Lameziaenonsolo giugno 2022 anton giulio grande

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confidenze

Anton Giulio Grande di Francesco Polopoli

Antongiulio carissimo, ci pregiamo della tua presenza, accanto a tutto lo staff di redazione, di averti come ospite d’onore, questo mese, a Lamezia e non solo. Sai quanto per me la moda vesta un abito culturale, tra vestizione ed investimento! Altrove l’ho pure puntualizzato per mettere in rilievo le radici del buon stile. Dagli endecasillabi danteschi x«[…] sovra candido vel cinta d’uliva/donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva» (Purg. XXX, 31-33) nasce il tricolore italiano, per rammemorare un Sommo atelier, “passandomi l’ardua licenza!”. Che dire, poi, dello stile easy e della naturalezza con cui la Virginia Woolf mixava e contaminava generi opposti: gli scialli da sera con gli scarponcini infangati, i grembiuli da giardinaggio con le stole di pelliccia, i lunghi cardigan oversize con le candide bluse di pizzo vittoriano; per non parlare di Oscar Wilde, perso a specchiarsi con il suo inenarrabile guardaroba fatto di cappe di velluto marezzato, cappelli a falde larghe, preziose giacche dal taglio esotico. Ogni tua passerella io la immagino così, te lo dico subito in apertura, come un’antologia di quei passi strabilianti con allieti, d’allora ad ora, la tua memoria emotiva. Quando hai compreso che era proprio questa la strada che volevi percorrere da “Grande”? In realtà da sempre. Non ho scelto io questo lavoro ma è stato lui a scegliere me. È qualcosa di inspiegabile concretamente. Una passione vera e propria

Parlaci delle collezioni che crei, dal primo capo fino agli intrecci successivi: qual è il filo conduttore estetologico, Antongiulio? Non esiste un vero filo conduttore in realtà. Ogni creazione ha una sua storia, identità e genesi. Avviene quasi sempre per caso o dietro un input ispiratore che mette in moto la macchina creativa. Talvolta parte da un’idea, un mood creativo che può derivare dalla visione di un film, di una mostra d’arte, un viaggio, un libro, un museo, un incontro, un innamoramento.

Qual è stato il primo capo che hai creato? Per chi? Già al liceo me li chiedevano le mie compagne di scuola per i loro primi eventi di quell’epoca, di quel periodo... indimenticabile ed emozionante!

Quali tessuti e materiali prediligi per le tue creazioni? Occupandomi per lo più di alta moda preferisco tessuti classici, naturali e preziosi. Chiffon, georgette, tuxedo, crepe marocain e l’immancabile eterno pizzo in tutte le sue varianti che amo sezionare, ritagliare, assemblare a modo mio seguendo le sue volute capricciose facendole arrampicare sul corpo della donna valorizzandolo, avvolgendolo e scoprendolo in maniera sensualissima.

Cosa significa oggi la parola “femminilità”? Attualmente c’è molta confusione dietro a questo termine così bello, ideale ed eterno. La femminilità è qualcosa di inspiegabile materialmente, ma si trasmette, si avverte, si sente in maniera assolutamente naturale e spontanea. Non ci si atteggia ad essere femminili, né c’è qualcuno che lo spiega a sua volta a qualcun’altra che lo apprende. Influisce il tuo stato emozionale nel rendimento lavorativo? L’emozionalità è al centro, è il fulcro del momento creativo. Senza quella non potrà mai esserci esercizio creativo, opera d’arte che possa avere senso compiuto che possa trasmettere ciò che l’artista sente. Lamezia e non solo

La moda è ancora un simbolo dell’Italia? Perché il made in Italy ha una maestria d’eccezione, come riconoscimento, in tutto il mondo? La moda italiana insieme a quella francese ancora detengono il primato sia da un punto di vista creativo, GrafichÉditore di A. Perri - & 0968.21844

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sartoriale e di qualità. La moda per l’Italia è ancora un simbolo di nobiltà riconosciuto nel mondo.

dell’arte. Se penso al film ‘Colazione da Tiffany’, Givenchy è riuscito a far sognare le donne con il famoso tubino nero per Audrey Hepburn, mentre in ‘American gigolò’ gli abiti di Giorgio Armani per Richard Gere e Lauren Hutton hanno avuto la stessa lente d’osservazione delle scene riprese dal regista. Tu che ne pensi in merito? Da sempre moda e cinema sono un connubio straordinario. Tanti films sono diventati celebri e iconici grazie soprattutto ai look che hanno indossato grandi attrici, dal tubino nero di Hubert de Givenchy di Audrey Hepburn, ai guanti in raso nero nel celebre streap sensualissimo ma castissimo di Rita Hayworth in Gilda o l’abito plissettato bianco che grazie all’aria proveniente dalla sotterranea si alza sensualmente scoprendo le magnifiche gambe di Marylin Monroe, o il cappotto del l’affascinante Omar Sharif ne Il dottor Zivago ecc ecc .. non c’è stato stilista di moda che non abbia preso ispirazione per creare le proprie collezione dal mondo del cinema.

