Studi montefeltrani, n. 12 - 1985

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COLLANA

DI

STUDI

E

TESTI

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STUDI MONTEFELTRANI

Editrice Società di Studi Storici per il Montefeltro S. Leo 1985


W A L T E R MONACCHI

una tomba romana a Castel ventoso di san marino

Tutti i diritti riservati Stibu Urbania


Nel 1984, durante lo studio dei vasi a vernice nera di epoca repubblicana rinvenuti a San L e o ( 1 ) , mi è stato indicato un argomento inedito di un certo interesse per la storia del Montefeltro, quale risulta da un manoscritto della Biblioteca Oliveriana di Pesaro. I l manoscritto (figg. 1-3), senza data, risale agli ultimi decenni del X V I I I secolo e riporta una nota di Annibale degli Abbati Olivieri relativa ad una segnalazione archeologica del sig. Giuliano G o z i di S. Marino nella quale si parla del rinvenimento di una tomba romana nei pressi di "Castel Ventoso" ( R e pubblica di San Marino) (figg. 4, 5 ) . I n questo articolo, dopo aver trascritto il testo del documento, cercherò di esaminarlo per risalire alla cronologia della tomba e ricostruire il corredo funerario, schematicamente disegnato dal G o z i .

Biblioteca Oliveriana di Pesaro, ms, 445 ( 2 ) . N o t a nell'indice: « R e l a z i o n e mandatami della scoperta di un sepolcro fatta nel Montefeltro. N o n m i ricordo p i ù chi me la mandasse, ma per quello arguir posso dal carattere, direi che fosse stato il Sig. G i u U a n o G o z i di S. M a r i n o ; molto m e n o m i ricordo dell'anno in cui questo segnai, c. 2 7 2 » . c. 272r. « A piedi di u n a vigna, che v à a finire sopra u n fosso non molto lungi, secondo la tradizione, dal C a s t e l l o di V e n t o s o , di cui presentem.'^ non sonovi nepur le vestigia, fù rinvenuto pochi piedi sotto

(1) W . M O N A C C H I , Tre vasi a vernice nera 'campana' nel Museo del Forte di S. Leo, in «Studi Montefeltrani», 10 (1983), pp. 25-38. (2) A . D E G L I A B B A T I O L I V I E R I , ms. 445, ce. 272r-v, 273r, Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Devo la segnalazione all'amico F . V . Lombardi.


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terra u n cadavere, che daUi stinchi, ed altre ossa c o s ì anche dalla lunghezza appariva di statura quasi gigantesca; il m e d . ° cadavere era posato sopra d'un pavimento di terra cotta della grosezza d'un mattone, il qua! pavimento venne rotto dalle zappe unitam." con un altro vaso di assai minor grosezza, che per quanto si p u ò congetturare dalli fragmenti, si p u ò venir in cognizione fosse u n catino il cui fondo sta copiato a parte in altro foglio alla lettera A. S o p r a la testa, ed avanti li piedi furono ritrovate due Pietre concie; intorno v'erano due lucerne come alla lettera B, ed u n a è p i ù piccola della compagna; fuvi anche trovato un altro pezzetto di vaso che h a i l suo manichino come alla lettera C . I l sopradetto pavimento è segnato con varii geroghfici come vedesi nella lettera D, ed in mezzo a tali geroglifici si vedono sei lettere, che per quanto scorgesi furono formate per mezzo di u n a stampa di u n sol pezzo, g i a c c h é le sopradette lettere si veggono elevate ad uso e similitudine di u n mezzo rilievo come alla lettera E». c. 272v. « A n d a t o s i p i ù sotto f ù ritrovato u n a Pietra quasi triangolare unita con calcistruzzo a altri fossetti che formano u n a specie di m u r o ; il che vedutosi dal P a d r o n e del fondo non volle questi p i ù proseguire il lavoro, se non v e r r à consigUato a l t r i m / da chi ne p u ò avere tutta la c a p a c i t à . C h i h a scritto sin qui rinnova i suoi ossequj al Sig. A n n i bale, che dal med." vien pregato a sapergli dare u n a dichiarazione dell'accennate lettere, dove son state ritrovate molte monete, che quanto prima dal predetto verranno v i s i t a t e » .

possibile determinare i l secolo, dato che fra i reperti non v i è ceramica datante. Quindi in loco v i era un insediamento rurale romano, a cui forse bisogna mettere in relazione la tomba e le strutture descritte dal G o z i . Anche i l tipo sepoltura non è ben definito. Potrebbe essere una tomba con copertura alla capuccina, molto diffusa nel mondo romano e costituita da alcune tegole appoggiate a formare un doppio spiovente per coprire i l corpo disteso su altre tegole messe in piano per il fondo; oppure di una tomba a cassa con copertura piana di tegole o pietre ( 3 ) . Propendo comunque per i l primo tipo, in quanto non si fa cenno a muretti laterali propri del secondo, mentre si parla di due «pietre concie» ai piedi e alla testa dell'inumato che sostituivano le tegole sohtamente impiegate per chiudere ai due lati i l riparo a sezione triangolare delle tombe alla capuccina. L'uso delle pietre ai piedi e alla testa è già accertato in molte località vicine, come ad esempio nella tomba alla cappuccina rinvenuta a L a m e di Urbania e ora r i costruita nel museo annesso alla biblioteca comunale di U r b a nia ( 4 ) . I n essa la testa del defunto era protetta da una lastra di pietra locale. Se i dati relativi al tipo di tomba sono scarsi, gh elementi del corredo sono invece riportati in disegno (fig. 3 ) . Ciò ci aiuta a ricostruire in parte la suppellettile funeraria, mentre l'esame specifico di ogni singolo vaso disegnato consente di datare sia pur approssimativamente la tomba. Nella parte alta del manoscritto, troviamo un marchio di fabbrica, detto bollo doliare ( 5 ) , impresso sul piano di posa in mattoni del sepolcro (fig. 3 , E ) . I l

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Siccome non risulta che l'Olivieri abbia dato una risposta al quesito, si t e n t e r à di darla in questa sede a distanza di oltre due secoli. L a generica descrizione del Gozi non consente di identificare i l luogo preciso del rinvenimento. Perciò è stato necessario indagare la zona circostante Monte Ventoso per determinare almeno le tracce di un eventuale sito romano. D a l l a ricognizione di superficie è scaturito un dato interessante. Sul versante nordoccidentale del Monte Ventoso (figg. 4, 5 ) , vicino alla zona che per gli affioramenti di grandi blocchi e pietre sembra essere quella del Castello di Ventoso, sono stati rinvenuti vari materiali romani nei campi (purtroppo non arati) a ridosso della sommità del colle e vicino ad un fosso che si trova nei pressi di una vigna (come nella descrizione del G o z i ) . S i tratta di coppi e tegole (fig. 6,a), un mattoncino da pavimento in opus spicatum (fig. 6,b), alcuni frammenti di vasellame in ceramica comune acroma (fig. 6,c), riconducibili all'epoca romana, pur se non è

(3) Per le necropoli romane nei territori vicini al Montefeltro con tombe alla cappuccina e a cassa cfr. L . M E R C A N D O , Tombe romane a Fano, in «Rivista di Studi Liguri», X X V I (1970), 1-3, pp. 208-272; M . G . M A I O L I , La cultura materiale romana, in «Analisi di Rimini antica: storia e archeologia per un museo». Rimini 1980, pp. 129-136, t a w . X X X I I I - X X X V I I ; L . M E R C A N D O , Necropoli romane: tombe al Bivio della Croce dei Missionari e a San Donato, in «Notizie degli scavi di antichità», X X X V I (1982), pp. 109-420. (4) W. M O N A C C H I , T o m ò e romane in località "Lame" di Urbania, in «Il foglio durantino», anno I I , n. 1 febbraio 1985, Urbania, p. 4 (inserto). (5) In merito alle recenti problematiche sulla fabbricazione dei laterizi e sui marchi di fabbrica cfr. M . S T E I N B Y , La cronologia delle figline dollari urbane dalla fine dell'età repubblicana fino all'inizio del III secolo, in «Bulletti-


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timbro, attraverso i l quale si riconosce l'officina produttrice dei laterizi, riporta vari elementi: il proprietario del fondo o la denominazione del fondo stesso (praedium); i l nome del proprietario della fabbrica (figlina); i l nome dell'officinatore, che dirigeva la produzione, e dell'operaio, che poteva essere anche uno schiavo; a volte, i nomi dei consoli nel cui anno venivano prodotti i laterizi. I l marchio della tomba si presentava con le lettere in rilievo, come dice i l G o z i , e venne identificato in mezzo ai «geroglifici» (fig. 3 , D ) dei quali p a r l e r ò più avanti. I l bollo non risulta ben trascritto, in quanto la terza lettera del gentilizio non è identificabile, e di ogni nome viene riportata la sola sigla, che non ci permette di risalire alla fabbrica. Pertanto la lettura del bollo è: S(...)Co(?)s(..) P(..) S(ervus). Tuttavia, se non è possibile sciogliere le sigle per giungere a delle ipotesi cronologiche, può essere utile esaminare le caratteristiche esteriori del timbro. Innanzitutto il bollo, probabilmente ottenuto con un punzone in bronzo (signaculum) ( 6 ) , è composto da una targhetta corniciata di forma rettangolare con i lati brevi arrotondati, simile ad un cartiglio. L e lettere all'interno sono apicate con modulo quadrato del primo periodo imperiale. I segni d'interpunzione sono tre, di forma triangolare e disposti a diverse altezze. Nella parte centrale, fra la C e la S, v i è una O compendiaria all'interno della C e un segno che, come dicevo in precedenza, non è comprensibile, forse p e r c h è i l Gozi ha mal interpretato una lettera non perfettamente impressa, o confuso un nesso fra due lettere. L e apicature, i l modulo quadrato e la P non chiusa riconducono alla prima e t à imperiale. Per quanto riguarda le interpunzioni triangolari l'analisi è più complessa. I l Lugli (7) afferma che queste interpunzioni compaiono nei sigilli più antichi.

no della Commissione Archeologica Comunale di Roma», 84 (1974-75), pp. 7132; I D E M , Ziegelstempel von Rom und Umgeburg, in «Real Enciclopadie», suppl. X V , 1978, coli. 1489-1531; I D E M , La diffusione dell'opus doliare urbano, in «Merci, mercati e scambi nel Mediterraneo», voi. I I , Bari 1981, pp. 237-245. (6) Per i sigilli in bronzo del territorio di Rimini si veda C . G I O V A G N E T Ti-o. P I O L A N T I , Analisi di Rimini antica: i signacula, in «Atd e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna, voi. X X I X - X X X (1978-79), Bologna 1981, pp. 1-48 (estratto). (7) G . L U G L I , La tecnica edilizia romana, Roma 1957, p. 558.

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Fig. 1 - Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Manoscritto inedito di Annibale degli Abbati OLivieri, ms. 445, c. 272r.


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Fig. 2 - Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Manoscritto inedito di Annibale degli Abbati Olivieri, ms. 445, c. 272v.!

Fig. 3 - Biblioteca Oliveriana di Pesaro. Manoscritto inedito di Annibale degli Abbati Olivieri, ms. 445, c. 273r.


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Fig. 4 - Rep. di S. Marino — Verucchio. L a località di Monte Ventoso e l'indicazione con un cerchietto del sito romano di Castel Ventoso. Dai tipi dell'Istituto Geografico Militare, 1:100.000 q. S. Marino (Autorizzazione n. 2404 in data 18.3.1986).

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Fig. 5 - Rep. di S. Marino — Verucchio. Il Monte Ventoso e il sito romano di Castel Ventoso (indicato dalla freccia), visti da Borgb Maggiore.


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ma i l Block (8) riporta bolli con tali interpunzioni triangolari r i salenti al 123 d . C ; i l Descemet ( 9 ) , ancora prima del Lugli, ne riferiva alcuni, datati dal nome dei consoli, a! 132 e al 161 d . C . D a ciò si deduce che l'interpunzione triangolare è presente sia nel I sec. d . C . che nella prima m e t à del successivo. Queste osservazioni cronologiche sono p e r ò «suggestioni» epigrafiche che non possono ritenersi probanti ma solo indicative, in quanto è particolarmente difficoltoso datare un bollo doliare dalle semplici caratteristiche esteriori, paleografiche, del testo. Pertanto questi suggerimenti cronologici potranno essere utili se confermati dagli altri materiali del corredo funerario che qui di seguito vado ad esaminare. Parlando ancora dei laterizi della tomba è d'obbligo appuntare l'attenzione sui cosiddetti «geroglifici» dello scritto del G o z i , che segnavano le tegole del « p a v i m e n t o » . Si tratta di tre segni ottenuti solitamente con le dita sull'argilla cruda che hanno un andamento curvilineo concentrico (fig. 3 , D ) . Sono stati notati in molte tegole provenienti da scavi (10) e non devono essere confusi n é con le linee parallele lungo la diagonale che r i troviamo nei mattoni, ad esempio bessali, come linee d'invito per ottenere in cantiere mattoni triangolari, spezzando con un leggero colpo di martello quelli quadrati (11), n é con altri segni accidentalmente impressi durante la fase di essicazione del prodotto prima della cottura (impronte di animali domestici, tracce di attrezzi agricoli, di arnesi, ecc.) (12). È probabile che i segni sul « p a v i m e n t o di terra cotta» siano determinati dall'esigenza di numerare la produzione delle tegole durante la lavorazione o

(8) H . B L O C K , The Roman Brick Stamps, Cambridge, Mass. 1948 (rist. anastatica, 1967), p. 37, nn. 140, 141. (9) M . C H . D E S C E M E T , Marques de briques relatives a une partie de la Gens Domitia, Paris 1880, p. 138, n. 147g; p. 160, n. L X X X V . (10) M . G . M A I O L I , La cultura ... cit., tav. X X X V I , 2 . Segni simili sono stati ritrovati nelle tegole dei recenti scavi di Sestino, Urbino e Fossombrone (in corso di studio). (11) G . L U G L I , La tecnica ... cit., p. 547; M . B L O C K , / bolli laterizi e la storia romana, Roma 1947 (rist. anastatica, 1968), p. 331. ( 1 2 ) G . L U G L I , La tecnica ... cit., p. 557; A . V E G G I A N I , Mercato Saraceno (Forlì) - Necropoli romana presso la Pieve di San Damiano, in «Notizie degli scavi», serie V I I I , X X I I (1968), pp. 5-9.


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per determinarne la serie, in quanto sono attestati solo su alcune e spesso le linee semicircolari sono in numero di uno, due, o tre come nel nostro caso (fig. 7 ) . Esaminiamo ora gli oggetti fittili (descritti e disegnati) che costituivano i l corredo funerario. Dapprima i l frammento di vaso, un «catino» secondo il G o z i , di cui abbiamo un dettaghato disegno con l'oggetto visto in pianta (fig. 3 , A ) . È evidente che l'autore ha voluto significativamente riprodurre la rotellatura intorno ad una doppia scanalatura concentrica sul fondo interno del vaso. Questi elementi decorativi sono presenti sia nella ceramica a vernice nera di e t à tardo repubbhcana (13), sia nella ceramica a vernice rossa, la cosiddetta terra sigillata italica (14), la cui produzione inizia nella seconda m e t à del I sec. a . C . e si protrae fino alla fine del successivo. D a l momento che i l G o z i non definisce la vernice, è impossibile determinare a quale delle due classi ceramiche corrisponde i l vaso, anche p e r c h è manca la sezione del frammento che avrebbe permesso di identificarne la forma, e pertanto bisogna genericamente datare i l «catino» fra il I sec. a . C . e il I sec. d . C . I l secondo vaso con i l «suo m a n i c h i n o » (fig. 3 , C ) sembra invece un frammento di lucerna, simile al tipo a becco tondo Dressel 17-20 (15) (fig. 8) che inizia ad essere prodotto nella prima m e t à del I sec. d . C . con ampia diffusione alla fine dello stesso secolo, produzione che continua anche nella media e t à impe-

(13) In questa ceramica le striature a rotella e le scanalature concentriche sul fondo interno sono associate a stampiglie (palmette, rosette, bolli). Nell'ultimo periodo repubblicano compaiono più frequentemente vasi con scanalature e striature senza stampiglie. Cfr. A A . W . , Scavi di Luni, U - relazione delle campagne di scavo 1972-1974, a cura di A . Frova, Roma 1977, p. 109, t a w . 79,9; 85,10, C M 5200; p. 110, taw. 79,11; 86,7; 80,1; 9,12, C M 8283, C M 8817/ 3; J . P. MoREL, Céramique campanienne: les formes, in «B.E.F.A.R.» 244, 1981, tav. 45, 2285a 1; tav. 46, 2287a 1. (14) C . G O U D I N E A U , La céramique aretine lisse, Paris 1968, p. 199, nn. 22-23, 27; p. 201, nn. 29-30; p. 240, B-2C-9; p. 241, B-2B-20; p. 243. B-2B'12; p. 280, tipo I C , p. 290, tipo 15B; Scavi di Luni li, op. cit., 125, tav. 95,1, C M 6323; p. 369, tav. 188,1 C S 1222. (15) CIL, X V , 2, tav. I l i (classificazione Dressel); N . L A M B O G L I A , Tipologia e cronologia delle lucerne romane, classificazione Dressel. Apunters sobre cronologia ceramica, in «Publicaciones del Seminario de Arqueologia y Numismatica Aragonesa», 1952, pp. 73-90.

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riale. L'associazione di questa lucerna del I sec. d . C . con i l vaso precedente, rende più probabile l'ipotesi che i l «catino» sia in terra sigillata itaUca, tipica di questo periodo, piuttosto che in ceramica a vernice nera. Infine analizziamo le due lucerne della stessa forma ma di diverse dimensioni che sono esemplificate nel disegno B (fig. 3 , B ) . I l confronto più accettabile è con due tipi di lucerne: a volute Dressel 9-14 (fig. 8 ) , prodotte dall'età augustea a tutto i l I sec. d. C.(in qualche caso rinvenute anche in contesti del I I sec. d.C.) e a canale aperto Dressel 5 (fig. 8 ) , create dalla m e t à del I sec. d . C . fino all'età tardo romana (16). Per essere con sicurezza una lucerna a volute, mancano nel disegno le volute a lato del beccuccio; mentre, per l'identificazione con il tipo Dressel 5 a canale aperto, i l disegno risulta privo delle tipiche borchiette sulla spalla e di ogni accenno al bollo sul fondo esterno che caratterizza queste lucerne dette per tale ragione Firmalampen. I n tutti i casi le lucerne sono inquadrabili cronologicamente fra l'età augustea e l'inizio del I I sec. d . C ; anche nell'ipotesi di assimilarle con la forma Dressel 5 per il canale stretto, esse sono da mettere in relazione con le prime forme di questo tipo o con i l tipo Buchi I X b (dalla seconda m e t à del I all'inizio del I I sec. d.C.) (17). I n conclusione, i vari elementi cronologici e tipologici della tomba fin qui raccolti sembrano indicare una datazione abbastanza uniforme di I sec. d . C , nel quale periodo ritroviamo sia le lucerne, sia il vaso in terra sigillata italica, pur se alcuni aspetti indicano la fine del secolo. Pertanto, dai dati emersi, la tomba è collocabile nella seconda m e t à del I sec. d . C . e doveva far parte di un piccolo sepolcreto famiUare legato ad un insediamento rurale romano nei pressi di Castel Ventoso.

(16) S. L o E S C H C K E , Lampen aus Vindonissa. Ein Beitrag zur Geschichte von Vindonissa und des antiken Beleuchtungswesens, Zùrich 1919, pp. 255273, tav. I , I X - X ; E . B U C H I , Lucerne del Museo di Aquileia, I. Lucerne romane con marchio di fabbrica, Aquileia 1975, pp. X X I - X X X I I I . (17) B U C H I , op. cit., pp. X X I V - X X V , X X I X - X X X I I I , tipo I X b .



P I E R L U I G I SACCHINI

tra feretrano e sarsinate: la pieve di s. ilario di tornano (mercato saraceno)


Alle sorgenti dell'Uso, arroccato su uno sperone roccioso che da un lato scende a picco sul torrente, sorge l'attuale borgo di Tornano (1). È nel territorio di questa località che sorgeva una delle più antiche pievi del Montefeltro "romagnolo": la pieve di S. Ilario. L'edificio plebale doveva trovarsi, infatti, nella località ancora denominata in dialetto «La Piva», ovvero «La Pieve». Oggi dell'edificio plebale non restano tracce evidenti e nella località sopracitata trovasi solo un casale (534 m.) che domina tutta l'alta valle dell'Uso (2). L a mancanza di scavi sistematici non ha, inoltre, permesso il ritrovamento di materiale che indicasse un più antico insediamento in loco. Solamente dei ritrovamenti sporadici di materiale, effettuati in alcune località circostanti, testimoniano la preesistenza di insediamenti umani nella zona, almeno a partire dal periodo romano. VogUo qui ricordare il rinvenimento di anfore e tegoloni nonché di un pavimento in cocciopesto in località Casetto presso le Ville di Tornano (3) e i rinvenimenti di laterizi, ciotole

(1) Per alcune notizie sull'omonimo castello, possesso per lungo tempo dei Malatesti di Sogliano, si veda più diffusamente A . BARTOLINI, / / capobandito Ramberto Malatesta feudatario nel Montefeltro di Tornano e Serra, Sogliano al Rubicone 1964. (2) L a famiglia che abita attualmente il casale ricorda di avere rinvenuto numerose ossa umane durante i lavori di ristrutturazione delle cantine, in una delie quali vi sono tuttora resti di un muro alto medievale. (3) A . V E G G I A N I , Mercato Saraceno. Rinvenimenti vari nel territorio del Comune, in «Fasti Archeologici», I X (1954), Firenze 1956, p. 355, n. 4948. Ringrazio qui pubbhcamente l'ing. Antonio Veggiani per la segnalazione e per la disponibilità mostratami.


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e anfore in località Casa Ciuffa (4). Come risulta dalla documentazione medievale, la pieve era il punto di riferimento della zona e di conseguenza la località detta «La Pieve» doveva costituire prima del Mille il nucleo più importante del circondario e il centro primitivo di evangelizzazione di tutto i l territorio posto alle sorgenti dell'Uso. Dopo il Mille, come accadde alle pievi di Montegelli e di Genestreto, l'insediamento della Pieve verrà progressivamente abbandonato dalla popolazione che andrà ad addensarsi nei vari castelh, i quali nel frattempo sorgevano in luoghi più sicuri e «forti» (5). ^ L'erezione del castello di Tornano è infatti posteriore a quella della pieve di S. Ilario. Assodato come falso il documento del 962, che riportava l'investitura di vari castelli tra cui quello di Tornano fatta da parte dell'imperatore Ottone ad Uldarico di Carpegna (6), l'erezione è da datarsi sicuramente dopo il Mille. Da ricordare poi che la pieve appare con la dizione «di Tornano» alla fine del X I I I secolo. Infatti nella bolla di papa Onorio I I del 1125 è detta solamente S. Hilari (7). Così pure nel 1223, quando il vescovo di Sarsina comprò da Cazzaguerra di Monte Petra vari beni posti nei vescovati di Bobbio (Sarsina) e Montefeltro, il pievato di Tornano è detto S. Illari (8). Soltanto nelle Rationes Decimarum degh anni 1290-1291 è detta plebs Tornarli (9).

(4) G . A . M A N S U E L L I , Edizione Archeologica della carta d'Italia, 1:100.000, Foglio 108 (Mercato Saraceno), Firenze 1954, p. 15. Casa Ciuffa è erroneamente attribuita a Rontagnano anziché a Tornano. (5) T . NICOLINI, Cenni storici di Genestreto, Rimini 1940, passim, ed anche G . B . M A R I N I , Saggio di ragioni della città di San Leo, detta già Monteferetro contrapposto alla dissertazione De Episcopatu Feretrano, Pesaro 1758, p. 117; F . V . LOMBARDI, Remoti presupposti storici della pieve di Sestino, in «La Pieve di Sestino - Atti del convegno del 18 agosto 1979», Rimini 1980, ed. Ghigi, p. 24. (6) F . V . L O M B A R D I , La Contea di Carpegna, Urbania 1977, pp. 10-11. (7) F . V . L O M B A R D I , La bolla di Papa Onorio II a Pietro vescovo di Montefeltro anno 1125, in «Studi Montefeltrani», I V (1976), p. 94. (8) M . FANTUZZI, Monumenti Ravennati de' secoli di mezzo per la maggior parte inediti, Venezia 1804, V I , pp. 70-74. (9) P. S E L L A , Rationes decimarum. Marchia, Città del Vaticano 1929, nn. 2629,2639,2660,2674.

LEGENDA: 9 — Sapis 1 — Rivo de Petra 10 — Rivo de Brutano 2 — Monticano 11 — Stiliano 3 — Rivo de Castaneo Cavo r~¥~i Pieve di S. Ilario 4 - Usia Complesso fondiario di Montegelli 5 — Monte Deazio Complesso fondiario di Tornano 6 — Liciniano —~" Corsi d'acqua 7 — Rufio 8 — Rivo de Senciola Dai tipi dell'Istituto Geografico Militare (autorizzazione n. 2447 in data 18-6-1986). F. 108 (Mercato Saraceno) F. 100 (Forlì)


PIERLUIGI SACCHINI

LA PIEVE DI S. ILARIO DI TORNANO

In ogni caso con l'erezione del castello di Tornano il centro della vita civile e di conseguenza anche di quella religiosa si spostò nel castello. Entro le stesse mura verranno erette, «per comodità» della popolazione nonché per devozione e «fasto» del signore del luogo, due cappelle, una dedicata a S. Biagio vescovo e martire e l'altra dedicata a S. Donato vescovo e martire. Quest'ultima almeno dal secolo X V I I I assumerà, a seguito del completo abbandono della vecchia pieve, tutti i diritti e il titolo dell'antica chiesa di S. Ilario (10). Tornando all'origine della nostra pieve, è purtroppo oggi impossibile dare una datazione seppure approssimativa della sua erezione, sia per la mancanza come abbiamo visto di avanzi dell'edificio plebale, sia per la mancanza di documenti anteriori al X secolo. L'unica indicazione seppure molto approssimativa ci può venire dall'agiografia. I l S. Ilario di Tornano è infatti il S. Ellero di Galeata (11), morto ottantaduenne nel 558. I l suo culto (12) si diffuse soprattutto in Romagna verso i l secolo V i l i ; perciò possiamo ascrivere l'erezione della nostra pieve al periodo compreso fra l ' V I I I e il I X secolo. Il primo documento che indichi esplicitamente un agiotoponimo di S. Ilario nel Montefeltro è una pergamena ravennate databile 904-914 (13). L'atto in questione consiste in una donazione fatta da Grauso fu Domenico all'arcivescovo di Ravenna

di vari beni posti nel territorio del Montefeltro, tra cui un s(an)c(t)i Illari cum edifici. Alcuni elementi farebbero propendere per l'identificazione dell'agiotoponimo citato nella pergamena con il nostro Sant'Ilario. Uno di questi è i l riferimento esplicito alla massa q(ue) v(o)c(atur) Mariana su cui la nostra pieve di S. Ilario esercitava la giurisdizione assieme alle pievi di S. Pietro in Culto (Novafeltria) e S. Pietro in Messa (Ponte Messa). Basti a questo proposito ricordare una pergamena ravennate del maggio 948 (14) con cui l'arcivescovo Pietro concedeva ai fratelli Giovanni ed Orso beni nei fondi Rofello et Romiano ex corpore masse Mariane, nelle pievi di S. Pietro e S. Ilario. Inoltre alcuni fondi della Massa Mariana ricordati in una pergamena ravennate del 950 (15) non fanno che confermare ciò. A d esempio, il fondo Rontano è identificabile con l'omonima località presso Maiano sede di un'antica chiesa dedicata a S. Paolo (16) ed appartenente al pievato di Tornano. Così il fondo Plegule è identificabile con l'odierna Piegola sede di un'antica chiesa dedicata a S. Andrea (17) ed annessa alla pieve di S. Pietro in Messa. Infine nella stessa pergamena databile 904-914 è ricordato un altro fondo della Massa Mariana è cioè il fondo Ulmitula che potrebbe trovare una connessione con il fitonimo Olmitello od Ulmitello (18) ricordato sino al secolo scorso nel territorio di Tornano. In ogni caso la pieve di Tornano è attestata sin dal X secolo: infatti, la troviamo ricordata in tre pergamene del 948, del

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(10) I n un atto del Consiglio della Comunità di Tornano e Serra del 2 6 marzo 1786 leggesi che l'arciprete don Simone Monj notificò ai consiglieri «il ruinoso stato della chiesa che in oggi si officia ad uso di pieve in questo castello» e i consiglieri ne approvarono la riparazione: cfr. Libro de' Consigli di Tornano e Serra, ivi 1 7 8 4 . 1 ! manoscritto è conservato presso l'Archivio Comunale di Mercato Saraceno. Devo qui ringraziare l'assessore Patrizia Pantani per avermi permesso la consultazione dell'Archivio Comunale. ( 1 1 ) Anche la pieve di Tornano appare in diversi documenti del X V secolo con ia dizione di S. Ellero: cfr. ad esempio la nota 26. ( 1 2 ) Cfr. D . MAMBRINI, Galeata nella storia e nell'arte, Bagno di Romagna 1935, passim; P. A . SABATINI, 5 . Ilaro Abate di Galeata. Protettore di Lugo, in S. Ilario Abate di Galeata. Patrono di Lugo, Lugo 1 5 maggio 1 9 6 1 , pp. 1 5 ss. Per alcune interessanti osservazioni su S. Ellero si veda anche R . B U D R I E S I , Entroterra «ravennate» e orizzonti barbarici. Matrici e uomini nuovi nei monumenti delle alte valli dal Lamone al Savio, Ravenna, ed. Longo, 1984, pp. 45-58. ( 1 3 ) C . C U R R A D I - M . M A Z Z O T T I , Carte del Montefeltro nell'alto Medioevo (7237-999) in «Studi Montefeltrani», 8 ( 1 9 8 1 ) , pp. 4 5 - 4 7 .

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(14) C U R R A D I - M A Z Z O T T I , Carte del Montefeltro,op. cit., pp. 23, 51-52, ed anche C . C U R R A D I , Annotazioni sui documenti feretrani del secolo X, in «Studi Montefeltrani», 11 (1984), pp. 28-29. Colgo qui l'occasione per ringraziare il dott. Currado Curradi per i suggerimenti e la disponibilità mostratami. (15) C U R R A D I - M A Z Z O T T I , Carte del Montefeltro,op. cit., pp. 57-62. (16) A . M . Z U C C H I - T R A V A G L I , Taxa Omnium Beneficiorum Episcopatus Feretrani, in «Rerum Feretranarum Scriptores», I X , Pinnae 1759, c. 42 r. (17) L a chiesa è ricordata nel più antico libro della mensa vescovile di Montefeltro come S. Andrea in Plegule: cfr. Z U C C H I - T R A V A G L I , Taxa Omnium, op. cit., P. BENIGNO DA S . A G A T A F E L T R I A , S. Agata Feltria e la Madonna dei Capuccini, S. Agata 1950; F . D A L L ' A R A , Sant'Agata Feltria, Arezzo 1980, p. 77. (18) Cfr. Comune di Talamello - Estimo e Sgravio di Tornano, 1812, conservato nell'Archivio di Stato di Cesena (c. 6.48).


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950 e del 22 luglio 971 (19). Ci soffermeremo qui sulla pergamena ravennate del 3 marzo 950 che è senza dubbio la più interessante. Consiste in una concessione in enfiteusi di vari beni fatta dall'arcivescovo ravennate Pietro a Leo figlio del duca Orso e a sua moglie Odeltruda. Fra i beni concessi troviamo la metà di Perito di Calhanella, Ticiano, Paterno, Casamerati detta Cerrocavo e varie porzioni di terra poste nei fondi Muralo, Gulisiano, Usiano, Critiniano, Valle, Freganiano, nonché metà dei fondi Ulmitula maggiore e minore, Stilliano, Humori, Cellule e Castaneo Cavo. Tutti questi beni sono posti nel territorio del Montefeltro in plebe s(an)c(t)i Stephani q(ue) v(o)c(atur) in Muralo (Montegelli) e in plebe s(an)c(t)i Illari. I confini erano così costituiti: «ab uno l(atere) fluvius Sapis, ab alio l(atere) rivo de Petra p(er)exiente in Monticello et de ipso Monticello p(er)descendente in rivo q(ui) decurrit subtus Castaneo Cavo et p(er) ipso rivo in Usia, seu a tercio l(atere) rivo q(ui) v(o)c(atur) Usia p(er)exiente in monte Deazio, atque) a quarto l(atere) serra qui est sup(er) Liciniano et per ipsa serra descendente in Rufio et de Rufio in rivo de Senciola et per ipso rivo in fluvio Sapis». Dalla lettura del testo appare subito evidente che si tratta di una confinazione naturale, per cui non sarà molto difficoltosa l'identificazione dei toponimi. I l primo lato, ad ovest, è costituito dal fiume Savio ovvero l'antico Sapis, il secondo lato, a nord nord-est è costituito dal rivo de Petra ovvero l'odierno Re' o Riopetra di S. Maria Riopetra (20) in comune di Sogliano al Rubicone (v. fig., n. 1). Questo rio, che confluisce alla destra del Savio, nasce sotto la località detta attualmente Castello ove sino al secolo scorso era insediata la comunità principale di Montegelli, ovvero Monticello come ricorda la pergamena (v. fig., n. 2). I l vecchio Montegelli infatti sorgeva sullo spartiacque del Savio (a ovest) e dell'Uso (a est). Se da un lato abbiamo vi-

(19) C U R R ADI-M A z z o n i , Carte del Montefeltro, op. cit., pp. 51-52, 5762, 70-71. (20) Cfr. I . G . M . , Carta d'Italia 1:25.000, Foglio 108 P N-O (Montegelli); Mappe di S. Maria Riopetra, Montegelli, sec. X I X conservate presso l'Archivio di Stato di Forlì, Catasto Gregoriano.

