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quaderni di geostrategia

DOSSIER

S

O

M

M

A

SCACCHIERE

L’orso a due teste

Europa

Carlo Jean

Alessandro Marrone

R

I

O

Vladimir e le illusioni dell’Occidente

Americhe

Gennaro Malgieri

Riccardo Gefter Wondrich

Il piccolo Cesare del grande Volga

Africa

Enrico Singer

Maria Egizia Gattamorta

La scomparsa dei russi

pagine 64/67

Nicholas Eberstadt

Il tubo di Gazprom e l’Europa Niccolò Sartori

LA STORIA Virgilio Ilari

Il Cremlino (per ora) non fa paura

pagine 68/73

Andra Nativi

La difesa dimezzata Alessandro Marrone pagine 5/47

LIBRERIA

Giancristiano Desiderio Mario Arpino

Editoriali

pagine 74/79

Michele Nones Stranamore pagine 48/49

SCENARI

Modello Kosovo Rossella Fabiani

Passaggio di potere a Herat Pierre Chiartano pagine 50/63

www.riskrivista.it

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LA RUSSIA DI PUTIN III Vladimir Putin è diventato per la terza volta presidente. Quello che è successo nelle ultime settimane non è altro che l’applicazione di un piano studiato a tavolino: mantenere il potere il più a lungo possibile. Con la prospettiva della presidenza di sei anni che è appena cominciata e con quella di ricandidarsi nel 2018, Putin potrebbe rimanere in sella addirittura fino al 2024. Quello di Putin è però il ritorno di uno zar dimezzato. Non è più la Russia della prima volta, quanto Volodja aveva preso le redine di un paese disastrato e ormai senza più una guida. E neanche il paese del boom economico quando lasciò la presidenza. Oggi c’è un’opposizione che si fa sentire e una nazione in piena crisi demografica, che prima o si inciderà sulle prospettive di futuro del paese. E anche sulla sicurezza. Putin si appresta a governare una Russia ricca di materie prime, ma povera di risorse umane, con infrastrutture obsolete e un programma di modernizzazione che deve ancora partire. Uno stato che rischia di diventare un grande buco geopolitico di cui tutti ci dovremo preoccupare in futuro. Internazionalmente la Russia è isolata. Lo si è visto nel dibattito al Consiglio di sicurezza sulla condanna della repressione in Siria. Lo è molto più della Cina, la cui crescita costituisce un modello che molti Stati in via di sviluppo vogliono seguire. Grande rilevanza sul futuro della Russia e della sua politica estera avrà invece la rottura degli equilibri al Cremlino fra i siloviki e i civiliki. Finora, Putin era riuscito a non fare prevalere una fazione sull’altra. In tal modo si rendeva indispensabile. Anche sul fronte del risiko energetico la Russia è fonte di preoccupazioni. La recente riduzione degli approvvigionamenti di gas naturale russo verso l’Europa ha riportato alla luce l’annoso dibattito sulla dipendenza energetica europea da Mosca e sui presunti tentativi del Cremlino di approfittare del potere energetico per ricattare politicamente ed economicamente il vicino occidentale. Dal 2006 ad oggi, causa le ricorrenti dispute con i paesi di transito – Ucraina e Bielorussia in primis – e le difficoltà di Gazprom nel soddisfare contemporaneamente domanda interna e contratti di fornitura internazionali, l’affidabilità della partnership energetica con la Russia è stata oggetto di numerose riflessioni, tanto in ambito europeo quanto a livello nazionale. Ne scrivono: Eberstadt, Jean, Malgieri, Marrone, Nativi, Sartori e Singer


D

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UN NUOVO NAZIONALISMO SI FA STRADA TRA EUROPA ED ASIA

L’ORSO A DUE TESTE DI

L

CARLO JEAN

a politica estera di ogni paese è influenzata soprattutto da quella interna. Esistono però costanti dettate dalla geografia e dalla storia. Esse determinano - prima che gli interessi - le percezioni e i fondamenti culturali della politica estera. Quella del popolo russo è dominata dai ricordi delle ripetute e terribili aggressioni, dal sospetto di ingerenze straniere

e, dopo la fine della guerra fredda, dalla convinzione di essere stata ingiustamente trattata dagli Stati Uniti (allargamenti Nato e Ue, rivoluzioni colorate, difesa antimissili, Kosovo, Libia, Siria, ecc.). Il reset con gli Usa non è stato dapprima considerato l’inizio di un’epoca di collaborazione, ma quasi un atto dovuto, formalmente riparatore dei torti subiti. Successivamente, è stato ritenuto un ulteriore tradimento, poiché la politica Usa nei confronti della Russia non è sostanzialmente cambiata. Anche la variegata opposizione al potere del Cremlino – composta da liberali e comunisti, da modernizzatori e conservatori – non ha programmi né comuni né precisi. Domina il sospetto che i contatti con gli oppositori del regime da parte del nuovo dinamico ambasciatore americano a Mosca, Michael McFaul, abbiano il solo scopo di creare difficoltà ai “padroni” del Cremlino e di indebolire la Russia. Come McFaul ha potuto accertare, anche negli elementi più europeizzati domina non solo l’ammirazione per il sistema occidentale, ma anche il risentimento di non essere adeguatamente considerati e di essere esclusi dal governo del mondo.

Anche se Vladimir Putin non fosse stato rieletto presidente, con oltre il 60 per cento dei voti, gli obiettivi e i toni della politica estera di Mosca non sarebbero comunque mutati. La Russia intende ridiventare una grande potenza. Vuole contare nel mondo. Pensa di averne diritto. Lo si è visto nel dibattito al Consiglio di sicurezza sulla condanna della repressione in Siria. Lo è molto più della Cina, la cui crescita costituisce un modello che molti Stati in via di sviluppo vogliono seguire. Pechino è poi molto più cauta. È una giovane potenza in ascesa, non una dama decadente come la Russia. Almeno dichiaratamente, non vuole dominare la scena mondiale, anche se sta ricolonizzando l’Africa e, in parte, l’America del Sud. Lascia che sia Mosca ad occupare il palcoscenico e a prendersi le rimostranze e le condanne dell’Occidente. Nel caso siriano si sono aggiunte quelle dei paesi arabi. Sarà interessante vedere le reazioni al mancato sostegno degli insorti in Siria, da parte delle minoranze islamiche, soprattutto in Tatarstan. Sono sunnite ed influenzate dall’Arabia Saudita. Nelle dimostrazioni di Mosca del 4 febbraio, taluni manife5


Risk stanti inalberavano cartelli inneggianti alla rivolta siriana. Anche per tale motivo, Putin ha dichiarato che non si verificherà un «primavera russa», nonostante gli sforzi effettuati dall’Occidente di destabilizzare il paese con la scusa di democratizzarlo. Un fatto nuovo – rilevante anche sotto il profilo geopolitico – sono state le dimostrazioni anti-Putin, il quale però continua a godere di un’ampia popolarità. Ha certamente salvato la Russia. Ma ora che l’ha fatto, molti russi sono persuasi di non avere più bisogno di eroi, “salvatori della patria”. Penso che le dimostrazioni siano state sopravvalutate dai media occidentali. Non hanno nulla a che fare con le “rivoluzioni colorate”, anche se Putin ha accennato al pericolo che i social network rappresentano per la stessa stabilità del paese. Grande rilevanza sul futuro della Russia e della sua politica estera avrà invece la rottura degli equilibri al Cremlino fra

Mosca mira a dividere l’Europa sia dagli Usa che al suo interno. Cerca di utilizzare il vero reset, quello con la Germania, associandola il più possibile alla sua politica, sia estera sia di modernizzazione del paese. Le manifestazioni antitedesche per l’indisponibilità della Germania di firmare una cambiale in bianco per coprire i debiti degli “stati cicala”, finiranno per rafforzare i legami fra Berlino e Mosca 6

i siloviki e i civiliki. Finora, Putin era riuscito non fare prevalere una fazione sull’altra. In tal modo si rendeva indispensabile. Solo lui poteva mediare fra le due fazioni. La questione è di fondo. I siloviki dominano il settore energetico e l’industria pesante. Danno priorità all’ordine e allo sviluppo a breve termine, mentre i secondi pensano maggiormente al lungo termine, alla modernizzazione e riforma dell’economia e, almeno in parte, ad una parziale e cauta liberalizzazione del sistema politico. Con la brillante gestione della crisi finanziaria del 2008, sembrava che prevalessero i secondi, guidati da Kudrin e Surkov. Oggi, il baricentro del potere sembra essersi spostato a favore dei primi. Il ministro delle finanze Kudrin si è dimesso e ha partecipato alle dimostrazioni anti-Putin di Mosca. Surkov – capo si stato maggiore del Cremlino e ideologo della «democrazia guidata» e della «verticale del potere», basi del sistema putiniano – è stato sollevato dal suo importante incarico e privato di gran parte dei suoi poteri. Putin vuole la stabilità e l’ordine, ma anche la modernizzazione della Russia. È preoccupato per la crisi demografica e per la crescita del pericolo islamista a sud e di quello cinese ad est. Non vuole che la Russia si trasformi in un «petrostato», dipendente dalla rendita petrolifera; quindi dai prezzi del petrolio e del gas, troppo dipendenti dall’andamento dell’economia mondiale. Se così fosse, non potrebbe tornare a essere una grande potenza; forse neppure a livello regionale. In caso di crisi, le sue periferie occidentali subirebbero l’attrazione dell’Europa e quelle orientali della Cina, la cui influenza è in crescita anche in Asia Centrale. Il ritiro occidentale dall’Afghanistan accrescerà la pressione islamista non solo in Asia Centrale e nel Caucaso del Nord, ma anche in altre regioni con forti minoranze islamiche, soprattutto nel Tatarstan, cruciale per il collegamento della Russia europea con la Siberia. In esso, parte della classe dirigente si è formata in Arabia Saudita e mantiene stretti contatti con l’Islam radicale. In ottobre, Putin ha lanciato il progetto dell’Unione eura-


siatica, di cui dovrebbero far parte, oltre alla Bielorussia e al Kazakistan, anche il Tagikistan e il Kirghizistan. Successivamente, potrebbero divenirne membri anche altre repubbliche ex-sovietiche, in particolare l’Ucraina, sempre in bilico fra l’Europa e la Russia. Putin ha conseguito grossi successi con il nuovo presidente Yanukovich: nella costituzione ucraina è stata inserita una clausola che le impedisce di far parte della Nato; inoltre, l’affitto russo della base di Sebastopoli è stato prolungato fino al 2042. Ma finora a Mosca non è riuscita la mossa decisiva: quella di prendere il controllo della rete dei gasdotti ucraini, attraverso cui passa una consistente entità del gas naturale fornito all’Europa. Le royalty di tale rete non solo permettono all’Ucraina consistenti introiti, ma sono un simbolo della stessa sovranità del paese. L’equilibrio che Kiev ha cercato di mantenere fra Mosca e Bruxelles potrebbe essere però spezzato a favore di Mosca per tre motivi. Primo: l’Ucraina non è in condizioni di approvvigionarsi del gas russo se non a prezzi ridotti rispetto a quelli del mercato mondiale. Secondo: l’entrata in funzione dei due grandi gasdotti sottomarini del Baltico (North Stream) e del Mar Nero (Southstream), toglieranno a Kiev parte del suo potere negoziale con Gazprom. Terzo: la crisi dell’Unione Europea ha indebolito l’attrazione dell’Europa e l’influenza della cosiddetta Eastern dimension dell’Ue, sostenuta soprattutto dalla Polonia e dalla Svezia per evitare che la Federazione russa – inglobando nell’Unione Eurasiatica la Bielorussia, la Moldavia e l’Ucraina – espanda la sua influenza ad Ovest, fino ai confini orientali dell’Unione. Kiev ha finora resistito alle pressioni di Mosca: non fa, ad esempio, parte della Csto (Collective security treaty organization), cioè di quella specie di Nato eurasiatica che Mosca cerca, in ogni modo, di consolidare anche con l’Unione Eurasiatica. Il progetto dell’Unione eurasiatica rappresenta un’espansione dello «Spazio economico comune» fra Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Do-


Risk vrebbe dar vita non solo ad un’area di libero scambio, ma assumerebbe talune connotazioni sovranazionali, in parte mutuate dall’Unione europea. Mira a integrare attorno a Mosca, quanto più possibile dello spazio ex-sovietico. Taluni sospettano che Putin cerchi di ricostruire l’Urss. Ma realista come è, penso che il suo intento non sia quello. Cerca di aumentare il peso di Mosca nel mercato mondiale dell’energia. L’Unione eurasiatica risponde anche alla percezione delle esigenze di sicurezza, sia a Ovest che a Sud. Certamente, Putin non vuole caricare sulle spalle dei russi il peso dell’impero. Il suo costo è stato uno dei motivi del collasso dell’Urss. Benché definisca la scomparsa di quest’ultima la più grande tragedia geopolitica della storia, sa bene che l’economia ha oggi occupato parte degli spazi della politica e che, nel mondo globalizzato dei flussi, l’influenza ha sostituito la conquista. Vuole esercitare il controllo su quello che definisce l’«estero vicino». Intende impedire che l’Occidente estenda la propria influenza e presenza nello spazio ex-sovietico.

lasso dell’Urss, e dell’allargamento della Nato, determina la «grande strategia» odierna di Mosca, dopo che si è ripresa con Putin dai disastri del periodo eltsiniano. Non dipende più finanziariamente dall’Occidente. Anzi, con il suo fondo sovrano di ricchezza, le sue grandi banche e le maggiori imprese, controllate dallo Stato tramite i siloviki e gli oligarchi amici di Putin sta acquistando taluni dei gioielli tecnologici ed industriali dell’Occidente. Cerca così di condizionarlo, approfittando anche della debolezza dell’Europa determinata dalle sue divisioni, dalla sua bassa crescita e dalla crisi dell’euro. Mira a ristabilire la sua influenza sui territori che facevano parte dell’Impero zarista prima e sovietico, poi. Per realizzare tale obiettivo, Mosca sta rovesciando il ripiegamento degli anni Novanta, conclusosi con la perdita dei paesi satelliti dell’Europa centro-orientale e dei Paesi Baltici. È passata dall’offensiva per ripristinare, almeno in parte, le posizioni perdute. Mira a dividere l’Europa sia dagli Usa che al suo interno. Cerca di utilizzare il vero reset, quello con la Germania, associandola il più possibile alla sua politica sia estera sia di modernizzazione del paese. Le La grande strategia manifestazioni antitedesche, per l’indisponibilità delLa politica della Russia è determinata non solo dal- la Germania (a parer mio del tutto comprensibile) di la sua immensità e diversità, ma anche dalla vulne- firmare una cambiale in bianco per coprire i debiti rabilità del suo nucleo centrale, il Granducato di degli «stati cicala», finiranno per rafforzare i legaMosca. Esso è privo di frontiere naturali a Ovest, mi fra Berlino e Mosca. se non sui Carpazi, e condizionato dal ricordo di A tale logica si ispira la «dottrina Medvedev» della terribili invasioni: le mongole da Est; le ottomane sicurezza nazionale russa, anticipata nel settembre da Sud e, da Ovest quelle dei cavalieri teutonici, dei 2008, dopo la «guerra dei cinque giorni» in Georpolacco-lituani, degli svedesi, di Napoleone e del- gia, e riformulata nel febbraio 2010. Essa prevede la Germania nella prima e nella seconda guerra mon- che Mosca intervenga anche in caso di minacce condiale. A fronte dell’assenza di barriere naturali, la tro le minoranze russe nelle Repubbliche ex-sovieRussia deve ricercare la sua difesa nell’estensione tiche, dal Caucaso agli Stati Baltici e all’Asia Cendello spazio, con la creazione di una fascia-cusci- trale. Nel 2008, tale concetto aveva ispirato l’appognetto quanto più profonda possibile, volta a proteg- gio russo alla secessione dell’Ossezia del Sud e delgere Mosca con una strategia di logoramento basa- l’Abkazia e, in senso più generale, la ripresa della ta sulla cessione dello spazio. Tale strategia ha avu- politica connaturata con l’ideologia stessa dell’Imto successo con Napoleone e con Hitler ed è pro- pero zarista: l’appoggio ai popoli slavi e a quelli orfondamente radicata nella cultura strategica russa. todossi, motivato anche dall’influenza politica del La perdita della fascia cuscinetto, a seguito del col- Patriarcato di Mosca e dalle sue ambizioni univer8


dossier

La «dottrina Medvedev» della sicurezza nazionale russa, anticipata nel settembre 2008, dopo la «guerra dei cinque giorni» in Georgia, e riformulata nel febbraio 2010, prevede che Mosca intervenga anche in caso di minacce contro le minoranze russe nelle Repubbliche ex-sovietiche, dal Caucaso agli Stati baltici e all’Asia centrale sali. Essi ne fanno uno dei pilastri del patriottismo russo. Creano il “mito” di Mosca come «Terza Roma», erede della missione universale romana e bizantina. Necessità strategiche e convinzione di essere destinata ad un ruolo storico mondiale ispirano la politica estera di Mosca anche dopo che il peso dell’Impero è divenuto insostenibile e che la Russia tende a trasformarsi in uno Stato-nazionale. La sua traiettoria è per molti versi analoga a quella della Turchia, dopo la sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale. Con una grande eccezione però. Mentre la Turchia è facilmente difendibile, la Russia è vulnerabile. Nel suo dna – come accennato – esiste la preoccupazione per la sua vulnerabilità e il sospetto che il «rapace» Occidente e la Cina si propongano di impadronirsi delle ricchezze naturali russe. Il “ritorno” russo in Asia Centrale è evidenziato anche dal progetto di canale navigabile tra il Mar d’Azov, il Caspio e il Lago Aral, fortemente voluto da Putin. In tal modo, l’Asia Centrale verrebbe collegata al Mediterraneo attraverso il territorio russo. Mosca consoliderebbe così la propria influenza sull’intera regione, contrapponendosi, in particolare, all’attrazione esercitata dalla Cina ed anche a

quella dell’Islam. Molti russi continuano ad essere affascinati dal ricordo dell’impero. La Russia non è mai stata uno Stato-nazione. È stata da secoli un impero, determinato dai progressivi allargamenti del Granducato di Mosca. Per questo, anche se la sua cultura è europea, non potrà mai volere entrare a fare parte dell’Ue, dove si troverebbe in condizioni formalmente paritarie con gli altri stati dell’Unione. Potrebbe però far parte di «un concerto delle grandi potenze europee». La prima soluzione, comporterebbe la sua rinuncia a parte della propria sovranità e l’accettazione di essere messa allo stesso livello di piccole regioni del suo vecchio impero, come gli stati baltici. La seconda, implicita nella proposta di Medvedev di uno spazio paneuropeo di sicurezza, è dimostrazione di come la Russia non si senta europea, ma cerchi di esserlo, anche con un grandioso programma di liberalizzazione, di modernizzazione, che si accompagna ad un grandioso sforzo per ricostruire il complesso militare-industriale. Nell’Urss, esso costituiva quasi uno stato nello stato e godeva di enormi privilegi. L’attuale Cremlino non intende però esserne condizionato. Ciò dà ragione anche delle critiche che rivolge ai responsabili delle industrie militari, dalle polemiche sull’efficienza ed il costo del nuovo carro armato T-90 – accusato di essere una semplice copia leggermente migliorata del T-72 – e dell’acquisto dalla Francia delle navi anfibie Mistral, accompagnato dalla sostituzione di parte dei dirigenti dei cantieri russi, incapaci di costruire navi altrettanto moderne.

Le teorie dominanti Da tre secoli, la Russia appartiene alla storia dell’Europa e la sua classe dirigente possiede una cultura europea. Tuttavia, le sue peculiarità e le sue stesse dimensioni e storia, ne rendono impraticabile l’integrazione politica con l’Europa, pur non impedendo collaborazioni economiche ed anche politico-strategiche. La Russia si considera diversa dall’Europa. Lo dimostrano le dichiarazioni di Putin nell’ottobre 2011, all’atto della sua proposta di Unione eurasia9


Risk tica. Egli ha sottolineato la specificità dell’identità della Russia ed anche il suo ruolo di ponte fra l’Europa e l’Asia, rappresentato dall’aquila a doppia testa – una che guarda ad Ovest; l’altra ad Est – della bandiera della Russia imperiale. Geografia, storia ed anche la religione ortodossa, determinano le tre grandi tendenze esistenti nei numerosi centri geopolitici esistenti in Russia. Essi hanno conosciuto un vero revival dopo il collasso dell’Urss e le «umiliazioni degli anni Novanta», quando la Russia si è trovata nella necessità di ripensare non solo il proprio futuro, ma anche la sua stessa identità. L’importanza attribuita alla disciplina è messa in evidenza anche dall’esistenza di un Centro di studi geopolitici nell’ambito della Duma Federale. Tre sono le principali dottrine geopolitiche diffuse in Russia: l’europeista, la nazioalista e l’eurasista. La corrente degli europeisti, dominante con Pietro il Grande, era parsa riaffermarsi nell’era Eltsin, soprattutto nella regione di S. Pietroburgo, storicamente più integrata con l’Occidente sia germanico che scandinavo. Tra i collaboratori del liberale sindaco di questa città, Anatolij Sobchak, figuravano, oltre a Putin, molti esponenti dei civiliki. Essi ritengono che l’unica speranza non solo di sviluppo, ma anche di sopravvivenza della Russia, di fronte alla pressione islamica a Sud e cinese ad Est, consista in un accordo strategico con l’Occidente e, addirittura, in una sempre più stretta collaborazione con l’Occidente e le sue grandi istituzioni: l’Unione europea e l’Alleanza atlantica. Gli europeisti hanno salutato con entusiasmo l’ammissione della Russia al G-7, trasformatosi così in G-8, ma che ha però perduto gran parte della sua importanza a favore del G-20. Nella loro ottica, solo collaborando con l’Occidente, la Russia potrà modernizzarsi e sopravvivere in un mondo il cui baricentro sta spostandosi da ovest ad est e, in parte, da nord a sud. La difficoltà principale che devono affrontare i filo-europeisti è che la Russia dovrebbe rinunciare ad essere una grande potenza mondiale, accettando di fatto una diminuzione di rango ed una contrazione di sovranità. Sembra che tale tendenza geo10

Putin vuole la stabilità e l’ordine, ma anche la modernizzazione. È preoccupato per la crisi demografica e per la crescita del pericolo islamista a sud e di quello cinese ad est. Non vuole che la Russia si trasformi in un «petrostato», dipendente dalla rendita del greggio politica all’europeizzazione sia stata perseguita dal presidente Medvedev con i suoi accordi con la Germania (ed anche da Putin con l’Italia di Berlusconi). Tale tendenza geopolitica si avverte anche nella proposta di Medvedev di un sistema di sicurezza comune paneuropeo basato su tre poli: la Russia, l’Ue e gli Usa. La proposta Medvedev, che riprende quella della «Casa comune europea» di Gorbaciov, preoccupa grandemente i paesi del’Europa centro-orientale. Essi ricordano che cosa abbiano significato per loro le intese tra la Russia e la Germania, da Tauroggen a Rapallo, per culminare con il patto MolotovRibbentrop. Taluni sospettano che questo progetto miri soprattutto a ridurre la presenza e l’impegno degli Usa in Europa e, come by product, anche a ridurre il livello dell’integrazione europea, di cui gli Usa rimangono ancora i veri garanti e che rischia di essere distrutta dalla posizione egemonica che inevitabilmente assumerebbe in Europa la Germania. Quest’ultima è oggi troppo grande per l’Europa e troppo piccola per il mondo. Una stretta collaborazione con la Russia fornirebbe, però, a Berlino le risorse, se non per muovere nuovamente all’«assalto del potere mondiale» – tentazione da cui è stata vaccinata dalle due guerre mondiali – almeno quelle per com-


petere con gli altri «stati-continente», che domineranno il nuovo ordine mondiale. Strettamente collegato all’ortodossia è il panslavismo, di cui si ritrova una versione alquanto annacquata nella dottrina Medvedev circa il diritto-dovere di Mosca di intervenire ovunque in appoggio delle minoranze russe che siano minacciate. L’Occidente cattolico e protestante viene considerato una minaccia ed è continuamente sospettato di complotti volti ad indebolire l’identità ed il rango della Russia. Questa visione delle cose non è necessariamente imperialista, ma comporta la convinzione della necessità di una fascia cuscinetto, limes profondo a protezione della Terza Roma. Tale dottrina geopolitica prevale attualmente nella politica estera della Russia. Essa è ben consapevole che le sue frenetiche iniziative anche in America Latina e in Medio Oriente non vengono prese sul serio dal resto del mondo e che la «finestra di opportunità determinata dall’insabbiamento delle forze terrestri americane in Iraq e in Afghanistan potrebbe chiudersi in tempi anche brevi». L’orgoglio nazionale – che costituisce un aspetto distintivo e, a parer mio, anche invidiabile della Russia – come il ricordo della vittoria nella «grande guerra patriottica» contro l’invasione nazista – costituiscono le basi di molti atteggiamenti russi. Lo sono stati, ad esempio, nel recente caso del veto russo al Consiglio di sicurezza sulla condanna della sanguinosa repressione da parte del regime di Damasco della rivolta sunnita e nella proposta russa di negoziati fra Assad e i suoi oppositori. È stata una mossa azzardata. A parer mio, Mosca ha puntato sul “cavallo perdente”. Le ripetute affermazioni che nella rivolta siriana, starebbe prosperando al-Qaeda, aumentano la probabilità di un intervento Usa. Ma è stato anche un gesto di orgoglio, che affermava di fronte al mondo l’indisponibilità di Mosca di accettare che gli Usa mantenessero


Risk l’esclusiva delle iniziative diplomatiche mondiali. Per altri versi, l’invio dell’unica portaerei della Marina russa nel porto siriano di Tartus – unica base che possiede all’estero – ricorda nella sostanza la minaccia di schierare i missili Iskander nella regione di Kalingrad – in caso di attuazione dei programmi Nato di difesa antimissili – oppure di impedire i rifornimenti attraverso il territorio russo delle forze in Afghanistan. L’aspetto più paradossale di quest’ultima minaccia sta nel fatto che la Nato difende in quel paese anche – e, forse soprattutto – la Russia, minacciata dal dilagare dell’islamismo. L’annuncio dell’accelerazione del ritiro Usa è stata accolta con soddisfazione in Occidente, ma con preoccupazione a Mosca!