Quali sono state le tappe più importanti della tua carriera? Il ricordo più forte ed emozionante sicuramente è il primo vero importante successo, la mia prima volta in calendario ufficiale durante la fashion week dell’alta moda a Roma e la mitica indimenticabile sfilata a piazza di Spagna durante il programma televisivo Donna sotto le stelle trasmesso in diretta a livello mondiale. Ero un ragazzino, il più giovane di tutti a partecipare ad una kermesse ambita e partecipata dai grandi nomi della moda. Accorrevano da tutto il mondo per partecipare a questo prestigioso evento annuale. L’emozione, nonostante sono trascorsi 25 anni la ricordo ancora. E come non ricordare la mia prima sfilata di quasi 30 anni fa a fine corso di studi al Polimoda nel Salone del Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, con la mia tutor Micol Fontana (Sorelle Fontana) e il mio mentore Franco Zeffirelli. Antongiulio, balza agli occhi di tutti la scelta di testimonial molto belle e affascinanti. Al top, si dice, vero!? Quali sono i tratti fondamentali che le caratterizzano e svelaci, poi, le caratteristiche della donna AGG? Amo le donne forti e con carattere, dalla spiccata personalità . Per indossare un mio abito non è necessario essere bellissima ma dotate di intelligenza, ironia e personalità imponente!

Quali attrici o vip della Tv hai vestito? Ci sveli il lato del loro carattere e qualche simpatica battuta che porti con te tutte le volte che le rincontri? Ho vestito in 25 anni di onorata carriera tantissime tra le donne più belle e sensuali dello show biz, tra televisione, cinema e teatro e sono a loro legato da straordinari rapporti di amicizia , affetto e stima. Tra le mie più affezionate Alba Parietti, Dalila di Lazzaro, Ornella Muti, Anna Falchi, Manuela Arcuri, Valeria Marini, Nina Moric, Belen Rodriguez, Elenoire Casalegno, Natasha Stefanenko, Corinne Clery, Barbara Bouchet, Serena Grandi, Nathaly Caldonazzo, Elisabetta Gregoraci... con tutte loro ricordi straordinari che ci hanno visto protagonisti di lavori bellissimi che ricordiamo puntualmente quando ci ritroviamo.

C’è una persona che senti di ringraziare nella tua carriera lavorativa? Qualcuno della famiglia, ad esempio, che ti ha incoraggiato, mentre sognavi Piazza di Spagna con la legge morale dentro di te e il cielo stellato sopra di te? Me stesso, la mia caparbietà, la mia ambizione, voglia di riscatto, rabbia interiore insieme all’amore incondizionato, straordinario, riservato e silenzioso dei miei genitori

Hai un messaggio per tutti i giovani che ci leggono e che hanno il tuo stesso sogno nel cassetto di diventare un giorno stilisti di moda del tuo livello? I messaggi da trasmettere ai giovani d’oggi dovrebbero essere molto più

Il mondo cinematografico ha avuto sin dagli esordi delle forti influenze nel settore della moda: mi verrebbe da dire che Cinema e moda sono affratellati dalla potenza immaginifica pag. 4

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incisivi di quelli che abbiamo ricevuto noi qualche anno fa. La situazione attuale non è delle migliori e si sta assistendo ad un clima incerto e confuso privo di linee guide e ideali. Bisognerebbe cercare di trasmettere che solo i giovani sono in grado realmente di poter cambiare le cose illuminando l’Italia del valore, dell’inclusione, della cultura, della fragilità, del sano confronto politico e religioso e di allargare lo sguardo sul mondo scosso attualmente da una guerra spietata, che ci fa comprendere con ancora più forza il valore della nostra libertà. Di illuminare l’Italia, il mondo in cui tutti hanno il diritto di essere se stessi e di esprimere la propria autenticità seguendo le proprie tendenze lavorative e sentimentali. Mi viene in mente a tal proposito il testo bellissimo di una indimenticabile canzone dei Queen ‘Somebody to love’, dove si incitava a cercare qualcuno o qualcosa da amare e di trovare il giusto posto nel mondo che non è mai solitario, perché la vera libertà è sempre condivisa e solidale. Quando non lavori, cosa fai, carissimo? Chi è Antongiulio quando non veste i panni dello stilista? Amo moltissimo il mio lavoro che è veramente parte di me stesso, della mia vita, del mio privato e del mio intimo. Le cose, le passioni che coltivo quando non lavoro sono comunque legate al mio lavoro e che faccio confluire allo stesso... libri, musei, mostre d’arte, viaggi, cinema. Tre aggettivi con cui ti definiresti come persona. Visionario, sognatore, sensibile. Tre aggettivi con cui definiresti il tuo stile.

molto negli aforismi di Oscar Wilde, accattivante, acuto, ironico e moderno più che mai, ad esempio: ‘O si è un’opera d’arte o la si indossa’, ‘Mai discutere con un’idiota, ti trascina al suo livello e ti batte per esperienza’... Ma anche Umberto Eco ne Il cimitero di Praga: ‘Ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria?, ‘Mi illumino d’immenso’ di Giuseppe Ungaretti, ‘Il naufragar m’è dolce in questo mar’, dall’Infinito di Giacomo Leopardi, giusto per citarne alcune. Domanda inattesa, da noi si può! C’è qualcosa che vorresti dire che non ti è mai stato chiesto? Molto spesso, devo dirlo, le domande che mi pongono nelle mie interviste, negli ultimi quasi 25 anni di carriera, sono sempre un po’ le stesse e ripetitive ... mi piacerebbe trovarmi di fronte una serie di domande nuove, innovative, al passo con i tempi e di tematiche e matrice anche diverse. Non è il nostro caso, ovviamente!