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sto che da tale monte traggono origini le acque del Riopetra, dall'altro lato traggono origine quelle del rio detto di Montegelli che è affluente di sinistra dell'Uso in cui confluisce all'altezza di Pietra dell'Uso. È questo rio (v. fig., n. 3) quindi ben identificabile con il rio di Castaneo Cavo (21). I l terzo lato ad est è costituito dal torrente Uso (v. fig., n. 4), le cui acque traggono in parte origine dal monte Pincio di Perticara, anticamente detto Mondazzo ed anche Monte Odazio ovvero Monte Deazio (v. fig., n. 5) ricordato nella nostra pergamena. I l quarto lato infine a sud sud-ovest è costituito dalla dorsale appenninica (22) che partendo da Perticara tocca Savignano di Rigo e segue a Nord per Rontagnano e Montegelli. L a nostra pergamena, nella bella e minuziosa descrizione dei confini, come abbiamo visto, ricorda che tale serra è quella sup(er) Liciniano. E questo fondo è identificabile con Lucignano di Savignano di Rigo (v. fig., n. 6), che in effetti occupa una zona posta immediatamente sotto la dorsale appenninica ricordata nei pressi dell'attuale borgo di Savignano di Rigo. L a borgata di Lucignano, molto interessante dal punto di vista degli insediamenti rurali è sede di un'antica chiesetta dedicata alla Beata Vergine Maria e appartenente, almeno dal X V secolo, al pievato di Tornano. Nel documento del 950, il confine continuava toccando la località detto Rufio. Attualmente non vi è nella zona interessata alcun casale con tale nome ma, almeno sino al X V I I I secolo, un grosso fondo detto Rufio (23) si trovava nel territorio di Monte Petra occupando una vasta zona confinante con Lucignano di Savignano di Rigo e con il territorio di Colonnata (v. fig., n. 7). Inoltre, sino al nostro secolo, la zona a nord-ovest della località

(21) Vari fondi nei pressi delle sorgenti dell'attuale Rio di Montegelli erano detti almeno al secolo scorso Pietra Cava: cfr. Montegelli Rubicone, ms. datato Milano 1815, conservato presso l'Archivio di Stato di Cesena (c. 12.175). (22) Su ciò cfr. : P . Z A N G H E R I , La Provincia di Forlì nei suoi aspetti naturali, Forlì 1961, p. 41; E . R O S E T T I , La Romagna. Geografia e storia, Milano 1894, p. 504. (23) Catasto del Castello di Monte Pietra formato in tutto secondo i supremi comandi di N.S. Papa Pio VI felicemente regnante dati coli'Editto dei XV Dicembre 1777, ms. s.n. in Archivio di Stato di Cesena; ed anche Comune di Rontagnano-Montepetra, Estimo e Sgravio, 1812, passim.


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denominata I I Casino (505 m.) era detta popolarmente «Rufi» ed era conosciuta soprattutto dalla popolazione di Savignano di Rigo per la ricchezza di acque sorgive. Acque che davano origine al rio detto di Nasseto,o anche Fossatone, che segna attualmente il confine fra le comunità di Montepetra e di Colonnata (24) ovvero Sanzola, quando quest'ultima era comunità autonoma (25). È questo rio i l rivo de Senciola della pergamena e, come quest'ultimo, confluisce alla destra del Savio in fronte a Monte Castello (v. fig., n. 8).

dei fondi ascrivibili alla pieve di Tornano possono essere così indicati. I l primo lato a nord è costituito dal rio di Burtano «p(er)exiente» in Casule e dal rio di Casule che confluisce alla sinistra dell'Uso. I l lato ad est è costituito dall'Uso e a sud sudovest dalla dorsale appenninica che parte da Perticara e scende in Rufio e dal rio di Sanzola. Infine il quarto lato ad ovest è costituito dal fiume Savio sino alla confluenza del rio di Burtano (v. fig., n. 10). È quindi entro quest'area che vanno ricercati i nostri fondi. Il fondo Cellula può trovare un riscontro nel toponimo Cella o L a Cella variamente distribuito in tutto il territorio appena deUmitato. Abbiamo infatti un fondo della Cella a Savignano di Rigo (26) ricordato in un atto di vendita datato 29 dicembre 1403 e stipulato fra Bartolo fu Savignanucci di Savignano della «plebs 5. Elleri, diocesis Montis Feretrani» e Lorenzo fu Ugolini sempre di Savignano di Rigo. U n altro fondo detto Cella era ricordato nel territorio di Colonnata. Ma siccome il fondo Cellula è ricordato come quarto lato di confine dei fondi Usiano, Murulo e Gulisiano e del fondo Frugatiano in due pergamene (27) datate rispettivamente 1" luglio 927 e 25 agosto 955, la nostra ricerca va spostata verso il complesso fondiario di MontegelH. In tale territorio avevamo sino al secolo scorso un fosso detto della Celletta (28) ma è da scartare un'identificazione con Cellula in quanto si trovava fuori dai confini che abbiamo ricordato e anche perché poteva prendere tale nome da qualche celletta o maestà che si trovava in quelle vicinanze. Ora spostando la nostra attenzione nella zona posta immediatamente ad est del complesso fondiario di Montegelli troviamo un toponimo L a Cella in territorio di Montetiffi. Infatti appena fuori del Castello di Montetiffi una bella chiesetta (29) a forma esagonale eretta

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Delineati così i confini occorre a questo punto attribuire quali sono i fondi appartenenti alla pieve di S. Ilario. L a nostra pergamena del 950 dopo la descrizione dei confini riporta la clausola secondo cui l'arcivescovo concede tutte le porzioni di terreno nei fondi surricordati eccetto però res sortes etporciones che erano stati concessi alla scabino Orso e a suo figUo Elderico. Infatti l'arcivescovo a seguito della richiesta di enfiteusi datata 23 giugno 949 aveva concesso vari beni nel pievato di S. Stefano in Murulo ai surricordati Orso ed Elderico. Questi beni consistevano nella metà di Paterno, Ticiano, Casamerati, Perito, Calbanella e Ulmitolo maggiore e minore, nonché in porzioni dei fondi Murulo, Gulisiano, Usiano, Freganiano e Cretaniano q(ui) v(o)c(atur) Valle». Dalla lettura di altre pergamene risulta confermata l'appartenenza di tutti questi terreni al complesso fondiario di MontegeUi. Per cui possono al massimo attribuirsi al pievato di Tornano i fondi di Stilliano, Humori, Cellule e Castaneo Cavo. Per quanto poi riguarda quest'ultimo fondo, occorre ricordare che il rio che scorre sotto Castaneo Cavo è ricordato, nella pergamena del 949 e in quella del 950, fra i confini, del complesso fondiario di Montegelli a cui il fondo va attribuito. Restano quindi ascrivibili al territorio di Tornano tre soli fondi. Se a questo punto raffrontiamo i confini della nostra pergamena del 950 con quella del 949 appare evidente che i confini

(24) Mappa di Colonnata, ms. sec. X I X , presso l'Archivio di Stato di Forlì. (25) Libro dell'Estimo e Catasto degli abitanti la villa di Sanzola, ivi 1586, ms. conservato presso l'Archivio Comunale di Mercato Saraceno.

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(26) P . B U R C H I , Regesto degli atti del notaio sarsinate Domenico da Fiorenzuola (1403-1419), in «Studi R o m a g n o l i » , V (1954), p. 36. (27) C U R R A D I - M A Z Z O T T I , Carte del Montefeltro, op. cit., pp. 48-51, 62-64. (28) Copia del Registro delle Assegne de' Terreni Date da Possidenti della Comunità di Monte Cello, Legazione d'Urbino, ms. della fine del X V I I I secolo, conservato presso l'Archivio di Stato di Cesena (c. 10.44). (29) D . M . B A R U L L I , Inventario de' mobili sacri e non sacri della Chiesa Abbaziale di S. Leonardo di Montetiffi, ivi 13 dicembre 1777, mss. conservato presso l'Archivio abbaziale di Montetiffi.


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nel X V I I secolo e dedicata alla Madonna della Neve è detta dal popolo, almeno dal X V I I I secolo, chiesetta della Cella (30). Il fondo Stilliano o Stillano (31) si trovava invece nello stesso territorio di Tornano (v. n. 11). Viene infatti ricordato nel 1589, ancora con tale nome, un fondo nel testamento di Ramberto Malatesta (32) signore di Tornano e Serra. In tale testamento (33) che passa in rassegna i vari beni del Malatesta nella Corte di Tornano leggesi: «fondo di stiliano tornature doi i circha di terra arativa, tristissima, lage gio: maria de bucio, li beni dia pieve». Questo riferimento ai beni confinanti ci potrebbe essere d'aiuto per una più esatta localizzazione del fondo. Infatti il riferimento a beni di Giovanmaria di Bucio farebbe propendere la ricerca di StigUano alla sinistra del torrente Uso ove la famigha Bucci aveva ed ha numerose proprietà e dove esiste tuttora il casale detto Ca' di Bucci (416 m). A maggior conferma di ciò è da ricordare che sino alla prima metà del nostro secolo nei pressi di Ca' di Buccio si trovava il podere detto dal popolo i «tranz dia cesa» di circa trenta tornature, che costituiva una delle più grosse proprietà della pieve di Tornano. L a conferma di ciò viene dalla lettura dei catasti (34) del X V I I I e X I X secolo

che ricordano un fondo detto Stighano (35) nei pressi dell'odierna località detta Storpagha (419 m.). Parte di quei terreni erano della Comunità di Tornano e confinavano con vari beni appartenenti alla Confraternita di MontegelH. Rimane quindi il fondo Humori che è da ricercare a sud di Tornano e va infatti identificato nel fondo che ancora nel secolo scorso veniva detto Umore o Umori (36). Un'altra pergamena ravennate (37) datata 22 luglio 971 ci conferma infine l'estensione del pievato di Tornano verso Perticara. Tale pergamena, infatti, riguarda una richiesta di livello dei fondi Scamno de Candatio, detto Alfediano, e Casaliclo ovvero Casalecchio di Perticara. Da quanto esposto notiamo che il pievato di S. Ilario prima del Mille aveva un'estensione più ampia di quella odierna venendo ad occupare la zona di Sanzola, Colonnata e parte di Rontagnano (38). I l fiume Savio ancora una volta veniva a costituire anche per la zona compresa fra Sanzola e Mercato Saraceno il confine «naturale» fra le diocesi di Montefeltro e di Sarsina. Ma, come accadde alla pieve di Montegelli per i territori da Mercato Saraceno a Piala, anche il pievato di Tornano iniziò dopo il Mille a restringersi a scapito della diocesi di Sarsina ovvero dei pievati di S. Damiano e di Romagnano (39). Questo processo continuerà sino ai giorni nostri, ovvero sino al 1977, quando il papa Paolo V I con la bolla

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(30) Cfr. Libro dei Matrimoni dell'abbazia di Montetiffi, alla data 12 agosyo 1754, ms. conservato presso l'Archivio abbaziale di Montetiffi. Ringrazio il pievano di Tornano, don Giuseppe Tosi, per avermi permesso la consultazione del materiale archivistico. (31) A titolo di pura curiosità ricordo che un altro fondo detto Stigliano era ricordato nel Medioevo «infra Massa que dicitur de Sancto Ilaro». In tale fondo fu eretta una chiesa «d'onesta grandezza al santo Abate di Galliata Protettor» degli «antichi lughesi»: cfr. P. G . B O N O L I , Storia di Lugo e annessi, Faenza 1732, p. 288; SABATINI, S. Baro, op. cit., p. 15. (32) Su questo Malatesta si veda oltre al lavoro di Bartolini, (op. cit.), R . COMANDINI, Tre brevi inediti del Pontefice al Granduca Francesco I De Medici. La cattura di Ramberto Malatesta bandito del Cinquecento, in «La Lucciola», a. I I , fase. 2 del 28 febbraio 1983; I D . , Sisto V, la cattura e la decapitazione del bandito Lamberto Malatesta, in «Rimini Arte e Storia», fase. 1 een -mar 1969, pp. 16-40. (33) E . MARIANI, Memorie sui Malatesta dell'Archivio Notarile di Roncofreddo, ms. sec. X I X ; la parte relativa ai testamento è pubblicata da B A R T O L I NI, / / Capobandito, op. cit., pp. 17-26. (34) Comune di Talamello-Tornano; Estimo e Sgravio, op. cit. ; ma in particolare Estimo dell'illustre Comunità di Tornano fatto e misurato da me Lodovico Baronio da Rontagnano stimato da Donato Moni, Roberto Bucci, e Mastro

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Paolo Bonfiglioti, tutti eletti in pubblico consiglio e con la licenza del eminentiss.o Alberoni legato di Ravenna l'anno 1739, ms. conservato presso l'Archivio di Stato di Cesena (c. 6.41.); ed anche Mappa di Tornano, inizi sec. X I X presso l'Archivio di Stato di Cesena. (35) I due fondi diverranno poi tutt'uno e già nel ricordato catasto del 1739 si legge che Giovanni Bucci possiede una tomatura di terreno nel fondo Stigliano o Storpagha. (36) Cfr. nota 34. (37) C U R R A D I - M A Z Z O T T I , Carte del Montefeltro, op. cit., pp. 70-71. (38) A Rontagnano, almeno sino al X V I I I - X I X secolo, trovava una particolare devozione S. Ilario tanto che la sua festa rientrava fra quelle «obbligate» della Comunità medesima. Cfr. Legati Parrocchiali, ms. del 1836 conservato presso l'Archivio parrocchiale di Rontagnano. Ringrazio il parroco don Pino Graziano per avermene permesso la consultazione. (39) P. SACCHINI, Tra Feretrano e Sarsinate: la pieve dei Santi Cosma e Damiano (Mercato Saraceno), «Studi Montefeltrani», 11 (1984), pp. 47-64.


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Feretrana de diocesis recognitione decretum (40) staccherà lo stesso Tornano e Serra dal territorio di Montefeltro per unirlo a quello della diocesi di Sarsina, ponendo così fine a questo processo più che millenario.

(40) Su ciò si veda il decreto della Sacra Congregazione per i vescovi «Feretranae de dioecesis recognitione decretum» con Note di commento di F . V . L O M B A R D I , «Studi Montefeltrani», V (1977), pp. 5-18.


FRANCESCO V. LOMBARDI

due formelle zodiacali nel duomo di san leo


«Si et ego tihi vellem prò maledictis maledicta rependere, quid aliud quam duo maledici essemus?»

,

S. Agostino

Sulla scia delle ricerche che si sono sviluppate negli ultimi anni intorno alle espressioni di scultura medioevale e altomedioevale nel Montefeltro (1), in questa sede si intende proporre alla attenzione degli studiosi un contributo su due esemplari di produzione plastica, ancora poco conosciuti, ma soprattutto ancora relegati nel limbo dell'attribuzione semantica e cronologica. Si tratta delle due formelle htiche inserite nel paramento dell'abside centrale della cripta del Duomo, o Cattedrale di Montefeltro, a San Leo (2).

(1) A . C A M P A N A , Bustino inscritto di S. Valentino nella Cattedrale romanica di San Leo (Montefeltro), in «Il santo patrono della Città medioevale: il culto di S. Valentino nella storia di Terni» (Atti del Convegno di studi. Terni 9-12 febbraio 1974), Roma 1982, pp. 51-100.1. P A S C U C C I , Un semibusto e un'epigrafe "indovinello" nel duomo di San Leo, in «Studi Montefeltrani», 9 (1982), pp. 2-19. F . V . L O M B A R D I , / reperti altomedioevali del duomo e delle pievi del Montefeltro come fonti per la storia locale, in «Atti e Memorie della Dep. di storia patria per le Marche», 86 (1981). Atti del convegno «Istituzioni e Società nell'alto medioevo marchigiano», voi. I , Ancona 1983, pp. 427-442. G . G A R D E L L I , Di una pietra e della sua transizione attributiva dalla preistoria all'età preromanica. Il caso di San Leo (Montefeltro), in «Studi Montefeltrani», 11 (1984), pp. 7-23. (2) Come è noto, mentre la chiesa cattedrale è dedicata a S. L e o (S. Leone), patrono del Montefeltro, la sottostante cripta è intitolata a S. Pietro. V i si accede per due scalette laterali scavate nella roccia. Questa chiesa sotterranea è suddivisa in tre navatelle da colonne di spogUo, sormontate da capiteUi di assonanza ravennate. L . T O N I N I , Valori architettonici del duomo dì San Leo, in «Studi Montefeltrani», 1 (1971), p. 38. Nell'impostazione dell'arcata cieca a nord, verso la parte interna, resta ancora una pròtome raffigurante la testa di donna coronata di capelli, col viso consunto, ma con le labbra molto pronunciate. Nel caso che raffigurasse Eva, dalla parte opposta avrebbe dovuto esserci la testa di Adamo. Sotto questa arcata vi è una singolare iscrizione sepolcrale medievale finora inedita: L O C 7 . G U D I A t- L'onomastica ed i caratteri epi-


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Esse sono collocate a circa un metro d'altezza dal piano di calpestio sopra il basamento dell'emiciclo, ai lati della semicolonna sinistra di fondo. L a posizione anomala delle due lastre, i tagli subiti, i tasselli di riempimento, rivelano chiaramente che si tratta di due pezzi di reimpiego inseriti in loco in epoca imprecisata, ma comunque posteriore alla primitiva progressione dell'alzato, composto con regolari filari di pietre a grandi blocchi squadrati. Infatti in primo luogo si rileva che si tratta di due placche di pietra calcarea alberese, mentre la restante struttura muraria è di materiale arenaceo. Inoltre la formella di destra è collocata in posizione verticale, anziché in senso orizzontale, secondo la normale disposizione e la logica lettura delle figure. L a stessa pietra poi risulta scheggiata nell'angolo superiore sinistro e con una netta rientranza dentata in quello destro: particolari questi che potrebbero avere una loro significativa importanza, come si cercherà di mettere in evidenza più oltre. Anche il concio di sinistra rivela tracce di riutilizzo. Infatti, per farlo combaciare perfettamente fra i due filari paralleh di pietra arenaria del paramento, quasi tutta la cornice superiore è stata abrasa. Da tutte queste particolarità non pare dubbio che si tratti di due pezzi di riutihzzo in sede e in posizione impropria. Sarà anche utile dare un breve cenno sulle loro misure, dalle quah emerge la non grande dimensione delle due sculture. L a formella di sinistra è larga cm. 23 e alta cm. 36 (in origine, con la cornice superiore completa, poteva arrivare a 40 cm.). Quella di destra presenta l'attuale altezza (cioè la base della posizione normale) di cm. 40/41, ed una larghezza (cioè l'originaria altezza) di cm. 27. In entrambe, le cornici piatte variano da 3 a 4 cm. Oltre che per i dati stilistici, anche da tah proporzioni viene confermata una certa loro associazione funzionale ed una intuibile matrice cronologica corrispondente.

grafici rinviano al X I I secolo. Per un riscontro degli epitaffi sepolcrali cfr. le due scritte esistenti nel Duomo di Ferrara: t ( H ) I C E ( S T ) L O C U S V I L I G E L M U S ; H I C E ( S T ) L O C U S S E P O L T U R E B E L I N ( U S ) M A G I S T R O , cioè due grandi protagonisti dell'arte romanica padana.


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Foto 3 - Cripta del Duomo di San Leo. Formella con la raffigurazione dei Gemelh.

Foto 2 - Dal volume «Sphaera Mundi» (sec. X V I ) . Arco dello Zodiaco che inizia dall'Acquario e termina con l'Ariete.

Foto 4 - Particolare della Tavola dello Zodiaco nello Stadtmuseum di Bamberga (sec. X V ) .

Foto 5 - Da una incisione del sec. X II pianeta Mercurio con i simboU dei Gemelli e della Vergine.


D U E F O R M E L L E ZODIACALI N E L DUOMO D I S. L E O

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Le scarse citazioni di questi due pezzi di scultura si limitano a guide storico-artistiche locali. Secondo una interpretazione tah «figure pagane scolpite nella pietra accennano all'arte provinciale del periodo classico» (3). Secondo altri sono giudicate «due pietre istoriate con figure curiose: forse lavoratori all'opera che rientrano nella simbologia medioevale» (4). A questi tentativi si aggiunge il nostro, sotto il profilo della attribuzione cronologica, della precisazione semantica e della collocazione funzionale. Chiaramente le due formelle non sono nate per stare isolate, ma fanno parte di un ciclo simbolico abbastanza frequente anche nell'arte del periodo romanico e preromanico, certamente nella scultura, ma altresì nella pittura (5), nel mosaico (6) e soprattutto nel campo della miniatura. Come pare evidente si tratta di due simboli dello Zodiaco: l'una rappresenta l'Acquario e l'altra i Gemelli. Per lo più nella tradizione astrologica l'Acquario è raffigurato come un uomo che versa il contenuto di un'anfora o simili. Ma già dal V I secolo c'è un filone iconografico che rappresenta questo segno zodiacale con l'immagine di un giovane che attinge un secchio d'acqua (7). Nella nostra inquadratura c'è una nuova personificazione: il portatore d'acqua con l'altra mano alza il bicchiere verso un immaginario ricevente. Questa tipologia iconografica si spiega agevolmente nella scultura architet-

( 3 ) A . F L E N G H I , San Leo. L'antica Montefeltro, Bologna 1 9 7 8 , p. 2 1 . Non risulta che alcuna delle formelle sia stato riprodotta in pubbhcazioni storiche, per cui fino ad ora potevano considerarsi inedite. (4) U . C O R R I E R I , / / Duomo di San Leo. Guida storico-artistica, I I ed., Rimini 1980, p. 2 1 . V a reso un doveroso riconoscimento ai due appassionati cultori e attenti custodi delle memorie storiche e del patrimonio artistico della città leontina. ( 5 ) Cfr. il Calendario murale dipinto con i mesi dell'anno e con i rispettivi segni zodiacali nella parte più alta trilobata, esistente nella chiesa di S. Pellegrino a Bominaco ( A q ) , databili al 1264. M . D A N D E R , / tesori di Bominaco, Terni 1979, p. 4 5 . (6) Cfr. il mosaico dei mesi dell'anno, recante alla base i relativi segni astrologici, nella Basihca di S. Colombano a Bobbio (Pc). (7) Enciclopedia Cattolica, X I , p. 6 5 5 .

Foto 6 - Ricostruzione dell'iootetico nortale


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tonica, se si pensa che nel quadro dei cantieri di lavoro, e non solo nel medioevo, esisteva la figura del ragazzo che portava l'acqua da bere alle maestranze e alle manovalanze. Questo garzone veniva comunemente chiamato «acquario» (8). Una consimile espressione di questo tema del giovane «Acquario» si trova abbinata nella antropomorfizzazione del «Mese di Gennaio» che faceva parte di una fascia del pròtiro del Duomo di Ferrara, i cui frammenti sono conservati nel Museo della Cattedrale e sono datati al periodo 1230-35. Qui la personificazione fisionomica facciale è bifronte, come passaggio dall'Anno vecchio a quello nuovo, o giovane. Ora questo giovane con la mano sinistra regge una brocca e con la destra anza una coppa o bicchiere. Pur nella necessaria distinzione dell'impostazione grafica, la concettualità della rappresentazione rivela una significativa correlazione con l'immagine del Duomo di San Leo. Per quanto riguarda l'iconografia medievale del segno dei Gemelh si può rilevare che essa è fra le piìi variate: spesso i due bambini sono in piedi, affrontati, talora in atteggiamento di lotta giocosa, altre volte addirittura abbracciati e così via (9). I l caso in esame, quindi, offre di nuovo una certa originaUtà di espressione grafica, che si rivela di notevole importanza, se non altro per cercare di rintracciare il filone di provenienza e le eventuah produzioni artistiche parallele o derivate, pur nel quadro della irripetibilità dell'opera d'artigianato artistico. Infatti, come si può verificare nelle riproduzioni annesse, i

(8) C . D u G A N G E , Glossarium mediae et infimae latinitatis, t. I , ed. L . F A V R E , Niort 1883, p. 346: «Ioan de Janua: Aquarius serviens qui portai aquam». Per una significativa analogia cfr. nel pavimento musivo della chiesa di S. Maria Assunta di Aosta il mese di Gennaio (Januarius) che è raffigurato come un giovane che apre una porta (janua). (9) A d esempio, nella vasca battesimale della chiesa di S. Evroult a Monfort (fine sec. X I I ) , le due figurine in piedi sono affrontate, con le braccia tese, quasi in lotta fra di loro. Per la riproduzione cfr. Enciclopedia Cattolica, V , p. 1502. Nella ricordata chiesa di S. Pellegrino a Bominaco appaiono in piedi, quasi abbracciate. Sono invece sedute, in posizione frontale, con le mani tese l'un l'altro, in un manoscritto del sec. X V , esistente nel Museo Civico di E r furt. Per la riproduzione cfr. E. C, I I , p. 238. Ma forse l'atteggiamento similare finora più evidente si ha in una tavola dipinta del X V sec. conservata nello Stadtmuseum di Bamberga. Cfr. Enciclopedia Universale dell'Arte, voi. I , Tav. 71. Qui riprodotta a fig. 4 (particolare).

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due fanciulli — coperti da lunghe vesti pieghettate — sono affrontati in posizione seduta e sembrano giocare con due cerchi, o corone o ghirlande, tenute da entrambe le opposte mani. L a composizione figurativa delle due formelle, entrambe rettangolari, l'una in chiave verticale (Acquario) e l'altra in assetto orizzontale (Gemelli), fa nascere ulteriori considerazioni specie sulla loro primitiva disposizione. Con ogni evidenza non potevano far parte di una concatenazione parallela, orizzontale e continua, ma necessariamente di fasce fra loro in posizione ortogonale. Ora è noto che nella scultura architettonica romanica i segni dello zodiaco raramente sono riprodotti all'interno delle chiese, ma venivano collocati preminentemente nelle fasciature esterne dei portah, negU stipiti o negh archivolti (10). Con ogni probabihtà, dunque, anche in questo caso (ammesso che il progetto fosse stato reahzzato) si trattava della intelaiatura di un portale a tre fasce, cioè le due laterah con funzione di piedritti, e quella superiore orizzontale con funzione di architrave. Sopra di questa architrave era normalmente girato l'arco a tutto sesto (11).

(10) U n caso particolarmente analogo, anche se non si tratta dei simboli dello zodiaco, si ha nel portale della Collegiata di Montefiore dell'Aso ( A p ) , i cui stipiti — nella faccia a vista — sono costituiti da formelle con raffigurazioni zoomorfe, mitologiche e ornamentali di tipo astratto o vegetale. Uno zodiaco disposto su fasce nei pilastrini di un portale è presente nel Santuario di Sagra San Michele in V a l di Susa (To). (11) Il più delle volte taU decorazioni zodiacali si trovano della fascia o nei cordoli dell'arco, come nel portale meridionale del Duomo di Foligno, costruito fra il 1135 e il 1145, alla cui consacrazione partecipò anche il vescovo di Montefeltro, Arnaldo, con il Preposito e due Abbati. J . B . C O N T A R E N I , De Episcopatu Feretrano Dissertatio, Venetiis 1753, p. 103. Nell'origine della bolla di Adriano I V tale vescovo è chiaramente indicato come Arnaldo e non Arnoldo, quale è recepito da una accettata tradizione storiografica. F . V . L O M B A R D I , La «Hospitalis Domus Serre hulmorum» e una bolla di papa Adriano IV (1155), in «Studi Montefeltrani», 5 (1977), p. 64 bis. Cfr. anche Biblioteca Gambalunghiana, Rimini, Schede Garampi, Ms. 199, n. 182. Bibl. Oliv. Pesaro, ms 376/ I V , fase. X I I I , c. 73. L o stesso vescovo nel 1154 fu presente alla consacrazione della scomparsa cattedrale romanica di Rimini. L . T O N I N I , Della storia civile e sacra riminese, voi. I I , Rimini 1856, p. 576, app. 74. C'erano tutte le premesse di sensibilizzazione e di emulazione per programmare la ricostruzione del Duomo feretrano secondo la ormai diffusa tipologia dell'arte romanica.


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Come si sa, la Chiesa ha sempre condannato l'astrologia, non solo per la sua radice pagana, ma soprattutto per il concetto di fataHsmo che ne è l'espressione più evidente. Infatti questa componente di predestinazione è contraria al principio cristianocattohco del libero arbitrio dell'uomo e della misericordia salvifica di Dio. Non bisogna meravigliarsi, quindi, se a seconda dei tempi e dei luoghi le autorità ecclesiastiche abbiano tentato di frenare la diffusione o la persistenza della simbologia più usuale dell'astrologismo, cioè i segni dello zodiaco. In certe epoche, come al tempo della Controriforma, si giunse a forme rigide di iconoclastia delle immagini non ortodosse. Ma nei secoli precedenti, specie nel medioevo, allorché questo controllo risultava difficile per una radicata consuetudine, si è cercato di imbrigliare il fenomeno, incanalandolo nell'alveo delle finalità didascaliche. E così anche i segni dello zodiaco sono stati innestati nel contesto della proposizione visiva di quegh ammaestramenti e di quegh ammonimenti che i fedeli già ascoltavano dal pulpito. L a loro associazione con i mesi, e quindi con i lavori agricoh legati ai singoli periodi, ci conferma che la società medioevale, anche in questa zona del Montefeltro, seguiva tradizionalmente una duplice partizione cronologica dell'anno di origine pagana, anche se il «magistero» della Chiesa da secoli privilegiava il computo per mesi. In questo quadro di esaugurazione, le figurazioni simbohche dell'anno partito in segni zodiacali venivano orientate in chiave rehgiosa. D i sohto infatti nella parte centrale, o al sommo dell'arco, si poneva un simbolo cristiano che esorcizzava la composizione di matrice pagana. Anche nel caso che abbiamo preso in esame (sia che l'opera fosse stata solo progettata, sia che fosse stata anche reahzzata), in mezzo alle due formelle sommitah dell'architrave — fra quella del Cancro e quella del Leone — doveva esserci un terzo pannello litico che legava i sei riquadri di destra ed i sei di sinistra, facendo convergere l'attenzione verso una immagine religiosa centrale (12), simboleggiando così la natura cristiana del-

(12) Per un esempio relativamente vicino si ricorda il pannello sommitale dell'archivolto del Duomo di Foligno, in cui i segni dello zodiaco sono legati

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l'anno e fungendo nel contempo da chiave a cuneo (13). In genere negh zodiaci circolari, testimoniati per lo più nelle miniature, il punto di partenza era il grado zero dell'Ariete (21 marzo, equinozio di primavera) e l'ordine di progressione avveniva in senso antiorario (14). Nella scultura dei portah, invece, il punto di partenza logico del ciclo zodiacale era in basso, nella fascia verticale sinistra e quindi la lettura andava in senso orario, seguendo cioè (in analogia con le consimih figurazioni degh archivolti) la traiettoria dell'arco del sole secondo l'ottica di un osservatore che è volto verso mezzogiorno. Oltre a ciò, in analogia con i mesi, il primo segno era quello dell'Acquario, che ha inizio il 21 gennaio (15). Questa tipologia è riscontrabile anche nella ricostruzione che si propone in questa sede. In tal modo si spiegano vari particolari delle due figurazioni che ci sono rimaste. In primo luogo si ha la conferma dalla posizione della figura dell'Acquario che è rivolta coerentemente verso destra, cioè verso i l vano di ingresso della porta e non verso un ipotetico campo di uscita, quale sarebbe stata nel caso in cui fosse destinata alla fascia dello stipite destro. In secondo luogo, la formella dei Gemelli si col-

dai semibusti del Cristo e della Vergine. I n generale cfr. G . D E C H A M P E A U X S. S T E R C H X , I simboli del Medioevo, Milano 1981, p. 418. L a concezione medioevale è bene espressa da Zenone di Verona: «Il Cristo è il giorno veramente eterno e senza fine che ha al suo servizio le dodici ore negh Apostoli, i dodici mesi nei Profeti». (13) Non si hanno elementi, n é sicuri n é probabili, per poter identificare tale ipotetico cuneo centrale con quella pietra incisa di forma trapezoidale, che è incastonata sopra il portale laterale sud della vicina Pieve romanica di San Leo. Per un esame del reperto e per la sua "transizione attributiva" cfr. G . G A R D E L L I , Di una pietra..., p. 7 e ss.

(14) Secondo l'astrologia classica, e poi anche medioevale sulla tradizione di Tolomeo ( I I sec. d . C ) , l'inizio dei segni zodiacali è fissato con l'entrata dell'Ariete (21 marzo). T O L O M E O , Tetrabiblo, I , 28. Ma questa partizione fu superata nel medioevo romanico dagh zodiaci legati all'anno solare e climatico, in correlazione con i lavori agrìcoli connessi. (15) È ormai verificata «la disposizione ordinaria degli zodiaci semicircolari che vuole che l'anno si apra sulla orizzontale sinistra (con l'Acquario) e si concluda sulla orizzontale destra con il Capricorno». C H A M P E A U X - S T E R C H X , / simboli del medioevo..., p. 420. Tuttavia non mancano eccezioni: nel più volte ricordato portale meridionale del Duomo di Foligno lo zodiaco comincia con l'Ariete e gira in senso antiorario, proprio come nelle composizioni circolari delle miniature e delle tarsie pavimentah.


