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Pejman Abdolhammadi

Vincenzo Camporini

ACQUE PERICOLOSE

Mario Arpino

23

2012

maggio-giugno

numero 67 anno XIII euro 10,00

quaderni di geostrategia

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Sconfiggere i pirati? Basta volerlo Come vincere una guerra mai dichiarata ANDREA NATIVI

Pierre Chiartano

All’arrembaggio di conti e profitti

risk

Quanto costano gli assalti al commercio e agli Stati

Giancristiano Desiderio

VALERÌE MIRANDA

La storia ci insegna come affrontarli Maria Egizia Gattamorta

Inventario delle strategie del passato VIRGILIO ILARI

ACQUE PERICOLOSE

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Criminali alla sbarra Trattati, norme e giurisdizioni. Ma arrestarli è possibile NATALINO RONZITTI

Alessandro Marrone

Andrea Nativi

Laura Quadarella

www.riskrivista.it

Natalino Ronzitti

RISK MAGGIO-GIUGNO 2012

Valerìe Miranda

CONTINUANO GLI ABBORDAGGI, LE NAVI CATTURATE E I RISCATTI. DOVE SBAGLIAMO? Difesa intelligente e anticrisi Vincenzo Camporini

Mistica e tecnica del terrore alla cloche Mario Arpino

• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •


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risk

67

quaderni di geostrategia

DOSSIER

S

O

M

M

A

SCACCHIERE

Sconfiggere i pirati? Basta volerlo

Europa

Andrea Nativi

Alessandro Marrone

R

I

O

All’arrembaggio di conti e profitti

Americhe

Valerìe Miranda

Riccardo Gefter Wondrich

Criminali dietro le sbarre

Africa

Natalino Ronzitti

Maria Egizia Gattamorta

Le Tortughe del XXI secolo

pagine 64/67

Pierre Chiartano

La storia ci insegna come affrontarli Virgilio Ilari

LA STORIA Virgilio Ilari

pagine 5/41

pagine 68/73

Editoriali

• •

Michele Nones Stranamore

LIBRERIA

Giancristiano Desiderio Mario Arpino

pagine 42/43

pagine 74/79 •

SCENARI

Difesa intelligente e anticrisi Vincenzo Camporini

Autunno yemenita Laura Quadarella

Lotte di potere all’ombra dei mullah Pejman Abdolmohammadi pagine 44/63

www.riskrivista.it

DIRETTORE Michele Nones REDATTORE Pierre Chiartano COMITATO SCIENTIFICO Ferdinando Adornato Luisa Arezzo Mario Arpino Enzo Benigni Gianni Botondi Giorgio Brazzelli Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Giulio Fraticelli Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Andrea Nativi Giuseppe Orsi Remo Pertica Luigi Ramponi Ferdinando Sanfelice di Monforte Stefano Silvestri Guido Venturoni RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gattamorta, Gefter Wondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000 Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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ACQUE PERICOLOSE È strano parlare di pirateria nel Terzo millennio, ma è così, dal Golfo di Aden allo Stretto di Malacca, senza dimenticare l’ultimo arrivato, il Golfo di Guinea, sventola la bandiera nera dei nuovi filibustieri. Bande criminali che hanno capito come sfruttare l’importanza strategica degli approvvigionamenti via mare per il mondo sviluppato. È anche uno dei sottoprodotti dei cosiddetti failed state, paesi non più in grado di controllare il proprio territorio e le acque prospicienti le coste, anche se in alcune aree è un fenomeno da considerare endemico. È anche il prodotto di un’economia della sopravvivenza ormai fuoriuscita dal contesto dei paesi civili, con le sue basi costiere che sono di fatto le nuove Tortughe. Nella storia abbiamo avuto molti esempi in cui la pirateria ha giocato un ruolo nei delicati equilibri geopolitici. Pompeo sconfisse a suo tempo questa piaga. Lo stesso hanno fatto nel corso dei secoli le marine in ogni parte del mondo, utilizzando una combinazione di unità navali e di operazioni anfibie. Per non parlare del caso dei corsari, di fatto militari regolari, con navi bene armate, utilizzati dai governi per condurre una guerra irregolare. Le cose oggi sono fortunatamente cambiate. I moderni pirati utilizzano prevalentemente barchini e battelli veloci di piccole dimensioni (skiff). Già nel Mediterraneo antico era ben chiara la distinzione tra pirati e corsari, cioè tra la rapina illegale e quella autorizzata da un sovrano contro i suoi nemici. Nell'Occidente moderno le regole di legalizzazione della rapina marittima risalgono al medioevo e, per l'Inghilterra, al Liber niger Admiralitatis di Riccardo Cuor di Leone. Sebbene vietata fra i contraenti della pace di Westfalia, la guerra corsara caratterizzò le guerre europee del 1688-1748, costate oltre 10mila mercantili alla sola Inghilterra. Oggi quello che salta agli occhi è quanto i governi spendono per tenere in mare una flotta di fregate e unità militari sovradimensionate rispetto al compito, sottodimensionate rispetto al numero di navi necessario per controllare un’area vastissima. Basterebbe attaccare la basi terrestri di queste bande dell’arrembaggio. Quando vedremo le nuove Tortughe diventare il bersaglio della politica antipirateria, vorrà dire che si è deciso di fare sul serio. Ne scrivono: Chiartano, Ilari, Nativi, Miranda e Ronzitti


D

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COME AFFRONTARE I NUOVI FILIBUSTIERI SENZA GLI SPRECHI DI UN APPARATO NAVALE FUORI MISURA

SCONFIGGERE I PIRATI? BASTA VOLERLO DI

S

ANDREA NATIVI

e Pompeo, il generale romano, tornasse in vita e gli si presentasse un briefing sulla minaccia rappresentata dalla moderna pirateria e gli si spiegasse come i governi stanno affrontando il problema… penserebbe che i suoi epigoni moderni siano impazziti. In effetti è incredibile che una masnada di banditi, più o meno organizzata, sia in grado di tenere in scacco,

anno dopo anno, la comunità internazionale e le più grandi potenze navali senza che qualcuno decida di affrontare il problema alla radice. Cosa ci direbbe Pompeo? Consiglierebbe di seguire il suo esempio (contro gli Illiri, nel 67 a.C.), andando a stanare i pirati nelle loro basi, distruggendole, affondando i battelli usati dai criminali eliminando qualunque pirata venga individuato, in mare o in terra. Pompeo sconfisse a suo tempo la piaga della pirateria. Lo stesso hanno fatto nel corso dei secoli le marine in ogni parte del mondo, utilizzando una combinazione di unità navali e di operazioni anfibie. E va tenuto in mente che per secoli i pirati hanno impiegato navi e bastimenti, armi e tecnologie che non erano poi troppo dissimili da quelli utilizzati dalle marine da guerra. Quando si andava allo scontro poteva accadere che la battaglia fosse, se non tra eguali, almeno tra simili e qualche volta i pirati non solo la facevano franca, ma riuscivano addirittura a prevalere. Per non parlare del caso dei corsari, di fatto militari regolari, con navi bene armate, utilizzati dai governi per condurre una guerra irregolare. I corsari sono una presenza ricorrente nella storia la navale e la Marina tede-

sca li utilizzò sia nella prima sia nella seconda guerra mondiale. Le cose oggi sono fortunatamente cambiate. I moderni pirati utilizzano prevalentemente barchini e battelli veloci di piccole dimensioni (skiff), in genere scalcinati, appoggiati o meno da unità “madre” quando si tratta di agire a centinaia di miglia di distanza dalle coste. Ma anche queste navi più grandi sono alla fine niente più di pescherecci o battelli da trasporto (dhow) convertiti al nuovo ruolo, sequestrati o “prestati”. Grazie a queste unità i pirati hanno progressivamente esteso il loro raggio d’azione. Nel 2005 difficilmente si spingevano oltre le 170 miglia, poi hanno continuato ad ampliare la distanza delle loro scorrerie, fino a superare, lo scorso anno, le 1.300 miglia nautiche, con “missioni” che possono durare per settimane e settimane. Ecco così che l’area «ad alto rischio» si è andata progressivamente ad ampliare, fino a raggiungere l’estensione di 2,6 milioni di miglia nautiche un‘enorme fascia di oceano dal Golfo Persico, all’Oceano Indiano e le coste africane sempre più a sud. Con il risultato che si è stimato che per avere la possibilità di intervenire in ogni punto di questa 5


Risk area entro un’ora dall’allarme servirebbero oltre 80 navi da guerra dotate di elicotteri! Quanto all’armamento, i pirati si limitano alla dotazione di una unità base di fanteria: fucili d’assalto, mitragliatrici leggere, granate, una vasta gamma di lanciarazzi controcarro, con prevalenza dell’universale rpg (rocket propelled granade) sovietico. I criminali sono ingegnosi, hanno una rete di spie ed informatori, hanno imparato a condurre una rudimentale forma di guerra elettronica monitorando trasmissioni radio e messaggi e questo consente loro di disporre di una discreta intelligence, che permette sia di individuare le potenziali prede, sia di seguire le mosse delle navi militari. Si sono anche dotati di una organizzazione relativamente articolata e complessa, con diverse bande “operative” che riportano strutture di comando che impiegano le forze, trattano i riscatti, incassano e distribuiscono i proventi. Sono aggressivi, abili marinai, molto flessibili, astuti nello sfruttare le debolezze dell’avversario, ricorrono alla

Per contrastare la pirateria si impiegano unità navali molto sofisticate, costose e assolutamente spropositate in rapporto al tipo di minaccia e alla natura della missione. Invece di pattugliatori oceanici, rifornitori e corvette, le marine impiegano addirittura incrociatori lanciamissili, grandi navi da assalto anfibio, cacciatorpediniere, fregate. Navi concepite per combattere conflitti ad alta intensità contro nemici di pari qualità 6

corruzione, alle spie, agli informatori. Si stima che i pirati siano complessivamente alcune migliaia, inquadrati in un centinaio di gruppi, i quali fanno capo ad una dozzina circa di organizzazioni principali. Niente di che, a dire il vero. Dal punto di vista militare i pirati non rappresentano un problema, sono criminali spinti dalla motivazione economica, non da quella ideologica o religiosa e non hanno alcuna intenzione di immolarsi per la causa. Ed anzi, avendo la consapevolezza di rischiare davvero poco, non hanno alcun motivo per spingere i propri attacchi fino in fondo: se una preda si rivela troppo difficile oppure se l’abbordaggio viene impedito o ostacolato non c’è motivo di insistere e rischiare di farsi male, basta attendere una nuova opportunità. E il senso di impunità è così diffuso che in qualche occasione i pirati hanno usato le proprie armi contro le unità e i mezzi militari, in un paio di casi si è trattato di elicotteri e unità navali italiane, le quali naturalmente non hanno risposto al fuoco, in ossequio alle prudentissime regole di ingaggio ricevute, che a stento consentono l’autodifesa, figurarsi la ritorsione. Altri governi/marine non hanno queste fisime e la varietà di comportamenti ha talvolta portato i pirati a sottovalutare chi avevano di fronte, con conseguenze spiacevoli, ancorché poco reclamizzate. Per intenderci, ci sono stati battelli pirati affondati, con i criminali uccisi, altri casi in cui i pirati a bordo di navi sequestrate sono stati catturati e passati per le armi. Ma si tratta di eccezioni. In realtà anche quando si arriva alla cattura dei pirati (evento raro) i prigionieri la passano liscia, spesso vengono immediatamente rilasciati – oltre un migliaio di banditi è stato liberato e talvolta da operazione militare o di polizia si passa a missione di… soccorso in mare – o se e quando processati, escono dai tribunali con condanne simboliche. Questo spiega perché il numero degli attacchi tentati aumenti o al massimo resti costante e il fatto che la percentuale di successo sia drasticamente diminuita, scendendo al di sotto della media del 40 per cento degli ultimi anni, non è confortante, né lo è la di-


minuzione del numero di navi sequestrate e di ostaggi mantenuti nelle basi dei pirati. Per rispondere alla pirateria la comunità internazionale ha adottato una serie di misure, che vanno dalla collaborazione con le autorità (si fa per dire) somale per cercare di controllare meglio le coste e per condurre programmi di aiuto a livello locale, a pratiche di prevenzione/protezione per le navi mercantili, allo spiegamento di unità militari con compiti di sorveglianza, intelligence, in qualche caso scorta diretta, deterrenza ed intervento. La speranza che qualcuno in Somalia potesse convincere i pirati a rinunciare ad uno dei pochi business redditizi nel disastrato paese (viene sfruttato anche a livello semi istituzionale, oltre che dalle reti terroristiche) è miseramente naufragata. Più efficaci sono risultate le procedure e le soluzioni volte a rendere più difficile (ma non impossibile) l’attacco ai mercantili e il loro sequestro/dirottamento verso le basi utilizzate dai pirati.

Perché ci arrendiamo ai pirati?

Se i pirati non rappresentano un problema militare, risulta ancor più difficile comprendere perché, da anni, governi e organizzazioni internazionali non siano passati all’azione. In realtà il comportamento adottato si spiega solo con… la ricchezza delle economie. La pirateria è sì un problema, ma non è così grave. Si può pagarne il costo senza andare in bancarotta. Anche se si tratta di cifre elevatissime: ci sono i pagamenti dei riscatti, centinaia di milioni di dollari all’anno (si è partiti da una media di 150mila dollari nel 2005 per arrivare in fretta ad 5 milioni di dollari, con punte sopra i 10 milioni per navi grandi e pregiate), poi ci sono i costi per lo shipping, dall’aumento dei noli, agli oneri per la sicurezza, alle rotte meno dirette, alla più elevata velocità che i bastimenti devono tenere, ai premi assicurativi, al rinforzo degli equipaggi ed alle nuove procedure di navigazione, alla installazione di apparecchiature e sistemi addizionali. Infine non va dimenticato il costo che i governi devono sostenere per tenere in mare una flotta colossale, che comprende unità navali ed aerei di ogni tipo.


Risk Se si fanno un po’ di somme, si scopre che i costi complessivi che il sistema economico deve sostenere si misura in miliardi di dollari, probabilmente ancor più dei 7 miliardi di dollari/anno stimati dagli analisti. Evidentemente si ritiene che questi soldi rappresentino un onere sostenibile, perché altrimenti si sarebbe già passati a soluzioni più decise. Del resto la storia insegna che frequentemente i pirati si sono accontentati di taglieggiare le prede pretendendo pagamenti regolari in cambio della rinuncia ad effettuare attacchi contro le navi mercantili. Probabilmente se si adottasse una soluzione del genere si potrebbe risolvere la questione… risparmiando. Ma governi ed autorità internazionali non sono disposte a perdere la faccia… in modo ufficiale. Ed ecco quindi che continua il teatrino, con i dotti dibattiti giuridici, con lo schieramento di forze navali molto consistenti. In questo, va detto, c’è anche la complicità delle marine, le quali hanno trovato nel contrasto della pirateria se non una ragione d’essere, quantomeno un modo per contrastare una pericolosa «sindrome da disoccupazione». Già, perché se gli eserciti sono massicciamente impegnati in operazioni di controguerriglia e stabilizzazione in tutto il mondo, supportati dalle aeronautiche, le cose vanno diversamente per le forze navali. Che in qualche misura sono ridotte al ruolo di fleet in being con funzione deterrente. Un ruolo molto costoso e pericoloso in un contesto di riduzione della spesa per la difesa. Ecco così che per contrastare la pirateria si impiegano unità navali molto sofisticate, costose e assolutamente spropositate in rapporto al tipo di minaccia e alla natura della missione. Invece di pattugliatori oceanici, rifornitori, corvette le marine impiegano addirittura incrociatori lanciamissili, grandi navi da assalto anfibio, cacciatorpediniere, fregate. navi concepite per combattere conflitti ad alta intensità contro nemici di pari qualità. Non certo per dare la caccia a barchini mossi da motori fuoribordo. E più che i velivoli senza pilota si continuano ad utilizzare estensivamente elicotteri e aerei da pattugliamento marittimo. È come sparare ai passeri con un cannone! 8

Il comando Nato di Napoli ha condotto veri e propri wargames per testare i piani messi a punto per condurre attacchi contro le basi dei pirati. La stessa Marina militare italiana era pronta ad intervenire con le proprie forze anfibie per attaccare uno dei sorgitori in Somalia e liberare un rimorchiatore e il suo equipaggio Neanche i tagli di bilancio hanno portato a scelte più oculate nella composizione delle flotte. Servirebbero forse più navi, ma meno sofisticate. Solo che le Marine queste navi in molti casi non le possiedono (perché puntano sempre allo spettro più alto delle possibili operazioni) o comunque non le impiegano dove sarebbero più necessarie. Non si può che sperare che si passi quindi dalla dissuasione/deterrenza a qualcosa di più efficace, impiegando però mezzi e risorse proporzionate alla reale dimensione militare della questione.

Come vengono difesi i traffici marittimi Per proteggere le linee di comunicazione marittima sono state adottate procedure, regole e soluzioni via via più sofisticate, che mirano ad ostacolare la individuazione dei bersagli, l’attacco, il sequestro e il dirottamento. L’Imo, Un International maritime organization, ha definito procedure volte scongiurare gli attacchi (il Dijbuti code of conduct), ha creato tre centri regionali, gli Information sharing centers, ha istituito un centro di addestramento regionale per gli equipaggi, a Dijbuti. Il presupposto della sicurezza è naturalmente la conoscenza precisa della posizione, rot-


dossier ta e velocità delle navi mercantili. Dati che con ricevitori Gps e apparati trasmittenti “nascosti” possono essere costantemente ricevuti da apposite stazioni, mentre, in caso di necessità, può essere trasmesso un segnale di allarme, persino quando i pirati sono già a bordo. Un allarme tempestivo consente alle forze navali presenti nella regione di intervenire e, in molti casi, sventare l’attacco. Sistemi come il ShipLoc sono disponibili da oltre un lustro. Altri accorgimenti consistono nello spostare sempre più a largo dalle coste le rotte dei mercantili, nell’aumentare la velocità di crociera, nel richiedere agli equipaggi di mantenere una sorveglianza costante durante la navigazione in aree a rischio. Abbastanza efficaci sono anche le manovre difensive per evitare l’abbordaggio: se il pericolo è scoperto in tempo e la nave accelera e conduce manovre evasive appropriate, per i pirati diventa difficile salire a bordo e in molti casi la nave riesce a scampare all’attacco. Vi sono anche le misure di difesa passive, come la installazione di barriere anti abbordaggio, anche semplicemente costituite da rotoli di filo spinato o bidoni, nonché l’utilizzo di razzi illuminanti o di potenti idranti. La tecnologia mette poi a disposizione una serie di armi non letali che in molti casi può convincere i pirati a desistere. Si parte dai cannoni acustici a quelli a microonde ad una serie di dispositivi e tecnologie più o meno sofisticate. Una soluzione più drastica prevede l’imbarco di team di sicurezza, costituiti da guardie private o da personale militare del paese di bandiera. Non vi è dubbio che si tratti di una formula efficace: se i pirati che conducono all’attacco si vedono sparare addosso da personale sicuramente meglio armato e addestrato è ben difficile che insistano. Basta spesso sparare in aria o davanti al battello dei pirati per convincerli a rinunciare. Peraltro se si arriva allo scontro a fuoco le conseguenze, anche sul piano politico, possono essere gravi, come dimostra il caso dei due fucilieri di marina italiani arrestati dalle autorità indiane. Il presupposto di una difesa di successo consiste comunque nella «consapevolezza della situazione» intorno alla nave, che può essere ottenuta tramite un

flusso di informazioni fornito da fonti esterne, integrato con sensori di vario tipo, il tutto processato da un piccolo centro di comando e controllo, la cui gestione può essere altamente automatizzata. Diversi sistemi di questo tipo sono stati sviluppati dalle industrie, compresa l’italiana Selex sistemi integrati. E c’è già stata una sperimentazione a bordo di unità mercantili. Ancora, si possono creare di veri e propri convogli, costituiti da più mercantili che navigano in gruppo, eventualmente scortati da navi da guerra o da unità fornite da società di sicurezza private (il ricorso a navi ed equipaggi armati forniti da società militari private è stato proposto anche in ambito europeo ed è frequente per armatori statunitensi e internazionali). Ma occorre un difficile coordinamento dei traffici e procedure ben definite per realizzare qualcosa del genere, con costi abbastanza elevati. E poi non ci si deve difendere dai «branchi di lupi» degli U-boot nazisti, ma solo dai barchini dei pirati! Lo spiegamento di forze navali è volto invece a creare una capacità d’intervento in caso di attacco di navi mercantili impiegando elicotteri o mezzi navali veloci. Si punta ad una sicurezza d’area, cosa peraltro resa complicata dall’ampliamento delle zone a rischio. Il massimo livello di protezione viene raggiunto con la scorta diretta: uno o più mercantili vengono scortati direttamente da una nave da guerra durante tutta o gran parte della loro navigazione. Questa soluzione è stata adottata per proteggere le navi impegnate nel programma alimentare Onu in Africa, ma si tratta di una scelta costosissima giustificabile solo in casi eccezionali.

Come risolvere il problema

Le autorità militari di tutti i paesi costretti ad affrontare la pirateria sanno perfettamente cosa dovrebbe esser fatto per stroncare una volta per tutte il fenomeno. Nella consapevolezza che la prevenzione e l’attacco preventivo sono molto più efficaci delle misure difensive attuate dalle navi mercantili o dei tentativi di liberazione quando le prede sono state condotte in porto. La “ricetta” prevede una serie d’ingredien9


ti, il primo dei quali consiste naturalmente nel proibire agli armatori di pagare i riscatti richiesti dai criminali. Si è fatto per stroncare il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione ed ha funzionato. In Italia lo abbiamo sperimentato. Lo stesso approccio è stato adottato anche nel caso del terrorismo, o almeno, alcuni paesi (tra i quali purtroppo non c’è l’Italia, sempre pronta ad aprire il portafoglio e neppure Israele, che per ottenere la liberazione di un prigioniero è pronta a liberare schiere di terroristi), come gli Usa, si rifiutano addirittura di trattare con i terroristi, costi quel che costi. Se gli armatori non pagano… i pirati non hanno più convenienza economica a continuare gli attacchi. In secondo luogo si dovrebbe intervenire quando i pirati sono in mare, quando sono usciti dalle acque costiere e puntano verso il largo a caccia di prede. Sì, i mari sono vasti, la quantità di barche e barchette che li solcano è enorme, ma ora che le linee di navigazione sono state spostate ben a largo dalle coste, in qualche caso per centinaia di miglia, il numero di battelli da sorvegliare diminuisce drasticamente. Senza contare che i principali sorgitori (specchi di mare aperto destinati all’ancoraggio) utilizzati dai pirati sono ben noti e sono costantemente tenuti sotto controllo. E se i pirati intercettano le comunicazioni delle navi mercantili e persino i segnali emessi dai trasmettitori di posizione, anche le loro comunicazioni possono essere (sono) monitorate, intercettate ed analizzate. In questo modo può essere possibile seguire movimenti, rotte, velocità dei battelli dei pirati e, correlando le diverse informazioni, ottenere più che un’idea su natura ed intenzioni degli equipaggi di questo o quel battello. Perché chi va a pesca o conduce traffici costieri di piccolo cabotaggio si muove in modo ben diverso da una banda di pirati. Inoltre i sensori di cui dispongono i velivoli di sorveglianza, con o senza pilota, permettono di ottenere una documentazione video, di giorno come di notte, ad alta definizione che oltre ad avere un valore giuridico probatorio consente ad esempio di verificare se gli equipaggi siano o meno armati. Se poi i battelli si lanciano all’inseguimento di qualche mercantile o tentano


dossier l’abbordaggio… non ci sono più dubbi. I velivoli o battelli veloci utilizzati dalle unità navali militari sarebbero perfettamente in grado di attaccare ed affondare i natanti utilizzati dai pirati e le relative navi madre, invece che condurre sterili interventi “dissuasivi”. Si potrebbe poi intervenire con le armi anche quando un mercantile viene dirottato verso la costa, così come sui mezzi navali dei pirati che rientrano verso i porti di origine. Non c’è bisogno di schierare forze militari davvero consistenti o di utilizzare sofisticate tecnologie. Quanto serve è già a disposizione. Basterebbe semplicemente cambiare il modo in cui vengono utilizzati gli uomini e i mezzi che la comunità internazionale impiega a profusione per contrastare la pirateria. Modificando le regole d’ingaggio, tanto più visto che si opera in alto mare o eventualmente nelle acque territoriali di Paesi falliti come Somalia o Yemen, le marine sarebbero in grado di rendere finalmente poco conveniente il mestiere del pirata. In ultimo rimane l’opzione rappresentata dall’attacco contro le basi della pirateria. In questi anni qualche raid condotto dalle forze speciali (ad esempio quelle francesi) è stato effettuato per liberare questa o quella unità e i relativi equipaggi. Ma si è trattato di interventi spot e con scopo limitato. Quando si parla di colpo di mano anfibio però ci si riferisce a qualcosa di più impegnativo, anche se si esclude totalmente una occupazione permanente del territorio. Il colpo di mano è una operazione di breve durata, il cui successo dipende dalla disponibilità di un quadro intelligence completo e dettagliato, di una pianificazione che punti sullo sfruttamento del fattore sorpresa, su una esecuzione rapida e decisa. Si tratta dell’abc delle operazioni anfibie. I militari operazioni del genere le hanno studiate e provate per decenni. Ad esempio non è un mistero che il comando Nato di Napoli abbia condotto veri e propri wargames per testare i piani messi a punto per condurre attacchi contro le basi dei pirati. La stessa Marina militare italiana era pronta ad intervenire con le proprie forze anfibie per attaccare una delle basi dei pirati in Somalia e liberare un rimorchiatore e il suo

Spesso basta sparare in aria o davanti al battello dei pirati per convincerli a rinunciare. Peraltro se si arriva allo scontro a fuoco le conseguenze, anche sul piano politico, possono essere gravi, come dimostra il caso dei due fucilieri di marina italiani arrestati dalle autorità indiane

equipaggio. Una Lpd con a bordo un contingente delle forze speciali (il GI di Comsubin) e reparti di fanteria di marina del San Marco è rimasto al largo delle coste somale per settimane. Inutilmente, perché alla fine si è preferito pagare il riscatto. Dunque uno o più colpi di mano anfibi potrebbero risolvere la situazione. Lo scopo di siffatte operazioni non dovrebbe limitarsi a “conquistare” i porti, liberare le navi mercantili sequestrate ed i relativi equipaggi, ma dovrebbe anche prevedere la distruzione dei battelli usati dai pirati e la cattura e l’eliminazione del maggior numero possibile di criminali. Dopo di che ci si ritirerebbe immediatamente. L’operazione potrebbe essere condotta con effetto sorpresa, sfruttando sia la dimensione verticale (elicotteri, convertiplani) sia quella navale, per “imbottigliare” il nemico e ottenere il massimo shock, lanciando l’attacco preferibilmente nelle ore notturne e da oltre la linea dell’orizzonte. Le forze e i mezzi per effettuare attacchi del genere, anche simultanei, non mancano certo. Una accurata pianificazione potrebbe consentire di limitare al massimo i danni collaterali e la possibilità che i pirati possano opporre una forte resistenza. Attaccati nei propri santuari, braccati in mare, privati dei mezzi navali e delle prede, senza poter più incassare lauti riscatti i pirati non avrebbero difficoltà a comprendere che il gioco non è più pagante. Certo è che se i funzionari della Imb sostengono seriamente che il mo11


Risk do migliore per combattere la pirateria in Somalia è… sviluppare l’economia locale, davvero non fanno altro che ribadire il messaggio che negli ultimi 7-8 anni i pirati hanno scelto di non raccogliere, peraltro con ottimi motivi. Se si scegliesse davvero la via del soccorso economico e della collaborazione, dovremmo fronteggiare un fenomeno sempre più vasto e virulento, sine die. È il caso quindi di cambiare approccio. Ed è significativo che, dopo tanti anni, l’Unione europea si sia svegliata (forse questo avviene solo perché le economie soffrono) ed abbia rivisto il mandato della missione Atalanta, dopo averne prorogato la durata fino al 2014. Finalmente è stato autorizzato il ricorso alla forza contro i pirati nelle acque territoriali somale, nonché l’attacco contro obiettivi costieri per distruggere i ferri del mestiere impiegati dai pirati (battelli, depositi di carburante, attrezzature, mezzi). Non è ancora chiaro se siano o meno autorizzati anche i colpi di mano anfibi. Certo, considerando che Atalanta è partita nel 2008 (la Nato conduce la analoga missione Ocean Shield) si può davvero dire che… non è mai troppo presto. Occorre però augurarsi che i governi e le marine sfruttino al più presto le nuove regole, in attesa che ci si decida ad ordinare azioni militari ancora più decise. Finalmente! Non si può che gioire per la liberazione dell’equipaggio della «Montecristo» ad opera di militari britannici, i quali sono riusciti ad intervenire, con successo, prima che i pirati riuscissero a portare la loro preda e i 21 marittimi in uno dei vari “sorgitori” dai quali operano. È la prima volta che questo accade per quanto riguarda una nave italiana e poco importa che l’azione di liberazione sia stata eseguita da unità navali e personale britannico e statunitense: se una nave della Marina militare fosse stata in posizione utile per entrare in azione, l’intervento sarebbe stato condotto con analoga professionalità. Non ci mancano né i mezzi né gli uomini. A farci difetto è in genere la volontà politica di procedere, di assumere un rischio, per quanto ragionevole, impiegando le nostre capacità militari per quelli che sono poi i loro compiti istituzionali. Si parte sempre dal presupposto che 12

«chi non fa, non sbaglia» e se si resta a guardare non potrà fare una brutta figura di fronte all’opinione pubblica. Specie se c’è da usare la forza o peggio ancora, sparare. Meglio, molto meglio trattare e magari pagare (ah già, noi non paghiamo… ). E persino quando i pirati sparano addosso ai nostri militari, come è successo per un elicottero AW101 della Marina in missione intelligence lungo la costa somala… non c’è reazione. I nostri militari ricordano bene la frustrazione subita tempo fa, quando incursori, marò del San Marco, navi d’assalto anfibio, elicotteri e quant’altro sono stati costretti ad una inutile crociera davanti alla Somalia, senza poter entrare in azione, quando avrebbero avuto tempo e modo per farlo, liberando navi ed ostaggi. Non si può quindi che salutare positivamente il cambiamento di rotta, perché è evidente che senza il via libera politico di Roma anche questa volta i pirati sarebbero riusciti nel loro intento. Già perché una volta che i pirati riescono a portare la nave sequestrata nelle loro basi… non resta che trattare e pagare. Intendiamoci, non che sia impossibile andarsi a riprendere le navi e gli equipaggi ed infatti ci sono paesi, come la Francia, che in qualche caso lo hanno fatto. Ma l’operazione sarebbe più complessa e rischiosa. Meglio agire finché la nave è in mare. Ma meglio ancora sarebbe cambiare radicalmente approccio nell’affrontare il problema della pirateria, che solo l’insipienza politica dei governi ha reso un business redditizio e a basso rischio persino per gruppi di pirati improvvisati (per non parlare di quelli meglio organizzati). I pirati sanno bene che rischiano poco o nulla. Anche i 21 criminali catturati dagli inglesi saranno presto liberi, dopo il solito palleggio di responsabilità e i minuetti giudiziari. E il rischio di beccarsi una pallottola mentre si tenta di attaccare questa o quella nave mercantile è prossimo allo zero. Quindi perché mai rinunciare? Ecco, per risolvere la questione occorre rendere poco conveniente il mestiere del pirata. Come? La soluzione più radicale prevede l’assalto delle basi, la «neutralizzazione» dei pirati e delle loro flottiglie, la liberazione delle navi sequestrate e degli equipaggi.


