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Mario Arpino

Osvaldo Baldacci

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

MEDIORIENTE DUEMILAQUINDICI

Luisa Arezzo

20

2011

novembre-dicembre

numero 64 anno XII euro 10,00

quaderni di geostrategia

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Nuovo Mediterraneo vecchia Europa Dopo le rivolte il vicino mondo arabo è ad una svolta. Che rischia di tagliarci fuori STEFANO SILVESTRI

risk

L’esproprio libico

Maria Egizia Gattamorta

Trascinata in una guerra ipocrita, l’Italia rischia perdite pesantissime MARIO ARPINO

Riccardo Gefter Wondrich

Le piaghe d’Egitto La via democratica si allontana mentre il “mare nostrum” si restringe OSCAR GIANNINO

Oscar Giannino

medioriente duemilaquindici

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Fiamma Nirenstein

Michele Nones

Valentina Palumbo

Ahmed Rashid

Stefano Silvestri

RISK NOVEMBRE-DICEMBRE 2011

Andrea Nativi

ecco come i leader della svolta cambieranno ogni equilibrio Viva la Nato (in mancanza di meglio) Andrea Nativi

Russia, non è ancora l’ora del cambiamento Osvaldo Baldacci

• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •


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64

quaderni di geostrategia

DOSSIER

S

O

M

M

A

SCACCHIERE

R

I

O

Nuovo Mediterraneo, vecchia Europa

Unione Europea

Stefano Silvestri

Alessandro Marrone

L’esproprio libico

Americhe

Mario Arpino

Riccardo Gefter Wondrich

Le piaghe d’Egitto

Africa

Oscar Giannino

Maria Egizia Gattamorta

Mai sottovalutare la Tunisia

pagine 64/67

Valentina Palumbo

La primavera araba è un buco nero Luisa Arezzo - Fiamma Nirenstein

LA STORIA Virgilio Ilari

Turchia, la mezzaluna è piena

pagine 68/73

Pierre Chiartano pagine 5/43 •

Editoriali

Michele Nones Stranamore

LIBRERIA

Mario Arpino Giancristiano Desiderio pagine 74/79

pagine 44/45

SCENARI

Viva la Nato Andrea Nativi

Russia, non è ancora l’ora della svolta Osvaldo Baldacci

Signori, l’odio genera odio Ahmed Rashid pagine 46/63

DIRETTORE Michele Nones REDATTORE Pierre Chiartano COMITATO SCIENTIFICO Ferdinando Adornato Luisa Arezzo Mario Arpino Enzo Benigni Gianni Botondi Giorgio Brazzelli Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Giulio Fraticelli Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Andrea Nativi Giuseppe Orsi Remo Pertica Luigi Ramponi Ferdinando Sanfelice di Monforte Stefano Silvestri Guido Venturoni RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gattamorta, Gefter Wondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000 Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 10/-1 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 10/-1 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione Cinzia Rotondi Abbonamenti 40 euro l’anno Stampa Centro Rotoweb s.r.l. via Tazio Nuvolari, 3-16 00011 - Tivoli Terme (Rm) Distribuzione Parrini s.p.a. Via di Santa Cornelia 9 00060 Formello


MEDIORIENTE DUEMILAQUINDICI Mentre l’Europa ha ormai integrato al suo interno gran parte della sponda Nord del Mediterraneo, sta completando l’inclusione dell’intera penisola balcanica e ha un negoziato di allargamento in corso con la Turchia (che però è, allo stato delle cose, praticamente congelato), la politica verso la regione mediterranea e medio orientale continua ad essere caratterizzata da una molteplicità di iniziative sostanzialmente inefficaci e dispersive. Eppure il Mediterraneo è la nuova grande frontiera dell’Europa, dopo quella apertasi ad Est, con la fine della Guerra Fredda e la scomparsa del blocco sovietico. In quell’occasione, però, l’Europa aveva una politica, l’allargamento, rivelatasi ben presto vincente, nulla di simile si è delineato per la frontiera meridionale. Eppure la sfida è, se possibile, anche più importante. Mentre infatti i paesi dell’Europa orientale, dopo la fallimentare esperienza sovietica e a fronte di una profonda crisi economica e politica della Russia, non avevano alcuna seria alternativa ad un riavvicinamento con l’Europa occidentale, quelli del Nord Africa e del Medio Oriente possono puntare in altre direzioni, creando all’Europa stessa non pochi problemi. Quest’area sta rapidamente trasformandosi.Dopo le rivolte, la Commissione Europea ha rapidamente messo insieme un nuovo pacchetto di proposte sotto il cappello di una nuova “politica di vicinato” per il Mediterraneo che privilegi sostanzialmente i rapporti bilaterali e lasci qualche spazio per una condizionalità positiva, volta ad incoraggiare il proseguimento dei processi di democratizzazione, ma anche in questo caso siamo ancora lontani da un approccio strategico complessivo della necessaria ambizione e consistenza. Eppure la situazione non è priva di rischi. Questa regione è percorsa da notevoli tensioni e il processo di mutamento si è innescato in una realtà già fortemente degradata e conflittuale, in cui conflitti come quello israeliano-palestinese già alimentavano importanti preoccupazioni. Certo, la proliferazione nucleare è potenzialmente il rischio maggiore dell’area. Ma non si può neanche non tener conto che i movimenti di ispirazione religioso fondamentalista, in particolare quello dei Fratelli Mussulmani, stanno assumendo una notevole importanza nei nuovi equilibri di governo. Ecco perché l’assenza di una visione politica comunitaria può ledere i nostri interessi, e non solo quelli economici. Ne scrivono: Arezzo, Arpino, Chiartano, Giannino, Nirenstein, Palumbo e Silvestri


D

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DOPO LE RIVOLTE IL VICINO MONDO ARABO È AD UNA SVOLTA, CHE RISCHIA DI TAGLIARCI FUORI

NUOVO MEDITERRANEO, VECCHIA EUROPA DI

I

STEFANO SILVESTRI

l Mediterraneo è la nuova grande frontiera dell’Europa, dopo quella apertasi ad Est, con la fine della Guerra Fredda e la scomparsa del blocco sovietico. Ma mentre in quell’occasione l’Europa aveva una politica, l’allargamento, rivelatasi ben presto vincente, nulla di simile si è delineato per la frontiera meridionale. Eppure la sfida è, se possibile, anche più importante. Mentre infatti i paesi dell’Europa

orientale, dopo la fallimentare esperienza sovietica e a fronte di una profonda crisi economica e politica della Russia, non avevano alcuna seria alternativa ad un riavvicinamento con l’Europa occidentale, quelli del Nord Africa e del Medio Oriente possono puntare in altre direzioni, creando all’Europa stessa non pochi problemi. Quest’area sta rapidamente trasformandosi. Oggi, nei solo paesi rivieraschi del Nord Africa vivono circa 170 milioni di persone, la cui età media si aggira attorno ai 24 anni. In confronto, l’Europa ha sì una popolazione di circa 500 milioni, ma la sua età media si aggira sui 40 anni. E il Pil pro capite europeo è 12 volte circa più alto di quello dei nordafricani. Queste differenze tenderanno ad aggravarsi con il tempo, grazie al tasso di crescita della popolazione della sponda Sud e all’invecchiamento e progressiva diminuzione della popolazione europea. Al confronto, la “difficile frontiera” del Rio Grande, tra Messico e Stati Uniti, è infinitamente meno problematica, sia dal punto di vista demografico che da quello economico. Ma non basta. Si è verificata in tutti questi paesi, ed in particolare in quelli arabi, una vera e propria rivoluzione culturale, favorita dalla crescente diffusione del

mezzo televisivo, dei telefoni portatili e di Internet. Popolazioni che un tempo erano sostanzialmente isolate e dipendevano per le loro informazioni sono entrate in contatto diretto con il mondo dell’informazione globale e hanno avuto a loro disposizione mezzi estremamente efficaci di comunicazione e mobilitazione. Tutto ciò è entrato in conflitto diretto con regimi dittatoriali sostanzialmente “vecchi”, rigidi, incapaci di contrastare o influenzare il mutamento in atto e ha potentemente contribuito al successo della cosiddetta “primavera araba” e al crollo in rapida sequenza dei governi in Tunisia e in Egitto, nonché allo svilupparsi di movimenti di rivolta e di protesta in numerosi altri paesi, con particolare intensità in Libia, Siria e Bahrein. Si è trattato di un mutamento di grande importanza che ha modificato sostanzialmente il profilo politico di questi paesi. In questi anni, il timore maggiore dei paesi occidentali, quello che aveva giustificato l’appoggio consistente fornito ai vecchi regimi, era che il mondo arabo-islamico finisse sotto l’influenza dei movimenti fondamentalisti violenti che sono il terreno di cultura del terrorismo di ispirazione mussulmana salafita. In realtà invece l’evoluzione delle 5


Risk

Nei Paesi rivieraschi del Nord Africa vivono circa 170 milioni di persone, la cui età media si aggira attorno ai 24 anni. In confronto, l’Europa ha sì una popolazione di circa 500 milioni, ma la sua età media si aggira sui 40 anni. E il Pil pro capite europeo è 12 volte circa più alto di quello dei nordafricani. Queste differenze tenderanno ad aggravarsi società arabo-islamiche ha seguito un processo più complesso. Certamente i movimenti di ispirazione religioso fondamentalista, in particolare quello dei Fratelli Mussulmani, stanno assumendo una notevole importanza nei nuovi equilibri di governo, ma in realtà non sono stati alla base della rivolta, anzi, essi sembrano essere stati colti sorpresa almeno quanto i vecchi regimi (salvo forse in alcuni paesi come la Libia e la Siria). Tuttavia hanno poi saputo unirsi al movimento libertario iniziato spontaneamente e ne hanno tratto grossi benefici in termini elettorali, nei paesi in cui sono state organizzate libere elezioni (Tunisia, Marocco, Egitto). Ma in ogni caso, almeno sinora, essi hanno anche saputo separare la loro posizione da quella dei movimenti di ispirazione salafita, ed hanno mantenuto un profilo ed un programma sostanzialmente democratici e compatibile con l’ispirazione laica e libertaria del movimento iniziale. Benché questa non sia una garanzia certa per il futuro, è comunque un’indicazione positiva di non irrilevante importanza. Tutto questo peraltro non è stato accompagnato da una politica europea di ampio respiro, volta ad aiutare la maturazione democratica delle popolazioni coinvol6

te. Non solo i paesi europei sono stati lenti a comprendere ed accettare l’importanza e l’ampiezza del cambiamento in atto, ma non sono stati in grado di elaborare una strategia complessiva all’altezza della situazione. Mentre l’Europa ha ormai integrato al suo interno gran parte della sponda Nord del Mediterraneo, sta completando l’inclusione dell’intera penisola balcanica e ha un negoziato di allargamento in corso con la Turchia (che però è, allo stato delle cose, praticamente congelato), la politica verso la regione mediterranea e medio orientale continua ad essere caratterizzata da una molteplicità di iniziative sostanzialmente inefficaci e dispersive. Alla partnership euro-mediterranea concepita negli anni Novanta, sostanzialmente bloccata da un gioco di veti incrociati, è seguita la più recente Unione per il Mediterraneo, destinata in teoria a varare grandi progetti di sviluppo, ma anch’essa arenatasi per mancanza di spinta politica e di sufficienti risorse. L’Ue ha quindi privilegiato i rapporti bilaterali con i singoli paesi, che tuttavia hanno incontrato numerosi ostacoli anche sul piano della maggiore liberalizzazione commerciale, e che hanno in qualche modo, troppo spesso, ricalcato i vecchi rapporti di dipendenza bilaterale da singoli paesi europei. Il dialogo con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo non è neanche riuscito, in oltre vent’anni di negoziati, a varare un accordo di libero scambio. Sono maturate anche altre iniziative collaterali, come quella del 5+5 nel Mediterraneo occidentale, e il Forum di dialogo e cooperazione che invece coinvolge l’Egitto, ma esse si sono sinora mantenute ad un livello piuttosto limitato di cooperazione. Dopo le rivolte, la Commissione Europea ha rapidamente messo insieme un nuovo pacchetto di proposte sotto il cappello di una nuova “politica di vicinato” per il Mediterraneo che privilegi sostanzialmente i rapporti bilaterali e lasci qualche spazio per una condizionalità positiva, volta ad incoraggiare il proseguimento dei processi di democratizzazione, ma anche in questo caso siamo ancora lontani da un approccio strategico complessivo della necessaria ambizione e consistenza. Eppure la situazione non è priva di rischi. Questa regione è per-


dossier corsa da notevoli tensioni e il processo di mutamento si è innescato in una realtà già fortemente degradata e conflittuale, in cui conflitti come quello israeliano-palestinese, di guerra civile nello Yemen, di tensione con l’Iran nel Golfo, di criminalità diffusa e terrorismo in Somalia, eccetera, già alimentavano importanti preoccupazioni. La proliferazione nucleare è potenzialmente il rischio maggiore dell’area. Le evidenti violazioni del Tnp commesse ripetutamente dall’Iran stanno delineando il profilo di un regime con potenziale “capacità di soglia”: in grado cioè di acquisire molto rapidamente la capacità di ordigni bellici nucleari. Un tale sviluppo rischia di alterare profondamente tutti gli equilibri regionali. Non solo Israele, sentendosi direttamente minacciato, potrebbe decidere di tentare il ricorso alla forza militare, ma altri paesi della regione potrebbero ritenere necessario bilanciare questa potenziale minaccia iraniana con un loro armamento nucleare, sviluppato in proprio (Turchia? Egitto?) o acquisito attraverso alleanze (Arabia Saudita e Pakistan?). Benché il processo di democratizzazione indebolisca l’attrattiva e la forza dei movimenti terroristi islamici (come si è visto in Iraq e in Egitto, ma anche a Gaza, dopo la vittoria elettorale di Hamas), questi sono tutt’altro che scomparsi. Essi sono molto forti e presenti in Yemen, in Somalia, nel Sahara Occidentale, e potrebbero accrescere la loro importanza in situa-

I movimenti di ispirazione religioso fondamentalista, come quello dei Fratelli Musulmani, stanno assumendo una notevole importanza nei nuovi governi, ma non sono stati alla base della rivolta, anzi, sembrano essere stati colti di sorpresa almeno quanto i vecchi regimi

zioni di conflitto aperto e di debolezza dello stato come in Libia o in Siria. Ad essi si aggiunge la forza crescente della criminalità organizzata (inclusa la pirateria), che delinea la minaccia del formarsi di veri e propri stati mafiosi. Una delle ragioni che ha reso difficile la definizione di una comune strategia europea di fronte al mutamento è da ricercare nel forte timore di una crescita dell’immigrazione clandestina nei nostri paesi: un problema che ha visto i paesi europei reagire essenzialmente sul piano nazionale, senza alcun serio collegamento multilaterale, sino addirittura ad arrivare a sospensioni unilaterali degli accordi di Schengen. In questo caso in realtà le percezioni del rischio hanno ingigantito fuori misura la portata reale del problema. Quando la crisi ha colpito i Balcani, l’Europa è facilmente riuscita ad accogliere in breve tempo oltre 700.000 profughi: la crisi nel Nord Africa non hanno mai neanche lontanamente toccato questi livelli. Durante il conflitto in Libia (l’unico che ha creato un problema di profughi per l’Europa; l’attuale guerra civile in Siria sta creando un problema analogo in Turchia) sono arrivati in Italia poco più di 50.000 profughi: un numero certo rilevante, ma anche gestibile, se nel contempo la ben più piccola e povera Tunisia ne ha ospitati oltre 300.000, l’Egitto circa 230.000 e il Niger da solo circa 80.000. In realtà gli ingressi via mare, su cui si concentra l’attenzione dei media, dei politici e quindi anche dell’opinione pubblica, costituiscono l’assoluta minoranza degli ingressi illegali sul territorio nazionale, per una percentuale valutata attorno al 5-7% del totale, mentre la maggioranza è costituita da persone che entrano legalmente con visti di vario tipo e quindi permangono sul territorio dopo la loro scadenza. Un problema ancora largamente irrisolto è quello della necessaria distinzione tra chi può legittimamente richiedere lo status di “rifugiato” e quindi godere di varie forme di protezione e ospitalità, e chi invece è semplicemente un immigrato illegale. La diversità dei trattamenti e delle interpretazioni a livello nazionale complica la definizione di una politica comune europea, così come l’individuazione 7


Risk di una comune strategia atta a bloccare l’immigrazione clandestina senza ledere i diritti dei rifugiati legittimi. A queste complesse problematiche si aggiungono altri problemi, tra cui quello della possibile crescita della conflittualità regionale, sia per una più forte contrapposizione tra stati che accettano il processo di mutamento e stati che invece oppongono una forte resistenza, sia per ragioni più tradizionali, legati ad esempio alla relativa scarsità di acqua potabile e alla condivisione delle risorse disponibili. Ne deriva un quadro di grandi incertezze che l’Europa dovrebbe riuscire ad affrontare in modo solidale e coerente, per evitare il rischio di un’ampia area di conflittualità e di minaccia ai suoi diretti confini, non vi è evidentemente il rischio di un attacco convenzionale diretto contro il territorio europeo, ma permane quello di attacchi non convenzionali, e comunque la minaccia di una crisi dei rifornimenti energetici unita a quelle della riduzione o scomparsa di importanti mercati di esportazione e di investimento e della

Alla partnership euro-mediterranea concepita negli anni Novanta, sostanzialmente bloccata da un gioco di veti incrociati, è seguita la più recente Unione per il Mediterraneo, destinata in teoria a varare grandi progetti di sviluppo, ma anch’essa arenatasi per mancanza di spinta politica e di sufficienti risorse. L’Ue ha quindi privilegiato i rapporti bilaterali con i singoli Paesi 8

minore sicurezza delle linee di comunicazione marittime, attraverso il Mediterraneo. Economicamente l’Ue è il maggior partner di tutta quest’area, anche se sta crescendo la presenza di altre potenze esterne, in particolare la Cina, ma anche il Brasile e il Giappone, oltre naturalmente agli Stati Uniti. Tuttavia, la prossimità geografica e l’intensità dei rapporti passati giocano comunque a favore dell’Europa. Mentre i paesi europei attraversano un periodo di relativa debolezza. Non solo la crisi economica riduce le loro disponibilità, ma anche la frammentazione delle loro capacità, specie nei campi militare e della sicurezza, riducono le opzioni disponibili. L’intervento in Libia, per quanto assicurato essenzialmente da paesi europei, è stato reso possibile dal contributo decisivo degli Stati Uniti nella fase iniziale, e dal loro supporto tecnico durante le operazioni, assicurato grazie ai meccanismi integrati della Nato. Queste debolezze non possono essere corrette rapidamente. Ciò impone quindi la necessità di alcune scelte e suggerisce l’opportunità di assicurarsi degli alleati. Una semplice valutazione della dislocazione delle forze e degli interessi suggerisce una prima ipotesi: mentre l’Europa può agire efficacemente nell’area del Mediterraneo, assumendo la leadership politica delle iniziative da compiere, essa dovrebbe invece accettare di giocare un ruolo più ridotto nel Medio Oriente vero e proprio, dove l’iniziativa è piuttosto nelle mani degli Stati Uniti. Solo questi ultimi, infatti, sono oggi in grado di assicurare l’equilibrio delle forze nel Golfo e possono giocare un ruolo determinante nei confronti del conflitto israeliano-palestinese. Ciò non esclude naturalmente la possibilità di azioni ed iniziative europee anche quest’area, ma suggerisce una possibile divisione dei ruoli. Perché ciò avvenga, tuttavia, sarà necessario che Europa ed Usa accrescano la comprensione degli interessi reciproci e accettino, almeno in linea di principio, l’opportunità di una tale divisione dei ruoli. La seconda ipotesi è insieme promettente e difficile da attuare, e consiste in una cooperazione strategica tra Ue e Turchia. Purtroppo la paralisi del negoziato sull’allargamento alla Turchia, provocata dalla



Risk questione di Cipro e dalle resistenze di alcune nazioni chiave (Francia e Germania) rischia di impedire un simile sviluppo, che invece potrebbe risultare molto positivo per ambedue le parti in causa. La Turchia è oggi un interlocutore credibile del mondo arabo, in particolare delle forze più interessate alla sua evoluzione politica. D’altro canto essa da sola non ha la forza necessaria per esercitare la sua influenza. Il tentativo di Ankara di affermare una sua nuova politica estera nel vicinato, in particolare in Nord Africa e in Medio Oriente, non ha avuto sinora grande successo. Lo slogan lanciato dal suo ministro degli Esteri, “nessun problema con i nostri vicini”, è stato applicato bene o male nei Balcani (con la parziale eccezione della Grecia), ma ha raccolto pochi consensi nel Caucaso (Armenia), si è infranto contro l’opposizione iraniana, è ad un livello piuttosto basso con l’Iraq (questione curda), è del tutto fallita con la Siria ed Israele e non è mai stata operante nei confronti di Cipro. Al contrario è possibile immaginare che un approccio congiunto euro-turco, accompagnato da un sostanziale pacchetto economico (come ad esempio l’estensione dell’area di libero di scambio che l’Ue ha con la Turchia anche ad alcuni paesi arabi, in chiave di consolidamento della democrazia) potrebbe avere un’attrattiva molto maggiore. Un accordo strategico di questa ampiezza con gli Stati Uniti e la Turchia faciliterebbe anche una più stretta cooperazione tra l’Ue e la Nato (anch’essa impegnata in diversi modi nel Mediterraneo, dai Balcani alla Libia, ma anche in Iraq e al vertice di due dialoghi, uno con l’insieme dei paesi nordafricani (più la Giordania) e l’altro con i paesi del Golfo. Ciò consentirebbe una maggiore razionalizzazione degli sforzi. Gli obiettivi di una simile strategia sarebbero molteplici. Il più importante ed urgente, dal punto di vista europeo, consiste nel rafforzamento della sicurezza nel Maghreb e in Egitto. Ciò comporta la necessità di consolidare i processi democratici in corso in Marocco, Tunisia ed Egitto, ma anche assicurarsi che la situazione libica non sfugga completamente di mano, verso una nuova guerra civile o verso l’affermazione 10

Mentre l’Europa può agire efficacemente nell’area del Mediterraneo, assumendo la leadership politica delle iniziative da compiere, essa dovrebbe invece accettare di giocare un ruolo più ridotto nel Medio Oriente vero e proprio, dove l’iniziativa è piuttosto nelle mani degli Stati Uniti di correnti fondamentaliste salafite e cercare di accompagnare un’evoluzione, ancora difficile da determinare, ma certamente necessaria, del regime algerino verso forme più compiute di partecipazione politica e di equilibrio sociale. Tutto ciò non può essere certamente guidato dall’esterno, ma l’Europa potrebbe stabilire una serie importante di incentivi cui le classi politiche locali potrebbero fare riferimento, rafforzando il ruolo e la credibilità dei partiti democratici. Si tratta di mettere in moto un processo non troppo diverso da quello compiuto con successo nell’Europa orientale sulla base dei cosiddetti “criteri di Copenhagen”, che gli stati potevano liberamente decidere di accettare o meno, sapendo però che tale decisione avrebbe poi avuto importanti conseguenze sul processo di adesione all’Ue. In questo caso evidentemente non è possibile pensare ad un ulteriore allargamento dell’Unione (cui del resto questi paesi non sono interessati), ma ad un sostanziale pacchetto di benefici economici e politici e di programmi di assistenza. In tale quadro però non bisognerebbe limitarsi a parlare di democrazia e di sviluppo, ma sarebbe anche opportuno delineare un quadro di partecipazione a sistemi collettivi di sicurezza, sia per quel che riguarda la gestione dei processi migratori, sia soprattutto nei confronti del terrorismo, della criminalità organizzata e infine della proliferazione nucleare. Più complessa e articolata do-


vrebbe essere la strategia da attuare nel medio Oriente e nel Golfo, sia perché in questo caso l’Europa non può aspirare al ruolo di paese “guida”, sia perché si delineano alcune contraddizione implicite nei delicati equilibri interni all’area. Se da un lato, infatti, è opportuno appoggiare il movimento di opposizione al regime in Siria, d’altro lato è difficile immaginare di assumere una analoga posizione in Kuwait, Bahrein o Arabia Saudita. Allo stesso tempo bisogna essere consapevoli della maggiore presenza nell’area (in particolare in Yemen) di consistenti forze collegate con AlQaida, e delle posizioni generalmente più rigide ed estreme che assume in questi paesi il movimento dei Fratelli Mussulmani. Nel complesso, il quadro medio orientale è più influenzato di quello mediterraneo da considerazioni di carattere strategico-militare, sia perché è necessario confrontarsi con il conflitto irrisolto in Israele e in Palestina, sia perché continua a montare la pericolosità della sfida iraniana agli equilibri esistenti (probabilmente anche con la proliferazione nucleare). In questo caso quindi bisognerà immaginare di accompagnare le misure politiche ed economiche con importanti iniziative nel campo della difesa, sia assicurando un credibile livello di dissuasione della minaccia iraniana, sia lanciando iniziative preparatorie ad un processo di disarmo nucleare regionale, sia infine rilanciando il processo negoziale sulla Palestina. Il processo di mutamento in atto nel mondo arabo ha aperto nuove importanti prospettive di cooperazione e ha sicuramente inferto un gravissimo colpo ai movimenti terroristici di ispirazione fondamentalista islamica, tuttavia ha anche complicato e trasformato le sfide di sicurezza dell’Europa. Per affrontare con successo questa situazione, l’Europa dovrà trovare un approccio comune, e strategicamente coerente, verso il suo vicinato meridionale. Essa non può limitarsi ad offrire a questi paesi un pacchetto di rapporti bilaterali, sulla falsariga di quelli già stabiliti in passato, ma deve concepire un grande sforzo collettivo, analogo a quello che ha consentito il suo allargamento verso Est. Tale politica non interessa solo i paesi mediterranei dell’Europa: ogni crisi in


Risk quest’area infatti è destinata ad avere importanti conseguenze sull’Europa nel suo complesso. È possibile immaginare una divisione dei ruoli e delle responsabilità tra Europa e Stati Uniti, a condizione però che ciò non venga interpretato come un disinteresse ed un disimpegno nei confronti del Medio Oriente: in effetti la complessità e l’ampiezza dei problemi da affrontare nell’insieme di questa regione (mediterranea e mediorientale) richiedono un impegno congiunto delle maggiori potenze occidentali. Un’eventuale razionalizzazione dei ruoli dovrebbe semplicemente essere uno strumento per meglio organizzare tale cooperazione. In questo quadro è essenziale che l’Europa affronti e riveda la sua politica nei confronti della Turchia, aprendo con decisione il capitolo della cooperazione nel settore della politica estera, della sicurezza e della difesa e promuovendo la possibilità di importanti iniziative congiunte euro-turche. In tale prospettiva è essenziale che i paesi europei si impegnino con decisione, nel brevissimo termine, per evitare che l’assunzione da parte di Cipro della presidenza di turno dell’Ue, nel secondo semestre del 2012, si trasformi in una completa rottura dei rapporti euro-turchi.

Questo significa anche che la politica europea di politica estera, sicurezza e difesa deve crescere di importanza, visibilità ed efficacia. Essa dipenderà ancora largamente dall’appoggio dei singoli paesi membri, ma le istituzioni europee dovranno dare prova di maggiore iniziativa e immaginazione. Tutto ciò è ancora più necessario oggi di ieri, perché le risorse a disposizione dei paesi europei sono molto più limitate ed insufficienti che nel passato, e non possono quindi continuare ad operare nel loro presente stato di frammentazione nazionale e di incoerenza complessiva. Così come sta avvenendo nel campo monetario, dove la crisi sta lentamente forzando i paesi membri ad accettare una integrazione molto maggiore in campo finanziario, anche nel campo della sicurezza i problemi posti dalle trasformazioni in atto in quest’area impongono un livello di integrazione crescente. 12


dossier TRASCINATA IN UNA GUERRA IPOCRITA, L’ITALIA RISCHIA PERDITE PESANTISSIME

L’ESPROPRIO LIBICO DI

S

MARIO ARPINO

emper aliquid novi Africa affert (Plinio). Effettivamente, bisogna convenire che il vecchio Plinio aveva ragione: l’Africa ci porta sempre qualcosa di nuovo. Potremmo dire che ci porta cose inusitate, che possiamo anche chiamare sorprese. Ovviamente le porta a quasi tutti, non a tutti. Non a quelli, per esempio, che all’insaputa di amici ed alleati queste sorprese

le hanno preparate nell’ombra discreta delle cancellerie. Non stiamo parlando delle varie “primavere arabe”. Queste hanno avuto, almeno all’inizio, un carattere di spontaneità che, in fondo, ci potevamo anche aspettare, e ce ne eravamo persino compiaciuti. Sebbene il nostro entusiasmo si attenui giorno dopo giorno, si tratta pur sempre di passi avanti verso una qualche forma di democrazia, più o meno islamica, con i tempi e con i limiti di coloro che per generazioni non hanno mai visto un’urna elettorale. Qui stiamo parlando della Libia. Non della sommossa iniziale dei ragazzi di Misurata, che riteniamo altrettanto spontanea, ma di tutto ciò che è accaduto dopo. E, sopra tutto, di tutto ciò che è stato tramato prima. Se lo scopo principale, sebbene non dichiarato, fosse stato quello di abbattere Gheddafi, potremmo affermare che l’esito di tutto questo lavorio occulto sia stato felice, visto che il Colonnello è morto e il suo regime si è dissolto. Ma è evidente che ci debba essere dell’altro, diverso dall’attitudine salvifica dell’Onu e dei buoni samaritani d’Europa e d’America. L’aliquid novi che abbiamo osservato è di natura diversa. Ad esempio, quando mai avevamo visto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu dare esplicitamente luce verde per operazioni che – chiamiamole come vogliamo – si traducono in azioni di guerra? Mai. Dobbiamo risalire all’invasione del Kuwait e a Desert Storm del

1991 per trovare un precedente, che tuttavia – tra risoluzioni e ultimatum – avevano richiesto mesi di discussioni. Ancora, come mai non abbiamo visto sinistri sbandieratori iridati, sempre così solerti quando si sente odore di polvere da sparo, invadere le piazze per manifestare contro la guerra? Perché ci accingevamo a fare circa 26 mila sortite di volo con aerei da guerra solo per “salvare i civili”? O perché qualcuno, probabilmente animato da meno nobili spinte, si proponeva di dare equilibri – o disequilibri – diversi alla regione mediterranea? Ricordiamoci che i francesi, nella Storia, non hanno mai digerito la presenza italiana in Nord Africa, considerata una discontinuità alla loro colonizzazione, tanto che le manovre militari volute dal Governatore Italo Balbo nel 1938 – le cosiddette manovre della gefara (pianura) – accompagnate dal lancio del battaglione di paracadutisti libici al confine tunisino, erano in funzione difensiva contro un presumibile attacco francese.