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loca giustamente in posizione orizzontale alla sommità della fascia di sinistra, come pietra angolare di raccordo con la fascia orizzontale dell'architrave. Sulla base di queste considerazioni la ricostruzione concettuale porta a collocare appunto in basso a sinistra il primo segno astrologico che costantemente rappresenta i l punto di partenza delle rappresentazioni zodiacali nei semicerchi degh archi e nelle fasciature rettangolari, cioè il nostro «Acquario» (21/1-19/2). Proseguendo verso l'alto si avevano poi in successione i segni dei Pesci (20/2-20/3), dell'Ariete (21/3-20/4) e del Toro (21/4-20/ 5). Come si è detto, l'ultimo pannello in alto era quello dei Gemelli (21/5-21/6) che era anche i l primo della fascia orizzontale dell'architrave. Questa proseguiva con la formella del Cancro (22/6-22/7) e dopo il cuneo centrale c'era quella del Leone (23/ 7-23/8). Non si può escludere che queste tre quadrelle fossero scolpite in un'unica lastra monolito. In ogni modo l'appoggio di destra era rappresentato dalla formella della Vergine (24/8-22/ 9) , dalla quale iniziava la fascia di destra con lettura discendente. Infatti in successione dovevano esserci la Bilancia (23/9-22/ 10) , lo Scorpione (23/10-22/11), i l Sagittario (23/11-21/12), fino a terminare in basso con il Capricorno (22/12-20/1). Tutti i particolari che sopra abbiamo accennato offrono solo questa fra tutte le possibili soluzioni che sono state sperimentate. L a conferma viene anche da un altro particolare che a prima vista poteva sembrare inspiegabile o casuale. Si tratta dell'accennato incavo a taglio netto che si rileva nel margine superiore destro del riquadro dei Gemelli. Questo intaglio serviva di sostegno ad una corrispondente dentatura del pannello orizzontale contiguo o del monolito centrale. Quindi è anche da ipotizzare che un simmetrico incastro fosse previsto pure al termine della lastra dell'architrave che poggiava sul corrispondente incavo angolare nel blocco a spigolo della Vergine. In tal modo e con tali accorgimenti l'artefice è riuscito a bilanciare pesi e spinte anche verso l'esterno in chiave dinamica, ottenendo quanto meno un effetto di staticità dell'architrave orizzontale. Tutti questi dettagh di connessione fanno pensare ad una effettiva realizzazione e ad una effettiva messa in opera dell'intero ciclo. Si avrebbe una conferma anche della loro rimozione

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in tempi antichi, forse all'epoca della Controriforma, proprio per il loro carattere profano. E verrebbero a cadere i dubbi sulla possibile funzione dei due pezzi residui come «modelh» che le maestranze avrebbero preparato per la profferta dell'opera ai committenti, senza poi avere realizzato tutta la composizione. Dopo le argomentazioni che sono state svolte, si tratta ora di vedere quale poteva essere il portale cui era destinato il ciclo dello zodiaco che abbiamo cercato di individuare. D i primo acchito viene fatto di pensare all'ingresso principale del Duomo di San Leo. Come è noto, questo edificio ha la facciata direttamente impostata sul filo di uno scoscendimento del terreno di una decina di metri. Per questo motivo già dalla sua originaria impostazione il portale principale era aperto sulla fiancata laterale destra, verso sud, pressoché nella parte terminale della parete, per consentire l'accesso quasi dal fondo della chiesa. Nel 1883, al tempo di Pio I X , la luce di questo portale è stata ridotta tramite due piedritti di appoggio ed un sottarco di rinforzo a sezione circolare (16). Dalla analisi della struttura muraria non si può desumere se in questo ingresso fossero inserite, in appoggio o ad innesto, delle fasce htiche, che potrebbero essere state tolte all'epoca dell'intervento ottocentesco. L a più antica notizia che abbiamo su questo portale si ricava da una lettera del Vescovo Scala scritta nel 1667 e pubbhcata solo settanta anni dopo dai BoUandisti (17). In essa di dice solo che «sopra la porta principale a due battenti del Tempio o Cattedrale si notano due piccoh busti marmorei». Se ci fossero state delle fasce a riquadri scolpiti il vescovo ne avrebbe fatto almeno un cenno. Una conferma successiva è data anche dalla nota lettera del Lazzarini al pesarese Annibale degli Abbati Olivieri, scritta nel maggio 1757 (18). In essa si parla pure dei due semibusti sopra

(16) T O N I N I , Valori architettonici..., p. 35. L'iscrizione dice testualmente: MUNIFICENTIA PIIIX / MDCCCLXXXIII. (17) Acta Sanctorum, Augusti, Auterpiae 1733, 4 7 E , 49C, 51. Bisogna comunque tenere presente che l'interesse della corrispondenza riguardava l'agiografia di San Leone e non la "fabbrica" del Duomo cui era dedicato. (18) G . B . M A R I N I , Saggio di ragioni della Città di San Leo detta già Mon-


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la porta, ma non si fa menzione di altre sculture, né fuori né dentro la chiesa. Veramente interessante è invece il ricordo — a prima vista generico — che ci fornisce il Guerrieri verso l'anno 1668, trattando del Duomo feretrano: «Per le cortine de' muri di esso Tempio nel di dentro si vede una diversità e varietà di Pietre, in molte delle quah sono intagliate diverse Historie e vani figuramenti, che sono molto notabiU e curiosi» (19). La testimonianza di questo autore, parroco nel Montefeltro, non può mettersi in dubbio, perché si tratta di particolari da lui sicuramente visti più volte e che gh erano rimasti impressi perché «notabih e curiosi» (20). Quindi i l passo va analizzato con attenzione. Innanzi tutto le sculture non erano né nel portale, né all'esterno, né nella cripta, ma nelle pareti interne della chiesa. Quindi sono da escludere anche i capitelli delle colonne. In secondo luogo si tratta di pietre in cui erano «intaghate diverse Historie», cioè un ciclo, e diversi «figuramenti», escludendo quindi tutte quelle espressioni di arte astratta di matrice altomedioevale di cui esistono ancora notevoli frammenti nelle chiese leontine (21). D i conseguenza non si può fare a meno di pensare alle formelle di cui trattiamo e non solo ai due esemplari che ci restano, ma a molti altri elementi del ciclo stesso. Tuttavia il fatto che il Guerrieri non sia riuscito a decifrare i simboh dello zodiaco, ci fa anche pensare che le varie parti di esso erano già da allora disarticolate rispetto al normale ordine

tefeltro, in Pesaro 1 7 5 8 , p. 3 0 5 e ss. App. X X X I I : «In secondo luogo vi mando anche le figure di due antichi semibusti quasi simili, che stanno collocati alquanto in alto nel muro esterno sopra la porta della Chiesa». Per una precedente testimonianza visiva riguardante solo i due semibusti, G . B . M A R I N I , Apologeticon Feretranum, Pisauri 1 7 3 2 , pp. 6 4 - 6 5 . ( 1 9 ) P. A . G U E R R I E R I ( 1 6 0 4 - 1 6 7 6 ) , / / Montefeltro illustrato, Parte terza, Capitoli rV-X de «La Carpegna abbellita et il Montefeltro illustrato», trascrizione di L . D O N A T I , introduzione di F . V . L O M B A R D I , Rimini 1 9 7 9 , p. 1 1 1 .

(20) Pur con tutte le sue manchevolezze di erudito del '600, il Guerrieri — ancora una volta — ci ha fornito una testimonianza estremamente utile, per cui confermiamo il giudizio espresso neir«introduzione» citata, p. X V I L Inoltre non si può fare a meno di mettere in rilievo che egh non giudica «rozze» queste espressioni di arte romanica (come pure ha fatto la storiografia d'arte in generale fino a pochi decenni fa) limitandosi a qualificarle notabili e curiose. ( 2 1 ) l^OMBARDI, Ireperti altomedioevali..., cit.

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di composizione. In tal modo, sia pure indirettamente, viene confermata la loro provenienza da un'altra destinazione originaria, quale poteva essere appunto l'intelaiatura di un portale. Ma a questo punto si ripropone il quesito se questo ipotetico portale può identificarsi con quello che ancora funge da ingresso principale. L a ricostruzione concettuale sopra delineata fa presupporre una larghezza totale del vano di circa 160 cm., con una residua luce d'entrata di 116 cm. Se si aggiunge il cuneo centrale si può arrivare ad un massimo di ampiezza di 190-200 cm. circa. Ora, la larghezza effettiva del portale del Duomo di San Leo, tuttora verificabile con precisione, è di 235 cm., per cui sembra molto improbabile che lo zodiaco di cui trattiamo potesse essere a questo destinato. In caso contrario bisognerebbe presupporre un panneho centrale extrazodiacale di circa 75 cm., che peraltro avrebbe interrotto troppo vistosamente la serie dei segni astrologici. Quindi non si può escludere che l'opera sia stata progettata e realizzata per un portale di minori dimensioni, oggi non più esistente, quale — a titolo esemplificativo — quello del Battistero che doveva sorgere a fianco del Duomo, oppure quello di ingresso laterale esterno alla cripta che è stato reso irriconoscibile dagli interventi di restauro (22). Le caratterizzazioni stihstiche delle due formelle residue sembrano escludere un'epoca anteriore all'arte romanica avanzata, come proiezione del romanico padano del X I I secolo.

( 2 2 ) Viene fatto di pensare che il battistero esterno sorgesse nell'area dell'attuale piazzale antistante il Duomo, all'altezza del transetto destro. In tal modo si spiegherebbe quella porta esterna (ora murata) la quale dà accesso al piano della navata e non a quello del presbiterio ( T O N I N I . . . , prospetto 6 ) , e quindi non poteva essere di collegamento con l'ipotefica sacrestia, ma più verosimilmente fungeva da accesso alle processioni battesimali. L a scomparsa del battistero esterno deve attribuirsi ad epoca comunque anteriore al Concilio di Trento. Infatti, nel 1 5 6 5 il battesimo veniva già somministrato dentro il vescovato (Duomo). Cfr. P . A . C A L V I , Ad Pseudo Feretranum Apologeticon, Venetiis 1 7 3 9 , app. V i l i , p. 1 6 4 . Non si hanno precise notizie documentarie della esistenza di un "Battistero esterno" al Duomo. Tuttavia una sua possibile costruzione potrebbe essere ricavata da analoghe strutture ecclesiali annesse a Cattedrali di diocesi limitrofe o vicine. A . D E G L I A B B A T I O L I V I E R I ,

Dell'antico

Battistero della S. Chiesa pesarese, in Pesaro 1777. Per il battistero della vecchia sede vescovile di Rimini, cfr. P. G . P A S I N I - A . T U R C H I N I , La Cattedrale


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D'altra parte non si hanno notizie di composizioni zodiacali scolpite su portah di edifici religiosi altomedioevali. Pertanto sembrerebbe fuori di ogni credibilità una attribuzione di queste sculture a quella scomparsa costruzione preromanica del Duomo feretrano che è ormai sufficientemente accertata come esistente verso il I X - X secolo (23). L e conclusioni, quindi, si indirizzano verso una contemporaneità dei due reperti con l'architettura dell'attuale edificio romanico datato all'anno 1173 (24). Le due espressioni iconografiche che ci sono rimaste e che abbiamo preso in esame non sono comuni nel quadro delle figurazioni semantiche dello zodiaco medioevale. Proprio questo fatto, però, si rivela di estrema importanza. Infatti, allorché in qualche altro monumento romanico del nord Itaha o d'Europa si troveranno forme analoghe delle immagini, avremo un ulteriore canale d'indagine per accertare la provenienza di quegli ignoti costruttori, genericamente qualificati lombardi, che hanno edificato un'opera d'arte così armonica e così suggestiva, quale è i l Duomo della diocesi di Montefeltro in San Leo (25).

riminese di S. Colomba, estratto da «Ravennatensia», I V (1975), pp. 58, 96. Per i battisteri dell'Emilia, cfr. A A . V V . in «Ravennatensia», V I I (Atti del Convegno di Parma 1976), Cesena 1979. Per la porta della cripta, A . M . Z u c CHi T R A V A G L I , Raccolto Istorico ovvero Annali del Montefeltro, Ms. in Arch. Com. Pennabilli, t. I l i , c. 9. (23) Si ricorderanno i sondaggi effettuati qualche decennio fa. T O N I N I , Valori architettonici..p. 42. L a conferma di una costruzione vescovile altomedioevale è data anche dai reperti di un ciborio, trovati in un cunicolo del Duomo, su uno dei quah appare la scritta D E D O N I S D E I E T B E A T I L E O N I S P R E S B I T E R I E T C O N F E S S O R I S . . . ( A . Campana). Cfr. L O M B A R D I , / reperti altomedioevali..., p. 437. (24) Nel suo impianto generale il Duomo di San Leo è l'espressione di una progettazione unitaria d'epoca romanica, anche se la fase di costruzione potè anche essere protratta nel tempo e anche se non si può escludere qualche intervento ricostruttivo settoriale in sede di perfezionamento della fabbrica. Tuttavia la datazione 1173 trova una coerente comparazione cronologica con un altro monumento romanico della zona, con cui è legato da inequivocabili consonanze stihstiche. Si tratta della parte absidale della pieve di Carpegna, la cui costruzione è datata da un'epigrafe: 1182. F . V . L O M B A R D I , La Contea di Carpegna, Urbania 1977, p. 203. (25) Sarà opportuno ricordare che il monumento romanico dell'ItaUa settentrionale che rivela le caratteristiche stiHstiche e strutturali più affini a quelle del Duomo di San Leo è la chiesa monastica di S. Salvatore di Capodiponte (Bs).


CORRADO LEONARDI CATERINA FRATERNALI

raffresco di s. maria di collina presso talamello


Non ostante che le guide turistiche più quotate ed aggiornate segnalino l'esistenza di una chiesetta a Collina nei pressi di Talamello, ove è conservato «un affresco (Madonna col Bambino)», ritenuto erroneamente «della fine del sec. X I V o principio del XV» (1), nessun cultore d'arte o di storia locale si è preoccupato di conoscere di persona l'opera e farne oggetto di particolare studio. Eppure l'effresco di CoUina si incastona in quella serie di consimili sparsi nei displuvi del fiume Marecchia dell'area montefeltrana (2). L a chiesetta si erge in un territorio molto abitato in epoca romana, ma oggi spopolato, vicino al Marecchia e sulla strada per la V a l Savio, che legava Marche e Romagna alla Toscana, ricca di reperti archeologici (3). Il toponimo, come «fundum post Collina» è per la prima volta elencato nella bolla di Papa Onorio I I , indirizzata nel 1125

(1) T . C . I . , Guida d'Italia-Marche. Milano 1979^ p. 202: «[Talamello]. A Collina m. 506, in 45 min. continuando oltre il Cimitero e lasciando a sinistra la mulattiera per il monte della Perticara, la cui chiesetta custidisce un affresco (Madonna col Bambino) della fine del sec. X I V o principio del X V . . . » . (2) Castello di Montemaggio, chiesa di S. Agata; Saiano, Chiesa Madonna del Carmelo; S. L e o , Convento di Sant'Igne; Majolo, Chiesa di S. Apollinare; Talamello, Chiesa di S. Lorenzo; Maciano, Oratorio della B . Vergine dell'Aia dei Marinelli; Castello di Petrella Guidi, da una Cappella; Pennabilli, Chiesa di S. Cristoforo ora S. Agostino; Casteldelci, Chiesa di S. Maria del Sasseto; Caioletto, Oratorio di S. Maria del Casciaio; Gattara, Chiesa di S. Maria della Neve; Carpegna, Chiesa di S. Leo. (3) G I U L I A N A G A R D E L L I , Montefeltro e Massa Trabaria, fra romanità e medioevo - notizie di cultura materiale e di topografia archeologica, in «Raccolta di Studi sui beni culturah ed ambientali delle Marche» Roma 1984. E d . Paleani V I I I , tomo I ; M . A . B E R T I N I - A . P O T I T O . La viabilità in Val Marecchia. Rimini 1984, pp. 7-34.


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a Pietro vescovo di Montefeltro, riletta criticamente di recente da F . V . Lombardi (4). Trova una più recente se pur antica derivazione nella visita pastorale di Mons. Gerolamo Ragazzoni del 1574, ove la chiesa di Collina è chiamata «simplicem ecclesiam B . M de Collinaria», appunto perchè la morfologia la fa trovare appollaiata sulla montagnola nella conca al di sotto del Monte della Perticara (5). L'esistenza di un elemento architettonico preromanico, costituito dalla base di ara d'altare murato sulla facciata in blocchetti di arenaria della chiesa (6), sta a documentare la preesistenza, all'attuale, di una cappella eretta durante la sistemazione carolingia della diocesi feretrana, in parallelo ai reperti dell'area di Perticara e di Novafeltria (7). Comunque elementi romanici sono palesi nell'attuale chiesa, in particolare nel portale d'ingresso dall'arco a tutto sesto di grosse pietre connesse da poca calce, e neirunica finestra a strombatura su pareti assai spesse (m. 0,70). Frammenti di storia sono narrati da alcuni elementi che spiccano nella modesta facciata e all'interno. Questi elementi ci T A L A M E L L O - 5. Maria di Collina - Facciata della Chiesa. (4) F R A N C E S C O V . L O M B A R D I , La bolla di Papa Onorio II a Pietro vescovo di Montefeltro, in «Studi Montefeltrani», I V (1976) pp. 59-99. S. Maria «de Culina» è citata nel Libro della Mensa Vescovile. Ivi, p. 86; M . A . Z u c c H i T R A V A G L I , Animadversioni sull'Apologetico Feretrano e sul Saggio di Ragioni per la città di S. Leo dell'Abbate G. B. Marini. Venezia 1763, p. 279. (5) Arch. Vat. - Congr. Vescovi e Regolari. Visita di mons. Ragazzoni Diocesi Montefeltro 1574. L'Ausiliario di Mons. Ragazzoni, canonico Brunello, visita la «chiesa semplice» della Beata Vergine di Collina il 25 agosto 1574. Nota che vi si celebra una volta alla settimana, ovviamente di domenica, e che ne è rettore D . Antonio Pasini di S. Agata Feltria. (6) Il cippo monolito d'arenaria, alto cm. 68 e largo cm. 48 è a forma di due capitelli rovesciati a fogliame ovoidale, al centro decorato di una corona scolpita e in alto recante una croce incisa. Il proprietario della casa colonica adossata alla chiesa sig. Cesaretti, dichiara di aver ritrovato questa pietra sotto un porcile e di averla fatta murare di recente sullo spigolo sinistro della facciata ove attualmente si trova, per riparare il muro sconnesso. Il reperto è finora inedito, e va recuperato, anche perchè presenta affinità al «cippo funerario romano» di S. Pietro in Culto di Novafeltria, pubblicato dal Lombardi. Cfr. F . V . L O M B A R D I , La pieve di S. Pietro in Culto, in; Le pievi nelle Marche, «Fonti e Studi», I V (Fano 1978), pp. 178, 181 n. 30. (7) F . V . L O M B A R D I , La pieve di S. Pietro in Culto cit., pp. 181-182; A . V E G G I A N I , Recenti scoperte preistoriche nel Monte della Perticara, in «Emilia Preromana», V (1964) pp. 308-310.


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dicono che l'oratorio di S. Maria di Collina (8) fu aggregato alla basilica di S. Giovanni in Laterano di Roma e mediante l'aggregazione partecipò alle indulgenze e ai privilegi concessi dai Papi ai Canonici Regolari Lateranensi. Nella facciata, appunto, al culmine del portale è stata posta una pietra serena ove è scolpita a rilievo la tiara pontificia con le chiavi decussate (9); nella parete di fondo dell'abside, a "cornu epistolae" di fianco all'affresco della Vergine, è murata una targhetta in maiolica che riproduce le due chiavi pontificie e porta la scritta: «Sacrosan[ct]ae: Lateranen[si] Eccle[si]ae Agregat[a]:» (10). È messo, dunque, in grande evidenza il collegamento di S. Maria di Collina con la Basilica Lateranense, un fenomeno, del resto, non infrequente nella chiesa del Montefeltro (11) che iniziò le aggregazioni intorno al 1532, accentuando e fomentando la devozione mariana e l'assistenza ospedaliera (12). Fervore che dovette riaccendersi nell'oratorio di Collina nel cuore del '700, quando la sovrastante chiesa di S. Martino di Perticara nel 1722 fu distrutta da un enorme masso franato dalla rupe. Si co-

(8) L'Oratorio è lungo m. 9,10, largo m. 5,10, alto m. 3,50 con il soffitto a capriate di legno. (9) I l colono afferma che quella pietra è stata posta di recente in sostituzione, ma simile, a quella originaria sbriciolata. Se è facsimile, lo stemma primitivo non poteva appartenere che al sec. X V I I I . (10) L a targa (cm. 17 x cm. 12) è dipinta in bleu su fondo di smalto sporco azzurrognolo. L'umidità a cui è sottoposta sta provocando un processo di sfaldamento dello smalto. Sotto la citata scritta si voleva indicare la data, ricoperta da una pennellata di colore forse caduto dal pennello dell'inesperto maiolicaro, ma che si potrebbe ugualmente leggere «1732» o «1752». (11) A S. Leo la chiesa della Madonna della Misericordia, a Secchiano, a S. Donato in Taviglione, a Viano di Piandimeleto, a Perticara la chiesa diruta della Madonna della Misericordia e di S. Antonio del Poggio. (12) Sotto le minacce dei riformatori protestanti e in seguito ai timori provocati dal sacco di Roma (1527), molte chiese domandarono ed offrirono protezione a S. Giovanni in Laterano. Il cuho della Madonna trova allora nel contesto della Riforma una giustificazione teologica: ai protestanti che mettono in discussione la sacrahtà della Madre di Dio rispondono i cattoHci accentuandone la devozione. Così sorgono oratori, cappelle, chiese dedicate alla Madonna. Questi luoghi di culto offrivano ospitaUtà ai pellegrini. Conseguentemente è facile trovarli lungo le strade piìi importanti, come appunto dove si trova la chiesa di Collina che vede il raccordo dal Montefeltro alla V a l Savio. Cfr. la Lettera indirizzata il 23 gennaio 1985 da S. S C R I B B A sott'archivista dell'Archivio dei Canonici Regolari Lateranensi a Caterina Fraternali di Urbino.

L'AFFRESCO D I S, MARIA D I COLLINA PRESSO T A L A M E L L O

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minciò allora a svolgere le funzioni nella chiesa di S. Antonio del Poggio, la cui gestione era nelle mani dei ConfratelH della Misericordia, di S. Antonio e dell'Ospedale, opere tutte erette per privilegio in suolo lateranense. E appunto nell'anno 1758 la comunità di Perticara chiede la rinnovazione o conferma delle antiche concessioni (13), cosa che dovette estendersi anche per l'oratorio prossimo di S. Maria di ColUna. In questa circostanza fu rinnovato l'unico altare della cappella ai piedi dell'affresco della Madonna col Bambino, dotandolo di un variopinto paliotto in scaghola, al passo con la moda galoppante nel Montefeltro e nelle aree hmitrofe della Massa Trabaria (14). In Italia l'arte della scagliola policroma, iniziata da Guido Fassi (1584-1649) attraverso le precedenti esperienze bavaresi, inglesi e francesi (15), era scesa da Carpi a Modena-Reggio-Parma-Ferrara in Romagna e nell'Urbinate, portata dagU alHevi del Fassi, quali Annibale Grifoni, Giovanni Gavignani, Giovan Francesco Paltrinieri, a testimonianza di paliotti firmati e datati (16). Quello di Collina è raffigurato da una finta cornice che racchiude motivi floreali predominati da rose e tulipani, attorno al medaglione centrale che rappresenta l'Ostensorio radiato con l'Ostia. Raffronti con esemplari limitrofi ed espressioni stilistiche suggeriscono di datare il paliotto, probabilmente eseguito nella

(13) Cfr. A N T O N I O B A R T O L I N I , Perticara nel Montefeltro. Rimini 1974, pp. 43, 177-182, dove è pubblicata la bolla lateranense Quum alias del 1830 che, riconfermando i diritti e le concessioni del Capitolo Lateranense, espone la cronistoria dei rapporti con la comunità perticarese. (14) Cfr. P. M A N C I N I , Arte e tecnica della lavorazione della scagliola e sua diffusione tra Romagna e Marche. Tesi di Scuola di perfezionamento in Storia dell'arte presso l'Università degli Studi di Urbino, a.a. 1980-1981. Il Mancini non cataloga il paHotto di S. Maria di Collina. (15) A . F E R R E T T I C O L O M B I , /paliotti di scagliola, in «Vita di Borgo e A r tigianato - Cultura popolare in Emilia R o m a g n a » . Bologna 1980, pp. 220-239; D A V E Y N O R M A N , Storia del materiale da costruzione, «Il Saggiatore», Milano 1965, pp. 102-103. (16) A . F E R R E T T I C O L O M B I , Ipaliotti di scagliola, cit., pp. 220-239.


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Stessa collina (17), alla prima metà del sec. X V I I I (18). Sopra questo altare, sulla parete di fondo che assieme a tutte l'altre della chiesetta mostra segni evidenti di sfascio e di umidità, tra due tiranti di ferro posti a chiave onde impedire il cedimento delle pareti laterali, appare l'affresco della Madonna seduta in trono con il Bambino benedicente, che stringe nella manina sinistra un uccello, da altri intravisto come "cardelUno". L'intero affresco misura cm. 168 di altezza e cm. 147 di larghezza. Nella parete superiore del dipinto si nota un ganghero o «rampone» di ferro che resta a confermare quanto oralmente è testimoniato, e cioè che l'Immagine era protetta da sportelli in legno ed esposta alla visione dei fedeh soltanto in particolari circostanze. L'affresco, come dice il cartiglio autografo dipinto dal romano Pesci a metà della fascia esterna destra, è stato restaurato nel 1923, ma appare piuttosto manomesso da incauti ed ingiustificati interventi (19). L'immagine della Madonna in trono nella sua parte originale misura cm. 140 di altezza e cm. 67 di larghezza, ed è contornata da una fascia a cornice dipinta, larga cm. 10. Lo stato di conservazione, favorito fino a non molto tempo fà dagli sportelloni lignei, può giudicarsi discreto, non ostante che il dipinto abbia subito e continui a subire gli attacchi dall'umidità e soprattutto dall'acqua filtrante dalle sconnessure del tetto.

( 1 7 ) L o scagliolista teneva in gran conto la comodità o la scomodità del luogo dove doveva essere posta l'opera, e ciò per evitare il rischio di fratturare il manufatto in se stesso fragilissimo e pesante. Nei casi di reale pericolo, come è da ritenersi l'ordinativo per S. Maria di Collina, preferiva eseguire l'opera in loco. ( 1 8 ) Rievoca il paliotto delle chiese di S. Agata di Pennabilli, datato 1728 e firmato I . B . C . C , e di S. Agostino, a motivi floreah ed uccellini, affini al paliotto dell'altare di Collina. Nella parrocchiale di Talamello esistono altri due paliotti in scagliola policroma che vengono assegnati allo stesso periodo. Uno reca nel medaglione centrale l'immagine di S. Lorenzo M . , titolare della chiesa; l'altro racconta la grazia dell'ex voto. ( 1 9 ) U n sapiente restauro servirebbe a mettere in luce le zone non autentiche e le parti originali, soprattutto l'immagine della Madonna seduta in trono con il Bambino, i cui contorni sono delimitati dal graffito suU'ariccio preparatorio.

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Proprio quest'acqua, infatti, sta infradiciando il «cielo» di legno dipinto del padiglione creato tra l'icona e il soffitto sopra l'altare, e intaccando il resto della parete che potrebbe nascondere affreschi sotto i numerosi strati di imbiancatura (20). L'umidità inoltre ha provocato in più parti gonfiature e quindi il distacco dell'affresco dal muro portante, ed una palese fenditura che parte dall'alto a sinistra, segue il gomito della Madonna e raggiunge la base senza recare, tuttavia, danni rilevanti all'Immagine, di cui ormai dovrebbe richiedersi lo strappo (21). A l di sotto del dipinto, in caratteri capitah, è leggibile l'iscrizione originale, solo in piccola parte caduta e tamponata con gesso dipinto: «L.AN[AS]TASIAE F [ E C I T ] F [ I E R I ] P R O V O T O 1564», ossia un tale L . di casa Anastasia fece fare per voto nel 1564. L a scritta non sembra abbia subito alterazioni dal restauratore del 1923, e non è posta a ricordare un restauro antico eseguito nel 1564 come ex voto di casa Anastasia, una ipotesi che può far capolino al raffronto tra la impostazione iconografica, più antica, e la data «1564». Nell'area sinistra del Marecchia esistono iconografie simiU che recano date esplicite sorprendentemente coeve, come a Saiano, di fronte a Pietracuta ma sulla sinistra del Marecchia, nell'abside della chiesa intitolata alla Madonna del Carmelo, dove appunto si ammirano due dipinti: una Madonna col Bambino, ed un Santo Vescovo, datati 1561. L'autore, dunque, è un modesto artista che opera nel cuore del Cinquecento e in un'area periferica, due elementi che giustificano stile e data dell'opera di Collina certamente eseguita nel 1564, salve sorprese derivanti da un accurato restauro. L'attribuzione dell'affresco di S. Maria di Collina presenta una comprensibile problematica, derivata sia dalle alterazioni

(21) L a S t a t i c a dell'edificio e i l processo intenso e costante dell'umidità, consigliano lo strappo dell'affresco, se Io si vuole conservare. Resta comunque fermo il principio, quando è possibile, che l'opera rimanga nel luogo per cui è stata dipinta, in quanto espressione significativa dell'ambiente e della cultura che l'hanno voluta e alle quali è indirizzata. ( 2 2 ) A N T O N I O B A R T O L I N I , / vescovi del Montefeltro. Urbania 1976, pp. 6 5 n.

3,69,78,80.


T A L A M E L L O - S. Maria di Collina - Affresco nell'altare, di Anonimo -1564.

Oratorio S. Maria del Casciaio - Affresco di Anonimo, i intorno al 1564.


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apportate dal restauratore Pesci chiamato da Roma, sia dall'ambiente culturale nel quale è prodotto. Il restauratore romano del 1923 ha concepito il suo intervento con una certa libertà e con criterio d'epoca forzato dalla richiesta dei committenti cui interessava non il restauro scientifico, ma quello ricostruttivo per vedere bene la Madonna integra e colorita con il suo Bambino. Nelle cornici esteriori il Pesci è intervenuto forse in maniera pesante, mentre rispetta con migliore scrupolo l'immagine della Madonna col Bambino. È da scrutare, pertanto e soprattutto, l'icona centrale per formulare eventuali ipotesi di tempo esecutivo e di paternità dell'affresco. L'ambiente artistico-culturale di Collina dovrebbe riflettere ovviamente quello del Montefeltro e in particolare di Talamello da cui Collina dista soltanto pochi chilometri e sette da Novafeltria. Talamello vanta un passato illustre. Nei secoU X I V e X V fu sede dei vescovi del Montefeltro (22); ospitò il governatore di Romagna, il cardinale Tiano al quale il grande Sigismondo Malatesta venne a chiedere pace (23). Nel campo artistico raccoglie opere provenienti dai dintorni, attribuiti alla scuola riminese. A d esempio nella parrocchiale di S. Lorenzo conserva un «Crocifisso» portatovi dalla chiesa agostiniana di Poggio, definito dal Serra «della maniera del Baronzio» (24), riveduto come opera della seconda metà del sec. X I V da Carlo Volpe (25) e meglio precisato come opera «di poco posteriore al Crocifisso di Mercatello di Giovanni da R i mini (1309/1314)» da Daniele Benati (26). Eccellente esemplare fra i tanti che documentano la tradizione della scuola riminese

(22) A N T O N I O B A R T O L I N I , / vescovi del Montefeltro. Urbania 1976, pp. 65 n. 3,69,78, 80. (23) L . D O M I N I C I , Storia generale montefeltrana tra Feltro e Feltro. Voi. I , Lanciano 1931, pp. 298-302; A . P O T I T O , Il feudo dei conti Segni di Bologna (Novafeltria-Talamello). Rimini 1975. (24) L U I G I S E R R A , L'arte nelle Marche dalle orìgini cristiane alla fine del gotico. Pesaro 1929, pp. 275-276. (25) C A R L O V O L P E , La pittura del Trecento. Milano 1965, pp. 71-72. (26) D A N I E L E B E N A T I , Giovanni Da Rimini, in «Pittori a Rimini tra gotico e manierismo». Rimini 1979, p. 18.

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nel Montefeltro, certamente dovuta alla vicinanza e alle vicende politiche-culturali che legano le due terre. Nella stessa chiesa di S. Lorenzo, proveniente da Poggiolo, sotto la cantoria è l'affresco staccato della «Madonna con il Bambino che regge il globo e i Santi Agnese e Rocco», una specie di trittico della fine del sec. X V o inizi del X V I . Il suo autore anonimo e tardivo in territorio provinciale, forse un romagnolo itinerante, riproduce moduli, in altre località già superati, perugineschi e raffaelleschi. Ma a Talamello nella Cella, oggi chiesetta del Cimitero, si ammira il ciclo pittorico firmato e sostanzialmente datato, perchè non dopo la consacrazione della chiesa avvenuta nel 1437, del ferrarese Antonio Alberti (not. 1423-1442) (27). Alla data degli affreschi di Talamello Antonio Alberti, che risiedeva nella regione umbro-marchigiana da almeno diciasette anni, aveva assorbito tutti gli elementi che il nuovo ambiente poteva proporre all'attenzione di un artista di formazione padano-cortese. Ma proprio a Talamello il pittore, pur non rinunciando a brani preziosi, assume toni d'ambiente, ossia di narrazione schietta e immediata che l'arricchiscono di umori popolareschi, presentati con tratti di sintesi formale quasi imprevedibili (28).