Sensuale, raffinato e senza tempo. Cos’è l’amicizia per te? Credo sia il sentimento più importante ma anche quello più raro. La parola amicizia attualmente è usata in maniera impropria e anche abusata. A differenza dell’amore che spesso può mutare trasformandosi, spesso alimentata da passione, l’amicizia è fatta di intensità e non frequentazione e col tempo se si fonda su basi solide e disinteressate è destinata a durare nel tempo eternamente.

In ultimo, prima di salutarci con affetto, come di consuetudine, con quale motivo musicale congederesti questo nostro incontro? Beh, io idealmente ti porgo un’aria di Leonardo Caimi in uno dei suoi ruoli tenorili verdiani e pucciniani. Grande, grande, grande, pure lui, chioserebbe Mina. Tu, invece? Reddo plurimas gratias… Accetto molto volentieri le arie del mio caro amico Leonardo Caimi, accanto alle quali tra i tanti motivi che prediligo ‘Casta Diva’ interpretato dalla grande e immensa e divina Maria Callas

Quali sono le citazioni d’autore che ti balenano nella mente più frequentemente? Nelle tue esperienze di vita ti sono servite per adattarti a situazioni nuove? Moltissime e nonostante molte appartengano a secoli passati le trovo attualissime. In primis mi ritrovo Lamezia e non solo

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Sport

AMARCORD Cinque stagioni ed oltre 150 presenze biancoverdi con un rendimento top

ANDREA PIPPA: “LE MIE VIGOR SQUADRE FORTI MA ANCHE GRANDI GRUPPI”

di Rinaldo Critelli

Oggi nella splendida Firenze l’ex vigorino lavora in Lega Serie C nell’Area Agonistica dopo la laurea in Giurisprudenza. L’allora promettente mancino ricorda: “Indimenticabile la vittoria a Catanzaro con gol di Sergi. Per tre stagioni non ho saltato una partita. Mister Provenza mi ha insegnato tanto. Seguo ancora la Vigor, tanti cari amici li ho proprio a Lamezia, compreso mio ‘fratello’ Gennaro Porpora, insieme alla Vigor in quegli anni”

Nell’ambizioso roster che la Vigor mette su nell’estate 2003 c’è anche il campano Andrea Pippa, appena 18enne, inserito tra gli under promettenti che si confermeranno poi tali a fine campionato. Nonostante la giovane età Pippa appare fin dall’esordio un veterano, tanto che mister Boccolini lo inserisce subito nell’undici titolare (con i vari Porpora, Ceriani, Saviano in primis, oltre a Giusino, Scuteri, Bilotta, Greco), sfruttandolo sulla destra col piede invertito, dandogli fiducia per ben 31 gare, condite anche da due gol. E Pippa lo ripaga percorrendo instancabile su e giù quella fascia, correndo anche per qualche compagno, svariando a rubar palloni e ad iniziare il contrattacco. Insomma quel che si dice giovane talentuoso Pippa, comprovato dalla successiva carriera che lo vedrà, lui nativo di Agropoli, anche in B nella sua Salernitana pag. 6

e poi in C tra Cassino, Catanzaro, Siracusa, Barletta, Aversa e Lumezzane. Nei cinque anni alla Vigor ci si è resi conto subito non solo delle sue qualità tecniche, quanto anche di quelle morali ed il brillante percorso post-universitario lo evidenzia chiaramente. Allora, Dottor Avvocato Andrea Pippa cosa fai adesso? “Dopo l’ultimo anno da calciatore a Lumezzane avevo 32 anni, ho conseguito la laurea in Giurisprudenza a Napoli specializzandomi in diritto sportivo, quindi l’assunzione alla Lega di C del presidente Ghirelli. Personalmente curo la gestione operativa e l’organizzazione delle competizioni della Lega Calcio C relativamente ad orari, calendari e regolamenti. E poi pratiche burocratiche inerenti i tesseramenti, il controllo delle strutture dei campi ecc. Tutto ciò mi piace molto”.

