curatissimo orto botanico adiacente al kibbutz stesso) si aggiungono la salubrità di un clima mite e soprattutto delle acque del vicinissimo Mar Morto, toccasana medicalmente testato soprattutto per la pelle. Dopo il meritato relax tra le coccole di En Gedi, ci avventuriamo nel wadi non distanti (il wadi è lo stretto canyon tra due aspre montagne di roccia che in caso di pioggia a monte convoglia vorticosi fiumi d'acqua lungo un corridoio che arriva fino al Mar Morto). Su un fuoristrada arriviamo fino alla base della rocca di Masada: sulla sommità sorgeva il più emblematico Palazzo di Erode, dove il re dei Giudei passava i suoi inverni tra la lussuria e le mollezze del vizio; e fu a Masada che fu scritta tra il 70 e il 72 d. C. la pagina di eroica resistenza degli zeloti, gli ebrei oltranzisti che dopo una strenua difesa (le fonti archeologiche dicono che in realtà durò pochi mesi, ma sempre strenua fu) soccombettero alla X Legione romana guidata da Flavio Silva; e i pochi sopravvissuti preferirono il suicidio collettivo pur di non consegnarsi al nemico che ormai stava entrando oltre le mura della rocca. Un episodio ammantato di leggenda che ha segnato un intero popolo e che è avvenuto in un contesto naturale di incomparabile bellezza. Un insieme di doni del creato che si offrono in abbondanza ai numerosi pellegrini (religiosi o laici, viandanti cittadini del mondo), che vengono in quella che a buon diritto è stata definita dalle tre grandi religioni del Libro la Terra Promessa, uno spazio benedetto, troppo spesso ferito a morte da aspri conflitti, ma capace di aver fatto germogliare i più profondi pensieri spirituali che la Civiltà occidentale abbia partorito.
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Spazio per il sociale
Organizzata in 14 vicariati e 90 unità pastorali conta su 370 presbiteri diocesani, tra cui missionari in Brasile, Mozambico e Thailandia, e annovera oltre 1180 religiosi e religiose in comunità oltre a monasteri di clausura a Vicenza, Creazzo e Bassano
Suor Naike Monique Borgo e don Alessio Graziani
La Chiesa Cattolica raccoglie e sostiene nel mondo gli uomini e le donne credenti in Gesù Cristo e che si riconoscono nella guida del Papa, il vescovo di Roma, successore di Pietro. Per poter essere più vicini territorialmente alle diverse realtà della Chiesa, ma non soltanto, nel corso del tempo, sono state create le diocesi, comunità cristiane delimitate territorialmente ed affidate alla guida di un Vescovo. L’episcopo è un presbitero, che la tradizione riconosce come successore degli apostoli, scelto per fede salda, buona reputazione età anagrafica (almeno 35 anni), di ordinazione (prete da almeno 5 anni) e con studi approfonditi.
Ai vescovi viene chiesto di accompagnare dal punto di vista pastorale e sacramentale la vita della Chiesa loro affidata, di assicurare la buona gestione di beni ecclesiastici e di mantenere il legame di comunione con la sede di Roma.
La diocesi di Vicenza è la porzione di Chiesa affidata dall’11 dicembre 2022 a mons. Giuliano Brugnotto, che è l’80° vescovo della storia della diocesi berica. La chiesa vicentina fa parte della regione ecclesiastica del Triveneto insieme ad altre 14 diocesi. La regione ecclesiastica permette alle diocesi di un territorio di collaborare sinergicamente, sostenendo
progetti comuni, confrontandosi nelle questioni più complesse, oltre che aiutando i vescovi ed i loro collaboratori nell’annuncio della fede cristiana, primo vero “compito” della Chiesa.
Le origini cristiane di Vicenza vanno ricollegate alla città di Aquileia. Nei primissimi secoli si contavano solo piccoli nuclei di cristiani nel territorio berico. Gli scavi archeologici sotto la Cattedrale di Santa Maria Annunciata hanno confermato l’antichità della sede episcopale, mettendo in luce i resti di una domus ecclesiae databile alla fine del III secolo.
grande domus che si inserisce nel contesto del quartiere residenziale della Vicetia romana di cui faceva parte anche il criptoportico visitabile in piazza Duomo.
Dopo la ricostruzione postbellica, è accessibile l’Area Archeologica di circa 750 mq sottostante la Cattedrale. Lo spazio documenta edifici di culto antichi, dall’epoca paleocristiana a quella romanica. Oltre a ciò, è attestata la presenza di costruzioni pertinenti l’edilizia privata della città romana con tracce di una
L’esteso territorio della diocesi berica (2.200 mq nella provincia di Vicenza con alcune estensioni nelle province di Padova e Verona), il numero di abitanti (840 mila ), di parrocchie (355), di vicariati (14) e di sacerdoti diocesani (370) ne fanno una tra le dieci maggiori diocesi italiane. Il territorio è prevalentemente
pianeggiante, con alcune zone collinari (i monti Berici) e alcune comunità montane sulle prealpi venete. La provincia, densamente abitata e industrializzata, è caratterizzata dalla presenza di alcuni centri di maggiore importanza come Arzignano, Bassano del Grappa, Lonigo, Schio e Valdagno. Tenendo conto della morfologia del territorio, della densità abitativa e della concentrazione di attività economiche, le realtà ecclesiali si adoperano per creare reti di collaborazione con le istituzioni locali
per promuovere attività in favore delle persone più o meno svantaggiate. Le peculiarità locali rendono anche l’annuncio del Vangelo più sensibile ad un aspetto o ad un altro. oppure permettono esperienze che altrove non sarebbero possibili.
Dei 370 presbiteri diocesani, 346 sono residenti in diocesi, gli altri sono residenti altrove per particolari missioni loro richieste: per esempio è così per i fidei donum, cioè i missionari donati per un tempo ad una diocesi più giovane, come
sono quelle di Roraima in Brasile, di Beira in Mozambico e di Lamphun in Thailandia, dove sono presenti e operano preti diocesani vicentini. Tra i presbiteri residenti in diocesi, quelli che possono dedicarsi a tempo pieno all’apostolato sono all’incirca 200: oltre a considerare il calo visibile di seminaristi che si preparano a diventare preti, bisogna tener conto del fatto che l’età anagrafica e la salute incidono sempre più, esattamente come accade per l’intera popolazione italiana.
Anche per la presenza numerica sempre più esigua di preti, ma soprattutto per allinearsi con i numerosi inviti di Papa Francesco alla promozione dei diversi ministeri laicali, da alcuni anni la presenza della Chiesa sul territorio è stata ripensata con la costituzione di 14 vicariati e soprattutto con il raggruppamento delle parrocchie in 90 unità pastorali accompagnate dalla costituzione di piccole fraternità presbiterali e di gruppi ministeriali formati da laici corresponsabili nella cura pastorale.
Parallelamente la diocesi ha avviato un processo di riforma della Curia Vescovile organizzata oggi attorno a 5 ambiti: servizi generali, celebrazio-
ne e spiritualità, annuncio, prossimità, sociale e culturale. A questi ambiti afferiscono i diversi uffici diocesani che sono a disposizione di tutte le realtà ecclesiali, ma non solo, e che permettono la sinergia con numerose persone ed istituzioni, non solo religiose.
Tra i servizi generali vi sono ad esempio la segreteria generale, la cancelleria, l’economato, l’ufficio amministrativo… Nell’ambito dell’annuncio afferiscono la pastorale giovanile, la pastorale vocaziona-
le, la catechesi, la pastorale familiare… L’ufficio liturgico, la formazione permanente del clero, l’ufficio per la vita consacrata sono, invece, alcuni degli uffici dell’ambito celebrazione e spiritualità. Caritas, pastorale dei migranti, ufficio missionario e pastorale della salute sono l’ambito della prossimità. Sociale e cultura è l’ambito che spazia dall’ufficio per l’ecumenismo ed il dialogo interreligioso alla pastorale sociale e del lavoro, comprendendo tra gli altri
anche l’ufficio per l’insegnamento della religione cattolica e quello per la cultura.
Ai cinque ambiti di curia si ispira la struttura interna delle parrocchie e delle unità pastorali, così da avere rappresentanti e sensibilità diverse anche all’interno dei consigli pastorali parrocchiali.