(27) Gli affreschi che decorano la piccola chiesa ad unica navata con una volta a crociera, rappresentano l'Adorazione dei Magi (lunetta di destra), sei figure di Santi (zona sottostante), la Presentazione al tempio (lunetta di sinistra), sei figure di Santi (zona sottostante), l'Annunciazione (nella lunetta della parete di fondo) e la Madonna in trono col Bambino (al centro della zona sottostante). Nelle vele sono rappresentati i quattro Evangelisti e i Dottori della chiesa. Nella cornice che percorre le pareti ricorre la lunga scritta, in latino a caratteri gotici, con il nome del committente, il vescovo feretrano Giovanni Sedani, e del pittore Antonio da Ferrara: «Sub nomine Dei omnipotentis, Beatae Mariae semper virginis, Serafici Francisci maestatem istam cum edifitio et picturis fieri fecit in X P O pater et dns.dns. frater Jo. de Sclanis de Arimino Ordinis F . R . M . sacrae theologiae professor nec non Dei et Apostolicae Sedis gratia episcopus Feretranus ab anno... Preces A m e n » . Verso la fine della fascia dal lato sinistro si legge: «Antonius de Ferrarla habitator Urbini pixit. Sit laus Deo in sclor. scia. A m e n » . TI Sedani nel 1437 consacra l'altare della Cella da lui fatta costruire: «Consecratum fuit istud aitar, cum maestate p. R . P . D . I . E p m Feretranum dominica I l a Julii 1437» (14 luglio 1437). Cfr. A . B A R T O L I N I , / vescovi del Montefeltro. cit., p. 77. (28) O . F . T E N C A J O L I , La cella dipinta da Antonio Alberti da Ferrara a


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Tali elementi hanno lasciato una impronta benefica nella cultura locale, purtroppo circoscritta e quasi soffocata dal gusto popolaresco che predomina sui pittori che tra Quattro e Cinquecento percorrono instancabih le balze dei due displuvi del Marecchia e che soddisfano volentieri le richieste della popolazione, quasi orgoghosa d'essere appallata «bifolca», come è scritto sotto l'affresco della «Madonna col Bambino» nell'absidiola preromanica in Majolo della rustica parrocchiale di S. Biagio, prima ancora S. Apollinare: «LI B I U L C H I D E Q U E S T A C H O N T R A D A F E N O F A R E - 1409» e restaurare nel 1509 (29) . Il modulo iconografico dell'affresco di S. Maria di ColHna potrebbe definirsi comune alle numerose «Madonne col Bambino» ancora esistenti nelle chiese di quella valle e della adiacente del Me tauro, iniziando dalla tavola di maniera peruginesca nella chiesa di Borgopace, già nell'Oratorio di S. Maria in Spogna (30) . Ma va messo particolarmente in risalto che l'affresco di Collina è ripetuto alla lettera almeno da uno dei due affreschi in mezzo ai quali si trova nell'area sinistra del Marecchia. L a Madonna di Collina è ubicata esattamente al centro, se

Talamello nel Montefeltro, in « U r b i n u m » , II-6 (Urbino 1929) - 1 1 1 - 1 , 2 ; M A R I O S A L M I , Rapporti nella pittura tardo-gotica tra Ferrara e Foligno, «Commentarla», 1 9 5 0 , pp. 2 1 1 ss.; F I L I P P A M . A L I B E R T I G A U D I O S O , Antonio Alberti da

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pur a discreta distanza, tra la chiesa della Madonna del Carmelo di Saiano, di fronte a Pietracuta, nella quale è affrescata la «Madonna col Bambino» datata 1561 (31), e l'Oratorio di S. Maria del Casciaro a monte della rocca di Caioletto (di fronte a Pennabilh), dove è veneratissima l'immagine in affresco, ridipinta a tempera, della «Madonna col Bambino», evidente copia (od originale?) della Madonna di CoUina. L a Madonna di Casciaio, di cui si potrà dire esattamente dopo il necessario restauro, è inscritta in una cornice di legno mandorlato e dorato, contornata di tele secentesche incorniciate raffiguranti i misteri del Rosario e, quello centrale, la Madonna con i santi Domenico e Caterina da Siena (32). Il raffronto offre sicurezza di «copia autentica conforme all'originale». E ciò non tanto nella parte superiore dell'immagine, la più ridipinta e addolcita alla maniera settecentesca, quanto nella parte inferiore dove il panneggio, col suo orlato , ripete fedelmente quello della Madonna di Collina. L'icona di Casciaio è oggetto di commento contrastante da parte degh storici locah che tendono, come Alessandro Marchi, a definirla opera di un anonimo locale attivo nella seconda metà del 1400, oppure, come ritiene Nando Cecini, di altro anonimo «databile sul finire del Cinquecento» (33). È più probabile che abbia ragione il Cecini, anche se la sua opinione risponderebbe meglio alla storia se la cronologia dell'opera fosse anticipata agli inizi del secondo Cinquecento. Allora risaha che proprio intorno alla metà del sec. X V I

Ferrara, ciclo affrescato di Talamello, in «Restauri nelle Marche». Urbino 1973, pp. 133-140; W A L T E R F O N T A N A , Tre tavole ignote di Antonio Alberti da Ferrara, in «Notizie da Palazzo Albani», V I I I , 2 (Urbino 1 9 7 9 ) , pp. 8-26. (29)

P I E T R O F R A N C I O S I - E L I G I O G O S T I , Majolo.

Rimini 1 9 7 4 , pp.

32, 63.

Il dipinto rappresenta «una bella Maestà della Vergine con Bambino tra angeli e santi e precisamente alla destra il Patrono S. Apollinare e alla sinistra S. Sebastiano. All'esterno dell'abside, a sinistra di chi guarda, un S. Antonio Abate che è l'unica figura originale, cioè non restaurata [...] Sotto la figura di S. A n tonio c'è la scritta «LI B I U L C H I D I Q U E S T A C H O N T R A D A F E N O F A R E A N N O 1 4 0 9 » che testimonia la data dell'affresco. Altra scritta che correva alla base della Maestà dipinta all'interno dell'abside ricordava che l'affresco era stato completamente restaurato nell'anno 1507. Tale dicitura è stata cancellata dall'ultimo restauro». Ivi, p. 6 3 . ( 3 0 ) E N R I C O R O S S I , Memorie ecclesiastiche della Diocesi di Urbania. U r bania 1 9 3 8 , pp. 188-189. L'opera, di recente restaurata, è della fine del sec. X V e rappresenta la Madonna in trono col Bambino che stringe nella mano un cardellino. Nello sfondo damascato appaiono due angeli oranti.

( 3 1 ) Non ci è stato possibile prenderne visione diretta e neppure indiretta attraverso fotografie. ( 3 2 ) Il che fa supporre che sull'altare nel sec. X V I I sia stata istituita la Confraternita del Rosario. I l Cecini descrive l'opera diversamente: «In questo oratorio è degno di nota l'imponente complesso ligneo dell'altare maggiore, costituito da un'ancona lignea, policroma e dorata, divisa in tre scomparti adorni di tele che rappresentano S. Domenico, S. Caterina e altri santi negli scomparti laterali». N A N D O C E C I N I , Note d'arte e di storia su S. Agata Feltria. Urbania 1977, p. 6 7 . ( 3 3 ) N. C E C I N I , Note d'arte e di storia cit., p. 6 7 : «La parte sottostante l'ancona [di Casciaio] è affrescata con un dipinto, malamente rimaneggiato, che rappresenta la Madonna con Gesù Bambino. È databile sul finire del Cinquecento ed è di un anonimo locale».


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T A L A M E L L O - S. Maria di Collina - Paliotto dell'altare di scagliola ; , policroma, prima metà sec. X V I I L

T A L A M E L L O - S. Maria di Collina - Targhetta in maiolica sec. X V I I L

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sulla sinistra impervia del Marecchia opera un «madonnaro» che conforme alla sua professione si rifa alla più antica, tradizionale e devozionale iconografia della Theotócos di impostazione ancora tardo trecentesca, non rielaborata nei passaggi culturali, profondamente vivi e sviluppati non solo tra Romagna e Marche, ma tra Romagna Marche Umbria e Toscana. Un pittore che dalle apparenze può essere ritenuto assieme alle sue opere, di transizione tra Quattro e Cinquecento, ma che in realtà giunge mezzo secolo dopo — fenomeno del resto comune nel movimento artistico di provincia — e gira nelle compagne del Montefehro, magari con i suoi usurati «spolveri», senza elevate pretese artistiche, ma soddisfatto di accontentare le richieste devozionaU delle comunità montane (34) e dei buoni pievani, o di sciogliere il voto per grazia ricevuta. Le forme arcaiche e la presenza a Talamello di un ciclo fondamentale dell'attività pittorica di Antonio da Ferrara possono aver indotto chi da lontano o al setaccio di una orecchiante cultura artistica ha giudicato l'affresco di Collina, a divulgare erroneamente, attraverso la stampa, che l'opera di un anonimo del Cinquecento inoltrato ed esattamente del 1563, sia prodotta alla fine del secolo X I V o al principio del secolo seguente.

(34) « C O M U N I T A S M O N T I S M A D I I F E C I T F I E R I P R O E O R U M D E V O T I O N E 1512». Così a caratteri capitali è scritto sotto gli affreschi dell'antica chiesa di S. Agata sul poggio dì Castello di Montemaggio, fra cui una Madonna in trono. Cfr. A . M A R C H I , / / Museo diocesano del Montefeltro in Pennabilli, Tesi di Laurea Università degh Studi Firenze, a.a. 1981-1982, c. 213.


ALESSANDRO MARCHI

''pòmpeius fanensis" in sant'agostino a pennabilli

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Nella prima metà del X V I secolo un componente della famiglia Palmarini di Pennabilli: «... antichissima Casata memorabile si dai primi secoli se' Cristiani,...» (1) del quale non conosciamo il nome commissionò alla bottega fanese, o pesarese, di Pompeo Morganti una tavola per la Chiesa di S. Agostino in Pennabilli. A testimonianza di ciò nelle basi delle semicolonne corinzie che sostengono la centina superiore alla tavola dipinta — una fastosa cornice in forma di altare Ugneo poHcromo e dorato — è intagliato lo stemma dei Palmarini composto di una palma sovrastata al centro di una banda trasversale liscia (2). La pala, ora collocata nella seconda arcata della parete sinistra della chiesa, doveva attestare ancora una volta la paternità che la nobile famiglia aveva acquisito su questo sacro luogo sin dalla sua fondazione; l'iconografia stessa del dipinto fu sicuramente dettata dal committente, non a caso troviamo rappresentati i due santi della vecchia e nuova dedicazione (3). Nel riquadro al centro della base lignea della cornice è dipinta in caratteri capitali maiuscoli la sigla: P . F . F . A . A . . Non è difficile sbroghare le prime tre lettere in "Pompeius Fanensis

(1) Cfr. P . A . G U E R R I E R I , Della Carpegna abbellita e del Montefeltro illustrato, Parte T e r z a a cura di F . Manduchi, 1667/76, Rocca San Casciano 1924, p. 87. È evidente l'esagerazione genealogica, tipica degli eruditi del seicento. (2) U n a « . . . elevatissima Palma . . . » specifica i l Guerrieri (op. cit., p. 87) parlando di quell'Antonio Palmarini che fu i l primo "mecenate" della Chiesa di S. Agostino. (3) A l l a primitiva dedicazione a S. Cristoforo (all'atto di fondazione) si aggiunge la comune dizione di S. Agostino da quando nel 1391 qui si rifugiarono gli Agostiniani del Convento di Miratolo. V e d i P . A G U E R R I E R I , op. cit., p. 118.


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Fecit...": l'impostazione stilistica della tavola suggerisce di già questo nome; oscuro a chi scrive rimane invece il significato delle due A che seguono. Nonostante che codesta attestazione di paternità sia piuttosto evidente, il dipinto è rimasto inedito sino ad ora (4). Il Dominici lo ascrive ad anonimo della fine del X V I secolo e lo giudica di mediocre interesse (5). Così la Cangini lo colloca nell'ambito di un pittore locale della fine del '500 di formazione manieristica (6). L a tavola misura cm. 320x195 e vi sono raffigurati: il Cristo Risorto ed i Santi Cristoforo, Agostino, Nicola da Tolentino, Sofia ( ? ) , Caterina d'Alessandria ed un'altra Santa non ben identificata. L'intera figura del Risorto, semicoperta da un roseo panneggio, benedice e sostiene il bianco vessillo crociato di rosso; essa è completamente inserita in una mandorla di rarefatta luce giallognola, che si apre tra le nuvole che la delineano per intero; echeggiando in questo modo le primitive antiche figure del Cristo nella mandorla. Egh, il Cristo, costituisce l'asse centrale della composizione e determina due schieramenti: a sinistra i santi Cristoforo e Agostino, a destra San Nicola e le tre Sante, in un'asimmetria riscattata dalla mole quasi gigantesca dei primi due santi per cui non viene compromessa l'armonia della composizione. Numerosi angioletti, dalle ah varipopinte, sbucano tra le nuvole qua e la in un giocoso eterogeneo sviluppo di pose e di gesti. L e nuvole sono tracciate quasi come delle rosette dai petali sovrapposti regolari e arrotondati; anche se più piatte e meno voluminose ricordano quelle tornite e pennellate quasi come fossero gigantesche meringhe aeree, regolari e degradanti nella misura, contrassegno luminoso, assieme ai cieU striati, di Raffaellin del Colle (7). Più sotto, alla destra del Cristo, vi è S.

(4) L'identificazione di Pompeo Morganti m i viene gentilmente confermata dalla Dott. L u i s a Fontebuoni (comunicazione orale) che qui vivamente ringrazio. ( 5 ) Cfr. L . D O M I N I C I , Pennabilli culla dei Malatesta, Pennabilli 1966, p. 6 5 . ( 6 ) Cfr. I . C A N O I N I , Pennabilli e le sue chiese, Tesi di L a u r e a discussa presso l'Università di Urbino n e l l ' A . A . 1982/83, pp. 6 1 - 2 . (7) Questo particolare tipo di nuvole a "rosette" è ripreso in maniera si-

Pompeo Morganti - Resurrezione e Santi (post 1540) Pennabilli, Chiesa di S. Agostino.


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Cristoforo: quest'eroe barbuto richiama immediatamente quello gigantesco solenne e benissimo dipinto a Loreto da Lorenzo Lotto. Similissima la composizione, anche se il nostro a differenza di quello lottesco è vestito da una giacchetta e da un paio di bragaloni azzurrini vagamente ravvivati dallo svolazzo di un rosso mantello. Con tutte e due le mani — oramai senza ragione poiché si trova fuori dall'acqua — Cristoforo si aggrappa al bastone che qui è divenuto un rigoglioso ramo di palma rallegrato dallo spuntare qua e la tra le foglie di rossi fiori vivaci (8). Il nostro santo, ancor più giovane di quello del Lotto, è contornato nel viso da ispidi riccioletti e da una corta barbetta bionda. Arretrato rispetto Cristoforo è Agostino orante con adosso i parametri vescovili: guanti argentei, pastorale con riccio a foglie d'acanto cesellate ed un'ampia pianeta di teletta d'oro. Solenne ma non ieratico nell'avanzare della gamba sinistra. San Nicola da Tolentino nel severo abito talare, mogio nell'espressione, sembra una statua devozionale con gh attributi ben stretti nelle mani; il suo atteggiamento ricorda vagamente quel S. Nicola che Raffaello dipinse per Città di castello così come lo vediamo nella copia di E . Costantini della Pinacoteca di quella città. I l santo occulta per metà lo splendido sarcofago marmoreo scolpito alla maniera classica con tralci e giraU d'acanto. Più in avanti Santa Sofia (?) con una veste azzurro-verdastra è plaudata di quello stesso drappo rosato che copre il Cristo; bellissima la sua complicata acconciatura di trecce bionde. Quel suo gesto di puntare in alto l'indice ricorda la S. Lucia del Lotto, ma a parte lo scambio delle mani anche la fisionomia ci riconduce al suo vero prototipo che è quella figura che interpreta la parte di S. Agata nella pala della Chiesa di S. Paterniano a Fano, attribuita al padre di Pompeo: Bartolomeo Morganti (9). Da quella pala derivano anche la S. Caterina e l'altra Santa

non identificata; la prima scultorea nel profilo che non manca di citare l'arcangelo Gabriele della Madonna del Velo dell'Oratorio del Corpus Domini di Urbania di Raffaellin del Colle, più commossa la seconda che umilmente si volge indietro con le dita della mano destra distese quasi a cercare le corde di un'arpa. Sono i profili di queste sante, appuntiti e più incisi che dipinti, con un contorno che non manca di essere persino elegante risolto com'è deciso e sicuro come la linea del bulino sul metallo, sono queste fisionomie — esemplate nella pala di San Paterniano — a ricorrere spontanee come un "signum manus" in tutta l'opera del Morganti. Eppure (a S. Agostino) non troviamo quell'altro elemento caro alla poetica dei pittori fanesi e cioè il paesaggio; anche qulla piccola parte di fondo che è dietro al S. Cristoforo è oscurata. La pala di Pennabilh sia per le suggestioni lottesche che per l'indubbia vicinanza con la pala della Chiesa di S. Giacomo a Pergola (ora nel Museo Civico) viene ad inserirsi nel catalogo di Pompeo Morganti tra le date 1540 e 1550 (10). A l confronto di quest'ultima la nostra pala appare più incerta e riassuntiva, così nella caratterizzazione psicologica dei personaggi che nell'impalcatura compositiva; non vi è come a Pergola il conformarsi ad un raffaellismo seppure mediato. Pompeo Morganti cerca in ogni modo di stare al passo coi tempi, si prova di imitare il Lotto credendo così di rendersi partecipe di quella particolare carica emotiva tanto sviluppata nel veneziano. Non ci riesce che vagamente, soprattutto nella resa dei colori. I l pittore fanese non è un grandissimo artista, il suo capolavoro è forse l'immaginifica pala con la resurrezione di Lazzaro e San Michele (Pinacoteca Civica di Fano) realizzata insieme al padre. Senza dubbio Pompeo non è l'ideatore di quest'opera ma non è nemmeno un mero esecutore delle parti secondarie, altrimenti non ci spiegheremmo la presenza della sua

milare nella decorazione delle maioliche pesaresi; sembra che nella bottega dei Morganti venissero prodotti anche degh istoriati. (8) L a palma araldica, allusiva alla committenza, compare tre volte in tutto il dipinto. (9) Secondo i l parere di chi scrive si tratta anche in questo caso di un'opera di collaborazione fra padre e figlio.

(10) Dopo il rilievo che la personalità di questo autore ha assunto in unione con quella del padre Bartolomeo in occasione della mostra: Lorenzo Lotto nelle Marche. Il suo tempo e il suo influsso, A n c o n a 1981 ( C f r . Cat. della mostra pp. 256-263); assieme agli altri pittori fanesi contemporanei Pompeo è stato oggetto della mostra: Pittura a Fano 1480-1550 svoltasi nell'estate 1984. Cfr. B . M O N T E V E C C H I nel Cat. della Mostra, Fano 1984, pp. 47-56.

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firma. Potremmo però pensare ad un padre che vuole preparare la strada al figlio e per ciò lo rende partecipe del suo maggior successo. Sta di fatto che da ora innanzi la committenza dell'entroterra fanese e pesarese sarà in gran parte indirizzata verso la bottega dei Morganti. Pompeo riesce comunque a diventare un pittore alla moda; riesce ad inserire nelle sue opere, anche in quelle più modeste, tutte le novità "rinascimentali" apprese nella stessa Fano dove ha sotto gh occhi le opere del Santi, del Perugino e dello stesso Raffaello. Sperimenta le geniali trovate di RaffaelHn del Colle, osserva il cantiere dell'Imperiale ed i romagnoU; presta attenzione a quel limpido, intimo messaggio lagunare — nell'origine — eccezionalmente "campagnolo" — negli sviluppi — che il Lotto va diffondendo in tutte le Marche. Il dipinto di S. Agostino riunisce un po' tutte queste componenti, maggiormente le citazioni lottesche unite a quelle raffaellesche, confortate da un'ampia frequentazione di Raffaellin del Colle. Tutto si sussegue non sempre con vigore e lucentezza, i colori appaiono schiariti e diafani (coperti anche da un velo di sporcizia) mentre alludono ad un manierismo non ancora pienamente sperimentato; i rimandi all'opera del padre si rincorrono senza soste. L a qualità di questa tavola non è altissima, su di essa ha sicuramente influito il programma coercitivo della committenza. Bellissima è la cornice — originale — dorata e dipinta; notevole la testa scolpita del cherubino posto al culmine della centina con ai lati due festoni di frutta riccamente dorati e più giù due punte di panneggio che escono in maniera originale dalle cornici dell'arcata. Le dorature si alternano agh specchi dipinti con la simulazione di marmi pregiati di diversi colori, senza dubbio questa complessa cornice proviene dalla stessa bottega dei Morganti.

simih a quelle di S. Paterniano (Fano) a loro voha desunte da Raffaello — sostengono il cornicione, tre scahni dividono questa parte dell'ambiente dal piano dove sono le sante offerenti i simboU del loro martirio su un piatto d'argento. L e loro vesti variopinte si articolano in ampi panneggi, belle le acconciature ed il delicato rosa diafano degh incarnati. L a figura di S. Agata costituisce una citazione estremamente puntuale della stessa santa della pala di S. Paterniano. Mentre S. Lucia è pressoché identica, sia nella posa che nella resa cromatica, ad una figura di santa che compare in una tela con la Presentazione al Tempio (mercato antiquario) avvicinabile alla "Visitazione" di Federico Barocci. L a tela di Carpegna è risolta compositivamente nei rimandi ritmici degli sguardi, in una sorta di unica conversazione fra Io spettatore e la sacra composizione. L'apparizione eccezionale di Maria è inserita con regolarità nell'interno costruito appositamente per contenerla. Nonostante la qualità modesta il dipinto è da inserire nel catalogo della bottega morgantesca come opera di aiuti ed è da collocare in una data posteriore alla metà del secolo X V I . Il suo stato di conservazione è decisamente critico e richiederebbe un intervento di restauro.

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Desidero segnalare in questa sede un secondo dipinto feltresco collocabile nell'ambito della bottega dei Morganti. Si tratta di una tela posta nella Chiesa di S. Leo di Carpegna. L a raffigurazione rappresenta la Madonna che appare alle Sante Agata e Lucia in un interno architettonicamente costruito come un piccolo cortile, aperto in alto con un foro semicircolare da cui è scesa sulle nuvole la Vergine. Quattro colonne tortih —

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sestino-montefeltro: aspetti di vita quotidiana nelle fonti locali (XVI-XIX sec)


Dopo le secolari controversie confinarie, i conflitti giurisdizionali e le sfaccettature di una politica estera giocata sullo scacchiere Firenze-Urbino-Roma-Vienna, qui vorrei tentare un primo approccio, attraverso le fonti locah, al vissuto quotidiano, ai rapporti elementari — ma non per questo meno incidenti e significativi — tra le popolazioni del sestinate e quelle feretrane nei secoli X V I - X V I I I . Tanto più che l'argomento, ponendo di fatto il problema delle relazioni tra territorio dell'antica Podesteria di Sestino e territorio feretrano — nella sua complessità e varietà amministrativa — si presenta piuttosto accattivante; e inoltre la individuazione, nell'epoca moderna, del periodo storico di riferimento viene a coincidere, in partenza, con l'evento più singolare della storia moderna di Sestino: il suo distacco politico-amministrativo dall'ambiente urbinate e marchigiano e il suo ingresso nella sfera pohtica di Firenze. Si tratta, come è noto, della controversa «cessione» di Sestino a Firenze da parte di Papa Leone X , che cedette, appunto, «Civitatem Feretranam ac Vicariatum Sextini ad praefatam ecchlesiam pertinentem, cum omnibus eorum castris oppidis et villis ac locis universis acfortiliciis pascuis pratis vineis silvis et pertinentiis suis ac mero et mixto imperio et gladiipotestate»... come recita la prima bolla papale del 5 luglio 1520 (1).

(1)

A R C H I V I O D I S T A T O D I F I R E N Z E ( A . S . F . ) , Capitoli, X V I , c. 78v.; e in

G I A N C A R L O R E N Z I , Sestino. Storia civile e religiosa del Cinquecento, Sestino 1973, pp. 57-58. A i fini del presente studio, inteso come contributo al recupero della storia feretrana attraverso le fonti locali, cito una tantum i precedenti lavori, utili per riferimenti archivistici e bibliografici, che pertanto d'ora in avanti dò per acquisiti: R E N Z I , Antiche vicende dei confini tra Marche e Toscana, S. Leo 1974, in


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Con tale avvenimento si apre un capitolo nuovo per questi territori, che rappresenta una discriminante epocale e, di fatto, ribalta i tradizionali e naturali rapporti economico-politici, ma anche quotidiani, della zona, innalzando inconsuete barriere e creando non pochi problemi da un punto di vista pratico tra popolazioni che avevano coesistito con evidente pragmatismo all'interno di una realtà politicamente e naturalmente omogenea: difficoltà riverberate, più o meno chiaramente, nelle testimonianze documentarie residue, pur in assenza, per rarefazione delle fonti, di un quadro sistematico della situazione. Il trauma della cessione «in pegno», comunque, è attutito da un insieme di provvedimenti con i quaU la Repubblica di F i renze cerca di venire incontro ad esigenze elementari: a Sestino, ad es-, concede, o mantiene, ampie guarentigie e privilegi vari, confermati periodicamente per tre secoli, in pratica fino e oltre le riforme leopoldine della seconda metà del Settecento (2): giacché se esse introducono libertà di commercio all'interno del Granducato non toccano le consuetudini dei rapporti commerciali internazionah; e tali erano i rapporti tra l'allora Vicariato di Sestino, la Contea di Carpegna e gli ahri territori della Legazione di Urbino e della Legazione di Romagna. Confesso, però, di non essere ancora riuscito a rintracciare i documenti originali e completi di tali provvedimenti, né U riporta l'ampia raccolta legislativa del Cantini (3) e pertanto è impossibile illustrarli e prendere conoscenza esauriente dei rapporti tutelati e leciti

come della gamma di illegalità nelle relazioni tra le varie zone Umitanee. Infatti, rescritti granducaU, partiti della Podesteria, corrispondenze tra giusdicenti locaH e organi magistratuali fiorentini, ribadiscono tout-court: «Stian fermi li antichi privilegi», senza dilungarsi nella loro esplicitazione. Si intuisce, comunque, che essi riguardano usi e consuetudini amministrative, rapporti ed aspetti economici e commerciali in riferimento ad uno status evidente di comunità di confine. Certo é che i rapporti Sestino-Montefeltro, a partire dal 1520, acquistano una valenza nuova, una complessità che é direttamente riferibile al quadro delle relazioni poHtiche che si instaurano tra gh Stati dell'Itaha Centro-Settentrionale. Sestino diventa, così, motivo di pressione e linea di demarcazione della politica medicea verso Carpegna e Urbino — le Legazioni di Urbino appunto e di Romagna — nel quadro di un complesso gioco di rapporti dinastici e non solo di essi (4). Ma la grande politica passa sulla testa delle popolazioni locah. Crescono, così, le difficoltà quotidiane, perché ai consueti disagi derivanti da persistenti rapporti e forme di una economia di tipo feudale e piuttosto chiusa, si sovrappongono — per i Sestinati — gli impacci derivanti dalla posizione di marginalità geografica rispetto all'area della Repubblica Fiorentina prima e del Granducato poi, con una casistica di difficoltà e problematiche giornaliere indubbiamente indotte e nuove. Basti intanto accennare che in un territorio giurisdizionalmente intersecato da autorità diverse e spesso tra loro in conflitto, la tutela delle

modo particolare il cap. I H e il paragrafo sull'estrazione delle colte e la Legge 4 luglio 1 5 6 2 , pp. 6 7 ss.; I D . , Progetto di permute tra Granducato di Toscana e Contea di Carpegna, in «Studi Montefeltrani», V ( 1 9 7 8 ) , pp. 21-56; I D . , Momenti dell'insorgenza nell'Appennino tosco-marchigiano ( 1 7 9 9 ) , in «Studi Montefeltrani», V I - V I I ( 1 9 7 8 - 7 9 ) , pp. 113-197; I o . , Spigolature d'archivio, in Monterone centro storico montano, a cura di G . R E N Z I e P. L . R U P I , Sestino 1978, pp. 4 5 - 6 8 ; I D . , L'Abbazia del Sasso di Simone e il territorio di Sestino. Appunti, in: A A . V V . , / Benedettini nella Massa Trabaria, Sansepolcro 1 9 8 2 ,

(4) Cfr. E N R I C O C O P P I , La fortificazione del Sasso di Simone, S. Leo 1975 e, dello stesso: / / Capitanato di Giustizia del Sasso di Simone e la politica di Co-

pp. 1 6 3 - 1 7 0 .

( 2 ) Cfr. Legislazione toscana raccolta e illustrata da L O R E N Z O C A N T I N I , Firenze 1 8 0 2 , I , pp. 2 0 9 - 2 1 1 , 3 3 2 , 3 3 7 ; I X p. 2 2 7 . Nell'Archivio Comunale di Sestino ( A . C . S . ) i documenti più interessanti nella f. 3 2 1 , 1 : Partiti della Podesteria di Sestino. (3) Legislazione toscana, cit.

simo I, in « G . S P I N I , E . C O P P I , G . R E N Z I , A . P O T I T O , / / Capitanato di Giustizia

del Sasso di Simone. Atti del TV centenario», Sestino 1977; I D . , L'Appennino tra Toscana e Marche: fra politica del Principato mediceo e Ducato di Urbino, in «La montagna tra Toscana e Marche. Ambiente, territorio, cultura, società dal medioevo al XIX secolo», a cura di S E R G I O A N S E L M I , F . Angeli 1984, del quale volume risultano utili numerosi contributi, con relativa bibliografia; G I O R D A N O C O N T I , La salvaguardia del territorio nella Romagna Fiorentina sotto Cosimo I, in «Il potere e lo spazio; riflessioni di metodo e contributi, Firenze 1 6 - 1 7 giugno 1980, Convegno dell'Istituto di Storia dell'Architettura e di Restauro dell'Università di Firenze», Firenze 1980; A M E D E O P O T I T O , Premesse e documenti inediti per la storia della fortezza del Sasso Simone, in «Studi Montefeltrani», I ( 1 9 7 1 ) , pp. 8 1 - 8 4 .


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proprietà che vengono a trovarsi al di là dei confini, la capacità di hbero uso e di utilizzo delle stesse diventa problema di seria soluzione, che incide, nonostante qualche tentativo di composizione a livello legislativo, sull'economia e sulla vita quotidiana di non poche famiglie. E in effetti si assiste per alcuni decenni, nella prima metà del Cinquecento, ad azioni violente e banditesche tra varie comunità, magari per l'estrazione di qualche vettura di fieno o per attestare i l diritto del pascolatico sui propri possedimenti nelle «exclave» (5). Tentare, pertanto, di rintracciare momenti di storia feretrana e sestinate in questa congerie di avvenimenti e di microcosmi politici che nel Cinquecento caratterizza ancora la vita delle alte valli del Marecchia e del FogUa, porta ad enucleare alcuni argomenti significativi, e cioè: a) rapporti di tipo economicocommerciale; b) rapporti di ordine pubblico e sanitario; c) rapporti giurisdizionali e confinali. Sfugge, invece, direi totalmente, r altrimenti ricca casistica della realtà rehgiosa, altrettanto densa di rapporti-scontri tra Piviere nuUius di Sestino e diocesi di Montefeltro (6). Ma le testimonianze nell'archivio di Sestino sono scarsissime e slegate, con salti di epoche, vuoti vistosi, documenti spesso non originah, in copie ormai mal conservate. Esse consentono solo e soltanto segmenti di microstorie e non possono fare a meno di riscontri in altri fondi archivistici. L'Archivio Comunale di Sestino, infatti, oggi comprende, nella sezione «Archivio storico» (secondo la riorganizzazione — direi discutibile — fatta nel 1971) n. 360 filze di Lettere, Istanze, Suppliche, Circolari, Negozi vari. Bilanci, Partiti comunitativi e della Podesteria, Saldi, Tasse, Dazzaioli, Carteggi, Volumi a stampa di leggi e ban-

di. Esso risulta ampiamente mutilato nel tempo, e soprattutto in epoche recenti. G h «inventari» conservati dal 1637 a tutto l'Ottocento tramandano notizie di consistenti e certamente interessanti documentazioni (7). A i materiah archivistici residui sfuggono pressocché totalmente le vicende del passaggio a Firenze e le tensioni conseguenti, come altri fatti d'arme o pohtici di notevole valore storico: cito la presa di possesso della contea di Carpegna del 1570 e le due successive occupazioni del 1738 e del 1749; l'assalto a Bascio e a Gattara da parte di truppe sestinati nel 1692 o le stesse vicende del cosidetto «triennio rivoluzionario» a fine Settecento, quando popoli del Montefeltro e della Massa Trabaria insorgevano contro i «partitanti francesi»; né è meglio documentata la evoluzione dei rapporti economici e sociah tra le varie comunità di confine. Megho sopperiscono — in alcune cose — i hbri parrocchiah, che registrando le locahtà di origine dei censiti, danno conto di una certa osmosi della popolazione sestinate, che ingloba provenienze diverse dal Montefeltro, dalla Romagna pontificia o da altre zone dello Stato della Chiesa; o danno notizia di qualche evento calamitoso, come l'epidemia del vaiolo del 1730 (8) che colpì in modo particolare gli agglomerati di Palazzaccio e di Corgnano, della Contea di Carpegna ma «a un

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(5) Più carte in: A . S . F . , Confini, f. 61. L e relazioni commerciali e politiche soggiacquero a notevoh tensioni con l'applicazione della Legge 4 luglio 1562 «sopra l'extrattione de Grani, Biade et altre Grascie» che proibiva ogni forma di commercio con i territori forestieri. (6) In materia rimando, per un approccio complessivo, al volume: A A . V V . , La pieve di Sestino. Atti del convegno. Rimini 1980, al precedente lavoro: R E N Z I , Sestino. Documenti e sinodi del Piviere Nullius, Sestino 1976, nonché ai quattro volumi di E R C O L E A G N O L E T T I , / Vescovi di Sansepolcro, Sansepolcro 1972-1975.

