ДЕТИ

L’Italiano deve nuovamente tornare a manifestarsi per le sue potenzialità e per le sue qualità. Ma, per inettitudine, comodità e atteggiamento rinunciatario, desiste dal farlo. Un esempio? Non abbiamo un obiettivo preciso per il nostro futuro: il famoso PNRR - Piano Nazionale Ripresa e Resilienza - è stato interpretato da tutti come una
pioggia di soldi in un periodo di siccità economica, non come una irripetibile, prospettica opportunità di crescita per il Paese.
Il nostro è anche e soprattutto un problema di qualità della classe politica: la buona politica si fa con élite capaci di visione, progettualità, sintesi, azione. Il Paese oggi,
invece, produce individualisti, opportunisti, opinionisti in grande, intollerabile quantità. E coltivare ed esaltare l’opinione è una iattura - direbbe il grande Montanelli - perché produce chiacchiere, aria fritta, inconsistenza di pensiero e di dialogo.
Ricordiamo che le grandi stagioni sono nate da crisi trasformative che procurano scuotimento, dispiegamento di energie, stimoli, determinazione sugli obiettivi. Gli unici rimedi capaci di farci uscire dalla mediocre sopravvivenza.
MARZO 2023
Invitiamo i nostri lettori a passeggiare insieme a noi nel bosco della complessità e della positività. Vedremo come la Ricerca - scientifica, sociopolitica, culturale, etica, economica e produttiva, insieme all’Innovazione - tecnologica, di metodo, di comportamento, di processo, di
prodotto, cambia la nostra vita. Vedremo come l’innovazione creativa concorra, giorno dopo giorno, alla costruzione di nuovi modelli di relazione economica, sociale, produttiva e organizzativa procedendo instancabilmente, in parallelo, alla distruzione di quelli precedenti.
Un appuntamento mensile. Brevi articoli monotematici che rimandano ad approfondimenti, per chi desidera; repertori iconografici scelti in virtù di criteri estetici; l’impegno di affrontare e di interpretare in modo semplice, ma non semplicistico, la complessità; il piacere della scoperta, dello scambio e della relazione positiva con i nostri Lettori.
Benvenuti a bordo!
Il Comitato di Redazione:
Fabrizio Favini
Edoardo Boncinelli
Roberto Cingolani
Enrico Giovannini
Gianni Ferrario
Già Ministri ed Opinion Leader
Presidente Global Compact Network Italia Lettera alle Aziende
Già Ministro di Grazia e Giustizia
La mediazione dei conflitti nella nostra vita e nei tribunali
La Politica è un’industria, un’industria di determinante importanza per l’intero Paese: è l’Industria del Benessere del Cittadino.
E, come ogni industria che abbia un senso e un futuro, necessita della propria Imprenditoria Politica, ovvero di quel mix di talenti indispensabili affinchè il progetto politico non si concluda al solito con un nulla di fatto – cosa a cui siamo ormai abituati.
Ma chi è un Imprenditore Politico?
È un profilo di alto livello, tipico di un terziario avanzato: la missione di soddisfare i bisogni di un’intera popolazione richiede un complesso di capacità superiori rispetto a quelle richieste ad un Imprenditore con la missione di sviluppare il conto economico della sua azienda - intendiamoci, cosa mai facile e mai scontata.
Una domanda, allora: un Imprenditore Economico deve soddisfare i propri Clienti;
altrettanto deve fare un Imprenditore Politico nei confronti di una Popolazione. Ma se il bravo Imprenditore Economico naturalmente arriva a conoscere – e quindi a soddisfare – il proprio Cliente, un Imprenditore Politico dove, come, quando arriva a conoscere e soddisfare il suo Cliente?
Su questo punto si è da troppo tempo ormai consumato il grande atto di arroganza della nostra Politica che non si preoccupa di conoscere adeguatamente le esigenze della collettività per poi orientare in forma mirata le coerenti, conseguenti iniziative.
I Partiti si sono allontanati dalla Società; questo perchè la Politica da tempo decide in piena autonomia cosa serve al Cittadino, in piena autoreferenzialità, senza un costante ed effettivo riscontro con la realtà. E i risultati sono sotto ai nostri occhi.