Dopo le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e segnatamente la 1973 del 17 marzo, con la quale si autorizzavano gli stati membri e le organizzazioni regionali a prendere “tutte la misure necessarie” per proteggere i civili, il 19 marzo il presidente francese Sarkozy, che consideriamo ormai il patron della guerra in Libia, convocava a Parigi un vertice do13


Risk ve veniva dato avvio ufficiale alle operazioni militari, peraltro già in corso da parte francese sin dalla notte precedente. Successivamente, con buon anticipo sulla data del 31 ottobre, in cui una Nato assai circospetta dichiarava la fine delle operazioni aeree, il primo settembre Sarkozy concludeva, sempre a Parigi, anche il secondo vertice, quello per celebrare la vittoria, nonostante i combattimenti tra ribelli e lealisti fossero ancora in corso. Ma che sia abitudine del presidente francese anticipare sempre i tempi – specie quando si tratta di Libia - ormai è cosa nota. Per quanto riguarda il nostro Paese, storicamente questi vertici d’Oltralpe – vuoi a Parigi, vuoi a Versailles – non hanno mai portato molta fortuna. Ricordiamo solo la “vittoria tradita” della prima guerra mondiale e le mutilazioni coloniali e metropolitane conseguenti la sconfitta nella seconda. Facciamo i voti perché questa volta vada meglio. La risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza – esiziale per Gheddafi – per alcuni è stata provvidenziale e per altri ancora, noi fra questi, qualcosa di più di un fastidioso disturbo. Il vertice parigino di marzo per molti era stato un vero e proprio trabocchetto, dal quale solo Angela Merkel, come già al Palazzo di Vetro, era riuscita a sottrarsi. Molti altri avrebbero voluto farlo, Stati Uniti compresi, se il velleitarismo di Sarkozy e di Cameron – i due interventisti della prima ora – al grido umanitario di “salviamo i civili” non avesse costretto tutti (quasi) a salire su quella tradotta del politicamente corretto dalla quale, notoriamente, è poi impossibile scendere. Se il vertice di marzo era stato una “trappola”, quello del primo settembre è passato, più elegantemente, per “il vertice della vanità”. Ma, ora che tutti assieme abbiamo vinto una non-guerra che solo un paio volevano, potremmo accorgerci di aver vinto (quasi) una di quelle guerre che, dopo la vittoria, si perpetuano molto a lungo. Di esempi ne abbiamo già avuti, e questo non è ancora l’ultimo. Di questo vertice, dalla stampa e dalla televisione – impegnate com’erano e come ancora sono a commentare la crisi economica – abbiamo avuto notizie assai scarse, anche perché assai scarso è stato il contenuto. Gli italiani, co-


dossier stretti da circostanze sfavorevoli a scendere progressivamente in campo, armi in pugno, contro i propri interessi nazionali, avrebbero voluto sentire qualcosa in più. Capire anche il vero “perché” di questa nonguerra – che nessuno sinora ci ha spiegato – visto che nonostante le perplessità iniziali i nostri caccia-bombardieri, assieme agli alleati, per “salvare i civili”, come ci ha continuato a raccontare imperterrita per quasi otto mesi la portavoce della Nato, dalla scorsa primavera alla fine di ottobre hanno continuato a distruggere obiettivi in Libia. L’intervento umanitario richiesto dall’Onu non prevedeva il regime change o l’uccisione di Gheddafi, ma il suo prematuro deferimento al Tribunale Penale Internazionale non ha certo facilitato un’incruenta uscita di scena, decretandone invece la morte. D’altro canto, senza di questa ogni passo verso il processo di pacificazione interna – se mai ci potrà essere – sarebbe stato del tutto illusorio. Se questo era noto, è ora difficile negare che l’epilogo – concretizzatosi poi con le tragiche modalità che i media ci hanno troppo insistentemente propinato – non sia stato almeno previsto. Nella bozza del documento finale di Parigi la proposta, voluta e sostenuta dalla Francia, di dare avvio ad una concreta procedura di peacekeeping era tra parentesi quadre, che in gergo diplomatico significa senza accordo preliminare, e tale è rimasta anche dopo gli interventi finali. E così è tuttora. Ciò nonostante, è acclarato che unità scelte francesi ed inglesi siano ancora sul terreno, come lo erano, su scala e qualità diverse, prima dell’inizio delle operazioni. Ma dal Consiglio Nazionale Transitorio (Cnt) è arrivato, non inaspettato, un secco “no” a forze di sicurezza straniere. Ogni altra soluzione, in assenza di una richiesta ufficiale del Cnt, è e rimane solo un rompicapo, anche se il nuovo premier libico ad interim Abdul Rahim al-Qaeb ai primi di novembre ha annunciato che nel giro di un mese sarebbe stato pronto a entrare in campo un esecutivo di tecnocrati “di cui il popolo sarà fiero”. Parallelamente – la notizia è del 7 novembre – attraverso l’invio di sms tutti i possessori di cellulare vengono invitati a restituire l’enorme quantità di armi che circola nel Paese,

procedura che trova in posizione di netto rifiuto la maggioranza dei numerosissimi “comandanti” delle innumerevoli fazioni. Con la stessa tecnica si stanno richiamando al lavoro impiegati, specialisti e pubblici funzionari.

In questa situazione interna, siamo al paradosso che, dopo il non indifferente sforzo per vincere, come comunità occidentale – Nato ed europea – non sappiamo ancora bene cosa fare della vittoria, nè possiamo tranquillizzarci nell’illusorio presupposto che la questione interna libica si risolva da sé, magari in tempi brevi. Non è invece così se consideriamo singolarmente alcuni degli attori principali, segnatamente i promotori di questa coalizione dei volonterosi che, avendo tramato segretamente prima, continuano a farlo anche dopo. La partita che ha al centro gli interessi in Libia – che ora si vedrà quanto andassero oltre quelli così detti “umanitari” – non è affatto chiusa. Anzi, sembra essere appena agli inizi e, presumibilmente, si svolgerà in un ambiente ancora caratterizzato dal caos. Certo, il regime non esiste più, e questo è un risultato positivo. Ciò consente, oggi, alla coalizione che ha sostenuto il Cnt di rivendicare la bontà della propria scelta, assicurando la continuità dell’appoggio al nuovo potere, promettendo fondi per la ricostruzione, insistendo perché la transizione verso la democrazia sia velocizzata con l’adozione di una carta costituzionale e di libere elezioni – il Cnt ne ha già previsto i tempi – e senza vendette personali. I meno ottimisti – al momento sono i più – intravedono per il futuro molti rischi e molti inganni, da ogni parte. Quello maggiore, secondo alcuni, sarebbe l’illusione di rinnovare un condominio franco-britannico nel Mediterraneo, già fallito in passato. Ricordiamo Suez, nel 1956. Né l’Italia, né la Turchia sarebbero felici di questo. Anche la presa di distanza di Erdogan, che pur avendo forze aeree nella coalizione non aveva partecipato personalmente alla conferenza di Parigi, assieme al proprio unilaterale attivismo, sono il segnale che vuole mantenersi le mani libere per disegni che con ogni probabilità sono diversi – 15


Risk

I francesi, nella Storia, non hanno mai digerito la presenza italiana in Nord Africa, considerata una discontinuità alla loro colonizzazione. E la partita che ha al centro gli interessi in Libia (e ora si vedrà quanto andassero oltre quelli così detti umanitari) non è affatto chiusa. Anzi, sembra essere appena agli inizi e, presumibilmente, si svolgerà in un ambiente ancora carico di caos quando non contrastanti – da quelli degli alleati. Ciò non è confortante ma fa riflettere. C’è chi ricorda, sebbene si continui ad insistere che ogni soluzione debba essere politica prima ancora che economica, che già all’inizio di aprile il Cnt si impegnava con Qatar e Francia garantendo loro il 35 per cento del totale dei contratti petroliferi. Le smentite dei francesi non sono state convincenti. Altri, mettono in guardia da eccessivi entusiasmi, ricordando che nel 1969 il “capitano” Gheddafi rassicurava inglesi, americani e italiani che ogni impegno con Re Idris sarebbe stato mantenuto, esattamente come ha fatto il Cnt e come certamente farà il governo provvisorio, se mai ci sarà. Per poi cambiare idea l’anno successivo, cacciando via tutti, con armi e bagagli. Vi sono poi i pessimisti ad oltranza come Edward Luttwak, quando ritiene la democrazia sostanziamente incompatibile con il sistema tribale libico, elemento che ne impedirà anche la riunificazione, e pronostica il prevalere, alla distanza, delle organizzazioni estremiste. Seguendo 16

Sarkozy e Cameron, potremmo aver combinato un bel pasticcio. Staremo a vedere, cercando di limitare i danni. Almeno i nostri. Queste sono le premesse, ma anche il quadro, rispetto cui sarebbe interessante ed utile valutare l’atteggiamento e l’interazione degli attori vecchi e nuovi – noi siamo senz’altro da classificare tra i primi – che, a seguito della partecipazione a vario titolo alla coalizione, si affacciano ora sullo scenario mediterraneo che la nuova situazione in Libia – non appena definita, e potrebbe volerci molto tempo – sarà in grado di proporci. Proviamo a parlare, per esempio, della Turchia islamizzante di Erdogan, reduce dai trionfi del viaggio di propaganda nelle acclamanti piazze arabe. Tra tutti gli attori, Turchia e Italia rappresentano quei “veterani” che davvero conoscono la Libia, essendo parte integrante di alcune centinaia d’anni della sua storia. In più, il modello turco – un Islam moderato inserito in una società di cui promette di rispettare tutti i valori laici e civili - è ora guardato con ammirazione da ciascuna democrazia in pectore nordafricana, ma con estremo sospetto dalle democrazie occidentali vecchie e nuove. Samuel Phillips Huntington, la cui teoria del conflitto tra civiltà l’Occidente ha sempre cercato di esorcizzare negandola a parole ma in segreto credendoci, era uomo che sapeva guardare lontano, se già nel 1993 riteneva che «…prima o poi la Turchia rinuncerà al suo umiliante ruolo di mendicante per l’ingresso in Europa, per ritrovare il suo più pregnante ruolo storico come principale interlocutore dell’Islam antagonista dell’Occidente». Orbene, oggi il suo sviluppo interno e la sua crescita sono senza confronti e, memore del suo passato ottomano, dopo aver rivolto con successo la sua attenzione ai confinanti mediorientali, si sente pronta a rivolgerla anche altrove, senza tuttavia lasciar cadere del tutto la questione europea. Gli eventi nella fascia nordafricana stanno offrendo alla Turchia, probabilmente anche in anticipo sulle sue più rosee aspettative, un’occasione d’oro su un piatto d’argento. In particolare, per la Libia di domani ha tutto ciò che serve: capacità industriale, Islam, forze armate efficienti,


dossier buon rapporto con la Nato, un minimo di dialogo con l’Unione Europea, capacità di addestrare forze armate e di polizia, una tradizione amministrativo-strutturale di tutto rispetto. In termini logici, il futuro della Libia non sarà estraneo a quello della Turchia. Se cent’anni fa ci siamo combattuti proprio per questa terra, oggi anche a noi si presenta – con segno opposto - una grande occasione. Assieme, potremmo fare molto con e per quel Paese, dove con ogni probabilità saremmo accettati assai meglio degli indaffarati francesi e dei loro soci in affari britannici. Oltre tutto, questi sono stati e sono ancora i principali ostacoli per il suo ingresso in Europa, mentre noi abbiamo sempre mostrato un atteggiamento più che positivo. Il discorso porta direttamente alla politica libica di Sarkozy, che ha visto fallire tutti i suoi disegni per un’Unione Mediterranea in chiave francese e, segnatamente, verso il nord Africa. Anche il presidente francese aveva ricevuto in occasione della visita di Gheddafi a Parigi tutta una serie di promesse, ma poi gli è stata preferita l’Italia, e questo gli deve essere risultato intollerabile, tanto da costringerlo a cercare un posto al sole sponsorizzando una guerra nella quale, guarda caso, è riuscito a coinvolgere molti di coloro che ne avrebbero fatto a meno, Italia compresa. Ora quelli che saranno in nuovi padroni della Libia – ci vorrà ancora molto per sapere quali e quanti saranno – sono certamente in debito verso la Francia e, meno, verso l’Inghilterra. Ma i Paesi che hanno partecipato alla coalizione guidata dalla Nato sono una ventina, dei quali almeno 17 hanno fornito risorse per le operazioni aeree. Tra questi ci sono Stati Uniti, Emirati Arabi e, in parte assai rilevante se si include anche il supporto logistico, l’Italia. È vero che, come si continua a ribadire, la coalizione dovrebbe essere intervenuta per “proteggere i civili” e non per interesse economico-strategici dei singoli, ma, in una situazione cosi fluida, che i franco-britannici riescano effettivamente a soppiantare altri installandosi sulla “quarta sponda” è un fatto tutto da confermare. Abbiamo citato gli Emirati del Golfo, tra i quali il Qatar in particolare ha avuto un ruolo traente tra i Pae-

si arabi che hanno partecipato alla coalizione. Questo attivismo, gli accordi che sembrerebbero intercorsi con la Francia e gli esponenti del Cnt già prima del conflitto, l’assunzione di un ruolo politico che supera la consuetudine di quello economico-commerciale, sono tutti elementi che fanno ritenere in ascesa il peso di questo Paese anche negli affari nordafricani, e quindi come diretto oggetto di interesse anche per gli analisti. Questa è senz’altro una delle novità che va valutata nel contesto della crisi libica, in quanto sono tutti fattori di possibile impatto sull’ancora incerto futuro del Paese. È curioso come il Qatar, retto da un Emiro che assieme alla famiglia detiene il potere assoluto – e quindi è un dittatore – si sia adoperato così tanto per abbattere un altro dittatore.

Ma, andando più a fondo, tutto si spiega. Se il Paese, che non è certo un distillato di democrazia – vige la sharia e i suoi cittadini non si sono mai trovati di fronte alla seccatura di dover andare a votare per qualcuno o qualche cosa – con più efficacia dell’Arabia Saudita ed in modo assai più spigliato, è ormai in grado di svolgere un ruolo di guida relativamente autonomo nell’ambito del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc). Ha ottimi rapporti con gli americani, che nel Paese hanno basi aeree, navali e depositi di munizioni, tresca con la Francia, mantiene aperto il colloquio con l’Iran, parla con la Turchia e ha un minimo di rapporto persino con Israele. A tutti, ha assegnato ottimi contratti per il gas, per le infrastrutture aeronautiche e portuali e per l’edilizia residenziale con i connessi servizi. Dopo i fatti di piazza Tahrir l’Emiro è stato uno dei primi a mettere mano al portafoglio a favore dell’Egitto e, allo scoppio della crisi libica, ha prontamente aderito alla coalizione, schierando i propri caccia a Creta. Risulterebbe anche che abbia fornito ingenti quantitativi di munizioni – beni propri, o di possibile triangolazione americana – direttamente alle fazioni combattenti più direttamente “islamiche”, senza passare attraverso gli organi del Cnt. È ovvio che, nel prossimo futuro, questo Paese non si asterrà dall’esercitare il peso dell’influenza del 17


Risk mondo arabo peninsulare sul futuro della Libia. O della Cirenaica, se cosi dovrà essere, visto che – questa volta scomodiamo Giulio Cesare invece di Plinio – va sempre tenuto a mente che, sotto il profilo geopolitico, Libia divisa est in partes tres: Cirenaica, con il petrolio, Tripolitania, con un po’ di industria, gas e agricoltura nella fertile gefara, e il Fezzan, con l’uranio. C’è chi ritiene che l’obiettivo del Qatar sia riattizzare l’integralismo islamico contro le tendenze laiciste della dotta Misurata e l’entusiasmo dei tripolini per una formula di “islamicità alla turca”, assai poco wahabita, ma è prematuro dirlo e, in ogni caso, è tutto da dimostrare.

Può essere di un certo interesse misurare il desiderio di partecipazione – o gli eventuali appetiti – al futuro della Libia, o dei territori che attualmente ne fanno parte, valutando l’intensità e la qualità della partecipazione dei solerti promotori e degli utili volonterosi alle due operazioni Odissey Dawn e Unified Protector, poi confluite sotto il comando Nato. Non è certo il metodo più corretto, visto che a volte la politica può assai di più del numero di bombe sganciate, delle sortite volate e degli obiettivi colpiti, ma è pur sempre un’indicazione. Delle circa 26 mila sortite (una sortita è la missione di un velivolo, non di una formazione) volate dalle 17 nazioni che hanno partecipato alla fase attiva, dal 17 marzo al 31 ottobre 2011, agli Stati Uniti ne sono accreditate il 27%, alla Francia il 21%, alla Gran Bretagna l’11%, all’Italia l’8%, al Canada il 5%, agli Emirati e alla Turchia il 3% ciascuno, al Qatar, alla Svezia, al Belgio, alla Spagna, all’Olanda e alla Norvegia il 2% ciascuno, e l’1% alla Giordania, alla Nato (Awacs) e alla Grecia. Se invece volessimo considerare la percentuale dei bersagli centrati dalle nazioni che hanno partecipato alle operazioni di attacco (solo 9 su 17), la classifica vedrebbe al primo posto la Francia con il 21%, al secondo la Gran Bretagna con il 19%, al terzo gli Stati Uniti con il 17%, al quarto la Danimarca con l’ 11%, al quinto l’Italia con il 9%, seguite da Canada, Belgio, Norvegia ed Emirati. In quan18

to allo sgancio di armamento di precisione, che è quello più efficace ma anche più dispendioso, si conosce il numero globale, si tratta di oltre 7.700 ordigni andati a segno, ma non la suddivisione per singola nazione. A noi ovviamente è noto il numero che ci riguarda, che è all’incirca il 10% del totale della coalizione. Quindi, se dovessimo badare solo a questi numeri, potremmo essere considerati mediamente al quarto posto della scala di interesse al futuro della Libia, preceduti da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Ma non è così, se gli Usa hanno esplicitamente dichiarato di non nutrire alcun interesse sul territorio e, sotto il profilo qualitativo, computassimo anche le missioni di sorveglianza e ricognizione, dove abbiamo prodotto un 22% del totale, che ci porterebbe al secondo posto assoluto. Poi, ci sarebbe da mettere in conto il supporto logistico fornito da sette nostre basi aeree a una media nel periodo di 200 velivoli stranieri, con punte di 250. Sotto il profilo militare, quindi, l’Italia con le sue forze aeree ha assolto bene e con efficacia un ruolo di pieno rilievo ed onorato tutti gli impegni con l’Alleanza, pur partendo dalla convinzione iniziale che questa guerra non si dovesse fare. È nata male e, se la Libia non si riassesta in tempi ragionevoli o, peggio, si frammenta in una estenuante guerra tra gruppi armati, clan, sette e tribù – l’Iraq dovrebbe pur aver insegnato qualcosa – rischia di finire ancora peggio. Speriamo di no, ma secondo gli analisti gli ingredienti perché ciò accada sono purtroppo tutti presenti. Certo, noi siamo ben felici, come voleva l’Onu e come continua monotonamente a ripetere la Nato, di aver contribuito a “salvare i civili” dalla crudeltà di Gheddafi – non dalla ferocia degli insorti, purtroppo – ma ora che per fare questo, probabilmente abbiamo perso molto di ciò che dopo la “cacciata dei ventimila” eravamo riusciti pazientemente a ricostruire, siamo anche noi ansiosi di sederci al tavolo della pace per il bilancio finale di questa strana avventura, imposta e non voluta. Con la speranza che questo tavolo prima o poi davvero ci sia, possibilmente non a Parigi o a Versailles, perché per noi sarebbe di catti-



Risk vo auspicio. Il timore è che, ottenuto con destrezza e sfruttato con abilità il nostro indispensabile supporto, si ritorni alle consorterie segrete ed esclusive di coloro che di questa guerra sono stati i promotori. Ora la parola ritorna alla politica, sperando che le nostre quotidiane diatribe interne e la crisi economica non spingano nel dimenticatoio la questione Libia. Per questo la nostra vigilanza, accompagnata da li-

Il timore è che, ottenuto con destrezza e sfruttato con abilità il nostro supporto, si ritorni alle consorterie segrete ed esclusive di coloro che di questa guerra sono stati i promotori. Ora la parola ritorna alla politica, sperando che le nostre quotidiane diatribe interne e la crisi economica non spingano nel dimenticatoio la Libia nee d’azione flessibili fin che è necessario, ma ferme nel salvaguardare almeno ciò che avevamo, non può abbassare la guardia. C’è chi sarebbe pronto a trarne vantaggio, perché, con la complicità del crucifige economico dei poteri forti europei verso il nostro Paese, sta già lavorando per questo. Considerato che gli Stati Uniti ormai guardano verso tutt’altra parte del mondo ed hanno escluso nuovi interessi strategici in Africa e nel Mediterraneo, ottimo sarebbe che fosse l’Europa nel suo insieme, e non solamente la strana copia franco-britannica, a farsi carico almeno di seguire, se non di pilotare, la complessa vicenda libica. Ma ciò con tutta evidenza non sta avvenendo e, come osserva Vincenzo Camporini su 20

Affarinternazionali on-line, in mancanza di un interlocutore unico da un lato e di un governo stabile e realmente unitario dall’altro, si è già scatenata la caccia all’interlocutore libico che ciascuno ritiene più credibile, con maggiori risorse, con un futuro sufficientemente disegnato, con un atteggiamento negoziale flessibile e disinvolto che sia disponibile a singole avventure bilaterali. Ciò, ovviamente, è destinato ad accentuare le rivalità, le gelosie e, quindi, a generare ulteriore frammentazione e ingovernabilità. In questo clima, se non vuole sprecare il buon lavoro e lo sforzo silenzioso nella coalizione compiuto per otto mesi dalle nostre forze aeree e, precedentemente, da quarant’anni di paziente ricucitura di ogni strappo da parte di tutti i nostri governi, l’Italia deve darsi delle priorità. In primo luogo, farsi parte diligente, magari attraverso l’Onu o altre organizzazioni internazionali e sempre che ciò venga localmente accettato, per favorire il disarmo delle fazioni, che sono almeno una trentina. Non sarà semplice ed il metodo degli sms non è certo convincente. La Nato non verrà accettata, ma un accordo per realizzare una forma di controllo collaborativo tra Gcc, Lega Araba e Turchia, con la quale sarà bene stabilire un rapporto preferenziale, potrebbe anche esserlo. In secondo luogo, occorrerà lavorare per il mantenimento delle posizioni raggiunte, come di propria iniziativa ha già fatto l’Eni. Iniziativa che andrà estesa a tutti i settori di collaborazione tradizionale, ivi inclusi i capitoli dell’accordo “riparatorio” firmato tra critiche e lazzi dal fu governo Berlusconi. Basterebbe questo per assicurarci vent’anni di lavoro, di commesse e di collaborazione. Terzo, occorre fare in modo che i prossimi governi, sia quello “tecnico”, sia quello che scaturirà dalle elezioni, dedichino almeno un po’ di attenzione anche alle politiche mediterranee, dove abbiamo una tradizione tutta nostra di diritti e di doveri. E lo facciano da subito, prima che si torni ad innescare quel processo di esproprio che i promotori della “strana guerra” stanno provando in tutti i modi ad accelerare.


dossier LA VIA DEMOCRATICA SI ALLONTANA. E ANCHE IL MARE NOSTRUM SI RESTRINGE

LE PIAGHE D’EGITTO DI

L

OSCAR GIANNINO

a vittoria del partito islamista Ennahda in Tunisia alle elezioni del 23 ottobre e dell’analogo Giustizia e Sviluppo in Marocco il 26 novembre – entrambi moderati, in apparenza almeno e sino ad oggi, rispetto alla versione salafita dell’islamismo radicale – rappresentano gli obbligatori punti acquisiti di confronto per valutare la lunga procedura elettorale apertasi il 28

novembre in Egitto. La domanda è quanto ampie saranno le proporzioni del successo che tutti si attendono anche in Egitto, quello del braccio politico della Fratellanza Islamica che proprio in Egitto è nata, e che è stata la prima forza di opposizione da Nasser a oggi, con migliaia di esponenti incarcerati e centinaia processati e condannati, cioè il partito Libertà e Giustizia. Il quasi ottantenne feldmaresciallo Hussein Tantawi, sin qui presidente del Consiglio supremo militare, ha voluto una legge elettorale congegnata apposta per impedire maggioranze assolute a un solo blocco elettorale. Perché dal Parlamento dovrà uscire una nuova Costituzione - quella transitoria, 12 volte rimaneggiata in 6 mesi, è stata scritta dai militari – e solo allora gli Egiziani sceglieranno un nuovo Presidente della Repubblica. Un percorso che alla Fratellanza piace, scontenta invece le altre quattro coalizioni in campo (formalmente i partiti sono oltre 50, i quattro quinti nati in sei mesi e sconosciuti o quasi alla stragrande maggioranza dei ceti popolari egiziani). Saranno sei turni elettorali in tre mesi, grazie alla complicata legge elettorale e alla divisione in blocchi geografici fermamente voluti dal Consiglio supremo militare egiziano, l’autorità sotto il cui ferreo controllo si è sino a questo momento mossa dal febbraio scorso la transizione al post Mubarak. Tre turni geografici per l’elezione del Maglis Al

Shaab, la Camera bassa. Poi altri tre per il Maglis al Shura, la Camera alta. I due terzi dei 498 membri della Al Shaab sono eletti proporzionalmente su liste bloccate di candidati espressioni di partiti o coalizioni in 46 circoscrizioni pluricandidati, i restanti 166 sono eletti in 83 circoscrizioni in cui gli elettori possono scegliere con preferenza tra due candidati di ogni partito o coalizione. Se ci si affida all’Arab public opinion poll, il sondaggio annuale organizzato nei Paesi arabi dalla Brookings Institution reso noto il 21 novembre scorso, oltre il 30% del campione egiziano ha dichiarato che voterà per formazioni islamiste. Se dovessero far testo analoghi sondaggi tenuti da istituzioni occidentali in Tunisia nella fase pre-elettorale, che stimavano la vittoria di Ennahda intorno al 25% dei voti, quando nelle urne ne ha ottenuti il 41,5%, a maggior ragione anche in Egitto Libertà e Giustizia potrebbe rivelarsi capace di una vittoria ancora superiore a quella che tutti si attendono comunque. Libertà e Giustizia da vent’anni è radicata quartiere per quartiere, scuola per scuola, università per università e ospedale per ospedale, con piccoli nuclei volontari di militanti della Fratellanza Musulmana che tra loro costituiscono una Usra, una vera e propria famiglia allargata, e che anche sotto le truccatissime elezioni tenute sotto Mubarak portavano alle urne milioni di 21


Risk elettori (nel Parlamento eletto nel 2005, precedente alle elezioni farsa del novembre 2010, la Fratellanza contava ben 88 eletti). Solo i quattro diversi partiti ancor più radicali nel loro islamismo di marca salafita, la coalizione distinta e distante dalla moderazione apparente, ma molto tenacemente dichiarata davanti a stranieri e nella comunità internazionale dalla Fratellanza (se leggete il programma elettorale in inglese sul sito del partito, riservato a economisti ed esperti del Fmi, scoprirete che è sorprendentemente mercatista e liberista, una classica trappola per intellettuali occidentali, del resto anche Ennahda ha accolto la stampa occidentale dopo la vittoria con hostess minigonnate...), possono contare su un modello organizzativo in qualche maniera analogo. Ma data da pochi anni, ed è ancora ristretto nel territorio, non radicato anche nella aree rurali egiziane come quello di Libertà e Giustizia. Nei travagliati mesi della transizione la Fratellanza ha tenuto un rapporto strettissimo con i militari, allentatosi solo quando nello schema di Costituzione preparato dall’ex ministro Al Selmy è puntualmente riemersa la volontà dei militari di sottrarre il Consiglio supremo delle forze armate a qualsivoglia vincolo nei confronti del governo civile futuro. Questo è uno dei motivi per cui si è rinfiammata piazza Tahrir, con decine di nuove vittime della repressione militare nella settimana precedente l’inizio delle operazioni elettorali, con le opposizioni laiche che invocavano un nuovo governo e il rinvio delle elezioni, mentre la Fratellanza ha sostenuto i militari nella conferma di elezioni subito. La Fratellanza è risultata così la vera vincitrice dell’ondata repressiva prevoto. Gli strati popolari egiziani sono stanchi di disordine, della fuga in massa di turisti che deprime l’economia egiziana, consegnando al passato crescite tra i 3 e il 4% annuo, e lasciando invece posto ad una disoccupazione ancor più elevata ed a portafogli vuoti. Per i militari sarà complicato continuare a esercitare il vero controllo sull’economia e su vaste aree del complesso pubblico industriale (corrottissimo). E anche al loro interno si apriranno obbligate 22

linee di successione. Non è detto che a Tantawi succeda colui che in questi ultimi anni a tutti gli effetti è stato il secondo nella catena di comando, il tenente generale Sami Hafez Enan, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate e forte di buoni legami con Washington (dagli Usa vengono ancor oggi all’Egitto 1,3 miliardi di dollari di aiuti militari ogni anno). La vittoria di Libertà e Giustizia dipenderà dalla partecipazione alle urne dei 50 milioni di votanti circa su oltre 85 milioni di egiziani. Quanto più sarà superiore al 50%, tanto più la percentuale potrebbe superare il 30% per avvicinarsi al 40. In caso di una vittoria landslide, anche in Egitto potrebbe a quel punto aprirsi una delicata partita tra governo civile e for-

Per l’Unione europea, è semplicemente abissale la distanza dalle rivolte e delle loro conseguenze da strategie velleitarie e prive di riscontri quali il partenariato di Barcellona e l’Unione del Mediterraneo lanciata dall’Eliseo. Il rischio è quello di trovarci davanti a un “mare clausum” nella sua imboccatura asiatica ze armate, analoga a quella per anni giocata in Turchia dall’Akp di Tayyp Erdogan contro i vertici militari, custodi di un’idea kemalista di Stato laico e del vincolo internazionale Nato e occidentale. Le dichiarazioni di Tantawi – «il ruolo delle forze armate resterà intatto» - ribadite il 26 novembre incontrando due figure essenziali per il futuro dell’Egitto, l’ex capo dell’Aiea El Baradei e l’ex segretario generale della Lega Araba Amr Moussa, rischierebbero di lasciare il tempo che trovano se la Fratellanza stravincesse. La presa della Fratellanza è infatti divenuta ri-


dossier levante nelle file della classe intermedia del corpo degli ufficiali egiziano, in questi anni. E anche alcuni componenti del Supremo Consiglio, per esempio il capo della difesa aerea, generale Abd El Aziz SeifEideen, hanno più volte riservato toni aperturisti verso la svolta politico-diplomatico-militare a cui la Fratellanza tende per l’Egitto che ha in mente. Negli ultimi mesi, Libertà e Giustizia è stata abile anche nell’estendere i suoi rapporti con forze politiche nazionali “tradizionali”. L’Allenza democratica, la coalizione di cui Libertà e Giustizia è in realtà maxima pars, è composta da 17 formazioni delle quali una dozzina sono in realtà espressioni territoriali minori, emanazione indiretta della Fratellanza stessa, ma non mancano poi formazioni che hanno una storia politica e (hanno avuto) un seguito nell’èlite nazionale, come i resti del partito liberale al-Gahd di Ayman Nour, e dal partito nasserista Karama, entrambe formazioni i cui leader sono ben noti all’Occidente. Delle altre quattro maggiori coalizioni, una è quella salafita, antioccidentalista dichiarata e filoraniana, ma naturalmente senza dirlo. Le altre tre – il Blocco Egiziano, Rivoluzione Continua, il Wafd del multimilionario Al-Sayyid Badawy che ha raccolto anche l’intelletualità occidentalista residua del partito nazional-democratico – nelle previsioni si spartiranno insieme il 15-20% di voti, in caso di partecipazione di massa al voto, sono considerate capaci di esprimere quella parte di società egiziana comunque decisa a guardare all’Occidente, o a un rapporto con la Turchia – il vero Paese leader della sponda Sud del Mediterraneo, interlocutore naturale di Libertà e Giustizia come dei partiti affermatisi in Tunisia e Marocco – non basato però sul ripudio degli accordi del 1979 con Israele a Camp David. In realtà gli intellettuali e i media occidentali si sono complessivamente e talvolta anche grossolanamente illusi, nel loro sostegno alla Primavera Araba fondato sullo slogan “arriva la democrazia dalle piazze”. In Tunisia il Partito Democratico del Progresso, tante volte citato dalla stampa occidentale come baluardo laico all’islamismo di Ennahda, ha raccolto le bricio-

Quanto tutti questi mutamenti rappresentino un nuovo potenziale d’instabilità, considerando le riserve strategiche petrolifere nell’area, e l’importanza del corridoio marittimo tra Asia ed Europa in un mondo la cui locomotiva economica sta nel Pacific Ring, è appena il caso di ricordarlo le. I due partiti ex liberali che hanno invece deciso di mantenere un rapporto stretto con Ennahda, adattandosi ai tempi, cioè il Congresso per la Repubblica e Ettakatol, sono risultati secondo e terzo nei risultati elettorali finali, anche se nella loro somma hanno ottenuto poco più della metà della formazione vincente. Ad aver esercitato il maggior ruolo di sollecitatore internazionale nella sin qui confusa transizione al post Mubarak, in apparenza sono senza dubbio gli Stati Uniti. Nel febbraio 2011, l’Amministrazione Obama, infatti, di fronte alla protesta di massa, prima è rimasta sorpresa poi ha fatto seguire una massiccia pressione per l’immediata defenestrazione di Mubarak. Ma, di fronte all’assoluta indisponibilità dei vertici delle forze armate e dei servizi egiziani, ha dovuto rimpannucciarsi. Preso atto che l’unico effetto ottenuto è stato quello di indurre le forze di sicurezza a sparare contro i dimostranti e a travolgerli sotto i loro veicoli, Washington ha dovuto far buon viso a cattivo gioco, condividendo l’appello del cancelliere tedesco Angela Merkel per una transizione che sia anche mediolunga ma soprattutto ordinata, capace di evitare il più possibile l’instabilità nell’area e – senza dirlo – il rafforzamento subitaneo di Hamas ed Hezbollah verso Israele, e dell’Iran nell’intero Medioriente. 23



dossier NON È RICCA, È VERO. MA È UN CROCEVIA FONDAMENTALE

MAI SOTTOVALUTARE LA TUNISIA DI

L

VALENTINA PALUMBO

e prime elezioni del Paese dopo la caduta del regime di Zine al Abidine Ben Ali hanno visto competere 112 Partiti, 1517 liste di candidati nelle 27 circoscrizioni in Tunisia e 145 liste all’estero. Questi numeri, assieme ad un buon tasso di partecipazione al voto, sono stati interpretati come un segnale di generale fiducia nella democraticità del processo elettorale.