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Passo indietro, come sei arrivato quell’estate del 2003 a Lamezia? “In prestito dal Cosenza che era in B, mi prese il Dg Donnarumma. Per me 18enne fu il primo vero campionato, dopo aver pure fatto l’esordio in B al termine del torneo Primavera col Cosenza. A Lamezia ho frequentato anche l’ultimo anno dello Scientifico per cui l’inserimento è stato anche più semplice per me. Ricordo ancora l’esordio contro la Vibonese segnando pure un gol in mezza rovesciata, miglior inizio non poteva esserci”. A proposito di gol, gli unici (4) della tua carriera in quasi 300 presenze tra C e B, li hai realizzati in maglia biancoverde… “Esatto, qualche altro in Coppa Italia a Lumezzane ma sui siti non è riportato”. E come andò l’esordio in B col Cosenza nel 2003 prima di approLamezia e non solo


dare alla Vigor? “Grande emozione: era l’ultima gara di campionato e giocai dall’inizio in Genoa-Cosenza. Fu un anno travagliato a livello di allenatori, tra cui Mondonico. Mi fece esordire mister Sala”. Ed eccoci al primo anno con la Vigor (2002-03): uno squadrone guidato da Boccolini, con i vari Castillo, Alessandrì, Tortora, Ancora, Rogazzo, Cavallo, Lio, Vanzetto e tanti altri. Ricordi? “Sicuramente squadra forte, ma anche un grande gruppo tanto che siamo ancora tutti in una chat whatsapp. C’erano davvero tanti giocatori importanti. Io ero tra i

più giovani, i cosiddetti under obbligatori per la D. Era una squadra affiatata e nonostante approdammo in C solo attraverso i play off rimase nel cuore di tutti i tifosi. Al di là della presenza di Castillo che spesso faceva la differenza, fu un duello combattuto col Rende fino alla fine”. Poi per te altre quattro stagioni in C con la Vigor. In totale 154 presenze in biancoverde oltre a quelle nei play off, qual è stata la stagione più bella? “Sono stati tutti anni bellissimi a Lamezia: il culmine è stato, al di là dell’anno in Serie D, l’ultimo con i play off persi col Marcianise”. Lamezia e non solo

Ma si poteva fare di più? Una ferita ancora aperta per molti tifosi… “Eh già. Ricordo bene quella stagione perché c’era Gennaro Porpora capitano, a cui sono ancora legato e talvolta lo facevo anche io essendo il suo vice. Riguardo all’epilogo bisogna dire che il Marcianise disponeva di un roster di grande qualità: da Fumagalli a Murolo in difesa che poi ebbi compagno a Salerno, e poi i vari Schiavon, Galizia, Poziello e Innocenti in attacco. Purtroppo pareggiammo l’andata in casa quando giocammo meglio, segnò Battisti per noi. Al ritorno fu una gara normale decisa da episodi sfortunati”.

anni non saltai nemmeno una partita”.

E poi con Provenza anche ‘miglior calcio d’Europa’… “Esattamente. Ribadisco che tutti gli anni di Lamezia sono indimenticabili. Sono stato davvero bene, tanto che ancora oggi ho molti amici e quando posso ritorno. Mi è capitato di farlo l’estate scorsa anche perché per me Gennaro (Porpora) è come un fratello. Anche con Provenza ho avuto un ottimo rapporto: quell’anno facemmo molto bene al di là che per via di due punti di penalizzazione non facemmo i play off. Ci divertivamo in campo facendo un calcio propositivo. C’erano i funamboli Ramora ed Alessandrì sugli esterni, io da terzino mi trovavo a meraviglia tanto che in tre

ho disputato solo 15 gare a Cassino. A gennaio 2009 sempre di quella stagione passai al Catanzaro ed anche lì, nonostante le 28 presenze, mi feci poi male con un’entrata da dietro di Sansone del Pescina (poi ex Torino, Samp e Bologna). Quell’anno perdemmo la finale play off proprio contro il Pescina”.

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Ricordiamo bene: hai fatto breccia in tutti gli allenatori che ti consideravano affidabile e dall’elevata resa in campo… “E ti dirò di più, quando andai via da Lamezia non fu come prima. Mi prese la Salernitana che era in B e mi mandò in prestito prima a Cassino e poi a Catanzaro, dove mi volle mister Provenza. A Cassino ammetto che andai controvoglia, a Salerno dicevano che non ero pronto. E però purtroppo, nonostante tutti mi chiamassero ‘stacanov’ (visto che ero quasi sempre presente), mi feci male alla prima di Coppa Italia e

Nel 2010 finalmente l’esordio vero a Salerno in B, come andò? “L’anno prima a Catanzaro disputai le Universiadi, riservata appunto ai calciatori-universitari. In quell’occasione raggiungemmo la finale a Belgrado e purtroppo mi strappai al retto femorale. Quindi sono stato quattro mesi fermo pag. 7