La terza corrente geopolitica La terza corrente geopolitica, presente in Russia, è quella eurasista. Radicata nella cultura russa fin dal testamento apocrifo di Pietro il Grande, essa ha ispirato la cosiddetta «dimensione continentale» della politica estera russa, secondo cui la Russia deve mettersi a capo di un blocco continentale costituito dall’Eurasia per contrastare l’egemonia delle potenze marittime. Questa teoria ha diverse formulazioni: talune sono più aggressive e imperialiste; altre, oggi prevalenti, più moderate. Il momento di maggiore fortuna della corrente eurasista si è registrato quando era al potere a Mosca uno dei suoi principali fautori, il premier e ministro degli esteri Primakov. Secondo gli eurasisti moderati, il «blocco eurasiatico» deve fondarsi su accordi cooperativi di tipo volontaristico, di cui è espressione la Shanghai cooperation organization (Sco). Copresieduta da Mosca e da Pechino, ne fanno parte quattro della cinque repubbliche centroasiatiche. Inoltre, vi hanno uno status di osservatori l’India, l’Iran, la Mongolia ed il Pakistan. La Sco ha promosso la soluzione di contenziosi territoriali con la Cina in Asia Centrale e in Siberia Orientale, ma non è una vera e propria alleanza. È indebolita all’interno della latente rivalità tra 12

Pechino e Mosca, dalla preoccupazione russa per l’aumento della potenza economica e militare cinese e dalla constatazione che è stata più utile a Pechino che a Mosca, consentendo alla Cina una crescente influenza in Asia Centrale e in Estremo Oriente nelle province marittime. L’importanza della Sco è ridotta anche dagli ottimi rapporti esistenti tra Mosca e l’India, strutturalmente rivale della Cina, anche per l’appoggio che quest’ultima dà al Pakistan. La Russia del «post-imperium» – come la denominata Dmitri Trenin, uno dei più interessanti commentatori della situazione russa – continuerà a costituire uno degli attori fondamentali della scena mondiale o, almeno, di quella eurasiatica. Continuerà a rappresentare un fattore divisivo sia nell’Alleanza atlantica che nell’Unione europea. Anche ragioni interne continueranno ad indurla ad adottare una politica almeno dichiaratamente aggressiva e ad utilizzare la crisi politica e finanziaria dell’Europa per accrescere la propria influenza. Certamente, la sua politica estera sarà influenzata dalla diminuzione dell’autorità di Putin, conseguente alle manifestazioni di dissenso del 24 dicembre e del 4 gennaio, che hanno dimostrato come i social network abbiano indebolito la possibilità di un controllo politico sulla popolazione. Tali eventi, obbligheranno il Cremlino a dedicarsi maggiormente alla politica interna, impiegando una maggiore aliquota della rendita petrolifera per modernizzare la base produttiva russa e per migliorare le condizioni di vita della popolazione. In ogni caso, sia l’opzione europea che quella eurasista hanno ben poca probabilità di prevalere. Si imporranno invece le tendenze nazionaliste, la cui aggressività sarà però temperata da due ragioni. Primo: dalla necessità russa di ottenere la collaborazione occidentale per la modernizzazione della sua economia ed anche per una migliore utilizzazione delle sue risorse naturali. Secondo: dal fatto che pressioni eccessive finirebbero sia per ricompattare l’Europa che per rafforzare i suoi legami con gli Usa.


dossier IL BONAPARTISMO DI PUTIN E IL SISTEMA DELLA “DEMOKRATURA”

VLADIMIR E LE ILLUSIONI DELL’OCCIDENTE DI

GENNARO MALGIERI

uando nel dicembre scorso il partito di Vladimir Putin, Russia Unita, vinse le elezioni legislative, conquistando la maggioranza, sia pure «non qualificata» (necessaria per procedere alla riforma della Costituzione) dei seggi alla Duma, furono in molti ad illudersi che la consistente diminuzione di voti ottenuti fosse il preludio se non della sconfitta •

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quantomeno l’avvisaglia sensibile del ridimensionamento elettorale alle presidenziali che si sarebbero svolte il 4 marzo 2012. Non è andata così. Gli speranzosi contestatori, arruffoni ed improvvisati, sembrano essersi ripiegati su se stessi immediatamente dopo aver appreso dagli exit poll che il loro nemico non soltanto ce l’avrebbe fatta, ma sarebbe andato ben al di là delle sue stesse aspettative. L’autocrate del Cremlino, rieletto per la terza volta, ha ottenuto, infatti, molti più suffragi di quanto anche gli osservatori internazionali erano disposti a scommettere. Il suo “regno”, a questo punto, è facile che si protragga fino al 2024, come lui stesso minacciosamente prometteva nello scorso autunno. E non sembra che l’opposizione sia talmente determinata da fargli cambiare idea. Ancora dodici anni di dominio quasi assoluto, magari da condividere con il suo “socio” Medvedev, è facile che riducano gli spazi di dissenso e che il presidente, come qualcuno prevedeva, giochi a suo vantaggio il ridimensionamento parlamentare subito dal partito del quale è padre-padrone. La sua carta vincente nelle ultime presidenziali è stata proprio quella del ridimensionamento del suo «personalismo» e della pervasività di Russia Unita come prova della nuova «demokratura» nella quale, a suo avviso, ci sarebbe spazio per tutti. In mol-

ti ci hanno creduto. Ed i voti sono arrivati. È patetico, adesso, l’agitarsi dell’Osce, del consiglio d’Europa e di tanti altri organismi internazionali che accolgono sempre e comunque con riguardo la Russia di Putin, salvo poi starnazzare quando vince le elezioni ed adombrare brogli, costrizioni, ricatti. Il responso non cambia. Sono francamente irrilevanti i monitoraggi elettorali che quella stessa Europa che si picca di fronteggiare Putin organizza soltanto quando c’è da contare le schede, tanto per mettere in piedi una sceneggiata a beneficio del cosiddetto “mondo libero”, mentre i dissidenti si illudono che i morti ammazzati misteriosamente, i giornalisti spariti, gli intellettuali ridotti al silenzio, i programmi di espansione nella regione caucasica che producono lutti e deportazioni possano infiammare l’Occidente. In questa parte dell’emisfero si ha cuore più il riscaldamento degli appartamenti e degli uffici che le libertà individuali. Cinico, ma vero. Per quanti inganni siano stati imputati al nuovo presidente, i risultati sarebbero dovuti essere diversi. Invece non è accaduto quel che l’opposizione si illudeva potesse e dovesse accadere: ridimensionarlo fidando su alcuni anonimi politicanti senza seguito e su due sopravvissuti del sovietismo, uno di impronta stalinista, l’altro isteronazionalista. Nel corso della campagna elettorale è stato fragorosamente sottolinea13


Risk to come Putin, pur vincendo, non avrebbe potuto riformare la Costituzione a suo piacimento perché non avrebbe avuto i numeri parlamentari. In tanti ci hanno creduto, ma al momento di scegliere, soprattutto nelle campagne, lontano dai centri nevralgici delle grandi città, è prevalso il sentimento del continuismo fondato sulla certezza di un “ordine russo” capace di sfidare le incursioni del cambiamento; un “ordine” sul quale Putin ha fatto grande affidamento, attraendo nella sua orbita la Bielorussia, la Moldova, l’Ucraina (verso la quale il suo atteggiamento è ambivalente, sostenendo internazionalmente la Timoshenko e nei confini nazionali i suoi carnefici), tanto per dare il senso della ricostruzione se non di una Grande Russia, quantomeno di una Russia protetta ai confini della Federazione da stati più che amici disposti a sostenere lo sforzo economico – e se del caso anche bellico – contro gli indipendentismi che rischiano di disgregare il Paese. Le riforme, dunque, se gli convengono, Putin le farà lo stesso. E del resto se anche non le facesse bastano quelle già varate a rafforzarne il potere. Fin qui, dopotutto, le forze di opposizione nella Duma, non sembra si siano date da fare più di tanto per mettere in crisi la “diarchia”, come ancora viene chiamato il duo Putin-Medvedev. E tantomeno sono state capaci di trovare una candidatura unitaria da opporre al nuovo “zar” il quale sa bene che fino a quando non si realizzerà una prospettiva di questo genere potrà dormire sonni tranquilli controllando ferramente il comparto economico-finanziario, quello industriale e militare, i servizi segreti e l’informazione. Putin, insomma, è riuscito nella stupefacente impresa di mixare, come dicono alcuni intellettuali russi, democrazia e dittatura, dando forma ad una inedita autocrazia tecnologica e populista nella quale da un lato i diritti formali sembrano essere garantiti, dall’altro le leve del potere sono in mano ad una nomenklatura non di partito, ma finanziaria con addentellati nei corpi dello Stato, in particolare nella polizia alle dirette dipendenze del Cremlino. Per cui chi, nella vasta nazione, non si cura delle conseguenze dell’affarismo, ma ba-


dossier da a proteggersi ed a soddisfare i bisogni elementari, può anche votare con leggerezza per Putin il quale nel mentre assicura la forza della nazione nell’ambito del governo mondiale garantisce anche un benessere affievolito ancorché accettabile per chi ha vissuto decenni nella miseria più nera. Il modello putiniano è spiazzante per le stesse disomogenee opposizioni che occasionalmente inscenano proteste tollerate fino ad un certo punto, ma che sono attive soprattutto sul web dal quale, tuttavia, non sembra traggano benefici soddisfacenti un po’ perché rischiano giudiziariamente ed un po’ perché la Russia non è la Tunisia e raggiungere tutti gli angoli del Paese è impresa impossibile, posto che in molte aree neppure la televisione si vede sempre ed in maniera impeccabile. I blogger, per di più, sono noti e qualcuno di loro entra ed esce dalle galere: non risulta che Osce e Consiglio d’Europa si siano dati pena per le loro condizioni, soprattutto dopo la grande manifestazione del 10 dicembre scorso quando in Occidente si cominciò a pensare che Putin avesse i giorni contati. Churchill diceva che «la Russia è un rebus, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma». È sempre stato così. E chi immagina di cambiarne i connotati è a dir poco un ingenuo. Lo sapeva la Politkovskaia che non immaginava di produrre mutamenti repentini, ma semplicemente e più produttivamente di agitare idee, sensibilizzare la gente, mettere l’opinione pubblica internazionale davanti ai crimini in Cecenia, Ossezia, Inguscetia, ma non di fare la rivoluzione. L’opposizione che flirta con i nuovi ricchi, fingendo di ignorare che anche i più critici sono in realtà tutti putiniani, e ciondola lungo le strade della movida moscovita in realtà non si è resa conto che nel corso degli ultimi anni Putin ha consolidato il suo potere in senso bonapartista. Ha messo su un sistema plebiscitario nel quale chiunque può identificarsi, perfino il Patriarcato che è oggettivamente alleato con l’autocrate cui riconosce il valore di aver garantito la stabilità politica e sociale oltre la tutela del proprio potere che, come si sa, non è soltanto religioso. Ha, dunque, scambiato lucciole per lanterne chi si è lasciato abbacinare

Churchill diceva che «la Russia è un rebus, avvolto in un mistero, all’interno di un enigma». È sempre stato così. E chi immagina di cambiarne i connotati è a dir poco un ingenuo. Anna Politkovskaja ne era consapevole dalle voci dissenzienti nella Chiesa ortodossa, come quella dell’arciprete di Mosca Vsevolod Chaplin il quale, soltanto pochi mesi fa, sosteneva che i leader politici rischiavano di essere mangiati vivi se non si fossero messi in ascolto dei manifestanti che li contestavano. Episodi, marginali oltretutto, che non facevano temere Putin il quale, quando a risultato acquisito, acclamato da una Piazza Rossa gremita di sostenitori, ha pianto davanti alla Santa Russia, è sembrato uno zar d’altri tempi scampati al pericolo. Vecchie tecniche di seduzione delle masse di cui il leader post-sovietico ha appreso l’efficacia nella costruzione del personalismo politico trafficando con la psicologia, quando costruiva le premesse del consenso con il sostegno dei residui potentissimi del Kgb a sostegno nell’Unione Sovietica morente che, almeno dal punto di visto della potenza planetaria, si preparava a perpetuarsi nell’essenza nella nuova Russia che gli eredi di Gorbaciov e di Eltsin avrebbero costruito. L’affermazione del neo-bonapartismo di Putin si fonda, dunque, sull’inconsistenza politica dell’opposizione; sul velleitarismo degli intellettuali che non sono capaci di proporre alternative convincenti neppure all’elettorato urbano; alle illusioni del mondo del web che crede di scatenare in un Paese come la Russia una rivoluzione del tipo di quella arabo-musulmana; sui legami interni ed esterni (di vecchi arnesi del sovietismo) di Putin disposti per ragioni economiche, 15


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Putin, è riuscito nella stupefacente impresa di mixare, come dicono alcuni intellettuali russi, democrazia e dittatura, dando forma ad una inedita autocrazia tecnologica e populista nella quale i diritti formali sembrano essere garantiti militari ed energetiche a correre, qualora ne avesse bisogno, in suo aiuto; sul nazionalismo di buona parte dei sostenitori di Russia unita per niente disposti a cedere porzioni importanti di territorio alla formazione di micro-Stati islamisti. Putin sa assai bene che qualora riuscisse a saldarsi la protesta più avanzata con quella che viene non a caso chiamata Russia «profonda», la Russia dei contadini, delle campagne, lontana dai grandi centri urbani il suo tempo scadrebbe in men che non si dica. Ma affinché questa prospettiva si realizzasse occorrerebbe che la prima garantisse alla seconda un minimo di liberazione dai bisogni senza entrare in rotta di collisione con il regime. Impossibile. Nessuno a est di Mosca è disposto a rischiare per ritrovarsi sotto il tallone di una tirannia presumibilmente spietata e per di più affamato ed emarginato. È una storia antica quella che racconta l’ascesa e l’affermazione di Vladimir Putin. È la storia della campagna che accerchia la città e la sottomette. Come in uno scenario tolstoiano. Mosca, Pietroburgo, Novisibirsk sono pianeti fragili di fronte all’immensità di una nazione-continente che non è Europa, non è Asia, non è neppure Eurasia, ma qualcosa di indecifrabile che non ha mai conosciuto una accettabile forma di democrazia, ma ha sempre confuso la politica con il fatalismo. Le sue steppe gelide e le sue umide praterie del sud sono attraversate 16

perennemente da venti che nulla hanno a che fare con la politica quale noi la conosciamo in Occidente. Essi portano la forza nel cuore dove pulsa il potere che poi si diffonde e si difende da tutti i tipi di attacchi. Continueranno a giocare attorno al Cremlino inespugnato per i prossimi anni i filonazisti ed i filosovietici, gli antisemiti e gli antimusulmani, i nazionalisti e i liberali, coloro che vogliono la Cecenia libera e quelli che la vogliono russa. Putin continuerà a governare semplicemente perché la Russia è divisa, composita, esplosiva, magmatica. È la sua natura, come comprese Stalin. Ma lui aveva un’ideologia che se serviva a legittimare un crimine orrendo come l’Holodomor, la carestia programmata dell’Ucraina, non dava pane ai suoi miserabili sudditi. Putin un’ideologia non ce l’ha, ma ha pane a sufficienza perché nessuno gli rinfacci di non aver ammesso e sconfessato il genocidio staliniano appena ricordato, tra i tanti, dei quali il tiranno georgiano si rese responsabile. Neppure l’opposizione, gli intellettuali liberali, i nuovi politici che denunciano il sistema di corruzione del neobonapartismo moscovita fanno notare all’autocrate che un gesto di pacificazione sarebbe gradito. Perfino quel Consiglio d’Europa che all’Holodomor ha dedicato qualche sessione non si è scandalizzato per le posizioni negazioniste della delegazione russa. Si scandalizza, però e per lo spazio di un telegiornale, per i presunti brogli e, quando capita, per la sontuosa dacia nella quale Putin ama trascorrere operosamente le sue giornate contemplando il suo destino come un moderno zar, un epigono dei grandi della nomenklatura sovietica che hanno squassato l’orizzonte politico d’Oriente e d’Occidente. Putin forever? Con l’opposizione che si ritrova potrebbe anche aspirare a superare il limite del 2024. E nel frattempo continuare a rifornire la Siria di armi, l’Iran di incoraggiamenti, le milizie che torturano i ceceni di sorrisi e patacche da appuntargli sulle divise. Neppure il Bonaparte, quello vero, immaginava che la stella di Austerliz si sarebbe potuta inabissare a Waterloo. Quale sarà il destino di Putin? La Russia se lo domanderà per molti anni ancora.



Risk IL PAESE DOPO LE ELEZIONI TRA AMBIZIONE, DISSENSO E RECESSIONE ECONOMICA

IL PICCOLO CESARE DEL GRANDE VOLGA DI •

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ENRICO SINGER

er Vladimir Vladimirovich Putin la vera sfida comincia adesso. Che avrebbe ripreso lo scettro di zar della sterminata Federazione russa era talmente previsto e scontato che i suoi sostenitori – i nashi, i nostri, come si chiamano i giovani pasdaran del putinismo – erano già sotto le mura del Cremlino, ad applaudirlo, la sera di domenica 4

marzo quando le urne erano state appena chiuse. Del resto il suo ritorno nell’ufficio al secondo piano del Cremlino era programmato addirittura dal 2008: dall’invenzione della «staffetta» con Dmitri Medvedev (allora suo primo ministro) per uno scambio temporaneo dei ruoli che gli avrebbe consentito di aggirare il divieto costituzionale di un terzo mandato consecutivo da presidente rimanendo, però, sempre al timone del Paese: ufficialmente numero due, effettivamente leader indiscusso. Come ai tempi delle troike sovietiche dove presidente, premier e segretario del Pcus si scambiavano i ruoli, ma a comandare era sempre il più forte. E quello che è successo nelle ultime settimane non è altro che l’applicazione pratica di un piano studiato a tavolino per realizzare un sogno nemmeno tanto segreto: mantenere il potere il più a lungo possibile. Con la prospettiva della presidenza di sei anni che è appena cominciata e con quella di ricandidarsi nel 2018, Putin potrebbe rimanere in sella addirittura fino al 2024: un quarto di secolo. Più di Breznev (18 anni) e meno soltanto di Stalin che ha stabilito il record assoluto di 29 anni. Eppure con la nascita del VV-3 (il Vladimir Vladimirovich terzo) qualche cosa di fondamentale è cambiato. In un Paese abituato alle investiture trionfali, più che alle elezioni, anche i risultati addomesticati della Commissione elettorale cen18

trale diretta da Vladimir Churov – più o meno truccati dai brogli che anche questa volta sono stati documentati e denunciati – hanno dovuto ammettere un calo della sua popolarità. Quasi il 10 per cento in meno rispetto alle presidenziali nel 2004 (vinte con un robusto 71,3 per cento), ma più del 15 per cento in meno se si considera l’apice del suo consenso quando nel 2008 lasciò il Cremlino, con una Russia che era in pieno boom economico e che era tornata superpotenza mondiale. Se si calcola, come si deve, anche l’astensionismo – l’affluenza alle urne è calata dal 69,7 per cento al 65,3, significa che Putin, per ammissione dei suoi stessi servizi elettorali, non ha più la fiducia della maggioranza del Paese. Si dirà che in questo modo la Russia si allinea con il resto del mondo. Ma è proprio questo il segnale più importante che è arrivato da Mosca. E proprio su questo lavora l’opposizione che manifesta in piazza. Ma che, soprattutto, comincia a strutturarsi e a preparare un cambio che, se oggi appare impossibile, potrebbe spezzare il sogno di onnipotenza di Putin in un futuro più o meno lontano. La sfida del VV-3 è questa. E si giocherà su due fronti. Uno è esterno: dipende dalla capacità di organizzarsi dell’opposizione che, per il momento, non ha la forza per costringerlo alle dimissioni – come chiedono i giovani che hanno subito cominciato a mani-


dossier

festare a Mosca e a San Pietroburgo – e che non ha ancora trovato un vero leader, ma che è ormai una realtà con cui fare i conti. L’altro fronte è interno. Dipende da quello che farà Putin, dai progetti che ha in mente, da come gestirà il suo terzo mandato, dalle riforme che farà o che sarà costretto a fare. Anche dalle sue scelte in politica estera che peseranno sui rapporti di Mosca con l’Occidente. A partire dall’atteggiamento che prenderà sulla Siria – il primo a congratularsi per la sua elezione è stato, guarda caso, Bashar el Assad – e sull’Iran. Nei giorni immediatamente successivi al voto, la prova che Putin ha già cominciato ad affrontare è quella delle contestazioni.

Il fronte delle opposizioni La manifestazione di piazza Pushkin, a Mosca, è stata la quarta in tre mesi, da quando i brogli elettorali a favore del partito Russia Unita, nel dicembre del 2011, hanno innescato le più vaste proteste antigovernative dal crollo del comunismo, vent’anni fa. Allora a scendere nelle strade erano stati altri giovani che non avevano avuto paura nemmeno di opporsi ai carri armati schierati dal regime ormai morente. Adesso il rischio che una scintilla di violenza inneschi un incendio esiste, ma la situazione è molto diversa. Prima di tutto l’opposizione è divisa. Gli stessi risultati elettorali, per quanto manipolati, dimostrano che ci sono quattro componenti ufficiali (i comunisti, gli ultranazionalisti, i liberali e i socialdemocratici) che hanno in comune soltanto l’avversione per il capo del Cremlino e che esiste, però, anche una quinta componente, la più interessante: quella che in gran parte ha alimentato il non voto (quasi il 40 per cento dei 110 milioni di elettori) o che ha scelto gli altri schieramenti più per protesta che per adesione a una proposta politica. Nella media dei voti della Federazione russa, i comunisti di Ghennady Zyuganov – che, certo, non possono essere considerati gli interpreti del nuovo che si muove in Russia – sono comunque al 17 per cento, i liberali dell’oligarca Mikhail Prokhorov sono al 7 per cento, i nazionalisti di Vladimir

Zhirinovskij sono al 6 per cento e i socialdemocratici di Sergeij Mironov al 3 per cento. Ma se la grande periferia della Federazione (89 entità istituzionali tra Repubbliche e Territori autonomi) è decisiva sull’esito complessivo delle elezioni, Mosca e San Pietroburgo hanno un valore a parte perché è nelle due metropoli russe che si concentra il nuovo ceto medio postsovietico. E il caso di Mosca è esemplare: nella capitale, Vladimir Putin non ha nemmeno raggiunto il 50 per cento dei voti. Sempre secondo le cifre addomesticate della Commissione elettorale centrale, Putin ha ottenuto soltanto il 47,2 per cento dei voti a Mosca. Secondo è arrivato, con un risultato di tutto rispetto, Mikhail Prokhorov (il 20,2 per cento) che ha dimostrato di essere più radicato e popolare anche nelle altre aree urbane. Terzo il comunista Ghennady Zyuganov (19,1 per cento). La capitale, dove l’affluenza è stata del 58 per cento – il che significa che il partito del non voto è stato qui ancora più forte – ha umiliato, invece, sia Zhirinovskij che Mironov con percentuali tra il 4 e il 2 per cento. Questi dati confermano che l’epicentro dell’opposizione russa si trova proprio nella capitale – attenzione, parliamo sempre di una megalopoli di oltre 13 milioni di abitanti – dove si concentrano i nuovi imprenditori e gli intellettuali, dove ci sono le migliori scuole e università, dove ci sono le banche. In altre parole, dove c’è la Russia efficiente. O, almeno, quella che insegue un modello di sviluppo che cerca di spezzare il circolo vizioso della corruzione che soffoca a tutti i livelli un’amministrazione pubblica ancora molto potente che è passata quasi indenne dai tempi dell’Urss a quelli di Eltsin e di Putin. Tuttavia soltanto in parte questa nuova borghesia si riconosce in Prokhorov. Terzo uomo più ricco di Russia (13,7 miliardi di euro la sua fortuna, secondo Forbes), 46 anni, due metri e 4 centimetri di altezza che spiegano anche la sua passione per il basket (che lo ha portato all’acquisto della squadra dei Nets del New Jersey), l’oligarca anti-Putin ha fatto fortuna con le privatizzazioni seguite al crollo dell’Unione Sovietica. 19


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Quello che è successo nelle ultime settimane non è altro che l’applicazione pratica di un piano studiato a tavolino per realizzare un sogno nemmeno tanto segreto: mantenere il potere il più a lungo possibile. Con la prospettiva della presidenza di sei anni che è appena cominciata e con quella di ricandidarsi nel 2018, Putin potrebbe rimanere in sella addirittura fino al 2024 Prokhorov è presidente di Norilsk Nickel e Polyus Gold, colossi nei settori del nickel e dell’oro, nonché di Onexim Group, gigantesco fondo di investimento privato, e quando si è affacciato per la prima volta in politica lo ha fatto all’ombra del Cremlino che gli aveva riservato la presidenza del partito Giusta Causa, un’invenzione degli strateghi che affiancano Putin per dividere proprio il fronte dell’opposizione. Prokhorov è rimasto alla guida di quella formazione-civetta soltanto dal giugno al settembre del 2011, quando ne è uscito fragorosamente accusando il partito di essere «manovrato» dai putiniani. Nei tre mesi di campagna elettorale da outsider ha lanciato molte proposte di rottura, compresa la grazia per Mikhail Khodorkovsky, nemico giurato di Putin, condannato al carcere fino al 2016. Di sicuro più ascoltato dai giovani è Alexei Navalny, il blogger che è diventato l’icona del movimento di protesta e che era in prima fila in piazza Pushkin (dove è stato anche arrestato) per denunciare i brogli del voto presidenziale. Na20

valny, un avvocato di 36 anni, definisce Russia Unita «il partito dei ladri e dei farabutti» e ha fatto della lotta alla corruzione il suo cavallo di battaglia. Ma l’opinione prevalente degli osservatori politici russi, anche i più radicali come Alexei Venediktov, direttore della radio d’opposizione Eco di Mosca, è che né l’oligarca Prokhorov, né il blogger Navalny riusciranno a diventare i leader di un movimento che è ancora in una fase nascente, che ha la consapevolezza di avere bisogno di tempo per organizzarsi. E che considera già una vittoria importante costringere Putin a venire a patti, a fare concessioni. La più significativa sarebbe quella di non rimangiarsi le riforme promesse dopo le prime manifestazioni contro i brogli nelle elezioni del 4 dicembre per la Duma: a partire dal ritorno all’elezione dei governatori dello sterminato impero federale che, dal 2004, sono di nomina presidenziale.

La strategia del presidente Con quella mossa Putin è riuscito a sterilizzare la già asfittica vita politica russa riducendo il gioco – almeno formalmente – democratico alle elezioni per la Duma e alle presidenziali. Concentrando tutto il controllo del potere al centro, Putin ha di fatto tolto ossigeno all’opposizione che, adesso, per riconquistarsi un ruolo non soltanto a Mosca o a San Pietroburgo spera che VV-3 allenti le briglie consentendo la nascita e lo sviluppo di formazioni politiche e di leader anche in periferia. Un progetto a lunga scadenza, insomma. Una rivoluzione lenta, non una prova di forza in stile arancione, come avvenne a Kiev. Tantomeno una “primavera” che potrebbe trasformare la piazza Rossa in una piazza Tahrir. Il rischio di un’imprevedibile esplosione di violenza che potrebbe far saltare tutti i piani è sempre in agguato. Ma l’obiettivo dell’opposizione, per il momento, non sembra quello di costringere Putin a improbabili dimissioni, quanto quello di costringerlo a un possibile compromesso che apra la strada a una maggiore democratizzazione della vita politica russa. Anche se – come è verosimile – le manifestazioni non diventeranno ri-



volta, l’uomo forte del Cremlino si troverà di fronte a una grande sfida: tenere fede alle tante promesse elettorali che lui stesso ha fatto per conservare il potere. La più semplice da realizzare sarà quella di abolire la decisione di Medvedev di mantenere l’ora legale anche d’inverno che ha scontentato milioni di persone costrette ad alzarsi al buio. Ma tutto il resto sarà molto difficile e molto costoso: l’ultimo calcolo fatto dalla stampa economica russa parla di 120 miliardi di euro in spese sociali e di un bilancio pubblico che, per mantenersi in parità, dovrebbe contare su un prezzo del petrolio a 150 dollari il barile. Putin ha promesso di non alzare l’età pensionabile (oggi a 55 anni per le donne e a 60 anni per gli uomini) e di continuare ad aumentare le pensioni già in aprile, dopo il più 7 per cento concesso a gennaio. Il lungo elenco delle promesse prevede anche aumenti per gli insegnanti, i medici e le forze di sicurezza, per non parlare delle enormi spese militari previste dal piano (600 miliardi di dollari) per l’ammodernamento di navi, aerei e missili, fino ai nuovi sussidi per gli agricoltori a base di sconti sul diesel nella stagione della semina. Promesse difficili da mantenere Putin ne ha fatte anche agli investitori stranieri che vuole attirare in Russia. La sua roadmap verso una nuova economia prevede tassi di crescita del 6-7 per cento (per il 2012 siamo a un più modesto 3,5 per cento) e passa attraverso privatizzazioni e lotta alla corruzione per realizzare un clima più affidabile per il business. Ma molti pensano che, nonostante Putin abbia intitolato Nuova economia l’articolo in cui ha esposto le sue idee sullo sviluppo del Paese, sia illusorio aspettarsi un ridimensionamento del sistema del capitalismo di Stato su cui ha sempre fondato il suo potere. E nessuno crede che la crociata di moralizzazione colpirà i veri intoccabili, i siloviki, gli uomini su cui si regge il regime tanto a Mosca che nelle Repubbliche e nei Territori autonomi della Federazione russa. E che lo sostengono in cambio di posizioni di forza e di fonti di guadagno. Si tratta della tentacolare rete dei funzionari pubblici di ogni ordine e grado che dipendono direttamente dal Crem-


dossier lino e che al Cremlino direttamente rispondono. Il tallone d’Achille di Putin è proprio la corruzione e la naglost, l’arroganza e la spudoratezza del sistema che ha creato. La Russia è sempre stata corrotta, ma se sotto Eltsin le ruberie erano rampanti, sotto Putin sono diventate un’istituzione. È un male che colpisce tutti i russi. Dal Cremlino in giù, la corruzione ha inquinato la società. E considerato che alcuni dei più stretti amici di Putin, compresi quelli d’infanzia con i quali si allenava a judo, sono diventati miliardari, è difficile immaginare che riuscirà a combattere la corruzione senza scatenare immensi conflitti d’interesse all’interno del Cremlino che potrebbero contribuire ad accelerare la perdita del controllo del potere. Ecco che il fronte dell’opposizione s’intreccia a quello interno: al progetto che lo stesso Vladimir Putin insegue per il suo terzo mandato. Il VV-3 sarà più autoritario o più liberale? Reagirà all’opposizione – che è la più forte che ha mai dovuto fronteggiare dalla sua ascesa al potere nel Duemila – con il pugno di ferro, o con il dialogo? Paradossalmente, Vladimir Putin si trova nella condizione in cui si trovò Mikhail Gorbaciov negli ultimi anni dell’Urss. Gorbaciov, allora, tentò di riformare dall’interno il sistema con la glasnost (la trasparenza) e la perestrojka (il rinnovamento). Oggi Putin, se volesse davvero convincere l’opinione pubblica russa – e quella internazionale – della legittimità del suo potere, dovrebbe scegliere la strada della riforma del sistema che lui stesso ha costruito in quasi dodici anni Prevedere le intenzioni di Putin è più difficile di quanto non sia immaginare il futuro dell’opposizione perché anche gli osservatori politici russi si dividono tra chi crede che lo spazio per il dialogo, alla fine, sarà trovato e chi è convinto che il vero obiettivo dell’uomo forte del Cremlino sia soltanto quello di mantenere il suo potere assoluto il più a lungo possibile e ad ogni costo. Se il primo banco di prova dell’atteggiamento di Putin sarà la sua reazione alle proteste di piazza dell’opposizione, un altro segnale importante sarà la sorte che avranno le ultime

La Russia è sempre stata corrotta, ma se sotto Eltsin le ruberie erano rampanti, sotto lo “zar” sono diventate un’istituzione. È un male che colpisce tutti i russi. Dal Cremlino in giù la corruzione dilaga mosse del presidente uscente Dmitri Medvedev che ha ordinato alla Procura la verifica della legittimità della sentenza di condanna per l’ex magnate del petrolio, Mikhail Khodorkovsky. Il procuratore generale, Yuri Chaika dovrà, entro il primo aprile, analizzare la legittimità e la validità delle sentenze pronunciate contro 32 persone – tra le quali, appunto, Khodorkovsky e il suo principale socio, Platon Lebedev – che stanno scontando una pena a 13 anni di carcere. Il Cremlino non ha fornito dettagli, ma ha fatto sapere che la decisione è stata presa da Medvedev dopo un incontro con esponenti dell’opposizione che, il 20 febbraio, gli avevano consegnato una lista di persone considerate prigionieri politici. Medvedev, inoltre, ha chiesto al ministro della giustizia, Aleksandr Konovalov, di spiegare entro il 15 marzo i motivi del rifiuto di registrare Parnas, un partito di opposizione che annovera tra i suoi esponenti anche l’ex vicepremier Boris Nemtsov. A Mosca c’è chi giura che queste decisioni sono l’eredità avvelenata lasciata a Vladimir Putin dall’uomo che al Cremlino cerca di interpretare due ruoli: quello del fedele alleato di Putin e quello del moderato innovatore. E che ancora spera di poter prendere, un giorno, il posto dello zar. Magari quando sarà finita la prossima staffetta. E con la benedizione dell’opposizione interna allo stesso establishment che vede ancora in Dmitri Medvedev il possibile protagonista di un cambiamento senza troppe scosse. 23


Risk IL CALO DEMOGRAFICO E LO SPETTRO DELLA CRISI

LA SCOMPARSA DEI RUSSI DI

L

NICHOLAS EBERSTADT

o scorso dicembre ha segnato il Ventesimo anniversario della fine della dittatura sovietica e l’inizio della transizione postcomunista in Russia. Per i russi gli anni successivi sono stati carichi d’euforia e promesse, ma anche di problemi inaspettati e delusioni. Forse fra tutti gli sviluppi dolorosi della società russa dopo il crollo sovietico, il più sorprendente e sconcertante, è il declino demografico.