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(7) A . C . S . , f. 359. Contiene quattro volumi di inventari: Inventario delle Robbe del Palazzo di Giustizia di Sestino (1637); idem del 1757, del 1815 e del 1834, All'interno di ogni volume vi sono rendiconti periodici sullo stato e sulla consistenza dei materiali. L a «consegna» del 1790, del cancelliere Jacopo FiUppo Bessi, elenca: L e tavole ove sono notati tutti i Giusdicenti stati a Sestino dal 1521; 55 filze di Civih e Criminah dei Potestà di Sestino dal 1525; 298 filze di Civ. e Crim. dei Capitani di Giustizia del Sasso; 30 filze di Civ. e Crim. dei Luogotenenti del Capitano di Giustizia del Sasso; 37 filze di Civ. e Crim. dei Capitani di Sestino; 15 filze di Civ. e Crim. dei Vicari di Sestino (fino al 1790, anno in cui fu compilato); 12 filze di Cancellieri; 52 filze di Estimi; 28 Libri vecchi di Partiti; 73 Libri di Saldi, 18 DazzaioH; 30 altri libri diversi, di vario argomento, a cominciare dal 1500.1 suddetti Inventari contengono anche «l'Inventario di tutti i Civili dei Giusdicenti, Filze de Cancellieri, Libri d'Estimo e Partiti, Saldi, Dazzajoli et altro esistente nell'Archivio della Comunità della Badia Tedalda, come ancora de Mobili ivi ritrovati». (8)

A R C H I V I O P A R R O C C H I A L E D E L L A P I E V E D I S. P A N C R A Z I O D I SESTINO,

Libro dei Mortiparvoli dal 1708 al 1783 (in pessimo stato; sul frontespizio: dal 1708 al 1719). Per le accennate vicende della Contea di Carpegna, cfr. F R A N C E S C O V I T T O R I O L O M B A R D I , La Contea di Carpegna, Urbania

1977.


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tiro di schioppo» da Sestino e dipendenti, nello spirituale, dalla Pieve di S. Pancrazio. Solo accenni indiretti, ad esempio, alla citata complessa situazione tra Firenze e Carpegna intorno al 1738-1750, consistenti in riscontri documentah sulle marce rotte del Reggimento di Romagna che, portandosi nei feudi di Scavolino e di Carpegna per dare saltuariamente il cambio alle truppe occupanti, sostano a Sestino come ultima tappa di avvicinamento (9). C'è, comunque, quel tanto che basta ad offrire spunti per tentare con veroshniglianza considerazioni per alcuni momenti di ricerca.

gono costituiti «picchetti» e controUi ogni qualvolta occorra bloccare i traffici commerciah con gli stati alieni. Si può esemplare l'assunto sulle disposizioni degh anni 1712/1714 in occasione della diffusione della peste bovina: peste che, entrata in Italia dal Nord e dall'Est dell'Europa, rifiorisce insistentemente nei territori della Chiesa; nei posti di guardia, pertanto, si costruiscono «casini» o «casotti», si sbarrano le strade tra Vicariato da una parte e Carpegna e terre della Chiesa dall'altra con «rastreUi»; si «rompono» i viottoh e qualsiasi posto atto ad un facile transito, ponendovi inoltre, gruppi permanenti di guardie (11). Così è anche nel 1723, quando — nonostante le precauzioni addotte per fronteggiare il «male di Provenza» (altra epidemia bovina) — si diffonde la voce che sono giunte mercanzie e mercanti nei porti dell'Adriatico e, conseguentemente, si proibisce, da Firenze, l'accettazione di merci provenienti dalla Legazione di Urbino, da quella di Ravenna e dal territorio di Ancona, se non accompagnate, ovviamente, dalle fedi di Sanità (12). Anche da tutto ciò è evidente che il commercio e la parteci-

a) Rapporti economici e commerciali Per l'economia e per i commerci — ad es. — emergono tre direttrici di transito: lungo la valle del Foglia, con il punto nodale alla dogana di Monterone; lungo l'Alta Valmarecchia con l'altro punto nodale al Ranco; e, a partire dalla fine del Cinquecento, lungo i crinah Petrella-Sasso di Simone-Carpegna (quella che anche oggi è mentovata come «strada maremmana»). V a ricordato, infatti, che proprio al Sasso di Simone, diventato sede del Capitanato di Giustizia, si spostò il baricentro ufficiale dei commerci e che vi si svolgevano fiere di grossa importanza, che misero in ginocchio l'economia e i traffici precedentemente ubicati in Sestino, già capoluogo della Podesteria (10). Questi tre, dunque, sono i punti nevralgici — per semplificare — dove ven-

(9) A . C . S . , f. 6: Filza di Bilanci, Reparti di Macine, Lettere etc. dal 1738 a tutto il dì 15 Novembre (?); e f. 7: Civile di lettere et altro attinenti alla Cancelleria di Sestino al tempo di M. G. Bonaventura Mercanti (1752-1759); varie notizie sull'argomento in A . S . F . , Confini, f. 446. (10) «Era un'antica tradizione di quelle popolazioni effettuare la fiera in ogni domenica di giugno su al Sasso» ( E . C O P P I , La fortificazione, cit. p. 79). Per questo fu costruita una apposita loggia ai piedi del ciclopico baluardo naturale. Probabilmente l'usanza risaliva ai tempi più fulgidi della abbazia benedettina, centro di innumerevoli contatti, ma era riferita anche alla stagione dell'alpeggio, giacché a giugno già le «bandite» e i prati montani erano frequentati da numeroso bestiame: e le pasture del Sasso erano le più ricercate per la qualità delle erbe. Sulla decadenza economico-commerciale di Sestino capoluogo

concordano più testimonianze:... «Questo luogo di Sestino ha mancato a sai, et in mercantie in traffichi et altre cose necessarie et utile per servitio de vassalli, come mercati et altro»... ( A . C . S . , f. 319,1: Partiti di Sestino, partito del 17 agosto 1617); «Atteso che già molti anni sono nella Terra di Sestino si facesse il mercato e che ora sia dismesso già un tempo e si veda resultar in danno tanto defacultosi che non possono smaltir le sue grascie havendo lontano il mercato della Pieve S. Stefano. ..eie povere persone non possino avere commodo di provvedersi il vivere, e sendo in sito commodo dove li habitatori delli Stati alieni possono venire con grascie di diverse sorte che puossino render fertile et abundante il Stato di S.A.S. e sia una terra commoda dove si possino introdurre molti arti di fondachi di panni botteghe di colami et altre come altra volta di queste merci fioriva». .. il consigho della Podesteria inoltra supplica al Granduca per poter fare ogni settimana, il giorno di giovedì, il mercato ( A . C . S . , f. 320, I V , Partiti della Podesteria (26 lugho 1648). (11) A . C . S . , f. 3: Filza di Lettere del Cla.mo Magistrato della Sanità di Firenze, dal 22 novembre 1712 all'anno 1716, ce. 3, 6, 32 dove, tra l'altro, si ordina di tenere in quarantena 35 bestie vaccine dei mercanti di Carpegna e di S. Agata (1713); e ce. 612 ss., 651, 653, 695. Altri posti di guardia, a Sestino, erano alla Porta della Pieve — per controllare chi veniva da Carpegna e da S. A n gelo in Vado — e alla Porta di Sotto (ivi). (12) Ivi, c. 652; altre notizie sul problema a ce. 654, 656, 674, 675.


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pazione alle fiere e ai mercati del sestinate registrano presenze notevoli e prodotti provenienti da o esportati nello Stato pontificio, nel Montefeltro e nella Romagna. A Sestino, infatti, si portano al «mercatale» bestiame locale ma anche «canape e merci provenienti da Cesena e da Rimini» (13). E al Ranco transitavano persone in gran numero da e per queste località; e una nota (1723) informa: «Rivedino ed esaminino le fedi di sanità delli Possessori soliti transitarvi perr andare al Perdono di Assisi» (14). Né va dimenticato che per queste contrade appenniniche usavano passare mercanti e pastori con mandrie di buoi o greggi di pecore per andare e tornare dalle Maremme (15). Le angustie stagionali, conseguenti anche ad un ciclo di clima freddo e piovoso (16), e una legislazione progressivamente restrittiva, mettono in evidenza la variegata molteplicità delle interconnessioni quotidiane tra ambienti di confine. L'inizio del Seicento è tra i periodi più critici. Nel 1601, infatti, come annotano i partiti della Podesteria sestinate, mancano mighaia di stala di grano per poter sfamare la popolazione. Ciò causa gravi disordini anche perché i prezzi erano da mercato nero e incon-

(13) Approfittando della Legge dell'll aprile 1778, con la quale si introduceva, all'interno del Granducato, «la libertà del Commercio del Bestiame», Sestino chiede «la permissione di poter fare nella Terra di Sestino, oltre la solita della prima domenica di giugno, l'altra (fiera) dell'ultima domenica di agosto ed i mercati ogni giovedì, dal 1" Novembre fino alla fine del Carnevale di ciaschedun anno»... I l Rescritto di Pietro Leopoldo acconsente «.purché tanto in occasione delle Fiere e de Mercati non fosse lecito introdurre... pannine, drapperie forestiere o altri generi di robe prohibite, né di estrarre senza le opportune licenze tutte quelle mercanzie e prodotti nazionali che a tenore delle Leggi veglianti non debbono uscire dal Gran Ducato» (A.C.S., f 10: Filza di Lettere, Suppliche, Istanze attinenti alla Comunità di Sestino dal 1763 al 1783, c. 92). (14) A . C . S . , f. fuori inventario, c. 644. L a fiera del Ranco si svolgeva il 28 e il 29 settembre; un'altra fiera si svolgeva il 25 luglio al passo di S. Cristoforo: in tutte e due vi si portavano bestiame del paese, canape e poche merci provenienti da Cesena e da Rimini {Ivi). (15) Sulla transumanza e sulla emigrazione in Maremma varie notizie sparse nell'archivio comunale di Sestino e in quello vescovile di Sansepolcro attestano il fenomeno in atto fin dalla prima metà del sec. X V I . (16) Cfr. A N T O N I O V E G G I A N I , Variazioni climatiche e presenza umana nella montagna tra Toscana e Marche dall'Alto Medioevo al XIXsecolo, pp. 35 ss., in La montagna tra Toscana e Marche, cit.

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frollati. I l Consiglio Generale della Podesteria stabilisce, perciò, che nel vendere sia al mercato che alle case, in tutta la Podesteria e il Piviere si debbano osservare i prezzi che corrono nel mercato di Pieve S. Stefano, la piazza più propinqua del Granducato (17). L a carestia si ripete. Nel 1612 si cerca grano «per poter sovenire li poveri che non trovano grano da comperare, per ohviare a ogni scandalo che potesse seguire, a ragione di mezzo scudo per ciascuno» (18); e nel 1619 «atteso che nella podesteria si sentivano generalmente di gran stridi e clamori che facevano i poveri, i quali per la gran mancanza de grani non possono sfamare le loro famiglie»... e inoltre, si osserva a maggior preoccupazione, «sono stretti di qua da l'Alpi» e se non vengono aiutati «dalla mano di S.A.S. non hanno in che sperare, poi che sono circondati dal Stato di Sua Santità, d'Urbino et dal Sig. Conte di Carpegna, ne quali luoghi oltre il poco riscosso che vi è stato il presente anno, vi hanno anco detti prencipi messi bandi stravagantissimi che nessuno dalli loro stati possa estrarre grani, né altra sorte di biade»... per cui i Rappresentanti di Sestino chiesero di poter usufruire di mille stala di grano della fortezza del Sasso e di mille presenti nei magazzini del Granduca a Scavolino (19). Le vie commerciali del Montefeltro, della Romagna e dell'Urbinate, erano anche, ovviamente, più comode, spesso più convenienti economicamente ma sovente politicamente impra-

(17) A . C . S . , f. 1: Filza di Lettere, Saldi, etc. dal 1664 al 1701, c. 518: partito del 15 aprile 1601; f. 298, I I I , Ragioni della Podesteria di Sestino, c. 70. Sulle difficoltà conseguenti alle restrizioni commerciali con l'estero, interviene il Consiglio della Podesterìa (21 febbraio 1621): «Atteso il bando andato alli giorni passati che non si possono spendere monete forestiere, però stante che la Podesteria sia circondata da Stati alieni con li quali ha continuamente comertio e necessità di ricevere e dare d. e monete forestiere si come sempre ha fatto... però per poter mantenere il comertio con altri stati alieni et non incorrere in pregiuditio alcuno circa il ricevere et spendere d.e monete in d.a podesteria»... viene inoltrata apposita supplica a S . A . S . ( A . C . S . , f. 319, I , Partiti della Podesteria di Sestino, c. 68: partito del 21 febbraio 1621). (18) Ivi, c. 6: partito del 20 settembre. Cfr. anche A . C . S . , f. 1, cit., c. 435 (del 20.1.1602). (19) Ivi, c. 43: partito del 20 ottobre. U n a proposta dell'Abbondanza è di utilizzare 1000 staia di grano, che sono in deposito al Piobbico; si obietta, però, che «era cosa difficile ad haverlo per essere in stati alieni»... che la licenza era


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ticabili: soprattutto i l Settecento dà conto di questa dicotomia. Quando, ad es., il Magistrato dei Nove comunica alle comunità che gli approvvigionamenti di grano e di altri generi frumentari vanno fatti presso i magazzini di Firenze e di Pisa, Sestino, il primo maggio 1767, considerato «ilgrave dispendio che occorrerebbe per il trasporto da Firenze ed il comodo altresì di poter fare tutte le necessarie provviste a Rimini con minor dispendio e qualche altro vantaggio per il corso lungo della moneta»... rinunciò agh approvvigionamenti (20). Mentre qualche lustro più avanti, sempre Sestino, con rescritto del 27 ottobre 1794 verrà autorizzato «in vista del di lei ristretto territorio e della di lei situazione in vicinanza di Stati Esteri, dai quali è proibita l'estrazione dei beni frumentari, di procedere all'acquisto nell'interno del Granducato di quella quantità di grani e di legumi necessari per l'uso e consumo dei comunisti, come pure a poter fare la vendita a piccole misure o sia a minuto ai poveri incapaci di provvedere i detti generi all'ingrosso» (21). La posizione di confine e la intersezione dei territori pontifici e dei feudi di Carpegna e di Scavolino con quelh di Sestino hanno creato una situazione che ha sempre alternato momenti di conflittualità a momenti di collaborazione: questi in parte facilitati dalla natura dei terreni e — per le zone comitali a ridosso del capoluogo sestinate — dall'appartenenza alla parrocchia di S. Pancrazio di Sestino; per Dese e per Campo dall'appartenenza comunque al Piviere con sottomissione al suo Ordinario; anche Petrella, benché solo nell'Ottocento entrerà a far parte dei-

la diocesi di Sansepolcro, restando fino allora parrocchia del Montefeltro, unitamente alla cappella di S. Maria Maddalena del Sasso di Simone, nel temporale è, ab antiquo, universitas sottomessa al giusdicente sestinate. La eccentrica ubicazione di Sestino — è bene sottolinearlo ancora — creava difficoltà e situazioni complesse per ogni genere di commerci: dalla vendita del bestiame, al rifornimento del sale, all'estrazione delle grasce o, in caso di penuria, alla compravendita del grano e delle biade, facihtando — di fatto — il contrabbando e, a lato, il banditismo. Non pochi cercavano di «arrangiarsi», tentando di evadere i balzelh su questa o quella merce, o di sfuggire al fisco o di guadagnare di più contrabbandando i vari generi (22). Questi problemi, invero, sorsero presto se già il 14 luglio 1522 gli Otto di Pratica della Repubblica Fiorentina scrivono «Principi et Domino Francisco de Ruvere, Duci et Amico nostro carissimo», protestando che «intendiamo et per littera del nostro Commissario di là (S. Leo) et per querele delle persone proprie che di furto la nocte vengono homini di V. Excellentia et rubano li grani che sono sulle possessioni di quelli nostri homini et li portano dove a loro piacere, senza haver respecto alla convinctione et convenctioni nostre» (23). Qualche giorno prima (9 giugno) avevano scritto che «U homini di Montefeltro ci restano debitori di certi residui di Taxe et altre cose corse avanti la confederatione facta con V. S. de quali non pensiamo seconda la Capitulazione, ci possa esser denegata la exatione: Et per tanto preghiamo V.S.

stata promessa ma non ottenuta «anzi s'intende che S. A. d'Urbino vadi in ritirata in concedere tal licenze»... ( A . C . S . , f. 319, cit., I , Partiti della Podesteria di Sestino: partito del 15.3.1619, c. 46; nella stessa f., I V , Libro delle Ragioni della Comunità di Sestino, e. 73, sotto l'anno 1620, è registrato il rimborso spese a Sinibaldo Marini per essere stato ambasciatore a Firenze, Castiglion Fiorentino e al Piobbico a trattare grano per la Podesteria. (20) A . C . S . , f. 322, V , Partiti di Sestino, c. 99. (21) A . C . S . , f. 324, I I I , Libro dei partiti di Sestino (1794-1799): partito del 9 dicembre 1794. Poco dopo (1796) vari abitanti del Vicariato di Sestino e della Contea di Carpegna, che hanno i beni disseminati in tutti e due i territori, chiedono che in deroga al Motuproprio del 30.10.1795 venga loro permesso d'introdurre dallo «Stato estero» il proprio bestiame bovino per farlo lavorare e pascolare nelle rispettive proprietà. Ma S. A . risponde che si deve stare «agU ordini veghanti» ( A . C . S . , f. 322, Libro dei partiti, cit.).

(22) Cfr. C O P P I , La fortificazione, cit., pp. 102 ss. Anche l'assassino del Provveditore alla fortezza del Sasso Leonardo da Nipozzano, si rifugiò, appena commesso il delitto, nella Contea di Carpegna {Ivi, p. 86). Notizie sul banditismo anche in A . S . F . , Mediceo, f. 246, Registro di lettere del G . Duca Francesco dell'anno 1576-1577. U n a sintetica bibliografia, con accenni alla situazione sestinate, in: R E N Z I , Monterone, cit., pp. 52-53 e n. 19. I l trasferimento sul Sasso della «Giustizia» è visto come uno degli elementi concorrenti al dilagare della malavita, come si deduce da questa e da altre testimonianze: infatti si chiede ripetutamente il ritorno a Sestino del Capitano di Giustizia con la corte perché «stando la Giustizia sul Sasso, che la notte è riserata, seguono per questi confini vari} accidenti»... ( A . C . S . , f. 320, I V , Partiti della Podesteria di Sestino; Partito del 20.6.1640). (23) A . S . F . , Urbino, C I . 1, Div. G , f. 236, Parte I , c. 7.

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che permetta al nostro Commissario di San Leo o a suo mandato risquoter et ritrarre li residui sopradetti»... (24). Problemi, inoltre, che ricorrono anche nelle testimonianze dell'archivio di Sestino, anche se circoscritte ai rapporti Sestino-Carpegna. È del 1583 una denuncia dei Rappresentanti di MartigUano contro S. Sisto perché «sono venuti di notte tempo et hanno portati via li grani in cova et fieni existenti sopra già tali loro beni».., (25). È una delle concause delle vertenze confinarie, e durano secoli. Molto più tardi, infatti, nel 1722, c'è penuria di grano; si temono contrabbandi ed estrazioni dei beni frumentari, per cui l'Abbondanza raccomanda di vigilare. D a Sestino si risponde che «si erano inventariati i grani per la Podesteria e si ragguagliò del meno prezzo che valeva nello Stato d'Urbino e che il Conte di Carpegna aveva aperto i suoi granai che veniva di molto grano nello Stato d'Urbino dalla volta di Rimino ed il prezzo minore di quello valeva qui, e che da Carpegna ne veniva anco in questo Capitanato e a men prezzo di quello si vendeva qui» (26). Dell'anno prima — 1721 — è un reclamo di Silvio Santi, subappaltatore del Sigillo della carne venale della Podesteria contro Giuseppe Bartolucci «suddito e soldato di S.A.R., il quale possiede qui a Sestino case ed effetti, si è andato di qui e si è messo in logo detto il Palazzo vicino a Sestino un quinto di miglio, Contea di Carpegna, a fare macello di carne venale e vendere la d. Carne non solo a quelle poche persone che sono dove fa detto macello ma ancora tiene moniti tutti questi di Sestino et altri luoghi sottoposti al detto subappaltatore»... (27).

Nel 1723 — altra testimonianza significativa — si inquisisce don Nicola Magi, che ha fatto aprire un macello nella Contea di Carpegna, precisamente al Poggio, e continuamente di colà trasporta le carni a Sestino (28). L'Arte de Quojai di Firenze, a sua volta, il 9 maggio 1721 raccomanda al Capitano di Giustizia di vigilare per «levare li abusi del Ouoio forestiero» (29) e nel 1724 sollecita la riscossione di somme dovute da cinque debitori: ma di essi ben due si sono rifugiati fuori dello Stato e per uno è specificato nella Contea di Carpegna (30). Anche l'Arte dei Mercatanti della Città di Firenze intima al Camarlingo l'obbligo di riscuotere somme di denaro che devono essere corrisposte per i soliti censi annui spettanti a tale Uffizio per la festività di S. Giovanni Battista; tra i debitori sono elencati i Conti di Carpegna (anni 1721-1724), cui la notifica vien fatta «alla Casa del Suo podere» di Calgaglia (31).

(24) Ivi, c. 5. (25) A . C . S . , f. 297, V , Partiti di MartigUano: partito del 31.7.1583. (26) A.C^., filza fuori inventario, cit., c. 771. Lettera dei Rappresentanti di Sestino, del 19 ottobre 1722, in risposta al Provveditore dell'Abbondanza di Firenze, Domenico Gaetano Vinai. L'Abbondanza ha avuto sentore che il raccolto nello Stato d'Urbino è stato ancora più scarso che nel Sestinate, per cui teme che i più grossi possidenti che hanno scorte di grano vecchio e biade possano non venderle sul posto per esportarle di contrabbando e a maggior prezzo negh Stati esteri {Ivi, c. 721). (27) Ivi, c. 451: Lettera del 28.9.1721. D a Firenze Niccolò Viviani gli risponde il 26.1.1722 (c. 432): «Sta benissimo il Suo contegno con Giuseppe Bartolucci, che si è messo a fare il macello nella Contea di Carpegna... procuri pertanto di tenerlo in timore»...

b) Rapporti di ordine pubblico e sanitario Con tutto ciò è già stato reintrodotto, indirettamente, un nuovo aspetto delle quotidiane vicende confinarie: il banditismo e l'espatrio. Banditi e malviventi, in vari epoche, dal Cinquecento al Settecento, rendevano insicuri i confini e la vita delle popolazioni di qua e di là delle varie giurisdizioni. A Monterone la facevano da padroni e gli abitanti erano costretti a rinchiudersi in casa al calar del sole; i lavori in campagna venivano messi in pericolo (32); e — come logica conseguenza di questo stato di paura — sopratutto nel Settecento le case di nuova costruzione venivano munite di feritoie ai lati delle porte per poter

(28) Ivi, ce. 480, 522, 537. (29) Ivi, c. 865. • (30) Ivi, ce. 101 e 1013. (31) Ivi, ce. 1136 e 1140. (32) Vedi nota 22. In proposito scrive l'arciprete Roberto Magi nel 1574: Sestino «per essere in questi confini era molto travagliato da banditi... era un redotto de ladroni, et li Terrazzani saranno forzati per questo timore dishabitare»... e lui stesso «sarà forzato per questa causa abandonar la residenza e cura mia per non esser angariato da gente di mala vita» ( A . S . F . , Mediceo, i. 665, c. 36: Lettera del 2 settembre 1574 al Gran Duca).


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Sparare archibugiate contro i malfattori. Questi vivevano, spesso, a cavallo del confine, spostandosi a seconda del bisogno. Per combatterli si realizza senza difficoltà, in alcuni momenti, una buona collaborazione tra la Podesteria di Sestino e le autorità feretrane. Alcuni episodi chiariscono il problema. Nel 1722 da S. Leo si scrive al Capitano di Giustizia «che Carlo Piselli detto il Guercio dei Pettinari sia per venire in codesta Terra... come pure Gio. Francesco Giorgi da Monte Gridolfo, detto Faraone, Bandito della Legazione d'Urbino, abiti quasi di continuo in luogo detto Montirone» (33). I l Guercio dei Pettinari o Guercio di Piagnano, sembra capeggiasse una piccola banda. Per catturarli — scrive ancora il Podestà Mattei di S. Leo al Capitano di giustizia Antonio Masini — «se a Lei bisognasse la mia squadra mi faccia avvisato il giorno avanti che farò mandargliela subbito puntualmente, siccome penso farà Ella a me bisognando»... (34). Una certa solidarietà, indubbiamente a volte interessata, si riscontra non solo per problemi, come questi, di ordine pubbhco ma in occasioni particolari. Nel 1724, ad es., i Rappresentanti di Sestino chiedono a Firenze, e ottengono, di «andare a macinare nel fiume Metauro e nella Contea di Carpegna al molino posto nel fiume Marecchia, a cagione della presente siccità».., (35). E una simile richiesta si trova registrata anche nel 1601, quando i Rappresentanti della Podesteria supplicano S . A . R . «per ottenere di poter andare a macinare al mulino del Palazzo,

Stato del Sig. Conte di Carpigna, non c'essendo possibile in tempo d'instate macinare a altro mulino, se non con grande loro scommodo»... (36). Alcune carte processuaH chiariscono sufficientemente le anomalie dei rapporti tra le varie comunità di confine, tra popolazioni che vivevano gomito a gomito ma con legislazioni difformi e contraddittorie; il gioco delle rappresaglie, di qualche sopruso, di evasione delle gabelle e di sconfinamenti — sopratutto tra Sestino e Carpegna — era, in alcune epoche, pressocché quotidiano e direi che è esemplarmente riassunto in un documento del 1730 (37):

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(33) A . C . S . , f. fuori inventario, cit., c. 131: Lettera al Capitano di Giustizia, del 18 aprile 1722. (34) Ivi, e. 132. Tali iniziative sono autorizzate dal cardinale Presidente della Legazione di Urbino. I vari ricercati, che frequentavano spesso fiere e mercati, per cui in tali occasioni si tenta di catturarìi, se assicurati alla giustizia dovevano essere condotti al tribunale del territorio in cui avveniva l'arresto. Altri atti di banditismo segnalati a c. 615. (35) A . C . S . , f. fuori inventario, cit., c. 770: Lettera del 21 settembre 1724 al Provveditore dell'Abbondanza, che acconsentì alla richiesta, raccomandando, però, di controllare che coloro che andavano al muhno riportassero poi indietro la farina. In precedenza c'è notizia di un reclamo del Pievano di S. Giovanni in Vecchio perché l'Abbondanza impedisce ai sudditi del Conte di Carpegna di andare a macinare «ad un mulino d'attinenza del Pievano, della cui rendita si serve per mantenimento della lampada davanti al SS. Sacramento» (Ivi, c. 767, dell'11.2.1721).

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. ..«Molti di d. Contea restano debitori con ogni contumacia a pagare le annue collette, et avendone fatte molte istanze al Governatore di d. Contea senza alcun frutto ne domandò a V. S. Ili, ma l'ordine della Ripresaglia contro qualche persona o bestiame della medesima Contea. ... Tali esecuzioni sono state fatte da molti altri Camarlinghi antecessori, attesoché gV Uomini della Contea sono durissimi a pagare e i poveri Camarlinghi non possono mettere di Suo il danaro per loro; ...La maggior parte di detti debitori per esimersi dal pagamento godono sotto altri nomi antichi, non tirando mai in sua faccia i propri Beni secondo le Leggi e Bandi di V.A.R.; ...Non è possibile eseguire altrimenti le raccolte annuali, le quali appena mietute senza alcuna licenza di V.S. III.ma o del Magistrato Clarissimo dell'Abbondanza portano via giacché son vicini ai confini e le buttano fuori di Stato»... Il groviglio della situazione è comprensìbile se si pensa che «se vogliamo cavar fuori le bestie dalla stalla e mandarle a bevere bisogna toccare il Stato di Fiorenza, giacché non vi è altro che la

(36) A . C . S . , f. 1, Filza di Lettere, Saldi etc. dal 1664 al 1702, c. 1522. (37) A . C . S . , f. 5, cit., piil carte non numerate. Si tratta di un esposto di Donna Agata Tellinari da Gattara contro sequestri e rappresaglie a suo danno nei possedimenti posti nel Capitanato di Sestino. Contro l'esposto compare davanti al Capitano di Giustizia l'ex-Camariingo di Rocchetta, Camillo di Tomaso di Castelnuovo, che fornisce la riportata versione, molto realistica, della situazione.


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Strada da mezzo» sottolinea a sua volta una testimonianza di parte comitale (38). Né è dissimile la sostanza su altri versanti della vita e dei rapporti quotidiani. Nello stesso periodo, infatti (1727), alla Confraternita di S. Bartolomeo di Sansepolcro che si lamenta di ricevere «da molti luoghi le creature innocenti o siano trovatelli, e specialmente venirne un buon numero da cod.to Capitanato di Sestino e Badia Tedalda senza riceverne da detti luoghi alcun annuo sussidio per il mantenimento dei medesimi», Sestino risponde, tra l'altro, che «essendo noi circondati dallo Stato Pontificio e diverse Contee, quando si venisse a qualche contribuzione, anche lo spedale di S. Sepolcro non potesse ricusare gl'Innocenti di qua, darebbe luogo a persone di farne incetta e che ancora i trovatelli forestieri sgorgassero qua per assicurarli dell'esito e con facilità grandissima si riempirebbe prestissimo l'ospedale e la Podesteria riceverebbe doppio aggravio» (39).

Città di Castello, Metola, Frontino, Calonato (Carpegna), Cavoleto, Torre Fossati, Valnaia, PennabiUi, Borgopace, S. Angelo in Vado, Casteldelci, e Fragheto (40).

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La stessa eterogeneità cosmopolita dei possessori di beni stabili contribuisce notevolmente ad aggrovigliare la matassa dei vicendevoh rapporti-scontri nelle zone di confine. I dati, esemplati sul Dazzaiolo del 1776 (ma una simile situazione è attestata fin dal Seicento), su un totale di oltre quattrocento iscritti, registrano una novantina di possidenti "forestieri", e precisamente: 19 di Miratolo, 11 di S. Sisto, 7 di Dese, 7 di Torriola, 6 di Bascio, 6 di Gattaia, 5 di Carpegna, 4 di Belforte, 3 di Corgnano (Carpegna), 3 di Castel de Fabbri, 3 di Figiano, 2 delle Balze, 1 per ognuna delle seguenti località: Petrino (Carpegna),

(38) A . C . S . , f. 10, Filza di Lettere, Suppliche, Istanze attinenti alla Comunità di Sestino dal 1763 al 1783, ce. 704 ss: dalle carte processuali di Maddalena di Angelo Grassi del Petrino, arrestata con alcune bestie vaccine dagli sbirri di Sestino; tutto ciò nonostante che esistesse uno Statuto di Sestino che ammettesse la reciproca estrazione dei grani «non già con tutta la Contea ma solo con li due luoghi del Palazzo e Corgnano, che sono incorporati nel territorio di Sestino e disgiunti dal corpo della d. Contea» (A.S.F., Reggenza, f. 722 e Statuti, Statuti di Sestino, 846. Questo tipo di contenzioso è ampiamente documentato nel volume M A R T E L L I N I - L O R I N I (a cura di), Voto a favore della Toscana nella vertenza con la S. Sede sulla sovranità delle antiche contee di Carpegna e Scavolino, Firenze 1860. (39) A . C . S . , f. 5, cit., inserto 9, ce. non numerate.