Da alcuni anni, il grande edificio del Seminario Vescovile, funzionante ma notevolmente ridotto nei numeri, è stato trasformato in Centro diocesano e intitolato al vescovo di origine trevigiane Arnoldo Onisto che resse la diocesi dal 1971 al 1988. Qui sono stati spostati tutti gli uffici di curia.
La diocesi di Vicenza è stata la prima in Italia a ripristinare – dopo il Concilio Vaticano II – il diaconato permanente (ad oggi sono 44 i diaconi e altri sono in formazione).
Significativa resta la presenza degli ordini religiosi sia maschili (14 famiglie con 22 comunità per un totale di 180 religiosi) sia femminili (30 famiglie con 82 comunità per un totale di oltre 1.000 religiose) e dei monasteri di clausura (Carmelitane a Vicenza, Sacramentine a Bassano del Grappa e Clarisse dell’Immacolata a Creazzo).
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"Don, Don quando xe ghel organiza el torneo de calcet». Non era certo Don Bosco, il giullare di Dio, il buon Don Gabriele, cappellano della parrocchia dei Servi di Vicenza, ma era un grandissimo organizzatore di competizioni sportive dei ragazzi. La tunica nera alzata con le mani fino alle ginocchia, mocassini e via con le pallonate. La vita pomeridiana dei ragazzi boomers si svolgeva quasi interamente all’interno degli oratori. Ce n’erano moltissimi a Vicenza, a San Nicola, al Duomo, al Patronato, l’Araceli, ai Carmini e molti altri. Punti di riferimento, centri di aggregazione giovanili che consentivano a mamma e papà di poter svolgere il proprio lavoro serenamente, certi che i loro figli erano in un luogo sicuro. Lo stesso veniva vigilato, infatti, da un genitore a turno che rimaneva presente per tutto il tempo, dall’apertura alla chiusura, affinché al suo interno non accadesse nulla né potessero entrare persone poco affidabili, per usare un eufemismo. E non mancavano nemmeno le sospensioni dall’accesso. Chi si comportava male (magari per episodi di nonnismo che a dir la verità non mancavano) veniva annotato in un libricino, portato alla conoscenza del Parroco, che poi determinava per quanto tempo non si sarebbe potuto entrare: una sorta di (buon) ostracismo bosconiano.
Oratori frequentati però, perlopiù, da maschi. Le ragazze latitavano con nostro grande rammarico. Se non una splendida piccola biondina che trattava il pallone con così tanta grazia e talento da essere appellata da tutti noi 'Platini'. Quando si facevano le squadre e si dovevano scegliere i giocatori, mediante il criterio del pari e dispari «alle bombe del cannon che fa bim bum bam» (onomatopea dalla quale, poi, prese origine il famoso programma televisivo condotto da Bonolis dal 1981), lei era sempre la prima tra le opzioni. E se l’area esterna dell’oratorio non fosse stata adatta per il gioco del calcio, per assenza di porte, si sfruttavano i pali dei canestri; ossia chi colpiva il palo faceva goal. La nostra precisione balistica diventava così sempre maggiore. Eravamo bravi. Non c’erano le scuole di calcio da pagarsi profumatamente. Noi,
ci imparavamo (:0)) da soli. E forse qualche domandina dovremmo farcela sul fatto che abbiamo vinto il Campionato del Mondo nel 1982 e oggi sono due edizioni alle quali non partecipiamo.
Non solo calcio, ovviamente, ma pure basket, pallavolo e all’in-
terno ping pong, biliardo, giochi di società; il bengodi dell’attività ludica adolescenziale. Addirittura una sala musicale con batteria e pianoforte dove poter sognare di diventare dei Duran Duran o degli Spandau Ballet. Tutto ciò però aveva un prezzo (gnanca el can move la coa par gnente) da pagarsi: un costo religioso evidentemente. L’obbligo della dottrina cristiana al sabato pomeriggio e della messa domenicale (tutti seduti assieme nelle ultime fila dove potevamo sghignazzare per tutto il tempo). E si doveva frequentare fino ad età avanzata ossia fino alla terza, quarta superiore, mica fino alle elementari.
Eh già! Cosa si sarebbe fatto per giocare a pallone, ma per stare con gli amici questo e altro. E non finiva mica qui, per dirla alla Corrado Mantovani. Ulteriori 'gabelle' si profilavano all’orizzonte. La partecipazione ai cosidetti ritiri spirituali, che solitamente si tenevano al San Gaetano o a Monte Berico, dove si doveva affrontare la confessione, ulteriori messe, discussioni cattoliche. Il tutto era però ripagato con partite nei bellissimi campi interni delle citate istituzioni. Poi lo svolgimento della funzione di chierichetto (derivato dal latino clerum, a sua volta ripreso dal greco kleros, con il significato di 'parte scelta'), di ausilio al sacerdote durante la messa. E via ad indossare l’abito talare per portare le varie ampolline, il messale, i calici, il campanello e gli altri oggetti liturgici (pensando: e vanti e indrio con ste robe) E per i più bravi anche il compito di turiferari (addetto al turibolo per le incensazioni), navicellieri (addetto alla navicella), ceroferari (addetto ai candelieri).
Per non parlare del Giovedì Santo e la lavanda dei piedi. Tutti in riga davanti all’altare a farsi sciacquare i fettoni dal celebrante, dopo che la mamma te li aveva accuratamente e previamente grattati con la bruschetta (te ghe le onge nere) e lo spic e span (detersivo granulare per i pavimenti) ... par non far bruta figura
Ma tutto questo aveva un controprezzo anche per il Parroco. Ben sapevamo dove riponeva in sacrestia le particole e le chiavi del mobile. Quindi con il favore del crepuscolo, quando rincasava, saccheggiavamo bassottianamente la dispensa liturgica (eh quando che a ghe voe la ghe voe).
Il controprezzo lo avrebbe anche pagato (salato) quando ci portò in visita a Monterotondo per visitare i sacri luoghi di Padre Pio. Un viaggio della speranza, dieci ore in pullman tra suore, anziani, preghiere e canti religiosi: era troppo pure per noi! Noi ragazzi ad occupare, ovviamente, le ultime fila dell’autobus. Non potevamo non cogliere l’occasione di una vendetta boomer. Muniti di poster delle migliori playmate dell’allora celeberrima rivista Playboy andammo ad affiggerli, dall’interno, nella vetrata posteriore del bus, durante il tragitto autostradale. Per buona parte del viaggio (poi desistemmo per non far finire sul giornale la nostra parrocchia) le risate e gli strombazzamenti divertiti dei conducenti dei TIR che ci superavano, lasciavano basiti ed increduli tutti i passeggeri e il nostro guidatore, inconsapevoli di cotanta immotivata clacsonata.
Bene, secondo voi hanno vissuto meglio la propria gioventù i ragazzi di allora o quelli di oggi con i loro gruppi whatsapp?
Ragionateci sopra, direbbe lo Zaia di Crozza.
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Capolavoro interamente artigianale, fatto di passione, inventiva e manualità, ogni anno restituisce vita all’antica borgata, con personaggi a grandezza naturale, dalle umili vesti, i faticosi mestieri e i volti segnati, ottenuti dal calco degli abitanti del paese .
Visitabile dalla notte del 24 dicembre a domenica 26 gennaio
Federica Zanini
Ne ho visti, e fatti, tanti di presepi, fin da quando papà mi portava bambina nel bosco sopra casa a cercar muschio, poi scartava una per una con delicatezza le fragili statuine che gli appartenevano da chissà quanto. Un po’ di carta da pacchi arricciata a mo’ di monta-
gna, la carta blu con le stelle dorate per il cielo, qualche strappo di stagnola per laghetto e ruscello ed ecco che la magia era fatta. Una magia che ho ricercato tutta la vita, non facendomi mancare nessuna versione della rappresentazione della Natività. Ne ho viste in chiesa, in bacheche per strada, su barche in mare, sott’acqua nel lago, in grotte, ca-
panne o stalle, dentro le case, di giganti pure meccanizzate e di infinitesimali, nel guscio di una noce. Li ho ammirati nei materiali più diversi: legno, ceramica, terracotta, vetro soffiato, paglia, foglie di mais, tappi di sughero… Ho visitato anche interi musei di presepi e ho scritto svariati itinerari a caccia delle più belle Natività d’Italia e non solo.