e andai fuori lista a Salerno. Poi a gennaio mister Grassadonia mi reinserì e così esordii col Piacenza in casa e vincemmo. Alla fine furono 13 presenze per me, anche se purtroppo siamo retrocessi. L’anno dopo restai sempre a Salerno ma mister Breda iniziò a farmi giocare titolare solo nel girone di ritorno. Anche qui perdemmo la finale play off per andare in B col Verona. Era il 2011 e fu la gara delle polemiche con mister Mandorlini accusato di razzismo nei confronti dei tifosi salernitani e meridionali in genere”. Poi come proseguì la tua carriera? “La Salernitana purtroppo fallì e andai a Siracusa, poi due anni a Barletta, Aversa ed altre due stagioni a Lumezzane. Ho smesso nel 2016 a 32 anni, forse presto ma ho fatto una scelta di vita”. Una gara con la Vigor che ricordi particolarmente? “Non è facile scegliere tra le oltre 154 partite che ho fatto – sorride -, così di primo acchito direi il derby vinto a Catanzaro deciso da un rigore di Michelone Sergi. Fu una grande gioia con tanti nostri tifosi a seguirci ed a sostenerci in un Ceravolo stracolmo”. A proposito di tifosi cosa ricordi di quelli vigorini? “Fantastici. Ti dirò che ho giocato anche in piazze demograficamente più numerose, ma come sentiva

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la squadra il tifo di Lamezia è una cosa che rimane nel cuore. Li ricordo sempre molto calorosi e poi in quegli anni eravamo davvero molto seguiti. Mi viene in mente la trasferta a Rende in D con tutta la gradinata biancoverde. E poi il D’Ippolito era ed è uno stadio che si presta a quel tifo caloroso a ridosso del campo di gioco, a me sono sempre piaciuti questi campi”. L’allenatore che ti ha insegnato di più? “Sicuramente mister Provenza mi ha aiutato tanto, così anche Breda che poi si è ricreduto sulle mie qualità e ti dirò anche Filippini, uno dei gemelli storici del Brescia, che ebbi a Lumezzane facendo una salvezza miracolosa, anche se poi non ha avuto molta fortuna. E sempre a Lumezzane un altro grande è stato Nicolato, attuale tecnico dell’Under 21”. Il compagno più forte? “Eh… come fai a dirlo? Ne ho avuti tanti…”. Infatti non è facile, ne citiamo qualcuno con cui hai giocato: Ciccio Caputo (oggi alla Samp.), Merino, Stendardo, Cozza, Fava, Dionisi, Montalto, Falomi, due dei tre fratelli Mancosu, Marco (ex Lecce) e Marcello non Matteo alla Vigor negli anni seguenti ai tuoi. Allora? “Arrivai a Barletta in C che era ul-

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timo e ci salvammo ai play out, in quella squadra c’erano Dezi oggi a Padova, Molina oggi a Monza ma ha giocato con Crotone e Atalanta in A, La Mantia in A con l’Empoli. E poi ho giocato pure con Marco Mancosu fortissimo, oggi alla Spal; e con Coda oggi a Lecce. Anche a Siracusa arrivammo primi, e poi penalizzati, c’erano proprio Marco Mancosu, Baiocco (ex Reggina). Dirne uno è difficile. E poi non posso non citare Nacho Castillo. Ed anche Gennaro Porpora”, e giù a ridere. Segui ancora la Vigor, al netto di tutte le vicende accadute nell’ultimo anno e mezzo? “Certo che sì. Come dicevo ho ancora amici a Lamezia e mi raccontano tutto. Dispiace non vederla nelle categorie in cui merita”. Sei contento di essere rimasto nell’ambiente calcistico, non pensi alla carriera di allenatore o ds? “Per me è il massimo, meglio di questo non potevo chiedere. Mi sono stabilizzato qui a Firenze per il momento, ho pure una bimba di 5 anni, Martina. Mi è sempre piaciuto di più un ruolo dirigenziale, al momento mi vedo bene così, poi ovviamente mai dire mai”. Ad majora… * Pubblicate Castillo, Galetti, Sinopoli, Gigliotti, Scardamaglia, Sestito, Forte, Lucchino, Rogazzo, Ammirata, Samele, Sorace, Rigoli, Pagni, Zizza, Vanzetto, G. Mauro, Gatto, Nicolini, Mirarchi, Dolce. continua…

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arte

Alberto Badolato di Anna Badolato

Alberto Badolato nasce a Tiriolo nel 1948. Studia presso l’Istituto d’arte di Vibo Valentia ed in seguito presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, ma soprattutto la sua formazione risente del ruolo del padre, pittore e paratore del tempo, figura che accompagna ancora oggi la sua vita artistica. Nel corso della sua lunga carriera pittorica spazia in diversi generi, dai “muri” degli anni ottanta, sui quali sedimentano tracce del tempo e del ricordo, ai tetti assolati e trasformati dall’umidità degli anni, tema ricorrente della sua fase figurativa, all’informale, filo conduttore di tutta la carriera pittorica. È un artista a cui è piaciuto sperimentare ed accostare materiali diversi, plasmandoli e sovrapponendoli in maniera sapientemente casuale, attendendo la reazione e la trasformazione della materia su un supporto sempre pronto ad accoglierla e ad interagire con essa: stucco, tempera, olio, mosaico, foglia oro. L’artista ne predispone l’incontro e attende l’esito, come se egli non ne fosse l’artefice, ma l’osservatore stesso. Così, quasi in maniera imprevista, forme e colori, esulano dalla razionalità, prendono col tempo nuova vita, concretizzandosi in un linguaggio aperto alla accidentalità espressiva di una materia dominata solo dalle leggi della fisica.