Negli ultimi due decenni, la Russia è stata presa nella morsa di una crisi e assai anomala in tempi di pace. La popolazione del paese è diminuita, i suoi livelli di mortalità hanno raggiunto livelli a dir poco catastrofici, e sembra stia pericolosamente perdendo gran parte delle proprie risorse umane. Infatti, i problemi causati alla Russia dal trend della popolazione in materia di salute, istruzione, nuove famiglie e altre tendenze, rappresentano un fenomeno senza precedenti per una società urbanizzata, alfabetizzata e non in condizioni belliche. Problemi demografici che sono di gran lunga al di fuori della norma, sia per paesi sviluppati che meno sviluppati, inoltre non ne sono state interamente comprese le cause. Non ci sono molte prove sul fatto che la leadership russa sia stata in grado di attuare delle politiche adeguate. Questa crisi, in tempo di pace, minaccia le prospettive economiche russe, le ambizioni per modernizzarsi e svilupparsi, e molto probabilmente la propria sicurezza. Il pedaggio pagato a livello umano è già stato notevole e il costo economico rischia di essere enorme; non meno importante, il declino demografico della Russia si preannuncia inquietante alla luce del comportamento esterno del Cremlino, che dovrà confrontarsi con un equilibrio tra potenze molto meno favorevole che in precedenza. 24

Anche durante gli anni sovietici la società russa era tutt’altro che un modello in quanto a benessere. La sindrome da stagnazione di lungo periodo e poi il declino nella sanità pubblica, mai visti prima in una società industrializzata, emersero durante l’era Brezhnev e continuarono ad affliggere la Russia fino al crollo del sistema comunista. Ancora alla fine degli anni Ottanta, il periodo della perestroika di Mikhail Gorbachev, le nascite annue superavano i decessi di circa 800mila unità. Ma il collasso del sistema comunista nell’Europa dell’est e poi nell’Unione sovietica provocarono una serie di shock demografici che si propagarono in tutto il blocco orientale: in pratica ogni paese membro del Patto di Varsavia registrò un netto calo delle nascite e un picco nei decessi, come se ci trovassimo in presenza di un’improvvisa carestia, di un’epidemia o di una guerra. La maggior parte di questi fenomeni furono temporanei, ma non in Russia, dove risultarono essere più incisivi e di lungo periodo che in ogni altro paese ex-comunista. La Russia post-sovietica è diventata una società a demografia negativa, registrando costantemente più decessi che nascite. Dal 1992, secondo la Rosstat, agenzia federale di statistica russa (meglio conosciuta come Goskomstat dai tempi dell’Urss), il saldo negativo tra morti e nuovi nati e di 12,5 milioni di unità. Che potremmo sinteticamente riassumere con un trend del-


dossier l’ultimo ventennio di tre funerali ogni due nascite. A livello globale nel secondo dopoguerra c’è stato solo un altro periodo terribile, dove i decessi sopravanzavano le nascite: in Cina tra il 1959 e il 1961 a causa del catastrofico «Grande balzo in avanti» di Mao Zedong. Come conseguenza di questo squilibrio demografico la Russia è avviata verso un processo di spopolamento del territorio. L’immigrazione, proveniente prevalentemente dai paesi dell’ ex Urss, ha in qualche maniera attutito il fenomeno, ma non lo ha scongiurato. Dal 1992, secondo i dati ufficiali, la popolazione ha subito un decremento quasi ogni anno. Seguendo questi dati vediamo che tra il 1993 e il 2010 il numero di russi è passato da 148,6 a 141,9 milioni, un calo vicino al cinque per cento. L’analisi sul censimento del 2011 finirà per innalzare la cifra totale di circa un milione di unità, più che altro per l’errata valutazione del numero d’immigrati, ma è un fatto che non cambia il quadro generale. Ma la Russia non è sola in questo trend negativo. Tre paesi del G-7, la Germania, il Giappone e l’Italia sono ai vertici di questa tendenza pur in un periodo di forte e continuo miglioramento delle condizioni sanitarie generali. L’entità complessiva della spirale discendente nelle condizioni di salute dei russi è catastrofica. Secondo le stime della Human mortality database, un consorzio di ricerca, la speranza di vita alla nascita in Russia era leggermente inferiore nel 2009 (l’ultimo anno per il quale siano disponibili i dati) rispetto al 1961, quasi mezzo secolo prima. La situazione è ancora peggiore per la popolazione adulta: nel 2009, l’aspettativa di vita dall’età di 15 anni, per tutti gli adulti russi, era più di due anni sotto il livello del 1959; l’aspettativa di vita per i giovani è sceso di quasi quattro anni rispetto a quelle due generazioni. In altre parole, la Russia post-sovietica sta soffrendo di un «eccesso di mortalità» con un saldo negativo di sette milioni di morti. Più o meno la quantità di morti causati dalla prima guerra mondiale alla Russia zarista. In una certa misura i dati demografici russi assomigliano a quelli che si vedono nelle società più povere e meno sviluppate. Nel 2009 l’aspettativa generale di vita per un giovane di 15 an-

ni era stata stimata inferiore a quella di paesi come il Bangladesh, Timor Est, Eritrea, Madagascar, Niger e Yemen, peggio ancora se passiamo agli adulti di sesso maschile, perché le aspettative stimate sarebbero inferiori a quelle del Sudan, del Rwanda e persino del devastato Botswana. Sebbene i dati riguardanti la popolazione femminile russa siano migliori, sempre nel 2009 le donne avevano speranze di vita leggermente superiori alle donne in età lavorativa della Bolivia il paese più povero del Sud America. Vent’anni prima in Russia lo stesso indice di mortalità era del 45 per cento inferiore rispetto alla Bolivia.

Come si spiega un deterioramento tanto eccessivo per la Russia? Anche se i problemi legati alla presenza di malattie infettive – come l’hiv e la tubercolosi resistente ai farmaci – sono ben noti, essi non concorrono che per una frazione al differenziale che esiste tra Russia e Occidente. Le cause principali sono state provocate dall’esplosione delle malattie cardiovascolari e da quelli che gli esperti chiamano «fattori esterni» come l’avvelenamento, le lesioni, i suicidi, gli omicidi, le cosiddette fatalità e altri eventi di natura violenta. La parte del leone nelle cause di decesso la fanno le malattie cardiovascolari – tre volte più alte che nell’Europa occidentale – e le lesioni. I decessi per atti violenti sono poi ad un livello stratosferico e comparabili con quelli di paesi come la Liberia e il

Dal 1992, secondo i dati ufficiali, la popolazione ha subito un decremento quasi ogni anno. Seguendo questi dati vediamo che tra il 1993 e il 2010 il numero di russi è passato da 148,6 a 141,9 milioni, un calo vicino al cinque per cento 25


Risk

Secondo alcune statistiche sociali, a partire dal 2004 più di 400mila giovani al di sotto dei 18 anni d’età vivono in case famiglia, il che implica che quasi un giovane su 70 risiede in una comunità per minori, in un orfanotrofio o in collegi gestiti dallo stato Sierra Leone. Capire invece perché in una società avanzata e a forte urbanizzazione ci siano fenomeni di questo genere è un altro paio di maniche. La mortifera storia d’amore tra russi e la bottiglia di vodka ha sicuramente a che fare col fenomeno; fumo, una cattiva dieta e l’assenza di medicina preventiva certamente fanno pagare un dazio anche loro. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dal 2004 i fumatori costituiscono la componente maggiore della popolazione adulta in Russia – sono il 36 per cento – rispetto ai dati europei. La nuda verità è che nessuno comprende perché i russi godano di una salute così cagionevole. È possibile che il dato sia correlato ad atteggiamenti, mentalità e conseguenti modelli di comportamento che ricadono sotto la voce «salute mentale». Senza voler andare troppo a fondo sull’analisi culturale e psicologica, è chiaro che lo stile di vita dei russi sia estremamente a rischio rispetto ai modelli standard dei paesi sviluppati. Una delle cause potrebbe risiedere nel sistema educativo, che non causa solo preoccupazioni nel campo delle risorse umane, ma incide anche sulla salute dei russi. Da un certo punto di vista la scolarizzazione dovrebbe essere l’ancora di salvezza della struttura sociale del paese: nell’era sovietica gli scienziati russi erano rinomati per l’alto livello di preparazione (anche se in gran parte per applicazioni nell’industria bellica) e anche dopo il crollo del comunismo il livello di po26

polazione con un titolo di tipo universitario in Russia è rimasto molto alto, secondo gli standard dei paesi Oecd (Organization for economic cooperation and development). Oggi però il sistema educativo non funziona più, il meccanismo sembra essersi rotto. Di solito a un buon livello d’istruzione si accompagna un altrettanto positivo stato di salute dei cittadini. Nonostante i russi con diploma universitario siano il 6 percento dei laureati a livello mondiale, per lo stesso periodo in esame la Russia produceva solo lo 0.2 per cento dei brevetti mondiali. Fino al 2008 i russi avevano pubblicato un numero di lavori scientifici inferiore agli altri membri del Bric, cioè Brasile, Cina e India. Anche la stabilità familiare è fragile. In Russia ci sono 56 divorzi ogni 100 matrimoni, un rateo peggiori dei tempi dell’Urss, già famosa per l’alta incidenza dei divorzi. Inoltre i genitori single devono crescere i propri figli con un reddito più basso e un wellfare meno efficiente dei paesi dell’Europa occidentale e degli Usa. Anche il fenomeno dell’abbandono scolastico e del calo drastico delle iscrizioni alla scuole primarie è un altro elemento del quadro negativo. Secondo alcune statistiche sociali, a partire dal 2004 più di 400mila giovani al di sotto dei 18 anni d’età vivono in case famiglia, il che implica che quasi un giovane su 70 risiede in una comunità per minori, in un orfanotrofio o in collegi gestiti dallo stato.

Troppo poco, troppo tardi Il Cremlino comprende come i trend demografici negativi siano così anormali e pericolosi da richiedere politiche energiche per sovvertirli. Negli ultimi anni, Mosca ha introdotto nuovi ed ambiziosi programmi finalizzati ad invertire la spirale demografica negativa del paese. Nel 2006, l’allora presidente Vladimir Putin rese noto un programma che elargiva fino a 10mila dollari tra crediti e sussidi alle madri con due o tre figli a carico. Egli promulgò anche un decreto che delineava un «concetto di politica demografica della Federazione russa fino al 2025», allo scopo di stabilizzare la popolazione russa a quota 145 milioni entro il 2025. Stando al progetto, dopo il 2015 le nascite su-


pereranno i decessi. A giudicare dalle proprie esternazioni pubbliche, il Cremlino appare ottimista circa la bontà delle nuove politiche. Ed in effetti, a partire dalla loro introduzione, le nascite hanno subito un incremento, mentre si registra una diminuzione nei decessi; di fatto, nel 2009 l’aspettativa di vita generale in Russia era di quasi 69 anni, la percentuale più alta dal crollo dell’Unione sovietica. Tuttavia, tale prognosi apparentemente positiva cozza con alcune ovvie ed irreversibili realtà demografiche. Innanzi tutto, il crollo delle nascite in Russia nel corso degli ultimi due decenni ha lasciato il paese con molte meno potenziali madri per gli anni a venire rispetto ad oggi. Le donne di età compresa tra i 20 ed i 29 anni concepiscono quasi i due terzi dei nuovi nati in Russia. Nel 2025, si stima che saranno solo 6,4 milioni le cittadine russe comprese in tale fascia d’età, con una diminuzione del 45 per cento rispetto alle percentuali odierne – e tali proiezioni non lasciano spazio a congetture, dato che tutte le donne comprese tra i 20 ed i 29 anni nel 2025 sono già nate. Contemporaneamente, la popolazione russa invecchierà rapidamente. Il Census Bureau prevede che i cittadini di età pari o superiore a 65 anni, che attualmente costituiscono il 13 per cento della popolazione, nel 2025 rappresenteranno quasi il 19 per cento dei russi. Come risultato del semplice invecchiamento, i livelli di mortalità pro capite in Russia aumenterebbero di più del 20 per cento qualora null’altro cambiasse. E dato il peggioramento che oggi si registra nella salute della popolazione, il conseguire risultati di lungo termine, per quanto concerne l’aspettativa di vita, rischia di essere un’impresa immane. Date queste realtà, con tutta probabilità la Russia rimarrà una società a crescita demografica negativa nel prossimo futuro. Le statistiche sociali russe delineano un costante – e sempre maggiore – divario che separerà nascite e decessi da oggi al 2030. Rosstat prevede un eccesso di 205mila decessi rispetto alle nascite per il 2011, cifra che aumenterà a più di 725mila nel 2030, con un saldo cumulativo di 9,5 milioni di decessi in più rispetto alle nascite tra il 2011 ed il 2030. Anche nello scenario più ottimistico di Rosstat, l’agen-


zia prevede un aumento della mortalità pari a 2,7 milioni tra il 2011 ed il 2025, cifra che toccherà quota 4,7 milioni entro il 2030. In tali previsioni sociali, un ulteriore spopolamento potrà essere prevenuto solo con una massiccia immigrazione dall’estero. Durante lo scorso decennio, la Russia ha certamente beneficiato dell’afflusso netto di milioni di lavoratori, la maggior parte dei quali provenivano dagli ex stati sovietici del Caucaso e dell’Asia centrale. L’economia russa ha altresì tratto benefici dalla fuoriuscita oltreoceano di propri cittadini, i quali ogni anno inviano in patria miliardi di dollari in rimesse. Ma le prospettive circa futuri flussi migratori verso la Russia sono fosche: in seguito ai cambiamenti nelle politiche educative in tutta l’ex Unione sovietica, i migranti odierni provenienti dal Caucaso e dall’Asia centrale parlano meno russo rispetto ai propri genitori, con maggiori difficoltà ad integrarsi nella società. Nel frattempo, l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dei nuovi arrivati da quelle regioni si è fatto meno ospitale. Non meno importante è l’immigrazione interna, soprattutto per quanto concerne l’immensa distesa dell’estremo oriente russo, una regione di oltre due milioni di miglia quadrate con appena sei milioni di abitanti. A partire dal 1989, tale inclemente e proibitivo territorio è stato abbandonato da un sesto della popolazione, e l’esodo continua. Alcuni studiosi occidentali, quali Maria Repnikova dell’università di Oxford e Harley Balzer della Georgetown University, intravedono grandi e tuttavia non ancora sfruttate opportunità di integrazione economica tra l’estremo oriente russo ed i suoi vicini, in special modo la Cina. Tuttavia, i principali demografi russi hanno una visione più negativa: essi temono che la regione possa – prima o poi nel secolo in corso – cessare di far parte della Russia.

L’orso sperpera? Soprattutto, gli attuali modelli demografici della Russia determineranno conseguenze spaventose sul tenore di vita dei suoi cittadini. Al di là dell’effetto sul benessere individuale, il declino demografico del


dossier paese comporterà gravi implicazioni sulle performance economiche. Sebbene la Russia sia dotata di ingenti risorse naturali, nel contesto economico globale d’oggi sono le risorse umane ciò che in ultima analisi contano per la determinazione della ricchezza nazionale. In epoca moderna, non vi è esempio di superpotenza basata sulle materie prime. E, a fronte di tutte le sue ricchezze energetiche, anno dopo anno la Russia accumula minori introiti dalle esportazioni di quanto faccia il Belgio. Sebbene il presidente Dmitry Medvedev abbia avvertito che la Russia non debba rimanere un’economia basata sulle materie prime e sostenga la sua campagna di modernizzazione, la sua amministrazione poco ha fatto per riqualificare il paese come un’economia basata sulla conoscenza. Nel 2008, subito prima dell’insorgere della crisi economica globale, Mosca annunciò un ambizioso piano economico conosciuto come Russia 2020. Esso prevede che la Russia si attesti tra le cinque maggiori economie globali entro il 2020 e si pone come fine una crescita economica ad un tasso medio annuale del 6,6 percento tra il 2007 ed il 2020. Anche se la produzione pro capite russa nel 2010 era appena più elevata di quanto non fosse nel 2007, il Cremlino considera ancora gli obiettivi di Russia 2020 come realizzabili. Il raggiungere tali mete richiederebbe ora un aumento medio della produttività lavorativa di più del 9 per cento annuo tra il 2010 ed il 2020. Un tale ritmo di crescita di lungo termine nella produttività lavorativa non era stato raggiunto nemmeno dalla Cina tra il 1978 e oggi, il più lungo periodo di crescita economica di lungo termine mai registrato da un paese nella storia. Invece che concentrarsi sul catapultare l’economia russa verso gli alti gradi dei performer globali, i legislatori russi dovrebbero saggiamente chiedersi cosa sarebbe necessario fare al fine di evitare che l’economia russa si contragga in termini di quota di produzione globale nei decenni a venire. Secondo le proiezioni dello Us Census bureau, si stima che tra il 2005 ed il 2025 la quota di popolazione russa in età lavorativa crolli dal 2,4 per cento all’1,6 per cento. Ciò implica che i miglioramenti di lungo termine nella pro-

duttività lavorativa della Russia dovrebbero essere pari ad un 2 percento annuo in più rispetto al resto del mondo. Se questi risultati non dovessero essere perseguiti, la quota russa di produzione economica mondiale, e l’influenza economica del paese a livello globale, diminuirebbero negli anni a venire. Ciò non equivale ad affermare che la Russia diventerà più povera, ma in un mondo progressivamente più ricco, con standard sanitari e di istruzione più elevati, le limitazioni delle risorse umane potrebbero implicare che il paese debba attendersi una fetta inferiore della futura torta economica globale. La crisi demografica russa genera altresì implicazioni per le sue capacità militari e, per estensione, per la sicurezza internazionale. Nel 2007, l’ex primo ministro russo Sergei Stepashin ammonì che «la riduzione delle dimensioni e della densità della popolazione (…) creeranno rischi d’indebolimento dell’influenza politica, economica e militare della Russia nel mondo». Il mantenere l’attuale struttura militare – un esercito di più di un milione di soldati, principalmente coscritti vincolati ad adempiere ad obblighi di leva di un anno – non sarà fattibile nell’immediato avvenire. Malgrado i piani per trasformare le forze armate russe in un corpo formato interamente da volontari, l’esercito di Mosca continua ad essere composto principalmente da diciottenni. Se Mosca vuole prevenire la brusca flessione di personale militare, ha solo due scelte: arruolare meno coscritti qualificati o estendere i termini di leva secondo coscrizione obbligatoria oltre gli attuali 12 mesi. La prima soluzione suona poco invitante in virtù della necessità di effettivi in salute e con un buon livello di preparazione per gli eserciti moderni; la seconda appare politicamente impossibile per via della diffusa impopolarità della leva obbligatoria e per gli esigui stipendi elargiti ai soldati russi. La breve guerra russa con la Georgia nell’agosto del 2008 fu interpretata da molti, inclusi alcuni al Cremlino, come un segnale che la Russia stava ancora una volta risorgendo dal punto di vista militare dopo un decennio di debolezza postsovietica. Ma la competizione militare con la Georgia, un piccolo vicino con appena 20mila soldati, dif29


Risk ficilmente poteva qualificarsi come una prova delle capacità da grande potenza, ancor meno come un test circa la portata globale della potenza russa. Le industrie di armamenti russe non sono state delle innovatrici ad alto contenuto di conoscenza; al contrario, il settore della difesa sembra dipendere in gran parte dal capitale intellettuale dell’epoca sovietica. A differenza di Pechino, che è impegnata in una modernizzazione militare nei decenni a venire, Mosca si sta di fatto preparando a combattere le guerre di questo secolo con la tecnologia del secolo scorso. In effetti, come gli analisti russi Anders Aslund e Andrew Kuchins hanno segnalato nel 2009, a fronte di un miglioramento delle capacità militari cinesi, Pechino ha «ridotto le importazioni di tecnologia militare russa, giungendo persino ad esportare le proprie versioni a tradizionali clienti della Russia quali l’Angola, l’Etiopia e la Siria». Nel suo primo discorso sullo «Stato della nazione» del luglio Duemila, Putin dichiarò che «anno dopo anno, noi, i cittadini di Russia, diventiamo sempre meno… La minaccia che incombe è di diventare una nazione senile». Nel suo discorso del 2006, egli identificò la demografia come «il più acuto problema con cui oggi il nostro paese si deve misurare». Nella Strategia di sicurezza nazionale di Medvedev del maggio 2009, la situazione demografica del paese veniva indentificata come una delle «nuove sfide alla sicurezza» con la quale la Russia dovrà confrontarsi negli anni a venire. Ma come affronteranno i poco democratici e claudicanti leader russi le pressioni demografiche e gli sfavorevoli trend di risorse umane che stanno minando i loro obiettivi? Per la comunità internazionale, questo potrebbe essere l’unico più sgradevole aspetto della crisi di popolazione della Russia in tempo di pace: è possibile che il declino demografico russo possa sollecitare Mosca a diventare un attore più imprevedibile, persino minaccioso, sulla scena mondiale. Il declino potrebbe condurre i leader militari russi ad abbassare la soglia nucleare. Opzione che venne messa in luce per la prima volta da Putin nel suo Concetto di sicurezza nazionale del Duemila ed è stata riaffermata da Medvedev nel 2009. Per il 30

momento, il Cremlino ritiene ancora che i propri ambiziosi piani socio-economici di lungo termine non solo ovvieranno alla demografia negativa del paese, ma che spingeranno altresì la Russia nei selettivi ranghi delle superpotenze economiche mondiali. Quando il Cremlino si confronterà finalmente con l’effettiva portata delle tremende verità demografiche del paese, i leader politici russi potrebbero di certo farsi più allarmisti, imprevedibili e conflittuali nei propri atteggiamenti internazionali. Nel frattempo, la Russia si ritrova circondata da paesi la cui stabilità e rispetto reciproco nei decenni a venire sono tutt’altro che certi: Afghanistan, Iran, Corea del Nord, Pakistan e le repubbliche dell’Asia centrale. Se la periferia russa diventasse più instabile e minacciosa e i governanti russi dovessero rendersi conto che il loro potere relativo è in declino, il comportamento del Cremlino potrebbe diventare meno fiducioso delle proprie possibilità. La monumentale crisi demografica e di risorse umane della Russia non può essere ovviata senza un altrettanto monumentale sforzo nazionale. Tale sforzo richiederà uno storico cambiamento nella mentalità russa, sia nelle stanze del potere che tra la popolazione. Ciò che è positivo è che, con centinaia di miliardi di dollari nei propri caveaux frutto degli scambi con l’estero, la Russia molto probabilmente dispone dei mezzi per finanziare le campagne d’istruzione e sanitarie per tale trasformazione. I governi stranieri ed altri attori esterni possono anch’essi svolgere un ruolo. La comunità internazionale dovrebbe promuovere scambi tecnici e professionali, progetti congiunti sullo sviluppo di best practices negli ambiti sanitario ed educativo, e dialogo all’interno della società civile per costruire una base russa e frenare l’attuale emorragia di vite e talenti russi. E, ove necessario, i legislatori stranieri, gli uomini d’affari, e i funzionari delle organizzazioni non governative dovrebbero essere pronti a svergognare pubblicamente il governo russo per la palese negligenza nei confronti del benessere della popolazione. Dopo tutto, una Russia in salute e vigorosa non è solo nell’interesse del popolo russo, ma anche del resto del mondo.


dossier PETROLIO E GAS: LINFA (E DEBOLEZZA) DEL SISTEMA POLITICO-ECONOMICO DEL CREMLINO

IL TUBO DI GAZPROM E L’EUROPA DI

L

NICOLÒ SARTORI

a recente diminuzione degli approvvigionamenti di gas naturale russo verso l’Europa ha riportato alla luce l'annoso dibattito sulla dipendenza energetica europea da Mosca, nonché sui presunti tentativi del Cremlino di approfittare del suo potere energetico per ricattare politicamente ed economicamente il vicino occidentale. Dal 2006 ad oggi, causa le ricorrenti

quotidianamente immesso sui mercati internazionali – la Russia da qualche anno contende all’Arabia Saudita il ruolo di primo produttore ed esportatore di greggio al mondo. Anche nel settore del carbone, di cui detiene quasi il 20 per cento delle riserve globali, Mosca è un attore di primo piano. Ma è quando si parla di gas naturale che il dominio di Mosca si manifesta in modo più eclatante: con quasi 45 trilioni di metri cubi (Tcm) di risorse convenzionali – pari al 25 percento del totale globale – la Russia è di gran lunga il primo paese al mondo in termini di riserve. E nonostante la seconda posizione (di poco) alle spalle degli Stati Uniti in termini di produzione, la Russia detiene il primato assoluto delle esportazioni con movimenti pari a 200 miliardi di metri cubi (Bcm) di gas annui, pari a un quinto dei traffici globali. Ovviamente, l’industria energetica ha un peso fondamentale sulle performances economiche russe: la vendita di petrolio e gas naturale sui mercati internazionale rappresenta oltre due terzi delle esportazioni totali del paese, e contribuisce alla formazione di un quarto del prodotto interno lordo. Come per la maggior parte dei grandi paesi produttori ed esporUn leader globale tatori di risorse energetiche, le rendite del settore Considerata a tutti gli effetti il leader globale nel set- oil&gas rappresentano la linfa – ma anche una detore energetico, con un output totale di oltre 10 mi- bolezza intrinseca – del sistema politico-economico lioni di barili al giorno – il cui 70 per cento viene russo. Ed è proprio per questo che, nonostante modispute con i paesi di transito – Ucraina e Bielorussia in primis – o le difficoltà di Gazprom nel soddisfare contemporaneamente domanda interna e contratti di fornitura internazionali, l’affidabilità della partnership energetica con la Russia è stata oggetto di numerose riflessioni, tanto in ambito europeo quanto a livello nazionale. Al di là della facile strumentalizzazione (politica e mediatica) delle periodiche controversie che caratterizzano le forniture di gas russo in Europa, un’analisi più attenta e approfondita mostra come il rapporto di interdipendenza tra le parti sia un elemento chiave per interpretare l’evolversi delle relazioni energetiche russo-europee. Nonostante l’immancabile diffidenza, Mosca è storicamente uno dei partner energetici più affidabili per i paesi europei e per l’Italia in particolare. Tuttavia, nuove dinamiche di tipo economico, commerciale e tecnologico attualmente in atto a livello globale potrebbero determinare – ben più che obiettivi puramente politici – un parziale allentarsi della solida partnership con la Russia, con effetti potenzialmente negativi soprattutto per i paesi europei.

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Risk menti di alti e bassi, il Cremlino negli ultimi decenni ha costantemente cercato di mantenere solide relazioni energetiche con i partner europei.

Diffidenza e interdipendenza La cooperazione energetica tra Russia ed Europa fonda le sue radici in piena guerra fredda. Nonostante l’appartenenza ai due opposti schieramenti, durante il conflitto bipolare un gruppetto di paesi europei – primo fra tutti l’Italia – hanno avviato e mantenuto per oltre un trentennio rapporti commerciali con Mosca, consolidando le relazioni anche in seguito alla caduta del muro di Berlino e all’implosione dell’Unione Sovietica. Già nel 1958, l’Italia era stato il primo paese occidentale ad aggirare la cortina di ferro grazie all’intraprendenza di Eni, accordatasi con il governo russo per l’importazione di 800mila tonnellate di greggio Ural; due anni dopo, nel 1960, a fronte di una fornitura da 12 milioni di tonnellate di greggio in quattro anni, la compagnia energetica italiana si era impegnata a esportare in Russia 240mila tonnellate di tubi di acciaio, pompe, saracinesche e compressori per oleodotti, necessari per la costruzione dell’oleodotto sovietico Druzba. A partire dagli anni Settanta, sulla scia delle iniziative italiane, anche Austria, Francia, Germania hanno dato nuovo impulso alla partnership energetica russo-europea siglando i primi contratti con il ministero del Gas sovietico. Gli accordi firmati di lunga durata, per grandi volumi, e disciplinati da rigide clausole contrattuali – erano strutturati per garantire alle compagnie energetiche nazionali dei paesi europei forti tutele, e per incentivare il flusso di investimenti in grandi progetti infrastrutturali, primo fra tutti il lungo gasdotto Soyuz, in grado di collegare i giacimenti siberiani con i mercati europei. In quegli anni, la solida collaborazione con Mosca ha permesso ai paesi dell’Europa occidentale di gettare le basi per la necessaria politica di diversificazione dagli approvvigionamenti mediorientali in un periodo particolarmente critico come quello tra i due shock petroliferi degli anni Settanta. In modo abbastanza sorprendente e troppo spesso sot32

tovalutato, è proprio durante il conflitto bipolare che la dipendenza energetica europea nei confronti della Russia – ed in particolare delle sue forniture di gas naturale – ha sperimentato il suo picco, per ridursi sostanzialmente dagli anni Ottanta in poi. Mentre nel 1980 quasi l’80 per cento dell’import di gas naturale dei paesi europei provenivano dalla Russia, ai giorni nostri Gazprom fornisce circa il 35 per cento delle importazioni totali dell’Unione europea. Inoltre, va anche sottolineato come a livello europeo la dipendenza dagli approvvigionamenti russi oggi è estremamente eterogenea: mentre ci sono paesi come Spagna e Portogallo in grado di soddisfare la propria domanda interna senza dover ricorrere al gas russo, altri – in particolare gli stati dell’ex blocco sovietico in Europa orientale – dipendono totalmente dalle forniture di Gazprom. La spiegazione della special relationship tra Russia e Europa nel settore del gas è abbastanza intuitiva: come detto, con quasi 45 Tcm di gas naturale, la Russia è di gran lunga il paese con la maggiori riserve provate al mondo; l’Europa, dal canto suo, è stata a lungo leader di consumi al pari degli Stati Uniti. A causa della rigidità del mercato del gas – trasportato principalmente attraverso infrastrutture fisse, i gasdotti – la prossimità geografica tra gli immensi giacimenti russi ed i mercati europei ha di fatto reso l’Europa il mercato più appetibile per le esportazioni di Mosca, e la Russia – ovviamente – il fornitore ideale per soddisfare la crescente domanda del Vecchio continente. Quella dell’interdipendenza, pertanto, è una questione che non va sottovalutata: la pre-

I mercati europei assorbono il 70 per cento delle esportazioni totali di gas russo, alle quali va aggiunto l’80 per cento di quelle di petrolio e il 50 percento di quelle di carbone


dossier occupazione dei governi europei per un eccessiva dipendenza dagli approvvigionamenti russi va infatti analizzata anche alla luce della forte concentrazione delle esportazioni di Mosca verso l’Europa. I mercati europei assorbono infatti il 70 per cento delle esportazioni totali di gas russo, alle quali va aggiunto l’80 per cento di quelle di petrolio e il 50 percento di quelle di carbone. É quindi abbastanza evidente quali possano essere i timori di un paese come la Russia – altamente dipendente dalle rendite derivanti dal proprio settore energetico – nel vedere i suoi partner europei fortemente impegnati in iniziative di diversificazione delle fonti di approvvigionamento.