Questa volta però mi accontento, si fa per dire, di portarvi vicino a casa, a visitare il presepe più bello che io abbia mai visto, del quale non posso credere che ancora così tanti vicentini non abbiano consapevolezza. La stella cometa punta sull’Alto Vicentino, quasi fino al suo confine col Trentino: Schio, Torrebelvicino, Valli del Pasubio, Sant’Antonio ed eccoci arrivati.
Gli anonimi edifici affacciati sulla Statale 46, non fanno minimamente sospettare l’incantesimo che vi aspetta nell’antica borgata interna di Bariola. Il presepe, diffuso tra vicoli e case ancora fermi a un tempo che fu, non è vivente, ma in qualche modo vive comunque. Le figure che lo abitano, intente in mille faccende di ieri, sono a grandezza naturale, vestite di poveri e veri abiti contadini e hanno volti carichi di espressione, ricavati dal calco del viso degli abitanti di Bariola. Qualcuno parla anche, come per esempio l’Alpino che riporta di fatica, freddo e… peoci, il bambino con sotto il braccio la gallina sottratta alle fauci della volpe dal nòno col sciopo, i veci (permettetemi di chiamarli affettuosamente ancora così, alla faccia del politi-
cally correct) che nella stalla fanno filò con i bambini, l’ubriaco steso col suo fiasco sul muretto, che non chiacchiera ma… russa.
Non è che un anticipo, che comunque non inficia la sorpresa che proverete visitandolo dal vivo, di quello che una passeggiata nel borgo, meglio ancora dopo il calar del sole, nell’ulteriore suggestione di calde luci dentro e fuori le case, vi solleticherà negli occhi e nel cuore.
A ogni angolo una sorpresa, una suggestione, un ricordo… tanto che, se si torna a visitarlo più volte, non solo non rischia di annoiare, ma regala sempre nuove prospettive.
Attorno all’umile postazione di Giuseppe, Maria e il Bambinello, adagiati sulla paglia e protetti alla bell’e meglio da quattro assi e un tetto, è radunato tutto quel mondo umile di fine Novecento, devoto e bisognoso, che Gesù è venuto a consolare: il moleta con le sue forbici e i suoi coltelli, il venditore di pelli di lepre con la sua bicicletta, l’innamorato che canta la serenata, le donne che radunano le pannocchie, si caricano in spalle pesanti gerle, tirano la sfoglia con la mèscola, cuociono il pane, rammendano e ricamano, gli uomini che trasportano fascine per il fuoco, raccolgono uva, imbottigliano il vino, piallano o scolpiscono il legno, accompagnano il lento girare dello spiedo, radunano le pecore, intrecciano cesti, di latte appena munto fanno puina.
C’è tantissimo da vedere (non dimenticate di alzare lo sguardo di tanto in tanto: da balconi e finestre qualcuno osserva voi) e da ascol-
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tare (non solo le voci e i racconti, ma il suono dell’acqua che scorre, dei trucioli generati dalla pialla, del fuoco che crepita, del maiale che grugnisce).
Nelle cantine, nelle stalle, sopra e sotto le scale, nelle legnaie, attorno alle fontane dall’acqua sempre gelida in ogni stagione, si ritrovano proprio tutti i mestieri e tutta l’arte di arrangiarsi della gente di montagna, questa montagna.
A completare la magia ci sono infatti il Pasubio e le altre Piccole Dolomiti, che prima dell’imbrunire si infiammano dell’enrosadira e che custodiscono la memoria del sacrificio, quello della povera gente che ha vissuto qui e quello dei soldati che la Grande Guerra ha portato a morire sempre qui.
Il presepe di Bariola nasce nel 2012, dalla volontà di alcuni abitanti della frazione di celebrare a dovere il Natale e conservare momenti ormai lontani, appartenuti ai loro nonni, ai nonni dei nonni e così via. Neanche a dirlo, negli anni la realizzazione progressiva e il costante ampliamento del presepe sono divenuti collante tra i paesani. Oggi è anche una sfida impegnativa, perché ogni anno attira qui, in questa scheggia di mondo, decine di migliaia di visitatori, per lo più da fuori Vicenza. La sfida allora la lancio io ai vicentini che ancora non lo conoscono o ancora non si sono decisi: è ora di esserne orgogliosi.
Il sipario si alza la notte del 24 dicembre, ma lo straordinario spettacolo rural-spirituale, allestito interamente a mano, capolavoro di artigianato e creatività, va in scena fino all’ultima domenica di gennaio, tutti i giorni con orario 9-22. Ingresso gratuito, percorso dotato di QRcode per l’accesso a testi e audio informativi sulle singole tappe.
Sul sito www.presepedibariola.it, storia, dettagli, curiosità, info pratiche, mappe, suggerimenti su dove mangiare (ma se dovesse esserci il solito pienone, affrontate ancora qualche tornante verso Pian delle Fugazze per trovare Rifugio Balasso, Villa Pasubio e Al Passo) e calendario degli eventi collaterali nel periodo, tra i quali passeggiate, concerti e sagre.
di Sabrina Germi
L’albero, i regali, le luci colorate, il profumo dei biscotti appena sfornati… L’atmosfera natalizia è davvero magica, ma per alcune persone questo è il periodo più triste dell'anno. Sono coloro che soffrono della Christmas Blue, la cosiddetta depressione natalizia, che colpisce milioni di italiani.
Christmas Blues è direttamente collegata al periodo festivo: un vero e proprio 'tour de force' di convenzioni sociali e festeggiamenti 'obbligati' che, per alcuni, porta con sé ansia, insonnia, crisi di pianto, pensieri negativi, anedonia.
Il Natale è associato, infatti, al ‘dover essere felici’, ad avere una famiglia unita, oltre al “dover apparire al meglio”. La depressione
natalizia è strettamente legata e circoscritta al periodo delle feste natalizie e tende a scomparire con la fine delle stesse. Queste ultime, infatti, implicano degli elementi che potenzialmente innescano un umore triste:
• cene con i parenti e occasioni conviviali che riattivano dinamiche conflittuali non risolte;
• regali da fare che possono generare l’ansia di non trovare il regalo perfetto oppure l’ansia di spendere troppo;
• riduzione degli impegni lavorativi che generano tempo libero e dunque un maggior contatto con se stessi, con i propri pensieri o con vissuti emotivi negativi non risolti, che spesso vengono mascherati e soffocati dalla routine quotidiana.
Paradossalmente, di fronte agli addobbi e alle luci colorate capita di non provare la gioia del Natale.
Come mai? È il “paradosso del sii spontaneo” di cui parla Paul Watzlawick nella Pragmatica della Comunicazione Umana (1971): dal momento in cui si chiede a qualcuno di essere spontaneo si annulla l’essenza stessa della spontaneità, quando mi sento obbligato a condividere un sentimento è il momento in cui non lo provo. Quindi, c’è qualcosa di sensato nel fatto che il Natale porta con sé molta più rabbia e depressione di quanto si sia disposti ad ammettere.
Come affrontare, dunque, la malinconia del Christmas blues?
Vediamo insieme alcuni suggerimenti:
• organizzarsi per tempo, per non ritrovarsi coinvolti nell’estenuante “corsa ai regali” dell’ultimo minuto; acquistare con criterio, stabilendo in anticipo un budget;
• partecipare agli eventi sociali nel rispetto dei nostri “limiti”, sapendo “dire di no”;
• accogliere le proprie emozioni senza combatterle: sentirsi tristi o malinconici non significa che siamo “sbagliati” o che ci dobbiamo sforzare per uniformarci al contesto;
• abbandonare il rimuginìo sul passato o sui problemi della vita: il pensiero ricorsivo non
contribuisce a risolvere i problemi, non aiuta a prendere decisioni, non lenisce l’angoscia;
• utilizzare le ore di luce: una passeggiata di almeno un’ora all’aria aperta, favorisce il nostro benessere psicofisico e aiuta a contrastare gli effetti del Christmas blues;
• prendersi cura di sé: dedicare del tempo ad attività piacevoli, alla cura del proprio corpo, alla
lettura o al cinema, ai propri hobbies. Anche facendosi un piccolo regalo.