Nonostante questo, al momento della scadenza del termine per la registrazione nelle liste elettorali, i dati hanno mostrato un numero di iscritti nettamente inferiore a quello degli aventi diritto. I grandi assenti sono stati i giovani, molti dei quali non hanno votato come forma di protesta contro le istituzioni transitorie e per denunciare la mancata adozione di soluzioni concrete a fronte della difficile situazione economica interna. A dieci mesi dalla fine del regime è possibile compiere una prima valutazione dei cambiamenti avvenuti, dei passi ancora da compiere e degli scenari che si prospettano tanto all’interno del paese quanto a livello internazionale in una Tunisia ancora in bilico tra passato e futuro.

Bilancio post elettorale Le consultazioni popolari del 23 ottobre 2011 per l’elezione dei membri dell’Assemblea Costituente, hanno premiato il partito islamico En’Nahda che si è aggiudicata 89 seggi nell’Assemblea Costituente. A seguire, i risultati migliori sono stati conseguiti dal Congrès pour la République, che ha conquistato 29 seggi, da al Aridha al Chaabia (26 seggi) e da Ettakol (20 seggi). Il Parti Démocrate Progressiste, dato per secondo favorito nei sondaggi, ha ottenuto solo 16 seggi. La vicenda del partito al Aridha al Chaabia diretto da Hachmi Hamdi, ha creato un po’ di

scompiglio. La decisione dell’Istanza Superiore Indipendente per le Elezioni (Isie) di cancellare sei liste di questo partito sulla base di una presunta violazione delle norme sul finanziamento ai partiti, ha causato una rivolta violenta a Sidi Bouzid, la città di cui Hachmi Hamdi è originario ed in cui ha conseguito i maggiori risultati. In ogni caso, dopo l’appello della decisione innanzi al Tribunale Amministrativo, la decisione è stata quasi del tutto revocata. En’Nahda ha avviato consultazioni con i due partiti di centro sinistra, il Parti du Congrès (socialdemocratico) e il Partito Ettakol (Forum democratico per il Lavoro) per la formazione del nuovo governo. Al Aridha, invece, pur essendosi qualificato come terzo partito, appare estremamente isolato nel panorama politico: molti partiti hanno dichiarato di non essere intenzionati a collaborare con Hachmi Hamdi, soprattutto quelli che costituiranno la maggioranza di governo. Prevalgono al momento una generale diffidenza verso il suo background pressoché ignoto e sospetti circa un suo coinvolgimento nell’ancièn regime. Ciononostante, avendo Al Aridha un peso quasi pari a quello di Ettakol e del Congrès, e visto lo scarto esistente tra questi ed En’Nahda in termini di seggi, la sua marginalizzazione potrebbe ripercuotersi su un accrescimento dell’influenza del partito islamico all’interno della maggioranza di governo. 25


Risk Dalle consultazioni sono emersi i nomi dei ministri del governo di transizione. C’è un accordo di massima sul fatto che il primo ministro sarà il Segretario Generale di En’Nahda, Hamadi Jébali. Sembra assodato che si voglia garantire la continuità al Ministero della Difesa, confermando la figura di Abdelkrim Zbidi, e al Governatore della Banca Centrale Mustapha-Kamal Nabli. Nei negoziati in corso si è inoltre concordato di attribuire la carica di Presidente della Repubblica a Moncef Marzouki, leader del Congrès e la guida dell’Assemblea Costituente a Mustapha Ben Jafaar, leader di Ettakol. Il 22 novembre 2011 si terrà la prima sessione dell’Assemblea Costituente tunisina. Essa ha l’incarico di redigere la nuova Costituzione, di definire la struttura politico istituzionale della Tunisia post autoritaria e di ratificare la formazione di governo emersa dai negoziati, che dirigerà l’esecutivo sino alle prima elezioni legislative della storia del paese.

Il fantasma islamista La rivoluzione tunisina non è stata sorretta da rivendicazioni di tipo religioso. Gli islamisti tunisini sono stati colti di sorpresa dalla rivoluzione al pari degli altri movimenti politici. L’elezione di En’Nahda ed alcuni episodi di estremismo religioso hanno tuttavia sollevato timori di una deriva fondamentalista. Le elezioni hanno messo in luce una vasta base di consensi al partito islamico che va, in parte, attribuita al ruolo sociale ed assistenziale rivestito in passato dalla rete delle associazioni di En’Nahda, ed in parte al fatto di essere stata il principale movimento d’opposizione al regime, subendo la repressione e l’esilio dei suoi militanti. Se della moderazione di En’Nahda si è discusso spesso ed è abbastanza assodato che l’immagine che i suoi militanti al momento vogliono darne sia quella di un partito rispettoso della dialettica democratica, dei diritti e delle libertà conseguiti, quello che forse stupirà è riconoscere come En’Nahda appaia forse troppo moderato per accontentare chi mira ad una radicalizzazione del paese. Al riconoscimento di En’Nahda non ha fatto 26

seguito quello di Attahrir, di Assalam e del Partito sunnita, partiti e movimenti di stampo islamico accusati di accogliere tra le proprie fila elementi salafiti. La Tunisia conserva ancora una legge del 1988 che vieta riferimenti espliciti alla religione nei nomi dei partiti ed è sulla base di queste disposizioni che la loro registrazione è stata rigettata. Gli episodi a sapore integralista, che hanno avuto saltuariamente luogo in Tunisia dopo la fine della rivoluzione, (quali l’incendio al cinema Africa dopo la proiezione del film Ni Allah ni Maitre portante sulla laicità di Stato o le recenti manifestazioni davanti alla Tv privata Nessma per aver mandato in onda il film Persepolis, mostrante Dio con fattezze umane) vanno attribuiti a quegli elementi che non saranno rappresentati nella Costituente tunisina. Il fatto che dalla registrazione, e quindi dalla competizione elettorale, siano rimaste escluse queste formazioni, ha avuto certamente la conseguenza positiva di evitare che l’estremismo religioso fosse rappresentato nelle future istituzioni e soprattutto potesse influenzare la stesura della Costituzione, ma in qualche modo ne ha impedito la calibratura. In altri termini, la loro registrazione avrebbe consentito da un lato di avere i numeri dell’islamismo radicale in Tunisia e dall’altro, laddove fosse emerso uno scarso sostegno, avrebbe consentito di marginalizzare una volta per tutte questi movimenti. Emblematico è il messaggio del tunisino-svizzero Moezeddine Garsallaoui, membro senior di al Qaeda che, sui forum Jihadisti, ha denunciato l’elezione di En’Nahda come un imbroglio dell’Occidente. Il rischio è quindi che, l’atteggiamento relativamente prudente mostrato sin d’ora, possa essere percepito come una minaccia proprio dai gruppi islamisti più radicali e che En’Nahda possa trovarsi in mezzo alle accuse non solo dei “secolari” ma anche degli integralisti. È innegabile che dei cambiamenti siano in atto, la cui direzione finale ancora sfugge. En’Nahda ha favorito più o meno direttamente un cambiamento degli imam (cosa peraltro semplice da far accettare alla popolazione, visto che i precedenti erano stati nomina-


dossier

L’Italia è il secondo partner commerciale del piccolo Paese nord africano e il numero di imprese nostrane registrato dalle autorità tunisine è di oltre 700, con più di 52mila dipendenti. In Tunisia si muove ad esempio Mediobanca, che controlla il 30% della Banca Affari Tunisina diretta da Tarak Ben Ammar ti dal potere politico ai tempi di Ben Ali) e gran parte del suo discorso politico sfugge, perché si tiene all’interno dei luoghi di preghiera. In generale si può sostenere che la capacità di En’Nahda di costruire coalizioni e la disponibilità degli altri gruppi politici al dialogo, può costituire un freno importante a quella radicalizzazione tanto temuta. Allo stesso tempo ogni forma di repressione a priori del fenomeno religioso è di per sé pericolosa tanto quanto l’opzione di un partito islamico al potere proprio perché entrambe le situazioni sono foriere di possibile radicalizzazione.

Economia La Tunisia ha perso nel 2011 otto posti nella classifica Mondiale della Competitività. Il Settore più colpito è stato quello del turismo, con una caduta di ben dieci punti percentuali nel primo trimestre dell’anno. Il tasso di disoccupazione è aumentato. Nel luglio 2011 una nuova rivoluzione ha interessato il distretto di Gafsa, regione mineraria ricca di fosfati. Uno dei timori più forti è quello della disillusione: popoli che, come quello tunisino, si trovano per la prima volta ad iniziare un percorso de-

mocratico, possono confondere l’avvenuta conquista delle libertà civili e politiche con la garanzia di un miglioramento visibile ed immediato delle condizioni di vita attraverso processi di redistribuzione economica. Processi del genere non sono certamente immediati né scontati. La rivoluzione non ha per il momento migliorato la situazione economica interna del paese e determinati settori ne hanno anzi risentito negativamente. Tali fraintendimenti possono essere pericolosi: il regime di Ben Ali, pur accusato di aver saccheggiato le risorse del paese, aveva spesso giocato su misure paternaliste, come la fissazione di prezzi politici, la creazione di posti di lavoro, incentivi alle famiglie e ai giovani. Le delusioni potrebbero essere sfruttate politicamente per future derive autoritarie. A livello internazionale, occorre tenere presente che la caduta di Ben Ali ha trascinato con sé anche l’impero economico della famiglia Trabelsi, i parenti della sua seconda moglie Leila, che controllava gran parte delle attività economiche del paese, dalle banche alle stazioni radio, ai grandi centri commerciali, al settore immobiliare. Da principio ciò ha inciso sulla percezione internazionale dell’affidabilità economica del paese, facendo temere una riduzione degli investimenti. È vero pure, tuttavia, che con i Trabelsi è stato rimosso il pesante filtro al quale erano precedentemente sottoposte le imprese aventi l’intenzione di operare in Tunisia. Merita un’ulteriore considerazione il ruolo crescente assunto dai Sindacati dopo la caduta del regime. Molte imprese straniere hanno avviato in passato processi di delocalizzazione produttiva in Tunisia per i vantaggi scaturenti dall’utilizzo di manodopera a basso costo e da una legislazione sociale meno garantista rispetto a quella occidentale. Gli scioperi ricorrenti e il protagonismo di sindacati come l’Ugtt nella rivoluzione, si affiancheranno a rivendicazioni sempre più forti di un rafforzamento dei diritti sociali. Ciò potrebbe ridurre i vantaggi nell’utilizzo di manodopera tunisina. 27


Risk Forze armate L’esercito ha avuto un ruolo determinante nella caduta del regime. Il 14 gennaio i militari hanno occupato l’aeroporto e chiuso lo spazio aereo. È stata la prima volta nella storia del paese che le forze armate hanno presidiato così a lungo le strade del paese; ciononostante, rispetto all’Egitto, il loro ruolo politico è stato senz’altro più contenuto. Dopo la caduta del regime, Rachid Ammar, Capo di Stato maggiore dell’esercito è diventato Capo di Stato maggiore delle Forze Armate. Il generale gode di una certa popolarità per il ruolo attribuitosi di garante della rivoluzione. Molte personalità militari, dopo il 14 gennaio, sono state investite di cariche politiche a livello locale e centrale. Tuttavia, per le dimensioni in cui ciò è avvenuto e sta avvenendo, non si può parlare di una manovra di accentramento militare del potere politico. Sarebbe forse più corretto sostenere che l’esercito miri a mantenere una certa influenza nel paese e ad accreditarsi come istituzione. L’esercito tunisino è un corpo relativamente e volutamente piccolo. Ben Ali, a differenza di Mubarak in Egitto, non ha fondato il proprio potere sull’alleanza con l’esercito ma si è servito del corpo di polizia: i circa 80.000 agenti costituivano gli onnipresenti orecchi del regime. Le piccole dimensioni dell’armata di terra sono state di converso una precauzione verso potenziali colpi di Stato. La caduta del regime è stata accompagnata da settimane di profonda insicurezza perché le forze di po-

Pur meno ricca di risorse rispetto ad altri Paesi nordafricani, costituisce uno snodo importante tra Africa ed Europa, tra Medio Oriente ed Occidente sotto il profilo commerciale, politico, strategico e culturale 28

lizia, screditate nella loro veste di braccio della dittatura, sono state poste fuori uso. Le dimensioni ridotte dell’esercito, ritenute insufficienti per garantire l’ordine pubblico, facevano temere il peggio. Tuttavia, la collaborazione tra i comitati di quartiere e le forze armate ha consentito di evitare la deriva del paese verso il caos. Ne è emersa l’immagine di un esercito capace di imporsi come forza nazionale e di mostrarsi equidistante dalle varie posizioni politiche affermatesi prima delle elezioni.

Esteri Per i paesi europei la caduta di Ben Ali ha comportato la necessità di ridefinire i rapporti con la Tunisia. Anche se la linea adottata sino ad ora dalle istituzioni tunisine è stata sostanzialmente di continuità con il passato e gran parte degli accordi precedentemente firmati con il regime di Ben Ali sono stati confermati, molti paesi scontano oggi una crisi di credibilità per il sostegno fornito al precedente regime e stanno cercando di riguadagnarla dimostrando di credere nelle nuove istituzioni e di supportarle. Italia e Francia sono i paesi europei più presenti, tanto per la consistenza delle loro comunità in Tunisia quanto per lo stato delle relazioni economiche. Un segnale importante è stato quello lanciato dalla Francia che, nelle dimissioni del ministro degli Esteri Michèle AlliotMarie nel febbraio 2011, ha voluto dimostrare di prendere le distanze da un passato fatto di rapporti più che cordiali con il regime. La Francia detiene più di mille unità di produzione in Tunisia ed è il primo fornitore e cliente del piccolo paese mediterraneo. Nel 2009 Francia e Tunisia avevano firmato persino un accordo di cooperazione nucleare per la costruzione di una centrale entro il 2020. Per quanto riguarda l’Italia, la Tunisia rappresenta uno snodo importante dal punto di vista energetico ospitando il gasdotto “Enrico Mattei” che trasporta gas algerino verso il nostro paese. La Transtunisian pipeline è di proprietà di Transmed spa, una joint venture di Eni e Sonatrach (la compagnia di Stato algerina); costituita da due linee, si sviluppa in territorio


dossier tunisino per 370km da Oued Saf Saf (presso la frontiera con l’Algeria) a Cap Bon. Da qui si connette alla Transmediterranean pipeline raggiungendo le coste italiane a Mazara del Vallo. L’Ente Nazionale Idrocarburi è presente in Tunisia dal 1960. L’Italia è inoltre il secondo partner commerciale del piccolo paese nord africano e il numero di imprese italiane registrato dalle autorità tunisine è di oltre 700, con più di 52mila dipendenti. In Tunisia si muove ad esempio Mediobanca, che controlla il 30% della Banca Affari Tunisina diretta da Tarak Ben Ammar; Nessma Tv è per il 25% di proprietà di Mediaset. L’Italia ha inoltre negoziato vari accordi per la fornitura di energia elettrica e la costruzione di centrali, una questione particolarmente sentita in Tunisia dove esistono regioni ancora non del tutto coperte dalle rete elettrica. Grande preoccupazione è stata quella relativa alle conseguenze della rivoluzione sull’applicazione degli accordi sui flussi migratori. A parte quelli generati dall’allentamento dei controlli doganali, immediatamente a ridosso del 14 gennaio, e che hanno comportato una situazione di emergenza nei paesi del Sud del Mediterraneo, l’ondata di migranti preannunciata è stata ridimensionata dai fatti. Il 5 aprile il ministro italiano Maroni e quello degli Interni Habib Essed hanno firmato a Tunisi un Processo Verbale di Collaborazione Migratoria che ha ripristinato di fatto gli accordi esistenti ai tempi di Ben Ali. La cooperazione con la riva sud del Mediterraneo è strategica per l’Europa sotto molteplici punti di vista (questione migratoria, rapporti commerciali, cooperazione nella lotta al terrorismo) e gli stanziamenti economici in favore dei paesi del Maghreb lo dimostrano. Solo per fare alcuni esempi, il G8 di Deauville ha stanziato 35 miliardi di dollari per sostenere le Primavere Arabe; anche la Banca Europea degli Investimenti ha previsto un suo contributo che include, tra l’altro, il finanziamento di una nuova fabbrica di fertilizzanti a Mdhilla, nella regione di Gafsa dove, fin dal 2008, si sono avute proteste sociali contro la scarsità dei posti di lavoro e contro le condizioni di assunzione negli stabilimenti. La Bei partecipa an-

che finanziariamente ad un programma di modernizzazione delle strade del paese. Ulteriori fondi sono stati destinati dalla Commissione Europea al rafforzamento delle istituzioni democratiche. In agosto ha inoltre approvato un pacchetto di aiuti da 110 milioni di dollari per il riequilibrio dello sviluppo regionale, con particolare attenzione alle aree più svantaggiate e per l’espansione del settore dei servizi, anche in funzione dell’accrescimento delle opportunità di impiego. Alla fine di settembre è stata inaugurata una task force co-diretta dal ministro degli Esteri dell’Ue Ashton e dal Primo Ministro tunisino Essebsi finalizzata al coordinamento del supporto europeo ed internazionale per favorire un’assistenza più veloce ed efficace al paese. Tuttavia, il relativo ritardo con il quale i paesi europei hanno saputo cogliere lo spirito della rivoluzione del gennaio e reagire, ha favorito l’inserimento di altri attori, in primis il Qatar e la Turchia, che si stanno proponendo con successo come partner nello scacchiere nord africano. Particolarmente attivo nel contesto tunisino post Ben Ali appare il Qatar, leader internazionale nel settore del gas, delle comunicazioni e del commercio. Esattamente come per la Libia, la Tunisia rappresenta per il Qatar una porta strategica verso il Mediterraneo. Il piccolo emirato ha sostenuto Tunisi nel contesto dell’emergenza umanitaria durante la guerra civile libica ed ha investito in nuovi progetti tesi a rafforzare lo sviluppo del paese soprattutto nei settori minerario, finanziario e tecnico. Il 24 settembre 2011, il primo ministro Essebsi, in presenza del Generale Rachid Ammar e del ministro della Difesa Abdelkrim Zbidi, ha incontrato una delegazione militare qatariota ponendo i principi della cooperazione militare tra i due paesi. Allo stesso tempo, il principe ereditario Al Thani è stato invitato a prendere parte alla prima sessione della Costituente che si terrà il 22 novembre. Sono state le denunce di intromissione negli affari interni del paese, provenienti da alcuni strati della società tunisina, a causare l’annullamento della sua partecipazione. L’attivismo qatariota è anche l’espressione di una più generale manovra delle Ca29


Risk se reali del Golfo mirante ad ancorare la Tunisia all’orizzonte strategico arabo sunnita. En’Nahda ha ricevuto sostanziosi finanziamenti dalle monarchie del golfo per finanziare la propria propaganda elettorale ed al Jazeera ha sostenuto apertamente il partito islamico durante la campagna. Se l’Arabia Saudita risente a livello politico delle conseguenze dell’accoglienza assicurata all’ex presidente in fuga Ben Ali, il Qatar rappresenta la faccia accettabile degli interessi sauditi in Nord Africa. La Turchia sta acquisendo un ruolo importante proponendosi come modello capace di coniugare l’identità islamica con istituzioni democratiche. Ha inoltre visto accrescere la propria influenza in tutto il mondo arabo soprattutto dopo aver preso le distanze da Israele. Anche per la Turchia i buoni rapporti con la Tunisia rappresentano l’occasione per rafforzare la sua presenza politica e commerciale nel Mediterraneo. Le compagnie turche, negli ultimi tre anni, hanno vinto appalti nel Nord Africa, nel Medio Oriente e nella zona del Golfo per un valore di 33 miliardi di dollari. Nel 2010 la Turchia ha realizzato con il Nord Africa un avanzo commerciale pari a 7,2 miliardi di dollari. La politica di liberalizzazione dei visti perseguita negli ultimi anni da Erdogan ha incrementato notevolmente la presenza di arabi in Turchia, cosa che ne ha accresciuto la popolarità in antitesi all’atteggiamento di chiusura dei paesi dell’Unione Europea. La Tunisia è al momento sottoposta ad una serie di pressioni interne e di sollecitazioni internazionali. Pur meno ricca di risorse rispetto ad altri paesi nordafricani, costituisce uno snodo importante tra Africa ed Europa, tra Medio Oriente ed Occidente sotto il profilo commerciale, politico e strategico, culturale. Gli eventi rivoluzionari inducono a rivedere le modalità con cui l’Europa si è sempre rapportata a questo paese. Nuovi attori si stanno facendo largo tanto all’interno del paese quanto a livello internazionale e dove la Tunisia si collocherà nel prossimo futuro dipenderà molto da quanto i paesi occidentali saranno in grado di interpretare le trasformazioni in atto, adottando parametri nuovi rispetto al passato. 30


dossier LA PRIMAVERA ARABA PER GERUSALEMME È UN BUCO NERO

ISRAELE, SEMPRE PIÙ IN MEZZO AL GUADO COLLOQUIO CON FIAMMA NIRENSTEIN DI LUISA AREZZO •

L’

odio anti israeliano diffuso nelle società in rivolta nel mondo arabo è un campanello d’allarme che, prima di far suonare all’Occidente le trombe per il possibile seme democratico germogliato nell’area, dovrebbe suscitare se non l’allarme che merita, almeno una sana prudenza. Soprattutto alla luce delle schiaccianti vittorie degli islamici alle urne.

Il fatto che ciò non avvenga accentua il senso di isolamento di Israele che, a dispetto di tutto quel che è stato detto sulla laicità della Primavera araba sa molto bene quanto l’unica causa che metta d’accordo i leader del nuovo corso post-rivoluzionario sia la lotta contro Israele. E spesso il sogno della sua distruzione. «A piazza Tharir soltanto un paio di settimane fa la gente urlava che Israele sarebbe stata distrutta e non più di un mese fa hanno distrutto la sua ambasciata cacciando fisicamente l’ambasciatore israeliano. E più volte tutti, non solo quelli della Fratellanza musulmana ma anche i rappresentati laici del nuovo Egitto – che poi sono sempre quelli del vecchio – come Amr Moussa o Mohamed El Baradei, hanno detto che il Trattato di pace con Israele dovrà essere rivisto. Nel frattempo, i tunisini nel loro progetto di Costituzione hanno già scritto che è proibito avere rapporti con Israele, la Libia è fortemente antisemita (non solo con Israele ma con tutti gli ebrei) e i siriani in rivolta - ai quali auguriamo tutto il bene possibile perché uccisi giorno dopo giorno da un insopportabile tiranno – sono pieni di livore e odio nei confronti di Israele». Fiamma Nirenstein, vicepresidente della commissione Esteri della Camera dei Deputati, come sempre è un fiume in piena nell’analizzare, con lucido realismo, la realtà degli eventi e nel fotografare per Risk gli scenari che a breve potrebbero concretizzarsi in Medioriente. E sull’ostilità mostrata verso Israele non ha dubbi: «filosoficamente parlando, io penso

che l’odio anti israeliano presente nelle società in rivolta nel mondo arabo sia un severo ostacolo ad ogni loro possibilità di emancipazione. Il primo - e personalmente spero nel Marocco, dove però alle ultime elezioni gli islamici hanno registrato un grande successo - di questi Paesi che dirà: “io non ho niente contro Israele, questo mio nuovo paese non andrà sulle tracce dei vecchi tiranni che volevano utilizzare l’odio anti-israeliano per tenere assieme le società che loro vessavano, affamavano e riducevano in catene”, incarnerà la speranza di modificare veramente a fondo e completamente lo scenario mediorientale. Lui avrà il privilegio di essere, assieme a Mohamed Bouazizi (il venditore ambulante tunisino che si è dato fuoco ed è poi assurto a simbolo di tutte le proteste, ndr.) il primo ad aver veramente portato la rivoluzione nel mondo arabo. Certo è che in questa fase tellurica, che promette grandi trasformazioni rispetto al recentissimo passato, le cose non sembrano andare in tale direzione. Basti pensare all’Egitto che ha messo in discussione sia il rispetto degli accordi di pace siglati a Camp David che il mantenimento di “normali” relazioni bilaterali. «Due sono le radici di quest’odio - continua la Nirenstein – la prima è di carattere islamico-religioso, la seconda è figlia di un retaggio nazista. Rispetto alla prima bisogna dire che l’Islam, pensando di aver superato e fatto fuori le altre due religioni precedenti, le vuole assorbire. Ragion per cui non può ammettere la presenza di un Paese dove la 31


Risk popolazione è ebraica nel mezzo della sua Ummah. Israele è un’offesa, una ferita alla sua dottrina. Ma nessuno lo capisce. Poi c’è un retaggio nazista in tutta questa storia, perché non dimentichiamoci che tutta la prima leadership palestinese è quella del grande rifiuto della presenza ebraica guidato da Amin al-Husseini, Gran mufti di Gerusalemme e grande amico di Hitler, che dopo il nazismo finì in Francia per poi essere esportato segretamente dalle carceri francesi in Egitto. Quello stesso Egitto dove scapparono moltissimi colonnelli nazisti. Nessuno ha mai fatto una seria revisione di quel periodo. Eppure Husseini, assieme a Hitler, ispezionava le fosse bosniache musulmane destinate alla persecuzione degli ebrei. E oltre questi aspetti teorici c’è anche un aspetto politico: l’odio contro Israele li ha aiutati enormemente a mantenere il loro potere. Basta guardare alla Turchia guidata dal governo islamico di Erdogan. Con lui Ankara ha cominciato a sventolare una bandiera anti-ebraica che non si era mai vista in quel Paese». Non si può certo negare che il tratto culturale anti-sionista sia nelle corde del premier turco, anche per questo motivo osannato dalle masse arabe che con il voto stanno portando al potere gli islamici. Orientato a una politica neo-ottomana Erdogan sta cercando di portare Ankara ad essere il sole dell’orbita mediorientale. E certamente il suo è un processo più che ambizioso, perseguito assieme al suo ministro degli Esteri Davutoglu. In tutto questo, si inserisce lo stallo in cui è da almeno due anni precipitato il processo di pace, ormai sclerotizzato e al momento senza orizzonti certi. «Io auspico che i palestinesi abbiano un loro Stato, invito Abu Mazen a sedersi ai tavoli delle trattative, credo che debbano esserci due stati per due popoli e che questo dovrebbe essere detto e ridetto se vogliono bene ai palestinesi. Il punto è che, eccezion fatta per la Giordania, io dubito di questo. Nessuno gli ha mai dato la possibilità di integrarsi là dove si trovano: il Libano gli ha negato il diritto di cittadinanza, tenendoli segregati nei campi profughi e precludendogli la possibilità di svolgere libere professioni. La verità è che questi paesi non li hanno mai aiutati, se non passando talora delle cifre di denaro senz’altro molto minori rispetto a quelle elargite dagli Stati Uniti, e sapendo benissimo che invece di andare a finan32

ziare lo sviluppo andavano a finanziare la guerra. Li hanno usati come leva sul terreno della politica internazionale per un attacco all’Occidente e al potere sionistaamericano». E oggi sono rappresentati da Abu Mazen, che sta facendo questo “pastrocchio” con Hamas… «Non avendo avuto successo nella sua politica di riconoscimento unilaterale all’Onu e vedendo intorno a sé che nel mondo arabo la componente musulmana (per lui rappresentata da Hamas) diventa sempre più importante, rischiando di indebolirlo sempre più, cosa fa? Fa un bell’accordo con questi assassini che stanno nella lista del terrorismo internazionale di tutto il mondo e si toglie l’ultimo elemento di legittimità che gli era rimasto come interlocutore moderato».