Aggressività o scelte difensive? Nel tentativo di consolidare la propria posizione sul mercato europeo, negli ultimi anni il Cremlino ha adottato una strategia mirante ad eliminare il principale elemento geopolitico per la sicurezza degli approvvigionamenti russi verso l’Europa: il transito sul territorio ucraino. Attualmente, dall’Ucraina transita l’80 percento delle esportazioni russe destinati ai mercati europei; il restante 20 per cento attraversa l’altrettanto delicato territorio bielorusso. Poiché le crisi energetiche degli inverni 2006 e 2009, causate da dispute tra Kiev e Mosca su prezzi, tariffe di transito e metodi di pagamento hanno alimentato un acceso dibattito tra le autorità e l’opinione pubblica europea sull’affidabilità della Russia come partner energetico, Mosca ha deciso di rispondere alla crescente conflittualità con il vicino ucraino investendo in progetti infrastrutturali che ne permettessero l’aggiramento del territorio. La realizzazione dei gasdotti Nord Stream e South Stream – che attraversano, rispettivamente, il Mar Baltico ed il Mar Nero collegando direttamente la rete russa con i mercati europei – può essere interpretata in quest’ottica. Tuttavia, l’iniziativa russa ha scatenato reazioni discordanti in ambito europeo. Infatti, mentre la costruzione di Nord Stream – riconosciuto come un importante strumento per il rafforzamento della sicurezza degli approvvigionamenti europei – è stata accolta con favore a Bruxel-

les, lo sviluppo di South Stream è stato oggetto di forte criticismo da parte dell’Unione europea e di buona parte dei suoi stati membri. Il progetto ideato da Gazprom ed Eni, alle quali si sono recentemente aggiunte la francese Électricité de France (EdF) e la tedesca Wintershall, viene considerato un chiaro tentativo del Cremlino per vanificare l’iniziativa europea di diversificazione degli approvvigionamenti attraverso la creazione del Corridoio Sud – una rotta virtuale in grado di collegare i paesi produttori del Mar Caspio con i mercati europei. Proprio la competizione – presunta o reale che sia – tra South Stream e Nabucco, il flaghsip project di Bruxelles per lo sviluppo del Corridoio Sud, ha dato vita ad un acceso dibattito in Europa. Sebbene sia evidente che Mosca non gradisce la crescente intraprendenza europea nella regione caspica, va tuttavia sottolineato che le cause del fallimento di Nabucco non sono determinate dalla competizione con South Stream, ma da debolezze economiche, commerciali e industriali intrinseche al progetto europeo, prima fra tutte la mancanza di risorse effettivamente disponibili per riempire le sue condotte da 31 Bcm annui. Resta il fatto che l’irrigidimento della posizione russa sugli equilibri di potenza attorno al Mar Caspio – testimoniato anche dal veto assoluto del Cremlino su qualsiasi tentativo di risoluzione delle dispute sullo status legale internazionale del bacino, che potrebbe potenzialmente aprire alla realizzazione di un gasdotto transcaspico e al flusso di gas turkmeno verso occidente – ha contribuito ad alimentare gli attriti e la diffidenza tra Mosca e Bruxelles.

Il nuovo mercato del gas Sebbene rimanga prioritaria sia per l’Unione europea che per la Russia, negli anni a venire la cooperazione in ambito energetico potrebbe essere soggetta a significativi mutamenti. Più che la competizione scatenata nel Caspio e in Asia Centrale dall’iniziativa europea del Corridoio Sud, sono i profondi cambiamenti che caratterizzano il mercato globale del gas che potrebbero agire da driver per una almeno parziale 33


Risk revisione della strutturata interdipendenza che attualmente contraddistingue i rapporti russo-europei. Infatti, il contemporaneo sviluppo delle abbondanti risorse di shale gas negli Stati Uniti e l’emergere di un mercato globale del gas favorito dell’evoluzione della tecnologia Lng (Liquefied natural gas) potrebbero contribuire in modo significativo ad un allentamento del vincolo geografico alla base della stretta interdipendenza energetica tra Russia e paesi europei. Dal punto di vista europeo, l’eccesso di offerta globale determinato dal crollo delle importazioni americane potrebbe favorire l’attuazione di una più ampia strategia di diversificazione attraverso l’Lng, che nel 2010 ha superato per la prima volta nella storia il 30 per cento dei movimenti globali di gas naturale. Tuttavia, la crescita del mercato Lng può anche aprire interessanti alternative per la diversificazione delle esportazioni russe. La lenta crescita della domanda di gas in Europa, causata anche dalla crisi economica che attraversa il vecchio continente, ha infatti spinto Mosca a guardare con grande interesse all’Asia orientale, dove in paesi come Cina, India, Corea del Sud, Taiwan,

Dal punto di vista europeo, l’eccesso di offerta globale determinato dal crollo delle importazioni americane potrebbe favorire l’attuazione di una più ampia strategia di diversificazione attraverso la Lng, che nel 2010 ha superato per la prima volta nella storia il 30 per cento dei movimenti globali di gas naturale 34

Vietnam e Thailandia la domanda di gas naturale cresce di oltre il 15 per cento all’anno. L’alternativa asiatica rappresenta una soluzione particolarmente allettante per la Russia: prezzi alti e domanda in forte crescita forniscono incentivi sufficienti a giustificare ambiziosi progetti infrastrutturali come l’impianto Lng di Yamal o il gasdotto trans-coreano, e gettano le base per la ridefinizione delle priorità strategiche russe per gli anni a venire. L’intraprendenza del Cremlino verso oriente è confermata dai serrati negoziati tra la russa Novatek e Qatargas – compagnia enrgetica del Qatar, leader globale dell’Lng – per lo svlippo di di risorse nell’Artico russo, e dagli sforzi del governo per raggiungere un accordo con Pyongyang e Seoul per la realizzazione di un gasdotto in grado di trasportare in Corea del Sud tra i 10 e 12 Bcm annui entro il 2017. Oltre ai radicali cambiamenti in corso nel mercato globale del gas, anche l’adozione (e applicazione) del Terzo pacchetto energetico della Commissione europea rappresenta certamente un ulteriore stimolo per Mosca a diversificare le proprie opzioni di export. Proprio il modello che ha caratterizzato le relazioni contrattuali e industriali tra compagnie energetiche europee – spesso monopolisti nazionali – e Ministero del Gas sovietico durante la guerra fredda, ha contribuito a creare un mercato europeo del gas, frammentato in tanti mercati nazionali privi di competizione né al loro interno, né tantomeno nei confronti di concorrenti esterni. Il pacchetto di misure adottato dalla Commissione, che mira a rendere il mercato europeo del gas più integrato e liberalizzato con l’obiettivo finale della creazione di un mercato unico, di fatto contribuirebbe ad erodere la posizione dominante di Gazprom in Europa, rendendo agli occhi dei russi il mercato europeo relativamente meno appetibile che in precedenza. Negli scorsi mesi il dibattito tra Mosca e Bruxelles sull’implementazione del pacchetto ha portato la tensione tra le parti a livelli particolarmente alti, nonostante tutti si siano dichiarate mutuamente disponibili a cercare un compromesso per non pregiudi-


dossier care le relazioni bilaterali. Ma il tentativo di Mosca di diversificare i propri mercati di esportazione dovrà fare i conti con una problematica che cronicamente affligge il settore energetico russo, la carenza di investimenti a livello industriale. Senza una reale apertura agli investimenti stranieri nel paese, la Russia rischia di trovarsi incapace di rispondere in modo appropriato alla crescente domanda di gas, contribuendo all’erosione della propria credibilità e affidabilità di paese fornitore agli occhi dei partner energetici, vecchi e nuovi che siano. La parziale interruzione degli approvvigionamenti verso l’Europa dello scorso febbraio – causata da un inverno eccessivamente freddo e dal conseguente picco della domanda domestica – sono significativi della necessità russa di mettere concretamente mano alla propria industria energetica.

La partnership con l’Italia Avviata grazie all’audace intraprendenza e allo spirito pionieristico di Enrico Mattei sul finire degli anni Cinquanta, la partnership tra Roma e Mosca rappresenta un elemento essenziale della politica energetica italiana. L’Italia è oggi il secondo importatore europeo di gas naturale dalla Russia, e insieme alla Germania assorbe il 50 percento delle esportazioni russe verso il vecchio continente. Poiché oltre il 40 per cento dei profitti di Gazprom vengono generati sui mercati tedesco ed italiano, è evidente come il nostro paese rappresenti un partner strategico per Mosca. Oltre al forte vincolo in materia di approvvigionamenti – nel 2007 Eni ha sottoscritto un accordo di fornitura con Gazprom con scadenza nel 2035 – Italia e Russia sono impegnati in una serie di ambiziosi progetti che riguardano l’intera catena industriale energetica, dall’esplorazione alla produzione, dal trasporto e alla distribuzione. Attraverso la sua controllata Saipem, Eni ha realizzato l’oleodotto Blue Stream e il sistema di condotte a terra nell’isola russa di Sakhalin; Eni è stata l’unica compagnia straniera a prendere parte all’asta per il gigante energetico russo Yukos, dal quale ha ac-

quisito asset delle società Urengoil e Arktikgaz, che le permettono di avere accesso diretto all’esplorazione di giacimenti di gas in territorio russo; tramite la sussidiaria Eni Energia, ha infine siglato – primo operatore europeo a raggiungere un’intesa di questo tipo in Russia – una serie di contratti per la vendita di gas con il produttore energetico russo Tgk-9. In alcuni casi, tuttavia, la posizione privilegiata dell’Italia ha rappresentato un elemento controverso delle relazioni energetiche russo-europee. Vista spesso (ed erroneamente) come favorita esclusivamente dalle relazioni e dagli affari personali di Berlusconi e Putin, la politica italiana verso Mosca è stata interpretata da Bruxelles (e da Washington) come un grosso freno alla creazione di una coerente politica energetica dell’Unione verso la Russia. Il caso più emblematico è certamente South Stream: il dibattito sulla realizzazione del gasdotto, promosso tra l’altro nel 2006 dal governo di centro-sinistra e marcatamente europeista guidato da Romano Prodi, ha creato notevoli tensioni tra Bruxelles e Roma, accusata di esporre l’intera Europa ai rischi del dominio energetico russo. Queste accuse, tuttavia, non tengono in debita considerazione il background storico delle relazioni tra Italia e Russia, non considerano le peculiarità del mix energetico italiano – fortemente sbilanciato verso il gas – e soprattutto tendono a sottovalutare l’impegno di Roma nel favorire la diversificazione degli approvvigionamenti grazie alla realizzazione di importanti infrastrutture quali i gasdotti mediterranei Transmed e Greenstream. Nonostante le critiche e le pressioni esterne, ma con la consapevolezza che l’eccessiva concentrazione delle fonti di approvvigionamenti rappresenta una minaccia alla sicurezza energetica del paese, la relazione con Mosca rimane un elemento fondamentale e indiscutibile per la politica italiana. Riuscire a plasmare il proprio approccio, in modo da poter giocare un importante ruolo di trait d’union nei rapporti tra Russia ed Europa, deve essere un obiettivo strategico per il futuro. 35


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dossier IL RIARMO RUSSO, TRA BOUTADE, REALTÀ E CORRUZIONE

IL CREMLINO (PER ORA) NON FA PAURA DI •

C’ •

ANDREA NATIVI

è motivo di preoccuparsi se Mosca proclama di voler riconquistare un ruolo «imperiale» e se il Cremlino annuncia investimenti addizionali rispetto al bilancio ordinario della difesa pari a 20 trilioni di rubli, ovvero 625 miliardi di dollari entro il 2020, per realizzare una «re-militarizzazione» del Paese? Se fosse vero si tratterebbe di uno sforzo

ciclopico, considerando anche che la Russia spende per la Difesa annualmente intorno ai 65 miliardi di dollari. Solo per i prossimi tre anni si tratterebbe di consacrare alla difesa almeno un 3 percento addizionale del pil, quasi raddoppiando la spesa militare. E considerando che i soldi extra dovrebbero andare a sviluppare e comprare nuovi armamenti… i timori potrebbero essere giustificati. Ma non è così. Per diversi lustri la Russia è scomparsa dal novero delle potenze militari ed ha vissuto sulle vestigia di quanto era rimasto del formidabile strumento bellico ereditato dall’Urss. Semplicemente mancavano persino i soldi per far funzionare i mezzi e gli equipaggiamenti, per addestrare il personale, per effettuare la manutenzione e in qualche momento anche per pagare regolarmente gli stipendi. In particolare, per oltre un decennio, nel corso degli anni Novanta, il ministero della Difesa non è stato in grado di ordinare al pur mastodontico complesso militare-industriale un solo nuovo mezzo, aereo, elicottero, unità navale che fosse. E progressivamente la macchina militare si è fermata. È a partire dal Duemila, con l’inizio della stagione di Putin, che è stata avviata una lenta ricostruzione e ristrutturazione, volta a ridare un po’ di efficienza, riducendo contemporaneamente le dimensioni e la consistenza di un complesso di forze solo sulla carta colossale. Quanto valessero realmente le forze russe lo

si era visto tragicamente durante le operazioni militari in Cecenia, quando la Russia è stata costretta a impegnare massicciamente le forze di sicurezza del ministero degli Interni per supplire almeno in parte alle carenze della ex Armata Rossa. Quello che era il più potente esercito al mondo aveva cessato di essere uno strumento impiegabile in operazioni reali. Putin ha imposto una severa riorganizzazione, che si è estesa anche al corrottissimo e inefficiente sistema industriale militare, il Voenno promyshlenmy komplex, o Vpk, costretto a subire una serie di accorpamenti, di fusioni, di tagli e riduzioni forzate. Putin ha anche avviato una politica di export militare con poche remore e limiti, che ha dato peraltro ottimi risultati, portando l’ammontare delle vendite di sistemi ed equipaggiamenti militari a superare la soglia dei 10 miliardi di dollari all’anno, contribuendo così a sostenere attività di ricerca e sviluppo e quantomeno il miglioramento dei mezzi e degli armamenti più riusciti realizzati o progettati prima del collasso dell’impero sovietico. Di fatto per anni le industrie russe hanno prodotto poco e solo per l’export, consegnando ai clienti stranieri armamenti spesso più sofisticati di quelli in servizio con le forze armate domestiche. La politica nazionalistica, la riscoperta dell’orgoglio patrio, delle vecchie insegne imperiali e le “sparate” di Putin non si sono però tradotte in risultati concreti per 37


Risk diversi anni e tutt’ora resta moltissimo da fare. Beninteso, i progressi ci sono stati, ma a ritmi molto lenti e molto… russi, anche per via dell’inerzia e della resistenza di una classe di militari e funzionari che non solo vedeva sgretolarsi certezze, potere e prestigio, ma addirittura doveva temere per il proprio posto di lavoro e per il modesto ruolo previsto nella nuova società russa. Ma a dispetto della retorica, Putin si è ben guardato dal commettere gli errori dei suoi predecessori e non ha incrementato la spesa militare a livelli tali da compromettere la rinascita economica ed industriale e la modernizzazione del paese. A dispetto degli introiti garantiti dalla vendita di petrolio e di gas naturale a prezzi sempre più vantaggiosi, Mosca non ha accelerato più di tanto gli investimenti per la difesa: se nel Duemila la difesa pesava per il 3,7 per cento del pil nel 2009 si era arrivati al 4,3 per cento. Valori sicuramente elevati, ma sostenibili. Nel 1995 in teoria la Russia spendeva il 7,4 per cento del pil per la Difesa. Putin e Medvedev hanno deciso di procedere con decisione ancora maggiore dopo che le “nuove” forze armate russe sono uscite vittoriose dal confronto con la piccola Georgia nel 2008. Per osservatori esterni non potevano esserci dubbi sull’esito del-

A dispetto della retorica, Putin si è ben guardato dal commettere gli errori dei suoi predecessori e non ha incrementato la spesa militare a livelli tali da compromettere la rinascita economica ed industriale e la modernizzazione del Paese. Se nel Duemila la difesa pesava per il 3,7 per cento del pil nel 2009 si era arrivati al 4,3 per cento 38

la crisi, ma se la mini guerra si fosse svolta solo tre anni prima i russi non sarebbero riusciti a strapazzare gli impudenti e suicidi Georgiani, come invece hanno fatto. Da allora il Cremlino ha deciso una nuova riforma della macchina militare, perché il successo ha anche messo a nudo molte manchevolezze, nonché dei caposaldi strategici sui quali si basa la politica di difesa e di sicurezza del paese. Putin aveva già fatto elaborare una nuova dottrina militare nel Duemila, poi rivista nel 2003, sia pure in modo informale. Nel febbraio 2010 è toccato a Medvedev promulgare una nuova edizione del documento, che ha determinato ruoli e funzioni e stabilito i principi cardine della ennesima ristrutturazione, anche questa volta a ridurre le quantità in favore della qualità, della efficienza e di un vero balzo tecnologico.

Dalla leva al professionismo Il passaggio da un sistema di alimentazione basato sulla mobilitazione di masse enormi di soldati di leva, sottoposti a lunghi periodi di ferma obbligatoria, ad un reclutamento imperniato su volontari e professionisti non è davvero un traguardo vicino per la Russia. E probabilmente non è neanche desiderato dal Cremlino, che avrebbe più di un motivo per diffidare della lealtà di forze armate piccole, efficienti e professionalizzate. Mosca si accontenta di procedere ad una progressiva riduzione del “peso” della leva e ad un incremento della componente professionale, soprattutto nei reparti ad elevata prontezza operativa, la élite del nuovo esercito russo. Fatto sta che l’obiettivo di ridurre gli effettivi al di sotto della soglia psicologica del milione di uomini (e donne) è stato posticipato al 2013. Oggi si viaggia ancora intorno a 1,13 milioni di militari, tanti, troppi, a dispetto di una popolazione di circa 140 milioni di abitanti, con un tasso di invecchiamento però molto elevato e indice di crescita demografica negativo. Peraltro ci sono problemi non trascurabili nel reclutamento e mantenimento in servizio di volontari e professionisti di qualità e questo spiega perché ancora non si è raggiunta la soglia del 20 per cento di profes-


sionisti che rappresenta, per ora, il massimo previsto per il nuovo sistema misto. Solo qualche anno fa si sperava di arrivare al 60 per cento, poi si è dovuto conciliare i sogni con la realtà. Peraltro si è provveduto a ridurre la durata della coscrizione a 12 mesi (in precedenza erano 2 anni), mentre molti giovani scelgono il servizio civile alternativo, anche perché questo ora dura 24 mesi e non 42 mesi come accadeva in precedenza. La riforma prevede la creazione di un nuovo corpo ufficiali, con la riduzione degli alti gradi e degli ufficiali non «operativi» e soprattutto la attribuzione di crescenti responsabilità ad un corpo professionale di sottufficiali, che in tutti gli eserciti costituisce la spina dorsale del sistema. Nell’Armata Rossa questa funzione era svolta dagli ufficiali e questo ne spiega l’inflazione. Anche la Russia però si sta allineando al modello occidentale e questo ha comportato il pensionamento di ben 160mila ufficiali. Quelli che restano dovranno avere più responsabilità e competenze. Ma certo quello del personale rimane uno dei settori ancora più deficitari.

Le forze nucleari Nella consapevolezza che le forze convenzionali sono e resteranno ben al di sotto dei livelli di capacità ed efficienza desiderati, la Russia continua ad affidare le sue pretese di potenza sugli armamenti nucleari. Le forze strategiche sono di fatto una forza armata separata, i cui effettivi rappresentano oltre il 10 per cento del personale in uniforme. Mosca insiste a proclamare l’importanza delle armi nucleari e l’efficienza e letalità del suo arsenale. Però è ben contenta di poterne ridurre la consistenza attraverso accordi bilaterali con gli Stati Uniti. In particolare sia il trattato di Mosca imposto da Bush nel 2002, sia il New Start firmato nel 2010, entrato in vigore l’anno successivo e i cui nuovi «tetti» per testate e vettori saranno obbligatori nel 2018, hanno consentito a Mosca di ridurre il suo costosissimo potenziale nucleare, affidato, come avviene negli Usa ad una «triade» costituita da missili balistici basati a terra, lanciati da sottomarini a propulsione nucleare e su


Risk missili e bombe lanciati da bombardieri. Mosca non ha i soldi e le capacità industriali e tecniche per realizzare una nuova generazione di missili e vettori strategici. Basti pensare ai bombardieri, sempre quelli dei tempi dell’Urss, un misto di Tu-160 supersonici e di affascinanti, ma super obsoleti Tu-95 con propulsione turboelica. Di realizzare un nuovo bombardiere pesante proprio non si parla. Le cose vanno un po’ meglio per il tradizionale elemento principe del deterrente russo, i missili balistici basati a terra, fissi e mobili. I vecchi “mostri” della guerra fredda, gli Ss-18 e Ss-19, vengono un poco alla volta rimpiazzati dalle versioni evolute del Topol Ss27, dal quale è derivato anche il nuovo e poco conosciuto Rs-24 a testate multiple. Vanno male invece le cose in campo navale, dove il programma volto a realizzare un nuovo missile Slbm, lanciato da sottomarini, il Bulava, ha avuto uno sviluppo travagliatissimo, costellato da lanci falliti. Solo dopo anni sembra che il programma sia finalmente maturato al punto di poter procedere alla produzione del nuovo missile, sia pure in piccola serie. La marina peraltro sta procedendo con la realizzazione di una classe di nuovi sottomarini strategici (Ssbn) della classe Borey. Dovrebbero essere 8-9 entro il 2021. Intanto si continuano ad usare i vecchi Typhoon e Delta. L’importanza delle armi nucleari nel pensiero militare russo è confermata dalla isteria che riguarda i programmi statunitensi ed oggi anche Nato volti a realizzare un sistema stratificato di difesa antimissile. Se le difese funzionano, allora i missili russi perdono valore e significato. E Mosca non lo può tollerare. Peraltro, anche se la Russia sostiene di avere messo a punto missili in grado di superare ogni difesa (l’Iran dice di aver fatto la stessa cosa) la realtà è che i nuovi sistemi di difesa antimissile sono finalmente efficaci e per superare questi scudi… bisogna avere più missili e più letali. E Mosca non vuole essere costretta a produrli. Piuttosto la Russia sta cercando di recuperare parte del terreno perduto in settori di importanza strategica, come lo spazio o il cyberwarfare. In parti40

Consapevole che le forze convenzionali sono e resteranno ben al di sotto dei livelli di capacità ed efficienza desiderati, la Russia continua ad affidare le sue pretese di potenza agli armamenti nucleari. Le forze strategiche sono di fatto una forza armata separata, i cui effettivi rappresentano oltre il 10 per cento del personale in uniforme colare gli investimenti nei progetti spaziali militari mostrano una qualche ripresa. Il segno più evidente di questa rinascita viene dalla rivitalizzazione della costellazione di satelliti da navigazione Glonass, che era scesa a livelli minimi di efficienza e copertura, prima di essere ripristinata. E qualcosa si muove anche nel campo dei satelliti per comunicazione, osservazione, spionaggio elettronico. A Mosca non serve invece spendere più di tanto nel campo dei vettori spaziali, uno dei tradizionali punti di forza della tecnologia russa: i vettori russi sono molto validi, potenti e costano relativamente poco. E aver a che fare con “clienti” europei, come è il caso di Arianespace con i lanciatori Soyuz, ha anche portato a migliorare i processi industriali e i controlli qualitativi, con positivi effetti sulla efficienza e la affidabilità.

Il comando centrale Nel corso degli anni il sistema centrale e territoriale di comando e l’organizzazione delle forze armate sono state più volte rivisti, anche perché Mosca si era trovata con una pletora di comandi e stati mag-


dossier giori infarciti di ufficiali e staff che avevano poco o nulla da comandare. Oggi non è stato ancora realizzata una revisione definitiva, però il concetto base è quello di dar vita ad un comando operativo centrale dal quale dipendono le unità di elite con la massima prontezza operativa (che sono anche quelle con più elevata presenza di professionisti, come la 76ma divisione aviotrasportata della Guardia), ripartite tra unità di reazione immediata e unità di reazione rapida. Questi reparti sono distribuiti sul territorio e dipendono amministrativamente dai sei distretti, ma il loro impiego è affidato al comando delle forze mobili, che risponde allo stato maggiore generale. I distretti sono comandi operativi interforze, ai quali sono assegnati tutti i reparti aerei, navali e terrestri presenti nell’area di competenza. Dai distretti dipendono le armate da queste i corpi d’armata che inquadrano le divisioni, formate da reggimenti. È stato proposto di semplificare ancora, passando ad una catena che comprenda distretti-comandi interforzebrigate. Di fatto visto che le pedine operative sono davvero poche, si stanno accorciando le catene di comando, sopprimendo livelli intermedi e comandi che non comandano. Basta pensare al caso dell’Aeronautica, che sta passando da 340 a 180 unità e comandi e con le vecchie armate aeree che vengono sciolte, sostituite da soli quattro comandi operativi, con responsabilità territoriali molto ampie. Anche la Marina si va a snellire e se mantiene la suddivisione delle unità in diverse flotte, in realtà queste sono ormai formazioni di ben modesta consistenza. Va anche precisato che i reparti “standard” rimangono ancora poco più che formazioni di mobilitazione: non hanno pieni organici, non hanno i mezzi tabellarmente previsti, né livelli d’addestramento ed efficienza tali da consentirne un impiego, se non dopo un lungo periodo di preparazione. Questo peraltro non è un problema che affligge solo le forze armate russe… anche tra i paesi Nato, Italia inclusa, ci sono situazioni analoghe. Del resto mantenere un reparto alla massima prontezza è estremamente costoso e non è neanche sostenibile nel tem-

po, occorre infatti prevedere un ciclo di rotazione, che richiede ovviamente il ricorso ad un pool abbastanza vasto di reparti operativi.

I primi progressi L’Aeronautica russa finalmente sta ricevendo aerei di nuova produzione e non deve solo accontentarsi di ammodernare vecchi velivoli, con anni e anni di servizio sulle spalle. Intendiamoci, i programmi d’aggiornamento e di estensione della vita operativa di questo o quel velivolo, si tratti di bombardieri tattici Su-24 o di caccia Su-27, ci sono ancora e del resto attività analoghe sono in corso su F-16 e F-15 anche negli Stati Uniti. Ma per la Russia la novità è rappresentata dalla produzione e consegna di diversi modelli di aerei da combattimento realmente nuovi. Se anche si tratta della ultima evoluzione di progetti datati conta poco, anche perché finalmente ci sono anche i nuovi programmi, a partire da quello relativo al nuovo caccia pesante Sukhoi T-50, al centro di una collaborazione con l’India. Il T-50 è un velivolo che, quando entrerà in servizio, consentirà un salto qualitativo all’aeronautica di Mosca ed avrà anche un notevole appeal per selezionati clienti internazionali. Parallelamente l’aeronautica riceve anche nuovi aerei da addestramento, elicotteri da collegamento e da combattimento, velivoli da trasporto. I ritmi di produzione e consegna sono sempre lentissimi e prima che possa essere raggiunta una reale capacità operativa devono passare anni, però tutti questi sono segni concreti di rinnovamento. Che arrivano al momento giusto: basti pensare che dei quasi 1.500 elicotteri in servizio con l’aviazione dell’esercito, quelli in grado di volare sono forse solo il 50 percento. Anche la Marina, da sempre la cenerentola tra le forze armate russe, ha motivo di sorridere. Si tratta ad esempio dei grandi sottomarini nucleari da crociera classe Severodvinsk, o di una nuova serie di battelli Progetto 636 Kilo migliorati, ordinati per compensare i risultati poco soddisfacenti ottenuti con i Lada, o del progetto relativo a grandi cacciatorpedniere lanciamissili Progetto 21956, men41


Risk tre entrano in servizio anche le fregate classe Gorshkov e Grogorovich, le fregate leggere classe Tatarstan, le corvette classe Stregushchy e i pattugliatori Grad Sviyazhky e le navi da assalto anfibio Ivan Gren. Magari le risorse sono state disperse su troppi tipi e modelli, ma certo gli ammiragli russi non si lamentano, perché possono finalmente sostituire vecchie navi ormai obsolete e logorate e ci sono anche i soldi per ammodernare alcune grandi unità già in servizio, ma ancora sfruttabili. Quanto all’esercito. Magari sarà stato costretto a rinunciare all’acquisizione di un nuovo carro da battaglia, il cui sviluppo si trascinava da anni, ma le consegne di nuovi mezzi e gli interventi di rivitalizzazione di quelli in linea sono una realtà positiva, mentre in alcuni settori, come quello dei sistemi missilistici antiaerei, ci sono importanti (e temibili) novità, come la raggiunta operatività dei nuovi sistemi S-400 Treumf e lo sviluppo dei successivi S-500.