Se non puoi evitare di festeggiare, puoi però gestire la tua realtà piuttosto che subirla, uscendo dalla classica ritualità e inventando nuovi modi per organizzare le feste, divertendoti. E se proprio ti senti obbligato a provare emozioni, per 'paradossare' il paradosso del “sii spontaneo”, sforzarti di provare proprio le emozioni negative che vorresti evitare, così le bloccherai!
Dai quotidianamente uno spazio all’angoscia e alle sensazioni depressive, ma solo al mattino, isolandoti. Calati nei pensieri catastrofici rispetto alla giornata davanti a te. Questa attività consente di dedicare uno spazio e un tempo alle sofferenze, limitandone così il vissuto. Inoltre, essendo una prescrizione paradossale, fa fare quello che volontariamente vorremmo evitare, tende a ridurre l’impatto dell’angoscia e dei meccanismi depressivi limitandoli a una fase temporale per poi dare spazio alla positività.
Se il tempo del Natale dovesse, alla fine e per qualunque motivo, significare rimanere soli, o quasi, ti auguro a maggior ragione di darti la possibilità di affrontare questo spazio vuoto: è sulle pagine bianche che si possono iniziare scrivere le storie migliori!
Buon Natale.
per scrivere alla dottoressa: cittadini@vicenzapiu.com
Riferimenti bibliografici
P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971.
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Giulia Matteazzi
Adoro il Natale. Praticamente sono l’anti Scrooge, il vecchio e avaro banchiere londinese che, prima di ravvedersi, lo odia perché per lui è solo una pausa dal lavoro, in cui non può guadagnare e, anzi, deve persino pagare il suo umile contabile. Del Natale, invece, mi piace tutto. Fare l’albero, costruire il Presepe, comprare i regali, decorare la casa, cantare a squarciagola jingle bells e salutare perfetti sconosciuti, come è consentito fare solo incrociando altre persone sui sentieri di montagna.
Manca qualcosa? Sì, la messa. In realtà su quella non sono proprio ligia. La messa di mezzanotte della vigilia non l’ho mai seguita, quella della mattina di Natale, dipende. Sulla parte liturgica sono più brava a Pasqua. Del resto, il Natale è una festa mista, un po’ pagana un po’ cristiana. E poi sono i sentimenti quelli che contano.
Adesso sto meno sui social, ma fino a cinque sei anni fa sui miei profili Facebook e Instagram partivo col conto alla rovescia a settembre. Anzi, c’è un negozio ad Asiago che vende oggetti natalizi tutto l’anno, e che ha fuori un Babbo Natale con il conteggio dei giorni che mancano al 25 dicembre. Ebbene, ogni volta che salgo in Altopiano devo assolutamente fare
Il negozio di Asiago col conta giorni che mancano a Natale
una foto al negozio per ricordare quanto tempo manca.
Intendiamoci: non vorrei proprio che ci fosse un Natale al mese. Assolutamente no, si perderebbe il gusto dell’attesa. Anche perché
come insegna il gioviale Leopardi nel “Sabato del villaggio”, è molto più bella l’attesa della festa stessa.
Che poi a casa mia l’attesa si conclude la sera del 24, come nei calendari dell’Avvento. Da che sono
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in grado di ricordare, nella mia famiglia apertura dei regali, cenone, grande festa... tutto è sempre stato fatto la sera della vigilia. Infatti, da bambina non ho mai creduto a Babbo Natale che portava i regali. Credevo fermamente nella Befana (scoprire la verità è stato uno dei grandi traumi della mia infanzia), ma Babbo Natale non aveva collocazione logica nella nostra routine natalizia: se i regali li aprivamo tutti la sera della vigilia, e non la mattina del 25, Babbo Natale non serviva.
La mattina di Natale si andava a messa – se ci alzavamo in tempo - e poi a fare un giro di saluti ad alcuni amici dei miei genitori, quindi si tornava a casa per un pranzo a base di lessi col cren e la pevarà. Poi la cosa che ricordo di più era la soddisfazione di pensare che il bello della festa era già arrivato e io avevo ancora quindici giorni di vacanza per godermi i regali… Ma torniamo ai primi di dicembre. A casa mia albero e presepe sono sempre stati fatti. Ho ricordi un po’ vaghi di quando ero piccola, ma sono sicura che fosse mio papà a “fare il presepio”. Noi bambine eravamo solo assistenti. Una volta diede a me e mia sorella più grande l’incarico di dipingere di blu un grande foglio di carta per fare il cielo. Credo che in realtà i fogli fossero due e ne avesse dato uno a testa, perché mia sorella ha colorato il suo di blu come richiesto, mentre io ad un certo punto mi sono stancata di tanta monotonia e ho usato il rosso… Anche qui la memoria si confonde, mi sembra che mio padre abbia riso, e che il mio attacco da William Turner sia stato rimediato aspettando che il colore asciugasse e passandoci una mano di blu sopra. O forse l’angolo di cielo rossastro è semplicemente stato nascosto dietro un monte… Col passare degli anni, i miei hanno lasciato che noi bambine facessimo
sempre più da sole. Soprattutto io ho continuato a fare il presepe, aggiungendo ogni tanto casette o personaggi. Intendiamoci, non faccio certo presepi sofisticati col giorno e la notte, il fuoco vero e l’acqua corrente. Anzi, non rispetto nemmeno tanto le proporzioni, dato che spesso sono alle prese con personaggi molto più grandi delle case, con un simpatico effetto Gulliver-Lilliput. Ma la cosa non mi agita, cerco di dare un minimo di prospettiva mettendo le cose più piccole lontane e quelle grandi più vicine, e va bene così. Ho anche una mentalità ecologica: sono anni che riutilizzo lo stesso muschio e addirittura riciclo i fogli di alluminio per fare corsi d’acqua e laghetti. Quanto alle luci, le metto sempre troppo tardi, quando ho già inserito tutti i personaggi, per cui per non dover smontare tutto finisco col tenerle di contorno, rendendole praticamente inutili. Da almeno vent’anni poi faccio il presepe sugli
scaffali della libreria, per difenderlo dagli agguati della mia vecchia gatta, la quale una volta, che avevo provato a farlo su un ripiano basso, ha deciso che il posto d’onore dentro la capanna fosse suo e non di Gesù bambino… E dato che in effetti il presepio in libreria ci sta bene, continuo a farlo lì anche se nel frattempo la gatta demolitrice è passata a miglior vita e adesso ho un gatto nero molto meno distruttivo.
Quanto all’albero, da ormai trent’anni, ma forse sono di più, uso un abete finto. Non è sempre lo stesso, un paio di volte abbiamo dovuto cambiarlo per danneggiamenti vari. In realtà anche quello che ho attualmente ha un ramo sbilenco, ed era dove la mia gatta si acquattava, però francamente non ho voglia di sostituirlo, mi va bene anche così, con aria vissuta e un po’ sofferente. Naturalmente non ho sempre avuto alberi finti. Quand’ero bambina
non esistevano nemmeno, si portava a casa un abete vero. Ricordo che pungeva molto e che tra le decorazioni (qualcuna sopravvissuta fino ai giorni nostri) mi piaceva una fila di lucine con gli angioletti di plastica, davvero deliziosi anche da spenti. Ed è bene che fosse così perché credo di non averli mai visti accesi, secondo me quella fila di luci è stata acquistata già non funzionante... Proprio perché gli angioletti non davano soddisfazione, quando allestivamo l’albero io avrei voluto illuminarlo con candele vere, come vedevo fare in qualche vecchio film, ma mia mamma, che pure raccontava che quando era piccola a casa sua le mettevano, diceva che era troppo pericoloso. Questo peraltro va a smentire il concetto che l’albero di Natale è un’americanata che non c’entra con la nostra tradizione: mia mamma era del 34 e a casa sua l’ha sempre visto.
Tornando a me, quando faccio l’albero di Natale sono assolutamente contraria a schemi, armonie di colori e studi estetici: nel mio albero ci va di tutto. Dal
lavoretto dell’asilo dei nipoti alla slitta comprata da Harrods, dalle palline scolorite di quarant’anni fa alle sfere di cristallo luminescenti comprate da poco. E pure i fili, le luci, i capelli d’angelo... E senza badare troppo ai colori. Anche perché io ci provo ad alternare oro, rosso, argento, verde, azzurro, ma ho troppi ornamenti ed è inevitabile che ad un certo punto due palline o due ghirlande dello stesso colore finiscano vicine. In questo caso, ed è un consiglio che do al lettore, non provo assolutamente a scambiarle di posto con altre due. Il risultato – garantito – sarebbe che le palline dello stesso colore vicine diventerebbero quattro o addirittura sei. Quando ho completato l’allestimento il mio albero è una specie di tronco di cono irregolare, una piramide a gradoni, un budino in equilibrio precario, che però fa tanta allegria e non tarda a riempirsi di doni.