Vero, anche se è innegabile che la questione palestinese in questi ultimi anni abbia fatto passi avanti, a detrimento però del processo di pace, praticamente in maniera antagonista ad Israele. Certo, ai tempi di Arafat la presidenza Usa era più forte e Clinton sapeva tenere il punto. Con Obama le cose stanno sfuggendo di mano… «Obama è stato il distruttore della politica mediorientale - continua la Nirenstein -. Il suo subitaneo abbandono di Mubarak in Egitto, suo alleato fino al giorno prima, è stato considerato come una vile ritirata. L’America è stata percepita come debole. Il suo atteggiamento basilarmente non amichevole verso Israele ha reso i palestinesi baldanzosi e li ha spinti a perseguire una politica unilaterale». Una politica in cui il dialogo con Israele è stato interrotto e in cui si pretende molto senza offrire altrettanto. «Sì, ma Israele non è un paese che cede e la gente dovrebbe capirlo invece di continuare a chiedere: “e dagli un pezzo di terra, e daglielo…”: Non succederà. L’elemento della sicurezza è indispensabile, altrimenti Israele muore. Non gli daranno mai un pezzo di terra dal quale poter bombardare l’aerporto Ben Gurion. Ricapitolando: Israele non farà passi indietro. I palestinesi si sentono più forti e spalleggiati e non fanno passi verso la pace. Leadership mondiali in grado di mediare non ce ne sono e i rapporti di equilibrio nella regione sono saltati assieme ai vecchi regimi. Tanto che l’Egitto mette oggi in discussione il Trattato con Israele. Peraltro quasi sempre silente


dossier in questa fase rivoluzionaria, ma qual è la sua visione per il futuro? «È una visione prudente. Il Capo della Commissione Esteri della Knesset pochi giorni fa ha detto due cose diametralmente opposte: che dobbiamo avere fiducia nel fatto che il nuovo governo non voglia interrompere il Trattato e al contempo che dobbiamo essere pronti a tutto. Non dimentichiamoci che è l’ottava volta nel 2011 che viene sabotato il condotto che porta il gas dall’Egitto ad Israele». Come dire, il segnale è chiaro e non sembra voler imboccare la via moderata. «Il mantra “siamo moderati” è un falso perché glielo impedisce il Corano. Chiunque conosca l’Islam scoprirà che non c’è nessuna possibilità teoretica e pratica che la questione venga mantenuta nei termini della politica che noi conosciamo. La politica presso l’Islam è assai diversa. Un esempio su tutti: la liberazione di 1000 prigionieri in cambio di Gilad Shalit. Tutti assassini, gente che ha fatto saltare autobus, ucciso bambini e che Abu Mazen ha accolto personalmente, uno per uno, abbracciandoli e dando a ciascuno di loro 5mila dollari e la possibilità di costruirsi un appartamento nel West Bank. Noi seguitiamo ad essere ciechi, sordi e muti! Questa non è una visione diversa della cultura, ma è uno stato di guerra. Lo dico da anni. La realtà è sotto gli occhi di tutti. Prendiamo l’Iran: per anni quel bugiardo di El Baradei (oggi candidato alle presidenziali in Egitto) ha negato dai vertice dell’Aiea che Teheran stesse preparando l’atomica. E poi, nell’ultimo rapporto firmato dal suo successore, Yukiya Amano, scopriamo la verità. Ma questa si sapeva da tempo. Secondo la visione millenaristica del presidente iraniano, arrivare a uno scontro mondiale non è altro che un bene per avvicinarsi all’avvento del Mahdi. Il suo odio nei confronti di Israele è irriducibile e non potrà essere cambiato da una trattativa. Per Ahmadinejad la bomba atomica non è un fatto collaterale, lui ne ha bisogno per poter essere il grilletto dell’avvento dell’Imam. Ne ha bisogno, altrimenti la sua vita e l’Iran stesso non avrebbero senso. Questo per noi significa una guerra mondiale micidiale che può essere ancora fermata. Israele è in pericolo se non agisce in tempo». E dunque cosa dovrebbe fare Israele? «Bombardare i siti nucleari. Io sono favorevole, perché è un danno molto minore. Nel momento

in cui l’Iran avrà la bomba atomica questo mondo diventerà un altro e l’Occidente sarà sotto un ricatto continuo e permanente». Bombardare, in difesa di Israele e dell’Occidente. Soprattutto dell’Europa. Eppure quest’ultima non sembra né percepire il rischio né tantomeno appoggiare le iniziative israeliane. Nel caso in cui la Knesset dovesse decidere per un attacco, non è affatto detto che l’Europa si troverebbe d’accordo. Anzi. «Sinceramente me ne importa poco ed è assai probabile che Bruxelles reagirebbe male. Ma io guardo più in là, alla sopravvivenza dell’Europa». Da qualsiasi lato la si prenda, è evidente che la primavera araba e tutto il sommovimento tellurico da essa sprigionata per Israele sia un vero buco nero… «Per ora sì. Ma lo è per tutti e non solo per Isarele. Noi abbiamo una sola possibilità ed è quella di smettere di lodarle indiscriminatamente in nome della democrazia…». Però delle elezioni, per la prima volta, in molti Paesi sono state indette… «Ma insomma, che la democrazia sono le elezioni? Ci siamo forse dimenticati che Hitler è salito al potere con delle regolari consultazioni elettorali? Ma di cosa stiamo parlando? Le forze che utilizzano le elezioni in forma anti-democratica sono una realtà. Le dinamiche delle masse agli appuntamenti elettorali sono distintissime, soprattutto in mondi in cui mancano le infrastrutture della democrazia e l’educazione alla democrazia. Hanno a che fare con la presa del potere, che è tutta un’altra storia. Io li apprezzo questi poveretti, non sono preventivamente antipatizzante nei confronti delle rivolte, non potrei mai esserlo. Penso che l’aspirazione generale sia buona ma che nel corso di tutti questi anni queste società si siano strutturate in forma islamica». Per uscire da questa mistificazione collettiva, oltre a smettere di lodare le rivolte, come si dovrebbe comportare l’Occidente nei confronti dei nuovi governi saliti al potere? «L’unico modo è quello di avere una politica conditional nei confronti di queste persone e dirgli: cari egiziani, tunisini, libici eccetera, voi volete la vostra rivoluzione, però adesso i nostri soldi li avrete soltanto se rispetterete i diritti umani, e penso alle donne, ai bambini e agli omosessuali, e se farete la pace con Israele. Questo è un modo di porsi strategico, non condizionato dalla nostra avidità di petrolio…». 33


il quotidiano Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…

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dossier LA CRISI ECONOMICA RIDISEGNA GLI EQUILIBRI MONDIALI E ANKARA NE APPROFITTA

TURCHIA, LA MEZZALUNA È PIENA DI •

Q

PIERRE CHIARTANO

uella che rischiara il Bosforo nella notte di Costantinopoli è una mezzaluna piena. La luce intensa della storia, è carica di responsabilità, non solo di onori. II progetto di Washington per il progressivo sganciamento dal Grande Medioriente ha dato un colpo d’acceleratore alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan, alla sua

politica estera, al carico di responsabilità che Ankara dovrà gestire, mettendo progressivamente al bando velleitarismi e retorica. E dove la componente islamica della cultura di governo può essere vista senza timori, ma come un’iniezione forte di etica nei comportamenti che la politica occidentale, specie in Europa, ha da tempo dimenticato. La Turchia deve diventare una democrazia matura, e in fretta. In breve potrebbero cadere nel cesto delle sue responsabilità una grossa fetta della stabilità di Maghreb e Meshraq. Nella recente visita fatta nei Paesi della Primavera araba, Erdogan ha dismesso i vestiti del premier turco per indossare quelli di uno statista di riferimento per tutto il mondo arabo. La politica di Ankara nel Grande Medioriente e nella corniche sudmediterranea ha degli obiettivi precisi: tagliare la strada a Teheran, regionalizzare Israele, raccogliere l’eredità americana non permettendo ad alcuni Stati europei – come la Francia grande avversario dell’ingresso della Turchia nella Ue – di riproporsi come broker della nuova stabilità regionale. Diventare la potenza di riferimento per Giordania e Siria (magari una nuova Siria sunnita nel dopo Bashar), che non dovranno più guardare con timore a Teheran. L’acqua avrà un ruolo importante nella definizione dei nuovi assetti della geopolitica dell’area. Il progetto del Canale della Pace che dalla Turchia dovrebbe portare in Israele,

passando dal Libano, ne sarebbe un tassello fondamentale. Un compito complessivo non facile, visti anche i problemi interni che il governo turco deve affrontare, con il riaccendersi del problema curdo e non ultimo il confronto duro con l’elite kemalista in divisa: la casta dei militari, in parte ridimensionata dagli scandali Ergenekon, Sladgehammer e dal risultato del referendum costituzionale del settembre 2010, che, tra l’altro, ha posto sotto il controllo di tribunali civili gli uomini in divisa. Ma proprio poiché la politica estera di Ankara deve cambiare passo, dalla proiezione economica del programma Zero problem, maximum trade, all’accettazione degli oneri più complessi di un broker politico regionale, ha bisogno dello strumento militare al suo fianco. Le recenti dichiarazioni del premier turco su Cipro e sulla seconda spedizione della Freedom flotilla a Gaza ne erano un chiaro sintomo. Ma anche sul versante dei guardiani della laicità dello Stato turco – le forze armate – qualcosa sta cambiando. «Se Erdogan avesse fatto prima un discorso come quello del Cairo di metà settembre, non penso ci sarebbero mai stati problemi con i militari», la frase semplice, chiara, riferita a Risk i primi di ottobre da un alto ufficiale della Marina militare, spiega bene i sentimenti delle forze armate turche nei confronti del premier. Primo leader di un partito islamico modera35


Risk to a governare la patria che fu di Kemal Ataturk, padre di uno Stato che definire laico sarebbe riduttivo. La frase è stata pronunciata da un rappresentante influente della classe dirigente militare e che oggi insegna all’Università di Galatasaray, ma che per ovvie ragioni non vuole essere citato. Rappresenta la Marina militare, arma fra le più colpite dalle inchieste. Il riferimento è al premier turco quando nel recente viaggio in Egitto aveva citato come esempio, per gli altri Paesi islamici, la Turchia «laica e musulmana», elogiando l’esperienza di istituzioni secolari aveva esor-

La strategia di lungo periodo di Ankara è quella che tenterà di chiudere l’asse tra Turchia ed Egitto, tagliando di fatto la strada all’Iran, regionalizzando Israele e trasformandosi in potenza di riferimento per Giordania e Siria, che finalmente avranno un’alternativa rispetto alle lusinghe e alle minacce di Teheran tato gli egiziani – in modo particolare i Fratelli musulmani – a non averne timore. Ma anche da un punto di vista generale la Turchia sta crescendo molto più di quanto in Europa si siano accorti. Agitare lo spauracchio di un islamismo radicale parlando della Turchia, è un po’ come tirare in ballo l’Inquisizione quando si parla del Vaticano. Entrambe le affermazioni non aiutano a capire la realtà. «Da un punto di vista delle capacità di attrarre investimenti la Turchia ha fatto notevoli passi in avanti. Inoltre hanno una classe dirigente molto preparata, dinamica e all’altezza delle sfide che pone globalizzazione», questo era sta36

to il commento “rubato” all’economista Luigi Paganetto, durante un recente convegno sul tema. Nello stesso contesto il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, aveva anche elencato i numeri di un rapporto assolutamente privilegiato con l’Italia. Insomma per l’Europa farsi scappare la Turchia sarebbe veramente un pessimo affare. Visto anche che un tempo i turchi “pregavano” per l’ingresso nell’Unione, oggi l’opinione pubblica turca è più cosciente del nuovo ruolo regionale del Paese e dei passi in avanti fatti verso una democrazia senza aggettivi. Primo fra tutti l’aggettivo «islamico». «Nel 1998 le aziende italiane che operavano in Turchia erano 17, dopo 12 anni solamente contiamo 760 imprese italiane sul nostro territorio», sono i numeri per dare un metro di giudizio sull’asse mediterraneo, elencati dal ministro di Ankara e su quale sia l’interesse nazionale di Roma. L’incontro con il militare turco era avvenuto in una Istanbul di settembre del 2011, alla fine del trionfale tour del premier Erdogan nei Paesi della Primavera araba. In una città dove puoi toccare con mano il salto in avanti che la società sta facendo, spinta dallo sviluppo economico e dalla voglia di diventare un Paese “normale”. Soprattutto che vuole scrollarsi dalle spalle, con la brezza che spira dal Mare di Marmara, la polvere di un confronto tra secolarismo e religione. I turchi hanno le capacità culturali per farlo. Le incomprensioni tra l’Akp, primo partito a ispirazione islamica al governo e i guardiani dell’ortodossia laica con le stellette vengono da lontano. Come molti movimenti in Europa il kemalismo aveva messo Dio fuori dalla storia e deciso che modernità e religione fossero incompatibili. Qui nascono le diffidenze, i sospetti, anche l’ostilità che hanno portato nel tempo a uno scontro istituzionale forte tra governo e forze armate, condotto sempre sul filo del confronto legittimo, ma con molti sconfinamenti nell’autoritarismo: tre colpi di Stato e un premier democraticamente eletto, arrestato e poi impiccato nel 1962. In un clima conflittuale e di tensioni continue. L’allontanamento della Turchia dal percorso verso l’Europa (non sempre per colpa di Ankara) non ha reso più facile il dialogo.


dossier Oggi, dopo lo scandalo Ergenekon – un piano per rovesciare il governo dell’Akp tra il 2003 e il 2004 – e la sua continuazione Sladgehammer (Balyoz in turco), sembra che gli anticorpi democratici, che evidentemente erano latenti nel sistema politico turco, stiano prendendo il sopravvento. Il governo d’Ankara può aver usato strumentalmente accuse e inchieste contro gli uomini in divisa, ma qualcosa di fondo c’era e molte delle informazioni pubblicate da giornalisti investigativi di Taraf e di altre testate giornalistiche venivano dall’interno delle Forze armate turche. Adesso, col protagonismo internazionale di Ankara, Erdogan sente la necessità di aver l’appoggio dei militari come istituzione, in modo specifico della Marina, per sostanziare la propria politica estera. Dall’affaire Mavi Marmara, dove persero la vita nove cittadini turchi a causa dell’abbordaggio delle teste di cuoio israeliane, dove il premier turco ha promesso l’intervento delle fregate come scorta di una nuova missione umanitaria a Gaza, alla vicenda delle trivellazioni petrolifere a largo di Cipro, dove è stato promesso che la Marina militare avrebbe difeso gli interessi turchi, sono ormai troppi i settori in cui il governo dell’Akp ha bisogno del sostegno di chi, fino a poco tempo fa, era visto quanto meno con sospetto. Tanto sta cambiando nella nuova Turchia, il previsto ritiro strategico dell’America dal Medioriente e dal Mediterraneo meridionale sta aprendo nuovi spazi alla politica neoottomana di Erdogan, ma con gli onori del ruolo di nuovo Paese leader di una regione così importante, arrivano anche gli oneri: più stabilità in politica interna, maggior equilibrio nell’azione esterna. Una lezione che, passo dopo passo, non senza alcuni errori, la nuova Turchia democratica sembra voler imparare. C’è ancora chi guarda con sospetto la politica “parlata” del ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, perché la giudica non sostanziata dai fatti. Edward Luttwak, ad esempio, cita le passate relazioni con la Siria come emblematiche di questa ambiguità. Troppo tempo sarebbe passato prima di una presa di posizione chiara contro il dittatore Bashar al Assad che massacrava il suo popolo in rivolta. Ma alla fine è ar-

rivata l’abiura contro Damasco e le possibili ritorsioni economiche. Ma veniamo alla situazione legata a Ergenekon e Balyoz, erroneamente ribattezzata la «Gladio turca». Su 56 membri dello Stato maggiore della Difesa ben 35 sono oggi dietro le sbarre e molti provengono dalle fila della Marina militare. «Spesso si sono scambiati documenti e rapporti su scenari possibili per piani studiati per fermare il governo o tentare un golpe», si difendono i militari. E fanno l’esempio dell’eventualità di una scissione della Padania dall’Italia. «Sono sicuro che le forze armate italiane abbiano preparato un piano su questo ipotetico scenario, anche i Carabinieri potrebbero averne uno. Fa parte del lavoro delle forze di sicurezza anticipare situazioni potenzialmente pericolose, per la salvaguardia dello Stato. E sono sicuro che su questa ipotesi specifica, anche altri Paesi confinanti abbiano preparato analisi e piani», spiega il nostro interlocutore. Certo che le forze armate turche hanno dei precedenti che non farebbero dormire molti uomini di governo. Ricordiamo che nel 1962 un premier regolarmente eletto, Adnan Menderes, venne arrestato dopo un colpo di Stato militare e impiccato un anno dopo, accusato di aver violato la Costituzione.

Lanciando un segnale inequivocabile, all’esterno e all’interno dell’Esercito turco. Una tale capacità e forza inevitabilmente può avere portato a un uso deviato del potere. «È possibile, ma rimarrei nel campo delle responsabilità personali. Non allargherei il discorso alla cosiddetta classe militare. Ci sono tanti comandanti provinciali che non hanno la cultura e le capacità di distinguere ruoli e competenze istituzionali. Soprattutto che non sanno come esprimere correttamente le proprie idee. Specialmente nel caso Ergenekon e Balyoz, il problema è anche legato al fatto che manchino le capacità di una buona comunicazione esterna». Il nostro interlocutore lascia intendere che le posizioni dei militari sono molto meno rigide di quelle apparse sui media, e il comportamento degli uomini in divisa – che hanno accettato di essere giudicati anche da tribunali civili dopo il referendum po37


polare del settembre 2010 – ne sarebbe la dimostrazione. «È ovvio che i militari debbano restare sotto il controllo del potere civile, è una banalità questa, ma chi afferma che il problema sia questo non conosce bene la storia del nostro Paese». Il generale Yasar Buyukanit, capo di Stato maggiore della Difesa ai tempi della visita del Pontefice in Turchia, ad esempio, due mesi prima della fine del proprio mandato vide due generali del proprio stato maggiore, Sener Eruygur e Hursit Tolon, arrestati per l’inchiesta Ergenekon. Buyukanit non fece nulla per impedire il fermo dei due militari. «Non c’era nulla che potessi fare. In Turchia vige lo stato di diritto e secondo il codice penale non c’era niente da fare per impedirlo», affermò in seguito il generale. Il problema di fondo delle cattive relazioni tra leadership politica e forze armate risiederebbe nelle origini e nell’educazione dell’attuale premier. Molti militari d’alto rango hanno frequentato delle scuole primarie islamiche, ma poi hanno integrato la propria cultura con studi successivi in scuole “laiche”. Hanno appreso le differenze tra leggi divine e leggi dello Stato, una divisione che peraltro è anche sancita nel Corano che sottolinea come le decisioni pubbliche di governo debbano essere prese collettivamente. Le posizioni di Erdogan sono mutate nel tempo, e quelle più ortodosse – quando era un pupillo del leader Necmettin Erbakan – si sono via via edulcorate, acquistando maggiore maturità politica.

La scuola secolare dell’attuale premier sarebbe stata «l’esercizio di governo», che lo avrebbe portato fino alla fatidica dichiarazione del Cairo, dove ha affermato come la laicità dello Stato sia un valore e non sia la negazione della religione. E quindi non debba essere vista con «diffidenza». Posizione condivisa anche dalle più importanti correnti dei Fratelli musulmani e criticata dall’ala oltranzista. L’analisi culturale che viene fatta dai militari turchi sul proprio Paese e sull’innesto di una cultura di governo d’ispirazione islamica è piuttosto sofisticata. Parte da una differenza che chiunque, abbia anche solo letto il Corano, conosce: quanto le tradizioni locali abbiano


dossier

La Turchia ha un progetto politico, detto Islam light, che si basa sull’unione fra il modello di democrazia parlamentare (Stato laico), e il rispetto della libertà religiosa, insieme a un’economia basata sulla nuova piccola e media borghesia produttiva, di estrazione islamica influito sulla libera interpretazione del testo sacro per i credenti. La stessa Chiesa cattolica ripete da secoli come il Dio cristiano, quello musulmano e quello ebraico siano la stessa incarnazione. La stessa parola Allah, sia uguale all’aramaico Elohi. Nel Corano in molte Sure, dalla Bakarà all’al-Maeda e altre ancora viene ripetuto continuamente come Allah sia il Dio di Adamo, Abramo (Ibrahim), Mosè (Moussa), Gesù (Isa) e Mohammad – tanto per citare solo qualche profeta e messaggero – e di come Dio abbia mandato sulla Terra testi scritti come le Tavole della legge, la Torah, il Vangelo e gli insegnamenti di Gesù che ogni musulmano ha il dovere di seguire. Comunque sia, tra le fila degli analisti in divisa si conoscono le teorie di Clifford Geertz su tradizione, cultura e islam. In tema di “interpretazioni” dei testi sacri, interventi e libere “traduzioni” ne sono avvenute anche in ambito cristiano, sui testi della Bibbia, dopo il concilio di Nicea. Sicuramente gli impegni internazionali del premier turco e la necessità di poter utilizzare le forze armate con fiducia, spingeranno il governo a limare le posizioni più intransigenti e l’eventuale uso strumentale della giustizia. Nella lotta di potere tra governo e stellette secolariste esiterebbe una divisione piuttosto manichea delle forze in campo: che vede la polizia e una parte dell’intelligence controllata dal governo; con le

forze armate che gestiscono l’altra parte dei servizi segreti, in contrapposizione al potere dell’Akp. Anche se c’è una parte di verità in questa visione schematica, la realtà è più complessa e in continua trasformazione. I militari sono ancora molto amati dalla popolazione e sono una fucina di classe dirigente per il Paese. Una sterile contrapposizione ideologica col governo ne minerebbe il prestigio e la possibilità di continuare ad essere la spina dorsale “laica” ed europeista della Turchia. I timori per una deriva pakistana stanno scemando, in compenso la vicenda curda ha “stallato” completamente e «potrebbe portare il Paese alle soglie di un conflitto interno». Il governo si è accorto di come le differenze culturali e sociali tra la Turchia e l’enclave curda non aiutino e di come «anche il progetto probabile di divisione in tre Stati dell’Iraq, possa influire negativamente sulla vicenda. Ankara sta facendo pressioni su Washington per poter incidere maggiormente sulla politica irachena. Un fattore che sta diventando fondamentale per la Turchia», spiega il nostro interlocutore, occhieggiando fuori dalla finestra in una tiepida serata, non lontano da Besiktas, quartiere centrale dell’Istanbul europea. E il viaggio del premier turco all’ombra delle piramidi, che ha preceduto quello in Tunisia, è stata la prova del nove per le ambizioni neo-ottomane della nuova Turchia. Il primo passo: la firma di un’alleanza militare ed economica con gli egiziani del dopo Mubarak. Egitto, Tunisia e Libia erano le tappe ufficiali della visita del premier turco nei Paesi protagonisti della Primavera araba. Si annunciava come un successo politico, visto il grande seguito che il leader turco ha guadagnato negli ultimi tempi in tutto il mondo arabo. La Turchia della democrazia islamica – anche se ai filogovernativi piace chiamarla democrazia e basta – dello sviluppo a tassi cinesi – anche se sta risentendo della crisi – del credito internazionale – nonostante la rottura con Gerusalemme – piace a tutto il mondo arabo. I turchi continuano ad affermare che più che un modello a loro piacerebbe condividere «un’esperienza», ma al di là dei sofismi lessicali Ankara si prepara a giocare un ruolo sempre più determinante a sud del 39


Risk Mediterraneo. La strategia di lungo periodo di Ankara è quella che tenterà di chiudere l’asse tra Turchia ed Egitto, tagliando di fatto la strada all’Iran, regionalizzando Israele e trasformandosi in potenza di riferimento per Giordania e Siria, che finalmente avranno un’alternativa rispetto alle lusinghe e alle minacce di Teheran. Il pragmatismo americano di superpotenza di lungo corso vede però ancora i limiti della politica turca, e Hillary Clinton ha più volte cercato di portare il governo di Ankara sul terreno di una presa di responsabilità sul piano internazionale. Altri avrebbero voluto che Ahmet Davutoglu, il ministro degli Esteri, avesse avuto un comportamento più determinato nei confronti del dittatore siriano Bashar al Assad, ma forse occorre tempo per imparare a diventare una potenza regionale. Oltre al programma ufficiale, si era ventilata la possibilità che il premier turco faccesse una visita a Gaza. Luogo dove Tayyip è il nome più usato per i nuovi nati. Tanto per capire di che fama gode il leader turco. Erdogan, anche in questo caso, ha dato prova di maturità politica, rendendo chiaro prima ancora della sua partenza che la visita nella Striscia non era in agenda. La domenica precedente in un’intervista all’agenzia stampa Anadolu, Ismail Haniyeh, capo del governo di Gaza aveva sollecitato misure economiche contro Israele. Il segnale arrivato da Ankara è stato di forte condivisione d’interessi, ma all’interno di framework politico maturo. Una lezione anche per Hamas. Nelle more del viaggio trionfale di Erdogan non erano mancate le polemiche. Sempre l’agenzia turca Anadolu aveva fornito una traduzione ufficiale in inglese dell’intervista del premier Erdogan ad al Jazeera che aveva buttato benzina sul fuoco, dei già critici rapporti tra Anakara e Gerusalemme, anche per la traduzione contestata. «Israele agisce come un bambino viziato (...) Il raid in acque internazionali del 31 maggio 2010 è contrario a qualsiasi norma di legge. In effetti è un casus belli. Siamo stati pazienti, finora (...) Vedremo navi turche nelle acque internazionali del Mediterraneo orientale più spesso. Navi da guerra turche sono autorizzate a proteggere le nostre navi che portano aiuti umanitari a Gaza». Una serie d’afferma40

zioni che dimostravano quanto Gerusalemme si trovasse di fronte un vero interlocutore che, a torto o a ragione, non è assimilabile a quella congerie di autocrati e dittatori di serie B che per mezzo secolo Israele ha dovuto affrontare. Avendo gioco fin troppo facile, sul piano internazionale, nel convincere chiunque del pericolo che correva lo Stato ebraico. Anche se, nell’Europa delle vecchie ideologie, Gerusalemme trovava sempre molti detrattori, con gli amici americani le porte erano invece sempre spalancate. Oggi, dover affrontare la Turchia di Erdogan è altra faccenda che rintuzzare la retorica dell’Iran di Ahmadinejad o la finta aggressività siriana. Come ha affermato alla tv satellitare al Jazeera il premier Erdogan: «d’ora in poi non lasceremo che queste navi vengano attaccate da Israele, come avvenne con la Freedom Flottilla», il convoglio umanitario vittima del raid israeliano dell’anno scorso che ha causato una crisi diplomatica fra Turchia e Israele. Nove cittadini turchi furono uccisi e Ankara aspetta ancora le scuse ufficiali e degli indennizzi adeguati dal governo di Gerusalemme. Il rapporto Palmer dell’Onu poi non ha fatto che acuire la crisi e irritare ulteriormente i turchi. Erdogan nel tour si è mosso insieme con il ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, il ministro dell’Economia, Zafer Caglayan e decine di uomini d’affari fra i più potenti del Paese, per consolidare o aumentare la presenza economica e commerciale in que-

Il pragmatismo americano di superpotenza di lungo corso vede però ancora i limiti della politica turca, e Hillary Clinton ha più volte cercato di portare il governo di Ankara sul terreno di una presa di responsabilità sul piano internazionale


sti tre Paesi, dove gli equilibri politici sono cambiati radicalmente negli ultimi mesi e dove la Turchia si è costruita posizioni di tutto rispetto. Parliamo di tanti soldi investiti – solo in Libia 15 miliardi di dollari – tenendo un profilo politico basso.

