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5.3 La guerra farmaco vissuta da Rubè

a uno specchio, si sorprende a produrre una smorfia da matto e a sussurrare: «Voglio sapere chi sono! Voglio la mia ma-a-mma!»316 . Terzo elemento in cui si potrebbe percepire un’influenza di Pirandello concerne la questione del nome. Rubè è un uomo in profonda crisi e il dubbio sul proprio nome, su come esso in quanto etichetta possa rappresentare realmente una persona, si instaura nella più generale costruzione della scissione di questo personaggio-emblema. Rossana Freda Melis nel suo contributo riconosce un momento del romanzo in cui «il tema pirandelliano appare chiarissimo, quasi citazione»317. Durante un viaggio in treno verso Calinni, il paese d’origine, il protagonista incontra per caso Sara, una nutrice compaesana che lo riporta con le sue chiacchiere, dopo anni di vagabondaggi e spostamenti, al clima provinciale in cui è cresciuto. Appunto la donna, probabilmente non possedendo una buona competenza nella lingua italiana, storpia il suo nome, e lo chiama don Filippo Rrubbè. Essere chiamato con questa flessione dialettale scorretta gli fa scaturire una personale riflessione:

Di nuovo lo stupiva quel suono inatteso del suo nome, pronunciato alla maniera paesana, con doppio erre e doppio bi. Se n’era scordato, e gli pareva di chiamarsi soltanto Rubè o Burè o Morello. “Quattro nomi” diceva fra sé. “E perché no dieci, cento, infatti, che sarebbe come non averne nessuno? Che cos’è questa cifra stampata a fuoco sulla mia carne? questo marchio? Non avere nome! Sparire! O chiamarmi soltanto Rrubbè, come mi chiamavano quando ero bambino!318

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Qui il nome diventa un pretesto per i leitmotiv presenti in diversi punti del romanzo, cioè l’impossibilità del protagonista di sapere chi sia realmente e la sua tendenza alla dissolvenza e all’autodistruzione.

5.3 La guerra farmaco vissuta da Rubè

Questo breve excursus sui punti di contatto possibili tra l’umorismo di Pirandello e alcune caratteristiche del personaggio di Borgese ci conduce ad un altro tema decisivo che riguarda il romanzo e nello specifico la narrazione del conflitto.

316 Ivi, p. 136. 317 R. Freda Melis, Alcuni appunti sul Rubè di Borgese, in Studi di filologia romanza e italiana offerti a Gianfranco Folena, a cura di Autori Vari, Modena, STEM Mucchi, 1980, p. 538. 318 G. A. Borgese, Rubè, cit., p. 350.

Nell’ultima citazione qui proposta riguardo il nome, c’è un verbo che segnala in modo lampante le basi del rapporto tra guerra e aspettative del protagonista. Abbiamo detto che Rubè è una persona inetta, fallita, e il nome esemplifica questo tratto ineluttabile. Egli è affetto da un’inettitudine esistenziale, che non gli permette di riconoscersi nemmeno nel proprio nome, e da un’inettitudine sociale, che non gli permette di avere un ‘nome’, o per meglio dire un ruolo riconosciuto nella società in cui vive.

Tuttavia il verbo ‘sparire’ presente nella citazione sopra è illuminante, perché riflette la volontà di dissolvenza di quest’uomo che va di pari passo paradossalmente con una volontà di integrazione nel consesso umano. Lo scoppio della guerra crea un’occasione, per Filippo Rubè e per tutta la piccola borghesia intellettuale che il suo personaggio romanzesco rappresenta, per uscire dalle acque stagnanti dell’epoca giolittiana, percepita come immobile e rovinosa. È nell’incontro dell’inettitudine di Filippo Rubè con l’eccezionalità della guerra che il romanzo diventa racconto generazionale, per essere precisi di un gruppo di persone che, oppresse da un senso di inadeguatezza e di inedia, aveva intravisto nella guerra una possibilità di azione e di rivoluzione. Ricorda il tema futurista della guerra come rinnovamento e felice occasione personale, che avrebbe spazzato tutte le storture e i formalismi, ben delineato da Isnenghi come l’aspettativa della guerra farmaco, che avrebbe guarito un’intera generazione dal proprio male esistenziale. Così è anche per Rubè, che vede nella guerra una panacea che non solo possa sedare i suoi assilli personali di ricerca di un posto nel mondo, ma possa essere anche vero farmaco per le proprie malattie fisiche, presenti in tutto il romanzo in diverse forme e diretta conseguenza della sua corruzione morale. Con questo spirito di rinnovamento il soldato Filippo Rubè parte per il fronte come combattente volontario. La Prima parte del romanzo è intrisa di questa speranza di cambiamento. All’inizio del romanzo il protagonista si trova da solo a mangiare in una trattoria, con un giornale aperto vicino al piatto. Il titolo del quotidiano gli dà una scarica di adrenalina: «il titolo a sei colonne annunciava l’imminenza della guerra, con una specie di gaudio convulso che faceva ballare i precordi319 per la incomparabilità dello spettacolo»320. Filippo Rubè è felice perché vede all’orizzonte una possibilità per cambiare la sua condizione: «anch’egli n’era attratto a suo modo. Sentiva che finalmente qualche cosa di grande accadeva […] e ch’era finito lo stagnare dell’acque tra le basse rive»321 .