Si può fare, è già stato studiato come, ma i governi non si decidono a passare all’azione, neanche se si deve agire in un “non paese”, come la Somalia. Se questa strada, chissà poi perché, visto quello che si fa contro i «terroristi», non è praticabile, almeno si potrebbe picchiare duro contro i pirati quando vanno a caccia, attaccando e affondando i loro natanti quando si ha una identificazione positiva (e con tutte le capacità di intelligence e sorveglianza messe in atto non è poi così difficile) e intervenendo sistematicamente per abbordare le navi dirottate. Inoltre, dopo tante parole, sono ancora troppe le navi mercantili che vanno in mare senza avere a bordo sistemi di difesa passiva ed attiva, comprese guardie private armate o distaccamenti delle forze armate. Un provvedimento che disciplini questa materia non è stato ancora approvato dal nostro Parlamento, che evidentemente non ritiene la questione urgente. Le manovre difensive condotte in modo corretto, i sistemi di difesa non letali spesso sono sufficienti, ma avere a bordo personale armato in grado di ingaggiare i pirati a distanza di sicurezza… cambierebbe di molto le regole del gioco. Se così non si fa, rassegnamoci a pagare. Non solo il prezzo dei riscatti (ah già, noi non paghiamo, è bene ripeterlo) ma il costo astronomico di mantenere una Invincibile Armada navale e un colossale apparato militare impegnato per proteggere le linee di comunicazione marittima. A Brussels si è parlato seriamente di impegnare persino le portaerei! E l’Italia ha impegnato nella missione Ocean Shield della Nato il nostro più moderno cacciatorpediniere lanciamissili. Quando i pirati vanno in mare con barchette e natanti ridicoli. Potrebbero bastare pattugliatori, con elicotteri e velivoli senza pilota (questi ultimi, non si sa perché, l’Italia sulle proprie navi non ce li vuole proprio mettere) e un po’ di “grinta”. Sarebbe sufficiente applicare sul mare le stesse regole che valgono nelle nostre città quando le forze di polizia devono affrontare rapinatori armati. Ma sul mare, persino in acque internazionali, ci comportiamo come damine. E i pirati ne approfittano, come non capirli?


Risk QUANTO COSTA AL COMMERCIO MARITTIMO E AGLI STATI IL FENOMENO DELLA NUOVA PIRATERIA

ALL’ARREMBAGGIO DI CONTI E PROFITTI DI •

I

VALÉRIE MIRANDA

l controllo dei mari ha sempre avuto una rilevanza strategica nel definire il potere economico, commerciale e militare di una nazione. Dalla seconda guerra mondiale ad oggi, il volume degli scambi marittimi è raddoppiato ogni decennio fino a rappresentare attualmente circa l’80 per cento del commercio mondiale, per un totale di 93mila navi mercantili e 6 miliardi di tonnellate di

carico trasportati ogni anno. È dunque comprensibile che garantire la sicurezza delle principali rotte e i relativi guadagni economici rientri oggi tra le priorità della Comunità internazionale, soprattutto di fronte alla recrudescenza di uno dei più antichi crimini contro i traffici marittimi, la pirateria. L’International maritime bureau (Imb) ha registrato, nel 2011, 439 attacchi (riusciti e non) di pirateria o rapina armata, di cui oltre la metà (236) al largo delle coste della Somalia, nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso. Già questi primi dati mettono in luce le dimensioni – notevoli – della pirateria somala. Infatti, se, da un lato, il numero complessivo degli attacchi ha subito nell’ultimo anno una leggera inflessione (445 nel 2010), dall’altro quelli compiuti da pirati somali sono aumentati (219 nel 2010). Inoltre, da quando nel 2008 le Nazioni Unite certificarono per la prima volta la gravità della situazione del Corno d’Africa, l’area di operazione dei pirati somali ha conosciuto una progressiva estensione nell’Oceano Indiano verso le Seychelles fino alle coste sud occidentali dell’India. In realtà, anche sul versante geografico opposto, nelle acque dell’Africa occidentale, la situazione non è meno allarmante. Si sta infatti assistendo ad un rapido aumento degli attacchi nel Golfo della Guinea, senza però che la comunità internazionale abbia finora elaborato una strategia di risposta uni14

taria e coerente, come recentemente lamentato dal segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon.

Il prezzo pagato dall’economia internazionale

Colpendo le principali rotte marittime internazionali, dall’Asia ai Caraibi, passando per l’Africa, dove migliaia di navi transitano ogni giorno, la pirateria comporta per la comunità internazionale costi economici non indifferenti, cui corrispondono, inevitabilmente, altrettanti guadagni per i pirati. Secondo due rapporti, tra i pochi disponibili, pubblicati nel 2010 e nel 2011 da un think-tank statunitense, la One earth future foundation, annualmente la pirateria (nel Corno d’Africa, Nigeria e Golfo di Guinea e Stretti della Malacca) comporta per l’economia internazionale un costo compreso tra i 7 e i 12 miliardi di dollari. Di questi, sono imputabili alla pirateria somala tra i 5,4 e 10,9 miliardi di dollari nel 2010 e tra i 6,6 e i 6,9 miliardi di dollari nel 2011. Non sono poi da dimenticare i costi umani (54 membri di equipaggio uccisi dal 2007) che tuttavia non sono oggetto della nostra analisi. Le voci che compongono i costi economici diretti della pirateria sono molteplici ed includono in percentuale diversa: riscatti, assicurazioni, compensi maggiorati per l’equipaggio che attraversa zone ad alto rischio, equipaggiamento di sicurezza e guardie armate a bordo dei mer-


dossier cantili, spese derivanti dalla scelta di nuove rotte e dall’incremento di velocità, operazioni militari e varie iniziative multilaterali di contrasto alla pirateria e spese per procedimenti legali contro i pirati, inclusa la detenzione. A queste devono poi aggiungersi anche i costi indiretti in termini di impatto economico-commerciale e di sicurezza sulle regioni limitrofe, che tuttavia sono più difficilmente quantificabili. Analizziamo dunque più in dettaglio le singole voci e valutiamo in che modo esse incidono sul costo totale della pirateria. Dal punto di vista metodologico è opportuno precisare che i dati disponibili si riferiscono quasi esclusivamente alla pirateria somala.

Riscatti

Il pagamento di riscatti multi-milionari è per la pubblica opinione uno dei costi più evidenti associati alla pirateria. La richiesta di un riscatto è frequente soprattutto nel caso della pirateria somala, laddove in altre regioni ci si “limita” al sequestro del carico o del solo mercantile. La One earth future foundation ha calcolato che nel 2011 sono stati pagati 31 riscatti per un totale di circa 160 milioni di dollari, con un notevole incremento delle cifre richieste (come pure della durata delle trattative), il che ha permesso ai pirati somali di mantenere inalterati i loro guadagni a fronte di una diminuzione nel numero complessivo dei sequestri. La cifra più alta mai pagata finora è stata di 13,5 milioni di dollari nell’aprile del 2011 per l’Irene SL, una petroliera (del tipo very large crude carrier), battente bandiera greca. Particolarmente preoccupante è poi l’emergere di una nuova tendenza nella gestione dei sequestri, in cui al pagamento del riscatto segue la liberazione del mercantile, ma non degli ostaggi, i quali vengono dunque trasferiti a terra e un ulteriore riscatto viene richiesto per la loro liberazione. È inoltre opportuno notare che il costo associato ai riscatti non comprende unicamente la cifra «cash» destinata ai pirati, ma anche spese aggiuntive per la compagnia, quali quelle per la consegna del riscatto stesso (in genere attraverso un velivolo che getta il denaro in mare in contenitori impermeabili), per i nego-

ziatori, per i consulenti legali e il supporto psicologico ai membri dell’equipaggio, per i danni alla nave o per le perdite economiche subite durante il fermo. Tali costi aggiuntivi tendono in media ad essere equivalenti alla somma cash per i pirati che invece è in genere coperta dall’assicurazione delle compagnie mercantili. Ci sono tuttavia anche altri costi da considerare, forse meno visibili, ma che incidono parimenti, e anche di più, sui bilanci delle compagnie marittime.

Assicurazioni e spese extra per il personale

Il transito in zone a rischio di guerra, come quelle infestate dai pirati, comporta per le società di navigazione il pagamento di premi assicurativi maggiorati. Tali zone sono identificate dal Lloyds market association (Lma) Joint war committee e ad oggi includono, tra quelle di nostro immediato interesse, l’Oceano Indiano, il Golfo di Aden, il Mar Rosso, il Golfo dell’Oman, il Golfo di Guinea (al largo della Nigeria e, più recentemente, del Benin), alcune aree delle acque tra Indonesia, Malesia e Filippine, e, non da ultimo, Venezuela, incluse le installazioni offshore nella sua Zona economica esclusiva. Le due principali forme di assicurazione e di protezione finanziaria per gli attacchi di pirateria sono la War Risk e la Kidnap & Ransom (K&R), che copre tuttavia solo l’equipaggio e non l’imbarcazione. Stabilire con esattezza i costi dei premi assicurativi non è semplice a causa della scarsa disponibilità di dati, delle clausole di segretezza imposte dalle società assicurative (come nel caso di sottoscrizione del premio K&R) e anche di possibili riduzioni nei premi qualora si ricorra a compagnie di sicurezza private o a specifici equipaggiamenti di sicurezza a bordo delle navi. La One earth future foundation ha comunque stimato una spesa di circa 635 milioni di dollari per il 2011 per la sola area in cui imperversano i pirati somali. La navigazione in zone ad alto rischio comporta per gli armatori spese aggiuntive anche per l’equipaggio, pari a circa 195 milioni di euro nel 2011. Esse includono ad esempio un incremento del 100 per cento del salario base durante tutto il transito in aree pericolose. In caso di se15


Risk questro, l’aumento può essere pari anche al 200 per cento, cui si devono aggiungere, forse cinicamente, le perdite che la compagnia subisce per l’inoperatività del marinaio tenuto in ostaggio e le ulteriori spese per la sua sostituzione su altre tratte.

Equipaggiamento di sicurezza

A fronte dei continui attacchi e dei costi dei premi assicurativi, un crescente numero di armatori ha scelto di installare a bordo delle proprie navi equipaggiamenti di sicurezza specifici per zone ad alto rischio. Le «Best management practices» per la protezione contro la pirateria somala prevedono già alcune misure standard, tra cui l’impiego di mezzi di sorveglianza rafforzata, filo spinato, televisioni a circuito chiuso, allarmi, cittadelle, idranti, ecc. Il loro grado di sofisticazione – e anche il loro prezzo – è ovviamente destinato ad aumentare di pari passo con lo sviluppo tecnologico. Nell’ultimo anno, è stato inoltre sempre più frequente il ricorso a guardie di sicurezza private a bordo delle navi, autorizzato da vari Stati (tra cui l’Italia con l’approvazione dalla legge n. 130 del 2 agosto 2011) e riconosciuto anche dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). Sulla base delle tariffe di queste ultime per ogni transito in zone ad alto rischio e ipotizzando che, nell’arco del 2011, dal 25 per cento al 50 per cento delle navi ha impiegato a bordo guardie armate private, è stato stimato che il loro costo, unito a quello degli equipaggiamenti di sicurezza standard, si attesta intorno alla ragguardevole cifra di 1,1 miliardi di dollari.

Nuove rotte e incremento di velocità

Oltre a ricorrere ad equipaggiamenti di sicurezza specifici o guardie private a bordo, un’alternativa che le compagnie di navigazione hanno a disposizione per tentare di sfuggire a possibili attacchi di pirateria è di seguire nuove rotte, esigenza particolarmente sentita soprattutto nell’area del Corno d’Africa. Se nel 2010 la One earth future foundation aveva stimato che la maggior parte delle navi avrebbe scelto di doppiare il Capo di Buona Speranza, evitando così del 16

tutto il transito nel Golfo di Aden verso il Canale di Suez, tale stima è stata oggi rivista al ribasso. A fronte anche di una continua espansione dell’area infestata dai pirati, sembra infatti molto più vantaggioso dal punto di vista economico continuare ad attraversare le zone a rischio pagando premi assicurativi più elevati o impiegando compagnie di sicurezza private, oppure navigare lungo le coste indiane transitando allora solo marginalmente nel Corno d’Africa. Sia in un caso che nell’altro, ci sono comunque dei costi da sostenere, i quali si è stimato siano compresi tra i 486 e i 680 milioni di dollari all’anno. La modifica delle rotte è tuttavia una scelta quasi obbligata soprattutto per le imbarcazioni più lente, come le petroliere, che sono più esposte a possibili attacchi e sono anche le più riluttanti ad impiegare guardie armate a bordo, considerata la pericolosità e l’infiammabilità del carico. Si è osservato infatti che le possibilità che un attacco abbia successo si riducono notevolmente se la nave viaggia a 18 nodi o più. In realtà, per la maggior parte delle imbarcazioni, la velocità di crociera più efficiente sotto il profilo economico è tra i 10 e 15 nodi. Tale incremento di velocità, seppure limitato a determinati tratti, ad esempio nel Corno d’Africa, comporta dunque una maggiorazione nei costi, dovuta in primis al maggiore consumo di carburante e alle relative sovrattasse che devono essere applicate. Si ritiene che questi consumi aggiuntivi ammontino ad almeno 2,7 miliardi di dollari. Essi rappresentano, da soli, la componente che incide di più sui costi complessivi della pirateria (tra il 22% e il 37%).

Iniziative di contrasto

I costi finora descritti, pari a circa l’80 per cento del

totale, sono sostenuti essenzialmente dal settore privato. L’apparato pubblico copre invece le spese per tutte le iniziative internazionali a contrasto della pirateria, dalle operazioni militari alle misure legali per il perseguimento e la detenzione dei responsabili di atti di pirateria o di rapina armata. Le stime fornite dalla Oeff per le operazioni militari, equivalenti ad al-


dossier meno 1,27 miliardi di dollari per il 2011, si riferiscono alle tre principali missioni dispiegate nelle acque del Corno d’Africa, cioè Eunavfor (Unione europea), Ocean Shield (Nato) e Ctf 151 (coalizione internazionale). Esse si compongono dei soli costi cosiddetti incrementali, cioè i costi ulteriori (consumo di carburante, addestramento ed equipaggiamento specifici, turnazione del personale, ecc.) che la conduzione di specifiche attività di contrasto alla pirateria comporta rispetto alle attività militari attuate in condizioni di normalità. Applicando il principio «costs lie where they fall», gli stati parte delle operazioni contribuiscono mediante navi da combattimento o ausiliarie, velivoli da ricognizione o pattugliamento marittimo (Uav), nuclei militari di protezione (altrimenti conosciuti come vessel protection detachment team) e personale a bordo o distaccato presso i quartieri generali. Alle operazioni militari devono poi aggiungersi, con un budget tuttavia sensibilmente inferiore (circa 20 milioni di dollari), tutte quelle iniziative fiorite negli ultimi anni sotto l’egida d’organizzazioni internazionali e in seno alla società civile, dedite a contrastare la pirateria e le attività illecite ad essa collegate, rafforzando ad esempio la cooperazione regionale ed internazionale, intensificando i controlli sui traffici illegali, formando le forze di polizia e gli operatori di giustizia dei paesi interessati o facendo opera di sensibilizzazione presso le realtà locali. Rientrano infine in una categoria distinta i costi sostenuti per il difficile perseguimento legale e la successiva detenzione dei pirati. Considerate le deboli capacità somale, sono soprattutto gli altri Stati della regione, come Kenya, Mauritius e Seychelles, o gli stati occidentali, a farsi carico dei processi, sebbene siano molto più riluttanti a detenere nelle loro carceri i colpevoli. Sommando i costi dei procedimenti giudiziari e quelli per la detenzione, la stima indicata per il 2011 è di poco più di 16 milioni di dollari.

I guadagni per i pirati

Ciò che rappresenta un costo per qualcuno, costituisce inevitabilmente un guadagno per un altro. E la pi-

rateria non si sottrae a questa logica. Con il significativo incremento nella cifra richiesta per i riscatti, la pirateria è diventata infatti negli ultimi anni estremamente lucrativa. Essa è gestita ormai alla stregua di un’attività economica vera e propria, di gran lunga più redditizia rispetto a quelle tradizionali, peraltro molto limitate nelle aree dove essa è fiorita. Gli esperti hanno individuato tre principali modelli gestionali: «strutture familiari a cottimo», in cui in genere vi è un unico proprietario, che può anche essere a capo del gruppo dei pirati e che, se l’attacco ha successo, tiene per sé la parte più consistente del riscatto; «cooperative o società per azioni» in cui i singoli pirati investono nell’operazione a titolo personale (dalle armi ai rifornimenti) e dividono poi gli introiti; «asso-

Ogni anno la pirateria, nel Corno d’Africa, Nigeria e Golfo di Guinea e Stretti di Malacca, comporta per l’economia internazionale un costo compreso tra i 7 e i 12 miliardi di dollari

ciazioni a delinquere», in cui figurano più investitori, che finanziano ed equipaggiano diversi gruppi di pirati e ottengono dal 50 al 70 per cento dei guadagni. Quest’ultima è la modalità sicuramente più diffusa e suscita particolare interesse tra gli addetti ai lavori, vista la similitudine organizzativa e gestionale con altre attività economiche lecite. Sono previste ad esempio quote associative d’ingresso (di 5-10 mila dollari ognuna); contatti diretti tra gli investitori e il leader dei pirati oppure tramite facilitatori; accordi che specificano l’ammontare investito da rimborsare con il riscatto; precise procedure per la richiesta di quest’ultimo, tempi di negoziazione inclusi. Pur in assenza di informazioni precise, secondo alcuni studi condotti nell’area del Corno d’Africa, si ritiene che dal 40 al 60 per cento del riscatto resti in Somalia. Di 17


Risk

La cifra più alta mai pagata finora è stata di 13,5 milioni di dollari nell’aprile del 2011 per l’Irene Sl, una petroliera greca. Particolarmente preoccupante è poi l’emergere di una nuova tendenza nella gestione dei sequestri, in cui al pagamento del riscatto segue la liberazione del mercantile, ma non degli ostaggi questo, tra il 30 e il 40 per cento sembrerebbe destinato ai pirati che hanno agito in prima linea. Considerando la cifra di 160 milioni di dollari pagata nel 2011 e ipotizzando la presenza di almeno 1500 pirati al largo delle coste somale, il guadagno per ognuno sarebbe di circa 25 mila dollari, quasi il doppio di quanto essi potranno mai guadagnare in trent’anni di carriera se si dedicassero ad attività lecite (il pil pro capite in Somalia è pari a circa 500 dollari l’anno). Quanto resta del riscatto viene invece redistribuito tra chi opera nelle retrovie ed utilizzato per le finalità più diverse (acquisto di armi, tangenti a clan locali e autorità pubbliche, consolidamento e ampliamento delle strutture di sostegno ai pirati fino alla compravendita di proprietà immobiliari). Secondo le logiche del crimine organizzato, la pirateria, in quanto attività illecita, non si limita dunque a chi ha materialmente compiuto l’attacco, ma comprende una fitta rete di attori: funzionari pubblici che garantiscono adeguata protezione, figure dal mondo politico o degli affari, che hanno magari interessi specifici o controllano attività nell’industria della pesca e che foraggiano i pirati con risorse economiche e non ed equipaggiamento. Tali reti si estendono anche al di là dei confini somali e includono finanziatori e profittatori individuati ad esempio in Libano o negli Emirati Arabi Uniti, oppure gruppi criminali in Yemen, fino ad alcune com18

pagnie assicurative occidentali. L’estensione – anche transnazionale – di questi network rende molto difficili i controlli finanziari sui flussi di denaro illecito, anche perché questo è spesso trasferito tramite canali informali non rintracciabili. Se inizialmente la comunità internazionale, nella sua lotta alla pirateria, ha concentrato la propria attenzione soprattutto su misure di tipo marittimo e militare, oggi, come ricordato anche nelle conclusioni della recente Conferenza di Londra sulla Somalia, essa è consapevole della rilevanza che il monitoraggio dei flussi finanziari riveste ai fini di un efficace contrasto della pirateria. Tra le organizzazioni più attive in quest’ambito vi sono le Nazioni Unite e le sue agenzie, come l’Unodc (United nations office on drugs and crime), l’Interpol ed Europol. I loro sforzi sono coordinati dal Gruppo di contatto sulla pirateria al largo delle coste della Somalia (Cgpsc), in particolare tramite il quinto Working group, dedicato appunto al monitoraggio dei flussi finanziari illeciti, istituito nel 2009 e presieduto dall’Italia. Risultati effettivi sono tuttavia ancora lontani dall’essere raggiunti. Una delle sfide più urgenti è rappresentata dall’assenza di adeguate capacità a livello locale sia in Somalia, dove mancano strutture in grado di attuare misure antiriciclaggio e dove è risaputa la connivenza con i pirati delle autorità pubbliche di alcune aree come il Puntland, ma anche nei paesi limitrofi, tra cui Kenya, Seychelles, Tanzania e Uganda, in cui manca una legislazione antiriciclaggio oppure, laddove esistente, trova una lenta attuazione. Nell’era dell’integrazione globale e con i mezzi oggi a disposizione, combattere la pirateria potrebbe sembrare un compito semplice. Tuttavia, è proprio la globalizzazione, unita alla natura asimmetrica dei traffici propri del crimine organizzato, che rendono tale obiettivo difficile da raggiungere. Ancora una volta, a meno che le capacità di law enforcement e la condivisione di informazioni sull’intero «ciclo della pirateria», dai finanziatori agli esecutori finali, non siano sensibilmente migliorate e la governance regionale del settore della sicurezza non venga rafforzata, il prezzo della partita continuerà ad essere elevato.



Risk TRATTATI E NORME INTERNAZIONALI PER COMBATTERE LA PIRATERIA

CRIMINALI DIETRO LE SBARRE DI

L

NATALINO RONZITTI

a pirateria sembrava fino a qualche anno fa un crimine dimenticato. L’insidia per i traffici marittimi proveniva non tanto dalla pirateria quanto dal terrorismo e dai traffici d’armi, comprese quelle di distruzione di massa, che mettevano e mettono in pericolo la sicurezza degli stati. Il crescente disordine in terraferma e l’incapacità degli stati falliti di pattugliare le proprie acque territoriali hanno

trambe ratificate dall’Italia. La Convenzione del 1982 riprende sul punto (artt. 100-107, 110, par. 1, a) quasi verbatim quella del 1958. La pirateria secondo il diritto internazionale (pirateria iuris gentium) è per definizione un crimine commesso in alto mare (o in un territorio non soggetto a sovranità di alcuno, fattispecie oggi praticamente teorica) e consiste in ogni atto illecito di violenza o di sequestro o rapina commesso dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave contro un’altra nave o contro persone o beni da essa trasportati (criterio delle due navi). Gli atti di violenza devono essere commessi «per fini privati» e questo distingue la pirateria da altri fenomeni illegali. La pirateria non può essere commessa da una nave da guerra, tranne che l’equipaggio si sia ammutinato e quindi non obbedisca più agli ordini dello stato della bandiera. Gli stati hanno il potere di reprimere la pirateria tramite navi da guerra o navi adibite a questo scopo e debitamente contrassegnate in quanto in servizio di stato Le norme internazionali e autorizzate a combattere la pirateria. Lo stato che La repressione della pirateria trova la propria fon- cattura la nave pirata ha il diritto di sottoporre alla te nel diritto internazionale consuetudinario. Le nor- propria giurisdizione i pirati, requisirne i beni e seme pertinenti sono state codificate dalla Conven- questrare la nave pirata, salvo i diritti dei terzi in zione di Ginevra sull’alto mare del 1958 e dalla buona fede. Qualora il sequestro sia stato effettuaConvenzione delle Nazioni Unite sul diritto del ma- to in base a prove insufficienti oppure sia stata ferre (Unclos, nell’acronimo inglese) del 1982, en- mata una nave sospettata, senza fondamento, di pialimentato il fenomeno. A ciò si aggiungano la pesca illegale e il traffico di rifiuti. Inoltre, il traffico di migranti via mare ha contribuito ad alimentare l’insicurezza della navigazione e i pericoli per la salvaguardia della vita umana. La comunità internazionale ha cercato di far fronte a questi fenomeni, talvolta correlati, con l’adozione di una serie di convenzioni, che qui saranno richiamate solo nella misura in cui abbiano un punto di contatto con il fenomeno piratesco. In particolare dovranno essere prese in considerazione le norme del diritto internazionale del mare sulla pirateria, gli strumenti con cui la comunità internazionale, attraverso le organizzazioni internazionali, si è attrezzata per combattere la pirateria, la disciplina italiana del fenomeno e la recente legislazione in materia, le azioni mediante cui è possibile contrastare questo crimine ed infine una valutazione dell’adeguatezza degli strumenti e delle azioni finora adottati.

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dossier rateria, lo stato che opera il sequestro o ferma la nave incorre in responsabilità ed è obbligato a risarcire il danno. Non esiste un obbligo particolarmente incisivo di reprimere la pirateria. L’art. 100 Unclos stabilisce solo un dovere di esercitare la massima collaborazione per la repressione. Le disposizioni del diritto del mare si sono rivelati insufficienti, specialmente per quanto riguarda la repressione della pirateria. È infatti accaduto che i pirati siano stati catturati, ma che la nave da guerra che ha operato la cattura abbia abbandonato i pirati sulle coste della Somalia, dopo aver gettato le armi in mare. Con la conseguenza che i pirati liberati hanno continuato a delinquere.

Altri fenomeni pericolosi per la sicurezza della navigazione I tratti distintivi della pirateria la differenziano da altri fenomeni che mettono in pericolo i traffici commerciali ed a cui si applica una diversa normativa internazionale. A parte la corsa, abolita dalla Dichiarazione di Parigi del 1856, che consentiva al sovrano di armare navi private abilitate a condurre la guerra contro il traffico commerciale nemico, interferenze ai traffici possono essere causate dagli insorti, quantunque raramente essi abbiano la capacità di condurre operazioni marittime (un esempio recente è quello delle Tigri Tamil in Sri Lanka). Gli insorti possono condurre la lotta contro le navi del governo costituito, ma non contro i terzi. Se gli insorti non attaccano le navi dei terzi stati, questi non li trattano come pirati. Anche il terrorismo marittimo non è pirateria, poiché la pirateria è un crimine perpetrato per fini di lucro, mentre il terrorismo è effettuato per fini politici. Quanto all’ammutinamento, viene meno il criterio delle due navi per essere considerato pirateria, tranne che l’equipaggio della nave ammutinata si dia alla pirateria. Da notare, tuttavia, che possono aver luogo contaminazioni tra i fenomeni sopra incasellati in categorie distinte. Una contaminazione dei nostri tempi è tra pirateria e terrorismo. Le organizzazioni

terroristiche potrebbero darsi alla depredazioni del naviglio commerciale per procurarsi fonti di finanziamento. Lo stesso dicasi per gli insorti. Nella Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza (2011) sono state denunciate pericolose collusioni tra il movimento degli al Shabaab e i pirati somali.

La Convenzione su ostaggi e sicurezza della navigazione marittima La moderna pirateria non è volta tanto alla depredazione di navi cariche di lingotti d’oro, come accadeva nei secoli passati, quanto alla cattura della nave e dell’equipaggio allo scopo di chiedere un riscatto. Talvolta la nave catturata cambia registro con la connivenza di qualche stato compiacente, sede di bandiere-ombra. La nave può essere venduta (accadimento raro) o piuttosto adibita a nave madre, da cui partono all’attacco i barchini dei pirati. La Convenzione internazionale contro la presa di ostaggi, conclusa nel 1979 e ratificata dall’Italia, contiene disposizioni rilevanti che possono trovare applicazione nel caso di ostaggi catturati dai pirati. La Convenzione trova applicazione qualora il crimine abbia una rilevanza transnazionale e non si applica nel caso in cui la cattura dell’ostaggio e la sua detenzione avvengano interamente nel territorio di uno stato parte. L’art. 1 definisce la sfera d’applicazione della Convenzione alle condotte volte a costringere uno stato, un’organizzazione o individui a fare o non fare una determinata azione e copre quindi la violenza esercitata al fine del pagamento del riscatto. La Convenzione, oltre a imporre la repressione penale per il reato di presa di ostaggi e a stabilire una cooperazione in materia di estradizione, obbliga lo stato nel cui territorio l’oggetto del riscatto è trovato a restituirlo al legittimo possessore e questo potrebbe applicarsi alle somme pagate per il riscatto. Mentre la Convenzione contro la presa di ostaggi è applicabile alla pirateria in relazione agli ostaggi catturati e alla richiesta di riscatto, è controversa l’applicazione della Conven21


Risk zione per la repressione degli atti illeciti contro la sicurezza della navigazione marittima del 1988, di cui l’Italia è parte. In linea di principio la Convenzione è applicabile a qualsiasi atto di violenza contro una nave e conto le persone che si trovano a bordo. Il criterio delle due navi non è richiesto. Ciò perché la Convenzione trae spunto dall’incidente dell’Achille Lauro, il transatlantico italiano dirottato da terroristi palestinesi che si trovavano a bordo (1985). La Convenzione è quindi applicabile agli atti di terrorismo, come si desume chiaramente dal preambolo dove viene fatto riferimento alla risoluzione in materia adottata dall’Assemblea generale

Le disposizioni del diritto del mare si sono rivelate insufficienti, specialmente per quanto riguarda la repressione del fenomeno. È infatti accaduto che i pirati siano stati catturati, ma che la nave da guerra che ha operato la cattura li abbia abbandonati sulle coste della Somalia, dopo aver gettato le armi in mare. Con la conseguenza che tornati liberi, hanno continuato a delinquere

delle Nazioni unite (Ris. 40/61 del 9 dicembre 1985), ma non è chiaro se essa sia applicabile agli atti di pirateria completamente esenti da qualsiasi commistione con il terrorismo. Peraltro talune delle risoluzioni in materia di pirateria del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite (Cds) richiamano la Convenzione ai fini dell’applicazione della legislazione penale che gli stati hanno adottato per la 22

sua esecuzione e per corroborare l’obbligo di una efficace repressione contro i pirati.