Spostandoci nel salotto di casa turco, le pene di Erdogan non diminuiscono. Le tensioni in Turchia sono sempre presenti. Un’esplosione avvenuta il 20 settembre nel centro di Ankara aveva ricordato quanto i problemi interni al Paese fossero ancora sul tavolo del premier. Il bilancio era stato di 3 morti e 12 feriti. Contemporaneamente si era riacceso anche il fronte cipriota: la nuova contesa sono le esplorazioni petrolifere a largo della costa, dove i greco-ciprioti si stavano già muovendo ed Ankara prometteva che gli interessi turchi sarebbero stati difesi dalla Marina militare. Tutto ciò avveniva mentre era in programma l’incontro, a New York, tra il premier turco e il presidente Usa, Barack Obama, a conclusione del trionfale tour. Poi la Primavera araba, i problemi con l’ex alleato siriano, la grande novità geostrategica del progressivo sganciamento americano dall’area, aveva spinto il governo di Ankara a fare il passo successivo. Ampiamente studiato, ma tenuto nel cassetto da una certa timidezza politica. Risolti alcuni problemi interni, dopo il referendum costituzionale del settembre 2010, ricondotti i militari all’interno di un confronto, sempre aspro, ma si spera più democratico, Erdogan si è sentito pronto al grande salto. Il primo a farne le spese è stato Israele. Sulla vicenda dell’abbordaggio da parte delle teste di cuoio israeliane (Flotilla 13) della Mavi Marmara – dove ricordiamo morirono anche nove cittadini turchi – per mesi la squadra di Obama, gli avvocati di Netanyahu e il governo turco avevano lavorato assiduamente. La soluzione era a portata di mano. Poi improvvisamente il premier israeliano, forse per paura della reazione dell’ala oltranzista del governo guidata dal ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, aveva fatto marcia indietro. Di lì nasce la reazione «furibonda» di Erdogan, che è poi andato ad incassare una cambiale da Obama. Il



dossier progetto di Ankara è chiaro, tagliare la strada all’Iran e regionalizzare Israele. Due obiettivi che non sono in contrasto con gli interessi Usa e neanche con quelli sul futuro e la sicurezza dello Stato ebraico. Tanto che a livello ufficioso i rapporti diplomatici sono ancora intensi. Obiettivi turchi che sicuramente costringeranno Gerusalemme a fare un salto qualitativo notevole in campo politico. Ora Gerusalemme non ha più una politica estera. Ha rotto i rapporti con i quattro pilastri su cui basava la propria sicurezza: Egitto, Turchia, Giordania e Siria. Mai un governo israeliano è stato «più inetto e incapace» di quello attuale, come ha affermato il giornalista e scrittore Thomas L. Friedman dalle colonne del New York Times. Deve rendersi conto che deve cominciare a trattare i propri interlocutori regionali su un piano di rispetto. Quelli che lo meritano naturalmente. È chiaro che Erdogan avrebbe scelto questo momento per giocare le proprie carte di nuova guida dell’Islam democratico. Un ruolo forte che sicuramente spingerà Teheran a mosse altrettanto forti, ma non sulla strada dell’avventurismo. La Turchia ha un progetto politico, detto Islam light, che si basa sull’unione fra il modello di democrazia parlamentare (Stato laico), e il rispetto della libertà religiosa, insieme a un’economia basata sulla nuova piccola e media borghesia produttiva di estrazione islamica. Un modello che piace molto al Medioriente e al Nordafrica attraversato dalle rivolte. Ragion per cui l’Iran dei mullah dovrà effettuare una sterzata piuttosto brusca verso uno stile meno ortodosso di regime islamico, se vorrà giocare un ruolo equilibratore rispetto al neo-ottomanesimo di Ankara. Abbaiare contro Israele non servirà più a nulla. Inoltre negli Usa esiste da tempo una lobby che vorrebbe l’Iran attore preminente e che ha tanta voglia di dare il ben servito ai «molli e corrotti Saud». Intanto i rapporti tra Ankara e Roma si rafforzano. C’è in cantiere un progetto per fondare l’Università italo-turca «che spero nasca al più presto» aveva chiosato il ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu durante un viaggio in Italia di qualche tempo fa. Roma e Istanbul sono «città ponte» tra le diverse civiltà e

conoscono meglio di altri ciò che unisce culture diverse. «Se la storia viene studiata bene può diventare la luce che illuminerà il nostro futuro», spiegava il ministro turco in visita a Roma. E a proposito di libero mercato: «esisteva già nel XV secolo con Venezia, Genova, Firenze, Salonicco e Smirne. In quei tempi i commercianti italiani avevano libero accesso a Istanbul. Anche i grandi maestri dell’architettura nascevano sia Roma che da noi». Queste le ricchezze del passato, ma oggi i due Paesi cosa stanno creando? «La crisi economica sta ridisegnando gli equilibri mondiali» spiegava Davutoglu, senza affondare il coltello nella piaga, perché ci aveva pensato in precedenza Taha Ozhan, direttore del think tank Seta, definendo il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale come attori «ormai marginali» della scena finanziaria mondiale. E la forza della lira turca, spinta dagli investimenti stranieri, prima o poi dovrà essere governata. È chiaro come per Ankara sia il G20 la base per i nuovi equilibri internazionali: «possiamo influenzare le scelte del G20 con l’Italia». «Le relazioni interculturali e interreligiose sono importantissime, il fatto che Roma sia anche la sede del Vaticano è fondamentale». L’Europa è vista come interessante, ma da ripensare. È servita nel secondo dopoguerra per ricostruire un continente, ma oggi serve un modello diverso. «Nel 2050 l’Europa potrebbe essere un attore ininfluente della scena mondiale» perché, aggiungeva il capo della diplomazia turca, «non sempre le nuove sfide vengono raccolte». Nel XVIII secolo il 70 per cento della produzione mondiale proveniva dall’Asia e solo il 15 per cento dall’Europa. Poi con la Rivoluzione industriale e il colonialismo e nel 1850 eravamo giunti a un equilibrio. Nel 1870 l’Europa produceva il 70 per cento delle merci mondiali e l’Asia al 15 per cento. Nel Duemila di nuovo l’equilibrio. Se questa tendenza continua che tipo di scenario avremo nel 2050? Cosa deve fare l’Europa per essere più competitiva? Stiamo vivendo una seconda rivoluzione industriale. Solo che è tecnologica e finanziaria». Nel 2050 la Turchia potrebbe ritrovarsi tra le prime dieci economie mondiali. 43


Risk

GLI

EDITORIALI/MICHELE

NONES

Spese militari, è il momento di cambiare

L’eredità lasciata al ministro Di Paola è una delle più difficili che si possa immaginare, ma non è possibile invocare il beneficio d’inventario perché questo è il nostro paese, non quello di altri, come troppo a lungo tanti italiani sono sembrati pensare. Non è tanto la scarsità delle risorse finanziarie disponibili a preoccupare, quanto il perverso sistema seguito fino ad ora di voler costruire anzichè uno strumento militare sostenibile, quello che le promesse dei decisori politici facevano intravvedere, ma che poi regolarmente non perseguivano. Negli anni ‘90 si è inseguito il sogno di un significativo aumento delle spese militari in cifra assoluta. Poi, nello scorso decennio, quello di portarle all’1,5% del Pil (ovviamente quelle vere, non quelle che appaiono in un bilancio gonfiato da compiti esterni ed estranei, in primo luogo quello dei Carabinieri). In realtà siamo ormai da anni sotto l’1%. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: uno strumento militare bicefalo con una parte operativa impiegata nelle missioni internazionali che, seppure con molti sacrifici e limiti, ha un buon livello di efficienza e un’altra parte, molto più ampia, (strutture di comando, territoriali, amministrative) diventata uno “stipendificio”. Nel frattempo si è dimenticato l’obiettivo di bilancio ideale: 40% al personale, 30 al funzionamento e 30 all’investimento. Siamo, invece, arrivati a: 64% al personale, 10 al funzionamento e 26 all’investimento, ma con le ultime manovre quest’ultimo (l’unico comprimibile) è destinato ad un pesante taglio. Anche ipotizzando un obiettivo più modesto del passato (50, 25, 25) e raggiungibile nell’arco di un quinquennio, risulta evidente che l’attuale dimensione dello strumento militare non è sostenibile: deve essere ridotta per lo meno di un quarto. Questo significa 40-50 mila uomini in meno. Una parte di questo esodo potrà essere coperta dal normale turn-over e una parte potrebbe esserlo con la mobilità verso i Carabinieri e verso altre Amministrazioni (a cominciare dai Corpi armati dello Stato), ma ne resterà una parte in eccesso. Non avendo fondi per incentivarne l’uscita, bisognerà probabilmente percorrere strade nuove. Ad una situazione straordinaria bisogna rispondere con soluzio44

ni straordinarie. Una suggestiva ipotesi è quella di lasciare a casa il personale in eccesso. Il risparmio sul costo di lavoro indiretto (trasporti, sedi, servizi, ecc.) sarebbe significativo. Le strutture non più necessarie potrebbero essere affittate o permutate con altre più utili in un quadro di razionalizzazione della localizzazione delle Forze Armate sul territorio nazionale e di spostamento verso le periferie. A questo personale potrebbe anche essere offerta la possibilità di svolgere un lavoro autonomo integrativo dello stipendio ministeriale: in questo caso si potrebbe operare una riduzione limitata di quest’ultimo, accompagnandola con un regime fiscale leggero in modo da scoraggiare il lavoro nero e recuperare fiscalmente una parte del costo di questo personale. Insieme bisognerà porre seriamente mano al blocco delle promozioni ai gradi superiori: il numero dei generali è insostenibile economicamente ed eticamente. Se si chiedono sacrifici ai gradi inferiori, si debbono colpire anche, e forse prima, quelli superiori. Le promozioni non sono un obbligo e dovranno essere più attentamente “centellinate” in modo da avere disponibili solo i generali che servono. Ne guadagnerà anche la qualità perché il processo di selezione potrà essere molto più rigoroso. Nella stessa direzione del risparmio e del rafforzamento dei valori etici dovrebbe andare anche l’abolizione della promozione del giorno prima, grazie alla quale, a differenza che in tutti gli altri settori dell’amministrazione pubblica, gli ufficiali vanno in pensione col grado superiore. Oltre tutto generando un’inutile e costosa extra-attività gestionale per la Difesa e provocando una “parificazione”, per lo meno agli occhi esterni, degli ufficiali promossi “in carriera” con quelli promossi “in pensione”. Infine, un ulteriore risparmio potrà venire da una rapida riduzione delle spese sostenute dalla Difesa per esigenze estranee ai suoi compiti: dal tenere aperti aeroporti che in realtà servono solo al traffico civile all’effettuazione di troppi voli di stato che non vengono rimborsati completamente, né tempestivamente, per non parlare dell’impiego in compiti di ordine pubblico e di raccolta della nettezza urbana.


editoriali

GLI

EDITORIALI/STRANAMORE

Chi sarà il primo ad attaccare l’Iran?

Dopo l’atteso rapporto dell’Aiea che finalmente spiega come l’Iran stia comunque conducendo un programma nucleare che non ha una sola connotazione civile e lo potrebbe portare alla realizzazione di ordigni nucleari c’è chi si è convinto che una soluzione militare del problema sia imminente. Israele ancora una volta cerca di trovare qualcuno disposto a togliergli le castagne dal fuoco, ma dice che non partirà lancia in resta all’attacco, concede ancora tempo alla comunità internazionale affinché trovi una soluzione, magari ricorrendo all’isolamento politico ed economico e ad un giro di vite per quanto riguarda le sanzioni. Tanta comprensione e disponibilità in realtà sono connesse ad una evidenza: Israele non è in grado di decapitare il programma nucleare iraniano con le proprie forze militari. O meglio, un sistema lo avrebbe: un attacco massiccio preventivo condotto con i propri missili balistici e magari anche con missili da crociera, tutti armati con testate nucleare. Anche se se ne è parlato poco, a nessuno è sfuggito il test condotto da Israele con il proprio missile balistico a testata nucleare, il Jericho 3, effettuato nel Mediterraneo. Però, se mai Israele volesse davvero scongiurare il pericolo di un Iran atomico, dovrebbe necessariamente ricorrere ai propri missili e atomiche. Perché in questo caso non si tratta di far fuori un singolo reattore nucleare, come è stato fatto in Iraq prima e più recentemente in Siria. L’Iran è intanto molto più distante, poi è molto più grande. Soprattutto gli iraniani sono svegli. Hanno preso le loro precauzioni, distribuendo siti industriali, laboratori, centri di ricerca un po’in tutto il paese, non disdegnando di piazzarli in qualche caso in vicinanza di obiettivi civili oppure ricorrendo a infrastrutture sotterranee pesantemente protette e di difficile attacco con armi di precisione. Neanche l’intelligence Usa conosce esattamente l’ubicazione di tutti i siti, in molti casi ci sono solo sospetti e non certezze ed è probabile che qualche centro legato al programma sia ancora totalmente sconosciuto. Come mai potrebbe fare Israele a raggiungere, colpire e

distruggere tutti questi obiettivi ricorrendo ad armamenti convenzionali? Non ha aerei da attacco a sufficienza, né bastano i pochi sottomarini che forse sono stati armati con missili da crociera. E anche ammettendo che paesi come Arabia Saudita e Giordania concedano i permessi di sorvolo, non sarebbe possibile effettuare una vera decapitazione. No, l’entità del problema è tale da richiedere un intervento prolungato e l’attacco di centinaia di bersagli ed aimpoints. Allora ecco che l’alternativa “atomica” diventa più interessante. Ma neanche a Stranamore può sembrare una via percorribile. Dunque che si fa? Intanto l’orologio del programma nucleare iraniano va avanti, ma non è così rapido. Oltre al materiale fissile occorre mettere a punto una testata, un veicolo di rientro missilistico, nonché il vettore e provare il tutto, prima separatamente, poi in forma sempre più integrata. Anche ammettendo di prendere “scorciatoie” in stile nord-coreano non sembra davvero che l’Iran avrà un potenziale militare nucleare effettivo nel breve termine. Già, perché oltre agli impianti nucleari bisognerebbe prendersi cura anche delle capacità missilistiche iraniane. Non si vorranno mica lasciare agli ayatollah missili balistici con gittata di migliaia di chilometri? Ecco dunque che, se mai si arriverà ad un attacco, sarà una cosa relativamente complessa, molto intensa ed estesa. Perché una volta che si varca il Rubicone, pardon, Hormuz, tanto vale andare fino in fondo, eliminare anche il sistema di difesa aerea e la base da dove operano i sottomarini classe Kilo. Una operazione del genere la possono effettuare solo gli Usa, magari con un po’di aiuto. Rispetto ad al passato potrebbe essere lanciata con poco preavviso, minimo build-up e sarebbe molto più intensa, grazie alle nuove armi di precisione che consentono ad un singolo aereo di attaccare più obiettivi con una sola sortita. Ma potrebbe durare un paio di giorni. Quando avverrà tutto questo? Beh potrei scommettere che non accadrà prima di Natale, come indicano i tabloid britannici. E, sinceramente, spero di avere ragione. 45


S

cenari

NATO

VIVA LA NATO (IN MANCANZA DI MEGLIO) DI

ANDREA NATIVI

er il Segretario Genegià accaduto inizialmenrale dell’Alleanza te in Afghanistan nel Atlantica, il danese 2001, l’impegno militare Anders Fogh Rasmussen, la richiesto è stato sostanprova che la Nato ha dato in zialmente limitato alle Libia deve essere considerata forze aeronavali e alle forcome uno straordinario sucze speciali ed ha visto un cesso, dal punto di vista miliimpiego quasi esclusivo Sul destino dell’Alleanza tare, ma anche politico-stratedi armamenti di precisiosi addensano ombre e dubbi, soprattutto gico. Ma anche se il successo, ne, sia per ridurre le peralla luce del disimpegno statunitense sia pur faticosamente e dopo dite tra i civili, sia per otdall’Europa, della riduzione della spesa militare Usa, dei tagli ai bilanci della molto, troppo tempo è arrivatenere la massima efficadifesa decisi dagli europei, dell’evoluzione to (forse si poteva anche solo cia, pur mettendo in camdello scenario internazionale immaginare un esito diverso?) po un numero minimo di e di un meccanismo di funzionamento della Nato sempre più farraginoso. questo non ha spazzato le ompiattaforme aeree e navaE ci si interroga sul suo futuro… bre e i dubbi che permangono li. E alla fine, i numeri disulla Nato, soprattutto alla lucono che non è stato proce del disimpegno statunitense dall’Europa e della ri- prio uno scherzo, visto che dal momento in cui la Naduzione della spesa militare Usa, dei tagli ai bilanci to ha avuto la regia delle operazioni, cioè dal 1 apridella difesa decisi dagli alleati europei, alla evoluzio- le e fino al cessate il fuoco (escludendo quindi la fane dello scenario internazionale e ad un meccanismo se iniziale dei combattimenti condotta sotto egida di funzionamento dell’Alleanza farraginoso, purtrop- Usa) sono state effettuate 26.000 sortite aeree, della po confermato anche al Vertice di Lisbona. quale 9.600 sono state d’attacco ed hanno portato a Intanto, sotto il profilo prettamente tecnico-militare, colpire 5.900 bersagli, con 600 mezzi corazzati e blinla guerra libica ha dimostrato, come già negli Usa dati nonché 400 tra lanciarazzi e pezzi d’artiglieria appariva chiaro da tempo, che la stagione dei conflit- distrutti. E questi sono i numeri di una guerra “conti “diversi dalla guerra” o delle operazioni di stabi- venzionale”, non di guerriglia. lizzazione e controguerriglia non esclude affatto che Non sono state invece impiegate massicciamente le Usa e i paesi occidentali possano essere coinvolti an- forze terrestri. In Libia per di più si sono combatche in operazioni convenzionali ad alta intensità. Non tute forze armate regolari, non sono state condotte deve sfuggire il fatto che in questo caso, come era operazioni controguerriglia, anche perché i “guer-

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scenari riglieri” erano in questo caso supportati dalla Nato e combattevano contro un esercito, sia pure scalcinato. Ci sono voluti mesi e mesi solo perché la Nato non ha voluto/potuto mettere in campo niente di più ed ha proceduto quindi in una sorta di guerra di attrito, tutto il contrario del conflitto in 5’ che si era teorizzato. Non di meno la presenza diretta sul terreno di truppe alleate è stata limitata a contingenti numericamente limitati di forze speciali e consiglieri, mentre “l’approccio indiretto” ha anche visto una fornitura discreta di armi ed equipaggiamenti agli alleati locali. E non è un caso se negli Usa il tema delle esercitazioni militari non è più esclusivamente quello della guerra guerreggiata o delle operazioni di stabilizzazione più o meno cruente, ma include anche scenari tradizionali, con l’ipotetico avversario dotato di capacità militari convenzionali, magari anche di alto livello tecnologico. Perché ormai (quasi) tutti gli analisti sono convinti che in futuro occorrerà disporre di strumenti militari flessibili in grado di affrontare l’intero spettro delle possibili evenienze: quindi dalla operazione pacifica di mantenimento della pace fino alla guerra tecnologica ad alta intensità. Dunque la Libia segna una sorta di spartiacque e conferma quanto sia sbagliato pensare che le guerre di oggi saranno uguali a quelle di domani. Un tempo la Nato era esclusivamente focalizzata sul conflitto est-ovest e si è trovata impreparata quando ha dovuto combattere guerre di guerriglia e stabilizzazione la cui durata si misura in lustri quando non in decadi. Ma ora non si deve ripetere lo stesso errore: convincersi che ci saranno solo conflitti di guerriglia e asimmetrici come quelli che abbiamo visto in questo decennio e modellare le proprie forze armate essenzialmente per questo tipo di esigenze sarebbe sbagliato. Gli Usa non faranno niente del genere ed anzi stanno uscendo dalla “emergenza” di questi ultimi 10 anni, lo si vedrà anche nel come saranno utilizzate le risorse disponibili per la ricerca e sviluppo e l’ammodernamento, tanto più in un contesto di forti tagli, che riguarderanno si mezzi e reparti, ma

anche e in larga misura il personale, con lo Us Army che vedrà la sua componente attiva ridursi da 570.000 a 520.000 unità, forse anche meno. Ma anche a livello strategico la Libia ha portato ad una grande novità: si è trattato del primo conflitto combattuto dalla Alleanza a non vedere gli Usa in un ruolo di assoluta leadership. Solo nei primissimi giorni la direzione delle operazioni è stata condotta dai comandi e dai generali Statunitensi, anche perché la Nato non era politicamente pronta ad assumerne la gestione, dopodiché a Washington sono stati ben contenti di passare la palla ai comandi Nato, che peraltro sono ben “rodati” dopo anni di operazioni reali nei Balcani come in Afghanistan. Addirittura gli Usa hanno anche cercato di ridurre il loro contributo in termini di mezzi e sistemi d’arma, salvo poi dover tornare ad intervenire con maggiore decisione, viste le carenze mostrate dagli alleati, carenze non compensate dall’intervento di partners esterni, come gli Emirati Arabi Uniti. Ecco la novità, un’operazione di guerra condotta dalla Nato con gli Usa in ruolo di supporto e con il ruolo di protagonisti assunto da Francia e Gran Bretagna, ovvero i due paesi europei che più spendono per la difesa e che hanno le maggiori capacità militari. Si è anche trattato di un primo test sul campo dell’asse tra Parigi e Londra, che ovviamente fa saltare i tradizionali equilibri nella Nato e che potrebbe condizionare anche l’Unione Europea, ammesso che questa sopravviva alla crisi economica. Il ritorno di Parigi nella struttura militare integrata della Nato ha un effetto devastante su processi e equilibri consolidati e solo ora comincia a dipanarsi. Resta inteso che gli Stati Uniti non hanno la minima intenzione di farsi coinvolgere nella missione di stabilizzazione e mantenimento della pace che prima o poi dovrà essere avviata in Libia. Questa sarà una faccenda che dovranno “sfangarsi” gli alleati. Per Washington e per il Pentagono queste operazioni costosissime, che richiedono un impegno a tempo indeterminato e lo schieramento di migliaia o diecine di migliaia di soldati sono ormai un anatema. Passi 47


Risk partecipare ad un conflitto hi-tech, costoso sì, ma di durata relativamente breve, ma non c’è nessuna disponibilità a finire impantanati in missioni dove il contributo militare si misura con il numero di soldati. Questo è il nuovo corso del Pentagono… per quanto possibile ci si concentra sulla parte “alta” della gamma di operazioni militari, se proprio ci deve essere una dimensione terrestre, si deve cercare un alleato locale, ricorrendo largamente alle forze speciali, i cui ranghi sono in continua espansione e che non saranno minimamente toccate dalla revisione delle priorità di bilancio, oppure si supportano le truppe degli alleati tradizionali, soprattutto se questi non sono in grado di contribuire con capacità pregiate e tecnologiche. In pratica gli alleati Nato rischiano di diventare… fornitori di fanteria, di ascari, specie se non si impegnano per dotarsi delle capacità militari tecnologiche necessarie per operare a fianco degli Usa. Cosa che peraltro dovrebbe essere meno difficile, nel momento in cui anche al Pentagono si dimenticano i requisiti “lunari” e si impone ai militari di richiedere mezzi e sistemi con basso rischio tecnologico, costi relativamente contenuti, sia di acquisto sia di esercizio, fatta eccezione per alcuni settori chiave, come lo spazio, la digitalizzazione, le armi di precisione, la intelligence, la cyberwarfare e così via. Diciamo anche che la “campagna di Libia” ha rappresentato per gli Usa l’occasione per toccare con mano le debolezze militari degli alleati europei, i quali sono si massicciamente impegnati in Afghanistan, ma avrebbero dovuto avere a disposizione tutti quegli strumenti high-tech che in Afghanistan servono relativamente poco, a partire da aerei da combattimento, unità navali e missili. E invece…gli alleati si sono trovati in difficoltà a mantenere costantemente in attività una trentina di velivoli per ciascuno, mentre le cose sono andate meglio in campo navale, visto che in Afghanistan le navi… davvero non servono, mentre per far finta di combattere la pirateria basterebbero tranquillissimi pattugliatori oceanici. Gli Usa hanno preso buona nota. E si cono dav48

vero adirati quando è emerso che a dispetto del passo “lento” delle operazioni belliche gli Alleati stavano rapidamente consumando gli stock di munizionamento di precisione, al punto che si è, ancora una volta, dovuto ricorrere alla formula del prestito per rimpinguare riserve in via di esaurimento. Il che vuol dire che gli Alleati pur di risparmiare sul munizionamento hanno ridotto le proprie scorte ben al di sotto di quello che suggerirebbe una minima prudenza. Tutto questo ha poi portato ad una serie di critiche pesanti da parte del Segretario alla Difesa Leon Panetta, il quale peraltro si è collocato nella scia del suo predecessore, Robert Gates, che prima di accomiatarsi si era tolto più di un sassolino dalla scarpa. A giocare il ruolo del good cop è stato invece il presidente Barack Obama, il quale ha applaudito allo sforzo compiuto, ma senza scaldarsi più di tanto. Da oltre oceano le critiche non potrebbero essere più chiare: si comincia innanzitutto a chiedere a gran voce un più equo burden sharing, uno slogan che ha caratterizzato buona parte della Guerra Fredda e che significa che ci deve essere equilibrio tra quanto gli Usa spendono per la difesa e quanto investono gli alleati europei. Panetta dice che non c’è walk away from sharing the burden of mantaining global security. Solo che ora il contesto è mutato… in peggio. Perché mentre gli alleati europei hanno continuato a ridurre la propria spesa per la Difesa gli Usa la hanno incrementata e quindi oggi il “peso” del contributo statunitense alla Difesa collettiva invece di diminuire è aumentato. In pratica se dieci anni fa il bilancio della Difesa statunitense rappresentava il 50% di quello complessivo Nato oggi la percentuale è salita al 75%, lo dice Rasmussen, il quale aggiunge che solo nel 2009-2010 i paesi europei della Nato hanno ridotto gli stanziamenti militari di 45 miliardi di dollari. Solo Francia e Gran Bretagna spendono più del 2% del Pil per la Difesa, tutti gli altri sono ben al di sotto della soglia minima raccomandata dalla Nato, quella del 2%. La media Nato è intorno all’1,6% e la prospettiva è che scenda sotto all’1,4% entro il 2015. Le carenze sono ben note e identifica-


scenari te, gli alleati Europei non riescono a costruire le nuove capacità militari necessarie, si tratti di mobilità strategica, di cyber security, di intelligence, di attacco di precisione, di sorveglianza, ricognizione, di difesa antimissile etc. E, cosa inconcepibile per gli Usa, non riescono ad accordarsi sul mettere in comune le scarse risorse che sono disposti a investire per la sicurezza, in modo da ottenere un migliore rapporto costo/efficacia o quantomeno per specializzarsi e per investire nelle aree di effettiva priorità. Per gli Usa è assurdo che chi spende poco si permetta poi di sprecare gran parte di quel poco a causa di inefficienze, duplicazioni, mal riposto orgoglio nazionale. Panetta aveva già detto, anche prima che scattasse la mannaia dei “sequestri di bilancio” a danno del Pentagono a causa del mancato accordo parlamentare sulle misure da applicare per ridurre la spesa federale di 1,2 trilioni di dollari nell’arco di un decennio, che gli Usa avrebbero dovuto ridurre la spesa militare e che avrebbero cercato di spendere al meglio ogni singolo dollaro, rivedendo anche dislocazione e struttura delle forze. Gli alleati Nato avrebbero dovuto fare la stessa cosa. Gates dal canto suo, preconizzando quanto sarebbe accaduto in Libia, aveva detto chiaramente che la Nato è diventata una alleanza divisa tra chi paga e combatte le guerre di oggi, compresa quella “al terrorismo” e coloro i quali ne godono gratuitamente i benefici in termini di sicurezza. Questa immagine è stata rafforzata da quanto è avvenuto per la Libia: l’Alleanza ha votato all’unanimità l’avvio delle operazioni, però solo la metà dei paesi membri ha accettato di prendervi parte e solo un terzo dei soci atlantici ha condotto operazioni di combattimento/attacco. Ed è anche vero che la Nato è sempre più una alleanza a più velocità, con due/tre paesi che, pur riducendo la consistenza dei rispettivi strumenti militari, tengono comunque il passo tecnologico degli Usa (anche perché questi come detto stanno rallentando, anche se non in tutti i settori). Si tratta di Francia e Gran Bretagna e, nel piccolo, dell’Olanda. Ci sono paesi, come la Polonia, che stanno aumentando gli investi-

menti nella difesa e finiranno quindi per contare di più. C’è chi ha buone capacità militari, come la Germania, ma fatica politicamente ad utilizzarle. L’Italia sta nel gruppo di mezzo. Poi ci sono le “zavorre”, paesi che non solo non sono in grado di contribuire alla sicurezza collettiva, ma anzi devono attingere alle risorse comuni per soddisfare i propri elementari bisogni di sicurezza. Questa è una conseguenza della stagione dello sciagurato allargamento della Nato, quando l’Alleanza aveva dimenticato che il suo ruolo è essenzialmente militare e, tentando di diventare una sorta di Onu regionale, aveva imbarcato chiunque bussasse alla sua porta, senza consi-

Se 10 anni fa il bilancio della Difesa Usa rappresentava il 50% di quello complessivo Nato, oggi la percentuale è salita al 75%, lo dice Rasmussen, il quale aggiunge che solo nel 2009-2010 i Paesi europei della Nato hanno ridotto gli stanziamenti militari di 45 miliardi di dollari derare i costi, i rischi per la sicurezza e l’impatto sul funzionamento della struttura integrata che ne sarebbero derivati. Ed ora i nodi vengono al pettine. E non basta certo il piano di ristrutturazione e riduzione di comandi e strutture pletoriche a consentire una maggiore efficienza ed efficacia. Anche perché la Nato continua a decidere solo all’unanimità. È anche evidente che negli Usa il vento è cambiato, anche prima che si arrivi alle elezioni presidenziali, la voglia di disimpegno (militare) è già fortissima. Tra gli stessi Repubblicani i fautori di un neo isolazionismo so49


no tanti, anche al punto di rinunciare alla leadership mondiale. La spesa militare è importante, ma non è cruciale di fronte ad altre priorità. E il Congresso non è disponibile a spendere un dollaro per garantire la sicurezza dei soliti, imbelli Europei. Fin qui le ragioni di Washington. Che si basano su dati di fatto. Tuttavia non è che i partner Nato europei abbiano solo torti. Intanto gli Usa dimenticano che i soci europei hanno accettato di applicare l’Art.5, quello sulla difesa collettiva, stiracchiandolo non poco per considerare l’attacco terroristico dell’11 settembre come aggressione militare esterna e non come vicenda interna degli Stati Uniti. Sono così scattati in una gara di solidarietà e si sono infilati dritti dritti in una guerra in Afghanistan… che trova un po’ distante dall’area di competenza Nato. E poi sono stati a fianco degli Usa in una seconda guerra, quella in Iraq che, come si è poi scoperto, non aveva alcun motivo di essere iniziata.