Affari & mercati Quello che un tempo sarebbe stato anatema è oggi una realtà: la Russia non si accontenta più di acquistare i suoi mezzi dalle industrie domestiche. Se queste non sono in grado di realizzare quanto necessario, in termini di qualità, di tecnologia, di efficienza e di costi, il Cremlino ha autorizzato il ministro della Difesa Anatoly Serdyakov a comprare all’estero. Due i casi eclatanti: l’acquisito di due unità da assalto anfibio classe Mistral dalla Francia e il programma che porterà a realizzare forse 2.500 mezzi ruotati protetti Iveco Lince, prodotti su licenza in Russia. Se fosse possibile Mosca comprerebbe anche molto altro in Occidente. Basti pensare che il capo delle forze corazzate ha detto pubblicamente che piuttosto che continuare ad acquistare i carri da battaglia T-90, visti i prezzi richiesti, preferirebbe poter acquistare carri tedeschi Leopard 2. Solo che per certi prodotti e tecnologie c’è ancora un embargo non ufficiale, senza contare che se qualcuno si azzarda a vendere qualcosa a Mosca, Washington subito scatena tutta la sua potenza di fuoco politica, 42


dossier strategica ed economica. Fare affari in campo militare con Putin e compagni, pardon, soci, proprio è un tabù. Agli occhi statunitensi solo vendere a Pechino è peggio che vendere a Mosca. Per le industrie di casa questi acquisti stranieri sono veri e propri smacchi, che si aggiungono a quelli subiti in campo, ad esempio, elettronico (anche qui i francesi sono i venditori più disinvolti). Le industrie russe peraltro stanno finalmente uscendo dalla dipendenza dai progetti ex Urss e cominciano a realizzare mezzi innovativi di vario tipo. Per cercare di colmare il gap tecnologico nei confronti dell’Occidente (che è indiscutibile ed è andato ad ampliarsi nel corso degli ultimi 10-15 anni) i russi hanno battuto più strade. Da quella tradizionale dello spionaggio industriale e militare (la stessa attività è praticata su scala ancora più ampia la Cina) allo sfruttamento delle tecnologie duali e commerciali, approfittando anche del relativamente rapido processo di “banalizzazione” di tecnologie comunque molto avanzate. Certo, non basta per rimanere agganciati agli Stati Uniti o all’Europa quando si tratta di realizzazioni top, perché rubare o comprare non basta, però almeno non si perdono posizioni. Del resto il problema della Russia non è mai stato quello dei cervelli: i bureau russi hanno sempre vantato scienziati di prim’ordine, capaci di studiare soluzioni e tecnologie eccellenti. I problemi nascevano quando si trattava di passare dalla ricerca e dai laboratori alla realizzazione, sperimentazione e ancora più vistosamente alla industrializzazione e produzione. Queste difficoltà in parte ancora esistono. Neanche l’azione brutale di Putin, che ha schiantato più di un boiardo e schiere di generali, ha potuto compiere il miracolo. Anche perché talvolta i nuovi tecnocrati non si sono poi mostrati così superiori agli esponenti dell’ancien régime. Non c’è motivo per aver paura dell’orso russo. Mosca non ha volontà e non possiede e non avrà i mezzi per tornare a rappresentare un problema per la sicurezza dell’Occidente. Anzi, non era in effetti conveniente assistere ad un progressivo depauperamento del potenziale militare russo vis a vis con un

L’obiettivo di ridurre gli effettivi al di sotto della soglia psicologica del milione di uomini (e donne) è stato posticipato al 2013. Oggi si viaggia ancora intorno a 1,13 milioni di militari, tanti, troppi, a dispetto di una popolazione di circa 140 milioni di abitanti, con un tasso di invecchiamento molto elevato e un indice di crescita demografica negativo sostenuto (sì preoccupante, in ottica di lungo termine) potenziamento di quello cinese. Il riarmo russo di fatto si limita alla sostituzione di sistemi d’arma giunti alla fine della vita operativa con mezzi più recenti, moderni, ma che non sono certo migliori di quelli realizzati negli Usa o in Europa. E il recupero d’efficienza e di effettive capacità operative non deve allarmare, perché si parte da livelli estremamente bassi e il tutto si accompagna ad una drastica riduzione quantitativa. La nuova Russia non è e non sarà una minaccia per la sicurezza, anzi, qualche problema di sicurezza poteva nascere da una Russia militarmente troppo debole. Gli slogan di Putin non devono quindi allarmare, tanto più visto che è, nel contesto politico russo, un quasi moderato che aspira ad una dittatura morbida. E che deve guardarsi da estremisti nazionalisti o vetero comunisti i quali, per quanto folkloristici, non vanno sottovalutati. Anche perché tra le forze armate raccolgono molti più consensi di quanto non accada a Putin. 43


Risk GAP TECNOLOGICI E AUTARCHIA NON CONSENTONO IL DECOLLO DELL’INDUSTRIA

LA DIFESA DIMEZZATA DI •

I

ALESSANDRO MARRONE

l mercato della difesa russo, sia per quanto riguarda la domanda che l’offerta, rimane un caso a sé stante non assimilabile né ai modelli europei o americani né a quelli offerti dalle economie emergenti. Per comprendere l’attuale situazione del mercato russo della difesa, e non solo, è necessario considerare il cambiamento radicale avvenuto nelle ultime due decadi. Infatti, con

il dissolvimento dell’Urss, l’industria della difesa russa ha vissuto, fino al 1998, due trasformazioni traumatiche: da un lato la riduzione radicale di investimenti e commesse da parte del governo della Federazione russa; dall’altro il mercato nei paesi dell’Europa orientale in precedenza assicurato dall’egemonia sovietica è venuto a mancare con lo scioglimento del Patto di Varsavia, e il successivo allargamento di Nato e Ue. La conseguenza delle due trasformazioni è stata la drastica riduzione della capacità produttiva del comparto aerospazio e difesa, sia in termini di personale che di strutture produttive. L’industria della difesa russa impiegava 8 milioni di lavoratori nel 1990, scesi a 2,6 milioni cinque anni dopo e a 1,8 milioni nel 2004, il 2,7 per cento del numero di occupati in Russia nel 2004. Il bilancio della difesa, pur non scendendo mai sotto la soglia del 3 per cento negli ultimi 20 anni, ha seguito l’andamento altalenante dell’economia russa. Dopo la fase più acuta della crisi economica nel 19971998, l’industria della difesa russa è tornata a crescere anche grazie ai programmi di modernizzazione e riarmo delle forze armate condotti dalla presidenza di Vladimir Putin prima e di Dimitrij Medvedev poi. Tuttavia i livelli raggiunti rimangono inferiori a quelli registrati della guerra fredda, e maggiormente in linea con la realtà della Russia di oggi. Ad esempio, il 44

valore della produzione industriale russa nel 2005 era triplicato rispetto al 1997, ma ammontava circa alla metà di quello registrato nel 1991. Un’altra trasformazione importante ha riguardato il ruolo dello stato nella duplice veste di compratore e produttore, tramite aziende controllate, di sistemi d’arma. Diverse riforme del procurement russo si sono succedute dal 1991 in poi, volte tra l’altro a realizzare un certo controllo civile, da parte del governo e in particolare del Cremlino, su un settore come il procurement in precedenza di esclusiva competenza militare. Pur rimanendo sia la domanda che l’offerta sotto il controllo governativo, si è inoltre affermata una certa separazione funzionale tra compratori e produttori. I primi, cioè le forze armate, dal 2008 conducono i programmi di procurement attraverso l’Agenzia federale per il procurement di sistemi d’arma, equipaggiamenti militari e logistica, incaricata di definire, firmare e monitorare l’esecuzione dei contratti. Un ruolo simile è svolto nei rispettivi settori dall’Agenzia spaziale federale, la Roskosmos, e da Rosatom, l’Agenzia federale per l’energia atomica – nonché per l’armamento nucleare. Il coordinamento tra ministero della Difesa e i ministeri o le agenzie incaricate della politica industriale avviene tramite la Commissione militare-industriale istituita nel 2006. In particolare il ministero per l’Industria e l’energia supervisiona la po-


dossier litica industriale, inclusa quella relativa all’’industria della Difesa, tramite l’agenzia Rosprom. Sul versante dell’offerta, la base industriale russa ha sperimentato un processo di ristrutturazione e consolidamento, basato su acquisizioni e fusioni, che ha portato alla formazione di pochi grandi gruppi industriali specializzati in macro-settori quali ad esempio aeronautica, cantieristica navale, elettronica, elicotteristica. Tali gruppi industriali sono direttamente o indirettamente posseduti o controllati dallo stato russo. Nel complesso, il modello di concentrazione e controllo statale tanto sulla domanda che sull’offerta nel settore della difesa ricalca quanto avvenuto in Russia nel settore dell’energia. Oltre agli aspetti economici e istituzionali, non vanno trascurati aspetti geopolitici e culturali che influenzano in maniera importante il mercato della difesa russo. Sul primo fronte, non va dimenticata l’esigenza di proteggere un territorio nazionale incredibilmente ampio, e comprendente o confinante con diversi focolai di crisi – nonché con un competitore globale come la Cina. Ciò contribuisce a spiegare gli investimenti russi ad esempio nel comparto degli armenti terrestri e dei veicoli pesanti, inclusi i carri armati di cui la Russia è un produttore leader a livello mondiale. Riguardo al fattore culturale in Russia, sia a livello di élite politiche che d’opinione pubblica, è forte la convinzione di essere una potenza mondiale che deve essere in grado di competere in tutti i campi con gli Stati Uniti, nonché con eventuali potenze emergenti. Convinzione nel campo della difesa che poggia anche sull’eredità dell’era sovietica, ad esempio in termini di capacità convenzionali e nucleari, di capacità produttive in tutti o quasi i comparti dell’industria della difesa, nonché di esportazioni consolidate in mercati come quello cinese e indiano. Ciò contribuisce a spiegare la ritrosia nel dipendere da fornitori stranieri, cui si ricorre solo ed esclusivamente quando l’industria nazionale non è in grado di produrre neanche una versione appena decente del sistema d’arma in questione. Ad esempio, sebbene il settore aeronautico sconti dei forti gap tecnologici rispetto ai velivoli d’attacco euro-

pei o americani, è probabile che la Russia investirà su un proprio velivolo di 5ta generazione, sulla base dell’esperienza maturata con i velivoli di 4ta, piuttosto che acquistare all’estero piattaforme più performanti e tecnologicamente avanzate. Il combinato dei fattori geopolitico e culturale, nonché di altri elementi peculiari del caso russo, fa della Russia un attore globale che coniuga una forte capacità produttiva ed esportatrice con una netta chiusura del mercato interno alla penetrazione straniera. Le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin hanno riaffermato la necessità, in termini di sicurezza e anche di sviluppo economico, di mantenere l’indipendenza scientifica, tecnologica e militare attraverso investimenti nell’industria della difesa nazionale. Di fatto, la Russia è un importatore marginale nel mercato internazionale della difesa. Oltre alla chiusura assoluta verso le importazioni americane, peraltro ricambiata dagli Stati Uniti, si registra una certa riluttanza anche verso le industrie europee. È invece abbastanza consolidato l’interscambio con Israele, anche grazie alla forte presenza di ebrei di origine russa nello stato mediorientale. In generale, il cliente russo nel rivolgersi a imprese straniere punta alla costi-

Dopo la fase più acuta della crisi economica nel 1997-1998, la difesa russa è tornata a crescere anche grazie ai programmi di modernizzazione e riarmo delle forze armate condotti da Vladimir Putin prima e da Dimitrij Medvedev poi. Tuttavia i livelli raggiunti restano inferiori a quelli della guerra fredda 45


tuzione di joint venture, tramite le quali ottenere il massimo possibile in termini di trasferimento di tecnologia e di offset quali ad esempio stabilimenti produttivi aperti sul territorio russo. È questa una politica sempre più seguita oggi da molti paesi emergenti, inclusi India e Brasile. La Russia non è un paese emergente, sebbene incluso nell’ormai famoso acronimo Bric, ma piuttosto un player globale che dopo la crisi e le trasformazioni degli anni ’90 presenta oggi punti di debolezza e di forza. Tra i punti di debolezza vi è sicuramente il gap tecnologico delle capacità produttive russe, nonché delle forze armate, che a volte è tale da non permettere efficaci joint venture né il desiderato trasferimento tecnologico. Emblematico il caso delle fregate Mistral che la Russia ha dovuto acquistare dalla Francia vista l’incapacità della cantieristica russa di raggiungere standard accettabili. Tra i punti di forza vi è senza dubbio la possibilità di coprire quasi tutti i settori del mercato della difesa, e la capacità di offrire prodotti che, sebbene tecnologicamente non allo stato dell’arte, soddisfano anche grazie ad un prezzo relativamente basso i requisiti di paesi più interessati alla quantità, convenienza e solidità dei sistemi d’arma che al loro livello tecnologico. Non a caso i principali clienti delle esportazioni russe sono paesi quali India, Cina, Algeria, Vietnam, Indonesia e Venezuela. Quanto alle repubbliche ex sovietiche, il panorama è piuttosto variegato: Bielorussia, Uzbekistan e Armenia sono generalmente allineati con la Russia, se non veri e propri satelliti di Mosca, e rappresentano un mercato naturale per l’industria della difesa russa; più dialettico il rapporto con Ucraina e Kazakistan, quest’ultimo un paese strategico visti i siti industriali e militari russi presenti sul suo territorio, inclusi quelli di tipo spaziale e nucleare; tra Russia e Georgia i rapporti sono ovviamente interrotti. L’export è sicuramente uno dei punti di forza dell’industria della difesa russa: tra il 1995 e il 2008, il 21 per cento di tutte le esportazioni nel mercato internazionale della difesa erano di provenienza russa (contro il 38 per cento di provenienza americana). L’export russo è sostenuto e coordinato in modo cen-


dossier tralizzato dall’agenzia governativa Rosoboronexport, che fornisce anche assistenza tecnica alle forze armate dei paesi compratori, regola le produzioni su licenza, e si occupa di prodotti e tecnologie dual use. Rosoboronexport conta anche su una società privata, la Oboronprom (United industrial corporation) per promuovere la cooperazione tra l’industria russa e le società straniere. I proventi delle esportazioni sono investiti principalmente in programmi di ricerca e sviluppo volti a colmare il gap tecnologico dell’industria della difesa russa, particolarmente grave in settori quali le telecomunicazioni, i sistemi di comando e controllo, l’elettronica a l’informatica. Tali gap sono il risultato anche della storica debolezza dell’industria civile, che invece negli Stati Uniti e in Europa alimenta ormai da anni l’innovazione tecnologica nei suddetti settori con importanti ricadute anche nel campo della difesa. I programmi di riarmo recentemente annunciati dal vertice politico russo offriranno probabilmente maggiori opportunità per investire nella modernizzazione delle forze armate, ma l’export rimarrà comunque una fonte importante di risorse per un’industria della difesa come quella russa che necessita di forti investimenti per diventare tecnologicamente competitiva con le imprese occidentali. In questo contesto, quali sono le opportunità per imprese europee ed in particolare italiane nel settore aerospazio e difesa? Un primo elemento da considerare è la possibilità di investire in settori civili contigui a quelli militari, quali l’avionica e l’elicotteristica, per dimostrare la validità dei prodotti non-russi e guadagnare credibilità agli occhi dello stato russo. Un investimento che comprende e comprenderà anche in futuro la creazione di joint venture, come ad esempio la SuperJet costituita da Finmeccanica e Sukoi per l’aeronautica civile, e l’utilizzo o la creazione di capacità produttive in Russia. Un altro elemento importante è il ruolo dei governi e in generale del sistema-paese. Questo ruolo è stato efficacemente interpretato ad esempio da Francia e Germania, che sono intervenuti ai massimi livelli politici per sostenere contratti importanti, come nel caso del-

L’industria russa ha sperimentato un processo di ristrutturazione basato su acquisizioni e fusioni, che ha portato alla formazione di pochi grandi gruppi industriali (di fatto controllati dallo Stato) specializzati in macro-settori come aeronautica, cantieristica navale, elettronica ed elicotteristica le due navi Mistral acquistate nel 2011, o hanno saputo combinare dossier e business diversi in modo sinergico, come dimostrato dal relativo aumento delle esportazioni tedesche in Russia in parallelo alla realizzazione del gasdotto North Stream che porta il gas russo in Germania. In questo senso, le recenti, limitate, cooperazioni inter-governative avviate tra Italia e Russia favoriscono la nascita di cooperazioni industriali, quali ad esempio quella che vede Iveco OtoMelara attiva nel settore dei veicoli blindati leggeri. Il terzo elemento da considerare è che paesi tradizionalmente importatori di prodotti russi come Cina e India, che insieme acquistavano il 60 per cento delle esportazioni russe nel 2008, stanno sviluppando capacità industriali autonome sempre più in grado di competere con le produzioni russe relativamente a basso costo e bassa componente tecnologica. Ciò potrebbe forzare Mosca ad accelerare la rincorsa tecnologica e quindi ad aprirsi a maggiori cooperazioni con industrie europee tecnologicamente più all’avanguardia. Sempre che, a prevalere sulla ratio economica, non sia quella geopolitica e culturale a favore di una rinnovata autarchia della grande potenza russa. 47


Risk

GLI

EDITORIALI/MICHELE

NONES

Uno strumento militare più efficiente e sostenibile

Dopo almeno un decennio di rinvii, finalmente un ministro della Difesa ha avuto il coraggio di ammettere che le attuali dimensioni dello strumento militare sono incompatibili con il bilancio della difesa e che, di conseguenza, vanno significativamente ridotte. In realtà la “sostenibilità” delle Forze armate è risultata dubbia per lo meno a partire dalla loro professionalizzazione perché l’aumento del costo del personale e, insieme, degli investimenti in presenza di una progressiva riduzione delle spese per la difesa avrebbero inesorabilmente portato prima a tagliare l’esercizio oltre il livello di guardia e poi gli stessi investimenti. Il risultato di questa deriva sarebbe stato uno “stipendificio” mortificante per il personale e di scarsa utilità per la sicurezza e la difesa del paese. Va a merito del ministro Di Paola aver ricondotto tutti alla ragione presentando un piano di ridimensionamento e riqualificazione dell’intero strumento militare. Del personale si parla nel commento a fianco. Qui si propongono alcune riflessioni sulla parte investimenti. Il punto di partenza è preoccupante: oggi in Italia l’investimento per militare è 16.400 euro contro una media europea di 26.500. Questo significa che spendiamo circa un terzo in meno. Il tasso di capitalizzazione per uomo è un dato importante perché dovendo tutti far fronte ad un ventaglio molto ampio di rischi e minacce, caratteristico del nuovo scenario geo-strategico, dobbiamo dotarci di equipaggiamenti diversi, da quello relativamente più semplice a quello più complesso. Ma, soprattutto, dobbiamo accettare la sfida del mantenimento di un gap tecnologico nei confronti dei potenziali nemici statuali e non. In un’epoca in cui la crescita tecnologica internazionale viaggia ad una velocità incredibile, così come la diffusione verticale e trasversale della tecnologia, tutto ciò comporta un forte e continuo impegno nell’innovazione di prodotto e di processo. Altrettanto preoccupante è la quota delle spese per la funzione difesa destinata agli investimenti: 18 per cento contro il 25 per cento che è considerato in tutti i paesi il modello di riferimento. Se poi si considera la media degli ultimi cinque anni si scende al 14 per cento pari a circa 3,2 miliardi di euro. Questo livello non consente di finanziare adeguatamente i programmi d’equipaggiamento, anche se va considerato il contributo dei finanziamenti erogati dal ministero dello Sviluppo economico stimabili in un altro miliardo di euro. La 48

situazione è resa ancora più grave dal mancato finanziamento delle spese di esercizio (12% contro il 25% ottimale) perché significa che mezzi e sistemi non possono venire adeguatamente manutenuti e aggiornati nell’interesse delle Forze armate che li usano, ma anche dell’industria che può trovarvi occasioni di lavoro e di apprendimento/miglioramento delle conoscenze. Le minori dimensioni dello strumento comporteranno anche una riduzione degli equipaggiamenti: due brigate su undici in meno comporteranno meno veicoli corazzati, armi pesanti e leggere, sistemi di comunicazione, mezzi di trasporto e supporto, elicotteri, ecc.; i pattugliatori scenderanno da diciotto a dieci, cacciamine e sottomarini da sei a quattro; i nuovi Jsf saranno 90 anziché 131, sostituendo circa 160 velivoli di tre tipi oggi in servizio. Forze armate più ridotte costeranno di meno, ma avranno bisogno di una minore quantità di mezzi. Questo consentirà di concentrare maggiori volumi finanziari su un minore numero di mezzi e sistemi. Si potranno così completare in tempi ragionevoli i programmi di ammodernamento, evitando il rischio di un’eccessiva diluizione che ne comprometterebbe l’efficacia. Ma vi sono due ulteriori campi su cui la difesa dovrà misurarsi vincendo resistenze interne ed esterne: quello dell’efficienza del supporto logistico e quello dell’integrazione interforze di capacità operative, gestione amministrativa e supporto logistico/addestramento. Sul primo fronte bisogna prendere atto che la complessità della maggior parte dei mezzi e sistemi comporta un trasferimento di attività di supporto logistico verso le imprese, anche nei teatri operativi. Bisogna che Forze armate e imprese condividano questo cambiamento organizzativo, tecnico, amministrativo e giuridico. Sul secondo fronte bisogna rompere con un passato che non ci possiamo più permettere. A cominciare dalla gestione interforze degli elicotteri da trasporto per arrivare all’addestramento del personale destinato alla protezione delle basi e delle strutture, per non parlare delle strutture territoriali e logistiche. Ma il vero banco di prova saranno i nuovi programmi dove tutto deve essere ancora impostato, a partire dal Jsf dove Aeronautica e Marina dovranno saper dimostrare che per i velivoli a decollo corto, addestramento e supporto logistico possono essere fatti insieme, senza se e senza ma.


editoriali

GLI

EDITORIALI/STRANAMORE

Niente di... personale

Il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, ha presentato le linee guida del progetto di riforma dello strumento militare, la cui attuazione è demandata ad un’apposita legge delega ed il cui successo dipende dal grado di consenso politico che sarà possibile ottenere su una riforma che non potrà che essere lacrime & sangue. Peraltro se si è potuto varare una riforma delle pensioni durissima nel giro di qualche settimana, non si vede perché non si possa procedere con relativa rapidità anche per la difesa. L’importante è arrivare in fretta all’emanazione dei decreti legislativi delegati, in modo che il successivo governo, politico, possa semplicemente scaricare la responsabilità della riforma ai “tecnici”. Il ministro ha ragione quando dice che l’intervento deve riguardare il sistema difesa nella sua interezza, ma non vi è dubbio che lo scoglio più arduo da superare sia quello della riduzione del personale. Per pagare gli stipendi agli attuali 183mila militari e 30mila dipendenti civili della Difesa (che in base agli organici stabiliti in passato dovrebbero essere 190mila e 43mila) si spendono oggi 9,5 miliardi di euro, ovvero il 70 per cento dei fondi messi a disposizione per la funzione difesa, contro l’11 per cento per l’esercizio e il 18 per cento per l’investimento. Per riportare le percentuali su livello di equilibrio virtuoso (50-25-25 per cento) occorre evidentemente tagliare la spesa per il personale del 20 per cento. Ovvero quasi 2 miliardi di euro, che andrebbero “spostati” su esercizio e investimento, in modo da assicurarsi che la macchina militare funzioni e sia efficiente e che i militari siano tecnologicamente all’altezza dei partner internazionali. Il ministro ha detto che considerando una invarianza degli stanziamenti per la difesa per i prossimi anni non si può che tagliare la consistenza del personale, scendendo a 150mila militari e 20mila civili. Quindi un taglio del 20 per cento complessivo (ma più elevato per il personale civile, che si riduce di un terzo secco!) Guardacaso più o meno quanto Stranamore aveva indicato nel numero scorso di Risk. Gli strumenti per attuare questa riforma sono quelli del trasferimento del personale in eccesso ad altre amministrazioni statali, con il ricorso esteso alla mobilità (che troverà formidabili opposizioni sindacali/burocratiche da parte dei ministeri interessati, posto che la difesa dovrà comunque pagare la differenza tra il nuovo stipendio

e il vecchio stipendio, che risulterà normalmente più elevato di quello nuovo), poi una drastica riduzione del turnover, con una riduzione degli arruolamenti del 30 per cento (di più non si può fare per non avere personale troppo anziano: chi parla di «dipendenti statali in uniforme» dimentica che ai soldati si chiede di… correre, combattere, sostenere sforzi fisici prolungati… una vita un po’diversa da quella dei travet). Ancora, la “mannaia” della Arq, una sorta di aspettativa/prepensionamento e, incredibile a dirsi, il ricorso a forme di «part time». Il tutto dovrà anche essere accompagnato da una nuova legge di avanzamento, da una nuova «pianta organica» del personale che consenta finalmente di riequilibrare il sistema, reso ingestibile da una inflazione di dirigenti e quadri, sia nel ruolo degli ufficiali sia in quello dei sottufficiali. Di Paola ha già fornito qualche dato, dicendo ad esempio che i generali/ammiragli a tre stelle passeranno da 48 a 35. Senza dubbio un passo in avanti, ma si può fare di più, semplicemente perché con 420 ed oltre ufficiali generali l’Italia ha una “densità” di generali con pochi paragoni in Europa. Si dirà che le Forze di Polizia sono messe ancora peggio. Vero, ma non è una giustificazione per accettare lo sfascio attuale. La sfida è senza dubbio formidabile, anche perché l’obiettivo è quello di completare la riduzione e rifondare il sistema nell’arco di dieci anni. Per l’Italia, dove le riforme che in altri paesi si fanno in due-tre anni richiedono 20 anni, sarebbe una novità rivoluzionaria. La battaglia si annuncia feroce, anche perché alla fin fine sono 43mila posti di lavoro “statali” a tempo indeterminato e determinato che si vanno a sopprimere. Ma non ci sono alternative, o la riforma passa e trova l’indispensabile sostegno parlamentare, oppure, in mancanza di drastici incrementi degli stanziamenti per la difesa, la macchina militare nazionale si trasformerà in breve in uno stipendificio con poca o nessuna valenza operativa. Ed a quel punto sarebbe meglio chiudere davvero tutto. Quindi occorre dare il pieno sostegno ad un’iniziativa rigorosa e obbiettiva di ristrutturazione, diventata tanto più urgente e purtroppo così pesante perché per almeno dieci anni si è proceduto verso il baratro facendo finta di non sapere che il modello che si era ipotizzato non era né sostenibile n finanziabile. Ora almeno il re è nudo e non ci sono più alibi. 49


S

cenari

BALCANI

MODELLO KOSOVO DI

ROSSELLA FABIANI

ella speciale classifica dei quella giusta. E c’è anche la segreta Paesi più giovani della nostra speranza che, dopo le elezioni previterra, arriva secondo dopo il ste in Serbia per fine aprile di queSud Sudan nato appena lo scorso lust’anno, anche l’atteggiamento di Belglio dal referendum che l’ha separato grado possa ammorbidirsi e favorire da Karthoum dopo una lunga lotta arquella riconciliazione che a Pristina mata. Anche l’atto di nascita del Kotutti dicono di volere e che potrebbe sovo, arrivato soltanto nel 2008 con la portare al riconoscimento da parte serNon solo politica. proclamazione dell’indipendenza, ha ba del Kosovo. La vera fine di una Il futuro del paese avuto una lunga gestazione cominciaguerra. Come scrive Noel Malcom, si gioca anche a livello economico ta con una guerra d’indipendenza dalautore del libro Kosovo: una piccola ed energetico con Usa la Serbia, ultimo atto dello smembrastoria e ricercatore alla All Souls Cole Russia ancora una mento della Jugoslavia che ha cambialege di Oxford, la storia, per i serbi, è volta contrapposte per garantirsi il controllo to il volto del tormentato mosaico dei cominciata all’inizio del settimo sedelle vie di sbocco Balcani. In pochi anni, però, l’antica colo dopo Cristo, quando s’insediaai mercati. Nel campo Dardania ne ha fatta di strada. Dall’inrono nei Balcani. La loro base di poculturale la maggior parte dei kosovari tervento militare della Nato del 1999, tere era fuori dal Kosovo – Kosova albanesi rivendica agli otto presidenti che si sono succeper gli albanesi – che occuparono agli la sua appartenenza duti in questi anni nel palazzo presiinizi del Tredicesimo secolo, dunque all’Europa e all’Occidente denziale di Pristina – dallo storico e la loro pretesa che il Kosovo sia la culprofetico Ibrahim Rugova all’attuale la dei serbi, è falsa. È vero, invece, ed elegante presidente-donna, Atifete Jahjaga – fino che i serbi dominarono il Kosovo per circa 250 anni, all’approvazione della Costituzione entrata in vigo- fino alla conquista ottomana della metà del Quindicere nel giugno del 2008. Dai rapporti sempre tesi con simo secolo. Le chiese e i monasteri serbi risalgono a Belgrado al riconoscimento a metà alle Nazioni Uni- quel periodo, ma non c’è continuità tra lo Stato mete, fino ai tentativi di oggi per approdare a una com- dievale serbo e la Serbia di oggi più di quanto ce ne pleta normalizzazione con la Serbia che dovrebbe sia tra l’Impero bizantino e la Grecia di oggi. Il Kosoanche aprirgli la strada verso l’Unione europea. vo rimase territorio ottomano fino all’occupazione delAd ascoltare i dirigenti di questo giovane Stato – e gio- le forze serbe nel 1912. I serbi la definiscono una “livani sono pure tutti i suoi ministri – ci sono ancora berazione”, ma anche dalle loro stime viene fuori che molte difficoltà da superare, ma la strada imboccata è la popolazione ortodossa serba nel territorio era meno

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scenari del 25 per cento. La maggioranza della popolazione era albanese, e non diede il benvenuto al dominio serbo, dunque «occupazione» sembra la parola più appropriata. Legalmente il Kosovo non fu incorporato nel Regno serbo nel 1912, rimase invece territorio occupato fino a qualche tempo dopo il 1918. Poi, finalmente, fu incorporato non in uno Stato serbo, ma in quello jugoslavo. E dopo una grande interruzione, la seconda guerra mondiale, il Kosovo rimase parte della Jugoslavia fino alla fine del giugno 2006, anno in cui il Paese creato da Tito si sciolse formalmente con l’indipendenza del Montenegro. Fino alla distruzione della vecchia Jugoslavia federale da parte di Milosevic’, il Kosovo ebbe un doppio status. Era chiamato parte della Serbia, ma era anche definito come un’unità componente della federazione jugoslava. Prevalse il secondo status: il Kosovo ebbe il suo Parlamento e il governo ed era rappresentato direttamente a livello federale, accanto alla Serbia. Era, infatti, una delle otto unità componenti il sistema federale. Quasi tutte le altre unità sono oggi diventate Stati indipendenti. Storicamente, quindi, l’indipendenza del Kosovo completa il processo che era stato tradito da Tito. Al termine della seconda guerra mondiale, dopo la vittoria dei comunisti nel 1945, il Kosovo infatti entra a far parte della nuova Jugoslavia come regione autonoma, nella prospettiva di ottenere una completa indipendenza nazionale, costituzionale, economica e culturale all’interno della federazione socialista jugoslava. In realtà, invece, le promesse fatte da Tito nel 1943 a Jajce – in Bosnia Erzegovina – a proposito dell’uguaglianza di tutti i popoli all’interno della federazione jugoslava, non si applicarono agli albanesi. Soprattutto dopo la rottura dell’Albania con l’Unione Sovietica e con la Jugoslavia, venne introdotta una politica di rinnovata serbificazione – la prima risale a dopo la prima guerra mondiale quando il Kosovo diventa parte del regno di Serbia, Croazia e Slovenia – questa volta per opera del capo della polizia segreta comunista, Aleksandar Rankovic. Perché il Paese, oggi, possa andare avanti

traendo un sicuro vantaggio da un nuovo spirito di apertura dopo tanti anni di politica di oppressione e d’isolamento, attuata anche dalla vicina Albania, bisogna augurarsi che possa essere trovata una soluzione che garantisca il rispetto dei diritti umani e la tolleranza per tutti nel Kosovo, la terra dell’epopea serba e della realtà albanese.