Le misure prese dalle organizzazioni internazionali La repressione della pirateria è da tempo all’attenzione del Cds, che ha qualificato il fenomeno come una minaccia alla pace (art. 39 della Carta delle Nazioni unite). In un primo tempo il Cds si è concentrato sulle acque al largo della Somalia, autorizzando gli stati ad intervenire nelle acque territoriali somale. Poiché la pirateria iuris gentium è per definizione un crimine commesso in alto mare, per intervenire nelle acque territoriali altrui è necessaria un’autorizzazione del Cds, che è stata corroborata dall’acquisizione del consenso (nominale) del Governo federale di transizione somalo. Nel complesso sono state finora adottate 14 risoluzioni a partire dalla 1816 del 2008 fino alla 2020 del 22 novembre 2011. La pirateria non è un fenomeno che riguarda esclusivamente la Somalia: per questo il Cds ha adottato la risoluzione 2018 (2011) relativa al Golfo di Guinea. L’Imo (International maritime organization) non ha poteri giuridicamente vincolanti. Tuttavia ha adottato un numero di «circolari» che riguardano le best practices per la difesa delle navi contro gli attacchi dei pirati. Tali pratiche riguardano mezzi difensivi non cruenti, come idranti ad alto potenziale, barriere di filo spinato e l’installazione di un castelletto impenetrabile dai pirati. A livello regionale l’Imo ha promosso un Codice di condotta, adottato a Gibuti nel 2009, sottoscritto dagli stati che si affacciano sull’Oceano indiano. Il Codice, pur non essendo un trattato giuridicamente vincolante, è volto a promuovere la cooperazione tra gli stati rivieraschi. La lotta alla pirateria è stata condotta mediante l’invio di navi da guerra nei mari più infestati dai pirati. Si tratta di flotte operanti sotto l’egida di organizzazioni internazionali, quali la Nato, con l’operazione Ocean Shield, e l’Unione europea (Ue), con la missione Atalanta. Gli Stati uniti guidano la Com-


bined Task Force 151, di stanza in Bahrain, mentre le marine da guerra di altri stati affollano l’Oceano Indiano, a cominciare da Cina e Russia. Da osservare che la risoluzione 1851 (2008) al par. 6 autorizza l’uso della forza in territorio somalo per distruggere i “santuari” dei pirati. Finora non si è fatto uso di tale risoluzione permissiva ed anche la recente Conferenza di Londra sulla Somalia del 23 febbraio 2012 non ha preso posizione in materia. La decisione del Consiglio Ue del 22-23 marzo 2012, nel prolungare la missione Atalanta, ne ha esteso il mandato, consentendo operazioni nelle acque interne e sulle fasce costiere della Somalia.

La repressione penale Come si è accennato, l’art. 105 Unclos consente allo stato della nave da guerra che cattura una nave pirata di arrestare i pirati e di requisirne i beni, disponendo altresì che gli organi giurisdizionali dello Stato che ha operato il sequestro della nave hanno il potere di decidere la pena da infliggere. Il problema si pone quando la cattura avviene in mari lontani: il trasporto dei pirati per essere sottoposti ai tribunali della bandiera solleva non poche difficoltà a cominciare dalla reclusione dei pirati in locali angusti della nave, la convalida del fermo e l’assistenza legale. Non dimentichiamo, infatti, che le navi della missione Atalanta battono bandiera di stati parte della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le cui norme hanno un’applicazione extraterritoriale quando interessano gli organi statali. La conseguenza è quella che si diceva all’inizio: la nave che opera la cattura spesso preferisce lasciare liberi i pirati sulle spiagge somale o del Golfo di Aden, dopo averne gettato fuori bordo le armi e affondato il barchino dei pirati. In verità qualche procedimento penale si è avuto con le conseguenti condanne. Ne costituiscono un esempio i processi celebrati in Francia, Germania, Olanda e Stati uniti. Per assicurare una effettiva repressione sono state prospettate varie soluzioni. Premesso che la pirateria non è un crimine internazionale che ricade sotto la giurisdizione della Corte penale internazionale, sono sta-



dossier ti conclusi accordi con gli stati rivieraschi dell’Oceano indiano per il trasferimento e il processo dei pirati. Un accordo è stato concluso nel 2009 tra Ue e Kenya per la consegna e il processo dei pirati catturati, con la precisazione che i pirati non dovevano essere sottoposti a condizioni di carcerazione inumane o degradanti e che in nessun caso sarebbe stata loro inflitta la pena di morte. Ma il Kenya ha addotto ragioni costituzionali e non vuole più applicare l’accordo. È stata acquisita la disponibilità delle Seychelles per processare i pirati, ma limitatamente a quelli catturati nella sua zona economica esclusiva. Altre soluzioni sono allo studio, come l’istituzioni di tribunali ibridi (composti cioè da giuridici locali e da giudici di stati europei e di altri stati) e la localizzazione di tali tribunali in Somalia. Tale soluzione, a parte la difficoltà di reperire personale somalo qualificato nel campo giudiziario, potrebbe rivelarsi particolarmente dispendiosa, poiché occorre dislocare anche una forza di polizia a difesa del perimetro in cui opera il tribunale. Nell’ordinamento italiano la pirateria è reato previsto dal nostro Codice della navigazione, che dispone, all’art. 1135, la reclusione da 10 a 20 anni del comandante della nave che commetta atti di pirateria. Per l’equipaggio, la pena è ridotta di un terzo. Per gli estranei all’atto piratesco la pena è ridotta della metà. L’art. 1136 detta invece una disciplina per le navi sospette di pirateria, disponendo per il comandante una pena dai 5 ai 10 anni. Un processo contro i pirati somali che avevano assaltato una nave italiana si è aperto dinanzi alla Corte di assise di Roma ed è ancora in corso. I pirati, che erano stati catturati da una nave da guerra del Regno Unito e consegnati ad una nave da guerra italiana, sono stati trasportati per via aerea da Gibuti. Ai fini della repressione della pirateria, la L. 12/2009 considera l’alto mare territorio estero e la giurisdizione italiana è esercitabile a norma dell’art. 7 codice penale trattandosi di reato per il quale le convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana. Non è necessaria l’autorizzazione del ministro della Giustizia per procedere alla repressione del

Nel complesso sono state finora adottate 14 risoluzioni a partire dalla 1816 del 2008 fino alla 2020 del 22 novembre 2011. La pirateria non è un fenomeno che riguarda esclusivamente la Somalia: per questo l’Onu ha adottato la risoluzione 2018 (2011) relativa al Golfo di Guinea reato. La competenza è attribuita al Tribunale di Roma. L’azione penale è obbligatoria qualora il reato sia consumato ai danni di beni e persone italiani. La L. 12/2009 dispone anche in materia di sequestro di una nave catturata dai pirati e liberata da una nave da guerra. È previsto che la nave sequestrata possa essere affidata in custodia all’armatore, all’esercente o al proprietario della nave. Le disposizioni recentemente emanante prevedono altresì norme in materia di garanzie processuali e di custodia dei pirati catturati a bordo della nave da guerra.

I team armati Nonostante il dislocamento di numerose navi da guerra nell’Oceano indiano, gli attacchi non sono cessati. Si è pensato quindi di ricorrere a scorte armate a bordo dei mercantili. L’Imo ne aveva sconsigliato l’impiego per il timore che personale armato non avrebbe fatto altro che aumentare la violenza. Aveva quindi suggerito difese non letali. Ma gli armatori aderenti all’Ipta (International parcel tanker association) hanno fatto pressione nei confronti del Comitato sulla sicurezza marittima dell’Imo, perché fossero adottate due circolari relative all’impiego di personale armato a bordo delle navi. Anche l’armamento italiano aveva fino a poco tempo fa sconsigliato scorte armate a bordo delle navi. La situazione è ora mutata. L’armamento italiano si è convertito alla necessità di avere personale armato a bordo. Tanto Confitar25


Risk

In ambito europeo si riscontrano le due soluzioni sui team armati a bordo. La prima è quella seguita dalla Francia per la protezione delle navi da pesca per il tonno e comporta un accordo con lo stato di appoggio della flotta peschereccia. Il team militare è a spese dell’armatore. La seconda, cioè l’imbarco di team privati, è invece quella seguita dalla Spagna ma quanto Federpesca si sono pronunciate a favore dell’imbarco di scorte armate a protezione delle navi, nel corso delle audizioni svolte presso la commissione Difesa del Senato. Le scorte armate a bordo delle navi battenti bandiera italiana sono state autorizzate dal Decreto-Legge di proroga delle missioni militari all’estero (DL 12 luglio2011, n. 107). Il DL è stato convertito con modifiche, anche nella parte relativa alle scorte armate antipirateria, con L. 2 agosto 2011 n. 130. Il testo normativo, come da più parti auspicato, contiene due categorie di disposizioni: una relativa all’invio di team armati militari a bordo dei mercantili, l’altra concernente l’imbarco di scorte armate di personale di sicurezza civile (guardie giurate). In ambito europeo si riscontrano le due soluzioni. La prima è quella seguita dalla Francia per la protezione delle navi da pesca per il tonno e comporta un accordo con lo stato di appoggio della flotta peschereccia. Il team militare è a spese dell’armatore. La seconda, cioè l’imbarco di team privati, è invece quella seguita dalla Spagna. Le due soluzioni non sono alternative. La Francia non ammette scorte armate private sulle proprie navi, ma non contiene una legislazione proibitiva per quelle straniere. La legislazione 26

permissiva spagnola non esclude ovviamente la partecipazione di team militari in servizio antipirateria. L’ Italia ha seguito una via eclettica e si è avvalsa delle due opzioni. La L. 130/2011 dedica alla pirateria una disposizione ad hoc, l’art. 5, i cui commi riguardano, rispettivamente i Nuclei militari di protezione (Nmp) forniti dal ministero della Difesa (commi 1-3) e i servizi di vigilanza privata (commi 4,5, 5-bis, 5ter). Segue poi una norma che si applica sia al naviglio su cui sono imbarcati i Nmp sia su quello che si avvale dei servizi di vigilanza privata (comma 6). In sede di conversione sono stati aggiunti altri due commi: l’uno a modifica del codice dell’ordinamento militare (comma 6 -bis), l’altro (comma 6- ter) contenente la formula, diventata di stile in questo periodo di difficoltà economiche, secondo cui dall’attuazione dell’art. 5 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. L’imbarco dei team armati è subordinato a due decreti ad hoc, uno di competenza del ministro della Difesa, per i team militari, l’altro di competenza del ministro dell’Interno di concerto con il ministro della Difesa e di quello delle Infrastrutture e Trasporti. Mentre il primo decreto è stato prontamente emanato il 1° settembre 2011, il secondo non lo è ancora stato, quantunque sia sostanzialmente pronto. L’11 ottobre 2011 è stato concluso tra il ministero della Difesa e Confitarma un protocollo d’intesa per la prestazione di servizi di nuclei militari di protezione a bordo dei mercantili italiani.

Il caso della Enrica Lexie I nuclei armati di protezione sono già operativi ed hanno sventato taluni attacchi pirateschi: un team di fucilieri ha respinto, in febbraio, l’attacco contro la Jolly Arancione. Il primo incidente di rilievo si è verificato con la Enrica Lexie, e non ha ancora trovato una soluzione. Il 15 febbraio 2012 i fucilieri di marina, che facevano parte del team di militari imbarcati in funzione antipirateria sulla Enrica Lexie, hanno sparato alcuni colpi per reagire contro un attacco di pirati. Successivamente la nave, che era diretta in Egitto, è stata richiesta dalle autorità indiane di dirigersi nel


dossier porto di Kochi, allo scopo di identificare i pirati che, a dire delle autorità dell’India, erano stati catturati al largo delle sue coste. Si trattava però di un escamotage per attirare la nave nelle acque indiane. Poiché era stato colpito un battello da pesca indiano che operava nelle acque in cui transitava la Enrica Lexie, due fucilieri di marina sono stati accusati di aver ucciso due pescatori che si trovavano sul battello. Per tradurli dinanzi alla giustizia indiana, la polizia locale è entrata a bordo della nave italiana, nonostante fosse stata contestata da parte delle nostre autorità la giurisdizione locale. Il procedimento è ancora in corso dinanzi all’Alta Corte del Kerala ed è ora approdato alla Corte Suprema, a New Delhi. L’arresto dei fucilieri è a nostro avviso chiaramente illegittimo. Essi godono di immunità funzionale, secondo una prassi risalente al caso McLeod del 1840 e costantemente riaffermata. La norma appartiene al diritto internazionale consuetudinario e non è necessario stipulare uno Status of forces agreement (Sofa, Accordo sullo status delle forze armate) ad hoc, come è stato erroneamente detto anche da qualche commentatore italiano. Da parte italiana si avanza un’ulteriore argomentazione contro l’illegittimità del fermo. Si è affermato che l’eventuale azione illecita è avvenuta in alto mare e quindi la Enrica Lexie era sottoposta alla giurisdizione italiana. Come può essere affermata la giurisdizione indiana dato che la sparatoria è avvenuta in alto mare? In base al principio della giurisdizione passiva, poiché i due pescatori uccisi erano di nazionalità indiana e la nave su cui si trovavano indiana. Nello stesso tempo l’Italia ha giurisdizione poiché i colpi, a supporre che fossero andati a segno, sono partiti da nave battente bandiera italiana. Si tratta di un concorso di giurisdizione. Quale deve prevalere? Secondo l’art. 97 della Convenzione del diritto del mare del 1982, deve prevalere la giurisdizione dello stato della bandiera, nel nostro caso quella italiana, che disciplina i casi di collisione e «di ogni altro incidente della navigazione». Il caso della Enrica Lexie non è un caso di collisione e difficilmente la sparatoria può essere qualificata «ogni

altro incidente della navigazione», poiché questa dizione comprende solo casi vicini alla collisione come il danneggiamento di cavi o di altre strutture permanenti. Irrilevante è pure l’art. 94 Unclos, che assoggetta alla giurisdizione e al controllo dello stato della bandiera le navi in alto mare, poiché esso riguarda piuttosto le bandiere ombra e il dovere di esercitare la giurisdizione e i controlli di sicurezza. Un’altra possibile interpretazione, a nostro parere più fondata, a favore dell’esclusiva giurisdizione italiana per i fatti avvenuti in alto mare, potrebbe derivare dall’art. 92 della Convenzione e dal principio dell’esclusiva giurisdizione dello stato della bandiera in alto mare, tranne i casi «espressamente» previsti dai trattati o dalla Convenzione del diritto del mare. Tra questi non rientrano i tiri avvenuti in acque internazionali per contrasto alla pirateria.

Assicurazioni contro il rischio e pagamento del riscatto Contro il rischio pirateria gli operatori marittimi stipulano di regola un’assicurazione. Il nostro Codice della navigazione prevede, tra gli altri, il rischio pirateria, che non può essere coperto da altri incidenti della navigazione, come ad esempio il rischio guerra o quello derivante da fenomeni insurrezionali. Nessuno ha mai nesso in dubbio la legittimità della stipula di una polizza del genere, che dovrebbe coprire il fermo o la perdita della nave, quella del carico e gli incidenti nei confronti del personale di bordo. Ormai i pirati conoscono le rotte delle navi, facilmente accertabili con i moderni strumenti elettronici. Il loro scopo precipuo è la cattura della nave e la presa in ostaggio dell’equipaggio al fine di chiedere un riscatto. Si instaura un circolo vizioso che alimenta il fenomeno pirateria. Il riscatto pagato serve ad acquistare armi ed imbarcazioni per le imprese piratesche ed a sovvenzionare nuove spedizioni ed a pagare il soldo dei pirati. Tranne i casi in cui il danaro venga paracadutato da un elicottero (è realmente accaduto!), vengono adottati sistemi più sofisticati con l’aiuto della criminalità finanziaria, che 27


Risk provvede al lavaggio del danaro. Contro il rischio pirateria gli armatori si assicurano presso compagnie britanniche, che provvedono anche al pagamento del riscatto, ma pretendono che la nave adotti le precauzioni suggerite dall’Imo (ad es. l’installazione di un castelletto – citadel – impenetrabile). È tale prassi legittima? Una Corte britannica ha ammesso nel 2010 la liceità del pagamento del riscatto da parte dei broker del Regno Unito. Per quanto riguarda gli armatori italiani che assicurano il rischio pirateria con i broker britannici potrebbe venire in considerazione la L. 82/1991, che dispone la nullità dei negozi giuridici volti al pagamento del riscatto nei sequestri di persona e il blocco dei beni che potrebbero servire per il pagamento. Ma secondo un’opinione tale legge non è applicabile alla pirateria e non ha una valenza extraterritoriale. La questione ha trovato una sensibilità negli Stati Uniti. Ma occorrerebbe una risoluzione del Cds che chiaramente proibisse il pagamento dei riscatti. Tale risoluzione è per il momento avversata non solo da coloro che “lucrano” sul rischio pirateria, ma anche da quanti che, per ragioni umanitarie, temono l’uccisione degli ostaggi in mano ai pirati, qualora non si acceda alle loro richieste.

Conclusioni La pirateria è una forma di crimine organizzato, che deve essere adeguatamente combattuta. Le sole norme della Unclos non sono sufficienti. Occorre integrare le norme esistenti, con un’adeguata rete di convenzioni internazionali, aventi ad oggetto la cattura dei pirati, il mantenimento della legge e l’ordine sui mari, il processo dei pirati, il divieto di pagamento di riscatti e la lotta contro il lavaggio del danaro derivanti dalle attività criminali. Premesso che è bene non modificare la normativa in vigore secondo cui solo le navi da guerra possono dare la caccia ai pirati e che le missioni antipirateria devono continuare, è opportuno ancorare su basi normative il diritto di legittima difesa a bordo dei mercantili, operato sia da nuclei militari sia da contractor. A tal fine è bene pensare fin d’ora ad una convenzione interna28

zionale ad hoc, che regolamenti l’imbarco di personale armato a bordo, il trasporto e l’uso delle armi e la sosta in porto. Poiché una convenzione internazionale richiede tempi lunghi per la conclusione e l’entrata in vigore, che non coincidono con l’urgenza della situazione, si potrebbe pensare ad una risoluzione “legislativa” del Cds, sul modello di quelle adottate contro il terrorismo internazionale, come la risoluzione 1540 (2004). Gli stati dovrebbero adottare la legislazione necessaria per eseguire la risoluzione, la cui emanazione sarebbe facilitata dalla qualificazione della pirateria, almeno in certe aree, come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Naturalmente l’Imo potrebbe svolgere un

Per difendersi, gli operatori marittimi stipulano di regola un’assicurazione. Il nostro Codice della navigazione prevede, tra gli altri, il rischio pirateria, che non può essere coperto da altri incidenti della navigazione, come ad esempio il rischio guerra o quello derivante da fenomeni insurrezionali ruolo fondamentale, mediante il potenziamento delle iniziative già prese. Nuove iniziative potrebbero consistere nella convocazione di una conferenza internazionale, sul modello di quella sul terrorismo marittimo svoltasi a Roma nel 1988, per adottare una convenzione antipirateria. Sul versante italiano occorre migliorare la L. 130/2011 allo scopo di evitare che si ripetano incidenti tipo Enrica Lexie. Qualora una nave commerciale imbarchi un team militare, la decisione finale sulla navigazione e la rotta da seguire deve essere di competenza del ministero della Difesa e non dell’armatore.


dossier MAPPA RAGIONATA DEI COVI DELLA PIRATERIA MODERNA

LE TORTUGHE DEL XXI SECOLO DI

È

PIERRE CHIARTANO

strano parlare di pirateria nel Terzo millennio, ma è così, dal Golfo di Aden allo Stretto di Malacca, senza dimenticare l’ultimo arrivato, il Golfo di Guinea, sventola la bandiera nera dei nuovi filibustieri. Bande criminali che hanno capito come sfruttare l’importanza strategica degli approvvigionamenti via mare per il mondo sviluppato. È anche uno dei sottoprodotti dei

cosiddetti failed state, paesi non più in grado di controllare il proprio territorio e le acque prospicienti le coste, anche se in alcune aree è un fenomeno da considerare endemico. È anche il prodotto di un’economia della sopravvivenza ormai fuoriuscita dal contesto dei paesi civili, con le sue basi costiere che sono di fatto le nuove Tortughe. Sono così tornati i pirati, senza benda sull’occhio e senza il Jolly Roger (la tradizionale bandiera nera) che sventola sul pennone, teschio e tibie incrociate inclusi. Usano Ak 47, Rpg, telefoni satellitari e una serie di basi sicure e navi appoggio, dohw e sambuchi, che hanno trasformato il cosiddetto Mare Arabico nei nuovi Caraibi. Ora si scruta l’orizzonte non più alla ricerca delle sagome delle veloci fuste e galeotte «turchesche», ma si sta attenti a pescherecci e fuoribordo che potrebbe celare brutte sorprese. I comandanti di petroliere, porta-container e cargo devono mettere mano a binocoli e i team di scorta il dito sul grilletto a partire dall’ultimo tratto di Mar Rosso. All’altezza delle coste dello Yemen comincia il «pericolo abbordaggi», che prosegue in corrispondenza dell’intero braccio di mare yemenita e poi ancora a largo dell’Oman. Una pirateria di cabotaggio non meno pericolosa di quella che infesta le acque al largo, fino quasi a lambire le acque territoriali dell’India occidentale. A sud in direzione della Somalia, l’area di pericolo si espan-

de, come una chiazza oleosa in balia delle correnti, e lascia intuire quanto sia complesso e vasto il lavoro delle unità militari antipirateria che da anni cercano di contrastare l’attività di questa moderna filibusta. Guardando la mappa degli attacchi al naviglio commerciale a tutto il 2011 ci si rende conto del danno economico che stanno provocando e degli interessi che si muovono dietro a queste ciurme criminali in fuoribordo. Quanto ci costa tutto questo? Circa 12 miliardi di dollari all’anno, contando perdite economiche, riscatti e costo del pattugliamento navale. Anche a largo di Kenya e Tanzania gli attacchi sono numerosi. E in quel tratto molto vasto che arriva fino a lambire le isole Maldive e le coste settentrionali del Madagascar, nessun naviglio può dirsi al sicuro. Nel 2011 l’attività di Eunavfor con la missione Atalanta, e della Nato con Allied Protector (2009) prima e Ocean Shield poi, oltre quelle indipendenti di altri paesi come la Cina, la Combined Task Force 151 a guida Usa hanno ottenuto dei buoni risultati. Incrociano in quei mari unità militari americane, europee, russe, malesi, iraniane, indiane, turche, cinesi e giapponesi. Inoltre il porto di Gwadar si appresta a diventare un fondamentale punto di transito per le importazioni di petrolio cinesi dall’area del Golfo, evitando così il transito attraverso lo Stretto di Malacca, alquanto esposto ai rischi della pirateria e 29


Risk dei blocchi marittimi. Dopo che nel 2009 un cargo cinese il De Xing Hai venne sequestrato dai pirati somali, la marina militare di Pechino ha giustificato la presenza di unità navali in quelle acque. E gli interessi cinesi in Somalia non si limitano alla sicurezza marittima. In quel paese gli interessi della China national offshore oil corporation (Cnooc) sono anche nella zona di Mudug e nella provincia del Puntland, dove le riserve di oro nero sono stimate complessivamente in 10 miliardi di barili. Comunque negli ultimi mesi qualche miglioramento si sarebbe registrato nella lotta contro la pirateria. Se si confrontano le mappe satellitari degli attacchi, tra il primo e il secondo semestre dell’anno, si può notare una netta diminuzione dell’attività criminale. Successi che dipendono principalmente dalla doppia azione del pattugliamento marittimo e dei team di protezione a bordo delle navi. Presenza di militari e contractor tra l’altro sollecitata dai Lloyds di Londra per concedere forti sconti sulle polizze assicurative di navi e carico. Anche se, come l’Italia ha potuto sperimentare nel caso dei due marò arrestati in India, non sempre le cose vanno per il verso giusto.

cad, poi uscendo dal Puntland troviamo Harardere (nella cui rada è stata a lungo alla fonda la nave italiana Savina Caylin), Hobyo (Obbia quando la Somalia era una colonia italiana) e Merca. E proprio tra Harardhere, Eyl, Garacad sono ubicate le basi con motoscafi e navi madri dei pirati. Ma si trovano alla fonda anche le navi catturate e gli equipaggi sequestrati, mentre il moltiplicarsi delle incursioni al largo delle coste somale meridionali alimenta il sospetto che alcune bande di pirati operino dall’area di Chisimaio, nel territorio controllato dalle milizie islamiste Shabab, già nel mirino di Washington per i legami con al-Qaeda. Diverso è il discorso dei villaggi costieri che non hanno poi guadagnato tanto dall’ospitalità offerta ai responsabili attività predatoria; con loro le lusinghe delle agenzie internazionali potrebbero funzionare. E sono in molti ormai ad essere convinti che, nel caso somalo, la soluzione alla pirateria sia da cercare a terra e non per mare. Le Risoluzioni Onu che permettono di colpire i pirati sono ben tre: la prima ha autorizzato la costituzione di una forza internazionale (Risoluzione 1816), la seconda a colpire i pirati nelle acque territoriali somale (1838) e infine la terza consente anche raid nelLe acque pericolose del mare arabico lo spazio aereo e sulle coste (1851). Sul piano miliPer tracciare una mappa delle nuove Tortughe serve tare la distruzione delle basi dei pirati richiederebbe capire quali economie l’attività dei pirati va ad alimentare. Partendo dalla Somalia è abbastanza semplice constatare, attraverso numerosi rapporti di agenzie internazionali e d’intelligence, come le province di Bosaso (porto settentrionale che affaccia sul Golfo di Aden) e Garowe (città dell’entroterra) siano il centro di molti di questi traffici e abbiano un forte ritorno economico dalla pirateria, per cui non c’è da aspettarsi che i signori del Puntland facciano nulla per contrastarla. Anzi sembra che ci sia una regia politica che spinge a reinvestire parte dei profitti sul territorio – specie nell’entroterra somalo. Una maniera per creare quel consenso popolare necessario affinché l’attività possa continuare indisturbata. In quella regione i porti possibili e probabili basi della filibusta sono da nord a sud: Bander Beyla, Eyl, Gara-

All’altezza delle coste dello Yemen comincia il «pericolo abbordaggi», che prosegue in corrispondenza dell’intero braccio di mare yemenita e poi ancora a largo dell’Oman. Una pirateria di cabotaggio non meno pericolosa di quella che infesta le acque al largo, fino quasi a lambire le acque territoriali dell’India occidentale

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2011

pochi blitz impiegando forze speciali per liberare gli equipaggi in ostaggio, fanteria di marina elitrasportata per circondare dal mare e da terra le “tortughe”, navi da guerra e aerei per bombardare le postazioni costiere e affondare le imbarcazioni dei bucanieri. Incursioni che potrebbero essere assegnate alla flotta internazionale ma anche alla Task Force dei Marines e alla 13° Demi Brigade Legere francese schierati a Gibuti. Raid che comporterebbero però il forte rischio di provocare vittime tra gli ostaggi e tra i civili somali. L’aumento dell’attività delle trenta nazioni coinvolte, a vario titolo, nella guerra alla pirateria ha provocato una mutazione nelle tattiche d’arrembaggio. Sono diminuiti gli attacchi in maniera sensibile alla fine del 2011. Ora i pirati scelgono i bersagli più fragili, i meno preparati e cercano di massimizzare la rendita per ogni unità navale catturata. Lo Yemen è per così dire la Mecca dei pirati, vista la vicinanza con la parte obbligata della navigazione tra Mar Rosso e Mare Arabico, lo sbocco nel Golfo di Aden, diventata una delle zone più perico-

2012 (dati al 19 marzo)

Totale atti di pirateria a livello mondiale: 439 di questi il 56% sono falliti

Totale Attacchi: 87 Dirottamenti: 9

In Somalia Totale attacchi: 275

In Somalia Navi in mano ai pirati: 13 Ostaggi: 197

lose per la navigazione commerciale. Nonostante ci sia Gibuti a un tiro di schioppo con le sue basi di forze speciali occidentali. Spesso i pirati rubano i sambuchi ai pescatori yemeniti per utilizzarli nell’attività di filibusta. Il governo di Sanah in mezzo a una guerra civile che dilania il paese da nord a sud, è abbastanza celere a mandare i propri Mig 21 a bombardare le basi dei pirati yemeniti. Più veloce sicuramente della non corta catena di comando delle missioni occidentali, che hanno necessariamente bisogno del via libera politico, prima di muoversi. Anche il leggendario Team Six dei Navy Seals americani – quello che ha eliminato Osama bin Laden – di stanza a Gibuti è impegnato in questa guerra nelle Tortughe arabiche. L’estate scorsa era stato scoperto come l’isola di Socotra fosse diventata per mesi una comoda base per il rifornimento di carburante delle imbarcazioni catturate – spesso grossi pescherecci – e poi trasformate in navi-madre per i barchini d’abbordaggio. L’isola si trova infatti in un punto strategico tra il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano occidentale, pro31


Risk prio al largo della punta estrema del Corno d’Africa. In realtà Socotra è la maggiore di quattro isole che formano il piccolo arcipelago, conosciuto come base di pirati fin dalla notte dei tempi e citato sia da Marco Polo che da Ibn Battuta. È dunque probabile che la lunga costa yemenita che forma il tetto del Golfo di Aden venga usata per rifornire la flottiglia pirata, ma secondo gli esperti non ci sono ancora prove che esistano basi fisse come quella di Socotra che si trova più vicina alle coste somale di quelle dello Yemen di cui fa parte (è a 380 chilometri dalla madrepatria). L’isola è una perla del Mare arabico, dalle spiagge bianche all’acqua cristallina e ha una flora unica, tanto che l’Unesco nel 2008 l’ha inserita nell’elenco del World heritage. Il porto di Gibuti invece è diventato un crocevia di militari in divisa e in borghese. Di lì passano la maggior parte dei contractor per l’imbarco. Non si devono pagare tasse sui team armati a bordo dei mercantili, ma vanno pagate se questi transitano per l’aeroporto e poi si imbarcano o viceversa. Si intuisce facilmente quale sia il business per società di navigazione e autorità di Gibuti. Ricordiamo che tra i vascelli ancora in ostaggio ci sono la «Olip G», bandiera di Malta, l’armatore greco che è fallito ha abbandonato da oltre un anno i 18 marittimi. «Fairchem Bogey», bandiera Isole Marshall, catturata nell’agosto 2011 con 21 marittimi, nave cisterna liberata per 8 milioni di dollari. In attesa di riscatto c’è una flotta. La «En-

Un buon esempio di una nuova Tortuga asiatica è l’isola di Batam. Inizialmente era stata la risposta indonesiana a Singapore. Però con altre caratteristiche. Era diventato un porto libero, senza legge, ricco di bordelli, droga e ogni genere di merce di contrabbando 32

rico Ievoli», italiana, con 18 ostaggi, è stata per fortuna liberata a fine aprile. Ma ci sono ancora la «Albedo», Malaysia, 23 ostaggi; la «Orna», Panama, 19 marittimi. Tutte ormeggiate nello stesso «campo dei pirati» della nostra Caylin. La «Iceberg 1», panamense, 24 ostaggi; la «Velvet Liquid», Isole Marshall, 24 marittimi. In totale sono circa 182 i marittimi nelle mani dei pirati, compresi un centinaio di uomini, per lo più pescatori locali, che erano a bordo dei pescherecci catturati per essere poi utilizzati come navi-madri.

