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6. La situazione nel Kosovo “liberato”
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nei Balcani alla fine di novembre 1941 durante la sua visita in Germania. Ciano sensibilizzò il suo omologo tedesco anche ai generali problemi che si presentavano in Kosovo e insistette, secondo i desideri albanesi, per la cessione della zona di Mitrovica all’Italia. Ribbentrop, tuttavia, pur impegnandosi a interessarsi delle problematiche della regione, evitò ogni discussione e declinò ogni addebito, affermando di non conoscere i particolari delle questioni e attribuendo ogni responsabilità a funzionari e comandanti militari sul posto91. Mackensen fu nuovamente istruito a ricordare agli italiani che quanto concordato a Vienna aveva un carattere definitivo, se Palazzo Chigi avesse risollevato la domanda di una cessione di Mitrovica92. Il problema dell’unificazione del Kosovo, d’altra parte, era solo una delle tante questioni che agitavano i rapporti COPIA PER L'AUTORE tra Roma e Berlino e certamente non la più idonea a turbarli in profondità93 .
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6. La situazione nel Kosovo “liberato”
Nella situazione caotica generatasi con la dissoluzione della Jugoslavia, anche l’atteggiamento dell’esercito italiano nelle regioni da esso amministrate non fu esente da critiche da parte degli albanesi. Una relazione del podestà di Prizren, pure inviata a Verlaci e da questo trasmessa a Roma, denunciava senza mezzi termini la possibilità che l’entusiasmo per l’annessione all’Albania e per l’unione con l’Italia si potesse presto mutare in disagio e scarsa collaborazione con le autorità italiane, con conseguente crescita delle simpatie per la Germania e inevitabili scontri tra albanesi e slavi.
91 Ciano a Mussolini, 24-27 novembre 1941, in DDI, s. IX, vol. VII, D. 786. V. anche TOMASEVICH, War and Revolution, cit., p. 150. 92 V. FISCHER, Albania at War, cit., p. 87. 93 Jacomoni a Ciano, 9 dicembre 1941, t. 11609R/1102-1103, in ASMAE, SSAA, B. 77, f. 9, Movimento macedone.
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Le critiche vertevano su una gestione dell’amministrazione militare italiana ancora troppo basata sulla collaborazione con l’elemento slavo, troppo legalista e troppo poco “politica”. Serbi, croati e montenegrini, ad esempio, erano gli interpreti che gli italiani avevano assunto nei loro uffici, asserendo ingiustamente – si riferiva – che mancavano albanesi capaci e con i requisiti necessari, fatto che si riverberava sulla parzialità delle traduzioni a danno dell’elemento albanese. Le autorità italiane avevano, inoltre, reintegrato i funzionari serbi fuggiti durante le operazioni militari, sostenendo che finché non si fosse proceduto all’annessione doveva rimanere in piedi la vecchia amministrazione. Questa interpretazione legalista pareva ancora più grave nei confronti del problema delle terre, di cui gli albanesi si erano im-COPIA PER L'AUTORE padroniti, quando le ostilità avevano spinto alla fuga i proprietari slavi. A seguito dell’occupazione italiana gli slavi avevano fatto ritorno e i carabinieri, “senza alcuna opportunità politica”, avevano costretto gli albanesi a riconsegnare le terre. Non si era tenuto conto, insomma, che con la riforma agraria attuata all’epoca della Jugoslavia le terre erano state sottratte agli albanesi e distribuite a immigrati slavi. Il podestà di Prizren riconosceva “che questo atto si basa sulla legislazione che regola i possedimenti, ma d’altra parte è da considerare il fatto che non bisogna sacrificare un popolo amico come quello albanese a favore di un altro che è stato e certamente lo sarà ostile alla prima occasione”. La sua richiesta era quella di rispettare il fatto compiuto creato dalla guerra e aspettare il ritorno alla normalità per rivedere ogni singola causa. “Altrimenti occorrerebbero molti battaglioni per mantenere la calma, cosa che per ora sarebbe tutto a svantaggio degli interessi dell’Asse”. Altra richiesta era quella di vietare agli slavi la vendita di immobili e proprietà prima di aver compiuto delle indagini sulla provenienza dei loro beni94 .
