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3. In attesa dell’Italia: la relazione Venturini
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zione irredentista34. Ma tutto ciò non scalfiva la convinzione italiana che questi gesti rimanessero isolati e fossero tutto sommato azioni di capi albanesi “ammaestrati” dalle autorità serbe, e che non rappresentassero effettivamente la maggioranza dell’opinione pubblica dei kosovari. Questi rimanevano, infatti, favorevoli alla penetrazione italiana nei Balcani e guardavano all’Italia come strumento per la loro liberazione dai serbi35. Prova ne era l’informazione che in Kosovo il governo jugoslavo aveva richiamato alle armi il 10% dei riservisti serbi e il 90% di quelli di nazionalità albanese, privando, tra l’altro, di braccia per i lavori campestri la comunità albanese. I richiamati albanesi venivano utilizzati per costruire fortificazioni lungo il confine con la Bulgaria, l’Ungheria e in alcune regioni della Bosnia, volendo con ciò probabilmente mirare, “in COPIA PER L'AUTORE questi momenti delicati, all’allontanamento dal posto dell’infido elemento albanese”36. Insomma, al di là di successi propagandistici parziali che avevano ottenuti, gli jugoslavi temevano una prossima annessione del Kosovo all’Albania. Guadagnava terreno, proprio tra questi timori, la propaganda comunista, già segnalata come intensa presso i montenegrini di Giakoviza37 .
3. In attesa dell’Italia: la relazione Venturini
La possibilità di un conflitto armato tra l’Italia e la Grecia, che si era affacciata alla fine di agosto, aveva destato forti preoccupazioni in Jugoslavia. Non ci si poteva nascondere che quella guerra
34 Mameli a Ciano, 29 agosto 1940, telespr. 3678/1402, in ASMAE, SSAA, B. 79, f. Kossovese. 35 Jacomoni a Ciano, 16 agosto 1940, t.p.c. 4073/0251, in ASMAE, SSAA, B. 79, f. Kossovese. 36 Mameli a Ciano, 31 agosto 1940, telespr. 3676/1400, in ASMAE, SSAA, B. 79, f. Kossovese. 37 Mameli a Ciano, 20 agosto 1940, telespr. 3560/1358, in ASMAE, SSAA, B. 79, f. Kossovese.
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sarebbe stata combattuta per la Ciamuria e che avrebbe perciò costituito l’inizio di una serie di “rese dei conti” con la Jugoslavia da parte dell’Albania per il Kosovo, dell’Ungheria per la Bačka e della Bulgaria per la Macedonia. L’ex segretario della legazione d’Albania a Belgrado, Çomora, che era stato in visita a Skopje a fine agosto, aveva scritto che l’idea di una guerra contro la Grecia aveva esaltato i kosovari. D’altro canto le personalità da lui contattate durante la sua permanenza a Skopje avevano avuto parole d’esaltazione e di fiducia per l’Italia. Muhamed Slatko, ex senatore, podestà di Debar, e tra i più influenti uomini del Dibrano, all’epoca anche proprietario di un albergo e di un cinematografo a Skopje, gli aveva assicurato che i kosovari “sono felicissimi di vedere che il destino dell’Albania è indissolubilmente legato a COPIA PER L'AUTORE quello dell’Italia vittoriosa e ciò determinerà sicuramente la loro unione con la Madrepatria”38 . Anche l’ex senatore Xhafer, notabile e medico di Tetovo, si era espresso nello stesso senso: i kosovari speravano nella liberazione e attendevano l’unione all’Albania e all’Italia. Gli jugoslavi erano consapevoli di questi sentimenti e cercavano di allentare la pressione più brutale sugli albanesi, ma ormai era troppo tardi. Insieme agli albanesi anche le altre nazionalità, come i bulgaro-macedoni, attendevano la liberazione. Molti di essi, anche a causa delle persecuzioni del regime, avevano abbracciato il comunismo39. In Jugoslavia, una politica filo-governativa da parte delle minoranze non era più possibile. Secondo Çomora, il capo del partito croato e vicepresidente del Consiglio, Maček, aveva perso a causa di essa il
38 Relazione di Sofo Çomora su suoi contatti durante un viaggio a Skopje alla fine di agosto 1940, trasmessa dal SSAA all’ufficio AEM il 17 ottobre 1940, in ASMAE, SSAA, B. 79, f. Kossovese. 39 Il diplomatico albanese riferiva anche che sia Xhafer che Slatko gli avevano chiesto notizie di Shtylla, cui erano legati da particolari vincoli di amicizia per aver collaborato con lui nella politica verso la minoranze albanese quando Shtylla dirigeva la legazione a Belgrado.