Anni fa qualche partito politico disponeva ancora di una scuola interna per formare
i propri dirigenti e i propri quadri: infatti c’era la consapevolezza che non si poteva improvvisare conoscenza, competenza, sensibilità sociale ed emotiva basandole sul sentito dire e sull’arroganza del Potere. Oggi questa struttura educativa la vediamo da tempo archiviata come una delle tante pagine di storia. Ma allora chi si occupa di formare le classi dirigenti politiche? Anche qui, forse l’arroganza porta a decidere che non c’è niente da imparare per fare Politica?
Una storia di successo: Barack Obama 2008. Sia per vincere le elezioni quanto per conoscere adeguatamente il suo elettorato, il Presidente USA organizzò un meccanismo di profilazione della popolazione messo a disposizione dalla piattaforma informatica Narwhal. Ciò permise ad Obama di individuare, ad esempio, elettori in difficoltà economiche avviando così specifici programmi di supporto e assistenza. Narwhal arrivò a memorizzare oltre 13 milioni di indirizzi email e oltre 1 milione di numeri di cellulari.
Per ascoltare e soddisfare i propri Clienti, molte aziende italiane ed internazionali da tempo si avvalgono di analoghe piattaforme digitali per il community management mettendo le più avanzate tecniche di Business Intelligence al servizio del mercato.
Forse qualche partito politico italiano ne segue l’esempio? Giammai! Ci si limita ad organizzare talk show, interviste, bancarelle in piazza per intrattenere il Cittadino che si diverte ad assistere alle baruffe da cortile tra rivali politici.
Come dice Sabino Cassese, i Partiti sono ormai esclusivamente comitati elettorali. Questa è l’attuale offerta politica. E poi gli ipocriti si meravigliano che più del 50% degli Elettori diserta le urne.
Un altro spunto. Sui 27 Paesi della UE, l’Italia è al 26° posto in fatto di scolaritàal 27°posto troviamo la Romania, il fondo della classifica. Ciò porta al risultato che il 28% degli Italiani è analfabeta funzionale!
Su questo disastroso scenario, quale partito politico si è mai dedicato con fatti concreti a ridurre l’enorme zavorra alle caviglie che impedisce al Paese di elevarsi? La Scuola e l’Università italiane sono oppresse da regolamenti e burocrazie che impediscono di innovare contenuti didattici, modalità, percorsi. E quindi di soddisfare i propri Clienti-Studenti.
Come risposta al grande problema, la Politica ha pensato bene di disintegrare l’assetto operativo e normativo formato da Istruzione, Università e Ricerca – tempo fa sotto ad un unico Ministro, il MIUR – in modo da desincronizzare e disarticolare qualsiasi miglioria e sinergia tra i vari dipartimenti del Sapere. Oltre a ciò la Politica, invece di considerare il Sapere la più formidabile leva per lo sviluppo del Paese, l’ha sempre ritenuta la Cenerentola della situazione, affidandola a ministri di inadeguata visione, progettualità, statura intellettuale.
Ecco allora che ci risulta chiaro cosa
intendiamo per Imprenditoria Politica e perché essa ci serve con straordinaria urgenza, anche se sappiamo che – qualora riuscissimo a generarne una – il processo richiesto è molto lungo e faticoso.
Serve quindi parlare non più di cambiamento, vocabolo ormai inflazionato e destituito di qualsiasi significato, bensì di una autentica rivoluzionepositiva. Aristotele - ricordiamolo - diceva che l’inizio della saggezza è chiamare le cose col loro vero nome. E lui di saggezza se ne intendeva.
ALBERTO MINGARDI MAURIZIO SACCONI
Perché serve uno «Stato essenziale» per avere una società di nuovo vitale? La tesi di fondo del libro di Maurizio Sacconi e mio è che la crescita dell’intervento pubblico avvenga a scapito della vitalità sociale.