94 Relazione del podestà di Prizren, Tahir Kolgjini, Prizren, 25 maggio 1941,
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Il podestà di Prizren, poi, accusava i carabinieri di parzialità verso gli albanesi e di ruberie, cosa che provocò a Roma una certa stizza e la decisione chiedere alle autorità militari di aprire un’inchiesta circa i fatti lamentati anche al fine di rilevare se le irregolarità fossero state commesse da carabinieri italiani o albanesi95 . L’inchiesta, conclusa in agosto, venne condotta dal comandante della Divisione Puglia, che presidiava l’intero territorio del Kosovo, il generale D’Aponte, il quale si sentì in grado di respingere ogni addebito. Il podestà di Prizren, interrogato per fornire dati più precisi su fatti e luoghi non era stato in grado di rispondere. Le sue accuse si dovevano, dunque, considerare prive di fondamento. Quanto all’atteggiamento delle autorità militari verso gli alba-COPIA PER L'AUTORE nesi, il Comando supremo precisava che solo nei primi giorni di occupazione del Kosovo si erano utilizzati interpreti serbi, croati o montenegrini, ma che questi erano stati sostituiti appena possibile da albanesi; che nessun funzionario jugoslavo, già destituito dai tedeschi, era stato rimesso in carica, eccetto i magistrati secondo quanto stabilito direttamente dal governo italiano; che i carabinieri avevano agito secondo le leggi e non avevano mai tenuto un comportamento di favore verso gli slavi; che non vi erano stati mai reclami da parte della popolazione circa comportamenti scorretti avvenuti durante le perquisizioni in case albanesi allo scopo di sequestrarvi armi. Si informava, infine, che non si era verificata nessuna vendita di immobili da parte di famiglie serbe che si erano allontanate dal Kosovo96 . Le preoccupazioni di Tirana, le tensioni tra autorità militari ita-
allegata a Verlaci a Ciano, 4 giugno 1941, n. 625/17/18/19, in ASMAE, SSAA, B. 77, f. 2. 95 Ciano a Comando Supremo, Roma, 24 giugno 1941, telespr. 06634/c, in ASMAE, SSAA, B. 77, f. 2. 96 Anfuso a Jacomoni, 22 agosto 1941, telespr. 09154/2281, in ASMAE, SSAA, B. 77, f. 2,
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liane e popolazione albanese del Kosovo, le drammatiche condizioni degli albanesi sotto occupazione bulgara, per non parlare poi del destino triste di serbi e montenegrini, danno un’idea chiara di quanto fosse complicata la realtà da affrontare e quanto spinosa la gestione dei territori occupati. L’attacco alla Jugoslavia aveva scoperchiato nuovamente l’antico e irrisolto problema nazionale balcanico e dato la stura a una serie di atavici conflitti interetnici di cui, in realtà, né gli italiani, né i tedeschi avevano esattamente misurato la portata e le conseguenze. L’un contro l’altro armati stavano montenegrini, serbi, albanesi, bulgaro-macedoni e macedoni autonomisti, aromeni, greci, četnici serbi, komitadji bulgari, capi tribali collaborazionisti o non a secondo della convenienza, come in un vero e proprio caleidoscopio difficilmente razionaliz-COPIA PER L'AUTORE zabile. Dopo l’attacco all’Unione Sovietica di fine giugno, poi, con l’affermarsi della lotta partigiana comunista, ai contrasti nazionali si cominciò a sommare l’effetto dirompente della guerra civile. Nel Kosovo, dunque, le ostilità contro Belgrado avevano avviato la riscossa degli albanesi e la cacciata violenta degli slavi che in gran parte era stata già compiuta alla fine dei combattimenti sul territorio jugoslavo. Nondimeno, il ritorno alla normalità nelle zone occupate dall’Italia si presentava assai arduo soprattutto per i mezzi di cui si poteva disporre. A due mesi dal crollo jugoslavo, il generale Alessandro Pirzio Biroli, comandante in capo delle truppe italiane, fu obbligato a rivolgere un appello accorato a Roma affinché si attribuisse “alla situazione attuale il dovuto carattere di gravità”. Era l’inizio di una delle tante frizioni tra autorità militari e governo, che dovevano scandire via via il ritmo della presenza italiana nei Balcani. Pirzio Biroli accusava il progressivo aggravarsi dell’antagonismo tra montenegrini e albanesi e albanesi e bulgaro-macedoni, a causa della mancanza di provvedimenti per riportare la normalità nelle regioni del Kosovo e del Dibrano. L’opera dei vari comandi militari di presidio aveva posto freno ai contrasti etnici, ma non poteva risolvere in modo definitivo i