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50% dei suoi elettori. Sottoposta a tali e tante spinte centrifughe, la Jugoslavia vedeva come unica possibilità di salvare la situazione l’allineamento alla politica dell’Asse40 . Un’identica valutazione, circa gli umori filo-italiani della popolazione kosovara, la fornì, nello stesso torno di tempo – inizi di settembre – Venturini da Skopje. Le osservazioni del console erano contenute nella lunga relazione sul Kosovo che gli era stata commissionata da Roma e che Mameli inviò a Scammacca presentandola come “un’esposizione e al tempo stesso una critica al punto di vista jugoslavo” e come una sintesi equilibrata e non una tesi propagandistica “della quale – scrisse ironicamente – non ti mancheranno certo altri esempi da Tirana”. La relazione di Venturini rimane forse uno degli ultimi esempi di studio e presentazio-COPIA PER L'AUTORE ne di un problema politico internazionale che si riscontra nella storia della diplomazia italiana. Redatta con stile antico, la relazione forniva cifre, dati e ogni sorta di osservazioni utili sulla società albanese del Kosovo nelle sue molte sfaccettature, religiosa, economica, politica. Anche il console si cimentava all’inizio con il problema di stabilire il numero e la localizzazione degli albanesi del Kosovo. Comparando una serie di studi monografici con il censimento jugoslavo del 1931, la sua stima giungeva alla cifra di 730.000 albanesi viventi in Jugoslavia, divisi per credo religioso in circa 700.000 musulmani sunniti con molti bektasci, 25.000 cattolici e 7.000 ortodossi. La popolazione albanese era distribuita lungo la frontiera jugoslavo-albanese, la maggior parte di essa (circa 405.000 individui, ai quali se ne potevano aggiungere altri 120.000 viventi nelle regioni di Presevo e Kumanovo, a nord di Skopje, e di Tetovo, per un totale di 525.000) concentrata nel cuore del Kosovese, ovvero nel Kosovo Polje, la famosa piana dei Merli,
40 Relazione di Sofo Çomora su suoi contatti durante un viaggio a Skopje alla fine di agosto 1940, cit.
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luogo della storica battaglia contro gli ottomani del 1389, corrispondente in gran parte a quella che i serbi chiamavano la Stara Srbija, ovvero la Vecchia Serbia. Gli albanesi formavano una massa nazionale compatta, pur se esistevano zone in cui gli slavi erano la nazionalità predominante. Dal punto di vista geografico, il Kosovo non rappresentava un’unità ben definita, dato che i suoi confini, eccetto che a nord, erano indeterminati, ovvero non esistevano barriere naturali, limiti geografici che lo delimitassero e lo individuassero. Sempre considerando la geografia del territorio, inoltre, la regione kosovara non formava un’unità geografica né con la Jugoslavia né con l’Albania. Il legame con quest’ultima era dato esclusivamente dal criterio etnico. COPIA PER L'AUTORE Stabilite consistenza e localizzazione della comunità albanese in Jugoslavia, Venturini passava a tratteggiare la società kosovara. Si leggeva che gli albanesi della Banovina del Vardar, corrispondente all’incirca alla Macedonia, erano Toschi e che tra di loro molti erano di religione ortodossa, mentre quelli abitanti nel Kosovo propriamente detto erano nella stragrande maggioranza musulmani e legati all’Albania del nord; parlavano, infatti, ghego, ed erano organizzati, con qualche attenuazione, nei tipici clan, i fiš, che avevano particolari caratteristiche per i gruppi cattolici, riscontrabili anche nei correligionari cattolici malissori dell’Albania. Gli albanesi del Kosovo rimanevano legati ai valori della “bellicosa fierezza, l’intransigente concetto dell’onore famigliare e della solidarietà fra parenti, la severa moralità, la pronta diffidenza di fronte allo straniero e in genere di fronte all’estraneo”. Poco urbanizzati, gli albanesi erano in maggioranza agricoltori e vivevano nelle kulle, sorta di case fortificate, “pronte a respingere un attacco o a servir di base per una spedizione armata: e non mancherebbero se necessario le armi che sono ancora nascoste in grandi quantità ad onta delle perquisizioni e delle minacce”. Il loro tenore di vita era modestissimo, le comunità erano poco aper-