Ecco, anche quello dei regali è un capitolo importante. Da piccola, come ho già detto, non li ricevevo da Babbo Natale ma dai miei, che me ne hanno sempre fatti in giusta misura,
e li ho sempre scartati la sera del 24. La cerimonia dell’apertura dei pacchetti è sempre continuata e continua tutt’ora la sera della vigilia. Unica concessione, finché i figli delle mie sorelle erano piccoli abbiamo richiamato in servizio Babbo Natale, quindi la mattina del 25 ciascun bambino trovava un giocattolo sotto l’albero.
Ma il grosso del malloppo veniva scoperto dopo la cena della vigilia che, da quando sono mancati i nostri genitori, viene organizzata da mia sorella più giovane. Peraltro una cena rigorosamente di magro, nel rispetto della tradizione. Un magro molto abbondante, per essere del tutto sinceri...
Gli acquisti dei regali cominciano già a metà novembre, ma non c’entra il black friday, è che se vediamo una cosa che può piacere o che è nella famosa “lista dei desideri” (che ognuno di noi compila diligentemente), la compriamo e la incartiamo. Ciascun membro della famiglia fa almeno un regalo a tutti gli altri: considerando che solo i familiari diretti sono nove, vuol dire una settantina abbondante di doni. Se poi si aggiungono altri parenti, che non vorrai mica lasciarli senza un pacchetto, o addirittura giovani fidanzati di nipoti, che magari a casa non festeggiano la vigilia e quindi la passano con noi, il traguardo dei cento pacchetti si supera regolarmente. E c’è da dire che il momento dell’apertura dei pacchi a casa nostra – di solito verso le dieci della sera della vigilia, nell’intervallo tra il secondo e i dessert – è qualcosa di incredibile. Dieci minuti di puro caos, esclamazioni e rumori di carta che viene stracciata. Gli ospiti che partecipano per la prima volta ai nostri cenoni normalmente rimangono basiti. Infatti ogni tanto mi tocca pure rassicurarli: «Noi facciamo così tutti gli anni, so che fa un po’ paura, ma poi vedrai che ti abitui»...
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Federica Zanini
Dicembre, mese di banchetti, apericene (che adesso fa tanto figo), brunch (ancora più figo), cenoni, veglioni… ricchi premi e cotillon. Anche per chi è agnostico, ateo, di altro credo o semplicemente non praticante, nel periodo natalizio c’è un rito solenne che non lascia scampo a nessuno e che, senza tema di risultar blasfemi, è insindacabilmente sacro: scambiarsi gli auguri insieme a seduzioni gastronomiche, di ogni gusto, forma, tradizione e taglio.
Amuse-bouche, antipasti, primi, secondi, contorni, macedonie, sorbetti e dolci senza ritegno… nemmeno i più morigerati e i meno golosi sapranno trattenersi. Nonostante questo, apriti frigo… che avanzerà di tutto e di più.
Qualche tartina del pranzo potrà riapprodare, intristita e raggrinzita, in tavola a cena, qualche insalata per star leggeri si appesantirà del cappone arrosto rimasto sul piatto da portata, la frutta secca inviterà a finire quel po’ di mascarpone e gorgonzola, ma poi – fidatevi – ci sarà sempre di che metterci mano. E cervello.
Fatto salvo che la 'vellutata 'all inclusive ' di cui ho raccontato nel numero precedente di VicenzaPiù Viva per introdurvi il singolare, creativo ed ecosostenibile concetto culinario di Ciu(c)ca Matta è sempre l’infallibile jolly per un riciclo da poco tempo e
tanta resa, non mi sostituirò ai giornali e l’Internet di stagione che propinano le scoperte del secolo: come fare il tiramisù con il pandoro avanzato, come fare una zuppa saporita e portafortuna con quei miseri mucchietti di puré e lenticchie che si sono mescolati tra loro nella pirofila e manco se vuoi li puoi più separare, come preparare dei rustici di pasta sfoglia con quelle due fette di cotechino miracolosamente risparmiate dalla curva senior della tavolata (la generazione, insomma, che ancora sapeva mangiare), come fare un timballo veloce con la pasta o i ravioli avanzati, come ridurre (letteralmente) in polpette carni e pesci abbandonati.
No, in questo momento di grandi impegni non solo di stomaco, vi suggerisco una soluzione pratica, veloce e gustosa, che non richiede troppo lavoro, stuzzica l’acquolina e che, sempre che non abbiate deciso di nutrirvi di gamberoni, aspic, baccalà, arrosti, lessi con la mostarda, pandoro e mandorlato fin dal primo di dicembre, vi risolverà la vita anche nell’attesa del clou delle Feste. Il risotto che fu: abracadabra, eccovi degli sfiziosi supplì. Nel mio caso mi ero dedicata a uno degli abbinamenti d’autunno che più amo: zucca e salsiccia. Ben freddo di frigo (per essere certi che tenga bene si può comunque mescolarvi un uovo e un
po’ di farina), inumidendo prima le mani, ne ho fatto delle palline al cui centro ho posizionato un bel quadrotto di formaggio tipo latteria. A parte ho preparato abbondante pan grattato (possibilmente a grana grossa o, ancora meglio, grattato a mano con la grattugia grossa come facevano i nonni), condito con sale, pepe, aglio in polvere, abbondante grana grattugiato ed erbe aromatiche secche. Il tocco in più, briciole di cipolle fritte croccanti. Passati i singoli supplì nella panatura, li ho messi in friggitrice ad aria con qualche pouf di olio evo e fatti cuocere a 200° per una quindicina di minuti (girandoli a metà cottura). Si possono dorare anche in forno o addirittura friggere in olio bollente. A seconda di quanto supplì…zio vogliate imporvi.
Michele Lucivero
Estremamente apprezzato in tutto il mondo, ma anche spesso impunemente imitato, il Prosecco DOCG è il fiore all’occhiello della produzione vitivinicola veneta. Basta dire Veneto e subito viene in mente il profumo, la freschezza e la convivialità legata ad un vino alla portata di tutte le tasche e di tutti i palati. E sono proprio quelle caratteristiche che lo rende unico nel suo genere, infatti grazie alle differenze nel dosaggio degli zuccheri, il Prosecco può variare dal più secco Brut (<12g/l di zuccheri) all’Extra dry leggermente dolce (12-18g/l di zuccheri), fino al Dry (18-35g/l di zuccheri), in cui la dolcezza è piacevolmente percepibile. Questa variabilità gli permette di essere adeguato per un aperitivo leggero, ma anche per primi e secondi piatti più strutturati, fino al dessert. Tuttavia, l’aspetto più interessante del Prosecco è che rimane un vino accessibile alle tasche di qualsiasi consumatore, coprendo una fascia di costi che generalmente può andare anche sotto i 10 euro fino a bottiglie importanti che possono arrivare anche a 50 o 60 euro.
Proprio per questo motivo, a noi preme avvertire che i Prosecchi non sono tutti uguali, infatti, questa eccellenza veneta
che vogliamo qui presentare, un Primo Franco della cantina Nino Franco, non è un vino con le bollicine come tanti altri. In questo caso ci troviamo di fronte ad Prosecco Valdobbiadene Superiore Millesimato Dry del 2019 del tutto particolare, anche perché celebra i 100 anni dalla fondazione della cantina. Da commercianti vitivinicoli a produttori ed esportatori internazionali, la famiglia Franco con Antonio, Giovanni, Primo e Silvia sono ormai alla quarta generazione di esperti di vini e non solo, avendo allargato il volume d’affari con l’acquisizione di Villa Barberina, una tipica villa veneta settecentesca, punto di riferimento della ricezione charmant di lusso.