Ho sempre visto le opere di mio padre come frammenti di un sogno, frasi non dette a riempire silenzi, immagini di cui è difficile parlare, colori che ingannano, mai uguali a se stessi, effetti nemmeno cercati, solo lasciati liberi di confondersi e confonderci. Sicuramente in esse si è riversata tutta l’interiorità dell’artista, il suo pensiero, il suo cambiare idea e soprattutto le attese: l’attesa della reazione dei materiali tra di loro e sul supporto, l’attesa della reazione del pubblico. Alberto Badolato è un artista che continua a cercare, con gli stessi materiali, risultati inattesi, frutto della contingenza del momento in cui essi prendono vita. Einstein affermava che follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Io aggiungo che non è solo follia, ma arte, completa libertà espressiva: sono i pensieri che si animano attraverso i materiali. Alla fine l’arte che cos’è se non questo? Creare un qualcosa che nella realtà non esiste: dar voce, a concetti idee, ricordi, e suscitare le stesse emozioni negli spettatori.

Nell’ultimo decennio d’artista ha allargato i suoi confini di indagine all’umano, introducendo citazioni figurative di grandi artisti del passato, lasciati liberi di contaminare i suoi dipinti. Figure classiche si affacciano come delle istantanee sugli stucchi colorati mescolati alla carta, altre collocate ai margini, ne vivono il supporto, osservando il segno della spatola sul colore, il mescolarsi delle cromie, ora in maniera armonica, ora complementare. Le più recenti opere, che caratterizzano la maturità artistica dell’autore, sono significative del suo percorso interiore, esteriorizzato attraverso il segno: colori sempre più profondi, stratificati e cangianti, accostati in maniera decisa. L’artista recentemente lamentava la difficoltà di fotografare i suoi dipinti, di cui è possibile cogliere l’essenza solo se l’osservatore cambia continuamente il suo punto di vista. Il supporto è graffiato dalla materia stessa, che scalfendolo, scopre tracce di ricordi dolci e inattesi: carta da parato, oro, il padre paratore, l’odore di colla del suo studio, i pensieri di ragazzo trasformati nella soavità ed eternità del ricordo. Lamezia e non solo

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Di tuberose, fresie e gelsomini… di giuggiole e cannella il libro di Michela Cimmino.

Il testo di Michela Cimmino, Di tuberose, fresie e gelsomini… di giuggiole e cannella edito da Grafiche' è un libro che anche a livello tipografico, estetico e di funzionalità si presenta bene: ottima carta, rilegato con file refe, ha le alette. Ho letto d’un fiato il libro e sono rimasto stordito dai profumi, dagli odori e dai sapori che sembravano sprigionarsi dalle pagine del testo. Da questo punto di vista è un libro che stimola, tra l’altro fa venire fame. Testo multisensoriale, sinestetico e oggi direi, quasi multimediale. Ho letto, oltre alle pagine di Michela, gli interventi presenti nel testo: la prefazione di Giorgia Gargano, l’introduzione di Maria Teresa Di Benedetto, l’intervento di Franco Cimino, il “cugino” di Michela, gli interventi degli amici Pasquale Allegro, Francesco Polopoli e Salvatore D’Elia; voci tutte concordanti nel trovare in questo testo un alto valore culturale, dove la leggerezza si accompagna alla profondità, all’umanità, doti che impreziosiscono il testo. A questo punto, sollecitato dalla lettura del libro, mi sono fatto delle domande. Perché ogni libro, testo, articolo di giornale, saggio, silloge poetica, romanzo se possiedono una certa validità, c’interrogano, ci presentano prospettive e poi pretendono da noi delle risposte, delle condivisioni o dei rifiuti. Per mia deformazione professionale, sono abituato ad analizzare, classificare, a collocare, a distinguere, a separare, a seguire la parte scientifica della mia mente, ma anche a riunificare, a sintetizzare ciò che può sembrare frammentario, andando dietro alla mia parte filosofica e mi sono fatto questa domanda: di che tipo di testo si tratta? Che pag. 10