Lo statalismo sottrae spazi all’autoorganizzazione della società, prova a rispondere a tutti i bisogni socialiperlomeno, a tutti i bisogni sociali che i decisori pubblici riescono a immaginarema si tratta spesso di tentativi maldestri e mal sintonizzati su quegli stessi bisogni. L’esito produce non solo politiche pubbliche, spesso non molto efficaci, ma ha anche ripercussioni culturali. La società disimpara a muoversi senza sostegni, autorizzazioni, sussidi, aiuti, ristori. Qualcosa di simile avviene, e per certi versi in modo ancora più marcato, agli attori economici, i quali perdono la capacità di rischiare e il gusto di innovare. E finiscono per attendere il «bando» e l’incentivo giusto, per mettere in campo iniziative più o meno a colpo sicuro. Non sono problemi nuovi. Il dibattito su che cosa deve fare lo Stato è antico quanto lo Stato stesso. È la questione politica per eccellenza. Ma negli ultimi anni è parsa a molti una questione anacronistica, obsoleta. Lo Stato dovrebbe fare, semplicemente, tutto. Non solo svolgere bene, o perlomeno meglio, i suoi compiti tradizionali. Ma riappropriarsi dell’attività
produttiva in prima persona, imprimervi una svolta nella direzione delle transizioni ecologiche e digitali, accompagnare passo passo il singolo individuo nelle sue stesse scelte di vita, indirizzandolo sempre più verso una condotta salubre e buona.
Sono caduti due pilastri, non tanto del liberalismo ma del buon senso: prima di tutto la constatazione che, comunque, per quanto vaste possano essere le risorse pubbliche, esse sono finite, scarse, e per questo bisogna scegliere che farne, sapendo che se scegliamo l’opzione A non possiamo più perseguire anche l’opzione B; poi la consapevolezza che le istituzioni pubbliche, soprattutto in una società complessa, servono per stabilire un modus vivendi mai pienamente soddisfacente per tutti. E che proprio per questo consente che valori, idee, progetti di vita differenti possano coesistere pacificamente.
Questo è stato reso possibile dalle condizioni eccezionali degli ultimi anni. Dal 2007, ci muoviamo di emergenza in emergenza. La crisi finanziaria del 2007/2008 è diventata, agli occhi dei più, la dimostrazione dell’insostenibilità del capitalismo di libero mercato nonostante si sia sviluppata all’interno del sistema bancario, cioè coinvolgendo quelle imprese che più assomigliano, sotto il profilo organizzativo, alle pubbliche
amministrazioni e soprattutto che più puntualmente sono condizionate dalle stesse.
Innanzi a un’emergenza come la pandemia, la lettura prevalente è stata che fosse necessario «chiudere» le nostre società aperte, ricorrendo a un’interpretazione muscolare del principio di precauzione. Oggi, dopo il plateale fallimento del Covid zero in Cina, qualcuno comincia a riconoscere che le nostre società aperte, nelle quali le informazioni si muovono liberamente e in cui persone e imprese possono mettere in campo tentativi diversi per risolvere i problemi, hanno reagito meglio nell’emergenza: e a questa loro «apertura» noi dobbiamo la ricerca che ci ha consentito di comprendere la minaccia che avevamo di fronte e sviluppare vaccini in tempo record. È a questa «apertura» che dobbiamo la mobilitazione di medici, ospedali, centri di ricerca, imprese, tutti impegnati a venire alle prese con il virus, in una catena di tentativi e inevitabili errori che però ci ha permesso di sviluppare rapidamente
soluzioni adattative. Ma la risposta iniziale, delle nostre società aperte e soprattutto dell’Italia, non è stata scommettere sui propri punti di forza. È stata al contrario seguire, per quanto possibile in una liberaldemocrazia (e abbiamo scoperto che è un «quanto» assai più ampio di quel che immaginavamo), l’esempio cinese, con regole dirigistiche che arrivavano al punto di provare a distinguere le produzioni «essenziali» dalle altre. Abbiamo scoperto che non era poi così semplice e ne siamo usciti all’italiana: con le autocertificazioni. In pochi però hanno riconosciuto l’errore. In tutto questo contesto, un’espansione monetaria semplicemente senza precedenti prima, e da ultimo le iniziative di NextGenerationEU, hanno fatto sì che prevalesse l’illusione che «le risorse non sono un problema», e che magari l’ulteriore indebitamento - in un Paese come l’Italia in cui il debito pesava già oltre il 100% del PIL prima di questa catena di crisi - potesse essere buono.
Come sempre, le emergenze portano all’espansione del perimetro pubblico. Che si dilata facilmente e che poi è invece difficilissimo ridurre. L’IRI, lo si è ricordato in questi giorni, nasce come ospedale da campo del sistema bancario italiano: poi si trasforma in ospizio delle imprese italiane, e dura settant’anni.