Il Prosecco Primo Franco, prodotto da uve Glera in purezza di alta collina, si presenta di colore giallo pa-
glierino, trasparente e luminoso con una bollicina persistente e sottile. Al naso il fruttato
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di mela matura, ananas e pesca si accompagna ad un floreale delicato di glicine, biancospino e camomilla. Una nota minerale di gesso lascia delicatamente il posto a intense erbe aromatiche e complesse percezioni eteree tendenti al miele. In bocca è percepibile la sua tendenza dolce, ma dall’alcool contenuto, un giustissimo 10,5% vol. Qui siamo di fronte ad un Prosecco veneto sapido ed equilibrato con una chiusura di bocca precisa che noi consigliamo per occasioni importanti.
Dal Veneto ci spostiamo in Campania, in una terra estremamente vocata alla viticoltura. In particolare, ci troviamo in provincia di Avellino, un terroir che restituisce eccellenze uniche che vanno dai bianchi Greco di Tufo e Fiano di Avellino ai rossi corposi e strutturati come il Taurasi. Dalla competenza enologica del dott. Mario Ercolino e della dott.ssa Roberta Pirone nasce la Cantina NATIV. Bisogna dire che questa cantina colpisce innanzitutto per la ricercatezza delle sue etichette e, se è vero che «un vino non si giudica dall’etichetta», così come «un libro non si giudica dalla copertina», è anche vero che «l’occhio vuole la sua parte» e, in questo caso, la bellezza della forma trova un’adeguata rispondenza nella gradevolezza della sostanza!
Vernice è uno spumante Brut metodo charmat, cioè lo stesso metodo di produzione del Prosecco, prodotto al 100% con uve Falanghina (vi è anche una versione rosé che, però, viene prodotta con uve Aglianico). Dal colore paglierino con riflesso verdognolo e una bollicina piccola e rapida, Vernice si presenta, al naso, con un bouquet intenso di profumi di fiori bianchi e appare estremante fruttato con una buona mineralità. All’assaggio il vino conferma quella sensazione che si percepisce all’olfatto, segno di grande coerenza, alla quale si accompagna la gradevolezza del bilanciamento tra zuccheri e acidità, il tutto agevolato dalla tenuta della bollicina. Si tratta di un vino di un freschezza ammaliante e, del resto, l’impegnativo menù nei giorni di festa richiede, oltre alla presenza necessaria della bollicina a tavola, anche un prodotto versatile, in grado di coprire passaggi anche repentini dal dolce al salato e a questa evenienze bisogna farsi trovare pronti!
Abbinamenti
Come abbiamo già sottolineato, non tutte le bollicine sono uguali, infatti la scelta specifica di questi due prodotti, un Primo Franco di Nino Franco, Valdobbiadene Prosecco Superiore dal Veneto e un Vernice Spumante da Falanghina dalla Campania, è stata fatta in virtù della differenza specifica del dosaggio degli zuccheri, infatti il primo è un Dry, mentre il secondo è un Brut. Il nostro consiglio, dunque, è quello di cominciare con il Vernice per un aperitivo a base di frutti di mare crudi, cioè ostriche, gamberi rossi, scampi, tartufi di mare, e proseguire con un primo con una discreta untuosità e tendenzialmente dolce, magari un risotto o una pasta fresca, sempre con frutti di mare o pesce, abbinando il Primo Franco e osando con questo vino fino ad un dessert che, però, mantenga una discreta quantità di zuccheri… il nostro consiglio è quello di provare una eccellenza del territorio vicentino, La Gata, ma a quel punto non possiamo non consigliare di chiudere con una grappa!
Ancora fresca di stampa, è appena uscita la sua antologia poetica Iridescenze per Guido Miano Editore-Milano, ma la passione di questo vicentino per i versi, la musica, la storia, la filosofia, la fotografia e per la sua terra è un fiume in piena . Inarrestabile e trascinante
Federica Zanini
Come si fa a parlare semplicemente di figlio d’arte, quando le arti sono più d’una? Quando dalla linfa originaria prende vita un albero tutto nuovo, dalle infinite, magiche ramificazioni? Dal padre Renato – celebre storico dell’arte e dell’architettura vicentino, tra i fondatori dell’associazione degli Amici dei Monumenti, dei Musei e del Paesaggio per la città e la Provincia di Vicenza (APS), promotore di Vicenza città Unesco, a lungo direttore del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, membro dell’Accademia Olimpica, Medaglia d’Oro ai benemeriti della cultura e dell’arte – Tommaso Cevese ha certamente ereditato l’amore per e la dedizione al territorio berico, in tutte le sue caratteristiche tipicità e sfaccettature.
Tra le mille cose con cui dà ritmo alla sua vita, infatti, Tommaso si (pre)occupa di indagare, cantare, promuovere e immortalare il territorio. Se il padre si è schierato soprattutto in difesa del patrimonio artistico e architettonico, le ville in particolare, del Vicentino, muovendo passi determinanti per la sua iscrizione nella Lista Unesco del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, Tommaso –che è comunque vittima dello stesso incantesimo – allarga il suo cuore, la sua penna e il suo obiettivo fotografico a quello che è il patrimonio naturalistico di queste terre.
Tommaso Cevese è tanti talenti, che convivono tutti insieme appas-
Asiago - Canove
sionatamente. Incarna tutto ciò che gli consente di esprimere le sue tante emozioni. È insegnante, musicista, poeta, fotografo e chissà quanto altro che non ha il tempo di svelare.
La sua biografia è lunga, affollata e variegata. Cevese è laureato in Lettere moderne con indirizzo musicale e in Filosofia con indirizzo epistemologico, professore di storia e filosofia al liceo Quadri - che da illuminato organizza lezioni interdisciplinari di storia e di ascolto della musica con la “nostra” soprano Alessandra Borin (ndr. autrice della rubrica che esordisce su questo numero), sensibile e “colorato” fotografo naturalista ma non solo, scrittore, poeta e musicista. Assolto il dovere di cronaca, c’è da dire che a noi tutto sommato poco importa della biografia nei nostri ritratti: quello che indaghiamo è l’uomo che ne esce.
Lo stesso dicasi per la bibliografia: elencare tutti i tanti volumi – tra
fotografia, poesia e turismo – di cui è autore o co-autore Cevese servirebbe solo a rubare spazio prezioso al racconto della sua anima.
Cominciamo allora dalla creatività, condita di caparbietà, che lo distingue fin da giovanissimo. A 22 anni, già appassionato di musica e ammiratore del padre, desidera un pianoforte su cui esercitarsi, ma Renato, laureato al Conservatorio, rifiuta di noleggiarne uno per il figlio, di cui stronca (o almeno ci prova) l’entusiasmo affermando che ha mani troppo piccole e non è abbastanza metodico per fare il pianista.
Tommaso, però, non si arrende e si arrangia da autodidatta. Oltre ad avere un bel caratterino, ha molto orecchio e una predisposizione per l’ascolto musicale. Nei suoi viaggi in treno da pendolare universitario non fa che fischiettare – in suoi personali riadattamenti – i temi musicali ascol-
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tati qua e là. Nasce così, sui binari, la sfida di arrivare a scrivere le proprie composizioni. Tre o quattro lezioni con padre Antonio Cozza – altro vanto vicentino, per diciassette anni organista del Duomo, deceduto tre anni fa – e arriva il primo brano firmato
Tommaso Cevese. Il neo-compositore continua poi ad ascoltare, ispirarsi, suonare e scrivere alacremente sui suoi amati quadernoni, che ancora conserva.
Qualche lezione, questa volta con Pierangelo Valtinoni, rinomato
compositore di Montecchio Maggiore, e nasce la sua prima Ave Maria, ancora mai suonata e attuale ‘grillo per la testa’ di Tommaso, che ritiene sia “giunta l’ora di riprenderla in mano”. C’è poi un’altra sua Ave Maria, per piano, oboe e soprano (ancora la “nostra” Borin), invece offerta al pubblico lo scorso settembre in occasione del 15° anniversario della morte del padre, eseguita nella cornice di Palazzo Leoni Montanari insieme ad Alessandra Borin. Nel frattempo, però, sui quadernoni prima e sugli spartiti poi, danzano e si posano le note di diverse composizioni originali, per pianoforte, flauto, organo, violoncello, tromba e arpa.