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te agli altri gruppi etnici, le donne musulmane poi non avevano nessun contatto con altri gruppi. Dal punto di vista religioso, gli albanesi del Kosovo erano musulmani sunniti, con una certa presenza di bektasci. Ma vi era anche un gruppo di cattolici, concentrati nelle zone di Giakoviza e Prizren e dipendenti dalla sede vescovile di Skopje, che lamentavano la sostituzione dei preti albanesi con preti croati o sloveni e ostacoli all’uso della lingua albanese per le prediche e il catechismo. I musulmani avevano come suprema autorità spirituale il Reis ul Ulema di Sarajevo, ma dipendevano territorialmente dall’Ulema Mejlis di Skopje. Gli uffici religiosi erano detti in lingua araba e nelle scuole religiose gli insegnamenti erano impartiti in lingua araba. I kosovari erano di buoni sentimenti religiosi senza COPIA PER L'AUTORE essere intransigenti o fanatici, seguivano i loro sacerdoti e facevano donazioni alle fondazioni religiose (Vakif). Venturini dipingeva un quadro drammatico dell’arretratezza delle condizioni di vita dei kosovari, ciò che rendeva “difficile parlare nel Kossovese di civiltà europea”; l’organizzazione della vita sociale era a livello primitivo e lo stesso governo di Belgrado non aveva fatto nulla per l’avanzamento della regione: “amministrazione corrotta e incapace, è ancor poco differente da quella di un esercito di occupazione in territorio nemico, ed i capitani distrettuali, provveduto all’ordine pubblico secondo gli interessi serbi, hanno fatto tutto”. Il livello culturale era molto basso: l’80% era analfabeta e il restante non andava, per lo più, oltre un’istruzione elementare. Non esistevano del resto istituzioni scolastiche “albanesi”; anche nelle scuole religiose private si insegnava a scrivere non in albanese ma in arabo e l’albanese non veniva “insegnato ma serve ad insegnare”. L’economia era a carattere agricolo e pastorale, l’estrazione di cromo e di zinco aveva una certa importanza nelle miniere di Trepça, ma non esisteva alcuna industria. Ma forse la cosa più grave che Venturini sottolineava, in questo
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desolante panorama, era la mancanza di una vera classe dirigente, capace di guidare la popolazione sulla via della modernizzazione. Gli studenti erano pochi e vivevano lontani, oppure, dovendo accettare borse governative, non potevano coltivare sentimenti nazionali. Come classe dirigente rimanevano i vecchi Bey, che avevano un’ottima posizione economica e una larghissima influenza, ma che “di tale seguito e di tale influenza, pur restando in principio fedeli alla causa albanese, fanno uso a vantaggio della causa stessa solo a condizioni che troppo spesso debbono tradursi in denaro corrente”. Proprio la mancanza di una classe dirigente nazionale aveva portato all’impossibilità di coagulare il sentimento nazionale contro i serbi e contro l’opera di sopraffazione e snazionalizzazione messa da loro in atto. Anche i deputati e senatori COPIA PER L'AUTORE albanesi alla Skupština non avevano fatto o potuto fare mai nulla. In breve, la minoranza albanese non godeva di nessun diritto, anche perché i diritti sul rispetto delle minoranze nazionali firmati a Parigi nel 1919 erano stati sempre inapplicati. Ma quali indicazioni politiche forniva a Roma Venturini dopo aver tracciato questo disperato quadro della società kosovara, schiacciata dai serbi e senza possibilità di reagire per mancanza di una classe dirigente adatta? La più importante era contenuta nelle parole con cui concludeva la sua relazione: “È basandomi su elementi di giudizio raccolti in un anno di attenta, fredda osservazione, che affermo che la grandissima maggioranza degli albanesi del Kossovese, ed in genere di Jugoslavia, vede nel Duce il suo protettore ed attende la liberazione dalle forze armate dell’Italia”41 .
41 Mameli a Scammacca, lettera del 6 settembre 1940, n. 3728/1419, in ASMAE, SSAA, B. 79, f. Kossovo. Rivendicazioni albanesi.