di Giovanni Martello

cosa è? Come è possibile definire questo libro? Spero di potervi dare la risposta nel corso del mio intervento e mi farò aiutare dall’autrice. Credo che si tratti di un romanzo anche se si muove in modo trasversale in tutte le tipologie di romanzo che esistono. A me ha fatto venire in mente, con i necessari distinguo, "La vita. Istruzioni per l’uso" di George Perec, che a Parigi, con Calvino e Queneau fondò l’Oulipo. Potrebbe essere un romanzo biografico, e infatti in tutte le oltre duecento pagine del testo il riferimento ad ogni singolo episodio narrato è sempre di tipo biografico o ha a che fare con la biografia e con le persone che hanno fatto crescere l’autrice: i suoi parenti, i nonni, i genitori, i fratelli, i cugini, il fidanzato, i figli, gli amici. Lo scritto tesse una serie di relazioni e di intrecci fra l’autrice e tutte queste persone, facendo della coralità un’altra caratteristica dello scritto. Due parole sulla coautrice. Sua figlia, Maria Teresa Di Benedetto, è tra l’altro coautrice del testo, al quale partecipa anche con un’interessante e appassionata introduzione sul cibo inteso come cultura a partire dal momento di prepararlo, anzi di scegliere gli elementi che lo costituiscono, di presentarlo e, infine, di gustarlo. “Cibo simbolo della nostra storia personale, familiare, etnica, antropologica, sociale ed etico” scrive Maria Teresa. Alla fine della prefazione Michela aggiunge l’ode alla soppressata, che io ebbi la fortuna di gustare a livello letterario, ma anche di consumare una sera di tanti anni fa, in uno dei tanti incontri conviviali con l’autrice e la sua famiglia.

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Lamezia e non solo


Dunque, fin qua possiamo dire che il cibo è una fotografia che aiuta a capire chi siamo, che definisce la nostra provenienza, la nostra essenza, direbbe l’arcinoto e strausato Feuerbach, teorico dell’alienazione religiosa. Addirittura, Giorgia Gargano nella prefazione definisce il cibo sinestesie dell’animo. Dicevamo romanzo biografico, e Michela sottolinea le sue origini campane parlandoci di avi amalfitani, di parenti vari fino a giungere a quelli che sono le nostre radici prossime e dirette, i nostri genitori. Ho toccato con mano questo suo amore per la Campania e in particolare per Napoli, in quanto siamo stati assieme a Napoli; ripenso a quella giornata di ottobre 2012 quando le cateratte del cielo si aprirono e c’impedirono di scendere dal pullman, a piazza Plebiscito, ma noi imperterriti ci recammo alla Biblioteca Nazionale per cercare alcuni scritti di Fiorentino. Michela ha giustamente riproposto, l’avevamo già letto in un interessante volume collettaneo, sulle donne del Novecento lametino, la bellissima lettera in cui sua madre si presenta e racconta la propria vita, che come ogni biografia, ogni microstoria, s’interseca, incontra e si scontra con la storia generale di cui ognuno di noi fa parte. Diceva Marc Bloch, questo grande storico francese, che la storia altro non è se non la storia degli uomini e delle donne nel tempo. Il romanzo biografico di Michela si snoda attraverso l’infanzia, i sogni, le paure e gli affetti, l’adolescenza, la giovinezza, la vita studentesca, gli innamoramenti, ma anche il disincanto e il dolore, la perdita dei propri genitori, il momento in cui ognuno di noi sente di perdere una parte importante di sé. Ed ogni tanto affiorano contatti con il realismo magico, basta solo riguardare il capitolo "Satanicchio” o quello in cui descrive una specie di estasi, quando da bambina le sembrava di poter abbandonare il proprio corpo. E quindi il libro di Michela è anche un romanzo storico che si snoda attraverso generazioni e, come abbiamo visto, regioni, tra la Campania e la Calabria, ma anche di formazione il cui eroe, il personaggio principale, in questo caso la nostra Michela, affronta e supera ostacoli, cambia, matura e da bambina diventa giovane donna, professoressa, madre e speriamo anche nonna. È un romanzo post moderno, perché è frammentato, apparentemente, senza una trama, anche se questa c’è ed è rintracciabile, nel cibo, nei profumi, nei gusti, nell’amore per la propria terra. Anzi potremmo parlare di una geografia dei cibi, delle emozioni e, perché no, anche del risentimento buono. Il libro pur se è apparentemente una serie di episodi frammentati, in realtà ognuno di essi è concluso in sé. Il libro è anche un romanzo filosofico e quanta filosofia è nascosta nelle sue pagine! Michela non ostenta, quasi con indifferenza butLamezia e non solo