I mari d’Oriente Lo Stretto di Malacca è il sottile braccio di mare che separa la Penisola malese dall’isola indonesiana di Sumatra. Sono acque infestate dai pirati fin dal XIV secolo quando il sultanato locale cercava la loro alleanza. Poi con l’avvento dell’era coloniale e del fiorente commercio delle spezie, i pirati a bordo dei sanpang, ben descritti anche nelle pagine di Emilio Salgari, ripresero il sopravvento e quelle acque diventarono assai pericolose. Abbordaggi e tempeste hanno reso lo Stretto e il Mar Cinese Meridionale un cimitero di navi. Si calcola che negli ultimi 25 anni nelle sole acque del sud est asiatico siano state abbordate circa 17mila navi, con una lunga scia di sangue. Dal capitano della Nagasaki Spirit morto nel rogo della sua petroliera fatta schiantare sugli scogli dai pirati di Sumatra, ai 23 uomini d’equipaggio della Cheung Song i cui cadaveri riemersero impigliati nelle reti dei pescatori – tanto per fare due esempi – sono parte di una sterminata lista di efferati episodi che mettono i moderni filibustieri sullo stesso piano di quelli del passato, in quanto a ferocia e violenza. E se la presenza di uomini armati a bordo dei mercantili è una novità – almeno in epoca contemporanea – a largo del Corno d’Africa, nel mare indonesiano era una pratica corrente già negli anni Ottanta. Quelle 550 miglia di passaggio obbligato tra Malesia e Indonesia, come via più breve tra India e Cina, da secoli ha solleticato gli appetiti di chi voleva depredare i mer-


cantili carichi di spezie, gomma e altre materie prime. La lunga costellazione di piccole isole, spesso semplici strisce di terreno appena emerso, sono il luogo ideale come base dei pirati. Nel XIX secolo erano famosi perché con le loro ruberie di oro e oppio, erano l’inconfessato sostegno economico di molti sultanati. Ed erano ben conosciuti per la loro ferocia, famigerato l’episodio che coinvolse un vascello di Sua Maestà britannica, al comando del capitano James Ross, che dopo aver visto il proprio figlio precipitare in fondo al mare legato a un ancora, aveva subito l’amputazione delle dita di una mano, una alla volta. Un episodio che aveva fatto scalpore nell’Inghilterra vittoriana del tempo. Le potenze coloniali avevano preso possesso di quelle coste, ma non erano mai riuscite veramente a sradicare il fenomeno. Arrivando ai giorni nostri basta guardare i numeri forniti dai Lloyd di Londra per capire quanto appetibile sia il bottino in navigazione in quelle acque: circa 70mila navi solcano ogni anno lo Stretto, trasportando circa un terzo della greggio prodotto nel mondo e un quinto di tutto il commercio marittimo. Numeri da capogiro, anche quelli delle polizze assicurative che hanno subito aumenti e che hanno spinto molti optare per l’imbarco di contractor armati con funzioni antipirateria, per avere sconti sulle polizze. Dal 2002 secondo i dati dell’Imb sono svariati centinaia gli episodi di pirateria avvenuti nelle acque pericolose dello Stretto e non solo perché l’area a rischio si estende anche a nord verso le Filippine e il Mar cinese meridionale. Un buon esempio di una nuova Tortuga asiatica è l’isola di Batam. Inizialmente era stata la risposta indonesiana a Singapore. Però con altre caratteristiche. Era diventato un porto libero, senza legge, ricco di bordelli, droga e ogni genere di merce di contrabbando. E dove capitali di dubbia provenienza e una rete di casinò formavano la base per attività illecite di ogni risma. Dopo la prima grande crisi del 1997 queste caratteristiche furono accentuate dalla disperazione. Batam divenne la base per ogni tipo di attività crimi-



dossier

L’aumento dell’attività delle trenta nazioni coinvolte, a vario titolo, nella guerra alla pirateria ha provocato una mutazione nelle tattiche d’arrembaggio. Sono diminuiti gli attacchi in maniera sensibile alla fine del 2011. Ora i pirati scelgono i bersagli più fragili, i meno preparati e cercano di massimizzare la rendita per ogni unità navale catturata nale, pirateria compresa. Un pirata famigerato negli anni Ottanta era il cosiddetto capitano Emilio Chengco. Si racconta che amasse portare i propri clienti nel roof garden dell’Hilton di Manila, proprio di fronte alla baia, e facesse scegliere all’ospite la “merce” alla fonda in rada. Un personaggio degno della penna di un moderno Joseph Conrad, che quei mari e quelle atmosfere di umanità perduta li ha ben raccontati nei suoi libri.

L’Africa occidentale Come area a rischio arrembaggi, il Golfo di Guinea nell’Africa occidentale è l’ultimo arrivato nella hit parade dei bucanieri. Ma non sembra voglia farsi mancare dei riconoscimenti ufficiali. Il 2011 infatti è stato l’anno del salto di qualità con l’iscrizione di quell’area nel libro nero delle Nazioni Unite e ben 64 attacchi registrati dall’International maritime bureau. In pratica lo scorso autunno con la Risoluzione 2018 del Consiglio di sicurezza Onu che incoraggia le Comunità Economiche del West Africa (Ecowas), dell’Africa Centrale (Eccas) e la Commissione del Golfo di Guinea (Ggc) a sviluppare una strategia contro la pirateria marittima, ha accolto con favore l’intenzione degli Stati della regione

di convocare un vertice in materia. Le solite verbosità, dietro cui però si cela la presa d’atto di un fenomeno che tocca direttamente gli interessi italiani, visto che in zona ci sono le piattaforme petrolifere dell’Eni già vittime di attacchi assieme a due mercantili nazionali. Lo scorso anno una nave italiana che trasportava gasolio era stata sequestrata, pur se per brevissimo tempo, dai pirati durante la notte fra il 23 e il 24 luglio al largo delle coste della Nigeria. Washington e Parigi si sono mosse da tempo attivando forme di cooperazione navale con Nigeria, Benin e Ghana. È proprio il Benin tra i più colpiti dall’attività dei nuovi pirati. Secondo le autorità di quello stato, il traffico dal porto di Cotonou sarebbe diminuito del 70 per cento. L’attività criminale si estende per circa 150 miglia a largo della coste di Nigeria e Benin e comprende anche il traffico di droga e armi. Anche al largo della foce Bonny river in Nigeria le acque sono diventate da qualche anno molto pericolose. Proprio il 12 aprile scorso un tanker russo della Sovcomflot è stato attaccato, quando era all’ancora nel porto di Lome nel Togo, allargando l’area a rischio. L’equipaggio si è trincerato nella citadel, una sorta di camera blindata della nave, e ha aspettato l’arrivo della Guardia costiera. Da non dimenticare anche le coste a largo del Venezuela e alcune aree caraibiche, dove il fenomeno anche se sporadico è presente. Per costringere i governi interessati dal fenomeno ad attuare interventi efficaci servirebbe un boicottaggio internazionale. Tutte le società di navigazione dovrebbero minacciare la sospensione del servizio. Purtroppo è un’ipotesi irrealistica, perché ci sarà sempre qualcuno disposto a prendersi più rischi degli altri. E i pirati sanno bene che possono contare su molte connivenze a livello locale che farebbero impallidire i sensi di colpa di «Tuan Jim» per aver abbandonato il Patna nel viaggio verso la Mecca. Ma citazioni conradiane a parte, rimane il fatto che finché non si deciderà di colpire le basi a terra della pirateria, il costo di questa “guerra” rimarrà irrimediabilmente alto. 35


Risk INVENTARIO DELLE STRATEGIE DEL PASSATO

LA STORIA CI INSEGNA COME AFFRONTARLI DI •

«

P

VIRGILIO ILARI

irata» titilla subconscie corde anarchiche: la Tortuga dell’infanzia, il Puerto Escondido degli ex-sessantottini, le Maldive dei cafoni, le Antille degli evasori. Teschi e tibie, bende nere, gambe di legno, pennacchi, uncini e coltellacci d’abbordaggio sogghignano dalle insegne balneari sulle spiagge settentrionali del Mediterraneo, punteggiate dai

ruderi delle tremila torri d’avvistamento costruite fra il XII e il XVI secolo. Ancora due secoli fa erano presidiate, ma oggi siamo immemori dei «Turchi alla marina». I pirati per antonomasia sono quelli dell’altro Mediterraneo, i Caraibi: simpatici agli anglosassoni, e tramite Hollywood a tutti, perché si cuccano i galeoni, si fanno di Pampero e iniziano alla vita libera le figlie ribelli dei governatori spagnoli (ovviamente malvagi e impotenti come nazisti e musi gialli). L’edizione inglese di Wikipedia ha censito almeno 80 libri dedicati ai pirati dal 1719, un decimo dei quali di Emilio Salgari, senza contare la storia dei bucanieri di Alexandre Exquemelin (De Americaensche Zee-Roovers, 1678) e il sottogenere piratesco delle dime novels americane (otto romanzi a sensazione solo dal 1864 al 1869). E ancora 150 film dal 1908 (inclusi 5 Peter Pan, 14 Treasury Island e un Treasury Planet), 10 fumetti e manga, 22 videogame, 22 opere o gruppi musicali, 25 squadre sportive, 6 musei e una mostra itinerante solo in Nordamerica e senza contare The Crimson Permanent Assurance (1983) dei Monty Pythons, i pirati della Playmobil e lo sbarco di pirati che dal 1916 caratterizza il Gasparilla Festival di Tampa (Florida), nato per celebrare la filantropia americana dopo la liberazione di Panama dalla tirannia colombiana (1903). Come spiega Wikipedia alle dottissime voci «Piracy in the Atlantic world», «Pirates in popu36

lar culture» e «Golden age of piracy», il successo mediatico della pirateria caraibica riflette ancora l’esordio marittimo e coloniale dell’Inghilterra elisabettiana e i canoni narrativi erano già codificati nella General History of the Pyrates, pubblicata sotto pseudonimo a Londra nel 1724 e attribuita a Daniel Defoe (1659-1731) o, più probabilmente, a Nathaniel Mist (m. 1737). E già allora il segreto dell’archetipo stava nel suo calco femminile, come si vede dal frontespizio della prima edizione che metteva in risalto le fittizie biografie delle due amanti di Calico Jack Rackham, le piratesse Anne Bonny e Mary Read catturate nel 1721 e graziate perché incinte (Mary fu interpretata sullo schermo da una Lisa Gastoni bionda, e perciò surclassata come bad girl della castana Gianna Maria Canale, entrambe protagoniste di due concorrenti film italiani del 1961). In realtà la storia annovera parecchie regine di pirati assai più documentate di quelle dubbie precorritrici di Thelma & Louise, eppure trascurate dal canone letterario occidentale, come la celtica Teuta (230 a.C.), l’irlandese Grace O’Malley (1530-1603), la cantonese Ching Shi (1785-1844). E senza contare, ovviamente, la più grande e fortunata, cui Susan Ronald ha dedicato un ottimo saggio (The Pirate Queen. Elizabeth I, her pirate adventurers, and the dawn of the Empire, Harper Perennial, 2008). Del resto en.wikipedia ha censito


dossier 41 «women in piracy» storiche dal 600 a. C. al XX secolo contro appena 24 di carta o di celluloide su un totale di 186 «fictional pirates» (di cui 21 «space pirates»): e manca dalla lista la più sexy di tutte, l’indimenticabile Jolanda de Almaviva di Milo Manara (1971), derivata dalla salgariana figlia del corsaro nero (1905). Figlio io invece di magistrato, piccolo borghese, statolatra, legalitario, militarista, visceralmente illiberale e soprattutto bastian contrario, da ragazzino aborrivo sia le compiacenze radicaloidi verso la pirateria caraibica sia l’apologia triplicista di quella malese, tenendo nel massimo disprezzo il proto-castrista Yanez de Gomera, traditore della civiltà europea e dell’ordine costituito, per me rappresentato da sir James Brooke (1803-1868), il primo rajah bianco di Sarawak che ispirò a Joseph Conrad il personaggio di Lord Jim (1899). Fedele a me stesso, da vecchio mi sono poi deliziato, proprio sulle pagine di Risk, di spezzare una lancia a pro dei corsari barbareschi e infierire sui patetici fiaschi degli Stati Uniti nelle prime guerre da loro combattute dopo la Revolution, ossia quelle contro i «barbary pirates». Guerre che Us Navy e Marines, a rimorchio di Hollywood, spacciano spudoratamente per vittorie quando invece si fecero fregare una fregata e per riprendersela dovettero ingaggiare cento picciotti siciliani che sapevano come trattare i dirimpettai (una faccia una razza).

Il successo mediatico della pirateria caraibica riflette ancora l’esordio marittimo e coloniale dell’Inghilterra elisabettiana e i canoni narrativi erano già codificati nella “General History of the Pyrates”, pubblicata sotto pseudonimo a Londra nel 1724 e attribuita a Daniel Defoe o, più probabilmente, a Nathaniel Mist

Questo epiteto di pirata appioppato ai corsari nordafricani manifesta lo strabismo e il relativismo morale della vulgata occidentale che eroicizza, specchiandovi sé stessa, la schiuma dei Caraibi. Il primo sovrano a riconoscere l’indipendenza delle Tredici Colonie fu il callido sultano del Marocco. Il suo tornaconto stava nel fatto che, non essendo più coperti dalla bandiera britannica (garantita dal trattato angloturco del 1728), i succulenti mercantili americani diventavano prede del tutto legittime, ricadendo sotto lo stato generale e permanente di guerra agli infedeli proclamato dalle quattro reggenze barbaresche (Salé, Algeri, Tunisi e Tripoli) nominalmente soggette al Sultano ma di fatto indipendenti. In base al diritto internazionale europeo, i capitani (rais) barbareschi non erano infatti pirati, ma corsari. Già nel Mediterraneo antico era ben chiara la distinzione tra pirati e corsari, cioè tra la rapina illegale e quella autorizzata da un sovrano contro i suoi nemici. Nell’Occidente moderno le regole di legalizzazione della rapina marittima risalgono al medioevo e, per l’Inghilterra, al Liber niger Admiralitatis di Riccardo Cuor di Leone. Sebbene vietata fra i contraenti della pace di Westfalia, la guerra corsara caratterizzò le guerre europee del 16881748, costate oltre 10mila mercantili alla sola Inghilterra. Durante la guerra d’indipendenza gli americani armarono 1.700 legni corsari con 55mila marinai e predarono 2.283 mercantili inglesi, ma a loro volta ne persero 2.500 fra il 1783 e il 1812, alcuni dei quali predati dai corsari siciliani e napoletani. I record del Seicento e Settecento furono largamente superati durante le guerre napoleoniche (famosissimo tra i corsari francesi il ligure Capitan Bavastro, amico del maresciallo Masséna). Nel diritto inglese l’istituito è detto «privateering» e in olandese «vrijbuiterij» (libero bottino, filibustiere), perché appunto i corsari erano imprese commerciali private autorizzate ad «armare in corso» contro il commercio marittimo dei paesi in guerra con il sovrano che rilasciava la «patente di corsa» o «lettera di rappresaglia» e i contrassegni («lettere di marca») di salvacondotto ai mercantili neutrali. Il sovrano si riservava la giurisdizione sulle con37


Risk troversie (tribunali dell’ammiragliato o delle prede), una quota dei profitti e magari l’affitto dei cannoni. I rais, molti dei quali erano europei rinnegati (cioè convertiti all’islam) e le cui spedizioni in corso erano finanziate da banchieri cristiani ed ebrei (la tolleranza religiosa era ottomana, non europea, come scriveva Jean Bodin), aggiungevano a ciò il sequestro di persona a scopo di riscatto (con riduzione in schiavitù a cui ci si poteva sottrarre convertendosi alla vera fede e rinunciando a rivedere un giorno la patria, perché l’apostasia era punita con la morte). L’altra caratteristica delle reggenze barbaresche era di utilizzare la minaccia dei corsari e la rivalità commerciale tra le potenze marittime cristiane per estorcere colossali tangenti (agli Stati Uniti costarono, nel solo anno 1800, un quinto delle rendite federali). Estenuanti negoziati bilaterali tra ciascuna reggenza e ciascuna potenza cristiana, spesso accompagnati da costosi blocchi e bombardamenti che le capitali nordafricane incassavano senza grossi traumi, regolavano a costi apocalittici lo scambio e il riscatto degli schiavi e l’ammontare dei tributi annuali in armi e denaro pagati per ottenere il temporaneo rispetto della propria bandiera.

Il sistema rimase in piedi per secoli finché servì agli equilibri strategici e commerciali del Mediterraneo e dell’Europa. I cavalieri di Malta e gli Ordini dei Trinitari e dei Lazzaristi (fondato da San Vincenzo de Paoli) prosperavano su rappresaglie e riscatti: ma soprattutto la cooperazione strategica e i trattati commerciali col Sultano consentivano alle grandi potenze marittime (Francia, Inghilterra e Olanda) non solo di ottenere il rispetto delle loro bandiere da parte delle reggenze, ma di sfruttare i corsari nordafricani per colpire il commercio mediterraneo della Spagna e delle potenze minori. Era stata anzi la Francia, nel quadro di una formale alleanza contro Carlo V, ad aiutare i turchi a prendere Tunisi (1535) e Tripoli (1551), gli ultimi due bastioni cristiani rimasti sulla sponda meridionale del Mediterraneo dopo la caduta di Rodi (1522) e Algeri (1525), e ad appoggiare le razzie compiute nel 1543-44 dal famoso ammi38

raglio Hayreddin Barbarossa sulle coste italiane e provenzali. Benché Lutero avesse perorato nel 1528 la guerra contro i Turchi che premevano su Vienna, l’analogia iconoclasta con l’islam fu invocata dai teologi riformati: durante l’assedio di Malta (1565) i ribelli olandesi tifarono per i Turchi, Carlo IX non intervenne a Lepanto e nel 1574 progettò con Guglielmo d’Orange di sbarcare in Spagna turchi e ugonotti per sollevare i moriscos. Al 1585 risalgono l’alleanza anglo-marocchina e la Barbary Company. Le reggenze, più cosmopolite che islamiche, davano pure modo ai corsari di proseguire la loro attività, come pirati, anche durante i periodi di pace tra le grandi potenze. Dopo la pace anglo-spagnola del 1603 i sea dog inglesi si aggiunsero ai sea beggars (gueux de mer) olandesi, alcuni dei quali rinnegati, che utilizzavano Salé e le altre basi barbaresche per predare le navi cattoliche. Nel 1607 la Francia denunciò l’alleanza «turco-calvinista». Giacomo I incassò nel 1610, in cambio dell’amnistia, una buona quota dei profitti realizzati dai sea dog. Naturalmente nei rapporti delle grandi potenze con le reggenze nordafricane vi furono alti e bassi: Algeri fu bombardata nel 1621 dall’Inghilterra e nel 1683 dal Re Sole (il quale tentò tuttavia di dissuadere il re di Polonia Jan III Sobieski dal soccorrere Vienna). Naturalmente il profitto delle imprese barbaresche era tutt’altro che costante: proprio la loro insidia favoriva lo spostamento del traffico maggiore dalle rotte mediterranee alle atlantiche, ma queste divenivano a loro volta insicure durante le guerre commerciali tra le grandi potenze; le crociere atlantiche delle flotte regolari e dei corsari europei riportavano infatti in auge il traffico mediterraneo e dunque le opportunità dei corsari barbareschi. Il blocco continentale proclamato da Napoleone nella patetica illusione di proteggersi dal contrabbando inglese fu, tra l’altro, il canto del cigno dei corsari. Quando il Mediterraneo divenne un lago inglese non ci fu più spazio per loro. Algeri, che aveva ben incassato i due bombardamenti spagnoli del 1783 e 1784, crollò sotto quello anglo-olandese del 1816, e nel 1830 fu occupata dai francesi.


Quanto ai corsari europei e americani, dopo il 1815 una parte si riciclò nelle guerre d’indipendenza dell’America spagnola, altri nel traffico transatlantico di schiavi (dichiarato illegale dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti nel 1807) e alcuni continuarono i sequestri sotto bandiera pirata. Toccò allora ai nipotini di sir Francis Drake (1540-1596), sir Henry Morgan (1635-88) e John Paul Jones (1747-1792) rispolverare la lex Gabinia de uno imperatore o de piratis persequendis, il plebiscito, eversivo delle prerogative senatorie, ma votato pure da Cicerone, che nel 67 a. C. concesse a Gneo Pompeo Magno il comando supremo triennale per distruggere i pirati cilici i quali, nel quadro della terza guerra mitridatica, infestavano con mille navi tutte le coste del Mediterraneo da Cadice al Mar Nero e avevano saccheggiato o occupato almeno 400 città.

L’accorto Pompeo li liquidò in due mesi con una schiacciante vittoria navale seguita da amnistia e legalizzazione degli insediamenti stabiliti dai pirati, aiutandoli in pratica a trasformarsi in onesti commercianti: un buon suggerimento per venire a capo della pirateria moderna, se non ci fossimo genialmente legati le mani con tutta la baracca dei tribunali e delle flotte internazionali. Dal 1817 al 1825 il West Indies Squadron dell’Us Navy (14 unità) eliminò i pirati dei Caraibi, l’ultimo dei quali, Roberto Cofresì (1791-1825) era nato a Puerto Rico da padre triestino. Nel 1819 la Royal Navy pose fine ai residui dell’antica marineria araba trasformando la cosiddetta «costa dei Pirati» (ossia la costa meridionale del Golfo Persico) nei cosiddetti «Trucial States» (sultanati della tregua), gli attuali Emirati Arabi Uniti. Nel 1827 l’Inghilterra equiparò il traffico transatlantico di schiavi alla pirateria e dal 1807 al 1860 il West African Squadron anglo-americano, aumentato negli ultimi anni fino a 25 unità, intercettò 1.600 navi negriere liberando 150mila schiavi. La fattispecie del reato fu inoltre regolata dai Piracy Acts inglesi del 1837 e 1850. A differenza di olandesi e spagnoli, incapaci di veni-


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dossier

I pirati cilici, nel quadro della terza guerra mitridatica, infestavano con mille navi tutte le coste del Mediterraneo da Cadice al Mar Nero e avevano saccheggiato o occupato almeno 400 città. L'accorto Pompeo li liquidò in due mesi, con una schiacciante vittoria navale seguita da amnistia e legalizzazione degli insediamenti stabiliti dai pirati re a capo dei rispettivi pirati musulmani (i cinesi Bugis delle Celebes e i Moro o Sulu delle Filippine meridionali), gl’inglesi liquidarono quelli malesi grazie al citato Brooke, la bestia nera di Salgari, investito nel 1841, dal sultano del Brunei, della sovranità su Sarawak, ossia la parte malese del Borneo. Ma l’intransigenza europea verso la pirateria cinese era alquanto selettiva, se la seconda guerra dell’oppio (1856-1860) fu occasionata dall’incidente dell’Arrow, una giunca di Hong Kong fermata dalle autorità cantonesi per sospetta pirateria ma rivendicata dal console britannico. Attenuando lo storico antagonismo, l’alleanza anglo-francese contro la Russia e Cina pose le basi del moderno Occidente forgiato dalle due guerre mondiali ed ereditato dagli Stati Uniti. Tra le ricadute più immediate ci furono l’unità italiana e la solenne rinuncia alla guerra corsara, dichiarata dalla maggior parte dei paesi europei, su proposta di Napoleone III, in margine della pace di Parigi del 30 marzo 1856 che concluse la guerra di Crimea. Gli ultimi corsari furono quelli patentati dai Confederati all’inizio della guerra civile americana. Infatti gli Stati Uniti aderirono alla Dichiarazione di Parigi solo nel 1908, assieme alla Spagna e dopo la

Convenzione dell’Aia del 1907. Dopo di allora l’attacco al commercio nemico non fu più condotto dai corsari, ma esclusivamente dalle marine regolari, e in particolare dalle forze subacquee.

A parte sporadiche micro-bande, la pirateria organizzata sembrò estinta dopo il 1870, man mano che il controllo di autorità centrali si rafforzava negli insediamenti marittimi. La sua sorprendente ricomparsa nella prima decade del XXI secolo è stata attribuita alla fine della guerra fredda, ma certo vi incide il fallimento di un numero crescente di economie postcoloniali provocato dalla globalizzazione. La nuova pirateria, il cui costo annuale è stimato fra i 13 ed i 16 miliardi di dollari, è attualmente localizzata nei golfi di Guinea e di Aden e nello stretto di Malacca (tra Malesia e Sumatra), da dove, a causa della repressione, si sta ora spostando nel Mar cinese meridionale. L’epicentro resta però l’Oceano indiano, che registra un traffico annuale di 50mila petroliere e portacontainer. Quattro secoli fa i pirati che lo infestavano erano soprattutto europei, i quali predavano le navi moghul che portavano alla Mecca i pellegrini del Kerala. Nel 1613, reagendo alla mancata restituzione della nave imperiale Rahimi, il figlio dell’imperatrice Mariam-uz-Zamani (1542-1622) fece occupare la base portoghese di Daman. Nel 1693-95 i convogli moghul furono attaccati da Thomas Tew e da altri pirati americani che facevano scalo all’Ile Sainte Marie nel Madagascar, dove tuttora esiste un piccolo cimitero di pirati. La General History of the Pyrates (citata all’inizio di questo articolo) associa a Tew un domenicano italiano, Caraccioli, e gli attribuisce la fondazione, in Madagascar, di un’utopistica colonia anarchica di cui non si sono però mai trovati i resti. Sarebbe carino se le flotte liberaldemocratiche che difendono il libero commercio nell’Oceano indiano, fra un turno e l’altro facessero qualche ricerca archeologica e magari riuscissero a trovare la perduta colonia dei pirati “nostri”. Che, giustamente, si chiamava Libertatia. 41


Risk

GLI

EDITORIALI/MICHELE

NONES

Un’occasione sprecata

Un paese moderno è tale se, per definizione è capace di adeguarsi ai cambiamenti, anche nel campo istituzionale e legislativo. La continua e rapida evoluzione dello scenario di riferimento rischia di rendere velocemente obsoleta anche la migliore strumentazione possibile di governo. Più il campo interessato è internazionalizzato e più deve essere tempestiva l’azione di aggiornamento. È questo il caso del controllo sulle esportazioni militari perché scenario geostrategico, rischi e minacce, sviluppo tecnologico e industriale, accordi multilaterali e bilaterali, regimi di controllo e rapporti internazionali rappresentano altrettante variabili in continuo movimento. Se poi, come nel caso italiano, l’intero sistema di controllo, basato sulla legge 185/90, è stato concepito in un’altra epoca, prima della caduta del muro di Berlino, dell’11 settembre e dell’integrazione del mercato europeo, la sua inadeguatezza non dovrebbe stupire nessuno. Così nel 1998 ad una seria riforma cominciò a pensare il primo governo Prodi, anche se fu poi il governo D’Alema ad approvare un coraggioso disegno di legge nel gennaio Duemila, successivamente lasciato cadere in Parlamento a causa del fuoco di sbarramento della parte talebana della maggioranza di centro-sinistra e del disinteresse del centrodestra. Qualcuno si illudeva che, grazie alla ratifica dell’accordo quadro fra i sei maggiori paesi europei, la normativa avrebbe potuto essere per lo meno parzialmente modificata, anche per rispettare gli impegni assunti con i nostri partner. In realtà dopo tre anni di battaglie politiche e parlamentari furibonde, sono state approvate, con la legge 148/03, solo lievissime modifiche che non hanno praticamente cambiato nulla, tanto è vero che la famosa Licenza globale di progetto, presentata dagli oppositori come un grimaldello per ridurre i controlli, non è mai stata applicata fino allo scorso anno. La riforma ha continuato così ad essere studiata per sette anni a livello interministeriale sotto il governo Berlusconi, quello Prodi e, di nuovo, quello Berlusconi. Si è arrivati così al disegno di legge delega approvato nel settembre 2010 che sembrava voler finalmente dare al nostro paese un nuovo sistema di controllo delle esportazioni militari in linea con quelli dei principali paesi europei, rispettando nello stesso tempo i molteplici impegni assunti dall’Italia a livello europeo. Non si è, però, fatto nemmeno in tempo a plaudire a questa decisione coraggiosa che lo stesso governo Berlusconi ha fatto una rapida marcia indietro e affossato la sua stessa proposta. Il Parlamento ha così approva42

to, nel dicembre 2011 all’interno della Legge comunitaria 2010, una mini-delega. In questo quadro, complice la preoccupazione per l’incredibile ritardo accumulato dall’Italia nel rispettare il recepimento della direttiva comunitaria 2009/43 sui trasferimenti intracomunitari, il governo Monti ha approvato il 9 marzo un decreto legislativo “minimalista” che si limita ad inserire nella nostra normativa il contenuto della direttiva comunitaria. Peccato che non basti inserire qualche nuovo ingranaggio, in un motore vecchio, per farlo funzionare meglio. Anzi c’è il rischio che s’inchiodi e a quel punto non resterebbe che adottare qualche soluzione di emergenza con due conseguenze negative: che il provvisorio diventi definitivo e che la discrezionalità diventi la regola. Così è avvenuto, d’altra parte, nel 1997 quando, non potendo più gestire i programmi di collaborazione intergovernativa con la strumentazione della legge 185/90, si definì una procedura speciale che sostanzialmente manteneva i programmi fuori dal campo di applicazione della legge prevedendo che vi rientrassero alla loro conclusione (e, più avanti, facendoli rientrare ad operazioni effettuate). Una decisione “a fin di bene” e con un carattere straordinario e temporaneo (così venne presentata), ma che, invece, viene applicata tutt’ora e coinvolge gran parte della produzione italiana. Così è avvenuto l’anno scorso con la decisione di utilizzare la Licenza globale di progetto, nata per semplificare i programmi di collaborazione fra i paesi europei dell’accordo quadro (e poi esteso dall’Italia, ad alcune precise condizioni, anche ai paesi Nato). Ovviamente anche in questo caso lo si è fatto a “fin di bene” perché è assurdo e ridicolo che l’Italia da una parte partecipi attivamente ad un programma, lo finanzi, cerchi di ottenere il massimo coinvolgimento della nostra industria e, nello stesso tempo, ne gestisca i controlli con lacci e lacciuoli che danneggiano le forze armate, l’industria e l’intero paese. La mancata riforma giustificherà così, anche per il futuro, queste ed altre forzature e il potere del mondo politico e della burocrazia troverà nuova linfa vitale. Un bell’esempio di quello che duecento anni fa osservava Benjamin Constant nei Principes de politique: «Una volta ammessi i mezzi arbitrari, i depositari dell’autorità li trovano talmente rapidi, talmente semplici, talmente comodi che non vogliono più impiegarne altri. In tal modo, l’arbitrio – presentato inizialmente come risorsa estrema in circostanze eccezionalmente rare – diviene la soluzione di tutti i problemi e la pratica di ogni giorno».