Gli Usa sono stati i primi paladini di quell’allargamento accelerato della Nato che l’ha sconquassata, perché volevano avere un ruolo nei paesi europei ex Patto di Varsavia e solo attraverso la Nato potevano averlo. Hanno addirittura cercato di trasformare la Nato in una alleanza difensiva globale, portandola ad estendere l’area di responsabilità fino al Pacifico e ammettendo tra i soci paesi come Australia, Giappone o Corea del Sud. Il tutto per portare l’Europa ad un burden sharing di problemi di sicurezza nel Pacific Rim che sono essenzialmente americani, tanto più visto che gli Europei non hanno gioco politico o ritorno economico diretto in quella regione. E, per dirla chiara, per ora non alcun motivo di prepararsi a fare a botte con la Cina. Checché ne abbia detto Obama, gli Usa non considerano più l’Europa come una regione di primario interesse strategico e quindi progressivamente sposteranno la loro attenzione verso il Pacifico, come già peraltro stanno facendo. Presto altre basi militari e reparti saranno spostati in aree più baricentriche, però senza abbandonare completamente il Mediter-


scenari raneo (e Israele). Quanto alla spesa militare, è vero che gli Usa dedicano oltre il 4% del Pil alla difesa e sono quindi socio di maggioranza assoluta in termini di quattrini all’interno della Nato. Però sono anche un paese in guerra. L’Europa non lo è. Gli Usa poi con la spesa militare legittimano il proprio ruolo di superpotenza globale. Difendono la supremazia economica e in misura minore politica con una supremazia militare. L’Europa, purtroppo conta poco o niente nello scacchiere mondiale, non ha alcuna velleità di potenza e fatica non poco a difendere i propri interessi anche nelle regioni limitrofe, come Nord Africa, Medio Oriente e, volendo esagerare, nell’area del Golfo. Di certo con l’Afghanistan ha ben poco a che fare. Né ha problemi di competizione strategica con Pechino, anzi, da alleato fedele rinuncia a vendere alla Cina quelle tecnologie militari che Pechino sarebbe disposta a comprare senza discutere il prezzo. Ancora, se gli Usa si ripiegano hanno più bisogno di alleati disposti a condividere gli oneri dell’alleanza senza contare poi molto. È vero che il Congresso Usa non è disposto a spendere per “difendere l’Europa”, ma almeno nel medio termine una minaccia militare diretta verso l’Europa non esiste e quando si concretizzerà non sarà certo come quella costituita a suo tempo della Unione Sovietica. Washington oggi spende per difendere gli Usa, non l’imbelle Europa. Anzi è l’Europa che aiuta gli Usa quando questi si vanno ad incastrare in conflitti senza fine in Asia e nel Golfo. Quindi per garantire la propria sicurezza l’Europa non ha bisogno di spendere il 4% del Pil nella difesa. Dovrebbe farlo se avesse velleità di potenza. Cosa che sarebbe magari legittima per una Europa federale. Ma al momento è già un miracolo se l’Europa unita economica non va in pezzi con la sua moneta per effetto della crisi e in un contesto siffatto la dimensione di politica estera e di sicurezza europea proprio non esiste più. Sarà anche per questo che gli Europei faranno bene a tenersi stretta la Nato che c’è. È questo l’unico forum attraverso il quale si può arrivare ad una razionalizzazione degli investimenti, della ricerca, alla definizione di prio-

rità condivise e, se non ad una integrazione, almeno ad una maggiore collaborazione nel campo della difesa e della sicurezza tra attori che ormai si sono ridotti a nanerottoli presuntuosi, senza muscoli e senza volontà. A Brussels si parla oggi di Smart defense, speriamo proprio diventi una realtà e non resti uno slogan. Francia e Gran Bretagna tentano intanto la fuga in solitaria. Dal loro punto di vista hanno perfettamente ragione. E finirà che altri paesi europei si allineeranno a questo tandem, perché Londra e Parigi spendono ancora abbastanza per la difesa, hanno capacità discrete e sono pronte ad utilizzarle quando serve. In Libia non è andata benissimo, ma era un esordio, faranno meglio la prossima volta. Perché questa non è l’alleanza abortita di Saint Malo, in questo caso occorre fare di necessità virtù. È altamente possibile poi che il tandem finisca a dominare e ad orientare l’azione della Nato e diventi il core intorno al quale si formeranno coalizioni a geometria variabile con i paesi che accetteranno di partecipare. In teoria si sarebbe potuto formare un contro blocco guidato da Germania, Italia e Spagna, che potesse in qualche misura fungere da contrappeso. Non è avvenuto e non avverrà. E questo conferma Francia e Gran Bretagna nel loro intento, nonché ad evitare di ampliare il loro club esclusivo. Quanto agli Usa, anche per loro in fondo è meglio che la Nato continui ad esistere. Non sarà efficiente, non sarà docile ai voleri del capo, avrà capacità militari limitate… ma c’è. E se Washington vuol convincere i partner europei a dividere oneri e responsabilità che non li riguardano, otterrà di più attraverso la Nato che senza di questa. Nulla vieta poi agli Usa di creare una rete di alleanze militari nel Pacifico, anzi, con il Giappone praticamente fuori gioco a causa delle catastrofi naturali e della difficile situazione politico-economica ne avrebbe proprio un gran bisogno. L’India da sola non basta e poi Delhi ha una sua agenda e propri interessi. Quello che gli Usa si possono permettere con europei e Nato non potranno farlo con India o Giappone. Ma questo lo sanno anche loro. Quindi… viva la Nato, in mancanza di meglio. 51


Risk

S

cenari

RUSSIA

PER MOSCA NON È ANCORA L’ORA DELLA SVOLTA DI

OSVALDO BALDACCI

ombra dell’orso si superato il 7% di soglia di rialza imponente e sbarramento si è trasforsi estende a coprire mato per un soffio nella minacciosa quanto più territomaggioranza assoluta delrio le sia possibile. E non si la Camera, 238 seggi su accontenta dell’area vicina al450. Il fatto è che il crollo la tana: si espande su ben nuoè di 15 punti, dal 65% del vi terreni di caccia, dai ghiac2007, e lascia molto diRussia Unita ha ottenuto il 49,5% dei voti, ci artici allo spazio profondo, stante la maggioranza dei che grazie alla ripartizione dei seggi dai mari caldi alla realtà web. due terzi che Russia Unidei partiti che non hanno superato il 7% di soglia di sbarramento Ma quella che si vede per ora ta aveva fino a ieri e che si è trasformato per un soffio è solo l’ombra. Cosa è davveconsente non solo le rifornella maggioranza assoluta della Camera, ro ciò che la proietta? Un mome costituzionali ma so238 seggi su 450. Il fatto è che il crollo è di 15 punti, dal 65% del 2007, e lascia stro gigantesco, un cucciolo o prattutto di governare inmolto distante la maggioranza dei due solo un gioco di ombre cinedisturbati. Ora invece Rusterzi che Russia Unita aveva fino a ieri si? La Russia è andata al voto sia Unita dovrà costantee il tandem Putin-Medvedev mente avere a che fare con ha mostrato i mucoli tanto agli elettori quanto al mon- gli altri partiti che invece hanno incrementato signido intero. Nessun ambito è stato lasciato fuori dal ten- ficativamente i loro consensi. Un altro segnale da ritativo di riaffermare la potenza russa. Con quali risul- levare è che il partito di Putin ha perso consensi e in tati? A giudicare da quelli elettorali non un granché alcuni casi anche il primato in diverse città medie, anche sul piano interno. Anzi, potrebbe persino scric- mentre c’è più di un’ombra sui voti conquistati. Bachiolare adesso l’asse portante del potere russo e il sti pensare che in regioni come la Cecenia il partito tandem faticosamente ricostruito Putin-Medvedev. Il presidenziale ha incassato oltre il 99% dei voti. Inolloro partito Russia Unita è il grande choccato di que- tre le ombre sulle elezioni non si sono dissolte solo sto voto parlamentare. Choccato, perché rifiuta di con- perché il risultato non è plebiscitario. Le ripetute censiderarsi sconfitto avendo conservato la maggioran- sure, gli ostacoli, gli arresti, la totale assenza di indiza assoluta alla Duma, ma tutti sanno che questo è un pendenza dei mass media e tutti gli altri elementi sidato burocratico che maschera un tracollo politico. mili hanno comunque pesantemente inciso sulla camRussia Unita ha ottenuto il 49,5% dei voti, che grazie pagna elettorale e sulla trasparenza del processo eletalla ripartizione dei seggi dei partiti che non hanno torale. Non è chiaro se ci siano stati ed eventualmen-

L’

52


scenari te in che dimensioni i brogli tanto temuti, ma comunque il cammino verso una piena libertà democratica è per la Russia ancora lungo. Gli osservatori dell’Osce, pur riconoscendo alcuni miglioramenti (i dibattiti in tv), dopo le elezioni hanno bocciato l’organizzazione del voto legislativo russo, segnato secondo il loro rapporto da «frequenti violazioni procedurali» e «indicazioni di apparenti manipolazioni», ma riconoscendo che «le elezioni dimostrano che il popolo russo può determinare il futuro di questo Paese esprimendo la sua volonta’ nonostante numerosi ostacoli». Medvedev e Putin hanno preso il risultato come una prova della falsità delle accuse di macchinazioni, ma non bastano le loro dichiarazioni di circostanza e il loro sorrisi per essere rimasti primo partito. Tutto questo in un contesto in cui anche l’affluenza è stata in calo, fermandosi al 60%, anche a causa della scelta di una parte rilevante dell’opposizione liberale di invitare i cittadini a non partecipare a un voto considerato poco trasparente. Scelta comprensibile, ma che forse alla luce dei risultati successivi susciterà qualche rimpianto tra gli oppositori. Intanto all’orizzonte non si profilano ancora alternative davvero all’altezza di rassicurare la comunità internazionale, in quanto i comunisti hanno raddoppiato i loro consensi piazzandosi come secondo partito al 19,16% con 92 seggi, Russia Giusta al 13,22% con 64 seggi e i liberal-democratici dell’ultranazionalista Vladimir Zhrinovsky all’11,66% con 56 seggi. I liberali di Yabloko e Causa Giusta e i Patrioti della Russia sono fuori dalla Duma, non avendo superato la soglia del 7%. Cosa sarà ora del tandem Putin-Medvedev? Gli osservatori sono divisi. C’è chi ritiene che i due ormai non abbiano alternative se non collaborare per rilanciarsi a vicenda. Chi invece pensa che l’uomo forte Putin potrebbe sacrificare Medvedev per il proprio rilancio personale in vista delle presidenziali, considerando che in fondo Medvedev era capolista e lui dovrebbe fare il premier di un governo dalla maggioranza ora risicata. Alcuni però hanno anche notato un possibile sviluppo opposto: alla conferenza dopo il voto era Putin quello più in imbarazzo, in

difficoltà. Medvedev sembrava sinceramente soddisfatto, e c’è chi sospetta che intenda legare il destino del partito a quello di Putin, spiegando ai sostenitori che contano che il crollo di Russia Unita dipende dall’appannamento del carisma dell’attuale premier, troppo legato a un modello di durezza e di machismo che non paga più, tanto più in un momento di crisi economica che rende lontani gli anni dello sviluppo con Putin presidente. Delusioni e insofferenza serpeggiano da tempo nella società russa: nonostante le tante promesse, la corruzione cresce, a differenza degli stipendi, il livello del sistema scolastico e sanitario fa rimpiangere quello dell’Urss, 20 milioni di persone vivono ancora sotto la soglia della povertà in un Paese di oligarchi e di enormi ricchezze energetiche, critica e dissenso vengono sistematicamente tacitati. Il terremoto politico potrebbe avere conseguenze anche sul sistema di potere creato da Putin se l’elite politico-economica che lo sostiene si dovesse convincere che il suo carisma si sta appannando e rischia di non offrire più garanzie per uno sviluppo stabile e moderno del Paese. In vista delle elezioni Putin non si è fatto mancare nulla della retorica disponibile. Lasciando da parte il suo culto della personalità con l’armamentario di prestazioni virili di ogni tipo – per altro messe a dura prova dalla serie di contestazioni e fischi che non hanno assolutamente precedenti – Mosca ha inseguito ogni elemento geostrategico che potesse restituirgli un’immagine di superpotenza. Sembra averlo fatto più ad uso elettorale interno (con risultati quantomeno controversi) che per una vera affermazione internazionale, ma intanto ha provato a ritracciare una strada. Velleitaria probabilmente, tale da mostrare più le debolezze che la forza di un Paese in difficoltà, e una strada tanto più complicata dai fallimenti imposti dalla fretta elettorale e dall’incapacità di selezionare i tavoli su cui puntare per la smania di giocare su tutti. Però intanto l’orso russo qualche segnale l’ha dato, e questo non potrà non avere conseguenze. Il passaggio più importante degli ultimi mesi è almeno sulla carta la costruzione dell’Eurasia, cioè di una 53


Risk nuova unione tra la maggior parte dei Paesi ex sovietici: Putin e Medvedev hanno definito a fine dell’Urss come la più grande catastrofe geopolitica (per altro avvenuto giusta venti anni fa, l’8 dicembre 1991). E ora vorrebbero porvi rimedio. Il neoimperialismo russo quindi usa tutte le sue armi diplomatiche e soprattutto economiche (il controllo delle risorse energetiche) per tornare a far gravitare intorno a sé le Repubbliche che un tempo ne dipendevano. Ma con quali risultati è tutto da vedere. Il progetto tipicamente putiniano è quello dell’Unione Eurasiatica. Uno spazio comune integrato da subito sul piano economico, e in prospettiva non solo. Con alcuni Paesi il Cremlino può avere gioco facile, avendo da offrire abbastanza a chi ha poco, come la Bielorussia, e potendo contare su una politica di influenza con ogni mezzo mai abbandonata, come dimostra tra i tanti il caso ucraino. Ma sarà più dura imporre una egemonia unilaterale a Paesi che ormai si muovono sullo scenari internazionale con maggiore libertà ed intraprendenza. Lo dimostra il caso del Tajikistan, che ha infine dovuto cedere alle ritorsioni russe sul caso di due piloti condannati, ma ha comunque tenuto testa con determinazione alle pretese del gigante che peraltro era in campagna elettorale. Comunque lo spazio ex Urss è un mercato da 260 milioni di persone, racchiude alcune riserve energetiche di primissimo piano e controlla rotte economiche decisive sia verso l’Europa che verso l’Asia. Inoltre l’agglomerato che ne deriverebbe (ma sappiamo già che diversi Paesi sono ormai irreversibilmente separati dal passato russo-sovietico) potrebbe formare un nucleo capace di avere più peso nel determinare la direzione di altre aggregazioni politiche, prima fra tutte il Patto di Shangai. In questo senso, sostengono gli esperti russi, il progetto eurasiatico non va tanto visto nell’ottica di nostalgia sovietica quanto nella prospettiva di una futura realtà economico-politica paragonabile semmai all’Unione Europea (ma dove certo la Russia non sarà pari agli altri). La base è l’Unione doganale a cui già aderiscono Kazakistan e Bielorussia e dove Mosca vuole a tutti i costi l’Ucraina per poter 54

essere collegati allo spazio europeo. Intanto Putin ha ottenuto di recente la firma di un accordo di libero scambio tra otto repubbliche ex sovietiche, compresa l’Ucraina. Sul progetto non si è perso tempo: sebbene sia una sua idea da lungo tempo, la specificità dell’Unione Euroasiatica è stata lanciata a Putin all’inizio di ottobre, con un suo articolo su Izvestija. Il 18 novembre il presidente Medvedev ha firmato al Cremlino un’intesa con Bielorussia e Kazakistan intitolata “Dichiarazione sull’integrazione economica eurasiatica”, che delinea le prossime fasi per lo sviluppo entro il 2015 di uno «spazio economico unico, fondato sui regolamenti e i principi dell’Organizzazione mondiale del commercio e aperto in qualsiasi momento all’adesione di altri Stati». Tra le proposte ventilate per il futuro anche una Banca centrale comune eurasiatica e una valuta comune: il rublo russo. Tra le tappe invece sottoscritte nel documento ufficiale il passaggio dell’attuale Unione doganale a partire dal prossimo gennaio ad uno spazio economico comune (Ces) basato sulle regole del Wto e aperto a nuovi Paesi, con obiettivo finale dell’Unione economica euroasiatica. Verrà istituita una Commissione per la supervisione dei vari processi di integrazione e con ruolo di «organo neutrale sovranazionale, al quale saranno ceduti

C’è chi sospetta che Medvedev intenda legare il destino del partito a quello di Putin, spiegando ai sostenitori che contano che il crollo di Russia Unita dipende dall’appannamento del carisma dell’attuale premier, troppo legato a un modello di durezza e di machismo che non paga più


scenari gradualmente poteri nazionali». La Commissione prenderà decisioni in un quadro che esclude il predominio di uno Stato sugli altri e coinvolgerà due livelli: il Consiglio e il Collegio. Il primo comprenderà i premier e regolerà in generale i processi di integrazione nell’Unione doganale e nello spazio economico comune, mentre il il secondo includerà rappresentanti dei paesi membri con lo status di dirigenti indipendenti internazionali. Tuttavia gran parte degli osservatori ritiene che sia Astana sia Minsk siano interessate a un vantaggio commerciale, ma anche a mantenere la propria indipendenza. In particolare Putin ha più volte prospettato la “prossima” fusione di Russia e Bielorussia in una sola nazione, ma non se ne è mai fatto nulla. Intanto però il 25 novembre dopo mesi di trattative la russa Gazprom ha ottenuto il controllo totale della rete dei gasdotti della Bielorussia, che è in grave crisi economica e isolata politicamente. L’accordo prevede il pagamento da parte di Mosca di 2,5 miliardi di dollari per il 50% delle azioni che ancora non possedeva. Attraverso i gasdotti bielorussi passa circa un terzo del metano russo per l’Europa. Minsk otterrà inoltre una riduzione a 165 dollari del prezzo del metano russo che attualmente viene pagato 270 dollari per mille metri cubi (il prezzo per l’Europa è di 400 dollari). Prevista inoltre la concessione da parte russa di un finanziamento di 10 miliardi di dollari per la costruzione della prima centrale nucleare su territorio bielorusso. La prospettiva commerciale dello spazio economico fra i tre Paesi comunque si inserisce su un altro piano delle aspettative russe. Dal 1993 la Russia tenta di entrare nel Wto e adesso finalmente ci riesce. E ci riesce proprio dopo aver provato prima a giocare la carta della candidatura congiunta proprio con Bielorussia e Kazakistan, e poi dopo aver mollato questa linea per riviverla sotto la nuova prospettiva dell’Unione Euroasiatica. La decisione finale e formale dell’adesione di Mosca al Wto è per il 15 dicembre, ma è già stato ufficialmente raggiunto l’accordo, grazie alla soluzone del veto georgiano. La Russia infatti dopo aver faticosamente risolto i problemi con Stati Uniti e Unione Europea ha subito lo

stop di Tblisi dopo la guerra del 2008. Il faticoso accordo con la Georgia riguarda ovviamente i tempi delle secessioniste Ossezia ed Abkhazia e prevede che una società privata indipendente controlli il transito delle merci nella regione, agendo da mediatore tra doganieri georgiani e russi.

L’ingresso nel Wto per la Russia è un successo e nel medio termine, si augurano a Mosca, dovrebbe generare maggiore fiducia, favorire gli investimenti stranieri e combattere la corruzione che è una piaga grave del Paese cui costa moltissimo. Allo stesso tempo però verranno ridotti i dazi doganali, e per alcune categorie merceologiche questo a breve potrebbe creare problemi a produttori russi, come quelli di auto e quelli del settore agricolo nel quale Mosca si è però riservato una spazio di manovra. Una valida mossa di prospettiva, quindi, ma anche un elemento di incertezza all’interno di un momento di crisi economica che investe pesantemente anche la Russia. Comunque l’impatto dell’ingresso nel Wto sul settore dell’export energetico, che rappresenta il 40% delle entrate pubbliche, sarà limitato. Per accedere al Wto la Russia ha dovuto siglare 30 accordi bilaterali per l’accesso al mercato dei servizi e 57 per l’accesso ai beni. Sul piano multilaterale Mosca ha accettato di ridurre le tariffe doganali sull’import al 7,3%, contro il 10% attuale. La Russia ha anche accettato di limitare le sovvenzioni all’agricoltura a nove miliardi di dollari il prossimo anno e di ridurle progressivamente a 4,4 miliardi nel 2018. Per quanto riguarda le telecomunicazioni la Russia ha accettato di eliminare entro quattro anni la soglia del 49% del capitale alle partecipazioni di imprese estere. Le banche straniere saranno libere di aprire filiali in Russia, ma non potranno rappresentare più del 50% del sistema bancario russo. Inoltre, dal giorno dell’ingresso nel Wto, verrano eliminate le licenze per l’import di alcolici e prodotti farmaceutici. Mosca si è anche impegnata a tariffe “normali” per il commercio di gas. L’economia, come per tutto il mondo, resta il punto cruciale della problematica russa. Il Paese è in cresci55


Risk ta, rispetto alla crisi occidentale, ma in realtà è in difficoltà sotto molti punti di vista e anche la sua appartenenza al Bric (Brasile, Russia, India, Cina) rischia di sovraesporla rispetto al livello di crescita degli altri partecipanti. La produzione industriale in Russia cresce, ma rallenta ed è al di sotto delle stime, quasi un punto in meno delle aspettative (dal 5,4 al 4,7%, rispetto all’8,6 del 2010). Tra i settori più importanti per l’economia russa, sono in chiaro rallentamento quello automobilistico (che oltre tutto non si gioverà dell’adesione al Wto), del gas (-4,2%) e del petrolio (-0,2%). In questo contesto comunque la Russia sta spingendo per aumentare l’interscambio soprattutto con le grandi economie amiche: 80 miliardi con la Cina (otto volte lo scambio di 10 anni), 70 con la Germania, 20 con l’India, 21 con l’Italia, un impegno ingente per moltiplicare gli scambi con l’area dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) e cioè dell’Asia centrale. Inoltre non si può dimenticare che la Russia, per tutta una serie di problematiche, vede oggi troppe fughe: quella dei ricchi che vanno all’estero, ma peggio quella dei loro capitali, 64 miliardi dall’inizio dell’anno, il doppio del 2010, e anche quasi il doppio degli investimenti esteri in Russia, in aumento e incentivati dall’adesione al Wto, ma tutt’ora insufficienti. C’è poi anche la fuga dei cervelli, ritornata a livelli paragonabili a quelli della fine dell’Urss. Questioni che si innestano su un problema che in occidente viene poco considerato, ma in Russia è molto sentito sia praticamente sia ideologicamente: la pesantissima crisi demografica. Crisi che mette a rischio l’intero sistema russo, sia dal punto di vista economico sia anche dal punto di vista socio-politico, in quanto il Paese è come noto vastissimo, e peraltro le sue risorse e i suoi nodi strategici sono sparsi sul territorio che nella sua ampiezza ha un punto di forza, ma la popolazione in calo diventa un punto di debolezza a causa della sua incapacità di controllare l’intera estensione. Non a caso Putin ha coronato la sua campagna elettorale con in braccio il neonato che ha rivendicato essere l’abitante numero 7 miliardi del pianeta. Problema demografico aggravato dal nazionali56

smo russo, sempre più in crescita e quindi ben poco incline ad affrontare il problema demografico con l’immigrazione. Anzi, l’immigrazione è vista come una minaccia da parte di realtà ostili, come i cinesi che hanno messo saldi radici nell’estremo oriente russo, gli islamici dall’Asia Centrale fino al Caucaso, sempre visti come nemici storici fin dai secoli passati e che ceto la situazione di Cecenia e dintorni non ha contribuito a far vedere come meno ostili. E il nazionalismo russo, l’orgoglio da nostalgia di superpotenza, sta spingendo la Russia a recuperare un ruolo di protagonista sulla scena internazionale ma un ruolo che potrebbe in qualche modo essere anche considerato velleitario e basato più sui famosi “niet” per attirare nella propria sfera i Paesi che si allontanano dall’Occidente piuttosto che essere capace di costruire realmente qualcosa di utile per una propria egemonia. Bisognerà vedere se questa strategia continuerà ad essere perseguita dopo passata la tornata elettorale, quella del 4 dicembre e quella presidenziale del 4 marzo prossimo. Insomma, bisogna prendere atto della voce grossa che la Russia ha ricominciato a fare, ma bisognerà vedere dove porterà. La Russia si era opposta come noto alla guerra in Iraq e anche in modo diverso all’intervento in Afghanistan. Così ora si è opposta all’intervento in Libia che ancora nelle scorse settimane, dopo la morte di Gheddafi, ha criticato pesantemente. E ha persino preso posizione contro la Primavera araba, considerata con sospetto e soprattutto come un’espressione da un lato delle spinte occidentali e dall’altro come terreno fertile per il pericolo fondamentalismo islamico. E sulla scia di queste prese di posizione la Russia sta tornando a usare con forza una delle poche armi indiscusse che le rimane: il potere di veto all’Onu, esercitato con costanza persino contro le sanzioni a Teheran e Damasco. La scelta è quello di esercitarlo a tutela ad esempio di Iran e Siria, e questa scelta è senz’altro rischiosa, perché se da una parte dà un ruolo alla Russia in chiave alternativa all’Occidente, dall’altra però schiera la Russia a finaco di realtà da un lato difficili da sostenere (basti pensare a quanto sta accadendo con la repressione in


Siria e con il programma nucleare iraniano, contestati sia a livello internazionale che a livello arabo), d’altro lato da considerarsi non più Paesi satelliti e dipendenti, ma se vincitori delle loro sfide potrebbero diventare soggetti di una potenza mediorientale sull’asse Teheran-Baghdad-Damasco, ostile senz’altro all’Occidente ma certo anche poco addomesticata alla Russia. Intanto comunque, andando controcorrente al sentimento più diffuso anche in Medio Oriente, la Russia ha inviato persino navi da guerra nel Mediterraneo da stanziarsi proprio nel porto siriano di Tartus. Non solo. La Russia si è affrettata a rimettere in pista l’ipotesi di schierare missili nell’enclave europea di Kaliningrad, per aggirare il progetto di scudo antimissile della Nato e la presenza di navi Nato nei Mari del Nord. Allo scopo, giusto prima delle elezioni, è stato attivato anche un comando spaziale. E proprio allo Spazio la Russia ha guardato per ampliare le proprie ambizioni, però anche lì i risultati sono stati quanto meno controversi. È sostanzialmente fallito l’invio della sonda su Marte, e anche i lanci di alcuni satelliti non hanno avuto il pieno successo sperato, anche se altri sono andati bene e in particolare quelli rivolti ad accreditarsi per questo mercato verso la Cina. È poi ripartita una missione della Soyuz verso la Stazione Spaziale, trasporto di cui al momento la Russia è monopolista. Infine si pensi a tutto il problema energetico e al risiko dei gasdotti, forse la partita più decisiva per la Russia e i paesi acquirenti, a partire dall’Europa, con cui Mosca ha problemi aperti. D’altro canto siamo in un sistema di interdipendenza. La Russia controlla rubinetti energetici tra i più importanti in assoluto, ma a sua volta gran parte del suo reddito deriva dalla possibilità di trovare acquirenti. E bisogna tener conto che la Cina si è premurata di coprire le sue necessità con un accordo col Turkmenistan che rende meno indispensabile la Russia. Un equilibrio di forze quindi costantemente mutevole. Insomma, sono molti i tavoli su cui la Russia vuole rialzare la testa, ma al contempo sono molte anche le sue debolezze.


Risk

S

cenari

AF-PAK

SIGNORI, L’ODIO GENERA ODIO DI

AHMED RASHID

ello shock seguito ni di supporto da parte dei agli attacchi dell’11 servizi di intelligence pakisettembre 2001, gli stani. Erano una sparuta miamericani si sono chiesti molnoranza nel Pakistan del temte volte: «Perché ci odiano po, popolato da 150 milioni così tanto?». Non era chiaro di persone. Ai loro occhi, chi fossero “coloro” che l’America era una potenza odiassero – musulmani, araimperialista, oppressiva, pabi o semplicemente chi non gana, proprio come l’Unione fosse americano. La risposta Sovietica che avevano sconpiù semplice, che molti stafitto in Afghanistan. tunitensi trovavano rassicuOra, con gli Stati Uniti sul rante, era altrettanto vaga: punto di entrare nell’undiceL’ondata di anti-americanismo erano “quelli” gelosi della simo anno della più lunga (e anti Occidente) sta montando tanto ricchezza, delle opportunità, guerra da essi mai combattuin Pakistan quanto in Afghanistan, della democrazia americane ta, molti dei miei vicini in Papersino tra i tanti che un tempo ammiravano gli Usa. Il risentimento e di quant’altro sia connesso kistan si sono uniti alla lista deriva dal fatto che i piani per portare a tutto ciò. Ma in questa pardei detrattori degli Stati Unipace e sviluppo in Afghanistan sono falliti, le uccisioni continuano, te del mondo – in Pakistan, ti. L’ondata di anti-americae che per giustificare i propri fallimenti dove vivo, e nel limitrofo Afnismo sta montando tanto in gli americani hanno ora esteso ghanistan, da cui gli attacchi Pakistan quanto in Afghaniil conflitto in Pakistan dell’11 settembre sono stati stan, persino tra i tanti che un guidati – coloro che detestatempo ammiravano gli Stati vano l’America erano molto più identificabili, e al- Uniti e, a dirla tutta, la ragione di ciò appare semplitrettanto lo erano le loro motivazioni. Essi erano un ce: il risentimento comune deriva dal fatto che i piapiccolo gruppo di estremisti islamici che parteggia- ni americani miranti a portare pace e sviluppo in Afvano per al Qaeda; un gruppo più ampio di studen- ghanistan siano falliti, le uccisioni continuino, e che ti che frequentavano le scuole coraniche, che si era- per giustificare i propri fallimenti gli americani abno ingrandite rapidamente a partire dagli anni ‘80; biano ora esteso il conflitto in Pakistan, riportando e giovani militanti ai quali era stato reso possibile alla mente quanto fecero negli anno ‘60, quando la combattere contro l’India in Kashmir grazie ad an- guerra del Vietnam esondò nel Laos ed in Cambo-

N

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scenari gia. Inoltre, mentre i pakistani periscono per una guerra americana, Washington ha concesso accordi di favore all’arcinemico del Pakistan, l’India. Questi sono i fatti. I più belligeranti detrattori dell’America vi diranno che gli americani sono degli imperialisti che odiano l’Islam, e che il cosiddetto istinto civilizzatore degli americani non ha niente a che vedere con la democrazia o i diritti umani. Un punto di vista politicamente più avveduto vuole che il detrattore non odi gli americani, ma solo le politiche che i loro leader perseguono. Ma entrambe le fazioni si sentono intrappolate: l’Afghanistan è ancora invischiato nella guerra, ed il mio paese è sull’orlo del tracollo. Vi è pertanto un qualcosa che va ora oltre il semplice disprezzo per l’America. Abbiamo così iniziato a porre la questione dell’11 settembre da un’ottica opposta: perché gli americani ci odiano così tanto? Dieci anni sono un periodo lungo per una guerra, durante il quale doversi confrontare con la minaccia di attacchi terroristici. È un periodo lungo, scandito da un’alleanza non equilibrata in cui la battaglia si fa sempre più dura e foriera di divisioni, in special modo per il partner più debole, sul cui suolo il conflitto si dispiega. Sotto tale prolungata pressione, i risentimenti circa le intrusioni, i calcoli errati e le prestazioni deludenti riconducono a passi da gigante ad un assunto: che gli americani debbano odiare i pakistani poiché altrimenti essi mai li tratterebbero con tale mancanza di considerazione, mai serberebbero un’opinione talmente negativa o diffiderebbero di loro in tal misura. Gli statunitensi non dovrebbero essere poi così sorpresi da ciò. La guerra ridimensiona tutti e tutti gli stati, anche quelli vincitori, e ciò è particolarmente vero se un conflitto è caratterizzato da promesse non mantenute e speranze infrante, sospetti di tradimento, e scoramento nei confronti di un alleato. Per coloro che vivono in mezo a tale teatro di guerra, la litania delle delusioni è lunga. Forse la più grande promessa fatta dopo l’11 settembre dal presidente George W. Bush e dal primo ministro britannico, Tony Blair, fu che l’Occidente non avrebbe più tollerato stati fal-

liti o in via di fallimento o l’estremismo. Oggi esistono più stati falliti quanto mai prima si era potuto testimoniare; il messaggio di al Qaeda ha messo radici in Europa, in Africa e nell’entroterra americano; ed ogni religione e cultura sta producendo i propri estremisti, siano essi affini all’islamismo o ad esso reazionari (basti menzionare il massacro che ha di recente sconvolto la Norvegia). Carestie, fame, povertà e fallimenti economici sono aumentati oltre misura, almeno in questo angolo di mondo, dove i piani per l’11 settembre furono orditi, mentre i cambiamenti climatici hanno prodotto enormi alluvioni e la siccità genera indicibili miserie per milioni di persone in luoghi inaspettati. Ciò non rappresenta una conseguenza dell’11 settembre; ma, nelle menti di molti, le catastrofi che ci troviamo ad affrontare costituiscono un prodotto delle guerre ingaggiate dagli Stati Uniti e dal fatto che essi abbiano allontanato la propria attenzione da problematiche veramente universali. In ciò, anche l’America è una vittima delle sue guerre e dei cambiamenti globali che non saputo affrontare. Delle due invasioni – Iraq e Afghanistan – e dell’operazione di salvataggio di uno stato, il Pakistan, in cui gli americani si sono impegnati nel decennio appena trascorso, il più lampante fallimento americano è stato la sua incapacità di ricostruire gli stati e le nazioni in cui è andata in guerra. Lo state-builiding consiste nel creare istituzioni ed una governance che possono non essere esistite in precedenza, come in Afghanistan, o che sono state nelle mani di spietati dittatori, come in Iraq. Il nation-building si incentra sul sostegno ai paesi al fine di sviluppare una coesione nazionale, come in Iraq ancora si fatica a fare e come il Pakistan non si è riuscito a fare sin dalla sua creazione. Tale processo non viene perseguito con la forza bruta, bensì sviluppando l’economia, la società civile, i livelli d’istruzione e le competenze. Sia lo state- che il nation-building erano termini connotati da un’accezione non positiva durante l’amministrazione Bush. Sebbene tale connotazione sia leggermente migliorata con l’amministrazione Oba59