In questi anni, con la crescita del perimetro dello Stato è però anche cambiata la visione della società. Gli interventi emergenziali non si sono accontentati di legittimarsi in nome dell’emergenza stessa: si sono proposti di tamponare le nuove inquietudini e le nuove paure. Ha messo radici l’idea che lo Stato non sia solo un grande assicuratore, pronto a entrare in campo contro rischi catastrofici ma che sia in grado di prevenirli. Questo è un fenomeno più italiano di altri:
prima ancora del Covid zero, le norme erano scritte per garantirci la corruzione zero, o il rischio zero. Per tenere il passo di una promessa così ambiziosa, l’unica possibilità è intervenire minuziosamente sui comportamenti. Diciamo alle imprese come allocare i fattori produttivi. E sempre più diciamo anche agli individui come devono gestire la propria vita.
Il risultato è una crescente atrofia della società. In Stato essenziale, Società vitale, che si apre con una citazione di Luigi Sturzo, ricordiamo sommessamente che se c’è un’Italia alla quale guardare, è quella della ricostruzione. Nel 1946 il PIL italiano era tornato ai livelli del 1906. Nel 1949, il PIL italiano è già di dieci punti più alto di quanto non fosse nel 1939. Nel 1953, per quanto la popolazione sia cresciuta di circa 4 milioni di persone rispetto al periodo pre-bellico, il PIL pro capite era del 30% più alto del livello raggiunto nei vent’anni precedenti. Fra il 1948 e il 1960, il PIL cresce del 5,6% l’anno con un’inflazione media del 3%. Un Paese agricolo si industrializza e la quota delle esportazioni sul prodotto passa dall’8% del 1938 al 21% del 1965.
Il «miracolo» viene da politiche di benign neglect : lo Stato repubblicano era troppo debole per «fare» e decise di non ostacolare chi aveva voglia di fare. La storia non ritorna e le condizioni - dal quadro internazionale alla cultura della regolazione - sono oggi diversissime. Ma a quello spirito in qualche modo si dovrà tornare. Finita la sbornia monetaria, verranno necessariamente ridimensionati anche obiettivi e parole d’ordine di quella stagione. Ci si accorgerà che le magie (anche se anziché «abracadabra» si dice «Pnrr») non esistono. Si dovrà fare i conti con la limitatezza delle risorse pubbliche e con la difficoltà di mobilitarle in modo opportuno. Per frenare il declino
dell’Italia si può solo provare a fare leva sulla società: sui privati, sulle associazioni, sui corpi intermedi, sulle comunità locali. Che nel nostro Paese restano giacimenti di conoscenza, passione civica, energie. A dispetto dei numerosi tentativi di prosciugarli.
Albero Mingardi e Maurizio SacconiL’8 marzo è la Giornata internazionale della donna e l’UN Global Compact Network Italia, come ogni anno, la celebra come importante occasione per ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche fatte dalle donne, ma soprattutto per ribadire la nostra opposizione alle violazioni e discriminazioni tutt’oggi perpetrate nei loro confronti. Per questo motivo desidero oggi dedicare una riflessione ad una delle sfide più grandi e impegnative per l’avanzamento di un pieno empowerment femminile, ossia il raggiungimento dell’obiettivo “zero harassment” nei luoghi di lavoro.
Dai dati che abbiamo a disposizione sul tema, lo scenario con cui siamo chiamati a confrontarci è poco confortante. Secondo
il Report Experiences of violence and harassment at work: a global first survey, pubblicato nel 2022 dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, oltre il 26% delle lavoratrici e dei lavoratori nel mondo ha subito episodi di violenza e molestie - sia di natura psicologica che fisica - durante la propria vita lavorativa. Possiamo notare quindi che, sebbene nell’immaginario comune le vittime di questo fenomeno siano solo le donne, nella realtà esso coinvolge anche la popolazione maschile. Tuttavia, dallo stesso Report possiamo evincere che le lavoratrici sono doppiamente esposte rispetto agli uomini ad episodi di discriminazioni e violenze, in particolare a quelli a sfondo sessuale. Spostandoci dallo scenario globale a quello italiano, le percentuali sui fenomeni
di harassment aumentano sensibilmente. Secondo un’indagine condotta nel 2021 da IPSOS in collaborazione con la ONG WeWorld, il 66% delle donne intervistate dichiara di aver subito un comportamento molesto almeno una volta nel corso della propria vita lavorativa.