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c) Rapporti giurisdizionali e confinali L a stessa materia sostanzia gran parte delle diatribe che per secoli opposero comunità di Sestino, Conti di Piagnano e di Piandimeleto e Conti di Carpegna; e, più tardi. Granducato di Toscana, Conti di Carpegna e Stato Pontificio. Direi, anzi, che i documenti più importanti per la storia del Montefeltro conservati nell'A.C.S. indubbiamente sono questi che riguardano le vertenze dei confini. Su di esse, nelle quali compaiono da protagonisti o chiamati in causa grossi personaggi del mondo politico ed ecclesiastico, rappresentanti di nobili casate o semphci personaggi della zona; vertenze, ancora, che per secoh riempirono di «carte» (oggi preziose) gli archivi comunitativi e notarili, molto è stato scritto anche se a tutt'oggi manca un quadro d'assieme che sia il risultato di indagini definitive, comparate e sistematiche, in tutti gh Archivi possibiU: in quelh toscani, marchigiani, romagnoh, vaticani, locali e privati (41). L'argomento, infatti, per la sua complessità, per l'importanza — anche attuale — della materia e per i personaggi di volta in volta coinvolti, risultò un unicum — si può dire — di politica internazionale — per la capziosità di quella cessione «in pegno» di Sestino a Firenze, rivendicata e non definita per secoh — in parte sanato solo dall'unità d'Itaha e meritò la stampa delle «ragioni» di questa o di quella parte in causa fin dal 1602 (42). Avendone fatto

(40) A . C . S . , f. 224: Dazzaiolo dell'anno 1776. (41) Per l ' A . C . S . sopratutto la f. n. 14: Filza di Lettere, Istanze etc. attinenti alla Comunità di Sestino dall'anno 1784 a tutto Settembre 1788; inoltre: f. 12: Filza d'Ordini Sovrani etc. doppo il Terremoto del dì 3 Giugno 1781 etc; f. 13: Documenti riguardanti la Comunità di Sestino, del 1785; f. 5, cit.; f. 9: Filza di Lettere dal 1761 al 1763; f. 2: Filza di Lettere, Imposizioni di Dazio, Tassa di Macina etc. attinenti alla Comunità di Sestino (1707-1739); f. 10, cit. (42) G A S P A R E L O T T I , Consilium prò Ill.mo Comite Horatio Carpineo et eius Castro Castellatiae in causa finium communis defensionis cum Castro Martiliani Serenissimi Magni Ducis Aetruriae, Mutinae M D C I I ; M A R T E L L I N I - L O R I -


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GIANCARLO RENZI

Oggetto di una precedente monografia non insisterò qui sul problema, tanto più che gli studi si basarono sul materiale archivistico di Sestino, integrato dai fondi dell'Archivio di Stato di F i renze, con riscontri, infine, in quello comitale dei CarpegnaFalconieri; mi sembra però utile sottolineare che essi — anche quelli incompleti di Sestino — rappresentano indubbiamente una fonte inesauribile per la storia di un'ampia zona del Montefeltro — regione storica oggi percorsa — come ieri, invero — da una variegata configurazione amministrativa. I tanti personaggi che vi compaiono, i complessi segmenti di tante vicende ci danno un credibile quadro socio-economico-psicologico di varie epoche storiche, uno spaccato esauriente della micragnosa economia agricolo-pastorale, delle pastoie burocratiche, degli impacci legislativi per l'utilizzazione piena dei terreni, per il commercio e perciò stesso per la vita del conduttore «del sale», come dello spianatore del «pane venale». Ma da questi documenti e in questi problemi confinari si specchiano anche la società e la politica di vari Stati italiani dell'Itaha centrale: e per comprenderne le linee politiche ricamate in queste zone basti ricordare gli studi di Giorgio Spini e della sua scuola (43). Ma anche il hnguista e i l filologo trovano in tali documenti materiah interessanti, e parimenti il geografo, giacché essi rendono possibile anche una vasta mappa di toponimi in gran parte dimenticati o rarefatti eppure significativi per etimologia e sedimentazioni

N I (a cura di), Voto a favore della Toscana, cit., e, citato in esso: P O M P E O N E R I , Responsum in causa Carpinien. assertae possessionis Inter Serenissimum M. Etruriae Ducem ex una et S. Sedem ex altera. Documenti delle confinazioni e delle vertenze, ampiamente citati anche in A . M . Z U C C H I - T R A V A G L I , Animadversioni sull'Apologetico Feretrano, Venezia 1762 e I D . , Raccolto istorico ovvero Annali del Montefeltro, ms. in Arch. Comunale PennabiUi. ( 4 3 ) Agli studi di Coppi, già citati, aggiungo: G I O R G I O S P I N I (a cura di). Architettura e politica da Cosimo la Ferdinando I, Leo S. Olschki 1976; I D . , Cosimo I e l'indipendenza del Principato Mediceo, Vallecchi 1980; M . T A R A S S I , F . D I A Z , G . P A N S I N I , G . S P I N I (a cura di). La nascita della Toscana, Leo S. Olschki, Firenze 1980; L E O N A R D O R O M B A I (a cura dì), IMedici e lo Stato senese, 1559-1609. Storia e territorio, Roma, D e Luca, 1980; E L E N A F A S A N O G U A R I N I , Considerazioni sulle comunità appenniniche durante l'età moderna (relazione tenuta al convegno di studi «La montagna tra Toscana e Marche, 2 2 e 2 3 maggio 1982, Sestino-Badia Tedalda); G . C O N T I , La salvaguardia del territorio nella Romagna fiorentina, cit.

SESTINO-MONTEFELTRO: ASPETTI DI VITA QUOTIDIANA

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etnico-storiche, essendo spesso relitti linguistici connotanti arcaiche presenze che giungono fino a noi dalla latinità e dall'età barbarica (44). Il viaggio attraverso le «fonti locali» e la endemica conflittuahtà di un contenzioso minuto (ma dai molteplici riflessi) tra Sestinati e Feretrani in epoca moderna, se non raggiunge suggestioni particolari, aggiunge però motivazioni e sostanza per una «storia delle popolazioni» del Montefeltro, in linea con le scienze storico-antropologiche volte al recupero del «vissuto», del «sofferto» e del «quotidiano», quali aspetti reali di una condizione societaria ed economica a connotazione popolare: e pertanto se un'ultima considerazione può essere fatta, è nel senso che le varie raccolte e testimonianze documentarie residue vadano riconsiderate — anche dagli amministratori, dagli enti e dai legittimi proprietari (penso, tra l'altro, alle fonti parrocchiali e ai portati giuridici delle nuove norme concordatarie, alle contabilità aziendali e coloniche, agli epistolari famigliari e privati) — quale patrimonio «disponibile» da tutelare e valorizzare nell'interesse deUa conoscenza deU'uomo.

( 4 4 ) Cfr. I T A L O P A S C U C C I , L'Antiata tra leggenda e realtà, in «Scritti sul Montefeltro», S. Leo 1979 e lo., Appunti sui toponimi più significativi del Piviere, in A A . V V . , La Pieve di Sestino, cit.; M A R I O L O P E S P E G N A , Sestinum e la VI Regio: Umbria, Firenze 1 9 7 1 , p. 1 9 .


MARCO BATTISTELLI

miniere di zolfo a perticara


Un secolo di antiche vicende. É nostra convinzione che a Perticara non si estraesse zolfo prima del secolo X V I I I per non aver trovato alcun documento o altra fonte attendibile che ne faccia menzione. Questa asserzione trova valido sostegno nella testimonianza lasciataci da L . F . Marsili (1) che in un elenco delle miniere di zolfo della Romagna, in esercizio nel 1675, ricorda la miniera di Maiano di Sant'Agata (nel Montefeltro), ma non menziona alcuna miniera in territorio perticarese (allora romagnolo). Agli inizi del Settecento la miniera di zolfo di Maiano era coltivata da più di un secolo ed i lavori si estendevano fino alla sponda sinistra del torrente Panante (2), che segnava e segna ancora il confine con i l territorio perticarese. Non sappiamo però se in quegli anni si lavorasse anche a Perticara, mancando una qualsiasi documentazione al riguardo. Mal datata e palesemente ascrivibile al 1831 è la notizia secondo cui «nel 1730 circa le miniere di Perticara e Cavallino furono trascurate e sospese per paura dell'accentramento di operai ivi addetti alla estrazione e purificazione del minerale» (3).

(1) In A . S C I G L I , L'attività estrattiva e le risorse minerarie della regione Emilia-Romagna, Modena 1972, p. 63. Abbiamo già avuto modo di osservare che quanto scrisse il Franciosi al riguardo del rinvenimento di una miniera di zolfo «in quel di Perticara» nel 1632 è errato, riferendosi tale ritrovamento alla miniera di Maiano di S . Agata. (Cfr. M . B A T T I S T E L L I , Le miniere di zolfo del Santagatese, in «Studi Montefeltrani», S . L e o 1975, p. 38, nota 3). (2) M . B A T T I S T E L L I , op. d?., pp. 37-40.

(3) P. F R A N C I O S I , Vicende storiche di S. Leo, Rep. di S. Marino 1928, p.

HO.


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MARCO BATTISTELLI

MINIERE D I ZOLFO A PERTICARA

Sono dei primi di febbraio, infatti, i moti carbonari rivoluzionari che scoppiarono in Emilia-Romagna, Marche e Toscana, e a ragion veduta le autorità pontificie comandarono di sospendere i lavori nelle miniere di Perticara e Cavallino che impiegavano a quel tempo centinaia di operai. Verso il 1735 furono intraprese con certezza — così afferma A . Scicli (4) — ricerche minerarie nella zona del Panante (il torrentello che — come abbiamo detto — separava e separa geograficamente e amministrativamente i territori di Perticara e S. Agata), mentre il «colo dei primi pani di solfo» avvenne nel 1742. Non avendo l'autore citato indicato il luogo di conservazione dei documenti — non pili venuti alla luce — da cui egli ha attinto le preziose notizie su riportate, e pur non mettendo in dubbio la veridicità di quanto egli ci ha trasmesso, la più antica data certa sull'esistenza di siffatta attività mineraria risulta a tutt'oggi essere il 16 novembre 1741, giorno in cui, con «istromento» rogato notaio Gentih di Mercato Saraceno, Domenico Manzi di Perticara diede in affitto perpetuo a Giovanni Balducci di Monte Sasso il diritto di scavare, o far scavare, la pietra solfurea (diritto che, evidentemente, era stato concesso a lui in precedenza dall'autorità) dai sotterranei dei suoi beni posti nel territorio di Perticara, detti Ripe del Panante (5). Altra data certa è i l 23 settembre 1755, giorno in cui fu stipulato un contratto di società fra i Masi di Perticara e i Fabbrani di Mercato Saraceno per la coltivazione di alcune miniere solfuree, delle quali una posta in località Ca' de Masi (6). I luoghi denominati Ripe del Panante e Ca' de Masi si trovavano a poche centinaia di metri dai pozzi della miniera di Maiano più vicini al versante perticarese del Panante, e gli scavi che in essi ebbero luogo potrebbero apparire come uno sconfinamento delle coltivazioni in territorio perticarese, e questa fu la nostra prima convinzione. Ora siamo invece del parere che le

miniere di Perticara abbiano una storia a sé stante essendo a quei tempi i paesi di Sant'Agata e Perticara soggetti a due diverse amministrazioni: quella della Chiesa il primo, quella del feudatario il secondo. A conferma di ciò ricordiamo che fra le miniere date in appalto nella Legazione d'Urbino nel secolo X V I I I figurano quelle del Santagatese, ma non quelle di Perticara (7). Ma ecco altre notizie sulle miniere perticaresi. «La causa della eccellentissima Casa [i PamphiH] colU Zolfanari particolari di Sapigno e Perticaglia ed anco di Valdinoce, e Casalbuono per la pretesa libertà di scavare, e vendere H zolfi a loro talento senza licenza della eccellentissima Patrona» (8) pare risalire al 1758 e dovrebbe riguardare, per Perticara, entrambe le miniere. Il 23 febbraio 1769 il principe Paolo Borghese Aldobrandini diventa signore di Perticara e all'atto della presa di possesso del feudo i suoi rappresentanti ingiungono pubblicamente a Marco Masi (consigliere della Comunità di Perticara) di riconoscergli il diritto fondiario sulle «solfanare» e di corrispondere ogni anno la tassa stabilita per lo sfruttamento delle stesse (9).

108

(4)

A . S C I G L I , op.

cit., p.

120.

(5) A R C H I V I O D I S T A T O , C E S E N A (d'ora in avanti A . S . C . ) , Tìt. VII,

mercio, 1817. (6) Ibidem, 1811.

Com-

(7) M. B A T T I S T E L L I , L'appalto degli zolfi di Urbino nei secoli XVII e XVIII, in «Quaderni storici delle Marche», Ancona, maggio 1966, pp. 268-269. (8) A . B A R T O L I N I , Perticara nel Montefeltro, Rimini 1974, p. 194. (9) Ivi, pp. 29 e 66. Nella contea di Sarsina e Meldola dal 1519, e per ciò di pertinenza dei Pio da Carpi, Perticara divenne nel 1597 dominio di Giovan Francesco Aldobrandini che ricevette l'investitura della contea dallo zio Clemente V i l i . G l i Aldobrandini tennero la contea fino a! 1647, ma dal 1640 la casata era diventata Borghese Aldobrandini per il matrimonio di Olimpia, ultima erede degli Aldobrandini, con il principe Paolo Borghese. Nel 1647 Olimpia, rimasta vedova, sposò il principe Camillo Pamphili, nipote di Innocenzo X . I Pamphili governarono fino al 1760, anno in cui i possessi di Sarsina e Meldola passarono alla amministrazione diretta della Chiesa. Nel 1769 papa Clemente X I V investì della contea, in comune, i Doria Laudi Pamphili di Genova e i Borghese Aldobrandini di Roma, che accampavano antichi diritti. Queste due casate, per ovvi motivi, non governarono insieme, ma si divisero i possedimenti: ai primi toccò, fra gli altri, Perticara, che faceva parte del territorio di Sarsina; ai secondi lo Stato di Meldola, in cui figurava anche il castello di Talamello (venduto dai Malatesti il 16 novembre 1655 ai principi PamphiH). Nel febbraio 1797, con l'arrivo delle truppe francesi, i feudi dei Doria Pamphih e dei Borghese Aldobrandini furono aboHti ed i loro ex territori entrarono a far parte della Repubblica Cispadana e poi, dal 9 luglio 1797, della Cisalpina. (Cfr. A . B A R T O L I N I , op. cit., pp. 24-29 e V . T O N E L L I , Sarsina napoleonica, Imola 1980, pp. 21 e 72, nelle note).


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MARCO B A T T I S T E L L I

MINIERE D I Z O L F O A PERTICARA

Nel 1788, in piena crisi economica dello Stato della Chiesa, che aveva avuto i suoi effetti negativi anche sull'industria dello zolfo, le cave in esercizio nella «zolfanara della Perticaja» erano ben sei (10). In questo primo cinquantennio circa di attività estrattiva si dovette sicuramente lavorare alacremente se la maggior parte dei pozzi raggiungeva la profondità di 360 palmi romani (metri lineari 95) (11). I l lungo tempo che si dovette impiegare per scavare quei pozzi, dati i rudimentali mezzi di scavo di cui si disponeva e l'esiguo numero di operai impiegati, lascia supporre che se i lavori ebbero delle interruzioni, queste dovettero sicuramente essere di breve durata. A conferma di questa ipotesi ci soccorrono l'ingegnere inglese T. Richard quando nel 1864 rilevava come la miniera di Perticara fosse lavorata per un secolo e mezzo quasi ininterrottamente ed il Fantuzzi allorché pose Perticara fra le località che avevano cave di zolfo in piena attività nel secolo X V I I I (12). Attorno al 1788 la produzione annua di zolfo fuso delle miniere di Perticara dovette essere, considerando col Fantuzzi 250 giornate di lavoro effettivo ogni anno, all'incirca di libbre 2.100.000 (tonn. 711,9) e gU operai impiegati circa 60. Infatti da ognuna delle sei cave attive, in cui erano impiegati 10 operai, si ricavavano in media giornalmente circa 1.400 libbre di zolfo fuso (13). Lo zolfo veniva per lo più acquistato da incettatori romagnoli e trasportato con barrocci a Rimini e Cesena. Nel Settecento, ce lo ricorda A . Bartolini (14), «era rinomato il passo strigarese dei Melloni perché prestava la via più breve per trasportare lo zolfo di Perticara alle note raffinerie di Cesena». Lo zolfo, invece, che affluiva a Rimini doveva presumibilmente passare per Talamello, che raggiungeva percorrendo la strada che si snoda presso la base del versante nord del massiccio mon-

tuoso di Perticara. Questo percorso non era comunque dei più agevoli essendo la strada del Marecchia in pessime condizioni, per lo meno fino al confine con la Romagna, e mancando un qualsiasi ponte che permettesse di attraversare il fiume con comodità (15). Ben si comprende come il guado, che, secondo la tradizione orale, poteva essere effettuato a monte del paese di S. Maria Maddalena (all'altezza della vecchia fornace) o a valle dello stesso (in località Pienetta, presso Libiano), rappresentasse nei periodi di piena del fiume un grosso ostacolo che obbligava a soste forzate. E , forse, specialmente nei mesi invernah, si preferiva seguire il primo percorso anche se il carico era destinato alle raffinerie di Rimini. Il metalloide proveniente dalla Romagna e dal Montefeltro veniva raffinato a Cesena, Cesenatico e Rimini, poi prendeva diverse destinazioni. Una parte considerevole era esportata in Levante a turchi e greci, che lo prelevavano con bastimenti nel porto di Ancona (dai porti della Romagna lo zolfo era trasportato in Ancona con tarlane); parte ne andava in Lombardia ed a Trieste ad uso degli arsenaU imperiali; altro, in fine, veniva caricato da mercanti inglesi e olandesi le cui navi gettavano l'ancora «su le coste del Cesenatico» o attraccavano nel porto di A n cona (16). Nel secolo X V I I I si era cominciato a produrre su vasta scala acido solforico, del quale lo zolfo costituiva l'unica materia prima; le grandi potenze avevano sempre più bisogno di polvere da sparo; l'agricoltura e la farmacia usavano lo zolfo raffinato in misura sempre maggiore. Queste circostanze determinarono un forte aumento della domanda di zolfo itahano da parte degli Stati europei, i quali, tranne la Russia e la Spagna, erano pressoché sprovvisti di una produzione propria.

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(15) M . B A T T I S T E L L I , I ponti sul fiume Marecchia a S. Maria Maddalena, in «Studi Montefeltrani», X I , S. L e o 1985, p. 112. (10) M . F A N T U Z Z I , Memorie di vario argomento, Venezia 1804, p. 210. (11) Ivi, p. 187. (12) T . R I C H A R D , Rapporto sulle miniere solfuree cesenati, Cesena 1864, p. 4 1 ; M . F A N T U Z Z I , op. cit., pp. 175, 181 e 185.

(13) A . S . C . , Tit. VII, Commercio, nibr. 3.

1812; ivi, Tit. XVIII,

Miniere, 1817

(16) V . M A S I N I , Il zolfo, Cesena 1759, p. 127; M . F A N T U Z Z I , op. cit., pp. 182 e 193; A R C H I V I O D I S T A T O , V E N E Z I A , Savi, b.l37; A . C A R A C C I O L O , //porto

franco di Ancona nel XVIII secolo, dispensa, 1965-66, pp. 25, 38 e appendice n. 4. Dalle lezioni del prof. Caracciolo abbiamo appreso che inglesi e olandesi, buoni acquirenti dello zolfo romagnolo, se ne approvigionavano nel porto di A n cona (specialmente da quando, nel 1732, questo era divenuto porto franco).


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MARCO BATTISTELLI

M I N I E R E DI Z O L F O A P E R T I C A R A

Negli ultimi decenni del secolo però la situazione di prosperità che si era creata tanto nella produzione quanto nel commercio dello zolfo cominciò gradatamente a peggiorare per effetto delle sbagliate scelte economiche di una pohtica papale che trascurava l'industria, e del permanere dell'antiquato sistema delle privative, che invogliava piuttosto a uno sfruttamento immediato e speculativo che ad investimenti di maggior respiro, in un contesto europeo (compresi alcuni Stati italiani) che tendeva sempre più ad informare la propria condotta ai dettami delle nuove teorie economiche ed alle innovazioni tecnologiche della nascente rivoluzione industriale. I mercati del Levante e di altri paesi, che fino a verso l'inizio degh anni Settanta erano monopolio degli zolfi romagnoli, lo divennero di quelli raffinati in Olanda. Le esportazioni si ridussero notevolmente e molte miniere delle Marche e della Romagna dovettero essere abbandonate (17). Con l'inizio delle guerre napoleoniche gli Stati europei ebbero più bisogno di zolfo per gli usi beUici e la crisi in atto ebbe una battuta d'arresto. I prezzi aumentarono e i coltivatori di miniere di zolfo intensificarono le lavorazioni. Ben presto però — lo apprendiamo da una annotazione del Fantuzzi (18) del 1795 —, a causa delle vicende belUche, i raffinatori olandesi chiusero le loro fabbriche ed ai produttori romagnoli e marchigiani venne a mancare il principale acquirente di zolfo grezzo, con l'immediato conseguente accumulo di ingenti quantità di zolfo invenduto nei principali scali marittimi dell'Adriatico pontificio, senza che al momento apparisse il modo di spacciarlo. Alla crisi commerciale fece immediatamente seguito quella estrattiva con l'abbandono della quasi totalità delle miniere romagnole e del Montefeltro. Tale sorte sembra che avesse risparmiato almeno una delle miniere di Perticara se nel Libro degli Atti Consigliari di Talamello del 1797, ora non più reperibile, risultava che nel febbraio di detto anno la Comunità di Talamello, invitata a inviare armi alla Municipalità di Rimini, rispondeva che la maggior parte dei cittadini non le possedeva e che gh

operai, i quali ne erano forniti, «le portavano seco andando a lavorare alla miniera di Perticara» (19). In Romagna e nelle Marche a partire dal 1808 venne svolta una intensa attività di estrazione e di ricerca. Oltre all'apertura di nuove miniere, molte di quelle abbandonate, anche da prima dell'ultima crisi, furono rimesse in attività e tutte le rimanenze di zolfo giacenti da alcuni anni nei magazzini di Rimini e Cesenatico furono presto vendute. Questa forte espansione dell'attività mineraria si dovette alla concomitanza di due eventi: il sensibile aumento della domanda di zolfo per usi bellici e l'assenza dal mercato della concorrente più temibile, la Siciha, impedita nelle esportazioni dal blocco continentale (20). Un vuoto di notizie non ci ha consentito di appurare che cosa era avvenuto in Romagna e nelle Marche a quest'industria dopo il 1795. Con ogni probabilità, comunque, la crisi, pur attenuandosi presumibilmente con l'inizio del nuovo secolo, non dovette aver avuto soluzione di continuità fino al 1808. Lo zolfo grezzo, che negli anni Ottanta del secolo X V I I I era stato venduto mediamente a scudi 7 il migliaro (mille libbre), accrebbe di prezzo «per più scudi» nei primi anni del decennio successivo'(21), ma sicuramente ebbe una repentina inversione di marcia nel 1795 per i noti fatti più indietro riportati. L a mancanza di ogni riferimento sui prezzi dello zolfo nei rari documenti e testi in nostro possesso per gli anni convergenti sul 1800 non ci consente di far luce sul loro andamento in questo periodo. L'unico dato certo è che nel 1808 ci fu una ripresa e

112

(17)

M . F A N T U Z Z I , op.

(18)

Ivi, p.

208.

cit.,

pp.

182, 193 e 210.

(19) O . F . T E N C A I O L I , Talamello nel Risorgimento italiano, Roma 1932, p. 10. Nel 1795, a Perticara, era ancora in attività più di una miniera e i paesani (di Talamello) vendevano legna ai «Fabbricanti di Solfo». ( M . A . B E R T I N I - A . P O T I T O , La viabilità in vai Marecchia, Rimini 1984, p. 102). (20) A . S . C . , Tit. XVIII, fase. 18.1.5, a.l818; A . S . C , Tit. XVIII, miniere, 1818, rubr. 5; ivi, 1827, rubr. 10. Il blocco continentale, proclamato con il Decreto di Berlino il 21 novembre 1806, e poi inasprito con quello di Milano del 17 dicembre 1807, vietò agli Stati neutrali e alleati della Francia di avere scambi commerciali con la Gran Bretagna e le sue colonie. L a Sicilia, pur non essendo esplicitamente alleata dell'Inghilterra, era presidiata da una forte guarnigione inglese ed era quindi esclusa da ogni rapporto commerciale con il continente. (21) L . D A L P A N E , Aspetti della vita economica in Romagna secondo un manoscritto del 1824, Faenza 1935, p. 15; M . F A N T U Z Z I , op. cit., p. 208.


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che lo zolfo aumentò notevolmente la sua quotazione passando dal valore medio di lire 28 (meno di scudi 6) il migliaro degli anni immediatamente precedenti il 1808 a lire 250 (scudi 50) circa allo spirare di detto anno (22). Quale peso ebbe l'inflazione in atto su questa abnorme variazione nel prezzo dello zolfo è difficile dirlo. C i sembra comunque di poter ipotizzare che solo in parte si dovette ad essa il raggiungimento di si alto valore atteso che, dopo un ulteriore aumento a lire 300 (scudi 60) nel 1810, esso scese a lire 107 (poco più di scudi 21) nel 1811 non per l'attenuarsi dell'inflazione bensì per la forte concorrenza del prodotto estero (non siciliano) che, fra l'altro, aveva scoraggiato alcuni coltivatori romagnoli a continuare nelle loro imprese e provocato un avvicendamento nella conduzione di alcune miniere (23). Da documenti conservati nell'Archivio di Stato di Cesena veniamo a conoscenza che nel 1812 le cave in attività nel Montefeltro erano almeno 16, di cui 7 nel territorio di Perticara. D i queste ultime ci sono pervenuti i nomi e alcune notizie. L e miniere o cave site in Perticara erano: Ripe del Panante, Ca' de Masi, la Cossura, Maletti, Montecchio, Vichi e Gorga (24). Complessivamente nella Romagna e nelle Marche le miniere in attività nel 1812 erano 135 e quelle di Perticara venivano annoverate fra le più fertili (25). Ma scendiamo ora nei dettagli. L a miniera Ripe del Panante, com'è noto, fu data in affitto perpetuo a Giovanni Balducci di Monte Sasso nel 1741. «In tah cave il signor Rocco Morellini (cognato del Balducci) trovò la pietra solfurea, la estrasse e ne cavò zolfi. In seguito il signor Pier Antonio Morellini fece altri lavori, estrasse la pietra, e colò lo zolfo, ed ultimamente il signor Francesco Morelhni negh anni 1809, 1810, 1811 estrasse parimenti la pietra, e colò lo zolfo in società con il signor Masi di Perticara». D i essa, nel 1811, Fran-

Cesco Morellini chiese l'investitura per 50 anni (26). Nel 1811 incontriamo per la prima volta la Cossura, anch'essa del Morellini, verosimilmente limitrofa a Ripe del Panante — entrambe le miniere saranno cedute a Giuseppe Bufalini di Mercato Saraceno nel 1817 —. È difficile sapere per quanto tempo la Cossura fu in attività, infatti le altre poche notizie che di essa possediamo ci rivelano soltanto che nel 1816 fu iniziato un nuovo pozzo nel fondo che la ospitava e che nel 1817 il nuovo affittuario intendeva riprenderne i lavori, sospesi nella primavera dello stesso anno dal suo predecessore (27). Della cava Maletti possediamo la sola notizia che essa era coltivata nel 1812 da Serafino Raggi di Savignano di Rigo e che i suoi sotterranei confinavano con le miniere Montecchio e Ca' de Masi (28). Riguardo alla miniera Montecchio, posta nel fondo Ca' de Masi, ci è nota la sua cessione in data 18 novembre 1811 a Giuseppe BufaHni di Mercato Saraceno da parte di Giacomo Masi di Perticara. Ci sorprende quindi che l'anno seguente sia il Masi e non il Bufalini a chiederne l'investitura per 50 anni al vice prefetto di Cesena. Per concludere su Montecchio ricordiamo che le prime ricerche erano state effettuate nel gennaio 1811 da Serafino Raggi di Savignano di Rigo, il quale, forse, aveva dovuto cedere alle rivendicazioni di Giacomo Masi, esercente l'attigua miniera Ca' de Masi (29). Nel 1812 fu inviato per la collezione mineralogica del museo del Liceo d'Urbino «un saggio di pietra solfurea cristalizzata raccolta nelle cave dei signori Masi e Cesaretti di Perticara». Poiché non risulta che i Masi e i Cesaretti fossero soci il plurale di cava, nel brano testé citato, va inteso nel senso che i l «saggio di pietra solfurea» proveniva da due cave distinte, una del Masi e l'altra del Cesaretti, Quella di quest'ultimo era la cava Vichi, della quale lo troviamo ancora concessionario nel 1817 (30).

(26) (27) (22)

V . T O N E L L I , op.

cit,

A . S . C , Tit. XVIII, miniere, 1 8 1 7 , rubr. 3 . Ibidem; A . S . C , Tit. XVIII, fase. 1 8 . 1 . 5 , 1 8 1 1 .

:

( 2 8 ) A . S . C , Tit. VII, commercio, 1 8 1 2 . ( 2 9 ) Ibidem; A . S . C , Tit. XVIII, fase. 1 8 . 1 . 5 , 1 8 1 2 ; V . T O N E L L I , op.

p. 2 7 8 .

( 2 3 ) Ibidem. ( 2 4 ) A . S . C , Tit. VII, commercio, 1 8 1 2 ; A . S . C , Tit. XVIII, 1817, rubr. 3 ; A . S . C , Tit. XVIII, fase. 1 8 . 1 . 5 , 1 8 1 1 e 1 8 1 2 . ( 2 5 ) E . R O S E T T I , La Romagna, Milano 1894, p. 3 8 6 .

115

MINIERE D I Z O L F O A PERTICARA

MARCO BATTISTELLI

miniere,

p. 3 5 1 . (30) A . S . C , mi, rubr. 3 .

Tit. VII, commercio,

1812; A . S . C ,

Tit. XVIII,

cit.,

miniere,


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MARCO B A T T I S T E L L I

MINIERE D I ZOLFO A PERTICARA

«Gli scavi del pozzo nel terreno denominato Gorga dei fratelli Montecchi cominciarono nel 1804 da parte di Giuseppe Bufalini di Mercato Saraceno». Dopo un fugace accenno alla miniera Gorga nel 1812 ritroviamo notizie di essa nel 1817 quando il fondo dove si apriva i l suo pozzo, ora di proprietà di Francesco Morellini, fu ceduto assieme alla miniera al Bufalini per scudi 1100. Nello stesso anno sorse una controversia fra il Bufalini e il conte Giovanni Cisterni di Rìmini, nuovo concessionario della contigua miniera Ca' de Masi, che asseriva competergli il diritto di prelazione nella concessione come primo scopritore della pietra solfurea nella miniera Gorga per effetto di uno sconfinamento avvenuto durante gli scavi effettuati nella sua miniera. In realtà il Cisterni aveva presentato per primo la domanda per ottenere l'investitura della miniera che, al momento dello sconfinamento, era abbandonata. L'anno seguente la controversia fra i due non era stata ancora risolta. Nel 1819 li troviamo invece in società nella conduzione di tutte le miniere aperte in territorio perticarese, già in gran parte comunicanti fra loro, e da allora considerate come un'unica miniera (31). Negh anni avvenire non si sentirà più parlare del BufaUni, con ogni probabilità Uquidato dal Cisterni. Fra i personaggi di rilievo nella storia delle miniere di Perticara spiccano i Masi, a cui indubbiamente si deve l'origine del toponimo Ca' de Masi. Dei loro più antichi legami con le miniere di Perticara abbiamo già fatto menzione. Altri emergono da una transazione del 10 febbraio 1790 avvenuta fra essi e il feudatario di Perticara in forza della quale i primi riconoscevano i diritti spettanti al feudatario sull'esercizio delle miniere, e venivano investiti del diritto di estrarre il minerale dalle cave aperte sui loro fondi per l'annuo canone di scudi romani 10 (32). Nel 1811 i frateUi Masi presentarono istanza per ottenere «la facoltà privativa di scavare tutte le miniere di zolfo» esistenti nel circondario di Perticara. Ma ciò era in contrasto con le norme della nuova legislazione mineraria e la loro richiesta venne respinta. Volendo tentare lo scavo in altri fondi — precisa-

va il prefetto di Forlì — verrà loro accordata la facoltà, sempreché preceda una supplica per ottenere la nuova permissione». Poi la stessa autorità rilevava che «la dicenda casa Masi è in opposizione col nuovo sistema minerario il quale tende sempre più ad animare la coltivazione delle miniere, per cui non sarebbe conveniente l'investire un individuo, o una società, della facoltà esclusiva di scavare tutte le miniere poste nell'intero territorio di un Comune, volendosi allontanare il monopolio a danno di chi, arrivando a scoprire nuove cave nel circondario medesimo, avrebbe diritto a norma del citato decreto [il decreto napoleonico sulle miniere del 9 agosto 1808] d'essere investito a preferenza di ogni altro» (33). Dalle notizie raccolte sappiamo con certezza che la miniera Ca' de Masi fu in attività dal 1810 al 1812 e per alcuni anni precedenti tale periodo (sicuramente, ma con poco profitto, nel 1805). I l minerale, proveniente da scavi che avevano raggiunto la profondità di 350 piedi (metri 188), si estraeva attraverso due pozzi: quelli dei Cani e della Strada; altri due pozzi servivano per l'aerazione dei sotterranei. Prima del 1810 i forni {doppioni) impiegati in quella miniera per la distillazione del minerale erano quattro, «nel 1810 ne ebbe sino ad otto, e ora [1811] quattro, e alle volte meno, giacché si teme che possa mancare la pietra». L a produzione annua di zolfo grezzo non si conosce, anche se potrebbe essere stimata, per quattro doppioni, in libbre 2.400 (Kg 789,6) al giorno, pesando un «fòrmetto» di zolfo libbre 150 e presupponendo che se ne producessero, lavorando giorno e notte, quattro per doppione. Questo dato sulla produzione, non significativo di per sé stesso in quanto non coparabile con le produzioni di altre miniere locali (che non possediamo), lo diventa nel contesto dell'industria estrattiva di Perticara, essendo nel 1811 la miniera Ca' de Masi la più produttiva di questa località (34). Nel 1816 la miniera era ancora (o di nuovo) attiva, ma non

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(33) Ivi, 1811, lettera del prefetto di Forlì al vice prefetto di Cesena del 28 giugno 1811. (34) Ivi, 1812; V . T O N E L L I , op. cit., pp. 85, 177 e 178. Nel Cesenate e a

CSI) A . S . C , TU. XVIU, (32) A . S . C , Tit. XVIII,

miniere, 1817, 1818 e 1819, rubr. 3. commercio, 1812.