editoriali

GLI

EDITORIALI/STRANAMORE

Fantasmi coreani

La Corea del Nord torna a far paura. Dopo aver tentato di lanciare un vettore spaziale con a bordo un satellite, senza successo, Pyongyang sembra seriamente intenzionata a condurre il suo terzo esperimento nucleare, mentre minaccia il vicino, la Corea del Sud, affermando di essere in grado di ridurre lo storico rivale in cenere «nel giro di quattro minuti». Non solo, alla consueta parata militare la Corea del Nord ha svelato un nuovo veicolo trasportatore/lanciatore per missili balistici, un cosiddetto Tel, ovvero un colossale autocarro, a 16 ruote, che rende molto più difficile localizzare e nel caso eliminare i missili balistici che è in grado di trasportare. Un mezzo il cui sviluppo è stato reso possibile grazie alla vendita da parte della Cina quantomeno del telaio/propulsore di questo mezzo speciale. Un contratto lecito, a dispetto delle sanzioni Onu, ma quantomeno inopportuno. La Corea del Nord di Kim Jong-un rimane quindi un pericoloso enigma, mentre i timidi segnali di alleggerimento della tensione vengono regolarmente spazzati da nuove fasi di crisi. E se davvero Pyongyang compirà un esperimento nucleare la situazione diventerà davvero tesa. Anche il lancio del vettore spaziale Unha-3 ha contribuito ad aumentare le fibrillazione. Doveva essere un evento per celebrare il centenario della nascita del fondatore della patria., Kim Il-sung e in effetti la missione aveva carattere civile. Però il razzo a tre stadi, pesante oltre 90 tonnellate e alto oltre 30 metri, ha anche contribuito a maturare tecnologie impiegate nel programma missilistico militare. Il fatto che si sia risolto nell’ennesimo flop (dopo altri due tentativi falliti, condotti rispettivamente nel 1998 e nel 2009), con la mancata accensione del secondo stadio, conta fino ad un certo punto, perché ha comunque consentito di ottenere dati preziosi e fare esperienza, cosa importante per i nordcoreani, i quali hanno l’abitudine di produrre sistemi d’arma senza verificare davvero se funzionino (è il caso del missile balistico Musudan, accreditato di una gittata di 3.200 chilometri e apparentemente mai sottoposto ad un lancio di prova e tantomeno di qualifica). Nel dubbio l’intelligence deve presumere che tali sistemi siano operativi e… letali. Non è neanche un caso che in oc-

casione del lancio dell’Unha-3 il Giappone avesse messo in allarme le proprie difese antimissile, con l’autorizzazione a compiere una intercettazione qualora il missile avesse sorvolato le isole giapponesi. Invece l’Unha, diretto verso il mare adiacente le Filippine, è andato in pezzi. Se Tokyo si preoccupa, la Corea del Sud torna a pensare che il contenzioso con il vicino potrebbe davvero portare ad uno scontro militare in tempi relativamente brevi. La speranza che la Corea del Nord imploda con il suo regime dittatoriale dinastico non è svanita, ma ormai nessuno si azzarda più a formulare pronostici e tempi, visto che a dispetto delle enormi difficoltà economiche e dei sussulti conseguenti alla successione nulla è apparentemente cambiato. Non solo, la presenza a Seoul di un governo conservatore, guidato da Lee Myung Bak, ha reso ancora più aggressiva Pyongyang, portando ad una accelerazione dei piani di ammodernamento e potenziamento militare della Corea del Sud, la quale si sta dotando non solo di sistemi di difesa antimissile, ma anche di missili superficie-superficie: intanto missili da crociera e prima o poi anche di missili balistici di nuove generazione, in aggiunta agli ordigni tattici Atacms di produzione statunitense. Del resto già dopo l’affondamento da parte della Corea del Nord, con un siluro, di una corvetta sudcoreana, il governo di Seoul aveva deciso una revisione della propria politica di Difesa (National Security Review), avviata nel maggio 2010 e che prevede una riduzione del personale ed un marcato potenziamento della capacità militari, in tutti i campi. Non è neanche un mistero che Seoul trovi sempre più corta la “coperta nucleare” garantita dagli Stati Uniti, ovvero la garanzia che un attacco con armi nucleari da parte della Corea del Nord provocherebbe una ritorsione nucleare statunitense. E anche quest’ultimo tabù potrebbe cadere qualora Pyongyang procedesse ad un nuovo test, magari questa qualcosa di meno ambiguo e più consistente rispetto ai precedenti. A quel punto il rischio di scatenare una corsa all’atomica diventerebbe concreto. Lo stesso Giappone non potrebbe rimanere inerte di fronte ad una doppia bomba coreana. Altro che disarmo nucleare… 43


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cenari

MONDO

DIFESA INTELLIGENTE E ANTICRISI DI

VINCENZO CAMPORINI

in dagli anni Sessanta do direttamente all’ecodel secolo scorso, da nomia Usa, il secondo quando cioè i paesi euche il solo fatto di costiropei dell’Alleanza Atlantica tuire il campo di battaglia hanno concretizzato la rinasciprincipale dell’ipotetico ta economica e politica dopo scontro fra i due blocchi le distruzioni del secondo concostituiva di per sé un flitto mondiale, il tema del contributo sostanziale al «burden sharing», cioè la con«burden sharing». la Smart Defence sarà la nuova divisione degli oneri della diCon la caduta del muro di carta con cui l’Alleanza dovrà fesa comune, è stato posto con Berlino, il tema perse di coniugare due novità stringenti enfasi crescente. Durante la vigore, in quanto tutti i del panorama strategico. La prima è la razionalizzazione delle spese guerra fredda, i paesi europei, paesi, Stati Uniti comprein tempi di crisi, dove gli Usa premono anche se con qualche riluttansi, allentarono gli sforzi per un più concreto burden sharing. za, soprattutto da parte di quel- La seconda è la nuova dottrina Obama nel settore della difesa, che vede spostare l’asse d’interesse li meno pronti all’uso della forvolendo incassare quel americano a Oriente, lasciando za militare per sostenere le «peace dividend» che apall’Europa nuovi compiti a cui non è ancora preparata proprie politiche nazionali, pariva il giusto premio per hanno in qualche modo rispola vittoria sul blocco sosto, anche se con una certa riluttanza, alle sollecita- vietico. Ben presto, però, le crisi balcaniche riprozioni che venivano dall’altra parte dell’Atlantico (si posero la necessità per i paesi occidentali in generale rammenti, ad esempio, l’impegno, concordato nel e per la Nato in particolare di ridare sostanza alle pro«Programma di difesa a lungo termine» del 1978, a prie capacità militari e da parte americana cresceva la far crescere i bilanci della difesa, ogni anno, del 3 per- riluttanza a farsi carico di problemi di sicurezza che cento in termini reali); peraltro le sollecitazioni, an- a Washington non apparivano più prioritari, mentre corché ripetute, non apparivano fortemente pressan- era sempre più evidente la sostanziale incapacità dei ti, in quanto anche a Washington non si potevano ne- paesi europei a gestire crisi che li investivano direttagare due fatti: il primo che buona parte delle risorse mente.Vennero così riproposte le sollecitazioni verso finanziarie dedicate dai paesi europei all’ammoder- gli europei a fare di più e meglio, ponendo paletti ben namento dei mezzi finivano oltre Atlantico per acqui- precisi che, se risultavano pregiudiziali al fine di amsizioni da produttori statunitensi, con ciò contribuen- mettere nuovi membri in seno all’Alleanza, da molti

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scenari paesi vennero considerati solo un obiettivo di principio: tale è risultato sin dalla fine degli anni Novanta il parametro del 2 percento del pil da dedicare al bilancio della Difesa. Da questa situazione trassero origine varie iniziative, sia circa specifici programmi, sia di più ampio respiro, che avrebbero dovuto indurre i governi europei ad un maggiore sforzo, basti citare fra questi ultimi il Sac (Strategic airlift command) e fra i primi la Dci (Defence capabilities initiative), iniziative però che portarono a risultati non all’altezza delle aspettative, per una serie di motivi, aggravati negli ultimi anni dall’esplodere delle crisi economico finanziarie da cui fatichiamo ancor oggi a uscire. E proprio queste crisi, esplose dal 2008, hanno indotto tutti i governi europei, compresi quelli militarmente più avanzati, Francia e Gran Bretagna, a tagliare, a volte anche in modo drastico, i rispettivi bilanci della difesa, mentre negli Usa, anche per effetto degli sforzi bellici in atto, il Pentagono chiedeva ed otteneva sostanziali incrementi delle risorse. A questo punto l’Amministrazione Usa ritenne necessario riproporre con forza il tema del «burden sharing» e lo fece e lo sta facendo in modo coerente e corale, al punto che il discorso di commiato di Robert Gates e le più recenti dichiarazioni di Leon Panetta potrebbero essere stati pronunciati dalla stessa persona. Raccogliendo, quindi, i forti segnali lanciati durante il vertice Nato di Lisbona del novembre 2010, alla tradizionale conferenza europea sulla sicurezza di Monaco dei primi di febbraio del 2011 (quella che una volta veniva denominata la Wehrkunde), il segretario generale della Nato Rasmussen lanciò il concetto di «Smart Defence» con lo scopo di trasformare in modo sostanziale le modalità di acquisizione di sistemi nell’ambito dei paesi dell’Alleanza, al fine di conseguire le necessarie capacità in modo più efficiente e costo-efficace. La proposta venne formalizzata alla riunione ministeriale del marzo 2011, durante la quale venne approvato il documento «Building Capabilities through multinational and innovative Approaches». In realtà di innovativo non c’è molto, se non la forte spinta degli Usa, che mettono i paesi europei di fronte alle

loro responsabilità, dando evidenza di uno spostamento del centro di interesse americano dall’Europa al Pacifico e all’Asia, con toni mai uditi nel passato e dimostrando che alle dichiarazioni seguono i fatti. E la dimostrazione la si è subito avuta con il comportamento tenuto durante l’operazione Unified Protector, contro la Libia di Gheddafi: dopo un’iniziale brevissima partecipazione alle azioni offensive, le forze Usa si sono limitate a fornire alla coalizione le capacità abilitanti essenziali, di cui i paesi della coalizione stessa non disponevano, oppure disponevano in misura insufficiente (ricognizione, intelligence, identificazione e analisi obiettivi pre- e post-strike, rifornimento in volo, scorte logistiche di munizionamento), in sintesi si sono limitati ad evitare di far fare a Francia, Gran Bretagna e Italia la figura di potenze con ambizioni in alcuni casi globali, che non riuscivano ad avere ragione di un dittatorello a capo di un paese, in guerra civile, di 6 milioni di abitanti. E dal momento che i bilanci scendono, a volte drasticamente (oltre il 10 percento in termini monetari, quindi molto di più in termini reali), e nessuno in Europa è in grado di acquisire e mantenere, se non in forma poco più che simbolica, tutte le capacità necessarie a condurre operazioni complesse, l’unica

A Chicago in tema di «Smart Defence» verranno sviluppati un certo numero di progetti da gruppi di lavoro appositamente costituiti, secondo tempistiche che mal si raccorderanno con reali esigenze operative; non appena poi si dovrà passare alla concreta realizzazione, torneranno a diventare preminenti gli interessi industriali di ciascun paese

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Risk

Le crisi, esplose dal 2008, hanno indotto tutti i governi europei, compresi quelli militarmente più avanzati, Francia e Gran Bretagna, a tagliare, a volte anche in modo drastico, i rispettivi bilanci della difesa, mentre negli Usa, anche per effetto degli sforzi bellici in atto, il Pentagono chiedeva ed otteneva sostanziali incrementi delle risorse. A questo punto l’Amministrazione Usa ritenne necessario riproporre con forza il tema del «burden sharing» soluzione è quella di perseguire con convinzione e determinazione l’approccio multinazionale. Di ciò sono tutti convinti, che si discuta di quanto avviene nella Nato o che si parli di Pesc/Pesd nell’Unione europea. Assistiamo dunque all’avvio di esercizi molto simili in entrambe le organizzazioni, così simili da richiedere uno sforzo specifico per evitare, per quanto possibile, duplicazioni e sovrapposizioni. Da un lato, quindi, abbiamo la Smart Defence, dall’altro il Pooling and Sharing. In entrambi i casi si tratta di mettere insieme risorse e competenze per acquisire in forma multinazionale capacità che nessuno potrebbe permettersi da solo. Limitando il nostro esame a quanto si fa nell’Alleanza Atlantica, si osserva che il compito è stato affidato congiuntamente al comandante di Act (Allied command for transformation di Norfolk, Virginia), generale Abrial, e al vicesegretario della Nato, inizialmente l’ambasciatore Bisogniero, oggi l’ambasciatore Vershbow, che hanno costituito una specifica task-force per facilitare l’individuazione di proposte concrete su cui avviare la cooperazione tra 46

i paesi. Alla radice di tutte queste attività stanno, ovviamente, ben precisi scopi politici, il primo dei quali è quello di reagire alle sollecitazioni e alle esplicite accuse dei due segretari di Stato alla Difesa Usa già citati ai paesi europei di essere rassegnati ad una progressiva demilitarizzazione dell’Europa, reazione che, nell’attuale quadro economico-finanziario non può che essere quella di mitigare gli effetti delle riduzioni dei bilanci della difesa, mediante un migliore utilizzo delle risorse rimanenti; con ciò si risponderebbe anche alle antiche, ma sempre attuali, lamentele Usa in tema di «burden sharing», evidenziando la necessità e sfruttando le opportunità per una cooperazione più stretta tra le due sponde dell’Atlantico, in una situazione in cui, alla riduzione dei bilanci europei fanno da contraltare i tagli, assai pesanti in termini relativi, dei fondi destinati al Pentagono. Le lacune operative peraltro esistono e sono bene state evidenziate dalle operazioni contro la Libia di Gheddafi e si rende necessario sviluppare nuove metodologie di collaborazione internazionale, sia in fase di acquisizione di nuovi strumenti e sistemi, sia per l’utilizzo e il sostegno degli stessi operazioni durante. Al fine di mantenere e, se possibile, rafforzare il rapporto della Nato con l’Unione Europea è politicamente indispensabile che le attività e i programmi da avviare in ambito «Smart Defence» siano coordinati e complementari con quelli che l’Ue sta portando avanti grazie al lavoro dell’Agenzia europea della difesa, che ha, in buona sostanza, gli stessi scopi.

La task force di Act ha lavorato con molto impegno in questi mesi, con l’obiettivo di presentare al vertice Nato di Chicago del maggio 2012 risultati concreti, o che comunque indichino una reale volontà di progresso da parte dei paesi membri; sono state quindi identificate una serie di “idee”, alcune delle quali possono già essere considerate nella fase progettuale (Tier 1, per 15 progetti), altre come proposte potenziali (Tier 2, per 30 proposte), altre infine sono delle semplici idee, ancora da elaborare (Tier 3, 142 ipotesi di collaborazione). Per i progetti del Tier 1


esistono almeno due stati membri che intendono procedere nell’attuazione, con una nazione leader, per quelli del Tier 2 sono necessari ulteriori approfondimenti e, soprattutto, l’espressione della volontà di qualche stato membro di procedere, facendosi carico del ruolo di paese trainante; per il Tier 3, siamo ancora al livello della necessità di definire concetti di cooperazione. Già questi dati possono indurre qualche perplessità, perplessità che crescono quando si analizzano i titoli dei singoli progetti, anche di quelli che appaiono più concreti e di più immediato conseguimento: del Tier 1 fanno parte, ad esempio, «Computer and Information Systems e-Learning Training Centers», oppure «Pooling of Deployable Air Activation Modules» e ancora «Remote Controlled Vehicles for Route Clearance», per citarne solo alcuni dei quali l’Italia ha assunto la leadership, o ne vuole seguire attentamente gli sviluppi. Come si può constatare, si tratta di capacità certamente significative, soprattutto nell’attuale quadro strategico, ma che non muteranno in modo sostanziale le potenzialità degli strumenti militari dei paesi dell’Alleanza e che non comporteranno apprezzabili risparmi, ammesso che ne comportino, per i bilanci della difesa dei singoli paesi. In origine le ambizioni dell’iniziativa vanno bene al di là di questi primi, modesti risultati: tre erano e restano le linee concettuali lungo le quali ci si vuole e, aggiungo, ci si deve muovere se si vuole davvero conseguire una maggiore efficienza dell’utilizzo delle risorse (umane, strumentali e finanziarie) che gli stati membri della Nato riservano per le loro capacità militari: «Specializzazione» in particolari aree capacitive, attraverso un processo di consultazione e cercando di mantenere a livello Nato la più ampia gamma di capacità possibile; «Cooperazione nell’acquisizione, pooling, sharing e maintaining in commune» delle capacità che non possono essere realizzate (in entità sufficiente) da singole nazioni; «Definizione delle priorità sugli investimenti», sulla base di quanto deciso a Lisbona. Il fatto di averli elencati in ordine inverso, rispetto a quello che viene


Risk usualmente utilizzato nei documenti ufficiali, risponde ad un’esigenza concettuale che non può essere dimenticata o trascurata in quanto ciò dà un’esatta immagine della importanza relativa di tali linee, con riferimento alle finalità di tutto l’esercizio: risparmi veri, uniti a reali crescite delle capacità operative si potranno conseguire solo se si accetterà il principio che i paesi, anche quelli che hanno le più vaste ambizioni politico-militari, dovranno concen-

I bilanci scendono, a volte drasticamente, oltre il 10 percento in termini monetari, quindi molto di più in termini reali, e nessuno in Europa è in grado di acquisire e mantenere, se non in forma poco più che simbolica, tutte le capacità necessarie a condurre operazioni complesse, l’unica soluzione è quella di perseguire con convinzione e determinazione l’approccio multinazionale

trarsi su quello che sanno fare meglio, accettando di dipendere dalla piena e indiscussa solidarietà degli altri alleati per tutta una serie di altre capacità indispensabili, ma che non si potranno più permettere: del resto alcuni paesi, e non solo i più piccoli, hanno già di fatto intrapreso questa strada, ma l’hanno fatto e lo stanno facendo in modo assolutamente non coordinato e praticamente senza consultarsi con gli altri membri della Nato, né tanto meno, con le strutture centrali dell’Alleanza; accanto a quelli che hanno affidato la loro difesa aerea ad altri, ci sono quelli che hanno rinunciato alle capacità delle operazioni subacquee e ce ne è uno, che un tempo «governava le onde», il quale almeno per dieci anni ha rinunci48

ato alla capacità di proiezione del potere aereo dal mare, stipulando un accordo bilaterale con un altro paese, che invece tale capacità conserva. È ovvio che un progetto di questa portata, da attuare in modo razionale e coordinato, presuppone un accordo politico fortissimo, in cui non ci deve essere più spazio né per le fughe in avanti, né per riluttanze preclusive, come si è purtroppo visto in occasione della crisi libica, poi sfociato in un intervento militare cui hanno direttamente partecipato solo otto membri dell’Alleanza. Si tratta di uno sviluppo che francamente non appare possibile in un quadro Nato, mentre potrebbe essere possibile in un’Unione europea che trovi finalmente la strada per un’evoluzione in senso federativo, anche magari con un numero ridotto di aderenti. La seconda linea concettuale appare più promettente, anche perché è già stata percorsa nel passato, a volte con grande fatica, ma spesso con successo. Anche qui sorge spontaneo un confronto con l’Ue, che al tema sta dedicando molte energie, tramite l’azione determinata di Claude-France Arnauld, attuale direttore dell’Agenzia europea della difesa (Eda), ma con risultati concreti ancora tutti da dimostrare, se si eccettua la costituzione di una flotta da trasporto aereo virtuale, che deve ancora maturare criteri, concetti e metodologie di attuazione. Una delle tendenze più evidenti è che tutti sono pronti e desiderosi di mettere a disposizione di altri paesi le proprie capacità, soprattutto nei settori dell’addestramento e di parte della logistica, che risultino ridondanti rispetto alle esigenze nazionali, ma nessuno è disposto a rinunciare a componenti della propria struttura, per usufruire di quelle che altri possono offrire. La Nato, invece ha al suo attivo una serie di realizzazioni importanti, a partire dal sistema di comando e controllo della Difesa aerea, già realizzato ai suoi albori e poi, via via, ammodernato ed evoluto, per proseguire con la flotta Naew (Nato airborne early warning), i noti E3-A, con base a Geilenkirchen, e più recentemente il programma Sac (Strategic airlift command), con tre velivoli C17, basati a Pàpa, in


scenari Ungheria e infine, dopo una gestazione durata quasi un ventennio, il programma Ags (Alliance ground surveillance), che vedrà schierati a Sigonella cinque (almeno questo è il numero al momento pianificato) Global Hawk. Sono tutte imprese in cui un numero variabile di paesi membri hanno deciso di unire le proprie risorse finanziarie e umane per fare acquisire all’Alleanza capacità che altrimenti non sarebbero state disponibili, se non per concessione degli Usa, che invece ne dispongono nazionalmente. Non si può, tuttavia, non osservare come tutti questi programmi siano stati voluti, in primis, dagli Stati Uniti e come tutti, nessuno escluso, abbiano comportato acquisizioni «off the shelf» di materiale di produzione americana. In questa categoria si potrà far ricadere lo sviluppo e la messa in opera del sistema di difesa anti missili balistici, che tanto rilievo ha nel dibattito sia all’interno dell’Alleanza (uno dei temi principali del vertice di Chicago di maggio), sia all’esterno, soprattutto in relazione al dialogo, faticosissimo, con la Russia. Anche in questo caso, tuttavia, non si vede che cosa possano mettere sul tavolo delle trattative i paesi europei, nonostante le ambizioni francesi di far evolvere verso capacità Abm il sistema Samp-T, e dopo il fallimento dell’unico programma di cooperazione industriale transatlantica (tra Usa, Germania e Italia), il Meads. Anche qui si chiederà agli europei di mettere una parte più o meno cospicua di finanziamenti, ad esclusivo favore dell’industria della difesa Usa. C’è davvero da domandarsi come mai risulti impossibile ad un insieme di paesi europei di elaborare un progetto comune, che risulti tale da colmare un gap capacitivo riconosciuto come tale dall’Alleanza, e di negoziarne con successo l’attuazione con il partner d’Oltreatlantico: evidentemente le gelosie nel nostro continente sono tali da non permettere il conseguimento della massa critica necessaria e l’ansia di far combaciare work-share con costshare ha costretto nel passato e costringe oggi a meccanismi così complessi da minare alla radice la fattibilità di progetti comuni.

Sulla terza linea concettuale, la «definizione delle priorità negli investimenti» non c’è molto da dire, anche perché da decenni la Nato applica una metodologia di verifica periodica, in un quadro coordinato, dell’evoluzione degli strumenti militari dei paesi membri. Il problema non sta nella mancanza di dati o di indicazioni per i vari governi, bensì nella consolidata pessima abitudine che alle intenzioni coordinate e dichiarate poi non seguono i fatti; ben venga dunque un ulteriore stimolo politicamente forte, ma non ci si illuda che questo stimolo sia sufficiente a plasmare le politiche di investimento, o qualche volta, soprattutto in questa congiuntura economica, di disinvestimento dei singoli paesi.

Che cosa dunque dobbiamo attenderci come esiti e sviluppi del vertice di Chicago in tema di «Smart Defence»? Temo non molto: verranno sviluppati un certo numero di progetti da gruppi di lavoro appositamente costituiti, secondo tempistiche che mal si raccorderanno con reali esigenze operative; non appena poi si dovrà passare alla concreta realizzazione, torneranno a diventare preminenti gli interessi industriali di ciascun paese che, a loro volta, stimoleranno tentazioni protezionistiche mai sopite e che anzi, in tempi di crisi economica e di forti preoccupazioni occupazionali, troveranno rinnovato vigore, e non solo da questa parte dell’Atlantico, ma anche, per non dire soprattutto, negli Usa, che il protezionismo nel campo dell’industria della difesa l’hanno sempre dimostrato nei fatti, come evidenziato dalle recenti vicende degli aerorifornitori e del C27. Con ogni probabilità verranno fatti progressi nella difesa antimissile, cercando, ove possibile, un’intesa con la Federazione russa, e nel settore dell’Istar, con l’Ags, colmando lacune da tempo sentite ed in qualche caso, come nella filiera intelligence per la campagna libica, ampiamente sperimentate, ma è legittimo il dubbio che tutto ciò costituisca un modo smart di plasmare gli strumenti della difesa, o almeno un modo più smart che nel passato. 49



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cenari

PENISOLA ARABICA

AUTUNNO YEMENITA DI

LAURA QUADARELLA

Dopo quasi un anno di rivolte popoQaeda nella Penisola Arabica che lari il presidente Saleh ha lasciato un per i problemi interni di una crisi potere che deteneva da 33 anni, e otprofonda e complessa, nella quale tenuta l’immunità si è recato all’estee dalla quale il jihadismo si alimenro per nuove cure mediche necessata. Ancorché lo Yemen sia uno dei rie per le conseguenze dell’attentato paesi più poveri e con il più basso subito lo scorso anno. Rientrando nel tasso di alfabetizzazione dell’intera territorio yemenita per la cerimonia area mediorientale, sul piano del ridi giuramento del nuovo presidente, spetto dei diritti umani la situaziosuo ex vice, Abd Rabbo Mansour ne non era tuttavia almeno sulla carHadi. Con la caduta dell’unico regita così negativa come si potrebbe Il nuovo Yemen rimane me repubblicano della penisola ara- un paese spaccato tra nord immaginare, anche se poi la realizbica la “Primavera araba” ha quindi e sud, tra comunità sunnita zazione sul piano pratico si rivelaprodotto un nuovo risultato, ma non e sciita, tra filo-governativi va difficile e la dialettica politica è e separatisti, tra interessi immediatamente positivo per il posempre risultata distorta dalla presauditi e consorterie iraniane, con Al Qaeda polo che con tanta fatica l’ha detersenza di un solo partito di riferimene i suoi progetti jihadisti minato. Alla luce della incerta situato, fondato e diretto dal presidente a condire una situazione zione in cui si trova lo Yemen e delAli Abdallah Saleh, fronteggiato per sempre sul filo della l’evidente deterioramento della sicu- disgregazione istituzionale. anni da un movimento di opposizioUn paese chiave rezza interna, ben più grave di quelne venato da divisioni interne e con per la Penisola arabica, la di altri Paesi che hanno visto ca- la sicurezza delle sue acque poca penetrazione presso una sociee il “gioco” nucleare dere i loro uomini forti, numerosi sotà che a causa della struttura tribale di Teheran no i pericoli che ancora aspettano il nutre un profondo disinteresse per popolo yemenita, la cui vittoria su Saleh rischia di es- il governo centrale. Anche per tali ragioni Saleh, “Pasere solo l’inizio di una lunga battaglia, caratterizza- dre della Patria” in quanto vero autore della riunificata da vecchie e nuove sfide e divisioni interne, e da zione del Paese e “uomo forte” che unisce al potere una continuità con il vecchio regime che è ancora dif- istituzionale quello carismatico tipico dei leader araficile da inquadrare. Risulta pertanto necessario ap- bi, è stato per decenni in grado di controllare una reprofondire le problematiche di un Paese spesso al cen- altà complessa senza che sino allo scorso anno la sua tro dell’attenzione dell’opinione pubblica occidenta- autorità legale venisse in realtà mai messa veramente le più per il ruolo che ha assunto negli ultimi anni Al in discussione, ancorché alcune significative lacera51


Risk zioni si siano con il tempo formate soprattutto con la progressiva accentuazione delle proteste delle popolazioni del sud, emarginate dalla gestione del potere sin dall’unificazione del 1990. Due le problematiche che con gli anni si sono aggiunte a questo già sempre più instabile quadro: i crescenti contrasti con i movimenti estremisti islamici, sunniti salafiti al sud e sciiti zaiditi al nord, ed il peso sempre più determinante anche sul piano territoriale del terrorismo alqaedista. Numerose sono le sfide che dovrà affrontare l’ex numero due yemenita, che da novembre ha guidato un governo di unità nazionale con un’autorevolezza che gli derivava unicamente dall’accordo messo a punto dai Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo ma grazie alla legittimazione del voto popolare di fine febbraio potrà ora finalmente provare ad elaborare nei suoi due anni di mandato una serie di modifiche costituzionali che agevolino la transizione democratica. Alla luce dello stretto legame che in Yemen si crea con i suoi leader va solo brevemente rilevato che Saleh, appartenente a un ramo cadetto delle potente confederazione degli Hashid di rito sciita zaidita, è un uomo di umili origini e scarsa istruzione, che passerà alla storia come un presidente corrotto e che ha dato ordine di reprimere nel sangue le proteste popolari, ma ha avuto il merito di tenere insieme un paese pieno di divisioni, cercando tra l’altro di secolarizzarlo il più possibile e lottando contro ogni forma di estremismo religioso. Hadi, che nei mesi in cui Saleh è stato in Arabia Saudita per curarsi dopo le gravissime ferite riportate nell’attacco di giugno al Palazzo presidenziale ha saputo conquistare anche parte dell’opposizione, è invece un militare di carriera, originario del sud, che pur avendo seguito la sua formazione militare nel Regno Unito ed avendo dopo l’indipendenza dagli inglesi scalato le gerarchie militari nell’esercito dell’allora stato marxista della Repubblica democratica dello Yemen, si unì allo Yemen del Nord fin dalla fuga nel 1986 dell’allora presidente Mohammed. Iniziò poi la rapidissima ascesa che a dispetto delle sue origini lo portò in pochi anni, proprio durante la guerra scoppiata dopo il tentativo di secessione del 52

sud, a ricoprire prima la carica di ministro della Difesa e poi quella di vicepresidente, mantenuta per quasi venti anni. È dunque nelle mani di un uomo per molti aspetti profondamente diverso dall’ex presidente che sarà affidato il complicato futuro del Paese, ancorché sia innegabile che non rappresenti un momento di effettiva rottura con il passato e che ha vinto elezioni presidenziali in cui era l’unico candidato. Per comprendere cosa ne sarà di un paese che i romani chiamavano Arabia Felix e sta invece vivendo un periodo di sempre più profonda insicurezza interna, numerose sono le domande da porsi, ad iniziare col chiedersi se veramente sia stata la «Primavera araba» a far cadere Saleh o le «spinte esterne», piuttosto che l’avanzata alqaedista o i combattimenti con i sunniti salafiti e gli sciiti zaiditi.