Quantificare il problema, però, non è semplice - lo evidenziano anche gli stessi studi sul tema - poiché i dati sono spesso influenzati dai condizionamenti sociali delle vittime, che per paura o disagio non sempre riportano gli episodi di molestie subiti. È molto probabile, quindi, che il fenomeno abbia una portata anche superiore a quella registrata. Ed è pertanto evidente che gli sforzi compiuti sinora non sono sufficienti: è necessario un maggior
impegno da parte nostra e, in particolare, del mondo imprenditoriale.
Da qui rivolgo il mio appello al settore privato ad attivarsi per rispondere a questo scenario che non favorisce la partecipazione femminile alla vita economica, ed a riorientare i processi aziendali interni verso azioni e pratiche più rispettose dei diritti delle donne. È importante che le imprese agiscano in senso ampio, consapevoli del fatto che il fenomeno della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro ha ripercussioni negative principalmente sulle donne, ma anche sull’impresa stessa e la società.
Per le lavoratrici, subire una molestia è sinonimo di grave vulnerabilità. Una donna vittima di un episodio del genere
è più propensa a lasciare il proprio posto di lavoro; allo stesso modo, colei che si oppone rischia di riscontrare maggiori ostacoli a sviluppare un proprio percorso di carriera e di aumento della propria leadership. Un mercato del lavoro dove permane l’harassment è uno “spazio di opportunità e affermazione” chiuso - parzialmente o completamente - alle donne, con una conseguente perdita dell’autonomia finanziaria ed un aumento della vulnerabilità della donna anche nella sua dimensione privata. In questo quadro, anche l’impresa paga un prezzo: meno motivazione, partecipazione e produttività da parte delle lavoratrici interessate da casi di harassment ; maggiore turnover del personale; minore equità nei percorsi di crescita interni con un impatto negativo nella valorizzazione dei talenti; maggiore rischio reputazionale interno ed esterno. Ripercussioni negative si verificano anche sulla società nel suo complesso, dove si perpetua una comunità meno prospera e
ancora caratterizzata da una cultura non rispettosa dei diritti fondamentali delle persone.
Dunque, il mio invito alle Aziende è di adottare politiche e misure sempre più audaci ed efficaci volte sia a migliorare il contesto organizzativo interno, che ad avere un impatto più incisivo sulla società in cui operano Serve un approccio preventivo e sistematico, che riesca a sradicare e gestire i comportamenti malsani. Serve una cultura di tolleranza zero nei confronti degli episodi di molestie e violenza. Essendo quella del sexual harassment una criticità strutturale del contesto lavorativo nel nostro Paese e nel mondo intero, ritengo sia necessaria una profonda e costante opera di prevenzione, educazione e sensibilizzazione, ad ogni livello aziendale. Parallelamente, è fondamentale creare opportuni canali che consentano alle vittime di far emergere e denunciare questo tipo di episodi senza
ripercussioni sui loro percorsi lavorativi, costruendo allo stesso tempo un ambiente interno ed una cultura aziendale che faccia sentire le donne libere di esprimersi.
Nel mio ruolo di Presidente di una rete nazionale a cui partecipano circa 500 aziende impegnate sui temi dello sviluppo sostenibile, posso testimoniare che nel nostro Paese si registrano già delle good practices avviate in questo ambito da parte di organizzazioni di ogni settore e dimensione. Allo stesso modo, sono consapevole di quanto potenziale resti ancora inespresso e, quindi, di quante nuove iniziative possano essere messe in campo, singolarmente e in sinergia con gli stakeholder interessati. Da qui, il mio auspicio è che le imprese rafforzino il loro impegno e la loro azione. Ed è per questo che, come Network italiano del Global Compact delle Nazioni Unite, lavoriamo in maniera continua e sistematica al loro
fianco, fornendo competenze e strumenti pratici in un’ottica di accrescimento dell’impatto sull’SGD 5 - Parità di Genere e sull’empowerment femminile. Tra questi, c’è la possibilità per le aziende aderenti di partecipare all’Osservatorio sulla Diversity & Inclusion e al percorso di accelerazione Target Gender Equality ; o ancora, di sottoscrivere i Women Empowerment Principles (WEPs), il cui principio N.3 è volto nello specifico a garantire la salute, la sicurezza ed il benessere psicofisico delle lavoratrici e dei lavoratori.