Perticara una libbra corrispondeva a K g . 0,239 ed un piede a metri 0,538 {ibidem, p. 86).


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MINIERE DI Z O L F O A PERTICARA

MARCO BATTISTELLI

apparteneva più ai Masi, bensì al conte Cisterni che l'aveva rilevata il 27 settembre dello stesso anno per la cospicua somma di scudi romani 18.000 (35). L a mancanza di notizie (per ciò che ci concerne) riguardanti le miniere di Perticara che caratterizza i primi anni del secolo X I X , salvo i brevi riferimenti al 1804 e al 1805, si ripete per i l triennio 1813-15. Con ogni probabilità le miniere continuarono ad esere in attività fino a tutto il 1813, fino a quando cioè le istituzioni politiche napoleoniche continuarono ad essere in vigore (36). Nei due anni successivi, vuoi per il rientro sul mercato della Sicicha, vuoi per la scarsa domanda da parte dei tradizionali acquirenti di zolfo romagnolo e marchigiano, le miniere (non solo quelle di Perticara) dovettero essere sicuramente quasi tutte inattive. In questo periodo numerose famiglie di minatori furono ridotte alla fame ed il brigantaggio afflisse, massime nel 1814, le contrade zolfifere della Romagna (37) e, forse, interessò anche il territorio di Perticara. Anche il quinquennio 1816-1820 fu un periodo di crisi per lo zolfo romagnolo e marchigiano, ma, come abbiamo visto, a Perticara le miniere in attività erano almeno quattro. Ancora una volta, dunque, la vitalità delle nostre miniere era di gran lunga superiore a quelle di Romagna che, nello stesso periodo, annoverava in totale non più di cinque o sei miniere attive (38).

(35)

A R C H I V I O D E L L A C U R I A , P E N N A B I L L I , Tit. XIII,

vescovi e regolari,

1847, n. 194. (36) Durante il Regno d'Italia Perticara fece parte, prima, del comune di Sarsina, cantone di Mercato Saraceno, dipartimento del Rubicone, poi, quando S. Agata diventò cantone (28 settembre 1810), venne staccata da Sarsina ed entrò a far parte del comune di S. Agata. Dopo il tormentato periodo che andò dall'avvento degli austro-britannici (dicembre 1813) al ritorno del governo pontificio (luglio 1815), del quale nulla siamo in grado di dire, ci sembra che Perticara tornasse a far parte del comune di Sarsina. D a l 1817 è invece certo che diventò appodiato del comune di Talamello e con esso fu inclusa nella provincia di Pesaro, diventando così marchigiana. (Cfr. V . T O N E L L I , op. cit., p. 71

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Nel decennio seguente, perdurando la crisi, mentre l'industria solfifera romagnola, schiacciata dalla insostenibile concorrenza del prodotto sicilino, perdeva ancora terreno, Perticara resisteva grazie alla abilità del conte Cisterni che aveva adottato nelle sue miniere «metodi atti a portare la mano d'opera alla minima possibile spesa, e il lavoro a una tale perfezione da stare in concorrenza coi solfi esteri [massime sicihane] sia nella qualità sia nel costo» (39).

Metodi di estrazione e di lavorazione dllo zolfo in Romagna e nel Montefeltro nel secolo XVIIL Com'è facilmente intuibile i più antichi lavori di estrazione dovettero riguardare il minerale affiorante alla superficie del suolo. Coll'esaurirsi degli strati superficiali però si devette necessariamente o abbandonare i lavori o scavare grotte e cunicoli che permettessero ai ricercatori di seguire le vene sotterranee. L a più antica testimonianza di lavori sotterranei per scavare lo zolfo è quella che ci fornisce il Masini (40) quando tratta della abbandonata zolfatara di Luzzena, in territorio cesenate, che era nota per l'ampiezza delle sue gallerie e per l'enorme quantità di puntelli che ne sostenevano le volte. Siccome i l Masini scriveva a metà secolo X V I I I e poiché, verosimilmente, per scavare quelle ampie gallerie dovettero occorrere decine di anni si può senz'altro ritenere che tali lavori sotterranei fossero già in atto nel secolo precedente. Per fissare comunque un limite massimo alla longevità degli scavi sotterranei giova ricordare che agli inizi del Cinquecento lo zolfo si estraeva ancora soltanto da cave all'aperto (41). I lavori che si facevano nel secolo X V I I I in Romagna e nel Montefeltro per estrarre dal sottosuolo la pietra solfurea consistevano innanzi tutto nello scavo di pozzi, che s'intonacavano

e pp. 394-396 e A . B A R T O L I N I , op. cit., p. 108).

(37) A . S . C , Tit. XVUI, miniere, 1837, rubr. 3. (38) A . G A L L I , Cenni economico statistici sullo Stato pontificio, Roma 1840, p. 140; F . B O N E L L I , / / commercio estero dello Stato pontificio nel secolo XIX, in «Archivio economico dell'unificazione italiana», serie I , voi. X I , fase. 2 , p . 91.

(39)

L . D A L P A N E , op. cit., p. 16; A . G A L L I , op. cit., p. 140.

(40)

V . M A S I N I , op. cit., p. 105.

(41) M . F A N T U Z Z I , op. cit., pp. 177-178; F . S Q U A R Z I N A , Industria e legislazione mineraria nei vari Stati italiani, in «L'industria mineraria» febbr. 1958, p, 93.


TAVOLA A Pozzi d'estrazione della pietra zolfurea in Romagna nel secolo X V I I L (V. M A S I N I , Il zolfo, Cesena 1759).

TAVOLA B Fusione dello zolfo in Romagna nel secolo X V I I L (V. M A S I N I , / / zolfo, Cesena 1759).


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MARCO BATTISTELLI

MINIERE DI ZOLFO A PERTICARA

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con pietre o si armavano con travi di legno e fascine dove il terreno non aveva bastante consistenza. Una volta trovato il minerale se ne seguiva la vena in tutte le direzioni scavando logge e gallerie, lasciando piloni di roccia e qualche raro puntello per sostenere le volte. Si scendeva poi con gU scavi a una profondità maggiore e si aprivano nuove logge e gallerie. I l tutto con «somma irregolarità, disordine ed angustia» (42). Oltre che per l'esaurimento della vena solfurea i lavori venivano abbandonati quando gli scavi si riempivano d'acqua o l'aria dei sotterranei diventava irrespirabile o, in fine, quando c'era il timore di dilamazioni del terreno. L a profondità massima era di circa 360 palmi romani, ma assai rari erano i pozzi che la raggiungevano. I mezzi di scavo erano il piccone, il martello e il punteruolo; l'eduzione delle acque era fatta a mano mediante tini o mastelli; la ventilazione delle gallerie era insufficiente e i minatori non riuscivano a «reggere più di tre ore al giorno ai vapori, ed esalazioni che sono colà sotto» e ritornavano in superficie «affumicati, neri, e contraffatti». L a pietra solfurea era trasportata a spalla o con piccole carriole alla base dei pozzi per essere caricata entro secchioni di legno e poi sollevata fino alla bocca del pozzo per mezzo di una rozza naspa azionata a mano (vedi tavola A ) . Alcune miniere comunicavano con l'esterno anche tramite aperture laterali che servivano per lo scolo delle acque, per la ventilazione dei sotterranei e, talvolta, per l'estrazione del minerale. D i sohto in una cava erano impiegati per lo scavo del minerale da due a quattro minatori. Due uomini, denominati carreggiatovi, trasportavano il minerale alla base del pozzo e lo caricavano nei secchioni. Due altri erano addetti all'argano del pozzo ed al trasporto del minerale con carriole vicino al fornello per la distillazione. Ancora due, in fine, attendevano a turno giorno e notte al fornello. In Romagna, almeno dal 1500, in tutte le miniere lo zolfo fu colato con i l metodo della distillazione, che fu soppiantato

T A V O L A

C

Raffinazione dello zolfo in Romagna nel secolo X V I I L ( V . M A S I N I , / / zolfo, Cesena 1 7 5 9 ) .

( 4 2 ) L e notizie qui riportate sono state per lo più tratte dalla citata opera del Fantuzzi — alla quale rimandiamo il lettore per piià ampi dettagli — per cui s'indicherà la fonte soltanto per quelle notizie che da tale opera non provengono.


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MINIERE D I Z O L F O A PERTICARA

verso la metà del 1800, con l'avvento del calcarone, da quello della fusione (43). Una chiara ed esauriente descrizione dei forni per la distillazione, e dell'operazione del distillare, che cito testualmente, è quella lasciataci dal Fantuzzi: «Vicino alla bocca superiore dei pozzi, o delle aperture laterali, si piantano dei forni con poca spesa. Questi sono formati coi sassi che somministrano li monti, e le stesse cave dei pozzi, e con creta; e sono costruiti senza cenerario e senza camino. In quattro olle, o vasi di terra cotta, si pone la pietra zulfurea di quella grandezza che si conviene, indi si chiudono con una lastra di marmo, o un pezzo di olla rqtta, e si luta la commissura. Queste olle sono poste pendenti sopra i l primo volto [copertura] del forno, e chiuse per la maggior parte da altro volto superiore. I l fuoco penetra per alcuni fori nello spazio fra i due volti, dove sono fissate le quattro olle cariche, ed i l volto superiore ha qualche sfiatatore per regolare il fuoco. Altre quattro olle sono situate lateralmente fuori del forno, e sotto le prime (vedi tavola B ) . Ascende il zolfo in vapori alla cima delle prime quattro olle e sorte per un foro che comunica mediante un canale di terra cotta col ventre delle seconde. In queste si condensa, prendendo una forma Uquida, e per un foro inferiore passa in certe forme di legno, una per parte del doppione, ove si restringe in pani [parallelepipedi]». Una volta completato i l ciclo venivano ripulite le olle dai rosticci e si immetteva nuovo minerale per ripetere l'operazione. I due pani di zolfo pesavano ciascuno dalle 600 alle 800 Hbbre (così afferma il Fantuzzi, ma a noi sembra troppo, corrispondendo nel Cesenate una libbra a K g . 0,329) ed era necessario un giorno intero per ottenerh. L e 1.400 libbre di zolfo che in media si avevano ogni giorno erano il prodotto della distillazione di 8.000 libbre di minerale, con una resa quindi del 17,50%. I fornelli a quattro olle, detti doppioni, cominciarono ad essere usati nella seconda metà del secolo X V I I I e preferiti ai

fornelli a due olle, o fornelli semplici, per il grande risparmio di legna che con essi si aveva. I pani di zolfo erano trasportati a Cesena, Cesenatico e R i mini per la raffinazione. L o zolfo raffinato si otteneva facendo fondere a fuoco lento i pani di zolfo, opportunamente spezzettati, in una caldaia, poi, eliminate le impurità, il liquido veniva versato in forme di legno da cui si ottenevano, a soHdificazione avvenuta, dei lucidissimi cannelli di zolfo di estrema purezza (44) (vedi tavola C ) .

(43) G . V E G G I A N I , La fusione dello zolfo dal XV al XVUI secolo nelle miniere di Romagna, in «Studi romagnoli», V I , Faenza 1955, p. 338.

(44)

V . M A S I N I , op.

cit.,

p.

125.

125


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MARCO B A T T I S T E L L I

APPENDICE

Istanza indirizzata al papa (Pio V I I ) «di alcuni intraprendenti che propongono una temporanea privativa della escavazione dei zolfi nello Stato Ecclesiastico, e rispettiva estrazione all'estero». (In A . S . C , Tit. X V I U , Miniere, 1818, rubr. 5). «Articoli della implorata concessione (progetto): 1° - I l Governo Pontificio dichiarerà privativa in tutto lo Stato di escavazione, e fabbricazione dei solfi; 2'* - Dal momento della pubbUcazione dell'editto non sarà lecito a chicchesia persona, o corpo di aprire, ed attivare veruna cava di zolfo venendo questo diritto annoverato fra i legaU del Principe al pari delle miniere di vetriolo, o dell'allume; 3" - Si prefiggerà i l termine di due mesi a tutti queUi che attualmente sono in esercizio di attivazione di cave, a lavorazione di solfi ad esibire i titoU, che provino i l possesso di quest'esercizio non interrotto per il lasso di due anni indietro, indicando e giustificando se la miniera, o miniere di solfi esistono in terreno di proprietà particolari, in terreno comunitario, o in terreno camerale... 4° - Tutti coloro che proveranno di avere miniere di solfo in terreni di propria pertinenza attivate come sopra da tre anni a questa parte senza interruzione saranno confermati e mantenuti nel diritto di cavare la pietra sulfurea, ed esercitare i fornelli subhmatori entro lo stesso terreno di loro proprietà, potranno anche farne la vendita all'interno... 5" - Quelh che documenteranno di tener cave di solfo aperte in terreni di altri particolari o di comunità dovranno nel termine stesso manifestare in forma probante i contratti in vigore dai quaU tengono attivate le miniere. Se i l Governo troverà utile dal pubblico, e dall'Erario di essere preferito subentrerà esso nei termini dei contratti vigenti, in caso contrario lascerà tranquilh gU intraprendenti, i quaU saranno parificati a quelli che cavano nei terreni propri. Dovrà esibire ogni anno una stati-

MINIERE DI ZOLFO A PERTICARA

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stica tanto delle miniere, che della fabbricazione dei solfi in tutto lo Stato presentando il quadro del commercio interno ed esterno di questo genere...; 6" - L e patenti per la escavazione, e la fabbricazione dei solfi saranno rilasciate dal Privatario dietro un onesto pagamento da stabihrsi di consenso col Governo; 7" - In recognizione del diritto privativo, che il Governo gU conferisce corrisponderà esso all'Erario baj 40 per ogni mille libbre di zolfo che si mandano all'estero, qual canone sarà pagato di volta in volta che le partite si estraggono; 8" - L i permessi per l'estrazione saranno rilasciati dal Privatario...». L a risposta, data dalla Congregazione, fu indirizzata al cardinale camerlengo nei termini qui di seguito esposti. (In A . S . C , ibidem). «Prima delle politiche vicende andate, in tutto il Pontificio Dominio, le miniere solfuree, tanto appartenenti a private famiglie che a corpi morali, furono mai sempre riguardate proprietà particolari, né mai il Governo impose tassa alcuna sia per la manifattura sia per la vendita all'interno, ed all'esterno, né vi fu legge che ne impedisce o difficultasse la vendita, o lo scavo, in modo tale che i proprietari agivano secondo le loro forze. Accaduto poi i l calo dei zolfi, d'ordinario questi si trasportavano al Cesenatico, attendendo nel maggio di ogni anno una nave olandese per farne il carico... A causa della forte richiesta dall'estero, nelle passate guerre, il rialzo del prezzo fece vendere tutti i zolfi giacenti da alcuni anni nei magazzini. I proprietari si trovarono allora in grado di far risorgere le loro famiglie poste in languore dall'incaglio precedente... L a vendita senza vincolo fu favorevole ai lavoratori e produttori, e ciò devesi principalmente attribuire al libero commercio del genere, ed all'esenzione di qualunque tassa sul medesimo. Se in oggi si accorderà la privativa e se al zolfo verrà imposta la tassa di baj 40 al migliaro, la popolazione per ragione inversa produrrà altrettanto di male, quanto di bene produsse negli anni addietro, poiché la chiesta proibizione di mandare il genere all'estero farà poi che la vendita dovrà effettuarsi a pochi


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MARCO BATTISTELLI

avidi speculatori di estere provincie... Le frodi saranno sempre possibili nonostante le cure del Governo per evitarle... Mancherà il genere nello Stato se utile è la vendita all'estero...». Il contrario parere della Congregazione alla concessione si dovette anche alla dichiarazione della Segreteria di Stato «che il Governo ha fissata la massima di non accordare privative come quelle, che portano inceppamento e recano danno al pubblico, e privato interesse. I l Umitrofo Stato di Napoli, e Siciha abbonda di zolfi in sommo grado, per cui all'estero non bisogna di quelli dello Stato Pontificio, e che imponendosi il dazio sul genere per l'estrazione, fuori Stato, ciò non produrrebbe che forte incaglio e priverebbe lo Stato di un vistoso introito di numeralo. Semmai applicarlo al grezzo, mai al raffinato, onde incoraggiare l'industria nazionale».


SERGIO PRETELLI

zooiatria empirica montefeltrana nell'ottocento


1. Storia di un manoscritto. A n n i or sono un amico e collega di Università mi mostrava e prestava, con l'invito di rifletterci su, un manoscritto che egh aveva avuto dalla signora Ines PasquaH di Bologna ad essa pervenuto, tramite i l marito, dalle carte del canonico Giovanni Pasquali da Sassofeltrio, professore di retorica al seminario di PennabiUi (1867-1883). Precedentemente i l manoscritto era appartenuto al padre del canonico, Ermete Pasquali, come si evince dall'annotazione dell'ultima pagina del manoscritto (1). Si tratta di un Hbretto delle dimensioni di centimetri 10 per 14, in carta uso mano, di 46 pagine, retto e verso, scritto a penna e che porta nella prima pagina la seguente intestazione: «Libro sopra i malori dei bestiami e specialmente dei bovi e bovini nell'anno 1841». U n a raccolta di settantanove r i cette di veterinaria empirica dell'area montefeltrana o più precisamente della zona di Sassofeltrio come rivelano i tre timbri, uno posto accanto all'altro a pagina 30 verso, indicanti in alto la tiara (2) con la scritta sotto, « S A S S O F E R E T R A N O » . L a fa-

Ringrazio il proprietario del manoscritto, prof. Piero Peruzzi, professore associato di Diritto Comune alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Urbino, per la sua aquisita gentilezza e collaborazione. (1) Manoscritto cit., foglio 46 verso. U n altro manoscritto, coevo al citato, mi è giunto a stesura avvenuta del presente articolo. Detto manoscritto proviene da Macerata Feltria ed è scritto da sei mani diverse. L a prima scrive rimedi per cinque malattie, la seconda, che si sottoscrive, elenca la maniera di fare cinque salassi in diverse parti del corpo dell'animale, la terza riporta i rimedi per undici malattie, la quarta per due, la quinta per tre e la sesta per due. Sono rimedi non molto dissimili da quelle previsti nel manoscritto di Sassofeltrio. Per un confronto specifico ci proponiamo di intervenire in un successivo lavoro. Ringrazio il Dott. Lombardi, presidente emerito degli Studi montefeltrani, per la cortese segnalazione. (2) Sembra una tiara del X V I I I secolo.


ZOOJATRIA EMPIRICA MONTEFELTRANA NELL'OTTOCENTO

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miglia Pasquali, espressione dell'aristocrazia terriera, è protagonista tra '700 e '800 della vita economica, politica, religiosa sanmarinese e del Montefeltro ( 3 ) . I l ramo dei Pasquali del Sasso, staccatosi da quello originario di San Marino, sembra avere come capostipite Giacomo Filippo Pasquali, notaio pontificio ai primi dell'ottocento (4) che, salvo una breve parentesi nella Repubblica, si stabilì definitivamente a Sassofeltrio ad esercitare la professione. Nel 1864, una nota comunale per la trasmissione di un esposto al brefotrofio di Urbino, reca la firma del Sindaco Ermete Pasquah ( 5 ) , il che conferma la famigha ancora ai vertici della vita pohtica ed economica locale. Sull'autore della raccolta del «prontuario», si possono avanzare alcune ipotesi. Intanto va r i cordato che non è infrequente nei notai il prendere nota di curiosità relative a fatti di costume, di usi e consuetudini che spesso annotano ai margini della copia degli atti da loro stipulati. Inoltre i Pasquali sono proprietari terrieri ed in un'epoca in cui la disciphna come scienza ha scarsissimo credito, le pratiche empiriche di veterinaria, frutto di esperienze dirette e ricorrenti nelle proprie possessioni, e in quelle degli amici, potrebbero aver spinto alla annotazione delle medesime e stimolato la curiosità del redattore ad ampliare la casistica con i racconti delle esperienze affrontate dall'empirico o dai vari empirici del luogo. L'esame grafico periziale (6) non avalla l'attribuzione all'autore dell'annotazione di pagina 46-verso dell'intero libretto. Ipotesi non meno probabile e da non mettere da parte, è quella che i l libretto sia stato scritto da altri e fatto proprio dal Pasquali per la sua genialità. I l sostegno a questa ultima ipotesi, verrebbe dall'analisi della scrittura, sgrammaticata, sintatticamente scorretta e con uso ab-

(3) C . B U S C A R I N I , Montegiardino: una comunità rurale tra '700 e '900, in «Studi Sanmarinesi», 1984, p. 31. (4) Ibidem, Giacomo Filippo Pasquali conseguì la patente notarile per lo Stato Pontificio il 30 marzo 1808. (5) Archivio Irab Urbino, fascicolo esposti del 1864 senza collocazione. Lettera del Municipio di Sassofeltrio, numero 151 di protocollo del 9 aprile 1864. (6) Perizia eseguita dall'Istituto superiore di grafologia di Urbino: «...vi è anche la diversità del calibro e grandezza delle lettere. Nella grafia di p. 46 verso le m ed n sono prevalentemente a ghirlanda, mentre nel manoscritto sono prevalentemente ad arcata...». Si ringrazia il Dott. G . Magnanelh per la collaborazione.


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bendante di termini dialettali o forse specifici degli addetti ai lavori del tempo, risultando ora del tutto incomprensibili (7), a noi e agli stessi abitanti dell'area sassofeltrana. L a trascrizione dei metodi curativi ci fa pensare che, la persistenza di queste pratiche nel tempo, ovviamente non di tutte quelle contenute nel libretto, e i l desiderio di ricordarle da parte del curatore, sia dovuto a un numero rilevante di esiti positivi conseguiti nelle ripetute sperimentazioni. Negli anni in cui fu redatto il libretto, l'area del Montefeltro si era appena liberata da una epidemia da afta epizootica, cominciata nel 1834, importata dalla Romagna «per l'imperizia di certi compratori» (8) e che si era protratta per oltre cinque anni causando perdite e sgomento nei proprietari del bestiame. Davanti all'impotenza dei «sussidi dell'arte», l'abbattimento dei capi di bestiame infetto, come già era in uso in altre aree europee ( 9 ) , r i sultava del tutto incomprensibile ai proprietari del tempo che vedevano negli animali da lavoro i l progresso e la ricchezza del podere, e che, prima della rassegnazione, la speranza avrebbe trovato un ultimo conforto nel divino potere, come testimoniano i Santi nelle stalle e le tavolette votive della religiosità popolare (10). 2. / / Montefeltro: note ambientali ed economiche. L'attuale distrettuazione amministrativa, delineata dal motu proprio del 6 luglio 1816 e sostanzialmente recepita dallo Stato italiano al momento dell'unificazione (11), non comprende tutto il Montefeltro che ha dei lembi di terra in Toscana e nella Romagna (12).

(7) Mi riferisco a termini, quali « A l male nubatale, al male del mangabio gonfiato, al male del maraldo, al male del baccazio, alla rumma di testa, ecc.». (8) P . V E N T U R I , De le antiche ed odierne epizoozie di febbre aftosa nel territorio urbinate, Urbino 1911, p. 9. (9) S. P R E T E L L I , L'allevamento del bestiame nelle Marche mezzadrili: secoli XVII-XIX, in «La Montagna tra Toscana e Marche» a cura di S. A N S E L M I , Milano 1985, p. 321. (10) S. A N S E L M I , Religiosità popolare e vita quotidiana, Jesi 1982. (11) R . V O L P I , Le Regioni introvabili, Bologna 1983, p. 276; G . A L L E G R E T T I , Note sulle mutazioni nei comuni di Montefeltro e Massa (1790-1814), in «Studi Montefeltrani», 6/7 (1978-79), pp. 69-110; I D E M , Mutazioni circoscrizionali nei comuni di Montefeltro e Massa (1814-1833), in «Studi Montefeltrani», 4 (1976), pp. 5-43. (12) G . R E N Z I , Antiche vicende di confine tra Marche e Toscana, San Leo 1974.

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M a quando si pensa al Montefeltro, inevitabilmente i l riferimento è alla sua storia, non all'economia o alla ripartizione amministrativa e nemmeno alla sua geografia. Pertanto se dai dati presi in considerazione restano fuori Sestino, Badia Tedalda ed altri castelh che non fanno parte della provincia di Pesaro-Urbino, i l discorso sulla vita dura delle bestie, al pari di quella degU uomini non perde la sua unicità. E la vita è dura p e r c h é l'ambiente è difficile, tutto contrassegnato da balze, poggi, colH e monti in alterna successione, ma vi sono compresi, e a volte compressi, distese di pendii più dolci che rendono bello i l paesaggio taghato corto da piccole ripe, o tagliato secco dalle rughe del monte. L a poca parte piana è nei fondovalli, intorno agli scoli del Fogha, del Conca e del Marecchia, o loro affluenti, fiumi torrentizi caratterizzati dalla troppa acqua in inverno che spesso non entra tutta nell'alveo e crea così tratti paludosi nel falsopiano, agriculturamente inconsistenti; e certamente di poco conto anche nella stagione estiva, quando l'acqua è scarsa ed i l fiume in secca, con le vistose crepe argillose che corrono al suo fianco e che diventano rifugio di roditori, grillotalpe ed altre specie di insetti (13) che rendono grama la già povera vita agricola di quei luoghi. L a parte montana, che ha fatto grande la storia del Montefeltro con le sue rupi imponenti, sedi ideah di torri e castelli per i l dominio del territorio (14), è ricoperta da bosco d'alto fusto. V i predomina i l cerro (quercus cerris) coprendo oggi una superficie di circa ottocento ettari nei Comuni di Carpegna e Pennabilli e tra la Cantoniera e i l Sasso Simone e il Simoncello (15), e dove non è difficile indovinare la presenza del cinghiale e in tempi remoti, con un bosco ben più esteso, la sede ideale per l'allevamento brado dei suini (16). Convivono bene con i l cerro, i l carpino, vari tipi di aceri, l'agrifoglio, la ro-

(13) P. M A N C I N I , Delle cause principali che arrestano il progresso dell'agricoltura nella provincia di Pesaro e cenni di provvedimento, in «Esercitazioni dell'accademia agraria di Pesaro», anno X semestre I I , Pesaro 1847, p. 56. (14) F . V . L O M B A R D I , Le Torri del Montefeltro e della Massa Trabaria, Rimini 1981; I D E M , La rocca di Sasso Feltrio, S. Leo 1976. (15) G . F A R O N I (a cura di), Pesaro-Urbino una provincia diprofilo, Pesaro 1982, p. 170. (16) M . B A R U Z Z I , M . M O N T A N A R I , Porci e Porcari nel Medioevo, Bologna 1981.


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verella e nella parte alta i l faggio, con un sottobosco ricco di piante erbacee di varie specie. Nelle zone più prossime alla T o scana è i l castagno a caratterizzare i l paesaggio. Non è infrequente trovare in mezzo a questi boschi dei pianori diboscati, roteili o tagliate come anche vengono chiamati, facili da lavorare e coltivati a cereali e a foraggio ed anche punti di riferimento per l'accatastamento ai margini, del legname. I suoli coltivati sono mediamente di bassa fertilità, siano essi i terreni marnosi autoctoni, i marnosi arenacei, i calcarei marnosi, gU argillosi e i gessosi dell'area di Sassofeltrio, spesso instabih, in gran parte acclivati, con una fitta rete di sentieri alberati, di siepi, di fossati o di piccole ripe e calanchi che spesso fanno da confine alle varie coltivazioni e fanno pensare a una p r o p r i e t à molto parcellizzata (17). D a t i del 1890 ci dicono che i 10.831 possessori di terreni del Montefeltro, hanno in media poco più di sei ettari per ogni podere (18), e siamo già nel periodo in cui la pressione demografica e l'appesantimento dei patti colonici hanno spinto i proprietari a grandi diboscamenti e dissodamenti. L a superficie coltivata, che nel periodo dell'unificazione italiana, era un terzo del territorio, a fine secolo quasi raddoppia (19). E come in tutte le Marche, anche in questa area i cereah rappresentano la cultura più diffusa. L a loro redditività è bassa, circa 1:4-6, ma è certamente p i ù bassa in quei terreni di pietrisco, scoscesi, spesso instabili che pur vengono coltivati nella speranza di avere un po' di pane da alternare, nei giorni di festa o di particolare significato, a quello di ghiande o di castagne (20). D e l resto è risaputo che in una medesima area, la coltivazione rispetto alla pastorizia permette di sfamare un numero più alto di persone e di animali (21). E d allora non deve meravighare se in questa parte

collinare-montuosa delle Marche del nord, nel giro di un trentennio, non solo la superficie del bosco, ma anche quella del prato naturale e del pascolo diminuiranno di un terzo. E nemmeno si p u ò dire che siano mancate buone leggi, come la legge forestale dello Stato pontificio del 1827 (22) o la legge italiana del l ' ' giugno 1865 (23) che tendevano a regolamentare il taglio del bosco, a preservarne nel tempo la conservazione e a riproporne i l ripristino della conveniente estensione. M a l'uomo i l calcolo lo fa sul quotidiano, sulle aspettative di breve periodo, e qui si combinano gli interessi dei proprietari che davanti alla forte domanda di legname non resistono a tentazioni speculative, con gli interessi dei contadini e dei braccianti che hanno il problema della sussistenza giornaliera, e le loro decisioni trovano i l modo di prevalere sulle leggi citate che cercavano di evitare di far ricadere i costi sociali di questi comportamenti sulle generazioni future. E saranno costi sociali pesanti. Nella montagna e coUina del Montefeltro ai contadini non basta più neppure l'emigrazione stagionale in maremma per sopravvivere un anno; saranno costretti a cercarsi altrove possibili sistemazioni e tanti tenteranno la carta trans-oceanica (24). Quelli che rimangono avranno vita dura e grama. L a terra è povera, quella più scoscesa è lavorata a vanga. I l bestiame che sta aumentando è ancora scarso. Nell'area di Pennabilli non c'è più di un paio di buoi e cinque pecore ogni dieci ettari (25). S i p u ò capire quindi cosa p u ò significare per i l contadino la perdita di un animale da lavoro in termini di valore, di fatica e di produzione. M a in pieno ottocento l'assistenza veterinaria è legata all'empiria. I progressi della scienza non hanno ancora trovato mediazioni per una traduzione pratica di essa credibile ed onerosamente accettabile.

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(17) G . M A R T U F I , Marecchia e Conca nella realtà territoriale pesarese, in «Conoscere le Marche» a cura di P . P E R S I , Ancona 1 9 8 5 , p. 2 4 . (18) Tabella della divisione dell'estimo catastale e della superficie coltivata nella provincia di Pesaro-Urbino, presentata da L . L A T T A N Z I , consigliere provinciale, il 5 ottobre 1890 al Consiglio della provincia. (19) C . C A T O L F I (a cura di), Pennabilli un centro storico e un territorio, PennabiUi 1980, p. 38. (20) Inchiesta agraria Jacini, voi. X I , tomo I I , le Marche, p. 1185. . ( 2 1 ) G . P A S Q U A R E L L I , Preistoria del potere, Milano 1 9 8 3 , p. 8 7 .

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( 2 2 ) B . V E C C H I O , / / bosco begli scrittori italiani del settecento e dell'età napoleonica, Torino 1974, p. 144. ( 2 3 ) «La voce dell'Appennino», n. 6, Urbino 9 febbraio 1868. (24) S . A N S E L M I , / / quadro economico: Pesaro e la provincia tra otto e novecento, in Arte e immagine tra Otto e novecento, Urbino 1980, p. 7 3 . (25)

C . C A T O L F I , cit.,

p. 3 9 .