ta lì citazioni, annotazioni, riflessioni sull’uomo, su chi è, sulle domande classiche della filosofia, sul destino umano, sulle sue possibilità che deve giocarsi in questa vita. Non mancano accenni alla trascendenza. Un libro che s’interessa di molte problematiche attuali, quasi nulla sfugge all’autrice, dal femminismo all’identità di genere, sui diritti civili. Ricordo le sue giornate dell’indignazione assieme ai suoi studenti. Nonostante ci sia quasi l’intero scibile contenuto, lo scritto non è pesante, non è pedante, ma si alza leggero, ci fa volare e ci trasporta in alto a gustare da quella posizione di levità le problematiche trattate anche se parte da un banale piatto di lenticchie per raccontare (pp.156-157). Un romanzo pedagogico. Michela è donna di scuola. Insegnante che lascia il segno. Docente al Liceo Campanella dove l’ho potuta apprezzare. La Ferrari del Campanella, la definivo. Efficiente ed efficace. Tantissime sono le esperienze culturali realizzate a scuola, in tante parti d’Italia e d’Europa. Oltre alle sue interessanti lezioni di filosofia, di pedagogia e di scienze umane, ricordo la nave della legalità, ricordo stage in accreditate università italiane e straniere, ricordo i laboratori di ceramica, il teatro, la musica, ecc. A proposito speriamo di poter scrivere la storia di questi ultimi anni del balzo del Liceo Campanella quando è diventato il punto di riferimento culturale e formativo del territorio, specie nel 2012 con l’istituzione del Liceo musicale, al quale si è aggiunto, a settembre del 2018, il Liceo coreutico, ovvero della danza. È una storia doverosa che dobbiamo regalare alla comunità lametina, che grazie a questa scuola è cresciuta, ma anche per puntualizzare alcune parti di questa storia scolastica di Lamezia. Mi viene in mente un fatto: il nostro istituto ogni anno portava a scuola oltre una trentina di autori, in forma gratuita, da questo punto di vista noi assicuravamo, a costo zero, agli studenti, non solo del Campanella, ma di buona parte delle scuole superiori e alla comunità lametina un ventaglio di incontri, di possibilità di crescita per i quali altri enti per fare lo stesso spendono centinaia di migliaia di euro. Oggi si parla di globalità, si parla di romanzo new global, deterritorializzato, buono per tutte le culture, trasversale a tutti, dunque globale. Da questo punto di vista, mi piace che Michela vada contro corrente professando e affermando la sua appartenenza, la sua cultura che affonda nel mito magnogreco. Anche se qualcosa l’accomuna al pensiero global, il suo convinto ecologismo che si lega a posizioni vegetariane, e il suo rispetto e cura per gli animali. Basta andare a rileggere a p. 178, il brano "Dopo aver salutato le lucciole", profonda pagina ecologista, nell’etimologia del termine, che riguarda la totalità degli uomini, anzi degli esseri viventi. Chiudo questo intervento nel sottolineare il linguaggio lieve, percepibile in buona parte del testo e la prosa poetica di Michela, presente in tutte le pagine, ravvisabile ad esempio "Nel sorriso della murena" alle pp. 184-185, e tanti altri passaggi da scoprire nel corso della lettura. Consigliato!

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L’angolo di Tommaso

I moderni eroi: i padri

di Tommaso Cozzitorto

Passeggiando, spesso mi commuovo a guardare delle nuove figure di eroi, “gli eroi della quotidianità”, quei padri che devono lottare ogni mese per far quadrare i conti, padri di due o più bambini, i quali si trasformano in tanti bravissimi Pelè o Maradona, per far divertire i propri figli. Ed ecco che una piccola aiuola si trasforma in un luogo magico, unico, esclusivo, tra gridolini di gioia dei piccoli, papà che diventano fanciulli e nello stesso tempo punti di riferimento come querce disseminate in ampi terreni. Questi papà sanno inventarsi pomeriggi indimenticabili con poco, un pallone e un gelato al bar più vicino, questi papà sono capaci di dispensare felicità anche sotto casa, lo trovo semplicemente meraviglioso. Eroi della creatività, eroi della dignità, tanti ne incontro sul lungomare più vicino alla città, i veri eroi della quotidianità. Un grande applauso. «A volte penso che mio padre sia una fisarmonica. Quando lui mi guarda e sorride e respira, sento le note». (Markus Zusak) «Padre, se anche tu non fossi il mio. Padre, se anche fossi a me estraneo, per te stesso egualmente t’amerei». (Camillo Sbarbaro)

Luigi Pirandello Spesso ci ritroviamo a dire: "Pirandello aveva compreso tutto sulla natura più profonda dell'essere umano", specialmente quando restiamo un po’ interdetti su alcuni comportamenti o non capiamo il perché di determinate azioni di cui ci sfuggono i connettivi logici. Eppure non è soltanto un modo di dire tanto per, è vero, Luigi Pirandello, forse, è colui che più ha saputo scavare nell'animo umano: la maschera e la forma che ci cristallizza in un ruolo sociale per tutta la durata della nostra vita, se cade la maschera per un motivo accidentale la società ti ritiene pazzo, in preda alla follia, unico stato di autenticità dell'esistere. È tutto relativo, esistono tante verità, una per ogni essere umano, di conseguenza l'incomunicabilità diventa il vero pilastro su cui poggia, o meglio, non poggia il rapporto tra gli Uomini. Tutto questo non vi sembra sempre tanto attuale? Questa società "a gambero", l'involuzione dei rapporti umani, nonostante le Super tecnologie ci dovrebbe far riflettere. Un altro punto mi sembra importante da sottolineare: la superficialità con cui vengono affrontate anche le esperienze più serie e profonde (anche spirituali), trasformandosi, di conseguenza, solo in mediocri forme di apparenza. Non c'è cosa più grave della "falsa comunicabilità", insana e ingannatrice, illusione e delusione per chi è in buonafede. Molto più onesto ammettere la reale incomunicabilità che governa i rapporti umani. D'altronde, siamo tutti dei personaggi in cerca d'autore, consapevoli e inconsapevoli. «Vado spesso in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa» (Luigi Pirandello, da una lettera ai familiari del 7 gennaio 1888)

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