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problemi che agitavano quelle popolazioni e che erano tenuti desti dalla propaganda bulgara. Occorreva, dunque, che l’autorità civile assumesse il controllo della situazione e affrontasse con funzionari retti e abili tutte le varie questioni “indubbiamente ardue”. “Non si può fare assegnamento su un’opera di persuasione – scriveva il generale – che, oltre a richiedere troppo tempo, non farebbe presa su menti primitive, occupate solo da considerazioni di carattere economico. A nulla varrebbe l’invio di gerarchie albanesi, le quali, anzi, non farebbero che aggravare la situazione nel caso si schierassero, come è probabile, dalla parte degli albanesi. Solo con azione energica e giusta, rimovendo abusi e soprusi, neutralizzando propagande ostili, provvedendo alle necessità economiche (vettovagliamento, indennizzi, ecc.) si riuscirà a dare a quelle popolazio-COPIA PER L'AUTORE ni la fiducia nel governo e, con essa, la tranquillità”97. Una ricetta abbastanza astratta, quella proposta dal generale italiano, se non nella richiesta di non inviare funzionari albanesi, ma anche questa richiesta, tuttavia, prevedibilmente irrealizzabile: come si poteva impedire il trasferimento all’amministrazione albanese delle terre occupate se l’Italia a partire dall’attacco alla Grecia aveva combattuto sotto l’incessante propaganda della realizzazione della Grande Albania? L’appello del Comando supremo, con quei tratti accusatori per l’inerzia che sembrava dimostrare Palazzo Chigi, provocò una secca risposta di Ciano, in cui si osservava che la gravità della situazione era nota, come prevedibili erano i contrasti etnici, e che il ministero degli Esteri si stava prodigando come poteva per porvi rimedio. Si erano prese misure per l’approvvigionamento delle popolazioni, istruzioni continue erano date a tutte le autorità in Albania e si era già inviato in missione come alto commissario ci-
97 Comando supremo (generale G. Magli) a ministero degli Esteri, SSAA, 20 giugno 1941, t.n. 20317, in ASMAE, SSAA, B. 78, f. “Minoranze”. Il dispaccio trasmetteva il rapporto di Alessandro Pirzio Biroli al Comando supremo, n. 08973 del 16 giugno 1941 sulla situazione nel dibrano e nel kosovese.
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vile il ministro Umiltà. Contrariamente all’invito di Pirzio Biroli, Ciano lo informava che Umiltà sarebbe stato presto sostituito da un’autorevole personalità albanese, “di provata fedeltà e di sicura abilità”, dalla cui opera si speravano notevoli risultati. Questa personalità dava anche affidamento di imparzialità ed equità rispetto a tutti i gruppi etnici interessati. Tuttavia, a giudizio di Palazzo Chigi, la normalità non poteva essere riportata in breve tempo e stava dunque alle autorità militari continuare e intensificare le misure di ordine pubblico con l’oculatezza e prontezza di cui avevano già dato prova i presidi militari locali98 . Effettivamente, tra le prime misure che si erano prese a Roma per fronteggiare la nuova situazione, vi era stato l’invio a fine maggio della missione Umiltà, con il compito di ispezionare le COPIA PER L'AUTORE zone da annettere e di studiarne gli ordinamenti giuridici e l’economia al fine di permettere nel prossimo futuro una fusione senza traumi al resto dell’Albania. Umiltà partì il 29 maggio per il Kosovo e, poco dopo, riscontrando l’impossibilità di passare facilmente dalla regione kosovara alla zona di Debar, a causa della nuova configurazione del confine, chiese l’ausilio di un altro diplomatico che fungesse da suo delegato, nella persona del console Mario Zanotti Bianco99 . La missione di Umiltà, della quale il console ha lasciato un vivido ricordo, espunto dalle sue relazioni a Tirana e Roma, nelle memorie pubblicate subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, ebbe come prima tappa Prizren. Quello che lì il diplomatico italiano poté subito constatare fu l’impossibilità di una convivenza tra serbi e montenegrini da una parte e albanesi dall’altra. Questi ultimi, rimembrando come una tiritera l’oppressione subita, non avevano altra idea che quella di cacciare i funzionari slavi rimasti
98 Ciano a Comando supremo, 27 giugno 1941, 71/06854, in ASMAE, SSAA, B. 78, f. Minoranze. 99 Parini a ministero degli Esteri, 2 giugno 1941, t. 17179/406, in ASMAE, SSAA, B. 77, f. 2.