È testardo Cevese, ma non si intestardisce su un solo strumento, né sul singolo talento. Svolazza con eleganza e curiosità, le antenne
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sempre ben alzate, tra un’emozione e l’altra, che si tratti delle note sul pentagramma, i tasti del pianoforte, i versi di una poesia, la risposta dei suoi ragazzi a scuola, le inquadrature della sua macchina fotografica. Ma anche i sentieri delle sue montagne, tra esplorazioni e scatti di cui poi riempie le guide turistiche al territorio.
Il babbo, nel 2005, ha pubblicato la prima guida in assoluto alla nostra città (Vicenza. Ritratto di una città), oggi lei continua a tracciare il suo solco, ma abbraccia l’intero territorio con un occhio di riguardo alle ville palladiane, di firma o di stile che siano, ma con una passione particolare per altri capolavori, quelli di Madre Natura.
«Si, inevitabile quando ami la tua terra non renderle omaggio. Soprattutto se lo merita, come quella berica. Papà ha lavorato tanto perché lo straordinario patrimonio storico e architettonico di Vicenza non solo non fosse trascurato, ma fosse salvaguardato e passasse sotto tutela Unesco. Io personalmente ho curato e fornito la documentazione fotografica per l’inserimento nella Lista Mondiale. Continuo, come lui, ad avere il pallino delle ville venete, che non mi limito a fotografare e porre al centro di iniziative editoriali, ma da cui traggo continue ispirazioni. Nel 2010 mandai il mio libro su Villa Velo Guardini di Isola Vicentina a Papa Benedetto; mi rispose il segretario del pontefice, inviando per suo conto la benedizione apostolica. Tornando agli input ricevuti da papà, negli anni Novanta aveva avuto l’idea di un sentiero che ripercorresse le tracce geo-letterarie di Antonio Fogazzaro, a Tonezza; ne è nata la mia guida, realizzata con Chiara Faresin, Il Cammino Fogazzaro-Roi, cui ho in programma di far seguire, l’anno prossimo, Il Cammino Rigoni Stern, con la chicca di un’introduzione al violino e al piano. Nel frattempo, sempre per Cierre, sto lavorando ai testi di Valli d’incanto tra l’Astico e Posina, un libro fortemente evocativo, la cui parte fotografica ho già finito di curare, in cui a raccontare è un emigrato di ritorno alla sua terra. Tra i progetti per il prossimo futuro c’è infine un
vasto libro sulla Pedemontana del Brenta e l’Altopiano dei Sette Comuni».
La sua opera è stata definita sensoriale. In ogni sua declinazione, parte da emozioni veicolate da tutti e cinque i sensi. Io la trovo anche perfetta come l’8 dell’infinito: il poeta che scrive versi, che trova la poesia nel paesaggio e lo immortala con colori e luci poetici, che si riempie di sensazioni che poi traduce in musica, componendo brani a loro volta poetici… e via così in uno straordinario circolo virtuoso.
«Per me è una cosa naturale, che non decido. È tutto espressione dei miei sentimenti e in tutto metto sentimento. Un’espressione artistica non esclude, non preclude e non prevarica l’altra. Al contrario, le mie creazioni fondono spesso più espressioni. Un esempio davvero singolare? Mentre la mia antologia poetica Iridescenze, cui tengo molto ma che è il frutto di una mia pur entusiastica adesione a un progetto più ampio dell’editore, è appena approdata in libreria, nel 2025 pubblicherò Fili di vita, un libro tutto mio, particolarissimo, che unirà poesia (di impronta filosofica), foto e musica (che si potrà ascoltare tramite QRcode). È un’opera, tornando al discorso delle diverse espressioni artistiche, che mi rappresenta davvero tanto. Infine, sto lavorando al libro di foto e poesie Dialogo con la mia ombra»
Non è uno che se la tira, detto in maniera non esattamente poetica, Tommaso Cevese, è che inevitabilmente, una volta che l’hai conosciuto, te lo ritrovi un po’ ovunque. Ovunque ci sia lo splendore del mondo da accogliere, che è poi, secondo Goethe, la vocazione del vero poeta.
Sul sito www.tommasocevese.it si può scoprire nei dettagli chi è davvero, tutto quello che ha fatto, sta facendo e farà, e qualche chicca, come i video di Alessandro Quasimodo, figlio del Premio Nobel Salvatore, che legge alcune sue poesie, scelte personalmente e accompagnate da particolari ambientazioni.
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Uno dei più grandi compositori al mondo visse nel privato la passione per le donne, le ruote e i motori: praticamente ideò il primo fuoristrada italiano, ma morì con nessuna
delle sue amate accanto
Alessandra Borin
Vincerò!
Vinceròòò!
Vinceeeeeeròòòòò!
L’iconico motivo cantato dal tenore è oramai diventato quasi un tema pop, ma porta con sé molto più di una semplice esortazione alla vittoria.
Andando oltre la parola in sé, una domanda sorge spontanea: cosa si vince?
Siamo a Pechino, il protagonista è Calaf, figlio di Timur, principe errante e senza regno che canta quest’aria alle luci dell’alba, un’alba in cui nessuno ha potuto riposare. E infatti per indicare questo brano musicale il titolo corretto sarebbe Nessun dorma
La notte dunque si sta dileguando, e Calaf sta già assaporando la sua vittoria!
Ma vittoria su che cosa? Sarebbe più corretto chiedersi su chi! L’algida e crudele principessa Turandot, di cui si era innamorato ad un solo sguardo, gli aveva posto tre enigmi sicura che egli non avrebbe potuto risolverli: «Popolo di Pekino! La legge è questa: Tu-
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randot, la Pura, sposa sarà di chi, di sangue regio, spieghi i tre enigmi ch’ella proporrà. Ma chi affronta il cimento e vinto resta, porga alla scure la superba testa!»
Ma il nostro tenore Calaf non perde la testa e inaspettatamente risolve gli enigmi, ma la sua nobiltà d’animo lo porta a metter in gioco la propria vittoria, egli non vuole sposare la principessa contro la sua volontà, perciò le offre una nuova possibilità: se Turandot riuscirà a indovinare il suo nome prima dell’alba, potrà condannarlo a morte. Calaf è sicuro di sé, nessuno conosce il suo nome («il nome mio nessun saprà»). Turandot ordina che quella notte nessuno dorma a Pechino, si deve trovare il nome; le sue guardie bussano a ogni porta, cercando qualcuno che conosca il principe straniero. Alla fine trovano Timur e Liù, l’anziano padre del principe che per una casualità tutta tipica dell’opera si era ritrovato nella stessa città. Liù, la serva del vecchio re, per paura di lasciarsi sfuggire sotto tortura il nome del suo amato principe Calaf, si uccide con una spada.
Fu alla morte di Liù che la partitura di Turandot intraprese un viaggio per Bruxelles. Infatti, proprio mentre Puccini stava terminando la scrittura dell’opera, gli venne diagnosticato un cancro alla gola.
La data della prima alla Scala di Milano era stata già stabilita nella primavera del 1925. Il direttore sarebbe stato Arturo Toscanini, il tenore protagonista Ernico Caruso. Mancavano solo le ultime scene, quel lieto fine in cui Turandot dichiara - davanti a suo padre imperatore - che il nome dello straniero è 'Amore'.
Puccini voleva concludere l’opera, dicono le cronache che fosse il suo unico pensiero quando venne ricoverato all’Institut du Radium di Bruxelles. Il prof. Louis Ledoux eseguì un’operazione sperimen-
tale e invasiva che non ebbe purtroppo successo: il paziente morì in pochi giorni tra febbre, morfina e atroci sofferenze.
Dicono che Puccini rimase cosciente fino alla fine, avrebbe voluto finire Turandot.
Turandot rimase però incompleta e lui morì con la sua Liù il 29 novembre del 1924, 100 anni fa.
La fine dell’opera fu commissionata a un altro compositore: Franco Alfano. Ma durante la prima il direttore Arturo Toscanini si interruppe
nel momento in cui le note di Puccini avevano finito di uscire dalla sua mente e dal suo cuore dicendo: «Qui finisce l’opera rimasta incompiuta per la morte del Maestro» e scese dal podio.
Puccini resta uno dei più grandi compositori al mondo, genio e vanto per l’Italia. Quest’anno 2024, che oramai volge al termine, ha visto in ogni parte del mondo celebrazioni per il centenario della sua scomparsa che ne hanno sancito la grandezza.
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Ma chi era il Puccini uomo?