I rapporti con la Serbia e la propaganda di Mosca Primo passo importante in questa direzione è la riconciliazione con la Serbia che deve riconoscere il neoStato del Kosovo che, nel passato, è stato un regno dell’Illiria. Ed è quello a cui stanno lavorando le diplomazie americane ed europee oltre a quelle kosovare: ottenere che il loro grande avversario, la Serbia, che considera l’indipendenza del Paese come una secessione, accetti invece la nuova realtà. A Pristina sono convinti che l’attuale governo di Belgrado sarebbe anche pronto a riconoscere il Kosovo, ma che c’è il problema delle prossime elezioni politiche in Serbia – previste per la prossima primavera – con il partito ultranazionalista che fa propaganda in nome dell’unità del Paese e che dichiara «incedibile la provincia del kosovo» spingendo alla prudenza anche i più moderati che per non perdere le elezioni sono molto cauti sul capitolo riconoscimento del Kosovo, ma dopo il voto e la possibile sconfitta degli ultranazionalisti, si potrebbero avviare delle serie trattative. Al momento, tuttavia, i rapporti tra Pristina e Belgrado continuano ad essere molto tesi anche all’indomani dell’iniziativa di una parte della comunità serba che, soprattutto nel Nord del Kosovo, ha raccolto oltre 20mila firme chiedendo la cittadinanza russa. E con il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov che sembra aver preso molto sul serio la questione e dice di comprendere «molto bene dal punto di vista politico le ragioni della richiesta» tanto che la cancelleria di Mosca starebbe «accuratamente studiando il caso». Per quanto riguarda l’aspetto giuridico, in Russia esiste una legge che regola casi in cui la cittadinanza è garantita ad abitanti di Stati stranieri. E anche da Bru51


Risk xelles, l’ambasciatore russo alla Nato Dmitry Rogozin, ha giudicato questa iniziativa «un vero tesoro visto il problema demografico russo». Così, mentre Belgrado è costretta a scegliere tra la sua ex provincia e l’adesione alla Ue, gli slavi di Mitrovica chiedono la cittadinanza russa sperando nel sostegno di Mosca contro la maggioranza albanese. In realtà, la maggior parte della città, così come il resto del Kosovo, è abitata da albanesi, ma il potere centrale non arriva nel Nord di Mitrovica dove i serbi sono la maggioranza. Il tentativo di Pristina di estendere il suo controllo ai posti di frontiera situati a Nord della città, lungo la frontiera con la Serbia, ha provo-

In Europa Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro non riconoscono il Kosovo, perché non hanno intenzione di creare un precedente che poi possa ritorcersi contro di loro cato diversi incidenti e ha spinto l’Eulex – la missione dell’Unione europea in Kosovo – a prendere il controllo provvisorio dei valichi. I manifestanti serbi, che organizzano i posti di blocco davanti ai passaggi gestiti da Eulex, sono motivati non soltanto da sentimenti patriottici ma anche – e soprattutto – dal timore di perdere i proventi del contrabbando che dilaga in questa regione. Purtroppo i negoziati serbo-kosovari – che erano ripresi il 21 novembre scorso – non hanno portato ad alcun risultato concreto. E i serbi di Mitrovica non sembrano avere più fiducia nemmeno nella loro ex madrepatria: temono infatti che Bruxelles imponga alla Serbia il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo come condizione per la sua adesione alla Ue e riesca in questo modo a piegare Belgrado. Oggi, i serbi rimasti si sentono al sicuro soltanto sotto la protezione delle 52

forze internazionali, che – paradossalmente – detestano. La fiducia nell’ombrello di sicurezza russo è abilmente alimentata da Mosca che ha preso molto a cuore la vicenda della richiesta della cittadinanza. E poco importa, in realtà, se la legge russa prevede che i candidati alla nazionalità debbano essere residenti in Russia o ex cittadini di quella che fu l’Unione sovietica, cosa che esclude qualunque possibilità legale per gli abitanti serbi di Mitrovica. Mosca, con le false speranze date ai serbi del Kosovo, cerca con tutti i mezzi di complicare ancora di più la situazione. Ma a Mitrovica si ricorda che in Abkhazia e in Ossezia la Russia ha cominciato a concedere la sua nazionalità alle popolazioni locali, poi è entrata in guerra con la Georgia e infine ha riconosciuto l’indipendenza di questi due territori. Così anche i serbi sperano, un giorno, nell’indipendenza di una Repubblica russa di Mitrovica. Si tratta ovviamente di un sogno. Alimentato da una scaltra propaganda. Qualche tempo fa i montenegrini (600mila in tutto) alla domande sul loro numero reale rispondevano: «Insieme con i russi siamo 140 milioni». Ma il Montenegro ha tradito: ha riconosciuto il Kosovo e vuole entrare nella Ue. Difficile trovare oggi nel Nord del Kosovo delle bandiere montenegrine, a differenza di quelle serbe – uguali a quelle russe ma con i tre colori al contrario – che invece non mancano. Diversi analisti hanno intravisto una soluzione con Mitrovica e il territorio a Nord del fiume Ibar annessi alla Serbia e al governo di Belgrado e con il Kosovo che riallaccia una parte del Sud della Serbia prendendo i distretti di Bujanovac e di Presevo, tolti da Tito e abitati in maggioranza da albanesi. Ma per il governo di Pristina, come pure per molti intellettuali, questa via non è assolutamente praticabile. Secondo Shpend Limoni, giornalista albanese dell’Express è irrealizzabile perché Presevo è troppo importante per la Serbia come nodo strategico di collegamento con i Balcani meridionali e in particolare per l’asse viario che porta in Grecia. Allo stesso tempo Mitrovica è troppo importante per il Kosovo, troppo fragile per ri-


discutere i confini. Anche in Macedonia c’è una parte del Paese abitata soltanto da albanesi che potrebbero rivendicare lo stesso diritto e così in Bosnia. La Serbia stessa, del resto, non soltanto ha una forte fetta di comunità albanese nelle sue regioni meridionali, ma anche una rilevante presenza di ungheresi a Vojvodina. Per non parlare poi del Sangiaccato in cui vive una comunità bosniaca che già comincia a far sentire i primi echi di autonomia. Se si fa passare il messaggio che gli Stati multietnici non funzionano e che è necessario tagliarli per riflettere le comunità prevalenti, potrebbe riesplodere un grosso problema comune a tutta la regione balcanica. Sembra allora molto probabile che gli abitanti di Mitrovica non riusciranno né a salvaguardare i loro passaporti attuali con l’aquila serba a due teste né a ottenere quelli con l’aquila bicefala russa. E non rischiano neanche di sfoggiare l’aquila albanese, poiché la comunità internazionale ha vietato l’uso ufficiale di questo emblema agli albanesi del Kosovo, imponendone un altro che su uno sfondo blu riprende i contorni del Paese in giallo accompagnato da sei stelle bianche che simboleggiano i sei principali gruppi etnici: albanesi, serbi, turchi, rom, bosniaci e gorani. Oggi la nazione kosovara guarda a Bruxelles e Pristina deve cercare di gestire i suoi dossier con l’Unione europea in una maniera costruttiva, sottolinea Lamberto Zannier. Una delle grandi aspirazioni dei kosovari è quella di ottenere, come ha avuto la Serbia, la liberalizzazione dei visti. I movimenti migratori ci sono sempre stati: pensiamo all’Albania o, più di recente, anche alla Romania. La prerogativa per i kosovari è quella di trovare un accordo politico con la Serbia che permetta di terminare il blocco. A quel punto aumenteranno le chances del Kosovo di diventare membro degli organismi internazionali.

Pristina tra Mosca, Teheran, Ankara e Bruxelles Ma il Kosovo non è soltanto conteso dalla Serbia. In realtà questo piccolo Paese – 10.887 chilometri quadrati e poco meno di 2milioni di abitanti – fa gola a molti. Perché rappresenta un solido appoggio nel cuo-


Risk re dell’Europa. Da quando ha iniziato la sua lotta prima per l’indipendenza e ora per il riconoscimento – 85 dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite e 22 dei 27 della Ue lo hanno già riconosciuto – il principale alleato del Kosovo sono stati gli Stati Uniti. Effetto di questo appoggio atlantico è il rifiuto da parte dell’Iran di riconoscerlo come Stato indipendente. In Europa invece sono cinque i Paesi (Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro) che non riconoscono il Kosovo perché non hanno intenzione di creare un precedente che poi possa ritorcersi contro di loro. La questione di Cipro è nota, ma non bisogna dimenticare che in Spagna le minoranze basche e catalane reclamano indipendenza, che in Slovacchia sono gli ungheresi ad alzare la voce e che la Romania ha la fronda della Transilvania. Se l’Iran rifiuta di riconoscere il neo Stato kosovaro per la forte alleanza che lega il Paese dei Balcani agli Stati Uniti – a Pristina c’è anche un Bill Clinton boulevard con una sua enorme statua – in realtà in gioco ci sono anche tutte le alleanze economiche che si contendono i vari corridoi di petrolio di gas e di materie prime oltre che gli sbocchi sul mare Mediterraneo per poi gestire i commerci transoceanici. Oltre all’Iran anche giganti come Russia, Cina, India, Brasile e Sud Africa considerano la Repubblica kosovara come una secessione. La Russia da parte sua ha molti interessi a rimanere nella regione attraverso il suo alleato tradizionale (la Serbia) e quindi ha il problema di riconoscere il Kosovo che potrebbe anche essere un precedente pericoloso per altre repubbliche ex sovietiche che hanno al loro interno movimenti secessionisti. Tuttavia la Russia ha ammesso che quello del Kosovo è un caso sui generis non comparabile né con il Nagorno-Karabhak, l’enclave armena in Azerbaigian, né con il riconoscimento russo delle due repubbliche dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale proclamatesi nel 2008 indipendenti dalla Georgia. Né tantomeno con la Transnistria, sottilissima striscia di terra che rivendica la propria indipendenza de jure dalla vicina Moldova. Ma anche in questo caso, in realtà, un ruolo forte lo gioca la gestione delle pipeline. Per 54

quanto riguarda la Turchia – da sempre in ottimi rapporti con gli Stati Uniti – la sua presenza nel Paese balcanico è molto forte. Molte delle moschee kosovare – distrutte durante la guerra – sono state restaurate da organismi turchi, Da parte europea, Bruxelles sta rimandando continuamente la decisione di accettare il Paese del Bosforo nei suoi meccanismi. Politica questa che ha spinto il nuovo governo della Turchia a cambiare atteggiamento, quasi non cercando più una strategia congiunta con Usa, Russia e Unione Europea ma inseguendo altrove alleanze strategiche oltre che economiche. E su questo scacchiere internazionale, il Kosovo è determinato con la sua giovanissima classe politica a cercare una sua propria strada per lo sviluppo con una strategia aperta verso tutti i Paesi, compresa la Turchia.

Strategie e prospettive economiche Uno spazio importante occupa la questione delle geostrategie relative al percorso del petrolio e alle sue vie che possono essere vie marittime mediante superpetroliere e vie terrestri mediante oleodotti, pipeline. E anche se la propaganda le copre con considerazioni ora etniche, ora religiose, ora per i diritti umani, e a volte anche per il patrimonio culturale, le guerre si fanno per motivi strategici legati alle risorse. Quelle combattute in Kosovo e in Albania, terminale dell’oleodotto del petrolio del Caspio, come pure quelle in Cecenia, origine dell’oleodotto, ne sono un ulteriore esempio. La Russia non può permettere, infatti, che gli Stati Uniti avanzino nel cuore dei Balcani continuando ad insediare le proprie basi militari all’interno di un Paese circondato dal territorio serbo che è da sempre vicino alla Russia. Come l’enorme base militare statunitense di Bondstell – 360 ettari di terreno – a Urosevac al confine con la Macedonia, che ha reso il Kosovo una piattaforma di riferimento per gli Stati Uniti con un accesso diretto all’Europa orientale e all’Asia centrale. Ma il futuro del Kosovo si gioca anche a livello economico-energetico con America e Russia ancora una volta contrapposte per garantirsi il controllo delle vie di sboc-


scenari co dei mercati energetici. Sebbene il Kosovo non abbia petrolio, tuttavia la sua ubicazione è strategica rispetto alla pipeline trans-balcanica, il cosiddetto gasdotto Ambo che si collega anche alla base militare di Bondsteel. Ambo è il consorzio di diritto statunitense Albanian Macedonian Bulgarian oil corporation che instraderà il petrolio del Mar Caspio dal porto di Burgas, attraversando la Macedonia, sino al porto di Valona, per essere poi immesso sul mercato europeo, e in particolare verso Rotterdam e la costa orientale degli Stati Uniti. Quando la pipeline Ambo diventerà operativa farà parte del corridoio Est-Ovest critico per la regione, includendo autostrade, ferrovie, gasdotti e fibre ottiche per le telecomunicazioni. Un tale progetto non può che essere in contrasto con l’altrettanto ambizioso progetto russo del gasdotto South Stream che connetterà direttamente Russia e Unione Europea, eliminando ogni Paese extra-comunitario ed ex comunista dal transito. Il progetto, sviluppato da Gazprom, Eni ed ora anche da francesi e tedeschi, prevede l’utilizzo del territorio serbo per instradare verso l’Europa il petrolio del Mar Caspio, grazie anche ad una joint venture serbo-russa per costruire il tratto della conduttura del gasdotto che transita attraverso la Serbia per oltre 400 chilometri e che avrà una capacità di almeno 10 miliardi di metri cubi all’anno di gas. Il progetto – la cui realizzazione dovrebbe concludersi entro la fine del 2015 – prevede anche la costruzione di un deposito di stoccaggio sotterraneo di gas presso Banatski Dvor, in Vojvodina, e l’acquisto del pacchetto di maggioranza della Società petrolifera serba Naftna industria srbije (Nis). Non vi è alcun dubbio, dunque, che è proprio nei Balcani che si sta venendo a creare un terreno di scontro tra Russia e Stati Uniti, in nome di una guerra fredda che forse non è mai finita. La Serbia costituisce da tempo l’ultima resistenza a quelli che in molti, soprattutto a Mosca, si ostinano a definire una colonizzazione totale dei Balcani da parte degli Stati Uniti, ma che invece per la maggior parte dei kosovari albanesi è semplicemente rivendicare la propria appartenenza all’Europa, all’Occidente e alle

antiche origini cattoliche. Una vicinanza al mondo cattolico testimoniata, come sembra, anche dalla conversione sul letto di morte del presidente kosovaro Ibrhaim Rugova alla presenza del cardinale Angelo Scola. Come pure va sottolineata una specificità culturale particolare del Kosovo.

Il Kosovo si sente europeo Quello che più colpisce visitando il Paese è che nonostante le guerre, i soprusi subiti e praticati, le enormi difficoltà attuali legate allo sviluppo, alla fortissima disoccupazione, alla lotta contro le mafie e contro la corruzione, la popolazione vuole guardare al futuro e vivere in pace. Tutti insieme musulmani, ortodossi e cattolici. E magari grazie anche alla diversità del patrimonio culturale. Perché, sia che si tratti del monastero di Decani o di una storica kulla (casa) albanese, o del patriarcato ortodosso di Pec, degli affreschi della Chiesa Bogorodica Ljeviska a Prizren o della moschea Defterdar di Decani, quello che conta è la conservazione di questo patrimonio inteso come terreno per favorire il dialogo interculturale. La scommessa oggi è che gli stessi luoghi – i famosi monasteri ortodossi tra i quali Graganica, Decani e Pec rivendicati dalla Serbia – che hanno diviso possano unire. Ciò che è stato simbolo della distruzione dell’identità collettiva, una manifestazione tangibile della divisione e dell’odio, può diventare la pietra su cui costruire rapporti duraturi che riescano a cambia-

Nonostante le guerre, i soprusi, le enormi difficoltà, la fortissima disoccupazione, la lotta contro le mafie e la corruzione, la popolazione vuole guardare al futuro. Tutti insieme musulmani, ortodossi e cattolici 55


Risk re la storia futura. E a favorire il sogno europeo. Anche la professoressa Edi Shukriu presidente del Kosova council for the cultural heritage, ha un sogno: vedere finalmente Prizren nella lista Unesco, unica tra le quattro città principali della ex Juguslavia ancora non inclusa nel prestigioso elenco. Ma soprattutto quello che non dividano più i beni culturali in base alle etnie. Beni culturali e monumenti che testimoniano la pluralità del territorio kosovaro ricco di chiese, monasteri e moschee. Dove le moschee sono decorate in un modo tale che per bellezza, colori ed eleganza credi di essere finito in un palazzo fiorentino piuttosto che nella moschea di Sinan Pasha a Prizren. Colori delicati e forme leggiadre che disegnano tulipani, cipressi, frutta, fiori, paesaggi e – soprattutto – tralci foltissimi di grappoli d’uva. E un’altra eccezione è il famoso minareto con la stella di Davide che si erge solitario al centro della piazza di Prizren. Ma non soltanto le decorazioni delle moschee raccontano di un islam molto più europeo che saudita. Gli stessi kosovari albanesi sono sui generis: abituati a festeggiare il bairam, la festa musulmana dopo il Ramadan, con una rakìa – un tipo di grappa locale – a mangiare la carne di maiale e a bere alcolici, birra e vino prodotto sia dai musulmani sunniti che dagli stessi sufi soprattutto nelle città di Suhareke e di Rahovec, entrambe nel distretto di Prizren. E non è un segreto che il Kosovo mira a diventare la prossima Napa Valley la celebre terra del vino in Ca-

Se si fa passare il messaggio che gli Stati multietnici non funzionano e che è necessario tagliarli per riflettere le comunità prevalenti, potrebbe riesplodere un grosso problema comune a tutta la regione balcanica 56

lifornia. Tutti – o, almeno, la stragrande maggioranza – sono convinti che la religione sia un fatto privato, che non deve coinvolgere la società e che non è un impedimento nei rapporti con chi ha un’altra religione. Posizione condivisa anche da Resul Rexhepi – segretario generale della comunità islamica del Kosovo che fa riferimento alla scuola giuridica Hanafita – che prende le distanze dai wahabiti e chiosa che la religione è cosa diversa dallo Stato. Delle guardie e dei fili spinati intorno ai monasteri, il segretario pensa che si tratti di una questione puramente politica, di una propaganda che vuole creare la percezione che questi luoghi di culto siano in pericolo. Il suo desiderio, invece, è che la chiesa ortodossa non sia più influenzata dalla politica, ma che lavori soltanto per le questioni religiose. In Kosovo – paese unico al mondo – è stato istituito un albo professionale per gli imam che lo diventano dopo aver vinto un concorso pubblico e avere frequentato la facoltà di studi islamici. La lingua usata è quella della comunità e non l’arabo che viene usato soltanto per recitare il rituale. Altro segno insolito di questo islam nel paese balcanico è la presenza di molte comunità sufi, soprattutto della corrente degli Helveti a Prizren e dei Bektahsi a Giacova che non vivono in clandestinità – come accade in Turchia o in Egitto dove sono proibite – ma al contrario partecipano alla vita della comunità e hanno buoni rapporti con le altre religioni. Anche per don Lush Gjergji, vicario generale della Chiesa cattolica del Kosovo e biografo ufficiale di Madre Teresa della quale è stato in gran parte il postulatore, il problema più grande del Paese è la disoccupazione e la mancanza di una seria politica fiscale. Mentre è molto fiducioso per i rapporti con le altre comunità religiose. E lo storico incontro nel mese di novembre con il Gran Mufti, Naim Ternava, e con il vescovo ortodosso di Raska e Prizren, Teodosije Sibali – qualche tempo prima inimmaginabile con il vescovo Artemjie con il quale c’era al contrario una chiusura totale – è per padre Lush un «segno che i tempi stanno cambiando e in meglio».


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dossier

cenari

AF-PAK

PASSAGGIO DI POTERE A HERAT DI

PIERRE CHIARTANO

hi è Karzai? Cos’è l’Afterminerà la missione militare. ghanistan? Dov’è KaMa su questo argomento lo stesbul? Se viaggi nelle valso generale John R. Allen è posli sperdute dell’Afghanistan, o sibilista «Roma non si è fatta in negli altopiani desertici spazzaun giorno» e il Kosovo ci inseti dal vento e da una polvere sotgna che occorrono tempi storici tile come farina, queste sono doper cambiare l’intera cultura di mande che potrai sentire spesun paese. La storia può anche diso. Ed è bene tenerlo a mente ventare lunga se parliamo di un quando immaginiamo che un paese sostanzialmente tribale. paese possa diventare anche la L’esercito afgano sta comincianbrutta copia di una democrazia do a funzionare, bisognerà poi in un decennio. Gli americani in occupasi delle forze di polizia e La fretta degli americani a uscire Afghanistan hanno avuto qualdelle guardie di frontiera che sodall’Afghanistan onorevolmente che problema d’immagine per no soggette a dinamiche diffenon è soltanto dovuta la vicenda del video col vilipenrenti. La fretta degli americani a a una promessa elettorale della Casa Bianca, ma anche dio di cadaveri di presunti taleuscire dall’Afghanistan onoredalla necessità di focalizzare bani, per non dire dell’incidenvolmente non è soltanto dovuta meglio le risorse, non infinite, del dispositivo militare te del Corano bruciato. Ma soa una promessa elettorale della sul nuovo fronte Pacifico stanzialmente possono affermaCasa Bianca, ma anche dalla nere di aver fatto un buon lavoro. cessità di focalizzare meglio le Hanno “ammorbidito” a sufficienza studenti coranici, risorse, non infinite, del dispositivo militare sul nuobande criminali e signori della droga, tanto da fargli vo fronte Pacifico. La transizione è in atto – è partita vedere il tavolo negoziale come una possibilità, quan- la fase due – e nessuno vuole disturbare il manovratoto meno, da prendere in considerazione. Ma c’è del- re, forse neanche gli studenti coranici che stanno inl’altro. Ora il problema sarà lo sbilanciamento tra azio- tuendo che c’è qualcosa da spartire per il futuro. La ne militare sul campo, che sta funzionando egregia- transizione afgana può funzionare ora, ma non è anmente, e quella politico istituzionale di state building, cora il momento di fare consuntivi. Lo state building che è invece in ritardo. Un ritardo che rende forti gli è un concetto ancora troppo vago specialmente nelle attori esterni al paese, come Pakistan, Iran, india e Ci- sperdute valle montane dell’altopiano afgano, dove na che già manovrano per il dopo 2014, quando Isaf l’universo coincide con l’orizzonte. Serviranno tempi

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Risk

Le strade in Afghanistan sono il centro della vita, della morte e degli interessi. Lì si spara, si piazzano i micidiali ordigni improvvisati, si decide il futuro del Paese. Parliamo di carrozzabili asfaltate, poche, sterrati molti e sentieri appena accennati, tantissimi storici per far capire concetti come Stato e cittadinanza. Ma c’è un caso di best practice nel Paese. Ed ha come centro Herat e il comando italiano della regione occidentale dell’Afghanistan, quella che confina con l’Iran. Teheran per una lunga serie di ragioni ha tutto l’interesse a tenere sotto controllo quella provincia che storicamente ha sempre risentito dell’influenza iraniana. Ma anche l’India si sta muovendo in funzione antipakistana. Herat è stata l’antica capitale dell’Oxiana di Tamerlano. Qui il processo di transizione è molto avanti e farà da apripista per il resto del Paese. Il generale Luciano Portolano, comandante della brigata Sassari e a capo di RC West lo ha spiegato al generale John R. Allen che guida Isaf: la transizione nella provincia di Herat è molto avanti, con l’operazione Omi di novembre 2011, che ha coinvolto circa 800 uomini, per due terzi costituiti da forze afghane, può essere un modello per il passaggio di mano in tutto l’Afghanistan. L’obiettivo di affidare in toto alle forze dell’Afghan national army la sicurezza della provincia di Herat è a portata di mano, grazie all’attività del comando italiano. Una volta effettuato il passaggio di consegne le forze Isaf potranno dedicarsi ad altri compiti. È un messaggio forte dato alla comunità locale. E già ora si possono cominciare a tirare le somme di tutta la cosiddetta Winter operation. Ci sono le condizioni perché abbia successo. Gli unici a poter ro58

vinare la festa sono solo gli afgani. Dipende da quanto impegno metteranno nel tenere saldo il testimone della sicurezza. E le grandi manovre come la Omi servono proprio a dare sicurezza ai reparti locali. Nei processi di pianificazione e analisi le forze locali supportate dalla struttura Isaf a guida italiana stanno diventando autonomi. Allestire pacchetti di forze miste (combined) e anche la comunicazione esterna, sono ormai settori dove l’Ana è in grado di svolgere compiti in piena autonomia. Fondamentalmente la sicurezza in questa regione, come in gran parte dell’Afghanistan, è legata al controllo delle vie di comunicazione. Il 207mo corpo d’Armata afgano di stanza nella regione ovest ha completato i propri ranghi all’80 per cento. Poi tutto dipenderà dalla loro volontà, visto che è un esercito su base volontaria. Ma bisogna ricordarsi le tradizioni locali che a volte mal si conciliano con l’ortodossia necessaria a una forza armata. Se un militare deve tornare nella sua città, perché è tempo di tosare le pecore, non chiede una licenza, parte e torna a lavoro finito. Per addestrare un pilota servono quattro anni anziché due. Ancora oggi nella base di Shindand, dove ha sede l’Airbase support air advisory team e si addestrano i piloti di quella che sarà l’aeronautica afgana, le lezioni di volo sugli elicotteri Mi-17 si fanno con un traduttore a bordo. Dunque prima serve insegnarli l’inglese. Anche l’élite dirigenziale del Paese per la maggior parte viene dalla diaspora degli afgani all’estero con educazione e titoli di studio secondo gli standard occidentali. Quando però si guarda alla risorsa umana nata e vissuta in loco, tutto va riconsiderato. E le forze armate non sono un caso a parte, rientrano nella stessa declinazione del problema. Il governatore di Herat è afgano, ma ha lasciato una cattedra universitaria negli Usa per tornare a servire la Patria. Dunque la scelta diventa emblematica. O si punta su elementi della diaspora che possono dialogare con Isaf e un contesto internazionale, fondamentale per il futuro del Paese, ma con poche radici sul territorio, oppure l’interlocutore diventa un locale con un forte controllo del territorio, ma digiuno e “illetterato” rispetto alle esigenze complesse del compito. Inol-


tre c’è una completa disistima per le istituzioni nazionali, a cominciare dal presidente Kharzai considerato “uomo da manette”. Il tentativo oggi è quello di ricostruire una legittimità delle istituzioni partendo da quelle regionali. E una delle quattro mission di Isaf si chiama infatti Rule of law che si aggiunge alla Governance security e development già in agenda. «La Rule of law è una field support mission», spiega Andrea Romussi, resposabile civile della Nato a RC West. Si tratta di un’iniziativa dove la componente militare favorisce gli operatori afgani nel campo della giustizia. Ma bisogna rendersi conto che per i consuntivi serviranno tempi storici. Nei Balcani si sta ancora lavorando… se per questo, anche in certe regioni d’Italia.

Non solo sicurezza Oltre la sicurezza, oggi issue fondamentale nella provincia di Herat come in tutto l’Afghanistan, esistono anche i problemi della vita quotidiana. Quindi oltre le trenta missioni operative militari che ogni giorno l’ufficio operazione di Rc West deve gestire, c’è tutto un altro mondo che deve funzionare. Energia, acqua potabile e gestione dell’amministrazione locale in coordinamento con i vari livelli d’intervento internazionale danno un quadro realistico della situazione afghana. A Herat non ci sono problemi d’approvvigionamento elettrico, anche se si importa energia dall’Iran e dal Turkmenistan. Non ci sono fenomeni conosciuti di sabotaggio alle linee dell’alta tensione. Le minacce sono in altri settori e assomigliano al racket delle estorsioni, come quello che sembra più direzionato ai ripetitori della rete telefonica mobile. L’acquedotto di Herat ha i conti in attivo e ong, agenzie Onu, Usaid e Nato hanno creato una griglia di attività che dovrebbe favorire la rinascita delle strutture del governo locale e dell’economia. «Governance, development e rule of law», sono le direttrici entro cui si muovono tutte queste attività – oltre la security – come spiega Romussi. Il lavoro di coordinamento di tutte le componenti sul campo diventa dunque un elemento chiave per la buona riuscita di tutto il progetto di transizione. Il modello è quello studiato già da tempo dagli


Risk americani con Africom, un comando militare con i civili del dipartimento di Stato inseriti nella struttura di comando. Non c’è dubbio che se il concetto strutturale l’hanno pensato a Washington, la sua applicazione è fatta per incontrare pienamente ciò che è lo stile italiano nelle missioni militari all’estero. Uno stile ormai riconosciuto ed apprezzato. Passando dai distretti vicini alla capitale Herat e andando verso la periferia i problemi aumentano, ma l’attività e le collaborazioni con istituzioni straniere sono un collante che prima o poi darà dei frutti positivi. A Herat sono già presenti numerose università italiane con dei progetti: da Torvergata alla Cattolica, dall’Università di Firenze che opera con il dipartimento d’urbanistica dell’Ateneo di Herat per formare tecnici qualificati, alla Luiss per la formazione di quadri diplomatici. Anche il Centro alti studi della difesa (Casd) ha curato e organizza dei moduli formativi e dei programmi pilota per diplomatici. Insomma è un esempio di come il modello Italia possa funzionare.

vanno a nord, sud e a oriente nella provincia di Herat sono asfaltate per pochi chilometri, come la Highway 8 che va verso nord, direzione Turkmenistan. Ma sulla direttrice che porta a Ghorian e poi in Iran la strada, la Highway 3, è comoda scorrevole e asfaltata. La pianta del papavero cresce senza bisogno di grande attenzione. Non serve irrigarla, non serve concimarla. L’oppio viene compresso in pani, quelli che poi vengono caricati sugli Antonov in sette campi di volo semipreparati lungo il confine iraniano. Da queste piste secche e polverose, percorse usualmente solo da scorpioni, grandi come lucertole, la droga arriva negli hub di Teheran e Mashad. Poi prende la via di Bratislava e del mercato europeo. La presenza iraniana si sente a Herat e provincia. Ci sono banche, aziende, scuole e agenti di Teheran in ogni angolo del territorio. Hanno tutto l’interesse a mantenere questa provincia stabile, per gestire gli affari e controllare un’area di confine importante. Certo non è tutto funzionale alla droga, ma lo è molto. Herat è la provincia afghana che più ricorda l’Iran, ha molte facoltà universitarie, da ingeLa politica dell’oppio gneria a medicina. Ha uno standard di vita superiore La droga è un grande problema in Afghanistan, sia che a molte altre zone del Paese. L’Afghanistan produce si guardi il Paese dal punto dei vista della gente più l’80 per cento dell’oppio grezzo a livello mondiale. umile e povera, sia che si pensi a come costruire i mec- «Ma stanno cominciando a organizzarsi con le lavocanismi rudimentali di una democrazia, là dove l’in- razioni intermedie», ci spiega sempre il rappresentandustria dell’oppio domina su tutto. E lo capisci anche te Nato della Regione Ovest dell’Afghanistan. I sidalle infrastrutture, compresa la grande Ring road, che gnori della droga locali si sono accorti di quanto posattraversa come un cerchio tutto il Paese. Le strade che sono incrementare i guadagni con la raffinazione. «Herat è un modello per tutto l’Afghanistan. C’è una grande tradizione nel commercio e negli affari. A Herat trovi ciò che non trovi nel resto della regione», conferma Romussi. Tempo fa l’Occidente aveva cercato di essiccare alla radice il business del papavero, tentando di promuovere la coltivazione dello zafferano. Una spezia pregiata che può essere venduta anche a 12mila dollari al quintale all’ingrosso. Un prezzo competitivo rispetto a ciò che pagano i signori della droga ai contadini afgani per garantirsi il raccolto. «La pianta non produce subito, si deve aspettare tre anni per il primo raccolto», spiega il maggiore Luca Di Fazio del Cimic (il reparto che coordina le

Un ruolo fondamentale nella lotta anti Ied lo svolge l’attività d’intelligence che, seguendo mosse e spostamenti di questi signori delle bombe, può prevedere in quali zone potrebbe sorgere un nuovo pericolo

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dossier attività civili-militari) del Prt (Provincial recostruction team) di Herat, che ha seguito le iniziative per promuovere la coltivazione della spezia “antidroga”. La zona migliore per questa coltivazione e quella di Ghorian verso l’Iran. Iran, oppio e zafferano sembrano incrociarsi di continuo. Nel 2010 sono stati acquistati dal Prt di Herat 400 tonnellate di bulbi. A dimostrazione che si voleva fare sul serio. Però in Afghanistan non c’è un’economia pianificata, almeno non c’è più da quando i sovietici hanno fatto le valigie. «La domanda deve venire dagli afgani», conferma l’ufficiale Cimic. E nel 2011 purtroppo richieste non ne sono arrivate. Forse tutti aspettano la campagna d’inverno. Stagione che insurgent e signori dell’oppio non passeranno, come tradizione, a lucidare gli Rpg per la primavera, il tempo del raccolto. I nemici del nuovo Afghanistan vorrebbero dimostrare che la transizione – l’annunciata fase due – non funzionerà. Ma dovranno vedersela con le truppe Isaf e, nel Regional Command West, anche e soprattutto con gli italiani, tra i migliori interpreti del “manuale” Petraeus.