Risk

Un recente rapporto del Congresso afferma che gli Stati Uniti hanno sprecato almeno 31 miliardi di dollari nella stipula di contratti in Iraq ed Afghanistan. Ed in Pakistan, la popolazione non sembra vedere benefici economici durevoli dai 20 miliardi di dollari che Washington ha speso nel Paese dal 2001. Ha acquistato molti equipaggiamenti militari, ma non ha costruito nessuna diga o università ma, essi non vengono più utilizzati per descrivere la strategia di del Presidente statunitense in Afghanistan o Pakistan. Tuttavia, la tanto decantata strategia di controinsurrezione del Generale David H. Petraeus finalizzata a sconfiggere al Qaeda dipende in enorme misura dal miglioramento della governance, dalla ricostituzione delle istituzioni quali l’esercito locale e le forze di polizia, al conferimento al popolo della possibilità di avere un futuro – in altre parole, state- e nation-building. Tuttavia, malgrado i miliardi di dollari spesi in tale strategia, l’agenda sociale dell’America si è ridotta e le politiche generali sono rimaste nelle mani dell’esercito americano e della Cia, per i quali la controinsurrezione costituisce essenzialmente uno strumento militare. In Afghanistan, i raid notturni e le uccisioni mirate condotti dalle Special Operations Forces statunitensi e gli attacchi con i droni da parte della Cia hanno sostituito i bombardieri B-52 post 11 settembre in quanto strumenti preferiti per decimare i talebani. La 60

definizione dell’obiettivo è più precisa, ma i costi in termini di perdite tra i civili sono ancora troppo alti per poter essere sopportati dalle popolazioni locali. Ora gli afghani manifestano per le strade ogni volta che un civile rimane ucciso. In Pakistan, gli attacchi con i droni hanno fatto infuriare l’intera popolazione, in quanto nessuno può valutare la loro efficacia nell’eliminare al Qaeda o i Talebani. Lo scorso giugno, John O. Brennan, consulente per l’antiterrorismo del Presidente Obama, ha affermato che per un anno “non si è verificato nessun decesso collaterale” come risultato degli attacchi con i droni. Pertanto la Cia può affermare che i droni abbiano ucciso 600 militanti e non un solo civile; ma gli afghani potranno mai crederci? Il Pakistan ha chiesto che gli attacchi con i droni cessino, e gli afghani hanno chiesto di porre fine ai raid notturni. Ma sinora gli americani non hanno accondisceso. E l’anti-americanismo trova terreno fertile. Gli Stati Uniti hanno invaso sia l’Afghanistan che l’Iraq senza nemmeno un piano su come governare quei paesi. In entrambi i casi, le direttrici politiche sono state elaborate con improvvisazione, e buona parte di esse è stata inizialmente implementata in segreto – un modo sicuro per evitare di consegnare il potere al popolo. Gli ex signori della guerra, di cui i talebani si sbarazzarono negli anni ‘90, sono ritornati sulla scena grazie alla Cia. Hanno intrapreso la propria metamorfosi, come bruchi che si tramutano in farfalle, da signori della guerra ad affaristi, trafficanti di droga, appaltatori dei trasporti, magnati immobiliari. Ma sotto il nuovo vestito di Armani c’è lo stesso signore della guerra odiato dal popolo. Pertanto gli afghani incolpano gli statunitensi per aver risvegliato i loro tormentatori dormienti. La corruzione dilaga, ma non solo perché i governanti sono cleptomani. Gli Stati Uniti devono assumersi la maggior parte della colpa per aver concesso contratti sontuosi alle persone sbagliate, tralasciando responsabilità e trasparenza, ed arricchendo solo pochi piuttosto che ricostruire un’economia. Tutti questi fallimenti – signori della guerra, corruzione, vittime civili – hanno alimentato la nuova e pericolosa on-


data di anti-americanismo. Nel frattempo, gli aiuti e lo sviluppo economico americani in Pakistan e Afghanistan hanno puntato a “progetti a impatto rapido”, intesi a conquistare cuori e menti, ma che, come i fiocchi d’avena, si dissolvono rapidamente. La vera priorità, consistente nell’aiutare tali stati a sviluppare un’economia autoctona e creare posti di lavoro per sostituire la coltivazione dell’oppio ed il contrabbando nelle aree rurali, dove l’autorità del governo è debole, è stata lasciata al caso. Certo, l’esercito statunitense è diventato un datore di lavoro, ma l’Afghanistan entrerà in una fase di turbolenza economica quando 100.000 soldati statunitensi lasceranno senza lavoro decine di migliaia di afghani ora alle loro dipendenze.

Un recente rapporto del Congresso statunitense afferma che gli Stati Uniti hanno sprecato almeno 31 miliardi di dollari nella stipula di contratti in Iraq ed Afghanistan. Ed in Pakistan, la popolazione non sembra vedere benefici economici durevoli dai 20 miliardi di dollari che Washington ha speso nel paese dal 2001. Ha acquistato molti equipaggiamenti militari, ma non ha costruito nessuna diga, o università, o centrale elettrica. L’esercito pakistano ha tratto beneficio da tali acquisizioni, ma ritiene di non essere mai stato consultato a sufficienza dagli Stati Uniti e di non essere mai stato considerato un vero alleato. Prendendo le mosse da tali presupposti, esso si è tutelato sostenendo tanto il Presidente Bush quanto la montante insurrezione talebana, ed ha continuato su tale linea dopo che il Presidente Obama è giunto alla Casa Bianca. Nel corso del conflitto, nel timore che gli Stati Uniti trattassero l’India come il vero alleato, ha sovvenzionato gli estremisti che aveva addestrato negli anni ‘90 per combattere il suo più grande vicino. Ma nulla rimane fermo, e l’esercito ha perso il controllo quando gli estremisti si sono trasformati nei talebani pakistani ed hanno iniziato a puntare al cuore dello stato stesso. Il Pakistan, che è ora il quarto stato più grande al mondo armato con testate nucleari, è stato grave-



dossier mente destabilizzato dal proprio coinvolgimento nelle guerre in Afghanistan. Tale processo non ebbe inizio 10 anni or sono. Esso dura da tre decenni. La guerra degli anni ‘80 contro l’Unione Sovietica venne alimentata dagli operativi della Cia, dal denaro saudita e dall’Inter-Services Intelligence (Isi) pakistana. Fucili Kalashnikov, droga, scuole coraniche e divisioni settarie proliferavano allora, mentre il Pakistan era guidato da una dittatura militare sostenuta dagli Stati Uniti. Dall’11 settembre in poi, il Pakistan è stato nuovamente destabilizzato dall’insurrezione in Afghanistan, e per la maggior parte di tale periodo è stato guidato da una dittatura militare sostenuta dagli Stati Uniti. Naturalmente, esiste il rovescio di questa medaglia di anti-americanismo. I leader tanto dell’Afghanistan quanto del Pakistan hanno ritenuto conveniente giocarsi la propria sopravvivenza politica o giustificare i propri errori. Il presidente afghano, Hamid Karzai, è diventato un maestro nel versare lacrime per descrivere l’ultima perfidia americana, mentre al contempo si rivela incapace di combattere la corruzione o di garantire un briciolo di buon governo. Similmente, l’esercito ed i vertici dell’intelligence pakistani riferiscono regolarmente ai media ed ai politici sulla lunga sequenza di tradimenti americani, sull’amore di Washington per l’India e su come il Pakistan sia rimasto intrappolato in tale relazione. Questi sono racconti falsi – benzina gettata per alimentare la domanda «Perché gli americani ci odiano?» – ma che sono penetrati nella psiche nazionale, nei media e nel dibattito politico, ed il controbatterli non è impresa facile. Ciò avviene perché gli obiettivi di sicurezza nazionale dell’esercito, che molti pakistani ancora accettano come questione d’identità nazionale, affondano le proprie radici nel secolo scorso, piuttosto che in ciò che sarebbe necessario oggi. Essi sanciscono che l’esercito debba mantenere uno stato di perenne inimicizia con l’India, un’influenza decisiva in Afghanistan ed il dispiegamento di estremisti islamici o di attori non statuali come strumento di politica estera nella re-

gione; e che debba fare la parte del leone tanto nel bilancio nazionale quanto nel controllo delle armi nucleari del paese. I tentativi americani di cambiare tale corso con il bastone o la carota sono stati respinti, mentre il governo civile si rannicchia nelle retrovie, indesideroso di rimanere calpestato dai quei due elefanti rappresentati dalle volontà americana e dell’esercito pakistano. Nel frattempo, le voci di estremismo traducono l’anti-americanismo in denunce di quegli ideali tanto cari agli statunitensi: democrazia, liberalismo, tolleranza e diritti delle donne. Di questi tempi, tutti vengono indicati come concetti americani o occidentali, e liquidati.

I pakistani hanno un disperato bisogno di una nuova narrativa – che sia onesta circa gli errori che i loro leader hanno commesso e continuano a commettere. Ma dov’è la leadership per raccontare la storia come essa dovrebbe essere raccontata? L’esercito si trincera dietro il suo antiquato modo di pensare poiché nessuno è in grado di offrire un’alternativa. E senza un’alternativa, niente migliorerà nel lungo periodo, in quanto i governi statunitense e pakistano sono in un certo senso l’uno il riflesso dell’altro. Gli americani hanno permesso al proprio esercito ed alla Cia di dominare il processo di elaborazione politica a Washnigton sull’Afghanistan e sul Pakistan, proprio come l’esercito pakistano e l’Isi dominano il processo decisionale ad Islamabad. Sin dalla morte l’anno scorso di Richard C. Holbrooke, che si era votato alla creazione di una strategia atta a rafforzare il processo di elaborazione politica statunitense, ma che il presidente Obama sembrava ignorare, non vi è stata nessuna strategia politica americana per il Pakistan o l’Afghanistan. Dopo dieci anni, dovrebbe essere chiaro che le guerre in questa regione non possono essere vinte esclusivamente con la forza militare, né il processo di elaborazione politica possa essere lasciato ai generali. La questione su chi odi chi diventerà più ardua da dirimere fino a che il conflitto non si concluderà ed il processo di guarigione potrà avere inizio. 63


lo scacchiere

Unione europea /sicurezza dei confini:

nuovi poteri per frontex

Per fermare le carrette del mare non servono altri carrozzoni DI ALESSANDRO MARRONE

n un periodo storico in cui l’Ue – e in particolare la zona euro – sembra in bilico tra implosione e ulteriore integrazione, la gestione della sicurezza dei confini dell’Unione compie un passo in avanti verso una maggiore cooperazione. Lo scorso 10 ottobre il Consiglio dell’Ue ha infatti adottato nuove regole che rafforzano i poteri, le competenze e le risorse di Frontex, (acronimo accattivante per un nome prolisso quale “Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea”). L’agenzia, costituita nel 2004, ha a che fare con una situazione piuttosto unica al mondo: un’area di libera circolazione, la cosiddetta “area Schengen”, che include 25 paesi europei (inclusi sia membri dell’Ue che paesi terzi) e mezzo miliardo di cittadini, con circa 8.800 km di confini terrestri e poco più di 42.600 km di confini marittimi che nel 2009 sono stati attraversati da oltre 300 milioni di persone. Come in altri casi di istituzioni europee, particolarmente nel settore sicurezza e difesa, Fron-

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tex è nata con poteri e risorse estremamente limitati, anche per tutelare le sovranità nazionali su un tema ritenuto sensibile.

Non a caso nel 2005 il primo budget annuale di Frontex contava solo 6 milioni di euro. E come accaduto in precedenza nel processo di integrazione europea, anche la nuova agenzia sta progressivamente accrescendo il suo ruolo soprattutto in virtù della necessità di affrontare a livello continentale problemi comuni che non si è più in grado di gestire efficacemente a livello nazionale. Ad esempio, a inizio 2011 Frontex ha dispiegato al confine greco-turco e a Lampedusa due piccole missioni operative di supporto alle autorità nazionali, alle prese con una massiccia pressione migratoria ai propri confini, ed ha aperto un ufficio regionale in Grecia avvicinandosi anche simbolicamente all’epicentro mediterraneo del problema del border control. Anche a causa di queste nuove attività operative, il budget 2011 di Frontex è stato aumentato a 130 milioni di euro. In questo percorso di graduale crescita si colloca la decisione del Consiglio, frutto a sua volta di un compromesso con il Parlamento Europeo raggiunto lo scorso giugno. Le nuove regole riguardano aspetti operativi importanti quali i compiti, le responsabilità e i meccanismi di comando e controllo ai vari livelli, e la composizione degli European Bor-


scacchiere

der Guard Teams dispiegati da Frontex in operazioni autonome o congiunte con gli stati membri. Sono state chiarite anche questioni riguardanti la giurisdizione applicabile durante le operazioni di Frontex, e le procedure di monitoraggio delle attività e di esame di eventuali incidenti che dovessero accadere. Altre technicalities necessarie per il funzionamento pratico dell’agenzia sono state definite per quanto riguarda il trattamento dei dati personali, ad esempio degli immigrati clandestini fermati dai team di Frontex, e la loro condivisione con Eupol e altre agenzie nazionali o europee incaricate del contrasto alla criminalità e/o ai traffici illeciti. Per quanto riguarda gli equipaggiamenti, le nuove regole permettono a Frontex di comprare e di prendere in leasing, autonomamente o in comproprietà con uno stato membro, asset necessari alle sue operazioni, quali ad esempio elicotteri o veicoli.

Inoltre, gli stati membri ora possono distaccare del personale dalla propria polizia di frontiera presso Frontex, e mettere a disposizione parte dell’equipaggiamento nazionale secondo un piano concordato con l’agenzia ogni anno. A sua volta l’agenzia ha ora il potere di inviare liason officer e fornire assistenza tecnica a paesi terzi, attività importante si pensa ad esempio ai paesi della sponda sud del Mediterraneo da cui transitano o partono flussi migratori diretti verso l’Ue. Secondo le nuove regole Frontex acquisisce anche maggiori poteri nell’organizzare il rimpatrio degli immigrati clandestini fermati alle frontiere dell’Unione. Infine, Frontex accresce le proprie competenze anche rispetto a training del personale impiegato nel controllo dei confini, e all’attività di ricerca, monitoraggio e risk analysis su temi e/o aree regionali rilevanti per i compiti dell’agenzia. Nel complesso, le nuove norme

mirano a rendere l’agenzia più funzionale ed efficace a livello operativo, piuttosto che a rivoluzionarne la natura o la collocazione istituzionale nel quadro dell’Ue.

Questo approccio meno astratto e ideologico, si spera non casuale, risponde forse alla consapevolezza che, specie in temi di scarse risorse economiche, il valore aggiunto delle istituzioni europee non sta nella duplicazione delle analoghe strutture nazionali. Né sta nella loro sostituzione, considerando sia l’estrema diversità di tutti i fattori – di sicurezza, geografici, economici, culturali – tra i paesi membri, sia l’assenza di una soluzione universale in grado di risolvere problemi sì comuni ma che si declinano in modo diverso in Europa, come può essere diverso il problema del border control per Italia e Lussemburgo. Il valore aggiunto delle istituzioni e agenzie Ue come Frontex sta piuttosto nella capacità di coordinamento e messa in rete delle realtà nazionali, per un loro utilizzo sinergico, efficace ed efficiente. Ciò presuppone un approccio pragmatico, caso per caso, per decidere quale grado e tipo di cooperazione e/o integrazione sia maggiormente in grado di perseguire gli interessi comuni, che nel caso di Frontex sono chiaramente quelli di maggiore controllo e sicurezza dei confini dell’Ue in particolare rispetto all’immigrazione clandestina. In quest’ottica andrebbe considerato se e quanto il personale dell’agenzia andrebbe aumentato rispetto ai 300 effettivi attuali. Per fermare le carrette del mare, non servono altri carrozzoni. 65


Risk

Americhe/Il brasile affitta la savana La nuova frontiera agricola di Dilma Rousseff è in Mozambico DI

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RICCARDO GEFTER WONDRICH

uando si parla di land grabbing - l’acquisto o la concessione di terreni in un altro Paese per la produzione di alimenti e biocarburanti- il pensiero va all’Africa sub-sahariana, al Sud-Est asiatico e ai crescenti investimenti cinesi, coreani, indiani e dei Paesi del Golfo Persico in queste aree del mondo. Da un lato, grandi estensioni di terre poco utilizzate, economiche e ricche d’acqua; dall’altro, Paesi con importanti disponibilità di capitali, non autosufficienti dal punto di vista alimentare. L’accaparramento della terra ha assunto grande visibilità dopo la crisi dei prezzi degli alimenti del 2007 e 2008. Prima gli investimenti erano del settore privato in colture tropicali da reddito. Oggi assistiamo ad accordi tra governi, partnership pubblico-private, investimenti di fondi sovrani che finanziano la produzione di cereali per l’alimentazione umana e animale. Un’opportunità per lo sviluppo agricolo dell’Africa sub-sahariana: aumentare la produttività agricola è fondamentale per ridurre la povertà e la fame. Un rischio, tuttavia, per le popolazioni locali, che possono perdere il diritto all’accesso e al controllo di terre da cui dipende la loro sussistenza. Ora il gruppo dei Paesi che investono in agricoltura in aree emergenti ha acquisito un nuovo membro: il Brasile. La novità non è di poco conto. In tutti gli altri casi, alla base degli investimenti sta l’erosione della fiducia nei confronti dei Paesi esportatori, che mette a repentaglio gli approvvigionamenti alimentari. Per il Brasile, invece, la cooperazione Sud-Sud è diventata parte integrante della politica estera, con speciale attenzione verso il trasferimento in Africa delle esperienze accumulate in campo agro-zootecnico. Il passaggio dai programmi di ricerca e formazione agli investimenti veri e propri era solo questione di tempo, mentre venivano aperte linee di credito agevolato per l’esportazione di macchinari. Lo scorso

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agosto si è quindi appreso che il governo mozambicano ha firmato un accordo con il Brasile per la concessione di 6 milioni di ettari - quasi tre volte la superficie della Lombardia - per 50 anni per coltivare cotone, soia e mais, a 10 euro l’ettaro e senza dazi per i macchinari. Con climi analoghi e suoli anche più fertili di quelli del cerrado - la savana - brasiliano, il Mozambico potrebbe ora diventare la nuova “frontiera agricola del Brasile”. Gli imprenditori del Mato Grosso si stanno preparando. L’accordo fa parte del progetto triangolare Brasile-MozambicoGiappone chiamato Pró-Savana, e prevede che il 90% del lavoratori assunti sia locale. In passato, il Paese africano aveva rinunciato a un accordo simile con la Cina, che prevedeva l’arrivo di migliaia di agricoltori cinesi. La vicinanza linguistica e culturale è certamente un punto a favore del Brasile, che ha più bisogno di accrescere le esportazioni che di ridurre la pressione demografica. Cooperazione e business, tecnologia e creazione di impiego, con il cotone e la soia destinati poi comunque verso i mercati cinese e mediorientale. In Mozambico due bambini su tre in ambito rurale vivono in stato di povertà assoluta e un terzo delle famiglie non dispone di sufficienti alimenti per il consumo quotidiano. L’accordo con il Brasile ha preceduto di poche settimane la scoperta di un enorme giacimento off-shore di gas da parte dell’Eni, e si somma agli investimenti esteri nel settore dell’energia idroelettrica, delle infrastrutture, minerario e forestale. Potrebbero aprirsi possibilità di sviluppo senza precedenti. La cautela è tuttavia d’obbligo: troppo spesso gli investimenti nel settore agricolo in Africa hanno peccato di trasparenza e sollevato pesanti interrogativi sulle ricadute sulle popolazioni locali. Il tempo dirà se questa nuova geometria di cooperazione Sud-Sud può diventare una formula efficace per lo sviluppo economico dell’Africa.


scacchiere

Africa/operazione in codice “linda nchi” Il Kenya invia i suoi soldati in Somalia: quale la posta in gioco? DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

l Kenya ha assunto una nuova immagine regionale ed internazionale con la decisione dell’invio di truppe nazionali nel territorio somalo. Chi dubitava delle capacità dei suoi soldati e del decisionismo dei suoi vertici militari è stato costretto a rivedere le sue posizioni. L’inizio dell’Operazione Linda Nchi (Protezione del territorio, in lingua swahili) nel sud della Somalia lo scorso 16 ottobre ha colto di sorpresa i partner dell’area, la popolazione locale ed i combattenti di Al Shabab. A distanza di alcune settimane, il quadro è tuttavia confuso e restano molte domande in sospeso. Alcuni esperti parlano di “errore strategico” e presagiscono una “Waterloo per le truppe kenyote”; all’opposto, altri analisti sottolineano il peso delle alleanze ed individuano un nuovo assetto per lo spazio orientale africano. Di certo, si profilano molti rischi all’orizzonte per il Kenya, le cui autorità potrebbero aver fatto un errore di calcolo - sul lungo periodo - nel rapporto costi/benefici. L’atteggiamento iniziale del presidente somalo Sheikh Sharif Ahmed di non riconoscimento e quasi di “sconfessione” dell’operazione ha creato subito confusione. A livello ufficiale il governo di Nairobi si è affrettato a dire che agiva per autodifesa, per punire gli autori dei rapimenti di alcuni operatori umanitari nelle aree di confine e che forniva l’addestramento alle truppe somale, ma ciò non ha placato le polemiche. Di fatto, la scelta non è sembrata tanto un’operazione concordata quanto una vera e propria invasione di campo. Nonostante le piogge, le truppe kenyote sono riuscite a farsi strada nella regione del Lower Jubba ed hanno ottenuto il controllo del porto di Kisimayo, impedendo sia il rifornimento di armi ad Al Shabab che i contatti con gruppi criminali locali. Un risultato indubbiamente di rilievo che permette il monitoraggio di una parte delle linee di comunicazione (quelle occidentali)… ma quanto può bastare? La costa somala è lunga1800 km ed il vero choke point non è nel-

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l’estremo punto meridionale bensì nel punto di incontro tra il Golfo di Aden ed il Mar Rosso. In questa prima fase, il governo di Nairobi si è avvalso non solo del contributo dell’intelligence americana e dell’uso dei famosi droni, ma anche del supporto logistico francese per il trasporto di materiale. Fino a dove possono spingersi tali collaborazioni? In questa fase pre-elettorale sia per Obama che per Sarkozy, non molto lontano. Epperò si deve considerare che Al Shabab sta manovrando nelle retrovie. Secondo alcune fonti locali i radicali starebbero addestrando giovani kenyoti per compiere attentati sul suolo nazionale e si sarebbero già mischiati tra la popolazione della regione centromeridionale somala. Non solo. Alcuni ribelli si sarebbero mossi verso i campi rifugiati situati nelle aree di confine tra Kenya e Somalia e sarebbero pronti ad operazioni kamikaze. Senza dimenticare la capacità del movimento ribelle di compiere azioni di guerriglia nonché la conoscenza minuziosa del territorio che permette l’organizzazione di imboscate contro i convogli delle forze Amisom. Tutto ciò dovrebbe indurre i responsabili kenyoti (il presidente Mwai Kibaki, il premier Raila Odinga, i ministri della Difesa, Muhammad Yusuf Haji, e della Sicurezza Interna, George Saitoti) a non sottovalutare il minimo dettaglio sul campo. La posta in gioco è chiara: eliminare dalla regione gruppi radicali che hanno collegamenti con Al Qaeda, stabilizzare la Somalia e far sì che essa non sia più il black hole della regione orientale africana. Per riuscire in questa impresa – a dir poco titanica – il governo di Nairobi non può giocare la partita da solo. Deve assicurarsi il sostegno dell’intera popolazione locale (non solo l’appoggio di qualche clan del Jubaland), integrarsi al più presto ai peacekeeper di Amisom e coordinarsi sul lungo periodo con le deboli autorità del governo di transizione somalo. Solo così potrà conquistarsi quel ruolo di leadership regionale a cui tanto aspira. 67


La storia

L’insurrezione che viene (ebbene sì) dal mare di Virgilio Ilari intervento occidentale nella guerra civile libica (2011) è stato, dopo il Kosovo (1999) e il primo Afghanistan (2001), la terza applicazione di un nuovo tipo di Blitzkrieg, in cui i nostri equivalenti dei vecchi Stuka hanno aperto la strada non ai panzer ma alle “tecniche” degli insorti, nel ruolo di “moltiplicatori di forza”. Almeno entro certi limiti le insurrezioni non possono essere simulate neppure da Al-Jazeera, ma il Potere Aereo finora incontrastabile sembra consentire alle Potenze Occidentali di dare supporto operativo a qualunque insurrezione potenziale senza bisogno di intervento terrestre diretto, a parte operazioni speciali, assistenza e ricognizione strettamente necessari per pilotare gli insorti e individuare gli obiettivi. Ovviamente il potere aereo non è ancora ubiquitario: ma qualche base aerea camuffata nel Fezzan potrebbe estendere il raggio operativo di Africom sull’Africa Centrale, rafforzando le linee di comunicazione strategica tra il Mediterraneo e l’Oceano Indiano in vista dell’imminente attacco alla Siria e all’Iran. Quanto meno un

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buon passo per controbilanciare muscolarmente la vellutata penetrazione cinese in Africa e realizzare la strategia disegnata da Cecil Rhodes all’epoca delle ferrovie e delle corazzate. L’immaculate intervention in Libya (come è stato sarcasticamente definito da George Friedman su Stratfor) è più coerente con l’ideologia delle contemporanee guerre occidentali di quanto sia stata la strategia realmente applicata a partire dal 2003 in Iraq and Afghanistan. Infatti la Dottrina Bush, influenzata da una sorta di trotzkismo “di destra”, giustificava la “Guerra al Terrore” come una prosecuzione della Crociata del 1941-45 per la Libertà e la Democrazia contro i “Nuovi Hitler”: ma una volta messi gli anfibi sul terreno iraqeno e afgano, la rapida e trionfale liberazione stile 1944-45 si è trasformata in una illimitata e stressante occupazione militare. Fa impressione leggere che l’esercito americano abbia ufficialmente ribattezzato l’intervento in Medio Oriente come the Long War (prendendo spunto dal fatto che si tratta della guerra più lunga della storia militare americana): con un’implicita quanto durissima, coraggiosa e pa-


Sir Robert Adair (1763 - 1855)

triottica presa di distanza dalla consunta etichetta pre- cidentale. Inoltre tutte le rivoluzioni e insurrezioni avsidenziale di “Guerra al Terrore”. venute dopo il 1945 all’infuori di quelle dell’Europa Il sostegno della Nato alla revanche della Cirenaica dell’Est erano contro l’occupazione o l’influenza ocex-britannica contro la Tripolitania ex-italiana è inol- cidentale (proprio quelle su cui l’Asse, razzista e imtre coerente col tradizionale stile di guerra occidenta- perialista peggio dell’Inghilterra, si era vanamente ille. Durante la seconda guerra luso di poter contare!). Di conmondiale gli Alleati sostennero seguenza durante la guerra L’Impero Occidentale, la resistenza e l’insurrezione nei fredda il pensiero strategico ocfondato dalla Gran paesi occupati dall’Asse: alcuni cidentale percepiva la guerra Bretagna e ereditato anni fa la casa editrice Thomson rivoluzionaria e di liberazione per bancarotta dagli Usa, Gale ha messo online (sia pure nazionale come guerra “sova prezzo proibitivo) circa 15.000 ha perduto con la caduta versiva” o “psicologica”, in uldocumenti concessi dai Natiotima analisi diretta dall’Urss e dell’Urss, il suo terzo nal Archives britannici (colleziodai partiti satelliti. Paradossale ultimo competitore ne Conditions and Politics in mente, la preoccupazione di globale dopo la Francia Occupied Europe 1940-45). potenziali insurrezioni comue la Germania. Tuttavia le resistenze antinazista niste spinse la Nato a immedee antinipponica erano troppo larsimarsi nella prospettiva delQuesto evento epocale gamente sostenute dall’Unione ha cambiato la posizione l’Asse e gli studi occidentali sovietica e dai partiti comunisti strategica dell’Occidente. sulla guerra non convenzionaper essere percepite come aspetle furono perciò focalizzati sulEcco come ti tipici dello stile di guerra ocla contro-insurrezione, inclusa 69