Ruolo sicuramente determinante lo hanno svolto le dimostrazioni popolari, ma i violenti scontri scoppiati a Sana’a non sono giustificabili con un semplicistico discorso legato alla ventata di democrazia che partita il mese precedente in Tunisia ha spazzato molti dei regimi del Nord Africa ed ancora oggi soffia più o meno violenta in quasi tutto il cosiddetto Grande Medioriente interessando, seppur con tono minore, anche monarchie secolari. Non possiamo infatti dimenticare che per varie ragioni ampie zone di territorio yemenita sfuggono da tempo al controllo del governo centrale. Da non sottovalutare è anche il peso di giochi di forza ben più grandi dello Yemen, giochi di cui forse il paese è stato vittima, con pressioni provenienti dall’esterno e legate sia alla importantissima posizione strategica in cui si trova che all’attuale contesto internazionale. Geograficamente lo Yemen trovandosi tra Mar Rosso e Golfo di Aden gode di un’invidiabile posizione strategica che gli consente di controllare lo stretto che li divide, Bab alMandab, ed è quindi al centro delle rotte del petrolio, ma anche una potenziale «base» per qualsiasi supporto militare contro la pirateria o il terrorismo o uno degli stati che si affacciano nel Golfo Persico o fanno parte del Corno d’Africa, possibile strategico punto


di rifornimento e di partenza per forze aeree o navali in un momento in cui la tensione nell’intera area non fa che aumentare. Tornando alle ragioni dell’instabilità interna, si devono tener presente la rigida struttura tribale, che per anni Saleh ha saputo sfruttare al meglio, e le rivalità tra i vari clan. Da sempre le tribù hanno costituito l’unità sociale primaria presente nel territorio yemenita, che nel corso del secolo scorso si è svincolato dalle dominazioni straniere attraverso prima la formazione di due stati e poi la loro fusione in una unica entità statale, entità che ancora oggi per molti è però solo sinonimo di potere centrale, laddove quello periferico continua ad essere amministrato dai capi tribù. Per una popolazione in cui è ancora assente il concetto di popolo yemenita nel suo insieme, sono infatti i capi tribù i veri uomini da rispettare, quelli cui è demandata la gestione del potere, che avviene in modo semplice, ma strutturato, poiché le tribù sono organizzate in governatorati e questi a loro volta in confederazioni. Tra le fonti di guadagno utilizzate negli ultimi decenni dalle tribù nel loro singolare rapporto con il governo di Sana’a vi è quella del rapimento degli stranieri: si tratta di rapimenti a fine di lucro, in cui gli ostaggi vengono utilizzati come merce di scambio per ottenere denaro o infrastrutture dal governo centrale. È in questo complesso quadro sociale che si sono inserite le proteste popolari, iniziate in contemporanea con quelle degli altri paesi del Nord Africa e Medioriente e motivate da crescente disoccupazione, profonda crisi economica e diffusa corruzione. A differenza di quanto avvenuto altrove, in Yemen si è però ben presto assistito, per la sua struttura sociale, alla defezione di vari esponenti di governo e dei vertici delle forze armate, che hanno lasciato i loro incarichi e sostenuto le rivolte in accordo alle linee delle tribù di appartenenza. I manifestanti chiesero a Saleh le sue immediate dimissioni, ricevendo per tutta risposta un no secco per alcuni mesi e dopo, in seguito alla mediazione dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, un numero interminabile di annunciati passaggi di potere fino alla firma il 23 novembre dell’accor-


Risk do per il trasferimento dei poteri al suo vice in cambio dell’immunità per sé e per la sua famiglia. L’accordo, firmato da Saleh a nome del suo partito e dai rappresentanti della coalizione dei maggiori partiti di opposizione, prevedeva un immediato passaggio provvisorio dei poteri in favore del vicepresidente, l’approvazione di una legge sull’immunità di Saleh e della sua famiglia, e l’organizzazione di elezioni presidenziali a suffragio universale da tenersi entro 90 giorni e per le quali tutte le parti firmatarie si impegnavano ad appoggiare il vicepresidente Hadi. L’elezione presidenziale del “meridionale” Hadi potrebbe in parte placare l’anelito separatista, anche se questi non è mai stato particolarmente vicino alla causa degli indipendentisti e va tenuto presente che la divisione tra nord e sud del paese ha soprattutto origini religiose laddove il nord è a stragrande maggioranza sciita ed il sud sunnita. Gli sciiti sono quasi tutti della scuola zaidita, presente di fatto oggi solo nello Yemen, mentre i sunniti, tranne una piccola minoranza influenzata dalla rigorosa scuola giuridica hanbalita della vicina Arabia Saudita, seguono tradizionalmente la scuola salafita, spesso classificata tra quelle in cui più facilmente si accende la scintilla dell’estremismo islamico. Nello specifico, nel nord si trovano da secoli gli zaiditi, che su un piano teologico differiscono da tutti gli altri sciiti nell’identificazione del quinto Imam, Zaid, e perché non hanno un clero profes-

Nello Yemen, al già sempre più instabile quadro, con gli anni si sono aggiunti dei problemi chiave: i crescenti contrasti con i movimenti estremisti islamici, sunniti, salafiti al sud e sciiti zaiditi al nord, ed il peso sempre più determinante anche sul piano territoriale del terrorismo al-qaedista

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sionale e sono quindi per alcuni aspetti vicini ai sunniti. Se per il resto sul piano giurisprudenziale non presentano particolari differenze e potrebbero esser definiti moderati, ben diversa è la situazione sul piano politico, tanto che spesso vengono inclusi tra i musulmani estremisti: lo zaidismo non esigendo l’appartenenza alla discendenza del Profeta, teorizza che chiunque possa guidare legittimamente l’Ummah, la comunità islamica, ma prescrive il potere sia esercitato da chi sappia guidare i musulmani contro gli usurpatori e gli oppressori, dando così chiara coloritura militante al movimento.

Pur rappresentando il 40 per cento della popolazione, nello Yemen gli zaiditi hanno occupato le posizioni di potere ininterrottamente dall’epoca ottomana sino ai giorni nostri: caduto l’Impero Ottomano nel 1918 nacque lo Yemen del Nord, caratterizzato dalla forte legittimazione religiosa della casa regnante, ovviamente zaidita; seppur con notevoli differenze, il legame zaidismo-potere rimase anche dopo, non va infatti dimenticato come zaiditi fossero i militari che hanno rovesciato la monarchia nel 1962 e zaidita sia lo stesso Saleh e quasi l’intero entourage che lo ha affiancato per decenni. Con il golpe le cose però cambiarono rispetto all’epoca precedente poiché da bravi nasseriani i militari al potere promossero una cauta secolarizzazione delle strutture yemenite. Lo stesso Saleh è stato spesso definito uno zaidita nazionalista ed ecumenico e ha per questo dovuto fronteggiare l’opposizione del movimento armato degli Houthi, nato nel 2004 sotto la guida dell’imam al-Houthi nella città di Saada, che si trova in una delle aree meno sviluppate dal Paese. I ribelli accusano il presidente di aver distrutto l’identità zaidita dei tempi della monarchia, mentre Saleh li ha da parte sua sempre accusati di voler restaurare lo stato confessionale, l’imamato caduto nel 1962. Tra i ribelli Houthi e le forze governative è rapidamente iniziato un vero e proprio conflitto, che è continuato anche dopo la firma di una tregua nel febbraio 2010 e vede forze ribelli e forze governative scambiarsi l’accusa di essere ri-


scenari spettivamente sostenute da Iran e Arabia Saudita, e fare quindi interessi di altri paesi al posto di quelli nazionali, pensando al proprio tornaconto piuttosto che alle necessità del popolo. Al sud la maggioranza della popolazione è invece di credo sunnita e segue la scuola salafita. Nel caso dei salafiti yemeniti vari sono i fattori che si sommano tra loro e spingono a lottare contro il governo i seguaci di una scuola già di per sé spesso vicina all’estremismo. Se l’aspetto teoretico più importante del salafismo, il ritorno alle origini, all’islam puro dei «pii antenati» (salaf al-salihin), lo fece nascere nel XIX secolo all’insegna di valori profondamente religiosi e per alcuni aspetti moderni, come noto la ricerca ossessiva dell’ortodossia lo ha spinto fin dall’inizio del secolo scorso a promuovere un militante impegno moralistico contro malesseri sociali e vizi importati dall’Occidente. Dall’impegno per la promozione di una profonda opera di riavvicinamento all’osservanza delle pratiche canoniche dell’islam all’estremismo islamico il passo fu breve: fu così che la scuola salafita divenne la culla del fondamentalismo islamico. Alle caratteristiche del salafismo militante si sommano nello Yemen le inevitabili tensioni generate dal fatto che la maggioranza sunnita è guidata dalla minoranza sciita, che da sempre impone il suo stile di vita sociale e vita religiosa. A ciò si aggiungono anche le spinte secessionistiche provenienti dalla diversità socio-culturale tra le tribù del nord e del sud ed i nostalgici marxisti che vorrebbero tornare al regime dello Yemen del Sud. In questa complessa situazione nel sud dello Yemen si è formato sin dagli anni Novanta un vero e proprio movimento secessionista, chiamato al-Hirak, che ha fatto spesso ricorso all’insurrezione armata ed è contestato da altri movimenti che chiedono una meno drastica riforma dello stato in senso federalista. Al-Hirak imputa alle autorità centrali di governo il fatto che il paese sia da sempre nelle mani dei rappresentanti del Nord, che hanno relegato il Sud quasi a colonia sebbene proprio dal sud venga l’80 per cento del greggio estratto nel Paese. Va sottolineato come malgrado la forte opposizione nord-

sud abbia condotto in passato anche a scontri armati tra le diverse fazioni dei due fronti opposti, nel corso del 2011 ci sia stata una sorta di alleanza contro le forze governative, ma caduto Saleh lo scontro sembrerebbe essersi riaperto. Quanto al ruolo che negli anni sta assumendo Al Qaeda nella Penisola Arabica nel quadro del jihadismo globale, la sua importanza all’interno delle strutture di Al Qaeda, e le conseguenze che le sue conquiste territoriali avranno per lo Yemen e per l’alqaedismo in genere è necessario fare un breve approfondimento. Al Qaeda è oggi un fenomeno a cerchi concentrici, in cui il nucleo centrale, cosiddetto Al Qaeda Core (AQ), continua ad essere l’organizzazione con sede tra Afghanistan e Pakistan, controllata dopo la morte di Bin Laden da al Zawahiri. Accanto a questo nucleo si trova l’anello dei gruppi terroristi che potremmo definire affiliati, che sono stati ufficialmente riconosciuti dai leader di Al Qaeda Core e seppur con adattamenti dovuti al contesto regionale in cui operano dovrebbero condividerne totalmente ideologia e sistemi operativi. Mentre è definibile come esterno un terzo livello, composto da gruppi islamici minori che pur sempre con l’obiettivo della jihad operano autonomamente.

Fatta questa doveroso premessa, è indubbio che Al Qaeda in the Arabian Peninsula (Aqap) sia oggi una delle più importanti organizzazioni affiliate, tanto da poter mirare dopo la morte di Bin Laden alla guida stessa di Aq e da provocare probabilmente spaccature interne ai suoi vertici e forse alla stessa organizzazione centrale. In Aqap si sono infatti man mano distinte due ali con differenti strategie: una parte ha concentrando le sue forze per una sorta di conquista di sempre più ampi territori nello Yemen, ove il vacillante potere di Saleh ha costretto il ridispiegamento della maggioranza delle truppe a Sana’a per reprimere le rivolte popolari non riuscendo più, soprattutto nel sud del Paese, a controllare l’avanzata dei miliziani qaedisti; un’altra parte ha invece abbracciato la strategia antioccidentale di uno dei suoi principali leader, l’imam al Awlaki, strategia che si è ca55


Risk

Il paese è oggi governato da Abd Rabbo Mansour Hadi, che era il vice di Abdallah Saleh. Con la caduta dell’unico regime repubblicano della penisola arabica la “Primavera araba” ha quindi prodotto un nuovo risultato, ma non immediatamente positivo per il popolo che con tanta fatica l’ha determinato ratterizzata per una spiccata propensione verso l’occidente tanto per la ricerca di nuovi terroristi da reclutare e addestrare direttamente in internet, quanto per la realizzazione di attentati con attacchi condotti a termine da c.d. homegrown terrorist. Ancorché sia in ragione del successo e delle potenzialità di questa nuova strategia che Aqap è da molti considerata la maggiore tra le organizzazioni affiliate ad Aq, o almeno quella con più visibilità in Occidente, potrebbero esser state proprio le lotte interne ad Aqap e le mire di al Awlaki sul controllo di Aq dopo l’uccisione di Bin Laden ad aver favorito la sua individuazione e la sua successiva eliminazione a fine settembre durante un attacco condotto da droni statunitensi: si può infatti supporre sia stato proprio l’atteggiamento verso Aq ad indebolire quella rete di protezione che allentando le sue maglie ha reso vulnerabili in Yemen gli spostamenti di alcuni suoi leader. Morto al Awlaki e con Al Qaeda guidata da al Zawahiri, la situazione è mutata radicalmente. Il dottore egiziano con il volto segnato sulla fronte dal callo della preghiera è un leader interessato più alla Jihad verso il nemico vicino che verso quello lontano, più ai paesi arabi che all’Occidente, salvo quando questo interferisce con il «mondo musulmano», un leader che probabilmente proverà a colpire l’Occidente più nei suoi interessi all’estero che a casa sua: quanto di più di56

stante possa esistere dal dinamismo con cui al Awlaki aveva utilizzato il mondo della rete direttamente in inglese per reclutare ed addestrare i cosiddetti homegrown terrorist. Conseguenza è stata nello Yemen la vittoria dell’ala di Aqap impegnata alla conquista territoriale del paese, che ha determinato una costante avanzata dei miliziani alqaedisti e li potrebbe portare a governare per la prima volta un territorio. In Afghanistan furono infatti i talebani a salire al potere al temine degli scontri tra i vari gruppi di mujaheddin seguiti alla caduta del regime filo-sovietico della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, fornendo sostegno e ospitalità alla rete terroristica di bin Laden, che aveva collaborato attivamente nella lotta contro l’Alleanza del Nord di Massoud, ma non affidandole alcun ruolo nella gestione del potere. Ben diversa sarebbe ora la situazione che potrebbe prospettarsi, con gli alqaedisti che potrebbero assumere direttamente il controllo di un territorio e, anche se non pochi sono i dubbi circa la loro capacità di amministrare il potere, inquieta vederli conquistare un gran numero di città ed issare il loro vessillo mentre i cittadini non possono far altro che scappare. Le popolazioni delle città conquistate sono costrette a fuggire perché prive della protezione dell’esercito, che secondo il governo è stato concentrato a Sana’a per salvaguardare il paese, ma per l’opposizione sarebbe stato volutamente spostato per “punire” le popolazioni locali ostili al governo centrale e poter invocare il sostegno dell’Occidente contro il nemico comune.

Secondo le stime delle Nazioni Unite a causa dell’avanzata territoriale dei miliziani alqaedisti almeno 150mila persone hanno lasciato le loro case e vivono ammassate in tende, edifici pubblici o altri ricoveri di fortuna, divenendo rifugiati nel loro stesso territorio, ove a causa della rigida struttura tribale sono considerate alla stregua di profughi stranieri dagli abitanti dei villaggi presso cui si rifugiano. Che sia per questo enorme numero di rifugiati che provoca, per gli scontri armati che porta inevitabilmente con sé, per le razzie di cui i miliziani si rendono autori, o per la legge corani-


scenari ca che vorrebbero imporre, sta di fatto che Al Qaeda non gode del sostegno popolare. A Radah, città con ben sessantamila abitanti che si trova ad appena 150 chilometri dalla capitale Sana’a e secondo parte dell’opposizione sarebbe stata lasciata volutamente non protetta dalle forze governative pochi giorni dopo un’imponente manifestazione contro Saleh, l’occupazione dagli alqaedisti è iniziata a metà gennaio, ma l’ostilità della popolazione li ha ad esempio costretti alla ritirata nel giro di poco più di due settimane.

La conquista di Radah si inserisce tuttavia nella possente avanzata degli alqaedisti, che hanno tra l’altro conquistato anche la città di Zinjibar, capoluogo della provincia di Abyan, e quasi tutti i centri minori della zona. Quanto ai rapporti con alcuni capi tribù che sembrerebbero favorire l’avanzata degli uomini di Aqap, si ritiene che la maggior parte dei capi tribù abbia semplicemente scelto di evitare la via dello scontro frontale per salvaguardare il più possibile l’incolumità dei propri cittadini. Purtroppo l’insediamento del nuovo presidente ha visto un ulteriore acutizzarsi dello scontro, con sempre più frequenti attacchi degli alqaedisti contro le forze regolari, attacchi che al di là delle pesanti perdite di vite umane portano in sé anche un importantissimo messaggio simbolico volto a screditare sempre più le capacità del governo centrale. Pur apprezzando i progressi della transizione politica del paese, le Nazioni Unite hanno più volte espresso profonda preoccupazione per il deterioramento della sicurezza interna e la presenza sempre più importante di Al Qaeda, fattori che determinano il conseguente sempre più elevato numero di rifugiati. Accanto a questi aspetti umanitari che potremmo definire interni, vi è poi il timore che un possibile flusso di rifugiati attraversi presto i confini, timore profondamente sentito in tutti gli stati del Golfo anche perché si deve tener presente che i rifugiati che potrebbero riversarsi nei paesi confinanti non sono solo quelli yemeniti, ma anche parte degli oltre 200mila rifugiati somali presenti da anni nel paese. Se un po’ in tutta la regione si teme inoltre che l’in-

stabilità dello Yemen si estenda ad altre aree, i due stati confinanti, Arabia Saudita ed Oman, temono direttamente per la sicurezza del loro stesso territorio. In particolare, la destabilizzazione della situazione yemenita è assolutamente inaccettabile per la dinastia saudita, che per anni ha condiviso con il governo di Sana’a sia la lotta ai ribelli Houthi che quella al network alqaedista e che senza una costituzione né alcuna forma di legittimazione democratica tiene insieme un territorio molto vasto, al cui interno come in Yemen l’unità sociale di base è costituita dalle tribù, applicando la sharia secondo la rigida interpretazione wahabita ed una ancor più rigida tradizionale struttura sociale che nega ad esempio alle donne anche diritti elementari. Allargando l’angolo di visione al di fuori degli interessi dei paesi della regione rileva soprattutto la posizione degli Stati Uniti, il più stretto alleato occidentale dello Yemen sia per la stabilità interna del paese che nella lotta al terrorismo islamico. Con il peggioramento della situazione yemenita il sostegno americano è diventato sempre più importante anche per la preoccupazione che aree strategiche come il porto di Aden e lo Stretto di Bab al-Mandab cadano nella mani di Al Qaeda o dell’Iran: quest’ultimo potrebbe riuscire a sfruttare al meglio un eventuale sgretolamento dello stato yemenita accompagnato dall’affermazione al potere dei ribelli Houthi, mentre Aqap continuando con le sue conquiste territoriali nel sud del paese potrebbe, in collaborazione con Al-Shabaab, far raggiungere ad Al Qaeda il totale controllo dello Stretto. Va infine considerato che ai decennali problemi legati alle tensioni tra stati arabi, ma soprattutto alle tensioni arabo-israeliane e arabo-occidentali, alla lotta al terrorismo e, più recentemente, alla pirateria internazionale e più in generale alla sicurezza della navigazione, si sono aggiunti i problemi legati alla minaccia nucleare iraniana ed è indubbio che lo Yemen potrebbe giocare un ruolo determinante sia per la posizione strategica di cui gode sia per il fatto che esso stesso rispecchia al suo interno quella spaccatura tra sunniti e sciiti che sta divenendo sempre più profonda nel mondo arabo. 57


S

cenari

IRAN

LOTTE DI POTERE ALL’OMBRA DEI MULLAH DI

PEJMAN ABDOLMOHAMMADI

ormai più di un anno che la Reda alcuni anni ha dato vita ad una pubblica Islamica vive una nopolitica filo-nazionalista, sfidando tevole spaccatura al suo vertice palesemente il potere religioso di tra il fronte ultraconservatore, sosteniKhamenei. Ad esempio riuscì ad avtore della Guida Suprema l’ayatollah viare, durante il primo governo AhAli Khamenei, e il fronte pragmaticomadinejad (2005-2009), uno storinazionalista vicino al presidente Mahco negoziato con i dirigenti del Brimoud Ahmadinejad, il quale, a partire tish Museum, concordando il prestidal 2010, si è gradualmente allontanato del «Cilindro dei Diritti Umani» Ecco la mappa dello to dalle posizioni ideologiche del clero di Ciro il grande, uno dei principali scontro di potere sciita, dando vita ad un nuovo blocco di reperti archeologici simbolo dell’antra presidenza della potere a stampo nazionalista e critico tica Persia e simbolo del patriottiRepubblica islamica e Guida suprema. nei confronti di alcuni principi cardine smo persiano ovvero dell’iranismo. Un conflitto che della Repubblica Islamica stessa. La meInfatti, lo scorso anno, il cilindro di dal 2010 continua senza esclusione tamorfosi di Ahmadinejad infatti si è riCiro è stato prestato all’Iran ed espodi colpi e che vede velata come una sorpresa sia per gli anasto al pubblico nel Museo Nazionaora in vantaggio listi sia per gli attori politici protagonile di Teheran. Durante la cerimonia Alì Khamenei su cui sembra aver sti in Iran. La stessa Guida Suprema ha di ricevimento del cilindro, sia Ahpuntato anche dovuto prendere delle contromisure al madinejad sia Mashai, hanno reso l’Occidente, fine di fermare l’ascesa al potere del preomaggio al fondatore dell’Impero dimenticando i propri interessi sidente, dando vita così ad uno scontro persiano, definendolo come «un veistituzionale in Iran, presente fino a i ro profeta». Considerata la dichiaragiorni nostri. Il presidente infatti ha sfidato, per la pri- ta ostilità del khomeinismo e del khameneismo nei ma volta nella storia della Repubblica Islamica, la confronti dell’identità persiana dell’Iran, tale gesto Guida Spirituale del paese. Si citano ora alcune delle significava una sfida aperta lanciata dal fronte del mosse eclatanti del presidente contro l’ayatollah Kha- presidente Ahmadinejad alla vecchia classe politica menei e le rispettive contromosse della Guida. clericale sciita. Mashai, il quale ricopre anche la caIl braccio destro, nonché consuocero del presidente, rica di responsabile degli iraniani residenti all’esteEsfandiar Rahim Mashai (figura chiave del fronte ah- ro, lo scorso anno ha poi invitato un centinaio di rapmadinejadiano), il quale attualmente è il capo d’uffi- presentanti della diaspora iraniana all’estero a Tehecio della presidenza della Repubblica Islamica, ormai ran, al fine di rinforzare il legame tra gli iraniani re-

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sidenti all’estero con la propria madrepatria. Durante la cerimonia, Mashai ha baciato la bandiera iraniana e ha detto: «bisogna studiare il maktabe irani (la scuola di pensiero iranica) piuttosto che il maktabe eslami (la suola di pensiero islamico)». Tale dichiarazione ha suscitato nuovamente le dure critiche del clero conservatore, fino al punto che il presidente Ahmadinejad ha dovuto intervenire a difesa del proprio consuocero, definendo la dichiarazione di Mashai «sobria e non anti-islamica». Il licenziamento del ministro degli Esteri, Manucehr Mottaki, avvenuto nel dicembre 2010 su ordine del presidente iraniano, non fece altro che confermare l’approfondirsi della spaccatura tra il presidente e la Guida Suprema, a cui tradizionalmente appartiene la nomina, seppure indiretta, del ministro degli Esteri iraniano. Il presidente Ahmadinejad infatti, pochi mesi prima, aveva nominato quattro persone di fiducia come «rappresentanti speciali» per la politica estera, tentando di diminuire così il peso del ministero degli Esteri di Mottaki, tradizionalmente più vicino alla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, che alla presidenza della repubblica. Ahmadinejad infatti ha cercato di dare vita, nell’ultimo anno, ad un sistema diplomatico parallelo in grado di renderlo più forte e autonomo nella gestione della politica estera del paese. Nell’ aprile del 2011 il presidente ha tentato di licenziare il ministro dell’intelligence l’hojjatolesalm Heidar Moslehi, uomo vicino a Khamenei, rendendo di fatto pubblica la spaccatura interna al vertice della Repubblica Islamica. Il tentativo di licenziare Moslehi incontrò infatti la dura resistenza dell’ayatollah Khamenei, il quale ha bloccato l’ordine di licenziamento in un comunicato ufficiale riconfermando la sua fiducia al ministro dell’Intelligence e di fatto sconfessando Ahmadinejad. Il presidente, in segno di protesta nei confronti dell’ingerenza di Khamenei, non si presentò per ben due settimane al consiglio dei ministri, suscitando quasi una crisi istituzionale. Nel marzo 2012 il presidente Ahmadinejad ha dato vita ad un nuo-

vo ente governativo denominato il Consiglio di sorveglianza sulla Costituzione. Questo ente, costituito da 11 membri vicini al gruppo presidenziale, ha il compito di sorvegliare tutti gli organi statali affinché non violino la Costituzione iraniana. Inoltre, il Consiglio deve riferire i propri rapporti direttamente alla figura del presidente che lo coordina personalmente. Ahmadinejad ha già firmato le nomine degli 11 membri, tutti vicini al suo gruppo politico. Le funzioni di questo nuovo ente sono simili a quello del Consiglio dei Guardiani che infatti ha già espresso il proprio parere negativo sull’istituzione di questo nuovo organo governativo, definendolo «anti-costituzionale». La creazione del Consiglio di sorveglianza sulla Costituzione, vicino al presidente, in contrapposizione al Consiglio dei Guardiani, sostenitore invece della Guida Suprema, rientra sempre nel quadro dello scontro interno al vertice iraniano.

Le contromisure di Khamenei La proposta di impeachment contro Ahmadinejad. In Parlamento: un gruppo di deputati filo-conservatori, vicini a Khamenei, ha presentato, pochi mesi fa, una proposta di impeachment contro Ahmadinejad, ritenendo che il presidente non abbia adempito, in modo soddisfacente, alle proprie funzioni istituzionali, trascurando il piano nazionale per lo sviluppo economico del paese e accentrando, in modo smisurato, il potere politico sulla sua persona. La richiesta di impeachment, al momento ferma in Parlamento, funge da elemento di pressione e di ricatto da parte dello stesso parlamento sulla presidenza Ahmadinejad. Va sottolineato che al momento la maggioranza parlamentare è sostenitrice della linea di Khamenei. Proposta di abolizione della presidenza: la Guida Suprema, alcuni mesi fa, in un discorso politicamente rilevante, ha avanzato l’ipotesi di una revisione costituzionale finalizzata all’eliminazione della carica di presidente della repubblica, sostituendola con la carica del primo ministro. Tale affermazione è stata interpretata, da diversi esperti, come 59


Risk un chiaro affronto da parte della Guida nei confronti del presidente. L’interrogazione del presidente: le tensioni tra il Parlamento e il governo continuano ad aumentare. L’attuale maggioranza parlamentare, in quanto filo-conservatrice e vicina alla Guida Suprema, è diventata, ormai da oltre un anno, molto critica nei confronti dell’esecutivo del presidente Ahmadinejad che è stato convocato, alcune settimane fa dal Majles iraniano per rispondere ad una lunga interrogazione parlamentare. Nell’ultimo anno la maggioranza parlamentare ha minacciato, diverse volte, di ricorrere all’impeachment del presi-

Il braccio destro e consuocero del presidente, Esfandiar Rahim Mashai, è una figura chiave del fronte ahmadinejadiano. E attualmente è il capo ufficio della presidenza della Repubblica Islamica, e ormai da alcuni anni ha dato vita ad una politica filo-nazionalista, sfidando palesemente il potere religioso di Khamenei

dente stesso o di alcuni suoi ministri chiave come quelli dell’Economia e del Lavoro. Oltre a questi episodi significativi, avvenuti, dal 2010, tra i due fronti antagonisti, lo scontro è passato anche al piano mediatico. Il fronte Khameneista, avvalendosi della magistratura come proprio strumento politico, ha oscurato una decina di siti d’informazione vicini al presidente quali Hafte Sobh, Tamashanews e Yekshanbe e Kianpress. Inoltre il direttore generale dell’agenzia di stampa governativa Irna, Ali Akbar Javanfekr, uomo vicino al presidente, è stato condannato dal tribunale della Rivoluzione di Teheran a sei mesi di reclusione, suscitando l’ira di Ahmadinejad. Javanfekr è stato ri60

conosciuto colpevole di aver fatto propaganda contro la repubblica islamica. A tal proposito, la polizia giudiziaria vicina a Khamenei, alcuni mesi fa ha fatto irruzione nella sede centrale del giornale di Javanfekr, arrestando circa 19 giornalisti e ammanettando lo stesso direttore. In quell’occasione, Ahmadienjad è dovuto interventire in prima persona per far liberare il direttore e i giornalisti stessi. Si nota dunque che lo scontro al vertice iraniano è veramente serio e molto profondo e rischia di segnare il futuro della stessa Repubblica Islamica. Infatti l’esito delle ultime elezioni parlamentari di marzo si rivela fondamentale per comprendere quali delle due fazioni detiene al momento più potere. Le proiezioni dei risultati delle elezioni, ancora in corso, danno per favorito lo schieramento di Khamenei. Tale vittoria fortificherebbe ulteriormente la Guida Suprema, mettendo in difficoltà il presidente nell’ultimo anno di governo. Nel giugno 2013 infatti il suo mandato finisce e, secondo l’attuale costituzione iraniana che limita a due volte l’incarico presidenziale in capo alla stessa persona, non potrà più ricandidarsi. A questo punto il fronte ahmadienjadiano avrebbe almeno tre possibili scenari da affrontare. Il fronte Khameneista, come peraltro è già riuscito a fare contro gli ex presidenti Ali Akbar Hashemi Rafsanjani e Seyyed Mohammad Khatami, riesce a scalzare una volta per tutte il gruppo presidenziale. Il fronte presidenziale non si ferma e tenta di recuperare la sconfitta elettorale, puntando a riguadagnare consensi e alleati, sia sul piano economico-finanziario sia su quello politico-sociale, per poter presentare un suo candidato forte alle prossime elezioni presidenziali e mantenere la propria influenza nell’esecutivo. Personalità quali Esfandiar Rahim Mashai, Hassan Mousavi e Hamid Baqai potrebbero essere i candidati del presidente uscente nel 2013, sempre che la Guida suprema nel frattempo non modifichi la Costituzione. È possibile però contemplare uno scenario più radicale. Ahmadinejad, consapevole del fatto che la sua posizione è seriamente minacciata dai khame-


scenari neisti e disarmato sotto il profilo istituzionale dalla sconfitta elettorale e dalla conseguente posizione minoritaria in Parlamento, potrebbe tentare un vero e proprio colpo di stato. Questa ipotesi, che potrebbe sembrare quasi surreale, secondo gli studi e le analisi di questi anni non è invece da escludere. Tuttavia pare evidente che, salvo situazioni straordinarie, il fronte khameneista al momento sembra riuscire ad esercitare il proprio potere su una buona parte dell’ormai frammentata Repubblica Islamica. Questo fatto ha portato anche le forze occidentali a puntare, nel quadro dei colloqui, in corso, sul nucleare iraniano e sulla crisi siriana, sui khameneisti al fine di raggiungere un compromesso con l’Iran. Così pare che i vertici diplomatici degli Stati Uniti e della Gran Bretagna non vedano ancora utile aprire un canale, magari sotterraneo, di relazioni con il gruppo presidenziale, prediligendo un rapporto con gli uomini vicini alla Guida. Questo fatto si è ulteriormente evidenziato, nelle ultime settimane, con le timide aperture del presidente Barack Obama, tramite il premier Turco Tayyip Erdogan, in qualità di mediatore, nei confronti dell’ayatollah Khamenei. L’amministrazione statunitense infatti – secondo alcune notizie ancora non confermate – avrebbe offerto una possibilità di accordo all’Iran, qualora la Repubblica Islamica si decidesse, in modo trasparente, a garantire che la proliferazione nucleare persegue esclusivamente scopi pacifici. La risposta di Teheran è stata positiva, manifestandosi nell’accettare di presentarsi ai colloqui del 14 aprile a Istanbul con il gruppo 5+1 nel corso dei quali i vertici iraniani hanno mostrato apertura e disponibilità per risolvere il caso nucleare. Lady Ashton, rappresentante della politica estera Ue, infatti ha valutato l’esito di questi primi colloqui «positivo», annunciando che vi sarà un secondo incontro, nel prossimo futuro, a Baghdad. Così pare che le forze occidentali, al momento, abbiano deciso di puntare sul fronte khameneista, mettendo in secondo piano una possibile apertura alla squadra presidenziale. Perché l’occidente punta su un

recupero di rapporti con il fronte ultraconservatore vicino a Khamenei? È presumibile che l’amministrazione statunitense, oltre a voler, in qualche modo, fermare un possibile attacco preventivo israeliano contro Teheran, cerchi di dialogare con il fronte khameneista, allo scopo di guadagnarsi l’appoggio iraniano per il regime change nella Siria di Bashar Assad, alleato principale dell’Iran nella regione mediorientale. Se questa ipotesi fosse veritiera, allora significherebbe che gli Stati Uniti, insieme agli alleati occidentali, punterebbero a un cambio di sistema politico in Siria per poi valutare il da farsi nei confronti di Teheran. Una tale scelta, però, significherebbe anche voler tenere in vita la Repubblica Islamica, evitando appunto un regime change in Iran. In altri termini una ipotetica apertura delle forze occidentali al fronte khameneista, potrebbe rafforzare il blocco filo-conservatore nella Repubblica Islamica, provocando così un aumento delle pressioni esercitate nei confronti della società civile persiana e contribuendo a emarginare, una volte per tutte, il fronte nazionalista del presidente Ahmadinejad. Secondo questa analisi, una tale strategia, da parte delle forze occidentali, risulterebbe controproducente sia per l’evoluzione politica interna iraniana sia per gli interessi futuri geopolitici occidentali nell’area mediorientale. L’analisi che segue, prendendo in esame la società civile iraniana, da un lato, e ognuno dei paesi potenzialmente interessati, dall’altro, illustra la fondatezza di tale tesi.