La sicurezza delle vie di comunicazione Le strade in Afghanistan sono il centro della vita, della morte e degli interessi. Lì si spara, si piazzano le Ied (Improvised explosive device), i micidiali ordigni improvvisati, si decide il futuro del Paese. Sulle carrozzabili asfaltate, poche, sugli sterrati, molti, e sui sentieri appena accennati, tantissimi, passano le merci, i viveri, le armi e la droga. Anche le bande criminali sentono la pressione dei militari italiani. In maniera particolare a Nord verso Bala Murghab. Da circa un paio d’anni si sta costruendo una strada alternativa al pezzo di Ring Road che va verso nord in direzione del settore a comando tedesco. In maniera particolare c’è una strettoia, che è un vero e proprio canyon, ideale per agguati «stile quelli che vediamo nei film di Indiana Jones». In quell’area molte bande armate hanno i loro nidi e alcune roccaforti, probabilmente fin dai tempi di Tamerlano quegli anfratti inaccessibili sono stati nascondiglio e base per briganti e

tagliagole. «Si è deciso di aprire un percorso alternativo verso ovest. Un bypass che tagli fuori quel passaggio così pericoloso», continua a spiegare il maggiore dell’ufficio operazioni. E, a nord della provincia di Herat, «parliamo di criminalità dedite al traffico di droga e di armi» piuttosto che di insorgenti e talebani. È un terreno molto difficile e aspro, ragion per cui le operazioni hanno richiesto del tempo. La tattica è quella di mantenere una pressione militare costante, prenderli per stanchezza. Intanto per garantire i rifornimenti alla zona di Bala Murghab si è deciso di costruire il bypass stradale. Si chiama «Lithium» e partendo da Khalinow sale verso nordovest costeggiando il confine del Turkmenistan per entrare poi da ovest, garantendo così la continuità con l’area nord. Le operazioni di apertura del passaggio è iniziata un paio d’anni fa. È stata un’impresa tutt’altro che semplice «quella strada la usavano gli afgani per il traffico di droga e armi». Insomma, i militari Isaf hanno “rubato” la strada ai signori dell’oppio, che non l’hanno presa proprio bene. «Ci sono voluti anni di logoramento. E ora siamo riusciti a dargli una spallata. A settembre non avevamo il controllo totale della Lithium. Oggi c’è». Per la campagna d’inverno serviva che quella via fosse aperta e “sicura”. La transizione accelerata richiede che ci sia un’accelerazione anche sulle operazioni di controllo del territorio. Anche qui i cacciatori di Ied hanno fatto la loro parte. I cosiddetti harassment (ingaggi a fuoco) continuano. «Quando passiamo ci sparano. Ma non mettono più gli Ied», mentre dice queste parole l’ufficiale tocca ferro. La scaramanzia, come la prudenza è d’obbligo in Afghanistan. «Ogni giorno convogli e pattuglie, avanti e indietro. Loro soffrono la continuità dello sforzo», spiega l’ufficiale italiano. E ogni vuoto lasciato da Isaf viene subito riempito da criminali e insorgenti. E dove sono più forti i militari di Isaf? Sulla mobilità e potenza di fuoco. E quello stanno usando con efficienza e intelligenza. È un po’ come essere in Aspromonte. «In particolare abbiamo usato sia convogli logistici che quelli di pattugliamento per non dare fiato ai gruppi armati. Fino a quando hanno 61


Risk capito che non avevano più la forza e il tempo di pianificare minacce contro di noi. Anche loro pianificano, organizzano ed eseguono. Gli serve tempo per scavare una buca per la Ied, per sotterrare il piatto a pressione dell’innesco, per mettere dei riferimenti sul terreno che servono per comandare a distanza l’esplosione. Hanno bisogno di tempo, ma se il tempo glielo togli perché gli stai addosso… ». Immaginiamo due di questi artificieri che si avvicinano al luogo dove piazzare la Ied a bordo di una moto. Si muovono velocemente con l’orecchio teso ad ogni rumore d’elicottero o drone volante. Cominciano a scavare, poi interrompono. C’è lo sbattere nell’aria di un rotore che rimbalza come un’eco nella valle. Poi di nuovo silenzio. Riprendono a scavare, piazzano la carica, poi il cavo che allungano per 30 metri oltre la strada per sfuggire agli jammer, i disturbatori elettronici di Isaf. Di nuovo un ronzio sospetto, si stendono dietro alcune pietre. Nulla. Riprendono il lavoro, piazzano il piatto di pressione. Uno riprende la moto e sistema delle deviazioni sugli incroci vicini, per dirottare il traffico locale. L’altro piazza dei marker sul terreno, per capire quando schiacciare il pulsante e far detonare l’esplosivo. Come a Capaci. L’uomo in moto ha sentito un ronzio sospetto, potrebbe essere il Rotax di un Predator (infatti è così, la scena è registrata dalla camera di questa spia dell’aria), torna in fretta dal complice che sta facendo il collegamento tra piastra e ordigno. È concitato, gli mette fretta: Boom. Esplosione da innesco accidentale. Vita da enplacer. Un capitolo a parte è richiesto per questi tecnici delle Ied, chiamati appunto Ied enplacer. I migliori fanno parte di una elite che viaggia, si sposta a seconda delle necessità. Qui svolge un ruolo fondamentale l’attività d’intelligence che, seguendo mosse e spostamenti di questi signori delle bombe, può prevedere in quali zone potrebbe sorgere un nuovo pericolo Ied. Ognuno di questi esperti ha un proprio stile, «una firma». I migliori, fatto il lavoro, tornano fuori confine. Con un attento lavoro di incrocio dati è possibile tracciare la mappa e il profilo di ognuno di questi “bombaroli” e naturalmente seguirne gli spostamenti. Hanno un prezzo e 62

devono conseguire dei risultati, altrimenti è preferibile che cambino zona. Sono lo strumento con cui tenere lontano dai business dei war e drug lord i militari di Isaf. «Possono essere considerati come un cordone di sicurezza intorno ai loschi traffici di queste bande criminali». Un cordone fatto di bombe che uccidono. Hanno le loro scuole e le specializzazioni. Ci sono esperti per ordigni “leggeri” e i “maghi” in grado di piazzare pacchi da 500 chilogrammi. «La lista degli enplacer l’abbiamo già stilata», confida l’ufficiale. Si tratta di stargli col fiato sul collo, allertare gli atmospherix (antenne passive dell’intelligence) e gli agenti attivi in grado di captarne i segnali di passaggio in una determinata zona. Ora in Afghanistan è proibito acquistare sostanze dual use, certi concimi per l’agricoltura, come gli azotati o la polvere d’alluminio, che serve ad aumentare la temperatura dell’esplosione. Molti artificieri sono addestrati nell’Helmand altri in Pakistan, molti in Afghanistan. Il livello tecnologico sta migliorando, non si tratta più d’ordigni rudimentali. Ce ne sono con doppio innesco: a pressione e a comando oppure a oscillazione. E la tecnologia che serve per questi congegni è reperibile facilmente. «Anche le batterie delle auto sono pericolose», in Afghanistan esiste un sistema centralizzato di raccolta di batterie. È l’artigianato dei bombaroli. E la materia prima, gli esplosivi, non mancano. Tanti d’anni di guerra hanno creato centinaia di depositi darmi a cielo aperto. Mentre l’ufficiale della Brigata Sassari continua a spiegarci le tecniche di scoperta delle trappole esplosive, arriva improvvisa una chiamata radio. Il colonnello Vincenzo Lauro, capo cellula Pubblica informazione di Herat fa un cenno. Dobbiamo correre in fretta verso gli H 101. Gli elicotteri hanno i motori accessi e il rotore a pieni giri, pronto a staccare. Corriamo verso il tecnico di bordo che fa ampi gesti col braccio. Le turbine urlano, siamo avvolti da una nuvola di polvere del deserto. Poi di nuovo in volo, a ogni steep turn (virata stretta) rimani incollato al sedile. La luce forte e il vento freddo che ti sbatte in faccia ti ricordano che sei di nuovo in viaggio sui cieli dell’Asia centrale, sulle vie dell’Oxiana.



lo scacchiere

Europa /l’unione fuori casa: il nodo

politico delle missioni all’estero

Dai Balcani al Corno d’Africa l’Ue risale la china dell’inconsistenza DI ALESSANDRO MARRONE

l recente lancio di una missione dell’Ue nel Corno d’Africa rappresenta una piccola, positiva novità in un panorama di stallo quanto ad operazioni dell’Unione all’estero, stallo derivante dall’assenza di leadership politica a livello europeo. Lo scorso gennaio il consiglio Affari esteri dell’Ue ha deciso l’istituzione di un Operations centre nel Corno d’Africa. Il compito principale dell’Operation centre è migliorare il coordinamento tra le due missioni militari Ue al momento in corso nella regione – Eunavfor Atalanta ed Eutm Somalia – e la nuova missione di capacity building decisa a dicembre 2011. L’operazione Eunavfor Atalanta, lanciata nel 2008, è una operazione marittima di contrasto alla pirateria che conta su circa 1.400 effettivi (incluso il personale nei comandi di terra), tra le cinque e le dieci fregate e un paio di navi di supporto. La missione Eutm Somalia fornisce sostegno al governo di transizione federale somalo tramite l’addestramento di ufficiali, attività che però avviene in Uganda, dove sono basati un centinaio di addestratori provenienti da dodici paesi membri dell’Ue. Mentre la prima operazione ha registrato un certo successo nel contribuire al contrasto alla pirateria, anche in cooperazione con l’analoga missione della Nato Ocean shield, e soprattutto nello scortare i convogli

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umanitari del World food programme, la seconda operazione non ha avuto effetti sostanziali su uno stato fallito come la Somalia. La nuova missione di Regional maritime capacity building (Rmcb) mira a rafforzare le capacità di controllo delle acque territoriali da parte degli stati della regione – Kenya, Tanzania, Mozambico, Gibuti, Seychelles, Yemen, Mauritius e, per quanto possibile, Somalia – in funzione anti-pirateria, tramite assistenza tecnica, fornitura di equipaggiamenti, e addestramento di polizia costiera, giudici e funzionari, nel centro regionale di Gibuti. A differenza delle altre due missioni militari Ue attive nella regione, Rmcb è una missione civile, sempre inquadrata nella Common foreign and security policy (Cdsp). Nel complesso, le missioni nel Corno d’Africa rappresentano una parte significativa dello sforzo operativo dell’Ue all’estero. La parte del leone la fanno i Balcani, priorità dello sforzo europeo di stabilizzazione tramite institution building e peacekeeping: la missione militare Eufor Altea in Bosnia e quella civile Eulex Kosovo insieme totalizzano oltre 3.750 uomini. Circa un migliaio sono poi impiegati tra Eupol Afghanistan (circa 560 uomini per l’addestramento delle forze di polizia afgane) e la missione di monitoraggio in Georgia (con uno staff di quasi 400 unità). Altre sei piccole missioni Csdp, per lo più di training e assistenza, sono attive in Africa e Medio Oriente, mentre dieci sono state concluse. L’insieme delle attuali operazioni Ue, con l’eccezione appunto della nuova missione nel Cor-


scacchiere

no d’Africa, è un’eredità dell’era precedente il Trattato di Lisbona. Nei primi anni della Csdp, sotto la leadership di Javier Solana, l’Unione ha avviato oltre 20 missioni in tutto il vicinato, non solo nei Balcani ma in Africa, Medio Oriente e in Asia Centrale, sperimentando sia l’utilizzo dello strumento militare sia la cooperazione civile-militare che sarebbe poi divenuta una costante, per lo meno su carta, dell’approccio Ue alla gestione delle crisi. Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Alto rappresentante ha più poteri e maggiore autonomia che in passato, nonché strumenti in teoria volti a prendere l’iniziativa e rispondere tempestivamente alle crisi. Il Servizio europeo di Azione esterna fu sostanzialmente pensato a sostegno dell’Alto rappresentante, che può giovarsi anche del suo ruolo di vertice dell’Agenzia europea di difesa. Eppure, come alcuni esperti hanno già osservato, i nuovi strumenti più stabili e organizzati sono stati sottoutilizzati, e il risultato del triennio 2009-2011, in termini di azione europea nel campo della sicurezza esterna tramite lo strumento delle missioni, è stato scarso e deludente. In passato, le missioni Csdp erano viste come un motore di cooperazione europea, per lo meno a livello tattico e operativo grazie al lavoro di squadra tra militari e funzionari di diversi paesi membri, che ha favorito in una certa misura la costruzione di prassi condivise e la convergenza delle culture strategiche degli attori nazionali coinvolti negli sforzi comuni. Tale volano è stato anche utile alla definizione dell’architettura istituzionale disegnata dal Trattato di Lisbona, ma a questo punto ha raggiunto il suo limite. Oltre una certa soglia di cooperazione la spinta dal basso non è più sufficiente, e serve la volontà politica dall’alto per avanzare verso maggiore e più efficace cooperazione. Tale volontà politica è stata messa in campo all’inizio per avviare le prime missioni dell’Ue, sia da parte degli stati membri, come nel caso della Francia di fronte alla guerra tra Georgia e Russia nel 2008, sia dai vertici delle istituzioni europee – basti pen-

sare alla leadership creativa esercitata da Solana. Stati membri che poi sono stati riluttanti a far funzionare a pieno regime le nuove istituzioni stabilite dal Trattato di Lisbona nel settore della politica estera e di sicurezza, forse nel timore che si rafforzassero al di fuori del loro controllo. La tendenza alla ri-nazionalizzazione della politica di sicurezza e difesa emersa negli ultimi anni in Europa ha influito negativamente al riguardo, insieme ovviamente agli effetti politici della crisi finanziaria ed economica. Quanto alla leadership del nuovo Alto rappresentante, è considerata da molti insufficiente se non evanescente. Il risultato di questa situazione di stallo è stato evidente con la crisi in Libia quando l’Ue, completamente assente dal processo di decisone e gestione della campagna militare, si è autolimitata all’approvazione di una missione civile di assistenza umanitaria che poi è rimasta su carta e non è stata finora attuata. Date le motivazioni dello stallo, la soluzione non può essere cercata (solo) in un approccio dal basso, che in termini di missioni ha raggiunto e mostrato i suoi limiti naturali. Né si può semplicemente aspettare una nuova e, si spera, più attiva leadership a livello nazionale o di Unione europea. Il problema è fondamentalmente politico, e in seconda battuta istituzionale, e va affrontato tenendo conto di quella che è la realtà politica Europea quanto alle politiche di difesa, ad esempio pensando a come combinare in modo sinergico il ruolo delle istituzioni Ue con le cooperazioni intergovernative tra gruppi ristretti di paesi. È forse questo un obiettivo modesto rispetto alle aspettative dei fautori dell’integrazione europea, ma proprio per questo è forse più raggiungibile in questi tempi di ritorno al nazionalismo e con l’attuale leadership politica. Come disse una volta De Gasperi, «ognuno lavora con i mattoni che ha». 65


Risk

Americhe/malvinas color petrolio

A trent’anni dalla guerra delle Falklands cresce la tensione tra Londra e Buenos Aires DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

poche settimane dal trentennale della guerra delle Falklands/Malvinas, sale la tensione tra Argentina e Gran Bretagna. Operazioni militari che Londra definisce «di routine» ed esigenze di politica interna del governo di Buenos Aires hanno spinto i rapporti bilaterali a un livello critico. Sullo sfondo, anche se nessuno ne parla apertamente, ci sono i giacimenti di petrolio della zona. La questione è sempre la stessa. L’Argentina rivendica la sovranità sulle isole, e considera la Gran Bretagna una potenza coloniale che vuole militarizzare e nuclearizzare l’Atlantico Sud. L’arrivo del cacciatorpediniere Dauntless, del sommergibile nucleare classe Trafalgar (notizia ovviamente non confermata) e del principe William per operazioni di addestramento sono state denunciate quali provocazioni ostili e gratuite. Londra risponde che la sovranità delle Falklands non sarà mai in discussione fintanto che non lo vorranno i loro 3mila abitanti, forti del diritto all’autodeterminazione riconosciuto dalla Carta dalle Nazioni Unite. Per difenderli, a Mount Pleasant sono di stanza più di 1.200 militari britannici, con un costo annuo di 75 milioni di sterline. Questa diversità di prospettive – le isole come territorio fisico contro il volere delle persone che vi risiedono – rende le posizioni dei due paesi difficilmente conciliabili. La strategia argentina si articola su due piani: impedire per quanto possibile i collegamenti con le Falklands e internazionalizzare la disputa portandola a New York – Consiglio di sicurezza e Assemblea generale Onu –, a Cartagena in Colombia – summit dei presidenti delle Americhe – nelle principali capitali del mondo durante le commemorazioni del 2 aprile, a Londra durante i Giochi olimpici, e così via. Il blocco commerciale finora ha prodotto scarsi risultati. Nel 2007 Néstor Kirchner cancellò un accordo bilaterale nel settore Oil&Gas proibendo alle compagnie petrolifere attive nelle acque delle Falklands di mettere pie-

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de in suolo argentino. Nel dicembre scorso, il presidente Cristina Fernández ha convinto Brasile, Uruguay e Paraguay a chiudere i porti alle navi che issano la bandiera delle isole. Lo stesso divieto vale anche per le navi militari britanniche impegnate in operazioni di supporto alle Falklands. Maggiori conseguenze potrebbero esserci qualora Buenos Aires arrivasse a vietare il proprio spazio aereo all’unico volo di linea operato dalla compagnia cilena Lan da Punta Arenas a Port Stanley. Per prevenire le conseguenze di un embargo aereo si stanno vagliando ipotesi alternative: voli militari via Ascension Island, voli civili da Miami con scalo da definirsi o voli da Londra via Sant’Elena, una volta costruito un aeroporto adeguato. Il braccio di ferro diplomatico è più complesso. Se nel 1982 gli Stati Uniti e il Cile di fatto appoggiarono la Gran Bretagna, oggi i tempi sono cambiati. Il dipartimento di Stato si guarda dal lasciarsi coinvolgere nell’escalation pilotata da Buenos Aires, e i repubblicani ne approfittano per accusare Barack Obama di scarsa lealtà verso Londra. Il presidente cileno Sebastián Piñera è costretto a ribadire la propria vicinanza al paese trans-andino, sperando di non incrinare i rapporti con la Gran Bretagna. Anche il Brasile cerca di non esporsi: a marzo è prevista la visita del principe Henry, Londra ha appoggiato la richiesta brasiliana di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza, e irrigidire le relazioni non porterebbe alcun beneficio. Su posizioni simili è il governo uruguayano. I maggiori sostenitori dell’istanza argentina sono i paesi del blocco “bolivariano” che fa capo a Hugo Chávez e ai fratelli Castro, mentre non è ancora chiaro quale posizione assumeranno i paesi anglofoni dei Caraibi, la Guyana, il Suriname e soprattutto i due membri latinoamericani del Consiglio di sicurezza, Colombia e Guatemala, tradizionalmente vicini a Washington e quindi a Londra. La partita è aperta.


scacchiere

Africa /caos nelle urne, il senegal è in bilico Primavere incompiute: il vento del cambiamento in Africa occidentale DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

in corso un colpo di stato in uno degli Stati africani simbolo della democrazia nel continente? Quante sono le possibilità realistiche che il «vento della primavera sub sahariana» parta da Dakar? Questa volta tocca al Senegal stare sotto i riflettori e già da qualche mese esperti internazionali analizzano la possibilità che la terra di Léopold Sédar Senghor scivoli verso il caos elettorale e successivamente verso una drammatica instabilità. Quello che sinceramente meraviglia dall’esterno, non è tanto che il Consiglio costituzionale abbia convalidato la candidatura del presidente uscente Abdoulaye Wade violando la costituzione che prevede solo due mandati, né che il capo dello stato stia utilizzando una mano ferma per mettere a tacere l’opposizione in piazza o che cerchi di promuovere una «logica dinastica familiare»… quello che lascia perplessi è che i partiti della minoranza continuino nella loro parcellizzazione. Ancora una volta si presenta una pletora di candidati per la massima carica istituzionale (13 candidati contro Wade), non un candidato unico; ancora una volta si pensa a fare fronte comune al secondo turno e si rinvia la battaglia ad un momento migliore. Ma quando può arrivare il momento migliore se il dialogo tra i protagonisti politici è stato sostituito da scontri di piazza tra manifestanti e forze dell’ordine, uso di gas lacrimogeni e lanci di sassi? Non sono valse le esperienze ivoriane, ugandesi e congolesi del recente passato per indicare una traiettoria per l’alternanza ed un cambio democratico… chi è al potere continua a sfruttare la rendita di posizione (utilizzando, ad esempio, i fondi pubblici per la propria campagna elettorale) ma più che altro gioca sul «divide et impera». Le varie coalizioni (Benno Siggil Senegaal e Taxaw Temm ak Ibrahima Fall) o le formazioni partitiche tradizionali (Parti Socialiste e Parti de l’Espoir) hanno denunciato l’attaccamento al potere di Wade, la sua ipertrofia ed il suo ego smisurato, la volontà di passare il potere al figlio

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Karim Wade, hanno sottolineato il grado di corruzione raggiunto in ogni ambito hanno anche richiamato la gente a scendere in piazza ma hanno lasciato che i singoli interessi prevalessero sul bene comune. Lo stesso Youssou Ndour (la cui candidatura non è stata validata) ha peccato di ingenuità (o di presunzione?) pensando che potesse essere sufficiente la sua notorietà nel mondo musicale per farsi interprete del malcontento popolare. La sua eliminazione è stata in fin dei conti facile, ha sollevato solo un gran polverone e rabbia popolare… ma è stata sostanzialmente inconcludente. Nel mese di giugno avevano fatto ben sperare le formazioni del «Mouvement 23 Juin» (M23) e del movimento dei giovani «Y’en a marre» ma di fatto non sono andate oltre il video e oltre la protesta a se stante, non hanno creato quel valore aggiunto che altre contestazioni in nord africa, esattamente un anno fa, hanno permesso di rovesciare sistemi di più ben lungo corso. L’aiuto non può – e non deve – venire dall’esterno. Non possono essere le denunce di Francia e di Stati Uniti a dare una spallata finale per il cambiamento senegalese, come anche i timori – più o meno palesati – dell’organizzazione regionale di riferimento CedeAO – Communaute economique des etats de l’Afrique de l’Ouest o dell’Unione africana a sorreggere l’architettura democratica locale. L’organizzazione continentale ha già dato prova della sua debolezza e della logica parziale nel caso ivoriano e libico, che potrebbe dire o fare di più in questo momento per il Senegal, tanto più contro l’autore di quel Plan Omega che nel 2001 è stato alla base del programma di sviluppo economico chiamato NepAd-New partnership for Africa’s development. Come in tutte le cose, il cambio arriverà solo dall’interno. È solo questa la speranza per far sì che quella che Wade deride come «semplice brezza» si trasformi in «harmattan», il forte vento che soffia dal deserto ed influisce in modo determinante sul clima senegalese. 67


La storia

Alberico Gentili un genio italiano alla corte di Elisabetta I di Virgilio Ilari Dio spiacente e alli inimici sui. Questo era il fascino che gli eretici italiani, perseguitati pure nei paesi protestanti in cui avevano cercato rifugio, esercitarono su Delio Cantimori (1904-66). L’empatia dello storico mazziniano, deluso prima dal fascismo e poi dal comunismo, si basava, secondo Adriano Prosperi (L’eresia del Libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, 2000), sul comune «nicodemismo», l’arte di dissimulare la vera fede sotto il velo dell’apparente ortodossia. Il nicodemismo è una tipica strategia di angosciosa sopravvivenza cui ricorrono spesso gli inattuali e gli scomodi, pateticamente convinti che basti a beffare il Panopticon. Un’altra, più intrepida e spiazzante, è di cambiare l’acqua nel vaso in cui nuotano gli avversari, ossia fondare il proprio discorso su un nuovo metodo. Ma per farlo

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occorre la forza di un Galileo. O di Alberico Gentili (1552-1608), il giurista maceratese esule in Inghilterra per motivi religiosi, che fu amico di Giordano Bruno ma rivendicò ai giuristi, contro philosophi e politici, la competenza a discettare di guerra giusta e negò legittimità alla guerra intrapresa pro religione. Stile e sottigliezza di Gentili sono ostici per una mente anglosassone (come confessa David Lupher, annoiato ma pur magistrale traduttore dell’opera di cui si parla in questo articolo), ma la sua prosa pullula di dicta pastosi che restano facilmente impressi nella mente: il più famoso è Silete Theologi in munere alieno («offelé fa el to mesté»). Carl Schmitt se ne deliziò nel suo Nomos der Erde, in cui interpretava il de iure belli (1598) gentiliano come la pietra angolare del concetto «non discriminatorio» di guerra e dello stesso jus publicum europaeum, sancito dalla pace di Westfalia (1648), minato dall’intervento americano nel-


Elisabetta I, ritratto col setaccio (The Sieve Portrait, Q. Massys di Anversa, 1583)

Il teologo protestante John Reynolds (1549-1607), persecutore di Alberico Gentili

la grande guerra “europea” del 1914, sepolto dallo mos italicus perché tipico dei giuristi italiani) contro Statuto kelseniano delle Nazioni Unite e definitiva- il metodo, ingenuamente «storicizzante» e umanistimente ripudiato nel 2002 dalla Corte penale interna- co, della c. d. «scuola culta» francese, o mos gallicus zionale (Icc) permanente per i crimini di guerra. Al- (il che non impediva a Gentili di usare gli esempi stol’epoca delle guerre di religione perfino pensare po- rici e d’ispirarsi largamente a Bodin). E non si trattateva costare la pelle. Gentili poi, nella tollerante In- va solo di idee pericolose, ma di vivere pericolosaghilterra elisabettiana illuminata dai roghi dei marti- mente in quegli affascinanti nidi di vipere che erano ri cattolici, pattinava proprio sul filo della scure, non la corte inglese e l’università di Oxford. Consultato solo perché “sfruculiava” i punel 1584 in merito all’espulAll'epoca delle guerre ritani e ammirava Machiavelsione dell’ambasciatore spali, ma per il solo fatto di esse- di religione anche pensare gnolo Bernardino de Mendore italiano (gratta gratta l’itaza (accusato di attentato alla poteva costare la pelle. liano che ci spunta il Vaticavita di Elisabetta), dal 1587 al Ma il grande giurista no) e giurista (Juristen böse 1605 Gentili fu infatti ottavo di Oxford, nella tollerante Christen, «giuristi cattivi criregius professor di civil law a Inghilterra dell’epoca, stiani», aveva detto Lutero). Oxford e infine, sotto Giacoilluminata dai roghi dei Con l’aggravante di aver pure mo I, avvocato della legaziomartiri cattolici, sapeva condotto una difesa magistrane spagnola. La cattedra oxole e di grande presa intellettuaniana di diritto civile (cioè di pattinare sul filo della le del metodo dogmatico di indiritto romano) era stata istituiscure. Riuscendo anche terpretazione del Corpus Juris a “sfruculiare” i puritani… ta nel 1540, assieme a quella giustinianeo (metodo detto gemella cantabrigense, da En69