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nei loro uffici, mentre gli slavi non avevano alcun desiderio di collaborare in posizioni subalterne agli albanesi e speravano nella non facile possibilità di emigrare in Serbia o Montenegro. Al di fuori della cittadina, erano maggiormente visibili i segni delle passate rappresaglie, le campagne erano devastate, le case bruciate, gli slavi, ormai profughi, andavano a rifugiarsi ai margini delle città dove potevano più facilmente godere della protezione delle truppe italiane. Soffiava sul fuoco dei rancori il clero ortodosso e musulmano100 . A Gjakova e Peć, al di là di singoli episodi di efferatezza, Umiltà trovò una situazione identica e forse anche peggiore. A Pristina, che le truppe italiane avevano occupato in giugno, dopo l’evacuazione tedesca e a patto che i tedeschi mantenessero il loro perso-COPIA PER L'AUTORE nale nella gestione della ferrovia, la realtà era poi drammatica: “non una sola casa aveva il tetto o gli infissi, che erano stati bruciati, e non una sola stalla conteneva alcun capo di bestiame. Uomini e donne erravano per la pianura, senza tetto, e trovavano rifugio nelle anfrattuosità del terreno, in capanne improvvisate, e sotto gli alberi dei non rari boschetti. A Cossovopolje, a Liplian e negli altri villaggi, tutto era rovina e squallore”101 . Umiltà, oltre a occuparsi delle necessità più urgenti delle popolazioni, impostò un programma di graduale transizione all’amministrazione civile basato sulla permanenza provvisoria delle leggi jugoslave in materia di imposte, sanità ed economia. Anche per l’amministrazione della giustizia, leggi e magistratura rimanevano quelle jugoslave, ma con l’assistenza di giudici albanesi inviati da Tirana. Un forte impulso ci si proponeva di dare all’insegnamento della lingua albanese, attraverso l’invio dall’Albania di maestri preparati che affiancassero l’opera degli insegnanti slavi. Solo la gestione delle infrastrutture, per ovvi motivi, rimaneva di spettan-
100 V. CARLO UMILTÀ, Jugoslavia e Albania. Memorie di un diplomatico, Milano, Garzanti, 1947, pp. 110-111. 101 V. UMILTÀ, Jugoslavia e Albania, cit., p. 115.
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za delle autorità militari italiane. Nonostante il passaggio all’amministrazione civile, infatti, le truppe delle divisioni Puglia e Firenze continuarono a presidiare le regioni che sarebbero state annesse all’Albania, con comandi a Kukes e Debar. Agli inizi di luglio, Umiltà venne sostituito da Feizi Alizoti e posto a capo dell’ufficio della sezione affari civili presso il comando superiore delle truppe in Albania. L’avvicendamento non fu dovuto a critiche per l’operato o per le proposte del diplomatico italiano, ma si ispirava a ragioni politiche sulle quali Mussolini stesso aveva concordato: dal momento che la questione dei confini era stata grosso modo definita, si trattava di dare agli albanesi, anche per queste zone, l’immediata sensazione di entrarne in possesso e di poterne disporre secondo i loro intenti, analogamente a COPIA PER L'AUTORE quanto si era fatto per la Ciamuria con la nomina ad alto commissario di Xhemil Dino102. A fine giugno era stato emanato il decreto per il trasferimento di tutti i poteri civili dalle truppe d’occupazione italiane al governo albanese nei territori del “Kossovese, Dibrano e Struga” e l’8 luglio Feizi Alizoti poté essere nominato da Tirana alto commissario civile per questi territori, con sede a Prizren103. L’Albania, dunque, annetteva formalmente i territori occupati. Il Kosovo “liberato” venne diviso in tre distretti amministrativi, Pristina, Peć e Prizren, dove fu creata una sezione del partito fascista e un battaglione di camicie nere. Con decreti dell’ottobre 1941 e del febbraio 1942 tutti gli abitanti di questi territori, slavi e albanesi, ottennero la cittadinanza albanese104 . La gestione di Alizoti si conformò agli stessi criteri di equilibrio impostati da Umiltà. Originario di Argirocastro, Alizoti era auten-
102 Scammacca a Meloni, Tirana, 21 giugno 1941, t. 23542PR/682; Meloni a Scammacca, 22 giugno 1941, t. 20555PR/523, in ASMAE, SSAA, B. 77, f. 2 103 V. Gazzetta Ufficiale del 14 luglio 1941. 104 V. MALCOM, Storia del Kosovo, cit., pp. 329 e 332-333. Sulla situazione nei territori annessi all’Albania, v. anche RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo, cit., pp. 352-356.