Risk ro su T. E. Lawrence e la guerriglia araba e durante la seconda guerra mondiale caldeggiava il sostegno alleato alla Resistenza contro l’occupazione dell’Asse. Nel 1967 metteva invece in guardia contro gli “inconvenienti” della guerra di popolo, citando il detto del Dottor Johnson che «il patriottismo è l’estremo rifugio dei delinquenti», e lodava il modo “relativamente umano” in cui i generali tedeschi avevano contrastato la resistenza nei paesi occupati (almeno in quelli dell’Europa occidentale). La caduta dell’Unione Sovietica, nel 1991, pose fine non solo alla guerra fredda ma pure a cinque secoli di lotta per il potere mondiale. L’Impero Occidentale, fondato dalla Gran Bretagna ed ereditato per bancarotta dagli Stati Uniti, ha perduto il suo terzo e ultimo competitore globale dopo la Francia e la Germania. Questo evento epocale cambiò la posizione strategica dell’Occidente. Nell’aprile 1999, compiendo mezzo secolo, l’Alleanza Atlantica si trasformò da regionale e difensiva in globale e offensiva. La riappropriazione dell’internazionalismo sovversivo da parte della Nato ebbe il vantaggio ulteriore di soggiogare la sinistra, che ha applaudito le bombe su Tripoli come un tempo i carri armati a Budapest. Nel frattempo la capacità occidentale di proiettare la forza oltremare evolveva dal Dominio del Mare al Dominio dell’Aria e dello Spazio, estendendo così le sue frontiere molto oltre “le coste del nemico” (la frase «le frontiere dell’Inghilterra sono le coste del nemico» fu coniata dall’ammiraglio Fisher, comandante della Royal Navy nella grande guerra). Tuttavia pure all’epoca del Seapower la capacità occidentale di sostenere e sfruttare le insurreun’approfondita analisi della guerra antipartigiana te- zioni aveva un raggio ben più lungo di quello di cui desca. Durante la guerra fredda e la decolonizzazio- disponevano le Potenze Continentali. La Prussia, l’Aune, ossia durante la felice Pentekontaetia del mondo stria e la Russia potevano attivare o sostenere resistencontemporaneo (che ho avuto la sfacciata fortuna di za e insurrezione solo all’interno delle loro frontiere godermi interamente), il mondo occidentale temeva, o al massimo nelle province confinanti: e in effetti lo non pianificava le insurrezioni! Nell’ottobre 1808 il fecero, con gli ussari invece dei marines. Sia la Spa“general somaro” Pietro Colletta poteva scrivere co- gna che la Francia usarono il loro limitato potere mame una constatazione banale che «la guerra dì’insur- rittimo per ricambiare l’Inghilterra con operazioni sovrezione (era) il sistema preferito dall’Inghilterra». Nel versive appoggiate dal mare (Sso) in Irlanda, Scozia, 1934 Sir Basil Liddell Hart pubblicava un capolavo- Canada e India. Considerate nel contesto delle guer70


storia re “mondiali” del Settecento, le Sso erano mere diversioni con scopi limitati. Il sostegno francese allo sbarco del “Bonny” Prince Charles in Scozia, concluso dalla disfatta giacobita a Culloden (1746), o quello inglese agli emigrati francesi di Quiberon (1795) rammenta lo sbarco degli esuli cubani alla Baia dei Porci (1961). Nondimeno, a partire dalla guerra della Grande Alleanza (1688-1697) l’Inghilterra si specializzò in questo tipo di diversioni. Non solo le forze terrestri e navali impararono dall’esperienza nelle operazioni combinate, ma svilupparono una serie di specifiche organizzazioni, armamenti e macchine: Joseph Robinson, ingegnere militare, pubblicò nel 1763, col titolo The British Mars, «parecchi schemi e invenzioni» di navi da ricognizione, trasporto, sbarco e bombardamento sottocosta, e macchine per l’assalto alle fortificazioni. La capacità tecnica della Royal Navy di operare sottocosta fu sfruttata più per le Sso che per il classico sbarco in forze. Diversamente dalle odierne operazioni sovversive appoggiate dall’aria (Aso), il raggio delle marittime (Sso) era limitato alle province costiere del nemico. Dopo il 1683, quando la Repubblica di Genova, bombardata dalla flotta francese, dovette cambiare padrone dalla Spagna alla Francia, l’impervio territorio della “Superba” fu il maggiore ostacolo geo-strategico alla cooperazione tra la Mediterranean Fleet (creata nel 1690) e l’Armata sabauda, impedendo così lo sfruttamento strategico delle insurrezioni avvenute nella Francia del Sud-Est, quella ugonotta del 1702-1715 e quella realista del 1793. Nel 1708 le forze terrestri alleate fallirono il tentativo di prendere Tolone e nel 1793 non poterono mantenerla sotto la controffensiva repubblicana. Nel 1746 e ancora nel 1800 la tenace resistenza di Genova, sotto i comandanti francesi Richelieu e Masséna, indebolì la cooperazione terrestre-marittima alleata e vanificò pure gli effetti delle insurrezioni contadine scoppiate nel 1799-1800 lungo gli Appennini liguri (vero fulcro strategico della guerra partigiana pure nel 1944-45). Tuttavia, come dimostrò Julian Corbett studiando il periodo 1603-1714, il Mediterraneo fu il fronte decisivo nella lotta anglo-francese per la supremazia mondiale. Le

Sir William Grenville (1759 -1843) capo del Governo di Tutti i Talenti

Cuthbert Collingwood, comandante della Mediterranean Fleet dal 1805 al 1810

teorie del Seapower e dell’approccio indiretto derivarono entrambe dallo studio della strategia navale britannica nelle guerre della Rivoluzione e dell’Impero francese. Prima di Mahan e Liddell Hart, la resistenza britannica contro Napoleone era classificata dai manuali di Sandhurst come strategia “Fabiana”, in riferimento alla cunctatio di Quinto Fabio Massimo contro Annibale dopo la Pugna Cannensis (216 a. C). In seguito la letteratura militare continentale preferì adottare il concetto di “logoramento” (Ermattung) applicato da Hans Delbrück alle strategie di Pericle nella prima fase della guerra del Peloponneso e di Federico il Grande nella guerra dei Sette Anni. Il termine “Fabiano” rimase tuttavia nel vocabolario militare anglosassone e la Fabian Society, fondata nel 1884, fu chiamata così proprio per sottolineare il rifiuto di realizzare il socialismo attraverso la scorciatoia rivoluzionaria. Durante la guerra mondiale del 1792-1815 le Sso persero gradualmente il loro carattere di diversioni tattiche, diventando una vera strategia, anzi un aspetto dell’ideologia politica “whig”. La prima esperienza della Mediterranean Fleet (sotto Sir Samuel Hood e poi Lord Jervis) fu con le due insurrezioni corse, nel 1794 contro la Francia e nel 1796 contro l’Inghilterra. La seconda, sotto Nelson, fu l’insurrezione anti-giacobina del 1799. L’Austria sostenne e sfruttò gli insorgenti in Piemonte, Liguria, Toscana, Romagna e Marche, con ufficiali di collegamento, picchetti di un reggimento speciale (8° ussari), tre flottiglie lacustri e due d’altura (in Adriatico e Alto Tirreno), mentre una flot71


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storia ta russo-turca (con ufficiali triestini e marinai dalmati) prese Corfù, cooperò con gli austriaci e gli insorgenti nell’assedio di Ancona, e sbarcò in Puglia un battaglione di marines entrato a Napoli e a Roma coll’Armata sanfedista del cardinale Ruffo. A sua volta la flotta inglese sostenne dal Tirreno la marcia dei Sanfedisti, fece impiccare Caracciolo, risalì il Tevere issando l’Union Jack sul Campidoglio e ottenne la resa di Portoferraio e di Malta bloccate dagli insorti. L’insurrezione italiana del 1799 ebbe dimensioni numeriche superiori a quelle della guerra partigiana del 1943-45 (che fu la più dura delle resistenze antitedesche nell’Europa occidentale): 100.000 insorgenti con 30.000 caduti in sette mesi in un territorio con 10 milioni di abitanti (l’intera penisola tranne il Triveneto allora austriaco), rispetto a 200.000 partigiani in 20 mesi e su 25 milioni. Ebbe inoltre effetti strategici assai importanti, indebolendo le retrovie francesi durante l’offensiva austro-russa dall’Adige alle Alpi, cancellando le repubbliche Napoletana e Romana e ritardando la marcia dell’Armée de Napoles, la quale non poté così raggiungere in tempo l’Armée d’Italie. Tuttavia i quartier generali della Seconda Coalizione e poi gli storici militari hanno dato poca attenzione alla lezione italiana del 1799. Una ragione è che gli Austriaci, Nelson e la Corte Siciliana temevano (come Liddell Hart nel 1967!) le terrificanti e incontrollabili conseguenze delle insurrezioni, e perciò si affrettarono a sciogliere le bande e perfino a cancellarne la memoria. Inoltre il 1799 italiano non fu una resistenza nazionale come poi quelle austriaca, portoghese, spagnola, russa, tedesca e olandese, ma piuttosto una feroce guerra civile e di classe tra contadini poveri che combattevano sotto la sanguinaria bandiera della Vergine e ricchi borghesi che combattevano meno per difendere la rivoluzione che la pelle e la roba. I Repubblicani chiamavano sé stessi “Patrioti” o “La Nazione”, e sostennero il “liberatori” francesi con almeno 30.000 uomini (in larga maggioranza soldati di mestiere, e pochi volontari politici). Furono sconfitti, perseguitati ed esiliati, ma la prima Restaurazione era troppo debole ed effimera per fare davvero i conti con la ribellione della classe dirigente. Gli

ex-repubblicani tornarono al potere tra il 1800 e il 1805 trasformandosi in Bonapartisti, e le riforme napoleoniche non poterono essere cancellate dalla seconda Restaurazione. La borghesia selezionata da Napoleone fu poi la classe dirigente del Risorgimento e fu lei a costruire sia la nuova identità nazionale sia la storiografia nazionale, ignorando, minimizzando o screditando la tenace opposizione legittimista. Durante la guerra della Terza Coalizione l’Austria tentò di provocate insurrezioni nelle retrovie dell’Armée d’Italie e chiamò la Landwehr nei suoi territori di frontiera. Austerlitz terminò la guerra in un lampo, ma l’entusiasmo patriottico del 1805 fu la premessa sociale e politica della resistenza nazionale del 1809 e 1813, quest’ultima estesa all’intera Germania. Clausewitz dedicò un capitolo del Vom Kriege all’armamento del popolo (Volksbewaffnung). L’epopea della Landwehr divenne una componente del Sonderweg tedesco, e fu sfruttata dalla propaganda nazisata quando gli Alleati entrarono nel territorio del Terzo Reich (v. Kolberg, il bellissimo film a colori diretto nel 1944 da Veit Harlan, che celebrava Gneisenau e la sua difesa del 1807, tra l’altro contro una divisione franco-italiana comandata dall’avvocato milanese Teulié). Nel 1963 Carl Schmitt analizzò tutto questo nella sua Theorie des Partisanen. Nel 1805, 1809 e 1813 la resistenza popolare coinvolse pure le province austriache ed ex-veneziane sull’Adriatico. Nel 1806-07 la Calabria, una mini-penisola, divenne il laboratorio di quella che possiamo chiamare “Peninsular warfare”, poi applicata dalla Royal Navy pure nelle altre due Penisole del Mediterraneo, l’Iberica e la Balcanica. Per darne un’idea essenziale avremmo bisogno di altre 5 o 6 pagine, cioè di un altro articolo. Per fortuna i lettori di Risk non ne hanno bisogno, perché conoscono ad nauseam sir Sidney Smith, Maida, Sir William Grenville, Sir Robert Adair, il governo di tutti i Talenti, la fregata che al largo di Anzio aspettava d’imbarcare Pio VII per porlo a capo di una crociata ecumenica contro The Monster; e poi Cuthbert Collingwood, Lord Bentinck, Nugent, la legione angloitaliana e ... No, signor ministro, non sto ancora parlando dei Mille! 73


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LA NASCITA DEL POTERE AEREO E DELLA GUERRA NEI CIELI di Mario Arpino

on L’aviazione italiana nella Grande Guerra, la già sostanziosa collana Testimonianze tra cronaca e storia: prima guerra mondiale dell’editore Mursia – si tratta di ben 42 libri già pubblicati – si arricchisce con un’opera fondamentale. Non tanto per lo spessore materiale del volume, si tratta di ben 578 pagine, quanto per l’accuratezza della ricerca e la cronaca “ragionata” degli eventi, che quindi non resta solamente tale ma si eleva, attraverso le valutazioni dell’Autore, a un misto tra Storia – quella con la “S” maiuscola – e Dottrina operativa e d’impiego. Che, spiega Di Martino, nei suoi principi generali – fatta salva la differenza dei mezzi, degli armamenti e della tecnologia – è rimasta concettualmente immutata da allora ai giorni nostri. «È nei cieli della Grande Guerra che vengono concepiti i concetti e le teorie che hanno guidato lo sviluppo dell’aviazione, mantenendo intatta la loro validità attraverso i tempi e contribuendo alla costruzione di un’identità fondata su una precisa competenza ambientale». Questo è l’incipit virgolettato della quarta di copertina, che rende perfettamente lo spirito con il quale l’Autore ha affrontato questa sua nuova fatica. Nella stessa pagina si orienta decisamente il lettore verso una corretta chiave di interpretazione, spiegando che la vicenda dell’aviazione italiana è una storia di uomini e di mac-

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BASILIO DI MARTINO L’Aviazione Italiana nella Grande Guerra, Mursia Editore pagine 658 • euro 26,00 L’Autore è generale di brigata del Genio Aeronautico, già collaudatore sperimentatore di sistemi elettronici di bordo presso il Reparto sperimentale di Volo dell’Aeronautica Militare. Nato a Roma nel 1957, ha frequentato l’Accademia Aeronautica con il Corso “Rostro 2°”, laureandosi in ingegneria elettronica e, successivamente, in scienze politiche presso l’università di Trieste. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni di storia militare e aeronautica, frutto di ricerche sulla Prima guerra mondiale.

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Risk chine in cui tecnologia e dottrina si rincorrono per creare una forza aerea «bilanciata in tutte le sue componenti», come si usa dire oggi dell’intero nostro apparato militare, in grado di svolgere al meglio i compiti dello scenario bellico. Mentre ancora si discuteva sulle teorie di Giulio Dohuet e sulle soluzioni del costruttore Gianni Caproni, i comandanti sul campo andavano già oltre, con un impiego dei mezzi secondo esigenza. Mentre la forza dei bombardieri fu finalizzata a contrastare la capacità operativa delle forze contrapposte, la maggior parte delle squadriglie operava a diretto supporto delle forze di terra, con compiti di ricognizione, osservazione, collegamento e attacco al suolo. Il tutto sotto la protezione di una caccia le cui tattiche cominciavano a superare l’ardimentoso l’individualismo dei primi giorni. Il libro, che – inutile dirlo – è stato accolto con grande favore nell’ambiente aeronautico ed in quello dei cultori della materia, ha già avuto numerose presentazioni ed è gia stato più volte recensito. Tuttavia la recensione più completa, quella maggiormente significativa in funzione della comprensione dello spirito dell’opera, sinora ci è sembrata quella apparsa sul numero quattro di quest’anno della Rivista Aeronautica, pubblicata a firma di Antonio Calabrese. Di seguito, con il permesso della Testata, vale davvero la pena riportarla integralmente. «Sull’impiego dello strumento aereo nel primo conflitto mondiale è stato scritto molto, come giustamente sottolineato dall’Autore, ma gli spunti di riflessione e l’analisi storica sono stati spesso condizionati dalla volontà dichiarata di soffermarsi su temi oltremodo affascinanti, ma pur sempre parziali come quello delle imprese degli assi della caccia o quello delle conseguenze delle prime campagne di ricognizione e bombardamento. L’analisi condotta dal Brigadiere Generale del Genio Aeronautico Basilio Di Martino, studioso e storico dell’aviazione, si pone invece l’obietti76

vo di cogliere la complessità del problema, come evidenziato nella presentazione del volume redatta dal capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Gen. S.A. Giuseppe Bernardis: “La modernità e l’attualità dei lavori di Di Martino consiste nel porre sempre il lettore su un osservatorio privilegiato dal quale poter avere una vista di dettaglio e d’insieme al tempo stesso, statica e dinamica, storica e moderna”. Si tratta, senza dubbio, di un punto di partenza obbligato per chiunque voglia approfondire la nascita del concetto di Potere Aereo attraverso lo scorrere lento del lungo conflitto e la trasformazione del rapporto con il volo, dagli albori pionieristici alle operazioni militari. La vicenda dell’Aviazione è una storia non solo di impavidi piloti, ma anche di ingegneri e di industriali in grado di dare concretezza al progredire della tecnica e alle aspettative che il nuovo mezzo aereo aveva suscitato in tutta Europa e negli Stati Uniti a partire dal 17 dicembre 1903. È facile comprendere come le iniziative per il potenziamento dell’Aviazione si intensificarono con lo scoppio del primo conflitto mondiale, soprattutto dopo gli avvenimenti delle settimane iniziali di guerra in cui la ricognizione aerea e l’osservazione del tiro avevano assunto una grande valenza operativa. La routine della guerra in trincea aveva dimostrato l’importanza di poter colpire in profondità nel territorio avversario, facendo emergere la necessità di procedere rapidamente all’ammodernamento del materiale di volo. L’Autore propone una ricostruzione di questi anni tormentati puntuale e dettagliata, analizzando le situazioni presenti su tutti i fronti dello scontro, descrivendo i diversi cicli operativi anche in considerazione delle condizioni atmosferiche, spesso proibitive, che in più occasioni vanificarono o resero più difficili le azioni degli aviatori. Un uso rigoroso delle fonti guida la narrazione, obiettiva e convincente, delle vicende storiche verso la crisi dell’autun-


libreria no del 1917 con la ritirata dalle posizioni del Grappa verso il mare e con il cambio dei vertici del Regio Esercito fra Cadorna e il tenente generale Armando Diaz. Ma le squadriglie italiane, pienamente integrate nel Regio Esercito, seppero sfruttare i fattori di superiorità sia tecnica sia organizzativa e ottenere l’indebolimento della capacità operativa dell’avversario». Basilio De Martino vuole e orientare personalmente il lettore che si accinge ad affrontare il percorso dell’opera con una propria introduzione, dove individua e fornisce la corretta chiave di interpretazione a tutti i momenti salienti del libro. Concetto chiave, cui si è già fatto cenno, è che nel 1918 tutte le modalità di impiego della nascente Aviazione erano già compiutamente definite, anche se solo più tardi – molto più tardi – venivano organicamente raccolte in veri e propri manuali, o analizzate in studi specifici. Nasceva, in altri termini, il concetto di “potere aereo”, oggi più propriamente denominato “potere aerospaziale”. Contraviazione, interdizione, appoggio aereo ravvicinato e – spiega l’Autore – anche missioni che oggi i manuali Nato classificano come Istar (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition, Reconnaissance) erano già concettualmente ben definite, così come la necessità di un sistema di Comando e Controllo idoneo a tradurre una pianificazione d’insieme centralizzata in missioni per le singole squadriglie. Altro non era se non l’emergere del concetto più generale di “unicità di comando” e “decentralizzazione del controllo”. Persino la “guerra psicologica” già trovava la sua prima applicazione in campo aeronautico. Infatti, tornando ancora alla recensione di Antonio Calabrese, è nell’agosto 1918 che si realizzò l’idea di portare le ali italiane sulla capitale asburgica, con D’Annunzio capo spirituale dell’impresa: «Il volo su Vienna, così come è passato alla storia – si legge fra le pagine del volume – può essere considerato un perfetto esempio di operazione di guerra psicologica il cui im-

patto fu notevole sia sul fronte interno, sia su quello esterno». Sulla base di questa approfondita indagine emerge il valore dell’apporto aeronautico alla vittoria italiana nella guerra e il tratteggiarsi, ancora in fieri, dei concetti e delle teorie che avrebbero guidato l’evoluzione dell’aviazione sino ai giorni nostri. Il volume cui, come accennato, viene dato un imprimatur simbolico dalla prefazione del Generale Giuseppe Bernardis, Capo di Stato Maggiore in carica dell’Aeronautica Militare, si articola in nove capitoli – l’ultimo è sull’aviazione navale dell’epoca – e dieci appendici, oltre a una significativa sezione fotografica, una sessantina di utilissime pagine di note e, per chi volesse ulteriormente approfondire, una ricca dotazione di fonti bibliografiche e di documenti istituzionali. Oggi, tutto ciò che accade in aeronautica e nello spazio non fa più grandi titoli. Ci siamo abituati all’eccezionale, e ogni progresso, ogni azione, ogni nuova impresa viene data per scontata. Ma non è sempre stato così. «Chi vuol fare l’aviatore, faccia un passo avanti!» Così si reclutavano piloti, osservatori, specialisti e tecnici ai tempi descritti da De Martino. Eppure, proprio l’esempio che questi uomini ci hanno offerto è diventato nostro patrimonio. È un assetto etico e culturale che lega strettamente storia, amore per il volo, spirito di servizio, operatività, efficienza e sicurezza. Quelle di questo volume sono pagine che, riferendosi ad un passato glorioso, parlano nella stessa linea di valori anche al presente, si rivolgono idealmente anche agli uomini di oggi, al loro lavoro ai più sconosciuto – da alcuni addirittura disconosciuto – alla loro dedizione, alla loro professionalità, alla loro modestia, alla capacità che hanno di garantire, con le risorse ed i mezzi disponibili, la continuità e l’efficacia del loro contributo. Sempre in silenzio, senza mai alzare il profilo. Conosco Basilio Di Martino, e credo che con il suo messaggio abbia voluto dirci anche questo. 77


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LA PATRIA PERDUTA DI SCERBANENCO

Testimone dell’attualità politica del suo tempo, lo scrittore fotografa il divario tra il sentire popolare italiano e la classe dirigente fascista e dove s’agita ogni creatura perché vive, sente reste del Buono definì Giorgio Scerbanenco o non compresa passione una «sorprendente macchina per fare storie». sul continente deserto d’amore. È vero, Giorgio Scerbanenco scrisse tanto e O Italia povera grande. cose più svariate e non sempre lavorò in condizioni di agio. Come accadde nel tempo della Seconda guerra Anche qui è chiaro l’eco della canzone leopardiana mondiale quando, sul finire del mese di settembre del che fa: Ecco io mi prostro/ O benedetti, al suolo/ ‘43, cercò riparo in Svizzera. In circa venti mesi, tra E bacio questi sassi e queste zolle/ un infarto, un ricovero e svariati incontri, scrisse tre Che fien lodate e chiare eternamente/ romanzi, tre racconti lunghi, un saggio di filosofia mo- Dall’uno all’altro polo. rale, articoli, poesie e un saggio storico o - come lo volle chiamare - «semipolitico» ora pubblicato per la Il saggio è un’efficace analisi della storia della psicoprima volta da Aragno: Patria mia. Riflessioni e con- logia popolare italiana di fronte al fascismo e alla Sefessioni sull’Italia. Andrea Paganini ha scovato l’ine- conda guerra mondiale. L’autore, testimone diretto deldito saggio e con una bella introduzione, dalla quale l’attualità politica del suo tempo, sostiene l’esistenza attingiamo le notizie, ne ha curato la pubblicazione. Il di un divario profondo tra il sentire popolare italiano titolo, oltre ad essere ispirato e richiamare chiaramen- e la classe dirigente fascista, che Scerbanenco condante il primo verso della canzone di Leopardi All’Italia na in toto: «È dai metodi di governo che si giudica un - «O patria mia, vedo le mura e gli archi…» - è una regime. Il fascismo si serviva della sbirraglia, dei ririvalutazione e rivendicazione del valore antifascista catti, dei delatori per poche lire». Il giudizio è prima delle parole nazionali come Patria e Italia. Lo scritto- di tutto morale: il criterio per scegliere con chi schiere si oppone al concetto teorizzato da Gentile secon- rarsi si basa sulla correttezza e l’onestà, non sulla viodo il quale “italiano” è sinonimo di “fascista”. Dice: lenza e il successo: «Il fatto che l’errore trionfi potrà «La parola Italia, continuamente ripetuta dal partito, essere politicamente utile a chi lo sostiene, ma non dava la nausea, non la si pronunciava più per non es- vuol dire, moralmente, che non sia più un errore. Il fasere confusi coi fascisti». Ma poi aggiunge: «Non era scismo e il nazismo possono anche trionfare, perpequella, davvero, l’Italia e la Patria nostra». Il sentimen- tuarsi per secoli, cambiare definitivamente il volto al to patriottico e il pensiero rivolto all’Italia accompa- mondo, ma questo non toglie che essi siano una pura gnarono tutto il periodo della vita da rifugiato politi- barbarie che un uomo civile deve rifiutarsi di riconoco di Scerbanenco. Prima della stesura del saggio “se- scere, sia nel complesso che nei particolari, nel tutto mipolitico” lo scrittore scrisse una bella poesia nella come nelle parti». In Svizzera lo scrittore s’incontrò notte di Natale 1944 intitolata Appello: con Indro Montanelli: entrambi erano ex collaboratori del Corriere della Sera. Scerbanenco era a Coira e Italia povera grande Montanelli a Davos, erano vicini e non potevano non O sconosciuta gente d’Italia incontrarsi. Anche Montanelli porta con sé un saggio o mia sensibile terra sull’Italia - o, meglio, un romanzo-saggio - intitolato dove le pietre soffrono Ha detto male di Garibaldi. Uscirà, a firma Calandridi Giancristiano Desiderio

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libreria no, sulla rivista Illustrazione Ticinese tra il 1° gennaio e il 12 maggio 1945 e provocherà un’aspra polemica in Ticino per il cinico realismo che lo contraddistingue. In realtà, il romanzo-saggio di Montanelli è un’autobiografia giovanile in cui il giornalista spiega che la sua opposizione al Fascismo ha un’origine diversa da quella dei vecchi antifascisti, perché è maturata «attraverso l’esperienza fascista, cioè dal di dentro». I due saggi sull’Italia e il fascismo dei due ex collaboratori del Corriere della Sera furono scritti indipendentemente l’uno dall’altro e, tuttavia, sembrano richiamarsi, anche attraverso le vicende biografiche dei due giornalisti, l’un l’altro. Lo scritto di Scerbanenco si distingue da altri saggi sul fascismo per tre motivi: fu scritto con la guerra ancora in corso e con Mussolini in sella alla Repubblica di Salò. Poi perché - come chiarisce Andrea Paganini la sua è un’illustrazione della mentalità collettiva che non si basa su una lettura politico-ideologica o classista del fenomeno fascista, bensì su un’interpretazione per certi versi vicina a quella di Benedetto Croce, che vi coglie una crisi di valori e una malattia morale. Inoltre, per il taglio stesso del saggio che evidenzia la psicologia e gli atteggiamenti popolari di fronte al regime mussoliniano e alla guerra. L’analisi di Giorgio Scerbanenco, però, basato sulla distinzione netta tra oppressori e oppressi, appare oggi semplicistica, trascura totalmente il fatto che il fascismo fu un fenomeno italiano, che lo stesso Mussolini godette di un ampio consenso, sottovaluta le responsabilità popolari. E, tuttavia, il valore del saggio è da ricercarsi altrove, soprattutto nella testimonianza e nella moralità dell’auto-

re: il saggio ci dice come un intero popolo possa essere umiliato e possa umiliarsi sotto una dittatura o un regime totalitario. È giusto accostare il saggio di Scerbanenco - come fa Paganini - al De profundis di Salvatore Satta. Così ancora una volta riemerge la patria e la sua morte che getta nello sconforto e ancor più nello smarrimento l’autore che diventa “esule” sia che si trovi all’estero, sia che si trovi in una patria ormai perduta se non morta. Giorgio Scerbanenco visse cinquantotto anni, morì nel 1969. Nei suoi diari - ora pubblicati con il titolo I conti con me stesso. Diari 1957-1978 - Indro Montanelli ci ha lasciato un ritratto (e una sua confessione) di Scerbanenco che a conclusione di questo “pezzo” vale leggere perché i due esuli non si rividero più: «Giorgio Scerbanenco è morto. Non lo vedevo da venticinque anni, da quando eravamo rifugiati in Svizzera. Ma se non proprio di dolore, provo una trafittura di rimorso. Forse sono il solo, o comunque uno dei pochi a essermi accorto che Scerbanenco valeva molto della quotazione, cioè della non-quotazione che la critica gli assegnava nella borsa dei valori letterari. Come costruttore di racconti, non era da meno di Moravia, e in quelli polizieschi era sul livello di Simenon. Eppure, non l’ho mai detto, non ho mai mosso un dito né speso una parola per riscattarlo dall’avvilente condizione di romanziere da rotocalco. E lui non me l’ha mai chiesto. È uno dei pochi autori che non mi hanno mai mandato i suoi libri né sollecitato una recensione. Questo ucraino cresciuto in Italia, più lungo e più secco di me, con un viso di cavallo stralunato, era un uomo pieno di dignità».

GIORGIO SCERBANENCO Patria mia Riflessioni e confessioni sull’Italia (a cura di Andrea Paganini) Aragno pagine 79 • euro 10 Scritto durante il suo esilio in Svizzera (1943-1945), questo saggio di Giorgio Scerbanenco vede qui la luce per la prima volta in volume e viene ad arricchire l’articolato mosaico della produzione letteraria di uno dei più prolifici scrittori italiani del Novecento. Si tratta di un’efficace analisi della storia della psicologia popolare italiana di fronte al fascismo e alla Seconda guerra mondiale. Concentrandosi sul comportamento delle persone, e non solo su questa o quella ideologia politica del passato, Patria mia assume un valore paradigmatico e non cessa di costituire un monito per i lettori del presente e del futuro.

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F I R M E

del numero

LUISA AREZZO: giornalista, esperta di affari internazionali MARIO ARPINO: generale, già capo di Stato Maggiore della Difesa OSVALDO BALDACCI: giornalista, esperto di politica estera GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore, ha curato il libro La libertà della scuola di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina OSCAR GIANNINO: giornalista economista. Scrive per numerosi quotidiani tra cui Panorama e Messaggero. Conduce su Radio24 La versione di Oscar VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai - Istituto Affari Internazionali nell’Area Sicurezza e Difesa ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista FIAMMA NIRENSTEIN: giornalista, vicepresidente della Commissione Affari Esteri e Comunitari della Camera dei Deputati. Membro della delegazione parlamentare italiana al Consiglio d’Europa e all’Ueo VALENTINA PALUMBO: ha collaborato con l’Istituto Italiano di Cultura di Tunisi per quasi due anni. Scrive per numerose riviste on-line soprattutto in materia di politica internazionale AHMED RASHID: giornalista ed autore di Taliban e Descent into Chaos STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai)

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Mario Arpino

Osvaldo Baldacci

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

MEDIORIENTE DUEMILAQUINDICI

Luisa Arezzo

20

2011

novembre-dicembre

numero 64 anno XII euro 10,00

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registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Nuovo Mediterraneo vecchia Europa Dopo le rivolte il vicino mondo arabo è ad una svolta. Che rischia di tagliarci fuori STEFANO SILVESTRI

risk

L’esproprio libico

Maria Egizia Gattamorta

Trascinata in una guerra ipocrita, l’Italia rischia perdite pesantissime MARIO ARPINO

Riccardo Gefter Wondrich

Le piaghe d’Egitto La via democratica si allontana mentre il “mare nostrum” si restringe OSCAR GIANNINO

Oscar Giannino

medioriente duemilaquindici

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Fiamma Nirenstein

Michele Nones

Valentina Palumbo

Ahmed Rashid

Stefano Silvestri

RISK NOVEMBRE-DICEMBRE 2011

Andrea Nativi

ecco come i leader della svolta cambieranno ogni equilibrio Viva la Nato (in mancanza di meglio) Andrea Nativi

Russia, non è ancora l’ora del cambiamento Osvaldo Baldacci

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