Risk rico VIII per propagandare la lex regia come fondamento della translatio della sovranità dal popolo al principe. Il primo titolare era stato John Story, imprigionato sotto Edoardo VI per essersi opposto alle leggi anticattoliche, evaso e rifugiato una prima volta nei Paesi Bassi, riabilitato sotto Maria Tudor, di nuovo arrestato, evaso e fuggito nel 1559 per essersi opposto all’atto di supremazia di Elisabetta, infine rapito dagli antenati dell’MI-5 in territorio spagnolo (extraordinary rendition), portato in Inghilterra, processato per alto tradimento, torturato e giustiziato nel 1571 nel modo (impiccagione con evirazione e squartamento) descritto da Anthony Burgess in A Dead man in Deptford (1993) a proposito dell’esecuzione (1586) di Babington e dei suoi complici che fece vomitare perfino Elisabetta. (Leone XIII beatificò Story nel 1886, alla faccia dei mangiapreti che volevano erigere un monumento a Gentili, il quale, dimenticato per tre secoli dalla comune ignoranza delle opposte trombonerie, era stato riscoperto da uno studioso olandese, Wijbrand Adriaan Geiger, 1846-1910, un cui saggio del 1867 provocò, nel 1874, la costituzione di un comitato anglo-italo-olandese per le onoranze gentiliane). Salvata dopo la disgrazia di Story da Robert Weston, elisabettiano di ferro, la cattedra oxoniana vivacchiò sul basso profilo e il conformismo fino a Gentili. Non gli fu facile ottenerla, perché la fazione puritana di Oxford, capeggiata da John Rainolds (o Reynolds, 1549-1607) tentò ovviamente di ammazzarlo da piccolo, come aveva fatto con altri due rifugiati continentali, lo spagnolo Antonio del Corro (1527-91) e il fiorentino Francesco Pucci (1543-97). Lo sguardo conservato dal ritratto di Rainolds gela ancora il sangue nelle gaie vene del peccatore medio italiano, e spiega sia una frase di Gentili («Hallucinantur theologi...») sia il suo prudenziale viaggio in Germania nei mesi precedenti l’assegnazione della cattedra. Alla fine Rainolds fu messo a cuccia da Francis Walsingham (1532-90), il 70

capo dei servizi segreti, pullulanti di sicari e a corto di cervelli fini come Gentili. Morto Walsingham, nel 1593-94 Rainolds ci riprovò, accusandolo di machiavellismo, ateismo e paganesimo, ma il nostro fu salvato da Robert Devereux, secondo conte di Essex, genero di Walsingham e ancora nelle grazie di Elisabetta. A lui Gentili dedicò sia gli abbozzi (1588-90) che le versioni definitive (1598 e 1599) dell’opera più famosa (il de jure belli) e di una complementare sulla giustizia dell’impero romano (il de Armis Romanis). Il 24 settembre del 1599 Devereux si giocò tutto salpando dall’Irlanda per Londra. Ma Gentili gli sopravvisse, e poi la cattedra a lui. Durò fino al 1661, cioè sino alla restaurazione della monarchia e all’esecuzione postuma di Cromwell, ricoperta prima da John Budden (1566-1620) e poi dal grande Richard Zouch (1590-1661). Rinacque nel 1736 e l’attuale titolare è il quattordicesimo della nuova serie. L’interpretazione di Gentili è controversa, come dimostra la mole degli studi a lui dedicati, tra cui spiccano quelli di Diego Panizza, suo massimo esegeta. Oso tuttavia esporre la mia impressione che l’opera di Gentili manifesti una coerente strategia: riabilitare il diritto romano sotto il profilo della correttezza politica elisabettiana, per poterlo così brandire sia contro la Spagna sia contro l’estremismo religioso. La cifra era contrapporre la Roma buona alla Roma cattiva, la giurisprudenza alle leggi di Giustiniano, l’impero repubblicano dell’espansione e della virtus a quello monarchico della decadenza e della corruzione. Era l’originale trasposizione sul piano giuridico della lettura della storia romana fatta sul piano politico da Machiavelli, che Gentili riabilitava in Inghilterra definendolo democratiae laudator (e difatti era contestato dai Tacitisti, che consideravano la Roma dei Cesari un progresso, e non un regresso, rispetto alla Roma senatoria). Ed era ancor più geniale che a farlo fosse proprio il difensore del mos italicus; né c’era contraddizio-


storia

Carneade di Cirene, il filosofo che nel 155 a. C., oratore a Roma per conto di Atene, pronunciò due discorsi in contrasto, sostenendo prima la superiorità della giustizia e poi dell'ingiustizia

ne, perché Gentili dava una lettura giuridica della storia, i culti, invece, una storica del diritto. Lui badando all’insieme e alla coerenza del sistema, gli altri ai particolari e alle incoerenze. Gentili contribuiva all’idea della riforma imperiale, che secondo Frances Yates (1899-1981) era «il tema dominante dell’età elisabettiana. La riforma tudoriana della Chiesa, attuata dal monarca, permise ai suoi propagandisti di attingere alle tradizioni e al simbolismo del Sacro Romano Impero per glorificare la regina. La sua immagine come Astrea, la Giusta Vergine della riforma imperiale, fu costruita durante il regno di Elisabetta nel complesso simbolismo che le si riferiva e che assorbì la leggenda della discendenza troiana dei Tudor nell’imperialismo religioso. Questa propaganda abituò il pubblico a pensare a una Chiesa e a un Impero purificati, sotto sembianze femminili. Il «Ritratto del setaccio» della regina come vergine vestale ha esattamente lo stesso contenuto concettuale del verso di Shakespeare su una «Vestale, in trono assisa, di occidua contrada». Il mito di discendere direttamente da gruppi di esuli troiani diversi da quello capeggiato da Enea fu

coltivato sia dai Valois che dai Tudor, per sostenere il carattere originario del loro potere rispetto al Sacro romano impero. La formula medievale della sovranità (fatta consistere nel non riconoscere autorità superiori) fu superata affermando che le monarchie nazionali erano in realtà esse stesse ordinamenti giuridici originari, cioè respublicae. Già prima di Gentili Thomas Smith, primo regius professor di diritto romano a Cambridge dal 1540 al 1551, aveva intitolato un saggio De republica Anglorum. A discourse on the Commonwealth of England (1565). Pochi anni dopo pure Bodin aveva usato quel termine, fin dal titolo del suo trattato di politica, per designare le monarchie nazionali. L’apporto di Gentili fu di dare coerenza al principio repubblicano sia sul piano del diritto costituzionale (espungendo il principio incompatibile della lex regia) sia su quello delle relazioni tra stati, declassando la respublica romana da universale a particolare. Non più ordinamenti subordinati (regna) all’interno di un unico ordinamento universale (respublica): ma una pluralità di respublicae particolari, le cui oggettive regole di convivenza (ius extra rempublicam) non potevano essere tratte dal Justinianismus (cioè dalle leggi imperiali) ma dedotte dal jus gentium, cioè dai principi generali del diritto elaborati dalla giurisprudenza romana. Abbiamo accennato al de Armis Romanis. Nel 2010 e 2011 l’università di Oxford ha pubblicato un’edizione critica con traduzione (The Wars of the Romans) e una raccolta di commenti (The Roman Foundations of the Law of Nations. Alberico Gentili and the Justice of Empire), curate da tre studiosi americani, Benedict Kingsbury, Benjamin Strauman e David Lupher. Il commento principale è però quello del nostro Panizza (pp. 53-84). La struttura è quella dei dissoì lògoi (discorsi in contrasto), come i due di Carneade (nel 155 a C.) sulla giustizia e l’ingiustizia ripresi da Cicerone nel III libro de republica (Lupher, pp. 96-100). I due discorsi in contrasto sulla giustizia delle guerre e quindi dell’impero romano coprono rispettivamente i due libri del de Armis, il primo, quello in cui parla l’Accusator, pubblicato da solo già nel 1590. La struttura è la stessa per entrambi i libri, 71


il quotidiano Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…

…questo lo fa solo liberal Tutti i giorni in edicola Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro • Annuale 130 euro


storia anche se il secondo, in cui parla il Defensor, è lungo circa il triplo del primo. Ciascuno su 13 capitoli, i primi 10 dedicati alle guerre dell’infantia, adulescentia e iuventus di Roma repubblicana, da Romolo a Mitridate; l’XI alla senectus identificata con la Roma dei Cesari; il XII al raffronto con l’impero di Alessandro; il XIII ai due opposti verdetti, di tyrannis e di fortuna. Panizza nota che le tesi del de jure belli collimano quasi perfettamente con gli argomenti di Defensor, un romano seguace del mos gallicus che esalta Bruto e il tirannicidio. Eppure Gentili presta la propria carta d’identità ad Accusator, un “gallo-piceno” di San Ginesio che condanna Bruto perché solo un tiranno può tenere a freno i romani e cita a man salva le tirate degli spagnoli Floro e Orosio, del macedone Polieno e dell’alessandrino Appiano perché è un provinciale come loro. Il chiasma è intrigante ma è un rompicapo. In ogni caso gli argomenti innovativi sono quelli di Defensor, da cui si ricava che l’impero non è un male «a prescindere», che ci sono imperi buoni e cattivi, durevoli e precari. Roma, come oggi l’Inghilterra, era un Commonwealth inclusivo e multietnico, nato dall’unificazione di popoli fieri e gelosi della loro libertà e regolato da virtus e ius: Spagna e Asia sono deboli perché accentrati, troppo estesi e formati da popoli indolenti. La qualità dell’impero si vede dal risultato: per l’Italia, la Britannia, la Libia fu un vantaggio essere unificati e pacificati. Tutti ora rimpiangono (suspirant) la pietas, liberalitas, fides, magnanimitas, pax, securitas, aequanimitas dell’impero romano. È l’argomento «perché non possiamo non dirci romani» (Roma communis patria), usato pure da Niall Ferguson a proposito degli imperi britannico e americano: comunque meglio (o meno peggio) di tutti gli altri. Sono tanti i temi e gli spunti del de Armis esumati da Lupher e Panizza. Ma forse il più interessante e attuale è quello che applica ai rapporti tra stati il principio di diritto privato circa l’irrilevanza giuridica dei motivi psicologici: sit iusta adquirendi caussa, voluntatem nemo vituperavit (se la pretesa palese è giusta non è ammesso il processo morale alle intenzioni, perché il giudizio non può riguardare l’interior

sensus animi, il vero motivo per cui si esercita un diritto). In quanto elemento psicologico, la libido imperi si sottrae perciò alla valutazione giuridica. Se da un lato non costituisce, di per sé, giusta causa di guerra, dall’altro non può in alcun modo inficiare il diritto che, sia pure speciosamente, viene esercitato mediante l’uso della forza: perché una guerra sia giusta è sufficiente che sia giusta la causa palese (aperta), anche se non è quello il vero motivo. Certo che difesa degli alleati (defensio sociorum) e liberazione dei popoli erano speciosi: addirittura, rincara Defensor, costituivano una tipica strategia di espansione (arcana imperii), consentendo all’impero di avanzare di alleato in alleato sino a strangolare chi resisteva. Nondimeno erano giuste cause di guerra, fondate sulla ratio humanitatis. Questi, poi, sono addirittura casi di defensio honesta. Ma lecita è pure la defensio utilis, cioè la guerra preventiva: e non solo per il timore di poter essere in seguito attaccati, ma pure per il timore di poter essere superati in potenza (timor potentiae). Puro elemento psicologico, l’invidia imperii (che del resto tra Roma e Cartagine era reciproca) esula dalla valutazione giuridica. La Cina è vicina! Lo sa bene la generazione del Sessantotto, quella che ora i cattivi li bombarda dallo Studio Ovale. Nel 2003, quando i bombardieri cominciarono la liberazione dell’Iraq, fui invitato per sbaglio a dire la mia in una serata speciale di Rai 2. Misi, al mio solito, il piede nel piatto, parlando di «controllo del prezzo del petrolio e dunque dello sviluppo cinese ed europeo» e citando il passo di Montesquieu sull’esprit de conservation et d’usage implicito nell’esprit de conquête per spiegare come mai le bombe fossero così umanitarie da non distruggere le infrastrutture logistiche utili all’imminente liberatore. Fui perciò giustamente radiato da tutti i palinsesti d’Italia. Non ho né cerco scuse, sir Francis. Ma qualora la Vergine Astrea volesse ancora rivolgere benignamente lo splendore dei suoi raggi sulla mia indegnità, deporrei ai suoi piedi il consiglio, se dovesse pesarle il generoso cuore nel triste dovere di premere il bottone ammazza-cattivi, di sfogliare, corroborandosi, il De Armis Romanis. 73


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SENZA NAZIONE NON C’È PACE E NEMMENO BUON GOVERNO di Giancristiano Desiderio

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e democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale, fedeltà che si suppone condivisa da governo e opposizione, da tutti i partiti politici e dall’elettorato nella sua interezza. Dovunque l’esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire. Infatti, in mancanza di fedeltà nazionale, l’opposizione diventa una minaccia per il governo, e il disaccordo politico non permette di creare un terreno comune. Tuttavia, l’idea di nazione è ormai dovunque sotto attacco, o denigrata come forma atavica di unità sociale, o addirittura condannata come causa di guerre e conflitti, a essere demolita e sostituita da forme di giurisdizione più illuminate e universali». Così inizia l’ultimo libro di Roger Scruton pubblicato in Italia: Il bisogno di nazione (Le Lettere). In queste poche righe introduttive c’è già tanto da discutere: la fedeltà, la nazione, il governo, l’opposizione, l’indispensabilità del sentimento nazionale per avere una buona democrazia e contemporaneamente la critica all’idea di nazione e di Stato nazionale individuato, quest’ultimo, addirittura come causa dei conflitti e delle guerre che hanno irrorato di sangue il Novecento. Il volumetto del filosofo inglese che vive con la moglie e due bambini nella campagna del Wiltshire – qui gestisce una fattoria postmoderna specializzata in animali mitologici e narrativa d’evasione – si sviluppa intorno a questi concetti. La tesi di Scruton è molto semplice – nel sen-

ROGER SCRUTON Il bisogno di nazione Le Lettere pagine 100 • euro 10,00 Accademico, filosofo, docente di estetica, editore e perfino compositore. Roger Scruton, considerato il grande guru del neo-conservatorismo del XXI secolo, scrive un piccolo saggio sullo Stato nazionale, che percepisce sotto attacco e deriso e che invece a suo giudizio rappresenta il modello più sicuro per perseguire pace, prosperità e tutela dei diritti umani. Un’appassionata difesa dell’idea di appartenenza, per difendersi dallo Stato transnazionale e tornare a pensarsi come popolo umano.

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Risk so che è chiara e condivisibile –: lo Stato nazionale ci offre il modello più sicuro di pace, prosperità e possibilità di difendere i diritti umani. Gli argomenti di Scruton, legati come sono alla storia, alle consuetudini, al realismo e al buon senso, sono solidi e si lasciano ascoltare. Però, prima di riportare le idee del buon conservatore Scruton – un altro suo libro, edito da Raffaello Cortina, reca proprio questo titolo: Manifesto dei conservatori – soffermiamoci sul concetto di nazione. Francesco Perfetti nella sua introduzione al volumetto giustamente riprende la ricostruzione fatta da Federico Chabod sulla genesi dell’idea di nazione: «Il concetto di nazione è un concetto moderno, anche se le nazioni sono spesso fondate su legami, memorie, motivi etnici o culturali premoderni o, addirittura, antichi. È, questo concetto di nazione, il frutto maturo del Romanticismo». Le forze politiche che si richiamano alla nazione non possono fare a meno di creare una storia, dei miti, dei simboli, dei richiami e insomma un sentimento nazionale che muova immaginazione, passione, appartenenza. Nel secolo decimo nono – il secolo della storia – l’idea nazionale sconfina sempre più dalla cultura nella politica, fino a diventare il motore stesso della politica. Il sentimento nazionale si trasforma in volontà, la nazione viene associata alla patria e la patria si divinizza e sacralizza, mentre le filosofie della storia divinizzano la storia fino a farne la stessa manifestazione di Dio. Mentre il secolo della storia sta per finire e l’idea di nazione sta per cedere il passo all’idea dell’imperialismo o dei nazionalismi trionfanti, si sviluppa tra Francia e Germania una discussione sull’idea di nazione. Il dibattito trae origine dai riassestamenti territoriali e dalle lacerazioni morali seguite alla conclusione del conflitto franco-prussiano del 1870: «Un grande storico dell’antichità classica, Teodoro Mommsen, rivendicò il diritto della Germania ad annettersi l’Alsazia, perché abitata da una popolazione di razza germanica e di lingua tedesca. Un altro illustre antichista, lo storico francese NumaDenis Fustel de Coulanges, contrastò questa concezione sostenendo che non sono né la razza né la lingua gli elementi atti a individuare e definire l’essenza di 76

una nazione, ma, piuttosto, una comunanza di ideali, di interessi, di affetti, di ricordi, di speranze: questo insieme di fattori fa sì che gli uomini sentano nel proprio cuore di appartenere a uno stesso popolo». Nel 1882 Ernst Renan tiene alla Sorbona una conferenza sul tema Che cos’è una nazione? La sua risposta è che la nazione non è la razza, né la lingua, né la religione, né la comunità d’interessi economici, né l’esercito. Dunque? La nazione è un’anima che riguarda tanto il passato quanto il presente, tanto la storia quanto lo spirito. Una nazione – ecco la celebre risposta – è un «plebiscito di ogni giorno» come l’esistenza di un individuo è «un’affermazione perpetua di vita». Si è una nazione perché ci si ritrova insieme dal passato e si vuole continuare a vivere insieme. Il concetto di nazione è stato utilizzato e stravolto dai movimenti nazionalisti e dai regimi autoritari e totalitari del XX secolo, così la sua natura è stata alterata e compromessa e identificata in tutto e per tutto con lo Stato, mentre la stessa definizione di «Stato-nazione» rende evidente che ci troviamo di fronte a una realtà duale e più complessa. Giustamente specifica Perfetti: «Esiste, certo, una linea direttrice che collega la nazione al nazionalismo e questo all’imperialismo e, poi, al totalitarismo, ma si tratta di una strada non obbligata». Anzi, è giusto aggiungere che la tradizione liberale europea ha coniugato l’idea di libertà con l’idea di nazione e la nazione è un modo attraverso cui si può e si realizza storicamente la libertà. Se le cose stanno così, allora, come è possibile liquidare la nazione come una minaccia per la libertà dei singoli e dei popoli? E qui si deve leggere il volumetto di Scruton The need for Nations che trae ispirazione anche dai grandi esponenti del conservatorismo inglese come Edmund Burke e Thomas Stearns Eliot. Siamo, dunque, ritornati all’inizio. Senza la fedeltà alla nazione o più semplicemente senza la nazione non c’è il governo moderno e le sue garanzie di pace e benessere. C’è una prova di tanto? Certo. E la risposta di Scruton, a pensarci bene, è anche convincente. Gli esperimenti che sono stati fatti per andare oltre lo Stato nazionale si sono rivelati pericolosi e carichi di di-


libreria sastri: le tre grandi rivoluzioni – francese, sovietica e nazionalsocialista – hanno portato al «collasso dell’ordinamento legale» e all’instaurazione di una prassi fondata sull’«omicidio di massa all’interno» e sulla guerra con altri paesi. La storia insegna che sarebbe saggio mantenere «gli equilibri esistenti, per quanto imperfetti, che si sono evoluti attraverso l’uso e l’eredità, per migliorarli attraverso piccoli aggiustamenti» e non già «metterli a rischio con cambiamenti su larga scala» dei quali non è possibile prevedere le conseguenze. Il filosofo inglese rifiuta la lettura della storia del Novecento secondo la quale è proprio dagli Stati nazionali che avrebbero avuto origine le due guerre mondiali. Non solo. Per definire il pregiudizio sfavorevole nei confronti dello Stato nazionale Scruton ri-

corre all’uso del termine «oicofobia», come opposto di «xenofobia», e qui individua quella tendenza in cui «loro» sono migliori di «noi» e si denigra tutto ciò che è «nostro», insomma, nazionale. Chi è affetto di «oicofobia» ripudia e rifiuta la fedeltà nazionale e definisce obiettivi e ideali «contro la nazione, promuovendo le istituzioni transnazionali a scapito dei governi nazionali, accettando e supportando le leggi» imposte, per esempio, dall’Unione europea o dalle Nazioni unite in nome di un «universalismo illuminato» e contro lo «sciovinismo locale». Ma se si minano le basi della legittimità degli Stati nazionali si minano le stesse basi intellettuali e morali delle democrazie e si nega la stessa concreta possibilità di costruire buone istituzioni sovranazionali.

MANAGER CON LA TESTA TRA LE STELLE

Ovvero come si sviluppa, si gestisce e si finanzia un progetto spaziale. Una guida d’autore per diventare imprenditori del cielo di Mario Arpino on est ad astra mollis e terris via, non è facile la via dalla terra alle stelle. Questa frase dell’ Hercules Furens di Seneca è la prima che ci balza agli occhi aprendo la pagina di copertina del libro di Marcello Spagnulo. Verrebbe subito da dire che lo immaginavamo. Certo, è vero, ma non sapevamo quanto sia difficile e perché, come non sapevamo quale tipo di organizzazione, di studio e di gestione siano necessari per spianare appena un pò questa strada. E quanta continuità di impegno, di risorse e di tenacia sia necessaria per mantenerla percorribile, una volta raggiunto lo scopo. Eppure la piccola Italia – molti tra i più giovani di ciò sono del tutto ignari – era stata la terza nazione dopo Urss e Usa a guadagnarsi l’ «accesso allo spazio» già negli anni sessanta, mettendo in orbita un proprio satellite artificiale dalle coste del Kenya, nell’ambito del progetto San Marco del generale ingegnere dell’Aeronautica Luigi Broglio. Da allora, dopo una lunga stasi l’istituzione dell’Agenzia

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spaziale italiana (Asi), la nostra adesione all’Agenzia spaziale europea (Esa), l’eccellenza industriale e il lungimirante impegno delle Università – rimarchevole quello de La Sapienza di Roma – ci hanno portato molto avanti, consentendoci di mantenere posizioni di spicco in Europa e nel mondo. Osservavo l’estate scorsa, in occasione della presentazione di un libro-intervista del compianto professor Carlo Buongiorno – altro padre dell’astronautica dopo Luigi Broglio – come gli italiani siano ormai convinti che ogni cosa, qui da noi, stia andando male. Ma non è così. Ce ne sono alcune, per le quali tutto il mondo ci invidia, che invece vanno benissimo. Non stiamo parlando di calzature, di arredamento o di moda, dove pure ci facciamo onore con iniziative di successo. Stiamo parlando di spazio. Solo che – a parte i già iniziati e gli addetti ai lavori – nessuno lo sa, perché nessuno ce lo dice. Certo che non abbiamo lanciato noi il primo Sputnik, né siamo stati noi a far girare il primo cosmonauta attorno alla terra o a raggiungere per primi la Luna, ma nel settore abbiamo riconosciute eccellenze, ottime tecnologie d’avanguar77


Risk dia e annoveriamo risultati di tutto rispetto. Ma non sono notizie che fanno audience, e così, per far sapere al nostro pubblico che c’erano contemporaneamente in orbita nella Stazione spaziale internazionale (Iss) due astronauti italiani c’è voluta la presenza sui teleschermi del Santo Padre e del presidente della Repubblica. Per i meno informati, ricordiamo solo alcuni dei successi italiani, quali il satellite al guinzaglio «tethered», quelli per telecomunicazioni Italsat, il satellite scientifico Beppo-Sax, il motore di apogeo Iris, il laboratorio Spacelab, i satelliti per telecomunicazioni militari Sicral, il coinvolgimento per i satelliti da osservazione della terra e telerilevamento Helios e Cosmo-Skymed, la cupola ed i moduli abitativi e da trasporto per la stazione spaziale, lo strumento Ams per l’individuazione dei raggi cosmici e le tracce dell’interazione materia-antimateria, costruito in collaborazione tra 16 nazioni, e le varie serie di esperimenti predisposti dalla comunità scientifica e dall’Aeronautica Militare condotte dai nostri astronauti a bordo della Stazione spaziale. Il più recente e complesso programma, che, pur essendo frutto della collaborazione internazionale di sette nazioni europee, parla preminentemente italiano è il vettore spaziale Vega, lanciato con successo lo scorso 13 febbraio dal Centro spaziale europeo della Guyana francese (CsG). Si tratta di un lanciatore per satelliti di peso fino a 1.500 chilogrammi. È stato realizzato su commessa dell’Esa, la gara internazionale era stata vinta dall’Elv (Avio) di Colleferro, capocommessa per il lanciatore, e dalla Vitrociset di Roma, quale prime contractor per il segmento di terra. Per condurre programmi del genere non solo sono necessari ingegneri e tecnici in grado di proiettarsi nel futuro operando già al presente con tecnologie d’avanguardia, ma è indispensabile essere padroni delle più moderne ed efficaci tecniche di gestione di attività lunghe e complesse come generalmente sono i programmi aeronautici, e quelli spaziali in particolare. L’affinità tra i due filoni è evidente, e lo sarà ancora di più nel futuro prossimo con la progressiva introduzione di programmi relativi alla commercializzazione intercontinentale del volo ipersonico.È proprio attraverso questo percorso 78

che, con il pragmatismo, la chiarezza e la logicità dell’ingegnere, ci vuole guidare con il suo libro – è il secondo in cui ci parla di Spazio – Marcello Spagnulo. Illustre l’autore, illustri gli estensori delle tre prefazioni. La prima è di Enrico Saggese, presidente dell’Agenzia spaziale italiana, ingegnere. Ci spiega in termini semplici cosa sia un grande progetto, mettendo bene a fuoco quale sia la natura intrinseca di un programma spaziale complesso, e come solo i governi, tramite le agenzie spaziali, siano in grado di finanziarne in un primo tempo la realizzazione. Il privato interverrà solo in un secondo tempo, quando e se il prodotto si dimostrerà in grado di generare applicazioni largamente fruibili nell’ambito dei mercati. Il buon management, la corretta gestione – spiega Saggese – si può riassumere in due fattori chiave: controllo dei tempi e controllo dei costi. È difficile, ma si può fare. Il «come» ce lo spiega Spagnulo nel suo libro. La seconda prefazione è del colonnello pilota Roberto Vittori, laureato in fisica, collaudatore sperimentatore dell’Aeronautica Militare e unico astronauta attivo dell’Esa per tre volte nello Spazio. Vittori ci spiega come la disciplina del management dei programmi spaziali, soprattutto di quelli dove è prevista la presenza dell’uomo a bordo, sia talmente complessa e variegata da sfuggire talvolta nella sua totale interezza persino all’astronauta che vive nello spazio, qualora voglia rendersi consapevolmente conto delle implicazioni in termini di sicurezza del trinomio tecnologia-management-finanziamento. La terza prefazione è dell’ingegnere Paolo Gaudenzi, entusiasta ed instancabile professore ordinario di «Costruzioni e strutture aerospaziali» dell’università La Sapienza. Tra l’altro, spiega come, nell’arco della sua esperienza di docente, abbia spesso avuto modo di incontrare vari professionisti che, come l’autore e i suoi collaboratori, hanno voluto e saputo trasmettere molte di quelle competenze professionali che, come spesso accade per gli ingegneri, stanno a cavallo tra la dimensione applicativo-operativa e quella più propriamente accademica. A questo punto, parlare del libro diventa quasi superfluo. Noto grossomodo il contenuto, è bene lasciare al


libreria lettore il piacere della ricerca e della scoperta. L’opera è articolata in sette capitoli, dove si tratta della specificità del settore spaziale, della gestione dei relativi programmi, del marketing del prodotto, del management dei programmi e dei rischi connessi, della gestione dei costi e di quella conseguente della gestione finanziaria, con particolare riferimento al finanziamento pubblico ed alla convenienza di quello privato. In tutto ciò l’Autore ed i collaboratori hanno una particolare esperienza, che si nota attraverso i continui riferimenti a programmi già conclusi od ancora in corso, ai quali hanno collaborato o stanno ancora collaborando. Tabelle, diagrammi ed istogrammi sono riportati in abbondanza, specie per quanto riguarda ogni aspetto economicofinanziario e di budget previsionale. Di particolare interesse ed attualità è la descrizione delle tipologie contrattuali nei programmi spaziali, dove si vede che il contratto a prezzo fermo e fisso, a fronte di quelli a costo o a incentivi, è quello più diffuso in Europa ed è ormai quasi uno standard nell’ambito dei contratti Esa. È evidente il riferimento al caso del programma Vega, dove, nonostante il prezzo fisso, questo ha avuto necessità di frequenti revisioni in seguito al mutare di circostanze o di imprevisti fatti successivamente oggetto di variazioni di contratto concordate tra i contraenti (Ccn, Contract change notice). In effetti c’è da aspettarselo, perchè nelle attività spaziali si è quasi sempre di fronte a realizzazioni prototipiche dove, trattandosi di programmi di lunga durata, il costo fisso iniziale può in alcuni casi anche raddoppiare.Anche dell’autore, tra le righe, abbiamo ormai svelato quasi tutto. Ma, visto

che la modestia che caratterizza le persone di valore gli ha impedito di inserire un sia pur sintetico cursus honorum in copertina, è giusto che provvediamo noi, in sede di recensione. Marcello Spagnulo è nato a Roma nel 1960, laureandosi in ingegneria aeronautica alla Sapienza, dove è stato anche docente ai master in satelliti. Ha iniziato la sua carriera professionale al consorzio Italspazio come specialista di missione, per passare poi nell’organizzazione tecnica dell’Esa, in Olanda, come ingegnere di missione. È stato successivamente impiegato a lungo da Arianespace in Francia nel programma Ariane 4, partecipando a ben 14 campagne di lancio a Kourou, nella Guyana Francese. In Alenia Spazio (oggi Thales Alenia Spazio) ha operato in varie posizioni relative a programmi, mercati e strategie, per essere poi impiegato in Finmeccanica come assistente del direttore delle attività spaziali, ricoprendo anche l’incarico di membro del consiglio di amministrazione di una compagnia formata da Finmeccanica e Eads Astrium. Dal 2009 è in Asi, a Roma, dove è impiegato nell’ufficio di presidenza. È autore di oltre 40 pubblicazioni tecnico-scientifiche, riguardanti preminentemente il settore aerospaziale, e conferenziere presso le università La Sapienza, Tor Vergata e l’Istituto superiore delle Telecomunicazioni. Il giudizio finale sul libro è quello espresso in prefazione dal professor Paolo Gaudenzi: « (…) il testo di Marcello Spagnulo costituirà negli anni a venire uno strumento prezioso offerto per il progresso culturale e professionale di chi vorrà impegnarsi nelle imprese spaziali del prossimo futuro».

MARCELLO SPAGNULO Elementi di management dei programmi spaziali CON LA COLLABORAZIONE DI MAURO BALDUCCINI E FEDERICO NASINI.

Springer edizioni pagine 265 • euro 32 Le missioni spaziali non sono una faccenda solo per astronauti. Per ogni uomo mandato nello spazio sono centinaia, se non migliaia, quelli che a terra hanno contribuito alla riuscita del progetto. I manager delle stelle hanno trovato il loro riscatto in un libro che parla di quanto la realizzazione e il lancio nello spazio di satelliti o sonde attraverso missili o navette spaziali sia un esempio di attività industriale di enorme complessità e di lungo periodo. Lo sviluppo di un programma spaziale prevede la realizzazione di vari sistemi: il segmento spaziale, cioè i lanciatori per l’accesso allo spazio, i satelliti o le sonde, le infrastrutture spaziali abitate da astronauti oppure robotizzate, e il segmento di terra che consente agli operatori sulla terra di controllare i sistemi nello spazio e di fruire delle applicazioni derivanti dal loro uso. E non basta perché l’imprevisto è la regola. E la manifattura dei sistemi spaziali è una pratica a metà strada tra la scienza esatta e l’artigianato di elevatissima qualità. I processi realizzativi dei programmi spaziali hanno però avuto il pregio nel passato di costituire, sin dagli anni Sessanta, un modello di riferimento per altri settori industriali proprio a causa della loro unicità tecnologica e produttiva.

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MARIO ARPINO: generale, già capo di stato maggiore della Difesa GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore, ha curato il libro La libertà della scuola di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti NICHOLAS EBERSTADT: demografo ed economista statunitense, membro dell’American enterprise institute ROSSELLA FABIANI: giornalista, archeologa MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni militari all’Università Cattolica di Milano CARLO JEAN: presidente centro studi di geopolitica economica, docente di studi strategici all’università Luiss Guido Carli di Roma GENNARO MALGIERI: deputato, membro della commissione Esteri della Camera dei Deputati ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali nell’area Sicurezza e Difesa ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista NICOLÒ SARTORI: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali ENRICO SINGER: editorialista di politica internazionale già corrispondente da Mosca

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