*Intervento alla presentazione del libro “UNA GIUSTIZIA ALTA E ALTRA: la mediazione dei conflitti nella nostra vita e nei tribunali” della Professoressa Maria Martello
Per affrontare il tema della mediazione vorrei muovere da una constatazione preliminare. L’individuo diventa persona attraverso lo sviluppo di tre caratteristiche che esprimono il DNA della sua personalità: la relazione con gli altri; la collocazione nello spazio reale o virtuale; la percezione dello spazio del tempo passato e futuro.
Queste tre caratteristiche dell’identità umana sono state e verranno sempre più compresse nello sviluppo di una tecnologia che sta facendo miracoli, ma che apre anche a molti problemi. Il primo è quello delle relazioni tra la persona e gli altri. Mi ha colpito il discorso da cui muove la Professoressa Maria Martello: “il giudizio danneggia le relazioni” perché rischia di svilupparsi in termini di autoreferenzialità, attraverso un procedimento ed un linguaggio tecnico non sempre comprensibili. Noi facciamo del nostro meglio per non farci capire, anche per mantenere un’aura di potenza nella gestione delle relazioni. La conflittualità, che è la crisi della relazione, si risolve fino a un certo punto nel giudizio; continuo a sentire questo limite nella mia esperienza di persona che si è occupata essenzialmente, se non prevalentemente, del diritto.
Ritrovo questo discorso, ad esempio, in un tema che sembra non avere a che fare nulla con il tema della mediazione, ma che è tremendamente attuale: il problema del conflitto fra Ucraina e Russia. È la necessità di sbloccare una situazione in cui ci troviamo di fronte a posizioni inconciliabili e alla difficoltà di far capire all’uno quello che dice l’altro; non dico di farlo accettare, ma di farlo entrare almeno in una logica di dialogo anziché di scontro.
Si richiede a gran voce di trovare un mediatore credibile che avvii i primi contatti in modo da frenare le pulsioni estreme dei due schieramenti. È un discorso che
ho ritrovato in un messaggio stimolante e interessante del cardinal Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, quando ha parlato recentemente del ruolo suo e della Comunità di Sant’Egidio (in cui lavorava) per avviare un dialogo tra le parti contendenti in Mozambico e per arrivare poi a una soluzione di pace. Ci sono voluti alcuni anni.
La pace non è soltanto vincere una guerra, ma è accettare il dialogo con l’altro in modo da creare una relazione che non si riproponga in termini di conflitto alla prima nuova occasione.
È un discorso interessante, affascinante. Un discorso che, come dice Maria Martello, parte da una considerazione abbastanza semplice ma importantissima: perché non proviamo a imparare a dire “forse”?
Io aggiungerei qualcosa di più. Dovremmo imparare anche a passare non solo dalla logica del “è così” alla logica del “forse”; ma anche dalla posizione “non capisci” alla posizione “non mi spiego”. Sono regolette semplici a dirsi, ma difficili da mettere in atto concretamente.
Sono entrato in un percorso ormai lungo nel mondo del diritto; ero spinto dalla necessità di trovare la certezza e convinto che l’avrei trovata nella legge. Ne esco, spero il più tardi possibile, scoprendo che non la certezza della legge ma il ragionevole dubbio è la chiave per portare avanti il discorso della giustizia come tanti altri discorsi.
Vorrei ricordare due piccoli emblemi del mio modo di vivere il problema giustizia nelle sue varie forme: come giudice delle persone, poi come giudice delle leggi, come ministro della Giustizia ormai nella preistoria. In questo percorso ho scoperto due realtà che provo a sintetizzare.
La prima è il paradigma del porcospino, indicato da Schopenhauer. Due porcospini di notte avevano freddo, si strinsero per scaldarsi. Si punsero, si allontanarono, però ebbero di nuovo freddo. Prova e riprova, nello stringersi l’uno con all’altro e allontanarsi,
riuscirono a scaldarsi abbastanza senza pungersi troppo. Credo che dovremmo avviare il tema della mediazione in una prospettiva di questo tipo. Non c’è mai nessuno che vince completamente e non c’è mai nessuno che perde completamente. E se è così, nella soluzione imposta dall’esterno rimane una animosità che può far scattare altre volte il conflitto.