La società civile iraniana: l’Iran

sta progressivamente assistendo a un epocale mutamento generazionale che vede in prima linea una società civile giovane e vitale pronta a chiedere un profondo rinnovamento del paese. Al momento circa trentacinque milioni di Iraniani sono sotto i trentacinque anni e costituiscono un potenziale enorme per il futuro dell’Iran; sono giovani che in diverse occasioni – basti pensare al 1997 con le elezioni del riformista Seyyed Mohammad Khatami, e al 2009 con la nascita del «Movimento verde» – hanno dato pro61


Risk

Per la Russia di Vladimir Putin un Iran emarginato è fonte di grande interesse soprattutto sul piano economico. Mosca continua a godere del privilegio di essere il principale esportatore di gas nel mondo, in particolare verso l’Europa. L’Iran, in qualità di secondo esportatore, avrebbe le potenzialità per diventare un temibile rivale nel campo energetico va della loro forza politica e della loro volontà di cambiamento. Si tratta però di un movimento di protesta progressista e non violento che rivendica, prima di tutto, il rispetto delle proprie libertà personali e la separazione della religione dalla politica. Sono ormai anni che la nuova generazione in Iran si sta distanziando sempre di più dai valori tradizionali della rivoluzione islamica del 1979 che hanno istituito la repubblica islamica. Si tratta appunto di una società civile molto vitale che, a seguito di trentatre anni di repubblica islamica, si trova ora a chiedere profondi cambiamenti politico-sociali ispirati da valori improntati alla laicità. La Repubblica popolare cinese: è il primo paese a cui conviene mantenere lo status quo in Iran. Infatti la Cina, ormai principale partner commerciale di Teheran, da tempo sostiene la Repubblica Islamica ed è molto vicina al fronte khameneista. Un Iran, emarginato dall’Occidente e temuto dai paesi vicini, offrirebbe a Pechino l’opportunità di importare, quasi in maniera esclusiva, le risorse energetiche iraniane, determinandone addirittura le condizioni di acquisto e il prezzo. La Russia di Vladimir Putin: per Mosca un Iran emarginato, come è attualmente, è fonte di grande inte62

resse soprattutto sul piano economico. La Russia continua a godere del privilegio di essere il principale esportatore di gas nel mondo, in particolare verso l’Europa. L’Iran, in qualità di secondo esportatore, avrebbe le potenzialità, considerata la sua ottimale posizione geografica, per diventare un temibile rivale nell’esportazione del gas e ciò non sarebbe ben visto da Mosca. Un Iran post-repubblica islamica, potenziale alleato dell’Occidente, metterebbe in crisi una buona parte del sistema economico russo, oltre che le sue influenze politiche nell’Asia Centrale. La Turchia di Erdogan: è dalla rivoluzione del 1979, con la caduta dello Shah di Persia e l’istituzione della Repubblica Islamica in Iran, che la Turchia gode del ruolo privilegiato di principale mediatore tra Occidente e Oriente. Questo suo ruolo, con la nuova ambiziosa politica di Erdogan, che punta a un recupero della potenza detenuta ai tempi dell’Impero Ottomano, diventa ancora più importante per Ankara. Pertanto, un nuovo Iran laico, post-repubblica islamica, diventerebbe un vero competitor per i turchi, in grado di togliergli il ruolo di principale mediatore nell’area eurasiatica. Le potenzialità politico-culturali e geo-strategiche di un nuovo Iran laico e alleato dell’Occidente sarebbero enormi e capaci di mettere in difficoltà diversi stati della regione mediorientale. L’Arabia Saudita: i sauditi, in piena crisi, sono consapevoli che l’ondata di cambiamento, in corso nel Medioriente e in Nord Africa, prima o poi li raggiungerà. A tal proposito stanno tentando di proiettare la crisi verso l’Iran, strumentalizzando il caso nucleare e il possibile pericolo rappresentato da Teheran. Poter additare il pericolo iraniano consente ai sauditi di eclissare l’attenzione della comunità internazionale dalle loro responsabilità nelle ripetute violazioni dei diritti umani. Pertanto anche all’Arabia saudita conviene il mantenimento dello status quo in Iran. Israele: per quanto riguarda l’amministrazione filoconservatrice di Tel-Aviv, paradossalmente, trova alimento proprio dalla presenza di un regime politico in Iran carattere islamico dal quale mettere per-


sistentemente in guardia il popolo israeliano. È da sottolinearsi quindi come un nuovo Israele, guidato dalla parte più progressista del paese, avrebbe tutto l’interesse per un regime change in Iran. Le potenzialità di un’eventuale alleanza tra i due paesi, se liberati dai falchi israeliani al governo e dalla Repubblica Islamica, sarebbero molto alte e potrebbero rappresentare, magari nei prossimi 15 anni, un nuovo asse mediorientale.

Considerando tutto ciò, pare evidente che, paradossalmente, i principali attori internazionali a cui conviene un cambio di regime in Iran sono proprio gli Stati Uniti e gli Europei. Infatti l’Iran di Khamenei è alleato dei cinesi, sostenuto dai russi e coadiuvato dai turchi, tutte potenze che, nel nuovo quadro geopolitico che si sta andando a delineare, di certo non sono dalla parte del blocco occidentale. L’Iran, in questo momento, a causa di oltre trent’anni d’autoritarismo religioso, ha sviluppato una nuova generazione con tendenze laiche e sarebbe, quindi, in grado di diventare, in un prossimo futuro, il primo stato laico in Medioriente. Questa trasformazione dell’Iran, potrebbe addirittura essere provvidenziale per i paesi occidentali in prospettiva di una sfida globale contro il gigante asiatico. Si conclude quindi rilevando che le forze occidentali, aprendo le porte al fronte khameneista, stanno forse commettendo un errore strategico, invece di puntare sulla nuova generazione, le potenze occidentali, nel breve periodo, al fine di dirimere le presenti controversie internazionali con l’Iran si rapportano principalmente con il più conservatore fronte khameneista, tralasciando, con errore strategico, e con mancanza di lungimiranza, sia la parte più laica, vicina al fronte presidenziale, sia la parte più giovane della società civile, sempre più portata a posizioni laiche e democratiche, forze queste che se convenientemente appoggiate, in grado di determinare, in un prossimo futuro, quel nuovo Iran, post-islamico, in grado di rappresentare un inaspettato alleato per l’Occidente.


lo scacchiere

Europa /ankara chiama bruxelles:

la nato in Siria?

L’ipotesi di Erdogan di appellarsi all’articolo 5 e la crisi di Damasco DI ALESSANDRO MARRONE

a crisi in Siria è costantemente peggiorata negli ultimi mesi, ma un intervento Nato rimane improbabile nonostante le preoccupazioni turche per la sicurezza dei propri confini. La durissima repressione messa in atto dal regime di Bashar Al-Assad si scontra ormai da un anno con una tenace opposizione armata. Le forze militari governative, secondo i rapporti dell’Onu e di altre organizzazioni internazionali, hanno fatto quasi 10mila vittime tra la popolazione siriana, mente il Free syrian army, braccio armato dell’opposizione a guida sunnita, ha intensificato gli attacchi contro obiettivi governativi. La mediazione sostenuta da Nazioni unite e Lega araba, e condotta da Kofi Annan, non ha portato fino a adesso a risultati significativi. Finora i paesi europei e gli Stati Uniti hanno tenuto nei confronti della Siria un approccio radicalmente differente da quello adottato da Francia e Gran Bretagna nei confronti della Libia, sebbene le vittime civili della repressione siriana siano decisamente più numerose di quelle imputate alle forze di Gheddafi alla vigilia dell’intervento internazionale in Libia – intere città in Siria sono da mesi oggetto di bombardamenti aerei e navali e battute dai carri armati dell’esercito. La cosiddetta Responsibility to protect evocata per la Libia non sembra essere una priorità nel caso – ben più giustificato – della Siria. Il

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contesto geopolitico siriano è ovviamente differente da quello libico. Tra le differenze due in particolare pesano al riguardo: la posizione geografica della Siria, incastrata in uno scacchiere delicatissimo che comprende Israele, Libano, Iraq, Giordania e, sebbene non confinino direttamente con la Siria, Iran e Arabia Saudita; l’opposizione finora manifestata da Russia e Cina in seno al Consiglio di sicurezza Onu riguardo ad un intervento militare coercitivo della comunità internazionale contro il regime siriano. La Risoluzione “umanitaria” approvata all’unanimità dall’Onu il 21 aprile punta a inviare per 90 giorni circa 300 osservatori disarmati con l’obiettivo di monitorare la cessazione delle violenze, permettere l’afflusso di aiuti umanitari, e favorire l’inizio di un negoziato tra il regime alawita e le opposizioni. La Ue finora si è limitata alla condanna politico-diplomatica della repressione, e all’adozione progressiva del consueto set di sanzioni a disposizione dell’Ue: congelamento di beni e asset di entità siriane soggetti alla legge dei paesi membri dell’Unione; divieto di ingresso nel territorio dell’Ue per esponenti del regime alawita; embargo all’esportazione verso la Siria di materiali utilizzabili per la repressione interna e cessazione delle importazioni energetiche in Europa dal paese mediorientale. In ambito Nato, una delle voci che si è levata con più forza rispetto alla crisi siriana è stata quella della Turchia. Il primo ministro turco è stato protagonista di un intenso tour diplomatico tra Mosca, Pechino e Teheran, volto


scacchiere

ad attenuare le resistenze dei principali paesi contrari ad una maggiore pressione internazionale nei confronti della Siria. Per la Turchia la crisi siriana rappresenta una minaccia alla sicurezza nazionale, in particolare dei confini turchi. Dall’inizio della crisi, oltre 25mila rifugiati siriani hanno trovato ospitalità in campi profughi in Turchia. Il governo turco è passato dal precedente appoggio al regime di Assad – iniziato con la svolta degli Accordi di Adana del 1998 – ad un sostegno, più o meno esplicito, all’opposizione siriana. Le forze armate della Siria dal canto loro hanno iniziato incursioni nei campi profughi in Turchia sospettati di fornire rifugio e supporto logistico all’opposizione siriana. Ciò a sua volta ha spinto Erdogan a prospettare l’eventualità di richiedere alla Nato assistenza per il monitoraggio e la protezione dei confini turchi, anche attraverso l’invocazione da parte di Ankara dell’Art. 5 sulla difesa collettiva dei paesi membri dell’Alleanza. Una simile operazione Nato è già avvenuta in Turchia, ma non in connessione con l’Art. 5. Infatti la prima operazione nella storia dell’Alleanza atlantica, precedente anche a quelle nei Balcani, è stata il dispiegamento nell’agosto del 1990 degli Awacs – gli Airborne early warning aircraft della Nato – nella base turca di Konya per monitorare le attività irachene in seguito all’invasione del Kuwait. Pochi mesi dopo la Nato ha posizionato stabilmente in Turchia alcune capacità aeree – incluse quelle di difesa aerea – del Comando alleato europeo al fine di scoraggiare una eventuale azione aggressiva da parte dell’Iraq, sempre nell’ambito della operazione Anchor Guard. Oggi una simile operazione militare avverrebbe in un contesto radicalmente differente dal 1990: diversa è posizione della comunità internazionale, non unita nei confronti della Siria come lo fu all’epoca rispetto all’Iraq; diversa è la Turchia, dove un governo islamista da più di un decennio bilancia la lealtà transatlantica con una rinnovata attenzione per il Medioriente; diversa è la Nato, che negli

ultimi due decenni ha rotto il tabù delle operazioni «fuori area» ed è oggi pronta – ma non incline – ad agire anche in paesi come la Libia e l’Afghanistan. Visto il peso della Turchia su dossier Nato cruciali, quali ad esempio il programma di difesa missilistica che da anni è nell’agenda Alleata, una richiesta turca d’assistenza Nato per la protezione di propri confini potrebbe difficilmente essere ignorata dagli altri paesi membri. Tuttavia è difficile che la Turchia si spinga oltre: la posizione recentemente espressa dal ministro degli Esteri turco Davutoglu contempla da un lato il sostegno per la possibilità della Nato di agire fuori area, e l’auspicio che l’Alleanza – così come altre organizzazioni internazionali – sostenga politicamente una transizione pacifica e democratica nei paesi coinvolti nell’Arab Spring. Ma al tempo stesso il governo turco è ben conscio non solo dei vincoli e dei focolai di crisi regionali, ma anche della percezione non positiva del Patto atlantico in Medioriente e dell’impatto negativo di un intervento alleato in Siria sui suddetti focolai e nell’opinione pubblica araba. In questo senso, l’intervento in Libia non rappresenta un successo pieno per l’Alleanza, in quanto non è stato particolarmente apprezzato dall’opinione pubblica araba – vedasi le accuse egiziane in merito alle vittime civili dei bombardamenti alleati – e soprattutto la situazione post-intervento in Libia è ben lontana dall’essersi stabilizzata. Anche per questo non c’è volontà politica tra i paesi Nato di intraprendere un nuovo, costoso, intervento nel Vaso di Pandora siriano, dopo quello faticosamente condotto nel Vaso di Pandora libico – per di più vista la mancanza di un mandato Onu a causa del veto russo-cinese. In ogni caso, la crisi siriana rischia di rimanere un elemento permanente di instabilità e di insicurezza, non solo per la Turchia ma anche per lo scacchiere europeo. 65


Risk

Americhe/obama e il change sudamericano Al vertice di Cartagena i nodi Cuba, droga e Malvinas DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

l 14 e 15 aprile la città di Cartagena in Colombia ha ospitato il sesto vertice dei presidenti delle Americhe, termometro mediatico dei rapporti tra i governi latinoamericani e gli Stati Uniti. Come nel 2009, anche questa volta tutte le attenzioni erano rivolte al presidente Barack Obama, chiamato a pronunciarsi su tre questioni politicamente sensibili: un cambio nelle politiche di contrasto al narcotraffico; la ri-ammissione di Cuba nella comunità continentale; la richiesta argentina di sostegno alla sua posizione sulle Falklands/ Malvinas. Sulle droghe, Obama ha riconosciuto che è tempo di esplorare altre ipotesi al di là del semplice contrasto alla produzione e al traffico di stupefacenti. Il narcotraffico muove un giro d’affari di 49 miliardi di euro l’anno, e il 95 per cento della droga consumata negli Usa passa dal Messico e dai paesi centro-americani, con una scia di violenza che non conosce frontiere. Il presidente guatemalteco Otto Pérez Molina si è spinto a suggerire la regolarizzazione non solo del consumo ma anche del traffico di droga. Obama ha risposto che «la legalizzazione non è la soluzione», aggiungendo però che è legittimo aprire la discussione sulla depenalizzazione degli stupefacenti. È un primo passo, che riconosce che è il mercato statunitense a generare la domanda per la produzione e il traffico di droga. Di più Obama non poteva concedere, per non rischiare di perdere voti alle elezioni di novembre. Analogo discorso vale per la questione cubana, che continua a restare al centro della diplomazia continentale. Vi è un ampio consenso per invitare il paese caraibico a partecipare al prossimo summit, ma permane il veto statunitense al riguardo. I presidenti di Ecuador e Nicaragua hanno disertato l’incontro di Cartagena solidarizzando con Cuba, in protesta con gli Usa. Hugo Chávez ha dato forfait ufficialmente per motivi di salute. Dall’Havana non arrivano segnali di cambiamento. L’embargo statunitense favorisce la sopravvivenza

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del regime castrista più di quanto non ne acceleri la transizione in senso democratico, ma i voti della comunità cubana in Florida sono troppo importanti. Ancora una volta, il dossier Cuba resta quindi sulla scrivania dell’Ufficio Ovale ad attendere il prossimo inquilino della Casa Bianca. Il tema delle Falklands/Malvinas interessava solamente l’Argentina. Il presidente di casa, Juan Manuel Santos, ha evitato di menzionare l’argomento nella sua allocuzione centrale, e la dichiarazione finale si limita a poco più di un timido augurio: «(…) the vast majority of countries called for a peaceful settlement to this dispute». I governi latinoamericani hanno manifestato una solidarietà a Buenos Aires che è più formale che sostanziale, mentre Canada e Usa hanno preso le distanze dal tema, per non dover affermare in maniera positiva che in caso di scelta loro non possono che stare dalla parte di Londra. In generale, il vertice di Cartagena ha finito per confermare la perdita di rilevanza relativa degli Stati Uniti in America latina, la crescente influenza del Brasile e il ruolo della Cina come partner commerciale e finanziario. Il blocco dei paesi «bolivariani» si sta indebolendo con la progressiva uscita di scena del presidente venezuelano, mentre il governo colombiano di centro-destra ha approfittato dell’occasione per proporsi come cerniera tra la regione e l’alleato statunitense, ammorbidendo le posizione troppo filo-americane dell’ex presidente Uribe. Ciò detto, dello scopo con cui si organizzò il primo incontro nel 1994 a Miami – promuovere la democrazia e il libero commercio – oggi non resta molto. La regione presenta ancora molte divisioni, la retorica prevale sull’efficacia degli strumenti d’integrazione, e la capacità di affermare alcune istanze nei confronti degli Stati Uniti dipende più dalla perdita di influenza di questi ultimi e dal parallelo aumento del peso di Brasile e Messico, che da un effettivo coordinamento politico a livello continentale.


Africa / l’azzardo di juba

scacchiere

Il cambio di marcia del Sud Sudan e la guerra del petrolio DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

l complesso rapporto tra Sudan e Sud Sudan sembra essere degenerato nell’ultimo mese nell’area di confine del South Kordofan. L’occupazione di Heglig da parte delle forze armate del governo di Juba (Sud Sudan) il 10 aprile ha provocato la rapida reazione dell’esecutivo di Khartoum: da un lato il presidente sudanese al Bashir ha iniziato una guerra retorica, additando la violazione del diritto internazionale da parte del neonato stato confinante; dall’altro il parlamento del Sudan ha adottato una risoluzione in cui ha etichettato come «nemico il governo di Juba». Numerosi esperti hanno notato che, pur essendo Bashir poco amato e molto discusso all’interno dello stato per il ferreo regime di controllo imposto sul dissenso, il popolo ha risposto compatto al suo richiamo, preoccupato di difendere il territorio nazionale. La presa di Heglig (nonostante sia durata 10 giorni) ha avuto l’effetto di coagulare le forze sudanesi contro la stessa entità esterna con cui si era combattuto nell’ultimo cinquantennio a fasi alterne. Le questioni rimaste in sospeso dalla firma degli Accordi di Pace tra le due parti, nel gennaio 2005 (al momento hanno attratto un finanziamento limitato da parte di soggetti stranieri; gli aiuti ottenuti dall’esterno per lo sviluppo di aree martoriate da decenni di guerra si sono dimostrati insufficienti; il sostegno avuto dal Splm negli anni della lotta di John Garang sta lentamente scemando a causa di una corruzione devastante all’interno del gruppo alla guida del Sud Sudan. L’interesse mostrato da Pechino dal luglio 2011 ad oggi ed un inatteso cambiamento della sua linea diplomatica possono aver indotto la dirigenza di Juba ad optare per una mossa avventata, ma che potrebbe portare a breve i suoi frutti. La tempistica scelta è stata guidata da un solo pensiero: «Chiunque voglia acquistare il petrolio sud sudanese dovrà per forza mediare e fare pressioni su Khartoum, non potrà certamente rimanere spettatore inerte… È giunto il momento di ottenere qualcosa di più oltre all’atteggiamento pietoso internazionale». Quanto ac-

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caduto negli ultimi giorni potrebbe soddisfare tale logica. Certamente le critiche sono state forti e numerose, ma il tema sud sudanese è tornato alla ribalta: oltre agli schieramenti inevitabilmente formatisi (la Lega Araba ha condannato l’aggressione da parte del Sud, l’Iran è andato oltre assicurando il pieno supporto al Sudan; l’Uganda si è schierato invece con il Sud Sudan), si è parlato di una mediazione egiziana o etiopica oppure ancora kenyota per avvicinare i due protagonisti della disputa, le Nazioni Unite hanno fissato una road map, l’Unione Africana ha dato 3 mesi per trovare un accordo altrimenti ha promesso «misure appropriate». Più interessante e pragmatico l’atteggiamento di Cina e Stati Uniti: il presidente cinese Hu Jintao ha richiamato alla calma e alla moderazione i due protagonisti, ben consapevole di dover fare qualcosa se vuole tutelare gli interessi economico-industriali del suo Paese e se vuole continuare ad acquistare petrolio dal Sudan e dal Sud Sudan; il presidente americano Barack Obama ha ricordato che c’è una possibilità di scelta se si vuole impedire di essere trascinati di nuovo in una guerra devastante per le generazioni future, conscio della necessità di dover evitare l’apertura di un fronte nella regione centro-orientale africana, in un’area grigia dove affiliati di Al Qaeda potrebbero muoversi con grande facilità e stringere alleanze pericolose dalla Somalia (con Al Shabab) alla Nigeria (con Boko Haram). Certo, Mosca non si è pronunciata in modo eclatante ma anche in questo caso «il dio petrolio» potrebbe fissare linee guida inattese. Da quanto detto, si evince che – tutto sommato – la scelta del governo di Juba di occupare Heglig, seppur temeraria e machiavellica, risponde ad una logica ben precisa in cui sono stati valutati attentamente pro e contro dell’operazione. Agire, in questo particolare momento storico, comporterà di certo la morte di qualche migliaio di persone sulle linee di confine, ma potrebbe –soprattutto- portare buoni frutti per l’intero paese nel prossimo futuro. 67


La storia

Li romani in Russia, una disfatta in versi di Virgilio Ilari

a naja la feci, quarant’anni fa, nell’82° fanteria «Torino», che durante la guerra fredda presidiava la famosa «soglia di Gorizia». Era uno dei pochi reggimenti che all’epoca portavano, oltre a fregio, mostrine e scudetto, pure un distintivo speciale. Il nostro era, sopra il taschino sinistro della giubba, un ovale metallico dorato col toro rampante. Non in ricordo della sciagura aerea di Superga in cui il 4 maggio 1949 era perito il Grande Torino, ma della medaglia d’oro al valor militare alla Bandiera concessa per la campagna di Russia. Il nostro motto era un pio «Credo e vinco», ma lessi poi che durante la guerra quello informale era «porta la vacca al toro». All’epoca mia di romani eravamo pochi, e il mio arrivo fu accolto dal maresciallo di maggiorità come una sciagura, per la fama di imboscati lavativi (ricordate Vittorio Gassman

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ne La grande guerra? «l’italiano in fanteria, il romano in fureria»). Prima della guerra, invece, la Torino era proprio la Divisione dei romani, perché le sedi di pace erano Roma e Civitavecchia. Nel giugno del 1940, durante la breve battaglia delle Alpi, rimase tranquilla in Liguria e nell’aprile 1941 avanzò in Slovenia senza incontrare resistenza. Rientrata a Roma in giugno, fu destinata al Corpo di spedizione in Russia (CsiR): era infatti ben adatta alle steppe essendo classificata «autotrasportabile»: e lo sarebbe pure stata se invece dei muli avesse avuto i camion. Considerate le notizie sull’avanzata tedesca era un’altra passeggiata, ma ad ogni buon conto i generosi romani che potevano cedettero volentieri il biglietto fortunato. Uno fu Alberto Sordi, trasferito grazie al padre musicista alla banda presidiaria. Lo raccontò lui stesso, in un talk show televisivo del 1991, aggiungendo di aver salutato con la Marcia Reale i

Elia Marcelli


Il cantautore Simone Cristicchi che ha portato in scena “Li Romani in Russia”, con testi di Elia Marcelli e illustrazioni di Niccolò Storai

battaglioni che il 18 luglio 1941 partivano dalla Sta- ta sulla spallina in Tutti a casa e ne I due Nemici. Per zione Tiburtina: «Non ho mai potuto dimenticare – contrappasso, pure Marcelli, già nel primo dopoguerdisse nella suspence del pubblico presente nello stu- ra cominciò ad occuparsi di cinema: sottopose infatdio televisivo – gli occhi di quelli che stavano sulla ti a Vittorio De Sica vari soggetti e sceneggiature di tradotta quando si accorsero che loro partivano e noi taglio neorealista. Già nel 1943, appena tornato a Rorestavamo. Che brutta cosa, la guerra! Mai più la ma, aveva fondato con altri intellettuali reduci di guerguerra, mai più!». ra la Lega pacifista italiana. Fallita l’elezione alla CoLo pensava pure, nel gennaio del ‘43, Elia Marcelli, stituente nella lista romana della Lpi, nel 1947, insul treno ospedale che lo rimpatriava per congela- coraggiato da gruppi pacifisti americani, Marcelli mento, precedendo i resti deltentò di lanciare un periodico la Torino che furono poi man(Guerra alla guerra!) e redasElia Marcelli, nel 1943 dati a Gorizia. Di estrazione se il manifesto di un’Internarimpatriava contadina e oriundo di Fabrizionale pacifista. Intanto orgaper congelamento, ca nel Viterbese, ma nato a nizzava campi di lavoro in precedendo i resti Roma nel 1915 e laureato con Abruzzo per la ricostruzione della Divisione Torino. Natalino Sapegno nel 1939, delle aree bombardate e, abNel dopoguerra divenne aveva compiuto l’ascesa sobandonata per protesta la catsceneggiatore, pacifista, ciale che allora veniva certifitedra di ruolo in un liceo clascata col grado di sottotenente documentarista e tradusse sico di Roma, fondava con la di complemento. Semplice moglie la prima scuola media in romanesco fante ne La Grande Guerra, di Fabrica, sperimentando megli orrori della guerra pure Albertone ebbe la stellettodi e contenuti didattici alter69