319 Antica denominazione del diaframma, considerata a livello popolare come la sede degli affetti. 320 G. A. Borgese, Rubè, cit., p. 13. 321 Ibid.

Sperando di realizzare i suoi sogni fa propaganda interventista, pronunciando discorsi nei salotti degli amici. Poi decide di partire, convinto che per lui sia la scelta necessaria: «l’aria aperta, la fatica, la rinuncia al libero arbitrio, la franchigia dalle cure di danaro e di carriera gli avrebbero restituito freschezza e spontaneità. La guerra risanatrice del mondo sarebbe stata la sua medicina»322 .

Ricorrono le parole che abbiamo già utilizzato per descrivere l’esperienza di guerra di Filippo Rubè: farmaco, medicina, risanamento. In questa speranza di guarigione tuttavia si ravvisa anche una logica paradossale. La guerra è sollievo ma è anche sintomo di una voglia ferrea e nichilista di autodistruzione. Ragionando sull’esperienza collettiva del conflitto, il narratore scrive:

Lui felice, se poteva uscire dalla partita d’azzardo vincitore, anche con una gamba o un braccio di meno, anche con quel tanto di carne appena che bastasse ad alimentare l’orgoglio dell’anima salva, di un’anima semplificata e costituita di non altro che di freddo coraggio.323

Perciò la possibilità di un danno fisico percepita come un buon pegno da pagare per rattoppare la propria anima lacerata. Una tendenza all’autodistruzione di sé che giunge a forme liberatorie di annullamento della propria individualità nell’anonimato dei soldati. L’assorbimento nella collettività dell’esercito ricorre in almeno un paio di punti del testo. Filippo Rubè, svincolato dalle ansie sociali e assoggettato ad un’istituzione e ad una missione superiore, spera finalmente di potersi sentire libero e in tal modo di poter trovare serenità. Egli sente «che avendo ceduto tutto sé stesso allo Stato si sentiva sciolto da ogni legame verso le singole persone»324 . Appunto un feticcio superiore a cui aggrapparsi per annullarsi e sentirsi prossimo agli altri: «essere come tutti gli altri; questo giudicò che fosse la saggezza»325. In lui prevale una volontà di anonimato nel teatro bellico piuttosto che di gesta eroiche o della speranza di rivalsa fisica. Scelta di penetrare in un flusso di azione universale, senza voler ricevere medaglie al valore o essere commemorato.

Questa enorme speranza, di Filippo Rubè nel romanzo ma di una generazione di cui è esempio, si rivela una grande illusione. La guerra è immobile, lunga, il sentimento di euforia provato alla vigilia svanisce dinanzi alla paura degli scoppi e dei fuochi, che portano il

322 Ivi, p. 24. 323 Ivi, p. 77. 324 Ivi, p. 22. 325 Ivi, p. 74.

protagonista ad interrogarsi nuovamente sulla propria inettitudine, che riaffiora a causa della vergogna per il terrore provato per il frastuono di una bomba. L’esperienza bellica di Rubè è inoltre mancata, poiché interrotta troppo presto per motivi di salute, senza poter entrare nel vivo della battaglia. Il romanzo, come chiosato sempre da Isnenghi, costituisce «un bilancio storico pressochè fallimentare»326, ossia la messa in atto della abissale disillusione che colpisce gli interventisti quando arrivano a reale contatto con la vita al fronte, che mina le loro certezze ed ha ripercussioni anche negli anni dopo la guerra. È un bilancio di sconfitta, riscontrabile nelle parole di Filippo Rubè. Dopo la delusione dell’esonero, il protagonista prosegue con le sue vicende e la guerra diventa una cosa lontana che ogni tanto fa sentire la sua voce attraverso i giornali e i bollettini, senza avere vere conseguenze sulle sue azioni. È un capitolo che presto appartiene al passato: «Parlava del suo interventismo e della sua fede nella guerra: perduta. Non ne afferrava più né i motivi, né i fini»327. Fino a giungere, poche pagine più avanti, ad ammettere:

Anch’io ho voluto la guerra, l’ho fatta, perché ero malcontento e cercavo aria. Ma la guerra ha avuto questo di buono, di giusto, che ha sconquassato tutte le baracche. Io ero una baracca nel ’14, sono un mucchio di rovine nel ’18. M’ero messo in capo che non ci fosse posto nel mondo se non per i primi, per il primo. […] Ora sono giù, peggio che mancato, che spostato; un fallito, un reietto. Ho perduto la guerra.328

È una presa di coscienza lucidissima, una dichiarazione-manifesto che chiarisce il significato della parabola di Filippo Rubè e della generazione a cui storicamente appartiene. Una sconfitta totale che avrà poi ripercussione dopo il 1918, a guerra terminata, ma su questo non ci soffermiamo per non perdere il centro del discorso. Citando per l’ennesima volta Isnenghi, «Rubè resta […] una delle più lucide radiografie dell’interventismo degli intellettuali e della – non risolutiva – prospettiva bellicista abbracciata a fini di integrazione dal proletariato intellettuale»329 .

326 M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., p. 209. 327 G. A. Borgese, Rubè, cit., p. 167. 328 Ivi, p. 178. 329 M. Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit., p. 212.

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