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3. La Veterinaria dell'ottocento. L ' u o m o , allorché da cacciatore è diventato allevatore, si è dimostrato un acuto osservatore del comportamento degli animah domestici ed ha posto i l suo sapere e i l suo buonsenso al servizio di essi nel tentativo, spesso non riuscito, di prevenire le malattie, conoscerle, curarle e guarirle. I l primo stabilimento di veterinaria p e r ò sorge a L i o ne i l primo gennaio 1762 che diventerà Scuola reale i l 31 giugno 1764 (26). D a quel momento la zooiatria da empirica diventa scolastica (27). I n Itaha la prima scuola di veterinaria si apre a Torino, la seconda a Padova, la terza a Napoli e diventeranno Scuole Regie con l'unità d'ItaUa. Nello Stato pontificio funzionavano quelle di Ferrara dal 1786 e quella di Modena dal 1791 abohte poi dalla legge francese dell'8 settembre 1802 che perm e t t e r à a quella di Modena di sopravvivere fino a quando con decreto d e l l ' I agosto 1805, i l principe Eugenio la trasferirà a Milano (28). Nella nostra area i l problema della veterinaria viene avvertito dalle menti più aperte e sensibili: su iniziativa del vescovo Angeloni, allora cancelliere dell'università di Urbino, nel 1855 i l governo pontificio autorizza l'istituzione di una Scuola di medicina veterinaria da sostenersi finanziariamente dal Municipio in consorzio con la Provincia (29). U n a scuola che funzionerà per 33 anni, sempre in ristrettezze finanziarie, più per l'impegno dei docenti che per la sensibilità dei consiglieri provinciah e comunali. A n z i la Provincia, per ritenere inutile la spesa o per campaniUsmo, ne decretava la sopressione nel novembre 1863 proprio quando una epizoozia tifoidea stava imperversando dal Piceno all'agro romano (30). E quando i l Comune di Urbino se ne assunse le spese per la continuazione della Scuola, la Provincia, in una sessione straordinaria, ritornò sulla sua decisione corrispondendo un contributo di lire 350,

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poco più di mezzo stipendio annuo di un docente (31). Tentativi per i l potenziamento della scuola furono portati avanti dai docenti. Nel 1857, i l direttore della scuola si recò personalmente a R o m a per ottenere dal Prefetto degh studi, la facoltà di conferire ai veterinari i gradi accademici (32). Nel 1869 per la proposta del professor Messedagha di istituire in Itaha una quarta regia scuola di veterinaria da ubicarsi nell'ItaUa centrale, i l professor A l i p p i (33), già docente della scuola, propose la sede di Urbino, come sede ideale p e r c h é non lontana dall'adriatico e nello stesso tempo, centro della parte montana della provincia, p e r c h é era un'area dotata di molti pascoH e prati (34) e di gran copia di animah e p e r c h é è già sede di una scuola che avrebbe consentito notevoli economie di scala nelle spese per i docenti e nell'istituzione della sede stessa, disponendo l'Università libera del fabbricato ideale per la sistemazione della clinica. L a richiesta non verrà accolta e la scuola continuerà a funzionare con una media di dieci studenti all'anno e con cinque docenti, dei quah due di medicina veterinaria e tre mutuati dai corsi di Farmacia e Bassa chirurgia (35), e in crescenti difficoltà economiche. Nel 1888 la Scuola, che già da tre anni si reggeva sul solo direttore, per non aver avuto autorizzata la sostituzione di due docenti venuti meno per decesso e per trasferimento (36), veniva soppressa per non essere in grado la Provincia ed i l Comune a sostenerne l'onere finanziario (37), L a chiusura della Scuola, in un momento di rapida crescita del capitale bestiame e di progresso della scienza veterinaria, è una significativa indicazione dell'arretra-

(31) G . S C E L S I , Statistica di Pesaro-Urbino, (32)

D . P A G N I N I , cit.,

p.

Pesaro 1881, Tav. L X X X V I I .

7.

(33) N . P . A L I P P I , Sede più opportuna per una regia scuola veterinaria, Urbino 1870. (34) Ibidem, P . 14, ...fabbricato con terreno pari a ettari 1, 87, 10. (26) L . M E T A X À , Delle malattie contagiose ed epizootiche degli animali domestici, Roma 1816, p. 70. (27) G . G A G L I A R D I , Ieri, oggi e domani del servizio veterinario, in Atti e memorie dell'Accademia di agricoltura. Scienze e lettere di Verona, 1983, p. 51. (28)

L . M E T A X À , cit.,

p.

80.

(29) D . P A G N I N I , Soppressione della Scuola di medicina veterinaria nella libera università di Urbino, Urbino 1888, p. 7. (30) Ibidem, p. 8.

(35)

G . S C E L S I , cit., Tav. L X X X V I .

(36) Particolarmente grave la perdita dell'Alippi, uomo di grande prestigio nella città; ma grave anche il trasferimento del prof. Vittorangeli, uomo infaticabile e di notevoli iniziative. (37) Notifica comunale del 18 novembre 1888, prot. 5678. Ne seguì un'amara rimostranza del prof. D . Pagnini, direttore della Scuola dalla sua fondazione che ad anno accademico iniziato si ritrovò senza insegnamento e senza la possibilità di presentare domanda per altro Ateneo.


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tezza culturale, della scarsa considerazione per la veterinaria scientifica e del misconoscimento del contributo della scuola alla diffusione dei veterinari nell'area montefeltrana. Infatti su 19 veterinari e bassi veterinari presenti nel Montefeltro nel 1887, nove provengono dalla scuola di Urbino, tre da quella di Bologna, due da Camerino, uno da Milano e uno da Parma, tre sono empirici autorizzati all'esercizio della professione dalla regia prefettura di Pesaro (38). Mentre vent'anni prima, nel 1867, erano presenti solo cinque veterinari e un basso veterinario nei Comuni di Casteldelci, Macerata feltria, San L e o , Sant'Agata feltria, Tavoleto, Pietrarubbia (39). I n pratica un veterinario ogni 17.000 ettari e per circa 13.000 capi potenziali da seguire dispersi nel territorio dove i centri sono tra loro scarsamente e pessimamente collegati. Nel 1867 non ci sono ancora le strade consortili della Perticara che si congiunge con la consortile di Sant'Agata Feltria e quella di Sogliano (in progetto per metri 2.550), della Capriola (da Macerata Feltria a Capriola in progetto per metri 10.000), della Carpegna (da Capriola per la serra di Pietrarubbia, Carpegna e Pennabilh in progetto per 11.000 metri), di Pugliano (dalla Capriola per la Busca, Pughano e San Leo in progetto per 17.000 metri). Sono in costruzione le strade provinciah dalla T e r r a di Piandimeleto alla V i l l a di Lunano (per metri 3.158,6) e da qui all'incontro della provinciale di Macerata Feltria per Mercatale di Sassocorbaro (per metri 7.017,5), la strada di Belforte da Piandimeleto al confine di Arezzo (per metri 5.200), la strada di Conca che da Mercatino porta a Montecerignone (per metri 5.365) (40). Per la mancanza di collegamenti i veterinari patentati tendono a gravitare intorno alle città, terre e castelli e non a caso i l posto più ambito è quello del mattatoio comunale. Nelle case sparse più lontane dai centri e nelle montagne, dove d'inverno o nei giorni di pioggia i percorsi sono addirittura cancellati, nonostante i divieti prefettizi (41),

(38) Quadro generale degli esercenti sanitari legalmente riconosciuti nel circondario di Urbino al 1° gennaio 1887. (39) G . G A R G A N O , Manuale statistico amministrativo storico artistico della provincia di Pesaro-Urbino, Pesaro 1868, p. 5 5 . (40)

Ibidem, pp. 2 2 9 - 2 3 0 .

( 4 1 ) Relazione sullo stato della provincia di Pesaro-Urbino, fetto D E R O L L A N O , Pesaro 1862, p. 2 2 .

a cura del pre-

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l'unica alternativa è costituita dall'empirico, l'esperto del luogo facilmente raggiungibile e che non si trova a disagio negli spostamenti. N é sorgono dubbi sulle sue capacità: per queste, nella mentalità popolare, patentati e non patentati sono sullo stesso piano, con a favore di quest'ultima categoria, la confidenza, i l linguaggio comune ed i l minor onere economico (42). M a chi sono gh empirici? L'empirico per antonomasia è l'uomo «che possiede la virtù», quello che per naturale predisposizione acquisisce, spesso per eredità, una serie di conoscenze, frutto di sperimentazioni costanti perfezionatesi nel tempo e sostenute da una ampia serie statistica di esiti positivi conseguiti. Poi ci sono i maniscalchi che hanno per mestiere la cura degh arti, o megho dei piedi, i quali per la loro professione vengono a trovarsi nella condizione ottimale di ascoltare una vasta casistica di malattie e dei relativi interventi che memorizzano e consighano e, a volte all'occasione praticano. L e stesse considerazioni valgono per i castrini. I n genere quando una bestia dà segni di insofferenza, i l contadino, se ha una lunga pratica di stalla, fà, spesso con i l concorso dei contadini vicini, una prima diagnosi, migliora se del caso l'aUmentazione e tenta una prima terapia usando in combinazioni semplici aglio, cipolla, malva, scialappa o altre erbe e ancora vino, aceto, sale ecc., sostanze delle quaU conosce le p r o p r i e t à e le modalità d'uso. Se questi interventi non producono esiti, si ricorre all'empirico o flebotomo o cerretano, che ha esperienza su una ampia gamma di mali ricorrenti quali l'indigestione, la timpanide, la gastrite, la pleurite, l'orzaiola della lingua, i reumatismi, le mastiti, le febbri puerperali, le febbri carbonchiose ecc. che cura con erbe ed altre sostanze a combinazione più complessa che alterna alla frequente pratica del salasso. Se non si ottiene la guarigione sperata o si ricorre al Veterinario che quasi sempre arriva quando i l caso è senza possibilità di soluzione (43) il che non contribuisce a far progredire

( 4 2 ) G . V A L E N T I , L'economia rurale nelle Marche, Macerata 1 8 8 8 , p. G . G R E C O , Peccato, crimine e malattia tra ottocento e novecento, Bari 1 9 8 5 , p. 8 8 . (43) «Arriva il veterinario! la bestia muore di sicuro», un detto diffuso nelle campagne dell'urbinate fino alla I I guerra mondiale. Non mancano però eccezioni, come pare essere il caso del Dott. Borghi di San L e o , premiato con 163;


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la credibilità nella scienza; o ci si affida a San Antonio abate o a qualche altro accreditato Santo locale; o ci si mette nelle mani di ciarlatani o di chiunque sia in grado di dare un qualche credito alla speranza di salvare l'animale. Non v a dimenticato che le condizioni di vita nelle campagne di fine ottocento continuano a essere dure. L a scienza veterinaria, che pur si v a affermando, trova diffidenza ed ostilità, sia negli ambienti borghesi colti dove è considerata con scetticismo (44), sia nelle campagne perché i veterinari sono pochi e perdono nettamente i l confronto, nell'abilità operativa, con i l maniscalco e i l castrino e l'empirico quando devono lavorare su zoppie e castrature o i mali ricorrenti. Nelle altre malattie i veterinari si trovano ugualmente in difficoltà p e r c h è la chimica, la fisica, le matematiche apphcate non sono ancora in grado di sopportare in maniera efficace la farmaceutica veterinaria e pertanto devono ricorrere al mondo vegetale e minerale dai quali traggono medicamenti gli stessi empirici che sono numerosi, e che per le malattie ricorrenti hanno più mano. Inoltre in tempi di malessere diffuso, non sono le disgrazie a far notizia (come ora), ma gli esiti favorevoh anche se statisticamente molto inferiori a quelh sfavorevoH. L a guarigione di un animale, i l sistema usato, i l nome del guaritore passano di bocca in bocca attraverso gli incontri delle feste nei sagrati delle chiese e nelle osterie, nei mercati e nehe fiere. Perciò non è da stupire se l'empiria ha ancora i l sopravvento sulla scienza. L a stessa autorità pubblica è in contraddizione quando da una parte irride e divieta la pratica empirica (45) e dall'altra allinea tra gh autorizzati all'esercizio della zoojatria, empirici di riconosciuta fama (46). E che dire infine della insensibihtà delle autorità provinciah e comunali che trovandosi in difficoltà finanziarie operano tra i primi tagh della spesa pubbhca, la soppressione della scuola veterinaria di Urbino che poteva essere non poca cosa per la modernizzazione e per i l progresso dell'agricoltura di tutte le Marche settentrionali? Nemmeno le frequenti epizoo-

zie di afta creano perplessità a questa decisione. Si pensa, e forse è così, che le febbri aftose del 1851 che durano tre anni, così come quelle del 1864 abbinata alla peste ungarica, quella del 1870 con decorso benigno, e quella del triennio 1883-1885 (47) localizzate in diverse parti del territorio urbinate, si risolvano naturalmente e rimangano circoscritte più per i bandi che proibiscono l'uscita del bestiame infetto, che per le effettive cure ad esso prestate. I l fatto è che non si conoscono gli agenti patogeni della malattia tanto che la stessa cambia nome a seconda delle manifestazioni con cui si evidenzia. L a troviamo sotto i l nome di malum oris, malum linguae, malum pinsanese, taghoni, glossantrace, cancro volante, carbone essenziale ecc., a volte è confusa col carbonchio (48). L e terapie mediche proposte dagh empirici e dagh zoojatri non mostrano tra loro sostanziah differenze, ma v a precisato che, mentre i primi continuano a ripetere le ricette apprese, affermando che qualche volta hanno funzionato e ahmentando la speranza dell'agricoltore, i secondi hanno i l coraggio di affermare che «i contagi resistono ai rimedi dell'arte» (49) e di fronte a questa impotenza, ripiegheranno nel tempo sempre più sull'igiene e sulle norme di polizia sanitaria (50) con la certezza di limitare i danni. E se la scienza si dichiara impotente, la gente sceglie chi offre speranza.

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4. Terapie empiriche, «...cavagli i l sangue da l'unghia quante ne poi cavare .. .cavagli i l sangue dalla hngua e dal palato .. .cavagli sangue dalla vena sotto gh occhi quattro dita .. .cavagli il sangue in bocca e dalle orecchie una libra ...salassalo dalle reni da ogni banda e se non guarisce salassalo aUa ventura sotto il c o r p o . . . » (51) e si potrebbe continuare a conferma che i l salasso è una pratica costante nella veterinaria ottocentesca. Non solo i l manoscritto, da cui abbiamo preso lo spunto per queste

(47)

P. V E N T U R I , cit.,

pp.

10-11.

( 4 8 ) Ibidem, p. 4 . medaglia d'oro per essersi distinto nell'attività promozionale dell'inoculazione vaccina, come indica il Diario di Roma, n. 23 del giugno 1823. (44) G . S A N D R I , Manuale di veterinaria. Tomo I , Fuligno 1824, p. X . (45) Relazione De Rolland cit., p. 22. (46) Quadro generale degli esercenti, cit.

(49)

L . M E T A X À , cit.,

p. 3 7 1 .

(50)

P. V E N T U R I , cit.,

p. 18.

( 5 1 ) D a l manoscritto: i salassi citati si riferiscono in ordine alle seguenti malattie « A l bue rifredato. A l bue che avesse danate le interiora. Alle magagne d'occhio, Per una bestia che abbia la febbre».


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considerazioni, ma anche i coevi manuah di veterinaria e mascalcia lo consigliano ampiamente. E si protrae fino a novecento inoltrato. U n libro del 1943 (52), ad uso degh agricoltori, pur mettendo in guardia contro l'abuso del salasso e riconoscendone la ridotta pratica frequenza, per diversi casi lo ritiene ancora assai utile. Antica consuetudine questa del salasso ed anche di estesa applicazione ed è già descritta da Colummella (53) nel suo « D e re rustica» e da successivi scrittori di cose agricole. Nelle 64 terapie del manoscritto, i l salasso, come coadiuvante di cura, è previsto in ben 29 casi. L'uso del fuoco, che ha tradizioni antiche, è meno frequente, ma ugualmente importante. S i diceva infatti che « L e malattie non guarite dalle medicine son guarite dal ferro, quelle non guarite dal ferro son guarite dal fuoco, le malattie non guarite dal fuoco sono inguaribili» (54). I l ferro usato (lancetta o uno stilo qualsiasi) serviva per cauterizzare le ferite, superficiah o sottocutanee, per aprire bubboni e per curare l'artrite cronica delle articolazioni (nodello, garretto, ginocchio) (55). E , naturalmente i l ferro è i l migliore elemento per trasmettere i l fuoco. Infine i l manoscritto contiene le ricette di quattordici vescicanti, nome generico d'uso per indicare pomate e unguenti, (a far unguento da saldare, a far unguento da piede, a far unguento da nervo taghato ecc.). Non è stato facile il riscontro delle malattie indicate nel manoscritto con le corrispondenti dei manuah della veterinaria. Spesso la sintomatologia quando è descritta, lo è sommariamente, (al bue rifredato gli cala dagh occhi robba, come acqua chiara e non mangia ne beve), i l nome della malattia è in gergo mentre la descrizione dà generiche indicazioni ( A l male del Baccazio: questo male nasce sotto la hngua ed è un buco grande. I l rimedio è di salassarlo dalla bocca, dalla vena del fegato, dal polmone e da tutte e due le vene che sono d'ogni lato della lingua, onde poi v i metterai erba ungaresca e la ungerai con miele), o i l nome è riferito ad un organo preciso i l che rende più difficile i l riscontro (al male

del polmone, alla gonfiatura del bue, al male dell'occhio). Per un primo confronto ci siamo attenuti a quest'ultima indicazione per poter avere una qualche ipotesi giustificativa della persistenza della veterinaria empirica. I l male del polmoncello, termine improprio come annota i l testo di veterinaria, è prodotto dallo sfregamento della sella o da corpi contundenti sul dorso dell'animale che provocano un callo o tumore; per eliminarlo, si aggiunge nel testo, occorrono bagni di acqua salata o di acqua con aceto e poi col ferro si opera per ridurlo a piaga semphce (56). N e l manoscritto invece è detto «scotalo con ferro caldo e poi mettegh sopra erba ungaresca fino a che sarà g u a r i t o » . N e l caso di estrazione di un chiodo o stecco da un piede, il manuale suggerisce l'introduzione nel foro, sede del corpo estraneo, trementina o sevo fuso, i l manoscritto invece « e r b a ungaresca e mezza candela di sevo senza stupino» e poi i l salasso; in caso di complicazione con formazione di materia, a questa va procurato libero scolo con apertura deha piaga e, secondo i l manuale si devono apphcare «piumaccioU carichi di t r e m e n t i n a » (57), o, secondo un altro manuale, si bagni con un decotto di scorza di quercia per applicare poi acqua cuprea con piumaccioli di stoppa (58), o come dice i l manoscritto «mettici sopra miele, songia e siemola bollita ogni dì per sino a tre giorni che guarirà). L e analogie non vengono meno per i mah interni. Per esempio per la timpanitide, gonfiore di pancia prodotto da materie indigeste o per troppa ingestione di erba di spagna fresca in copia col trifoglio, o di cedrangola o foglie fresche di patate e di cavolo, ecc. I l manuale prescrive un purgativo composto da 30 oncie di olio di lino e da 2 oncie di aloe succotrino (metà dose per i cavalli); il salasso è opportuno p u r c h é non si tratti di indigestione. Se detti mezzi non portano alla guarigione bisogna « p r o c e d e r e al perforamento del ventre dal fianco sinistro, nel punto di mezzo tra le coste e l'estremità dell'anca e tra la colonna vertebrale e il behco, col trequarti (59), o, in mancanza di esso, con un colpo

144

(56)

( 5 2 ) S . G A L B U S E R A , L'agricoltore veterinario, Casale Monferrato 1 9 4 9 , ( 1 ° edizione 1 9 1 3 ) I V edizione, pp. 2 3 - 2 4 . ( 5 3 ) S . M . C O L U M M E L L A , Opere, Venezia 1 8 4 6 , liber sextus. (54)

S . G A L B U S E R A , cit.,

(55)

Ibidem, p. 3 6 .

pp.

34-35.

• - - "• ^ ^

G . S A N D R I , cit.,

p.

145

146.

(57) Ibidem, p. 1 6 5 . (58) A A . V V . , Tutti Veterinari, 32" edizione, proprietà dell'editore Manini di Milano per la legge 1 9 settembre 1 8 2 2 , p. 1 2 5 . ( 5 9 ) G . B O R R E L L I , L'ambulatorio del medico veterinario, Milano 1929, p. 129, strumento di varie dimensioni, per il rumine occorre quello più grande.


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di stilo ben appuntato. L'operazione è alla capacità di chiunque». I l manuale aggiunge che al gas che si forma internamente potrebbe aggiungersi gas idrogeno e pertanto se l'operazione si dovesse eseguire di notte, i l lume va tenuto lontano per evitare pericoli di incendi (60). L'altro manuale consiglia come infusioni, ranno, acqua saponata, decozioni di semi di anice, di finocchio, di ginepro, di agho, oppure due cucchiaini da tavola pieni di petrolio con mezzo litro di acquavite. Per l'eventuale successiva operazione, l'uomo deve collocarsi suha sinistra deh'animale «indi mettere la mano suUa cosidetta fossetta deha fame e cioè fra l'angolo dell'anca e deUe apofisi vertebrali alla distanza deU'uno e ah'altro deOa larghezza di una mano; la dove i due termini si incontrano, si deve applicare i l trocaro (trequarti) e pungere in modo, come se esso volesse uscire presso i l cubito deha gamba destra a n t e r i o r e » (61). I l manoscritto, come i l manuale, consiglia «mezza libra di aloe esottico», e aggiunge, se di necessità, un pesto di ruta e aglio stemperato in mezzo litro di vino bianco, al quale deve seguire un'oncia di teriaca, mezz'oncia di spezia con un boccale di vino bianco: «e se ancora non guarisse, salassalo dalla vena che è sotto i l corpo, che questo è rimedio ottimo e perfetto» (62). Mancano riferimenti specifici alle malattie epidemiche, ma si p u ò supporre che alcune di queste ad esse corrispondano, come « A l bue che avesse dannate le i n t e r i o r a » , « A l bue che avesse marcia la milza», « A l male deUa polmonare secca e al male della polmonare m o r a » . Q u i l'ignoto autore, pur consigliando ugualmente terapie, si rende conto della gravità del male e non si perita di non manifestarlo. Per i l male della polmonare secca, dopo aver consighato come rimedio «sangue d'uomo con vino» da ingerire, aggiunge «avverti che i l male è incurabile», S i spera nel sangue come sostanza v i vificante, per i l ritardo della morte e si va neh'immaginario e si insiste sul rosso. NeUa successiva ricetta « A l male della polmonare m o r a » , a una prima terapia a base di ortica, ruta e salvia, bisogna aggiungere, se la bestia sopravvive sei giorni, pane ar-

rostito e vino rosso e che essa non mangi alcunché di verde, ma cece rosso e ancora sangue da togliersi dalla vena del polmone e poi dalla coppa. Non mancano ammonimenti contro antichi pregiudizi come è scritto nella ricetta Alla febbre del bue: « A l bue che ha la febbre salassalo dal collo, dalle reni e dal naso, poi pigha un lenzuolo bagnato in acqua fresca e meliglielo addosso e bagnalo spesso. Pigha assenzio e semente di lino falle bollire con vino e gettagliele giù per la gola tre volte. Avverti ancora che se i l bue non vada di corpo, porta pericolo di morire e allora gli darai aloe con bollitura di malavischio. Li vecchi una volta gli davano gallina nera cotta, ma io t'incargo che gh dii quello che ho detto, aggiungendovi un'oncia di ferro e oho d'oliva che farà migliore o p e r a z i o n e » . A parte queste malattie epidemiche, di difficile controllo anche oggi, nelle malattie ricorrenti i metodi di cura usati dagh empirici e quelh previsti nei manuah di veterinaria non si discostavano eccessivamente. E forse non poteva essere altrimenti p e r c h é le veterinaria ha preso molto dall'empiria e molto ha ridato all'empiria nel corso dell'ottocento attraverso piccoh manuali destinati ai pratici e agli agricoltori, spingendoli ad operare direttamente (63). Se polemiche ci sono state, queste erano rivolte più ai ciarlatani (che non dovevano essere pochi) e agli agricoltori creduloni che ai praticanti esperti (64). D e l resto i veterinari erano pochi (65) e tendevano a rimanere in città e nei dintorni più comodi. Nella estesa periferia cohinare e nella montagna dura di questa terra, ogni area aveva il suo esperto (l'esistenza del manoscritto ne p u ò essere una dimostrazione) che più facilmente poteva spostarsi, in ogni stagione, a piedi, a cavallo e a dorso di mulo. Probabilmente a favore degli empirici giocava una maggiore agihtà operativa, soprattutto per le malattie esterne che curano per ripetizione: stessi sintomi, stessa cura. I l veterinario che sa di più come scienza e come medicine è costretto a prognosi più incerte e non è protet-

146

(60)

G . S A N D R I , cit,

p. 7 0 .

( 6 1 ) Tutti veterinari, cit., p. 1 3 2 . ( 6 2 ) Così il manoscritto.

147

( 6 3 ) « . . . e a far ricorso ai veterinari nei casi piii complessi». ( 6 4 ) A . V O L P I , Trattato delle malattie epizootiche e contagiose degli animali domestici, Milano 1856, p. 2 9 3 . ( 6 5 ) Esercenti professioni sanitarie della provincia di Pesaro nel 1 9 1 1 . Prefettura di Pesaro, Pesaro 1 9 1 1 . 1 veterinari patentati sono I l e i basso veterinari patentati 2 .


SERGIO PRETELLI

148

Z O O I A T R I A EMPIRICA MONTEFELTRANA NELL'OTTOCENTO

T a b e l l a costruita sui dati del M a n u a l e statistico amministrativo storico e artistico della Provincia di P e s a r o - U r b i n o , a cura di G . G a r g a n o , Circondari e Provincie

Popolazione 1867 1875

Territorio-Ha. 1867

1607

1539

1955

Belforte I .

462

506

1170

Carpegna

1300

1273

2706

1094

909

3919

Frontino

465

470

906

Lunano

566

608

1403

Macerata Feltria

2140

2196

3092

Maiolo

1200

1237

2257

Monte Cerignone

1118

1107

1680

Monte Copiolo

1150

1167

3463

Monte Grimano

2224

2249

2452

Pennabilli

2297

2536

4047

Auditore

Casteldelci •a-

Pian di Castello Piandimeleto Pietrarubbia

669

708

1176

1594

1607

3877

481

531

1284

San Leo

3920

3849

4953

S. Agata Feltria

4240

4352

7072

Sassocorvaro

2795

2858

6514

Sassofeltrio

1408

1550

1908

Scavolino

855

944

3342

Talamello

4110

4867

4313

Tavoleto

1060

1060

1217

37905

38123

64706

Totali

149

e sulla Statìstica del bestiame, a cura del Ministero di agricoltura, industria e commercio, pubblicati rispettivamente a Pesaro nel 1868 e a Roma nel 1875. Cavallino 1867 1875

Bovino

Ovino

1867

1875

1867

Suino 1875

1867

1875

72

83

186

383

997

1148

336

202

20

20

70

114

770

685

120

56

98

61

317

507

1220

1159

280

172

100

121

700

697

2783

2351

260

240

4

27

133

183

895

757

141

129

2

36

169

167

750

992

200

161

32

87

427

524

1111

1971

350

252

50

60

500

601

1400

1623

400

331

60

58

450

441

1300

1502

720

294

130

69

800

643

4800

1757

200

288

104

80

726

567

2377

1578

590

128

147

912

2404

542

29

43

178

241

585

652

155

60

10

75

280

444

2993

2913

378

285

31

17

212

102

812

369

181

51

98

170

767

1182

2247

2356

420

369

280

274

1450

1152

5000

3647

800

473

50

162

922

716

3062

3153

780

524

100

79

258

350

1000

871

100

57

50

64

800

564

1300

1943

250

249

70

256

425

890

2000

2276

350

224

45

63

194

217

520

644

160

105

1435

2052

9964

11597

37922

36751

7171

5192


SERGIO P R E T E L U

Z O O I A T R I A EMPIRICA MONTEFELTRANA NELL'OTTOCENTO

to, in caso di insuccesso, da esiti favorevoli di precedenti esperienze. S i p u ò sostenere che, fino alla grande rivoluzione immunologica di fine ottocento, l'antica farmacologia ha dominato nelle nostre campagne. S i comincia a mettere un po' d'ordine nel settore con la legge Pagliani-Crespi del 1888, sulla quale poi si ordinerà la regolazione della condotta del 1901, perno del servizio veterinario (66). E con un servizio amministrativo ordinato e col progredire deha scienza, l'antica medicina, sempre meno competitiva, si avvia inesorabilmente sul viale del tramonto. G h empirici, sia pur lentamente, subiranno la polemica concorrenza dei veterinari patentati, specie per la cura dei bovini: rimarranno degh spazi nel settore suinicolo (67) e rimarranno i maniscalchi e i castrini, abili, bravi e spesso inimitabili nella loro professione.

chi anni in stato di buon servizio (72). Quelh in p i ù , vengono esportati al nord, verso Venezia e Padova attraverso i mercati di Mordano e Mondaino e verso la Toscana e R o m a per il mercato di Città di Castello, essendo sconosciuta nella parte montana soprattutto, la pratica della macehazione dei bovini (73). I l quadro statistico che segue mostra l'aumento del bestiame bovino ( + 1633) e del cavallino, con asini e muh ( + 617) nel primo venticinquennio dell'unità itahana, possibile probabilmente per una più larga disponibilità di foraggio, tratto dal terreno diboscato, e per la conseguente aumentata necessità di forza-lavoro.

150

5. Stato e statistica del bestiame. I l bestiame nel Montefeltro tende a crescere nel corso dell'ottocento. Nei primi anni del secolo si potevano trovare da due a quattro capi per possessione (68); nel declinare del secolo, già si potevano calcolare in cinque o sei (circa due capi ogni dieci ettari) numero scarso in relazione all'estensione del terreno (69). S i tratta di animah esclusivamente da lavoro, di razze diverse, essendo presenti in questa area di confine, la chianina e la romagnola con l'indigena locale, «a mantello più scuro e meno pregevole» (70). G h incroci sono casuali, per ignoranza e pregiudizio (71), e i vitelh vengono allevati in stalla per sostituire gh adulti che, malnutriti, durano po-

(66)

G . G A G L I A R D I , CÌL, p. 5 1 .

(67) / / Pungolo, n. 9 del 1 ° agosto 1904, giornale della cattedra ambulante di agricoltura di Urbino « . . . i veterinari curano malvolentieri i maiali...». (68) G . B R I G N O L I , Dell'agricoltura del Dipartimento del Metauro, Urbino 1 8 1 1 , p. 4 0 . (69) Ministero di agricoltura, industria, commercio, statistica, Statistica del bestiame, Roma 1 8 7 5 , p. C I V . (70) A . C O M I N I , Per il miglioramento del nostro bestiame bovino, Urbino 1 9 0 7 , p. 5 . ( 7 1 ) A . V O L P I , cit., «L'introduzione di nuove razze, l'emigrazione degli animali è a riguardarsi come una causa dello svolgersi delle malattie contagiose». (72)

G . B R I G N O L I , cit.,

p. 4 0 .

151

Ah'aumento del bestiame bovino e cavallino corrisponde una diminuzione del bestiame ovino ( — 1171) e suino ( — 1979) con un saldo negativo di meno 900 unità. E mentre la diminuzione degli ovini fa pensare a un calo fisiologico dovuto alla diminuzione di pascolo e fogha, il calo dei suini, più consistente e che pur potrebbe essere legato ai diboscamenti (calo di ghianda, allevamento brado) fa pensare ad eventi epidemici. G h animah, come gli uomini, risentono immediatamente di una minor produzione, sia essa dovuta a un ridotto coltivato o a una crisi agraria. L'alimentazione del bestiame è infatti scarsa e scadente. Molta paglia frammista a fieno in inverno, foraggio fresco e foglia (olmo, quercia, fico, vite) (74) in altre stagioni con rare alternanze di miscugli di veccia, mochi (75), avena e per particolari occasioni (figliature, malattie) crusca e orzo. L o stato delle stalle è pietoso, specie nehe zone montane, ma dappertutto esse sono anguste, soffocate, buie, umide, sporche e puzzolenti per il letame ammucchiato per giorni lungo le pareti, dentro e fuori la stalla (76). I n quelle stalle dove spesso d'inverno la famiglia contadina passa le sue serate (a filare, a fare cesti ecc.) p e r c h é più della puzza conta i l calore. Sono tempi duri per tutti e i l manoscritto con i suoi settantanove suggerimenti, alcuni dei quali

(73) Ibidem, p. 4 1 . (74) G . S A L V I , La scalvatura della cerreta nell'alta Val del Trebbia, Note dalle fonti orali, in «Quaderni storici» n. 4 9 , 1 9 8 2 , p. 1 4 8 . (75)

G . V A L E N T I , cit.,

(76)

Ibidem, p. 143. Inchiesta Jacini, cit., p. 4 0 3 .

p. 1 4 3 .


152

SERGIO P R E T E L L I

molto crudi, ma altri certamente sensati (per le conoscenze di allora), dimostra che per la propria sopravvivenza così come per queUa delle sue bestie, l'uomo è costretto a tentare i l possibile e l'impossibile e che temperando le due cose (77), scienza ed empiria, possono coesistere ed essere alla fine fattori di progresso.

(77) V . T O N E L L I , Uomini e bestie in Romagna, Imola 1982, p. 8.


I N D I C E

5

W A L T E R MONACCHI,

Una tomba romana a Castel Vento-

so di San Marino 21

35

P I E R L U I G I S A C C H I N I , Tra Feretrano e Sarsinate: la Pieve di S. Ilario di Tornano (Mercato Saraceno) FRANCESCO

V . LOMBARDI,

Due formelle zodiacali nel

duomo di San Leo 53

CORRADO

LEONARDI

- CATERINA

FRATERNALI,

L'af-

fresco di S. Maria di collina presso Talamello 71

ALESSANDRO

MARCHI,

"Pompeius Fanensis" in Sant'A-

gostino a Pennabilli 83

Sestino-Montefeltro: aspetti di vita quotidiana nelle fonti locali (XVI-XIX sec.) GIANCARLO

RENZI,

105

MARCO BATTISTELLI,

129

SERGIO PRETELLI,

l'ottocento

Miniere di zolfo a Perticara

Zoojatria empirica montefeltrana nel-