Nato a Lucca, il 22 dicembre 1858, in una famiglia di organisti, restò orfano di padre a cinque anni e sua madre Albina, per farlo studiare, fece molti sacrifici vendendo i terreni e la casa di proprietà, scrisse persino alla Regina Margherita perorando la causa del figlio e ottenendo una borsa di studio.
Ammesso al conservatorio di Milano, soffrì per anni tali ristrettezze economiche da non riuscire a mangiare regolarmente, finché il suo genio fu compreso dall’editore Ricordi di Milano.
Quando finalmente il trionfo e il successo ebbero la meglio, il Puccini uomo ricomprò la casa paterna a Lucca e divenne uno dei più grandi esploratori della rivoluzione tecnologica tanto osannata dal Futurismo vivendo nel privato la passione per le ruote e i motori.
Il suo primo acquisto fu il 'bicicletto' (bicicletta), e in una lettera scrisse di averlo acquistato per smaltire 'l’indecentissima pancia' che si ritrovava. Partecipò a numerose competizioni ciclistiche e le cronache lo descrivono così: “tipo forte e simpatico d’uomo, come nella musica, anche nel ciclismo egli semina molti per la strada”. Puccini, poi, fu tra i primi in Italia a possedere un’automobile: già nel 1901 aveva acquistato per 3.800 lire
una De Dion Bouton 5 cavalli targata 33-40 quando ancora il Re d’Italia non ne aveva una. Poi volle una Clement Bayard, una Fiat 60, poi una Isotta Fraschini 14 22 HP e, quindi, una Fiat 501, una Lancia Lambda Cabriolet e poi ancora e ancora. Neppure un grave incidente d’auto fermò la sua smania per i motori.
Vista poi la sua passione per la caccia, pare che abbia domandato al produttore di automobili Vincenzo Lancia un’auto personalizzata con ruote artigliate per potersi muovere su terreni più difficili: praticamente ideò il primo fuoristrada italiano.
Puccini fu tra i primi a possedere un orologio piatto da polso e a commissionare la costruzione di un motoscafo che allora veniva denominato 'battello automobile'.
Amante dell’avventura anche in campo sentimentale ebbe numerosissime amanti: «Io sono innamo-
rato sempre innamorato come a vent’anni! Il giorno in cui non lo sarò più fatemi il funerale. Ad un artista aspetterebbero speciali diritti. Se comandassi io - parola d’onore - promuoverei una legge per dare facoltà ai compositori di musica di prendere una nuova moglie ogni 5 anni e mi pare di essere modesto». Di contro la sua vita matrimoniale fu difficilissima. Elvira Bonturi, donna più grande di lui già divorziata e con due figli, era detestata da tutti, non amava la musica anzi non le importava nulla del Giacomo compositore, fomentando scenate e litigi frequenti. I superstiziosi pescatori di Torre del Lago dicevano che 'portava iattura'. Il compositore dovette persino supportarla in un processo penale poiché – per gelosia – la Bonturi indusse una giovane cameriera, Doria Manfredi, al suicidio.
Tale scandalo costrinse Puccini a trasferirsi per qualche tempo in America, per questo alcune prime di sue opere vennero date al Metropolitan di New York.
Ma di tutte le donne amate nessuna accorse al suo capezzale quando quel 29 novembre del 1924 Puccini si aggravò.
Il più grande genio italiano della melodia morì con accanto qualche amico, il figlio Tonio e la partitura incompleta di Turandot.
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Marco Ferrero
Durante le sue passeggiate sui Colli Berici a Paolo Giacobbo piace soffermarsi ad ammirare la città dall’alto.
è nato a Vicenza nel 1949. La sua vita movimentata Liceo Pigafetta e dalla laurea in ingegneria alla Alpina di Aosta, per poi girare il mondo alla testa aziende multinazionali e a ricoprire prestigiosi incarichi a internazionale.
poliglotta, appassionato di letteratura, storia, arte miniatura, scrive con uno stile fluido, gradevole e anno ha perduto Danielle, la sua fedele ed amata più di cinquanta anni, e attualmente vive nella città molto affezionato. primo scritto pubblicato.
Lo faceva anche quando era bambino, negli anni cinquanta, osservando una Vicenza non ancora del tutto guarita dalle ferite della guerra, una città che andava ancora orgogliosa delle fabbriche insediate ai bordi delle sue antiche mura, attraversata dalla ragnatela di binari dei raccordi industriali e delle Ferrovie e Tranvie Vicentine…
storia vera di due uomini di estrazione ed origine assai protagonisti durante la prima guerra mondiale di un episodio sempre la loro vita.
si intrecciano con la storia dell’Europa, ma soprattutto Vicenza, dagli anni dieci agli anni quaranta del XX turbolenta in cui l’umile coraggio e i valori umani di riescono a far fronte all’orrore di due guerre e ad un tutto sembra essere calpestato e distrutto.
Da allora il centro città non più invaso dal traffico si è fatto più bello, le fabbriche sono scomparse dalla zona centrale, il traffico delle Tranvie Vicentine si è riversato sulle strade, mentre un piano regolatore ben congegnato ha permesso a grandi palazzi di invadere quelli che all’epoca erano quartieri residenziali e di prendere il posto delle fabbriche.
Per fortuna dall’alto non è possibile vedere le buche delle strade o notare certi traffici che affliggono i nostri parchi cittadini…
Quando poi il suo sguardo si sposta ad ovest, verso Sant’Agostino, i cambiamenti rendono la zona quasi irriconoscibile.
La costruzione dell’autostrada e gli insediamenti industriali hanno completamente sconvolto la campagna un tempo solcata da fossi, canali e canaletti, modificando profondamente quella valle in cui la pianura
vicentina penetra tra le prime propaggini dei Colli Berici.
Abbiamo attraversato un’era in cui ogni nuova striscia d’asfalto era un simbolo di modernità, ogni nuova
costruzione un segno di benessere e non interessava a nessuno che Sant’Agostino fosse deturpato rendendolo un’informe landa periferica.
L’immagine del paesaggio di un tempo è per lui legata al ricordo del nonno paterno Vittorio che lo portava a pesca con lui su quelle acque allora limpide e piene di pesce.
Egli conosceva ogni canale o canaletto e, con la sua barca a fondo piatto, sapeva dove trovare il pescetto per la frittura, i lucci, le tinche, dove snidare le anguille….
Inoltre Vittorio, mitico macchinista dell’altrettanto mitica “Vacamora”, lo portava sulla passerella dei Ferrovieri per guardare le potenti locomotive a vapore che trainavano pesanti treni merci o veloci treni espressi sulla linea Milano-Venezia non ancora elettrificata.
Nonno Vittorio gli ha trasmesso la passione per il lavoro e per quelle che oggi egli considera le più belle macchine mai costruite dall’uomo, macchine vive, calde, che respirano, ansimano, slittano sulle rotaie…
Tutto questo ha fatto nascere in Paolo l’idea di scrivere la storia di Vittorio, di ricordare la sua grande passione per il lavoro e per la famiglia.
Anche Oreste, il nonno materno, un uomo dalla vita movimentata, era una persona di carattere cui era molto affezionato.
Le sue origini asburgiche, le sue avventure belliche, la sua passione per Dante Alighieri e per la letteratura in generale, i suoi studi sui cementi armati, facevano di lui un uomo intellettualmente vivo, dai molteplici interessi, che non esitò ad iniziarlo alla scienza delle costruzioni e gli fece leggere libri e testi che i genitori o il parroco non avrebbero mai messo nelle sue mani.
Da qui è nato il racconto “Oreste e Vittorio“, la storia vera di due uomini di estrazione e origini assai diverse, protagonisti durante la prima guerra mondiale di un episodio che segnerà per sempre la loro vita.
Le loro vicende si intrecciano con la storia dell’Europa, ma soprattutto con quella di Vicenza, dagli anni dieci agli anni quaranta del secolo scorso, un’epoca turbolenta in cui l’umile coraggio e i valori umani di due sconosciuti riescono a far fronte all’orrore di due guerre e a un periodo storico in cui tutto sembra calpestato e distrutto.
Con il Piano di Accumulo diversi cato, essibile, su misura per te, inizi già da oggi a costruire il suo futuro.
Lungo il fiume diCorradoMarangoni,Theimagecreator