L’altro emblema che mi porto dietro è quello del vecchio giudice che amministrava la giustizia sotto l’albero. E che un giorno si portò ad assistere al suo lavoro il piccolo nipote. Arrivò il primo contendente ed espose le proprie ragioni. Il giudice lo ascoltò e gli disse “Vai pure, hai ragione”. Poi arrivò l’avversario ed espose a sua volta le proprie ragioni. E il giudice ascoltò con attenzione anche lui e poi gli disse “Vai pure, hai ragione”. Il nipote allora entrò in crisi: “Nonno, com’è possibile che abbiano ragione tutte e due?”. Il giudice ci pensò un momento. Poi disse: “hai ragione anche tu”.
Questo è un po’ il cliché che mi ha accompagnato nel valorizzare l’idea del dubbio. Credo che possa valere per chiunque di noi abbia sperimentato i limiti e le difficoltà della giurisdizione attuale: sia esso giudice, imputato, testimone, parte di un processo civile, o come me ministro che si è trovato a verificare le difficoltà, le carenze dell’ordinamento giudiziario; quelle dell’organizzazione nei tribunali; le disfunzioni e i ritardi dei processi; il disastro delle nostre carceri. Quelle disfunzioni vanno rimosse, ma non risolveranno una questione di fondo. Perché io credo che qui c’è un altro insegnamento del quale sono particolarmente grato a Maria Martello.
È il riferimento a San Francesco: primo mediatore d’Italia. Come bene fanno cogliere le pagine che l’autrice dedica all’incontro tra Francesco e il lupo di Gubbio, il Santo riesce
a sbloccare la situazione del lupo, il quale aveva fame e, quindi, faceva delle cose che non doveva fare. I cittadini di Gubbio avevano paura e d’altra parte avevano fame anche loro. Il discorso di Francesco è un’ipotesi primigenia di mediazione, che cerca di stabilire una relazione tra le due parti. Tu non puoi continuare a mangiare la gente; ma voi non potete lasciarlo morire di fame.
È difficile, complicato, ma tutto sommato abbastanza importante per delineare la strada del patto, dell’accordo che è difficilissimo da raggiungere. Solo un terzo, dotato di neutralità e capace di ispirare fiducia, può portarlo avanti.
Ecco allora il miracolo della mediazione, come dice Maria Martello: una figura terza autorevole fra le parti in conflitto; l’ascolto separato delle loro ragioni e poi il dialogo; il riconoscimento dei ruoli quando vi sono una vittima e un persecutore (ruoli che si scambiano l’uno con l’altro naturalmente); la responsabilizzazione di chi in quel momento è persecutore; la scoperta delle vere motivazioni che portano al conflitto. E poi l’accordo e il patto. Difficile come discorso e come percorso. Difficile e interessante da percorrere.
Il merito di Maria Martello è quello di riuscire a superare ogni prevenzione e delineare un’esperienza radicalmente nuova.
Io ho maturato che la strada della giustizia debba essere anche questa. È la strada in cui non potremo mai pensare che sia un robot a stabilire la giusta distanza tra tutti i porcospini e che sia un robot a superare le infinite varianti della dimensione del conflitto sotto il profilo personale dei suoi protagonisti: le varianti che portano il vecchio giudice a dire a tutti i contendenti
e agli spettatori “hai ragione anche tu”.
A questo punto la mediazione è un modo di riconoscere in fondo l’unità, la capacità di trovare una soluzione unica, una posizione comune rispetto a posizioni di diversità.
È un discorso sul quale dobbiamo tutti fare una profonda riflessione.
Giovanni Maria Flick
Nel mondo del management consulting da 45 anni, è consulente esperto di innovazione del comportamento, facilitatore e formatore per lo sviluppo del talento in Azienda. Migliora il rendimento del capitale umano
favorendo la crescita di soddisfazione, motivazione, selfengagement, produttività.
Utilizza le neuroscienze per favorire l’acquisizione delle competenze sociali indispensabili
a modificare i comportamenti non più funzionali alla crescita sia dell’Individuo che dell’Azienda.
