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Risk zionale. A controprova della positività della scelta democratica nel lungo periodo, si può ricordare come sembri ormai certo che l’ultima vittoria elettorale di Ahmadinejad in Iran sia stata ottenuta solo grazie a brogli massicci, che hanno profondamente distorto i risultati reali delle urne. Ne possiamo quindi dedurnre la conclusione che la confusione di priorità e strategie non chiaramente connesse con la realtà della situazione nell’area di conflitto, finisce per confondere le acque e accrescere i rischi di un aggravamento della crisi, rendendo molto più difficile l’attuazione di una effettiva strategia di risoluzione dei problemi degli stati falliti. È impossibile affrontare le crisi legate al collasso di stati e/o regimi senza sapere dove si vorrebbe andare a parare e come. Una formula che cerca di evitare i problemi più spinosi è quella della “modernizzazione” degli stati in crisi. Uno stato più moderno ed efficace è un bene in sé, al di là delle scelte ideologiche o religiose. Un simile approccio tenta di individuare e favorire elementi di maggiore stabilità ed efficienza che accrescano la legittimità dello stato a monte delle scelte politiche della sua dirigenza e può favorire l’instaurazione di un dialogo e di una cooperazione di più lungo periodo. Tuttavia l’idea che si possa puntare, in una situazione di collasso o di grave crisi, a rafforzare una sorta di “neutralità” dello stato è anche scarsamen-

È indispensabile una più accurata e sofisticata politica di intelligence e diplomatica che aiuti a conoscere meglio e con più largo anticipo le trasformazioni reali in atto negli stati in bilico 8

te credibile, a meno di non mascherare dietro tale formula l’instaurazione di un nuovo regime autoritario (basato ad esempio sul predominio delle Forze Armate), visto ancora una volta come la necessaria e probabilmente lunga “fase di transizione” necessaria per “educare” la società verso una prospettiva ad una società genuinamente democratica che potrà forse realizzarsi solo in un futuro lontano e indeterminato, su graziosa concessione della autocrazia al potere. Ma questa soluzione sarebbe tutt’altro che una novità e non farebbe che confermare la tesi che negli stati a rischio di fallimento l’unica scelta possibile è quella tra la dittatura e l’estremismo più radicale. Una sorta di formula “lose-lose” che rischia di rendere i nostri paesi strategicamente impotenti di fronte ad ogni processo di trasformazione sociale e politica, e quindi anche di vanificare ogni ambizione di poter controllare of invertire i fenomeni di collasso degli stati. C’è certamente un forte interesse europeo ed americano a garantire un alto tasso di stabilità e continuità dai rapporti con i paesi a rischio di fallimento, in particolare con quelli di maggiore importanza strategica (per collocazione geo-politica, importanza delle risorse da essi controllate, peso demografico, eccetera), ma non al punto da opporsi ad ogni evoluzione. Soprattutto mancano sia la volontà politica, sia il consenso popolare, sia infine le ingentissime risorse che sarebbero invece necessarie ad una politica di repressione globale. L’improponibilità di una simile strategia suggerisce quindi l’opportunità di puntare in tutt’altra direzione: non di opporsi al mutamento, ma di favorirlo e allo stesso tempo di tentare di influenzarlo, indirizzarlo o condizionarlo in direzione di una maggiore gradualità e moderazione. Ma sembra chiaro come sia difficile, se non impossibile, imboccare questa direzione senza allo stesso tempo concedere maggiore fiducia alle forze della trasformazione, e abbandonando rapidamente l’idea di poter difendere


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