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ticamente nazionalista, ma scevro da ogni estremismo, come dimostrava il suo rimarchevole passato di funzionario ottomano. Importante misura che egli adottò per la ripresa economica delle terre annesse fu l’unificazione monetaria, con il fine di ovviare alla confusione e alle speculazioni generate dalla circolazione di numerose valute, dinari, marchi, lire italiane e franchi albanesi. L’operazione, diretta dal ministero delle finanze a Roma, fu affidata alla Banca d’Albania che riuscì ad aprire numerose sedi in meno di un mese e a portare a termine il compito già ad agosto105 . Furono, inoltre, istituite molte scuole elementari nei vari distretti kosovari106, potendo contare, a differenza del Kosovo serbo, su personale qualificato e competente proveniente dal resto dell’Albania. Fallimentare fu, invece, il tentativo di Alizoti di cambiare COPIA PER L'AUTORE sistema di riscossione delle imposte per uniformarlo a quello albanese. In breve nessuno pagò più le tasse, gli slavi come forma di protesta per la nuova situazione, e gli albanesi con il pretesto che, a causa della guerra, non avevano sufficienti redditi107 . Ma, al di là del successo o dell’insuccesso delle singole misure, ciò che inficiò in generale l’azione di Feizi Alizoti fu il boicottaggio sistematico cui fu sottoposta da parte dello stesso governo di Tirana. Le richieste e le proposte di Alizoti trovarono nei fatti poca accoglienza da parte del governo centrale, che in breve ambì a sbarazzarsi dell’alto commissario per passare a una gestione diretta dei territori liberati. Gelosie burocratiche e lotte intestine nella classe dirigente albanese impedirono finanche che l’alto commissariato disponesse di un adeguato numero di funzionari efficienti e preparati per giungere a una normalizzazione delle terre annesse che non fosse solo di facciata. La conseguenza fu che le rivalità etniche, invece di cessare, si ravvivarono dando vita, in ottobre e novembre 1941, a veri e propri scontri armati tra slavi e albanesi.
105 V. UMILTÀ, Jugoslavia e Albania, cit., p. 127. 106 V. TOMASEVICH, War and Revolution, cit., p. 151. 107 V. UMILTÀ Jugoslavia e Albania, cit., p. 134.
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Il comportamento dell’esercito italiano, d’altra parte, sembrava non agevolare la situazione, accusato com’era dagli albanesi di prendere troppo spesso le parti degli slavi108. Il console Venturini segnalò, proprio come reazione alla presunta benevolenza con cui i militari italiani trattavano i montenegrini, la creazione nel Kosovo di bande armate albanesi ostili agli italiani109. Dell’atteggiamento dell’esercito italiano Umiltà ha dato una spiegazione “romantica”, motivandolo con l’attrazione esercitata dalle donne slave sui militari italiani e con la liberalità con cui si concedevano110. Ma al di là della indubbia potenza del fascino femminile, non c’è troppo da stupirsi se per mentalità, religione, condizioni sociali e livello culturale fosse più facile per gli italiani avere contatti con gli slavi che non con gli albanesi del Kosovo, società ancora chiusa e tenuta COPIA PER L'AUTORE per decenni in stato di arretratezza e ignoranza dallo stato jugoslavo.
108 V. UMILTÀ, Jugoslavia e Albania, cit., p. 135. 109 Venturini a Luogotenenza Tirana, 15 ottobre 1941, telespr. 924/202, in ASMAE, SSAA, B. 78. 110 V. UMILTÀ, Jugoslavia e Albania, cit., pp. 134-137.