Oltre a numerosi articoli, ha pubblicato i seguenti libri: La Vendita di Relazione
(Sole 24ORE); La vendita fa per te (Sole 24ORE); Scuotiamo l’Italia (Franco Angeli); Comportamenti aziendali ad elevata produttività –Integrazione tra stili di management e neuroscienze (gueriniNext).
Editore di rivoluzionepositiva. com, Magazine On Line orientato al nuovo Umanesimo d’Impresa per la sostenibilità sociale, economica ed ambientale dell’Impresa stessa.
È Professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università IULM. È direttore dell’Istituto Bruno Leoni (www.
brunoleoni.it) di cui è stato uno dei fondatori. Fra i suoi libri precedenti, La società chiusa in casa (assieme a Gilberto Corbellini, 2021) e La
verità, vi prego, sul neoliberismo (2019).
È stato più volte parlamentare e sottosegretario. È stato Ministro del Lavoro, della salute
e delle politiche sociali nel Governo Berlusconi IV. Oggi è Presidente della associazione Amici di Marco Biagi e presidente dello
Steering Committee del think tank ADAPT.
Nel 1992 è docente presso la facoltà di Economia e Commercio della LUISS di Roma.
Nel 1995 diventa funzionario dell’International Labour Office
(ILO) di Ginevra,
agenzia specializzata dell’ONU. Nel 2008 diviene Ministro del Lavoro e delle politiche sociali
e nel 2013 viene nominato Presidente della Commissione
Lavoro del Senato. Ha trascorso 27 anni
in Parlamento, di cui 15 alla Camera e 12 al Senato.
Sant’Anna di Pisa.
Ha insegnato anche Bocconi, Cattolica università di Cassino.
Ha coordinato più di 150 progetti di ricerca su gestione dell’ambiente; economia circolare; fonti rinnovabili;
salute, sicurezza e responsabilità sociale; comunicazione sociale ed ambientale.
Dal 2013 è Presidente della Fondazione Global Impact Network Italy.
Nel 1964 diventa magistrato presso il tribunale di Roma, sia come giudice che come pubblico
ministero. Nel 1996 viene nominato Ministro di Grazia e Giustizia del Governo Prodi. Nel
2000 è nominato giudice della Corte Costituzionale. Nel 2009 diventa Presidente onorario
della fondazione Museo della Shoah di Roma. Nel 2012 entra nel consiglio di amministrazione
dell’Università degli Studi di Genova. È Presidente emerito della Corte Costituzionale.
Perché Rivoluzione Positiva?
Un nuovo Magazine On Line: informazione, conoscenza, saggezza.
Con l’enorme disponibilità di informazioni, resa possibile dalla tecnologia, la nostra vita è diventata molto più veloce e molto più distratta. Abbiamo creato i
presupposti per cui il nostro cervello è meno preciso, fatica di più a concentrarsi. Perdiamo il focus attentivo sui problemi, divaghiamo mentalmente, siamo intermittenti e discontinui nel nostro
modo di pensare e, quindi, nel nostro comportamento.
Siamo passanti frettolosi e distratti la cui soglia di attenzione dura 8 secondi; siamo meno concentrati dei pesci
rossi che arrivano a 9, ci dicono gli esperti. Siamo diventati bulimici di informazioni, emozioni, immagini, collegamenti, suoni. Divoriamo il tutto in superficie senza gustare, approfondire, riflettere.
Oggi chi non si ferma a guardare non vede; chi non si ferma a pensare non pensa.
Riscopriamo allora il piacere - o la necessitàdi riflettere, di pensare,
di soffermarci per capire meglio dove stiamo andando per essere più consapevoli del nostro tempo, complesso e complicato, e del nostro ruolo, umano, sociale e professionale.
Se condividete queste nostre riflessioni, siete invitati a partecipare ad una iniziativa virtuosa resa possibile dalla combinazione dei saperi e delle esperienze umane e professionali
di un manipolo di Pensatori Positivi, profondi, competenti e sensibili interpreti del nostro tempo, che hanno deciso di contribuire a questo Progetto. Ad essi si
uniscono autorevoli Testimoni Positivi. A tutti loro il nostro grazie! di cuore.
Fabrizio Favini
Edoardo Boncinelli
Roberto Cingolani
Enrico Giovannini
Gianni Ferrario
Ci
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