Risk nativi. Insomma, una serie di generosi fiaschi, culminata nel 1949 con l’emigrazione in Venezuela. Il rischio fu premiato, perché fu proprio Marcelli a dar inizio alla produzione cinematografica venezuelana con due cortometraggi su Simon Bolìvar e sulle bidonville di Caracas e una serie di documentari sulla foresta amazzonica astutamente finanziati dalla locale filiale della Shell. Il lungometraggio Settimo parallelo (1962) sulle condizioni di vita e sul genocidio degli indios fu distribuito anche in Italia e partecipò a dieci festival internazionali. In seguito anche la Rai gli commissionò documentari sulle regioni italiane: membro dell’Accademia Tiberina dal 1976, Marcelli ritornò definitivamente in Italia nei primi anni Ottanta, e morì a Roma nel 1998, lasciando un ricchissimo archivio letterario alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Nel 1989 aveva ricevuto la tessera onoraria dell’Anpi per Li Romani in Russia, una rievocazione della sua esperienza militare pubblicata nel 1988 da Bulzoni con prefazione di Tullio De Mauro e riedita nel 2008 da Il Cubo a cura di Marcello Teodonio. Nella vasta memorialistica italiana sulla ritirata di Russia (in cui gli alpini fanno la parte del leone) ci sono successi letterari come Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern o La strada del Davai di Nuto Revelli, e saggi penetranti come Con l’Armata italiana in Russia di Giusto Tolloy (Torino, de Silva, 1947). C’è perfino un diario “pupazzettato” di disegni umoristici (Un anno sul fronte russo, di Vittorio Luoni, capitano della Divisione Sforzesca) pubblicato nel 1990 dalla Rivista Militare (quella mitica del geniale e intrepido amico Pier Giorgio Frantosi). Le memorie di Marcelli sono però le uniche scritte in romanesco e in ottava rima toscana, il metro usuale della lirica popolare («strambotto» e «rispetto»). L’idea gli sarà certo venuta dal Meo Patacca ovvero Roma in feste ne i Trionfi di Vienna (1695) di Giuseppe Berneri (1637-1701): e davvero sarebbe romano aceto aver reso una tragedia sul calco di una farsa. Pure il poema (in quartine francesi a rima baciata) sull’Arte della guerra scritto dal «Philosophe de Sans-Souci» (Federico il Grande) fu tra70

dotto in ottava italiana (nel 1761, a Napoli, dal gesuita Carlo Maria Sanseverino). Del resto tra Cinque e Seicento il poema in ottava era considerato, in Italia, proprio lo stile più adatto alla narrazione bellica: una raccolta di Guerre in ottava rima (d’Italia e contro i Turchi), curata da Rolando Bussi e altri autori, in quattro volumi e tremila pagine, fu pubblicata giusto nel 1988 a Ferrara (Panini). Meo Patacca è in 12 canti e 1.245 stanze, Li Romani in Russia in 11 e 1.115, ossia 8.920 endecasillabi: i primi sei di ciascuna stanza a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata. Il romanesco, tutto Baffoni e Baffetti, non è purtroppo quello di Gioacchino Belli, ma piuttosto di Maurizio Ferrara, sentenzioso e didascalico. Il poema, corredato pure da un breve saggio e da una bibliografia, si diffonde infatti non poco in ingenue banalità politico-militari e tirate moralistiche sulla nemesi degli invasori, l’umanità del popolo e degli stessi soldati russi, la criminale viltà dei tedeschi traditori, i soprassalti d’orgoglio di qualche comandante italiano vanificati dal servilismo fascista, la truppa mandata al macello senz’armi e senza equipaggiamento. Insomma il tema della “guerra sbagliata” e dell’orgoglio nazionale opposto non all’eroico nemico ma al pravo alleato-padrone, già presente nelle memorie auto-assolutorie degli italiani che combatterono in Spagna dalla parte di Napoleone e che certo ricorrerà in quelle future dei reduci dalle attuali sconfitte americane. Notoriamente sono “fumino”, come dicono i toscani: eppure riuscii quasi a controllarmi leggendo in bozze Principe delle Nuvole di Gianni Riotta e ascoltando Gad Lerner vecitave vapito il bvano del nanevottolo savdo (il soldato Sanna) che, ululando «evva mmio il panne!», avvinghia e ammazza a testate un crucco malvagio colpevole di aver strappato dalle mani di un bambino greco la generosa pagnotta italiana (tratto da La guerra d’Albania di Giancarlo Fusco e ripreso da Mario Monicelli ne Le rose del deserto, il suo ultimo film del 2006). Per favore, cari ex-dirimpettai di barricata, scherzate coi Santi vostri e lasciate stare i Fanti miei! Oltre ad annunciare stan-


storia gate fiscali, le incursioni sessantottarde dei mireplicavano che i dispersi si erano rifatti una litesenti sugli spartiti militar-patriottici sovita migliore nel paradiso dei lavoratori, e no stecche miagolanti: come fu, tanto per a ciò dobbiamo il capitolo più struggente tornare alla ritirata di Russia, Italiani bradella trilogia d’amore tra Sofia Loren e va gente di Giuseppe De Sanctis, una coMarcello Mastroianni. Forse l’unico moproduzione italo-sovietica del 1965. do in cui chi non c’è stato può parlare di Bravi, certo: infatti, come notò sarcastiuna guerra senza dire scemenze e volca la Bbc il 1° novembre 1989, commigarità, è come ha fatto De Sica ne I giniamo ancora inflessibili ergastoli a norasoli (1970): cercarne cioè le tracce invantenni caporali crucchi esumati dagli teriori in chi è rimasto a casa ad aspetta«armadi della vergogna», senz’aver mai cere. Urta, lo scoop di Panorama (febbraio lebrato un solo processo per i crimini di guer1992) su un passo estrapolato da una lettera di ra dei nostri generali (olTogliatti da cui si pretentre che ai noti e boicottadeva di dimostrare che ti libri di Angelo Del Bol’ex-alpino della grande Fregio e mostrina della Divisione Torino in Russia ca rinvio a Santa Messa guerra fosse indifferente per i miei fucilati, diario di guerra, in Slovenia, del alle sofferenze degli alpini nei lager sovietici. Stride, cappellano dei granatieri Pietro Brignoli, pubblicato che negli atti di un convegno dell’Istituto storico delnel 1973). Alla fine perfino ai tedeschi, che invece i la Resistenza di Cuneo su Gl’italiani sul fronte rusloro criminali di guerra li hanno condannati a miglia- so (De Donato, Bari, 1982) solo sei pagine siano deia, è scappata la pazienza, e, proprio riguardo alla dicate alle condizioni dei prigionieri dentro e fuori campagna di Russia, ci hanno fatto una inconfutabi- dei lager contro ben 45 (e alcune pure enfatiche) che le chiamata di correo (Invasori, non vittime, di Tho- trattano dell’Alba, l’organo di propaganda collaboramas Schlemmer, Laterza 2009). Nulla, rispetto a quel zionista destinato ai prigionieri italiani. che provai due anni fa, nella sede dell’Anpi di Ro- Andrea, il compagno di liceo che tra le sue opere di ma, guardando in visione privata i filmati sovietici volontariato si occupa periodicamente di controllare sulla cattura degli italiani: non le ombre infagottate se me la cavo con la modernità, mi ha fatto l’anno che sfilavano gettando i fucili ai piedi del nemico; scorso un magnifico regalo, portandomi in un teatro ma la fraternizzazione tra i commissari politici sovie- della Garbatella a vedere il monologo teatrale che Sitici e i nostri stati maggiori, in perfetta tenuta da pas- mone Cristicchi, nipote di un compagno d’armi di Elia seggio con stivali lucidi e penne bianche di mezzo Marcelli, ha tratto dal poema del nonno. Tra le spemetro, e risate, e bicchierate nelle immacolate palaz- cialità di Andrea c’è pure di avere più sorelle di me: zine comando con tanto di aiole e stufe, e cumuli di e tramite Andrea il regalo lo debbo in definitiva a bagagli caricati dai mugik sulle automobili dei pri- Claudia, docente di russo a Roma Tre. Andrea mi avegionieri. Non attori, ma facce vere, straitaliane: del va già regalato l’edizione 2008 de Li Romani in Rusresto l’avevo già letto nel libro amarissimo di Tolloy. sia, ma era rimasto nella pila dei libri da leggere. Ed Il russo che aveva portato i filmati, sorrise sornione, è stato meglio, perché altrimenti non avrei forse prosenza capire perché, pallido e teso, lo ringraziassi del- vato quel groppo alla gola e quella morsa allo stomala mia vergogna. La differenza di settantamila unità co che la acuta selezione dei brani e la magnifica retra le perdite dell’Armir e i soli diecimila prigionie- citazione di Simone mi ha provocato. ri restituiti dai russi fu a lungo uno dei cavalli di bat- Mamma Juliana, che assisteva i feriti italiani «guartaglia della propaganda anticomunista. I comunisti danno er fijo suo su la parete», uccisa da un cecchi71


il quotidiano Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…

…questo lo fa solo liberal Tutti i giorni in edicola Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro • Annuale 130 euro


storia no russo mentre andava ad attingere acqua per gli assetati. Il colloquio con Gigetto, morente di cancrena: «Te la ricordi Via de l’Ombrellari, / co’ le loggette cariche de fiori ... / E le maschiette de li Coronari, / co’ le veste de tutti li colori; / e quella mora, co’ quell’occhi chiari, / che te chiamava Giggi er rubbacòri, / te la ricordi?», «Certo, - risponneva - / la sogno sempre ... quanto me piaceva!...». «Er Tenente strillava: ‘Stamo uniti! / Qui, dovemo aiutasse, tra romani! / Su, spignete ‘sta slitta de feriti! / Volete abbandonalli come cani?’ / Ma c’era chi ringhiava: ‘E che me frega! / Qui, oramai, chi vo Cristo se lo prega! (...) De là i feriti urlaveno ‘A zozzoni! / Fiji de troje! Nun ce abbandonate! (...) Antro che bestie! Peggio! Chi crollava / nun c’era cristo o dio che l’aiutasse! / tra quella turba che lo scavalcava, / seguitava co’ l’ugne a strascinasse, / piagneva, a mani giunte scongiurava, / finché vedeva er branco allontanasse, / e poi laggiù, lontano, s’addormiva, / e er ghiaccio de la steppa lo copriva». Dopo lo spettacolo siamo andati in pizzeria: allegra la tavolata, ma io pensavo col cuore pesante al mio incompiuto, mancato, fallito Beruf, officium, prepon, come cavolo si chiama. Che pensavo dovesse essere di collegare, mettere in contatto, tradurre, spiegare generazioni e “culture” che reciprocamente si ignorano, a volte pigramente combattendosi, agitando cioè durlindane nel vuoto dell’ignoranza e dell’ottusità. Ci ho provato e non so dove ho sbagliato. Volevo servire a qualcosa: da bambino pregavo: «usami!». Fatica sprecata, vita sprecata tra zucche vuote, musi di “tola”, ditini saccenti e muri supponenti. Ed è stato allora che ho odiato questo Marcelli. Che ha avuto tutte le fortune: di vivere da giovane un’esperienza memorabile; di colonizzare una cinematografia in statu nascenti; di trovare un postero che – se pure non l’ha capito (anzi, detto fra noi l’ha “cannato” alla grande), per lo meno ci ha provato. Porto il nome, e conservo la sciabola, di uno zio materno, sottotenente medico caduto sul fronte greco-albanese. Mia nonna, murata nel dolore, volle scrivere sulla lapide «concepì e visse la sua breve vita come dovere». Quindici anni fa uno dei miei tredici nipoti (allora

pittore di icone per la comunità di Sant’Egidio, ora direttore del Velino) lo restituì in effigie alla vita civile, taroccando la foto per sostituire l’uniforme con l’abito borghese. Fan e allievi miei, del resto, l’avrebbero addirittura collezionato, e sarebbe stato pure peggio. Ma non basta essere vecchi per capire ciò che sto scrivendo. Di coetanei e maggiori nessuno mi sovviene: i volti che mi figuro assentire, tristi e gravi, sono già tutti nell’Ade: Antonio, Filippo... toh guarda, tutti comunisti, sia pure tanto speciali e guerrieri da essere stati amici miei. «Suona il campanel, falce e martel...»: sento ancora la voce, dolcissima, della sessantottina ignota che lo cantava di notte sotto le finestre della mia camerata (davano sul giardino in cui da qualche anno, a maggio, si svolge il festival della Libreria Editrice Goriziana). Ah, Elia: che brutta fine hanno fatto i soldatini convinti dalla propaganda fascista che «er borscevismo è morto e sotterato; / ormai è finita pe’ li comunisti / la Russia è cotta! I nostri camerati / già l’hanno sfranta sotto i cari armati». Hai visto invece, Elia? Di partiti comunisti adesso ce ne abbiamo tre, di bandiere due (il Tricolore e l’azzurro stellato) e l’Italia sostiene da tre anni di averne appena centocinquanta. E poi c’è sempre la nostra Torino: all’epoca mia non serviva più a mandare i romani in Russia, ma a non far arrivare i Russi a Roma, e perciò era contratta a un solo reggimento. A piedi ci andavamo come voi, ma noi sulle mostrine giallo-azzurre portavamo il gladio alato, perché, se avessimo avuto gli aerei, saremmo stati aviotrasportabili; proprio come voi, se aveste avuto i camion, sareste stati autotrasportabili. E adesso? Tranquillo “cameragno”: non è più come all’epoca tua, quanno t’encazzavi: «senza contà che er CSIR cambiò testata / e passò tutto in mano a ‘sti fetenti! / e seminata tutta s’insalata / tra l’Ungari e i Romeni ‘sti majali / ce usarono pe’ truppe coloniali!». Daje, nonno, aoh, «ch’esiste ancora er Reggimento! / Certo è ridotto a mezzo battajone; / ma è tutto perzonale d’ardimento. / Metà so’ donne, e fanno ‘n figurone; / da Brindisi ce metteno ‘n momento / ‘gni vorta ch’o manneno ‘n missione. / Cianno ‘n dotazione», er sordato der futuro «/ e co’ l’americani, poi, annamo sur sicuro». 73


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ASCESA E DECLINO DEL REGNO BORBONICO DI NAPOLI E SICILIA di Giancristiano Desiderio

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è un’altra storia che gli italiani conoscono meno della storia d’Italia: è la storia degli Stati italiani preunitari. I più importanti erano cinque: il Regno di Sardegna, il LombardoVeneto in cui governavano gli austriaci, il Granducato di Toscana, lo Stato pontificio e il Regno di Napoli o delle Due Sicilie. Per come si realizzò lo Stato nazionale italiano e per la nascita della famosissima «questione meridionale» – e ancor prima per il brigantaggio post-unitario, che fu una vera e propria guerra civile – non poche polemiche si registrano, ieri e oggi, nella storiografia sul Regno di Napoli e il governo dei Borboni. Nei centocinquanta anni di unità nazionale, ora trascorsi, c’è sempre stato sottotraccia un disaccordo sulle reali condizioni del Mezzogiorno e i filo borbonici ieri e i neoborbonici oggi hanno provato ad accreditare l’idea di un Meridione borbonico migliore del Meridione italiano. Una polemica che proprio in occasione delle celebrazioni dei centocinquanta anni dell’Italia «una e indivisibile» si è di molto rinfocolata non solo per ricordare quanto, a volte, la “storiografia ufficiale” – la metto tra virgolette perché è cosa strana, come, del resto, quella ufficiosa o minore – ha dimenticato o taciuto o sottovalutato ma anche per ipotizzare un nuovo Mezzogiorno diviso dall’Italia (ricordo per tutti il libro di Pino Aprile: Terroni, edito da Piemme). Tuttavia, se la polemica storiografica può essere di stimolo alla ri-

GIANNI OLIVA Un Regno che è stato grande Mondadori pagine 277 • euro 20,00 La nascita della prima linea ferroviaria italiana; la costruzione a Caserta della «Versailles italiana» e a Napoli del teatro San Carlo, tempio della musica di Rossini; l’istituzione della prima cattedra universitaria di economia e commercio; le opere di intellettuali illuministi come Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri; le nuove scoperte negli scavi archeologici di Ercolano e Pompei. Sono solo alcuni aspetti del fervore economico e culturale che anima il Sud mentre al potere s’alternano cinque generazioni di Borboni. Sovrani cancellati dalla memoria insieme a un regno che è stato grande e subito dimenticato: una «storia negata» dal Risorgimento.

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Risk scoperta di argomenti e temi e memorie dimenticate o calpestate, in un secondo momento diventa di ostacolo alla conoscenza e all’approfondimento della storia. In fondo, la conoscenza seria ed equilibrata della storia degli stati italiani preunitari dovrebbe essere – è – utile prima di tutto alla conoscenza della storia d’Italia che seppur ha inizio con la nascita dello stato italiano (secondo l’insegnamento di Croce) è altrettanto vero che ha dietro di sé un cammino non ignorabile (secondo l’insegnamento di Volpe). La qual cosa rispetto al Regno di Napoli si traduce così: «I Borboni di Napoli e di Sicilia possono essere demonizzati o celebrati, ma non possono essere dimenticati, perché sono stati parte significativa della storia d’Europa e parte importante della storia d’Italia». Questa impostazione della storia dei «Borboni di Napoli e di Sicilia» è di Gianni Oliva che per Mondadori ha ricostruito la storia del Regno di Napoli borbonico con il libro Un Regno che è stato grande. L’autore, che non ha bisogno di presentazioni, ha sempre lavorato per lo più sul Novecento e suoi lavori importanti sono Foibe, Le tre Italie del 1943, Profughi, percorre tutto il periodo del regno borbonico dal 1734 al 1861, dall’ingresso di don Carlos a Napoli a Francesco II, un re troppo giovane e «inadeguato alla gravità del momento». Un percorso storico che Oliva affronta fornendo al lettore dovizia di particolari e notizie e informazioni, ma anche un’impostazione storiografica robusta che mette in luce soprattutto la novità del Regno del figlio di Filippo V ed Elisabetta Farnese: la riscoperta per il Sud di un’autonomia e di una monarchia propria per provare a lasciarsi alle spalle i viceré spagnoli, il potere dei baroni e i privilegi della Chiesa. Il progetto di «rinascita» del Mezzogiorno è quello tipico del dispotismo illuminato che tenta di limare le unghie del potere dei baroni nella province napoletane, di limitare gli abusi e le immunità del clero e dei vescovi, di riformare gli studi universitari, di risollevare il commercio, di ridefinire terre e proprietà per la nascita di quell’inesistente ceto medio e produttore che 76

è la vera differenza con l’Italia del Nord e di parte del Centro. Il dispotismo illuminato, però, incontra sulla sua strada due – diciamo così – ostacoli contro i quali andrà a cozzare: da una parte il 1799 e la Repubblica Partenopea, dall’altra il Risorgimento che è l’esatto opposto dell’assolutismo. Fino alla Rivoluzione francese – e ancor nei primi anni dopo il 1789 – a Napoli la regina Maria Carolina è ancora ben motivata a portare avanti i suoi progetti di riforma e ammodernamento del Regno. Le cose cambiano quando nel 1793 a Parigi è ghigliottinata Maria Antonietta. È in questo momento che si genera una frattura tra la monarchia e la borghesia colta napoletana, frattura che diventerà rottura aperta con la rivoluzione «senza popolo» (coma la definì Cuoco) prima e con la dura reazione e repressione borbonica poi che «taglierà la testa» ad un’intera generazione di intellettuali, riformisti, politici. Una volta passata la bufera e l’avventura napoleonica, il Regno di Napoli sembra riprendere un suo cammino con Ferdinando II e con un’intesa tra borghesia agraria e nascente borghesia industriale con il sovrano: nessuno chiede troppo all’altro, la monarchia non è messa in discussione, e ci si avvia verso una modernizzazione interna del Regno: mercato interno, protezione doganale, ferrovia, cantieri navali, bonifiche, fabbriche tessili e metal meccaniche. Dunque, qualcosa si muove: «Il Mezzogiorno fra il 1830 e il 1840 non è il paese immobile e arretrato descritto dalla storiografia liberale: molti problemi ereditati dal passato restano aperti, a partire dalla resistenza del baronaggio alla modernizzazione, ma nel complesso il regno dimostra di saper affrontare la fase di transizione che coinvolge tutta l’economia europea e non manca di proporre elementi di dinamismo». Ma il secondo ostacolo è in «agguato» e questa volta è anche più importante del Novantanove perché si inserisce nei moti rivoluzionari sia italiani sia europei: «Come il riformismo illuminato del secondo Settecento ha favorito lo sviluppo di una coscienza liberale, sfociata nell’esperienza della Repubblica Partenopea del


libreria 1799, così il sostegno alla modernizzazione da parte di Ferdinando II stimola una classe media sempre più consapevole delle proprie aspirazioni e sempre più compressa entro le maglie soffocanti dell’assolutismo: all’inizio del 1848 questa spinta al rinnovamento politico si trasforma in un movimento rivoluzionario, che prende le mosse da Palermo e presto si diffonde nelle regioni continentali, traendo forza dal clima generale di mobilitazione antiassolutista che attraversa l’Italia e l’Europa». Ferdinando II prima concede la costituzione e poi rea-

gisce e spara. Le vie di Napoli si riempiono di morti e ancora una volta le strade della monarchia e della borghesia si separano. Questa volta per sempre. Mentre a Torino la monarchia sabauda conserva la costituzione e diventa il punto di riferimento di chi crede nel Risorgimento e vuole l’Italia unita, a Napoli è l’inizio della fine con un decennio che è di fatto la conclusione di una Regno che chiudendosi nella repressione e nell’assolutismo si isola e rispetto al presente, rifiuta il futuro e rinnega il suo stesso passato.

MISTICA E TECNICA DEI KAMIKAZE ALLA CLOCHE Prevenire un altro undici settembre è possibile. Senza dimenticare che il fattore sorpresa è l’asso nella manica dei terroristi di Mario Arpino a da sé che il lettore che si accinge a leggere «Terrorismo aereo e prevenzione» abbia in mente le agghiaccianti immagini dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. L’evento che ci ha cambiato la vita, che ci ha reso un po’ meno liberi, che ha scosso la nostra fiducia – ma sopra tutto quella dei cittadini americani – nell’invulnerabilità degli Stati Uniti d’America. Proprio per questo qualcuno, aggirandosi tra i banchi e gli scaffali di una libreria, come tutti facciamo quando siamo in centro e abbiamo dieci minuti liberi, prima ancora che dal titolo sarà stato attratto dalla singolarità dell’illustrazione in prima di copertina. È stata una scelta indovinata dell’autore, Aldo Cagnoli, che già lascia intravedere lo svolgersi del tema. Si tratta di un’opera dell’aeropittore futurista Tullio Crali dal titolo di catalogo «Incuneandosi nell’abitato», ma più nota come «In tuffo sulla città», esposta al Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto. Olio su tela di medie dimensioni (130 x 155), dipinta da Crali in epoca non sospetta: era il 1939. Ma sem-

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bra davvero una premonizione. Gli ingredienti ci sono tutti, grattacieli compresi, con la differenza che si tratta di una picchiata in verticale – e non di un volo orizzontale o in virata, come avevamo visto in televisione – che tramette una sensazione quasi suicida. È come se il pilota, affascinato da quella incredibile prospettiva di edifici vista da una visuale pressoché perpendicolare, si stesse letteralmente tuffando verso il suolo in una sorta si irresistibile cupio dissolvi. La visione esterna, dall’interno di una carlinga d’aereo con ampie finestrature e il pilota di spalle, irrigidito sui comandi, sono al tempo stesso affascinanti e terrificanti: un paesaggio fittamente edificato, con un vortice di costruzioni che balzano verso l’alto e vengono quasi risucchiate dalla traiettoria dell’aeroplano. Il critico che ha commentato l’opera – si tratta di Francesco Lamendola – ha rifiutato tuttavia l’epilogo suicida, ma vede un lieto fine (richiamata in linea di volo all’ultimo momento possibile), pur ammettendo «(…) un effetto scenografico di grande immediatezza e forza plastica, come se l’aereo “entrasse” davvero nell’abitato o se, invece, fosse l’abitato a “entrare” nella carlinga». Ma poco im77


Risk porta, perché Mohamed Atta, ai comandi del primo 767 a schiantarsi, e gli altri dirottatori suicidi devono aver avuto esattamente la stessa visione, sia pure su di un piano orizzontale od obliquo. Se la prima sorpresa la vediamo già in copertina, la seconda non tarda a venire: la troviamo in prefazione. Sì, perché l’ha scritta un Cardinale: Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, e non è affatto usuale che un cardinale-arcivescovo si occupi di terrorismo aereo e sicurezza, sotto il duplice aspetto di safety e security. E questo, prima ancora di aprire le pagine del libro, porta a parlare dell’autore. È uno dei casi in cui conoscere l’autore serve a comprendere meglio il libro. Aldo Cagnoli è una figura poliedrica, con tanti interessi in settori magari separati, ma che tuttavia riesce a collegare l’un l’altro in una logica di servizio. Servizio verso il prossimo. Innanzi tutto è un pilota, Primo ufficiale sui velivoli wide-body Boeing 777, i più grandi e più moderni della nostra compagnia di bandiera, dove vola sulle rotte transcontinentali. Ha al suo attivo circa 11mila ore di volo, esperienza che, se in Alitalia le carriere dopo i noti eventi non fossero di fatto bloccate, lo vedrebbe già da tempo in posizione di comandante responsabile. Non essendo stato pilota militare – ha però girato il mondo come ufficiale di Marina – ha dovuto brevettarsi pilota civile per proprio conto, frequentando negli Stati Uniti scuole di pilotaggio specializzate. Rientrato in Italia ha potuto convertire i brevetti e svolgere attività di lavoro aereo – tra cui quello delicato e pericoloso di pilota antincendi – prima di approdare alle code tricolori. È laureato in sociologia e, come giornalista pubblicista, collabora non solo a rubriche professionali aeronautiche (sicurezza del volo), ma anche ad attività di carattere più specificatamente sociale. È in questa veste che, collaborando con l’associazione Onlus «Bimbi con il sorriso» – cui vanno peraltro i proventi di questo libro – ha conosciuto il cardinale Bergoglio, con il quale è stato promotore di un ambulatorio medico nel degradato quartiere di Barra78

cas, a Buenos Aires. Ora è più facile parlare del libro, e comprendere perché l’approccio non è solamente tecnico – come ci si aspetterebbe da un addetto ai lavori – ma assolutamente multidisciplinare. Questo carattere viene pienamente centrato nella prefazione del cardinale, quando dice che «(…) per i suoi molteplici aspetti il libro si esprime in un genere letterario allo stesso tempo tecnico, giuridico ed umanistico». In altre parole, lo spartiacque storico dell’11 settembre viene esaminato e valutato alla luce di tutte queste peculiari prospettive di osservazione. Di particolare interesse – e il lettore se ne accorgerà strada facendo – è lo sforzo che l’autore fa per entrare nello stato psicologico di chi si vota all’attentato terroristico suicida. La teoria del «pensiero unico» che ad un certo momento pervade la mente di questi aspiranti terroristi – non sono capaci di pensare ad altro che all’ora radiosa del «martirio» – costituisce senza dubbio uno degli aspetti più originali del libro. La struttura del lavoro è articolata in quattro capitoli che, partendo dalle nuove frontiere del terrorismo aereo, esaminano il fenomeno di quello suicida, il quadro giuridico internazionale e la normativa, danno una visione anche tecnica degli eventi dell’11 settembre 2001 e forniscono, infine, una panoramica di quelle che sono le nuove forme di prevenzione, in atto o allo studio. Interessante anche l’appendice, dove si forniscono al lettore alcune testimonianze dirette sull’attentato, una cronologia dei dirottamenti aerei nella storia recente, ed una serie di interviste che raccolgono i pareri di vari esperti del settore aeronautico sulle varie problematiche connesse al terrorismo aereo. Di non secondario interesse tutta una serie di fotografie, alcune delle quali scattate dall’autore, che l’11 settembre «c’era» e ne ha subìto in prima persona le conseguenze operative. Nel primo capitolo, che tratta del terrorismo suicida, escono in pieno la passione di Cagnoli per le scienze sociologiche e la sua competenza in materia. Sono un’ottantina di pagine, che nel contesto


libreria del libro rappresentano quasi un manuale a se stante, sebbene i concetti riemergano continuamente – e, trattandosi della psicologia del suicidio terroristico, non potrebbe essere diversamente – in ciascuno dei quattro capitoli. Vengono esaminate le basi sociologiche e psicologiche di questo tipo di suicidio, se ne fissa una sorta di percorso storico, che parte dalle origini scintoiste dell’atteggiamento dei kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale e se ne spiega la profonda differenza con le motivazioni che invece spingono all’azione gli odierni terroristi islamici. Il solo elemento unificante è quella sorta di pensiero unico – cui abbiamo già fatto cenno – visto come una progressiva canalizzazione mentale verso una strada a senso unico che il più delle volte è senza ritorno. Il secondo capitolo, una ventina di pagine, affronta l’argomento della normativa internazionale contro il terrorismo, che può consentire l’elaborazione di regole e stili di comportamento, ma può solo rendere il fenomeno meno probabile. Il succo del discorso è che la prevenzione si può fare solo a terra, impedendo al terrorista di salire a bordo. Se invece ci riesce, tutto si complica e la reazione diventa funzione di singoli comportamenti, direttive di compagnia o casualità dell’evento. In questo contesto, quindi, anche la pratica della presenza dei così detti «sceriffi di bordo» è normalmente vista con un alto grado di negatività dai comandanti e dal personale navigante. Si legge che nessun dirottamento è mai accaduto a veli-

voli in decollo da Israele, dove i sistemi di sicurezza a terra sono considerati decisamente i più efficienti. Il terzo capitolo parla di qualcosa che il pubblico, per la rilevanza data a suo tempo dai media, ormai dovrebbe conoscere bene: la dinamica dell’attentato dll’11 settembre, la cronologia degli eventi, l’addestramento degli attentatori, il discusso rapporto finale della Commissione di inchiesta. Si fa anche cenno ad alcune ipotesi negazioniste ancora in circolazione, la cui elaborazione e sopravvivenza, tuttavia, non può che essere legata a fattori ideologici. Nel quarto ed ultimo capitolo, infine, si fa un rapido excursus sulle nuove forme di prevenzione, sulla sicurezza aeroportuale, sul Programma nazionale di sicurezza e sulle tecniche di analisi del rischio a bordo degli aeromobili. In conclusione, il pregevole lavoro di Aldo Cagnoli è senz’altro molto educativo, sufficientemente analitico per farci capire, ma non così tanto da farci tediare e, sopra tutto, ci tranquillizza almeno un po’. Ma solo per il momento e non del tutto, perché il discorso del perpetuo inseguimento tra la lancia e lo scudo, per quanto si progredisca, resta sempre valido. Emergono poi due importanti verità. La prima: l’iniziativa e la fantasia, assieme al fattore sorpresa, per quanto ci si ingegni nella prevenzione giocano ancora a favore del terrorista. La seconda: la sicurezza costa e, sopra tutto in tempo di crisi, il profitto - che pure è necessario per sopravvivere e competere – è potenzialmente uno dei suoi più grandi nemici.

ALDO CAGNOLI Terrorismo aereo e prevenzione Edizioni Progetto Cultura (COLLANA QUADERNI DI RICERCA)

pagine 226 • euro 15 Il libro è nella categoria multidisciplinare, molto diffusa nella cultura angloamericana, e purtroppo un po’ meno da noi. Un pilota con una laurea in sociologia può infatti aprire porte alla conoscenza precluse ad altri cosiddetti tecnici puri. Il testo dedicato all’analisi delle premesse, dei particolari e delle conseguenze dell’attentato che ha di fatto cambiato la nostra concezione della sicurezza del trasporto aereo. La novità del libro su di un evento sui cui si è scritto di tutto e di più è che il pilota Cagnoli analizza le fasi salienti alla luce della sua esperienza diretta di pilota di giganti dell’aria, il sociologo Cagnoli studia il substrato psicologico, religioso, politico e sociale col rigore dello studioso specializzato, il giornalista Cagnoli offre una ricostruzione affascinante, coinvolgente e ricca di particolari. Il tutto con una scrittura godibilissima, secca e asciutta, che lascia intuire la decisione e la capacità dell’uomo abituato a manovrare con naturalezza macchine complicate, prendendo in poche manciate di secondi decisioni dalle quali può dipendere la vita di centinaia di persone. Partendo dalle definizioni sociopsicologiche della mistica del suicidio e dal precedente storico dei kamikaze giapponesi e con un competente accenno alle normative internazionali in materia di terrorismo, l’autore ci conduce fino ad una attenta analisi delle nuove forme di prevenzione e di analisi del rischio a bordo degli aeromobili.

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del numero

MARIO ARPINO: generale, già capo di stato maggiore della Difesa PEJMAN ABDOLHAMMADI: docente di Storia e Istituzioni dei paesi islamici presso l’Università di Genova VINCENZO CAMPORINI: generale, già capo di stato maggiore della Difesa GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni militari all’Università Cattolica di Milano ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali nell’area Sicurezza e Difesa VALÉRIE MIRANDA: assistente alla ricerca presso l’Istituto Affari Internazionali ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista LAURA QUADARELLA: dottore di ricerca in Diritto internazionale e autore di una monografia e numerosi articoli sul terrorismo internazionale NATALINO RONZITTI: docente di Diritto internazionale presso l’Università Luiss di Roma e consigliere scientifico presso lo Iai

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