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Mario Arpino

Bernardo Cervellera

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

Maria Egizia Gattamorta

ONAMA-ROMNEY LA FORZA DELL’OCCIDENTE

Luisa Arezzo

24

2012

settembre-ottobre

numero 68 anno XIII euro 10,00

quaderni di geostrategia

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

La sfida dei candidati Tra declino e fragilità economica tutte le ricette per salvare il paese MARIO ARPINO

L’egemone riluttante

risk

Il futuro dei rapporti transatlantici nell’analisi dell’ambasciatore Usa un Italia DAVID H. THORNE

La lunga deriva Come le democrazie occidentali affrontano i problemi di economia e governance OSCAR F. GIANNINO

OBAMA-ROMNEY LA FORZA DELL’OCCIDENTE

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Lampi sul Mediterraneo

Oscar Giannino

Chiunque vada alla Casa Bianca dovrà tener conto che l’Europa è in pericolo GENNARO MALGIERI

Alessandro Marrone

Laura Quadarella

Stranamore

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David H. Thorne

RISK SETTEMBRE-OTTOBRE 2012

Gennaro Malgieri

LA CORSA ALLA CASA BIANCA, TRA CRISI ECONOMICA E RISCHIO ISLAMICO RIGUARDA TUTTI I nuovi martiri Bernardo Cervellera

Perché Cavour non è solo il demiurgo dell’unità italiana Giancristiano Desiderio

• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •


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68

quaderni di geostrategia

DOSSIER

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A

SCACCHIERE

La sfida dei candidati

Europa

Mario Arpino

Alessandro Marrone

R

I

O

L’egemone riluttante

Americhe

Intervista a David H. Thorne di Pierre Chiartano

Riccardo Gefter Wondrich

La lunga deriva

Africa

Oscar F. Giannino

Maria Egizia Gattamorta

Lampi sul Mediterraneo

pagine 64/67

Gennaro Malgieri

Gli Usa e la difesa prossima ventura Stranamore

LA STORIA Virgilio Ilari

I due presidenti

pagine 68/73

Luisa Arezzo pagine 5/47 • •

EDITORIALI

Michele Nones Stranamore

LIBRERIA

Giancristiano Desiderio Mario Arpino pagine 74/79

pagine 48/49

SCENARI

I nuovi martiri Bernardo Cervellera

Il Jihad Laura Quadarella pagine 50/63

www.riskrivista.it

DIRETTORE Michele Nones REDATTORE Pierre Chiartano COMITATO SCIENTIFICO Ferdinando Adornato Luisa Arezzo Mario Arpino Enzo Benigni Gianni Botondi Giorgio Brazzelli Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Giulio Fraticelli Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Andrea Nativi Giuseppe Orsi Remo Pertica Luigi Ramponi Ferdinando Sanfelice di Monforte Stefano Silvestri Guido Venturoni RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gattamorta, Gefter Wondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000 Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 10/-1 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 10/-1 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione Cinzia Rotondi Abbonamenti 40 euro l’anno Stampa Centro Rotoweb s.r.l. via Tazio Nuvolari, 3-16 00011 - Tivoli Terme (Rm) Distribuzione Parrini s.p.a. Via di Santa Cornelia 9 00060 Formello


OBAMA-ROMNEY LA FORZA DELL’OCCIDENTE La campagna elettorale per le presidenziali Usa si avvia al rush finale in un clima incandescente. Alla crisi economica che ancora morde si aggiungono le preoccupazioni per un’Europa – alleato privilegiato – che stenta a ripartire, nonostante l’accoppiata dei due «Mario», Monti e Draghi, abbia dato la sferza al Vecchio continente e messo la Germania di fronte alle proprie responsabilità. A un quadro già critico per le sorti dell’Occidente si è aggiunta anche l’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia e l’ondata anti-occidentale per un altro video che irride la religione musulmana. Uno scenario che toglierebbe il sonno a chiunque dovesse occupare la Stanza Ovale per il prossimo mandato. Disoccupazione, tasse, inflazione, debito federale, solvibilità delle banche e protezione sociale influiscono sulla qualità di vita quotidiana del cittadino americano – almeno in termini di percezione diretta – assai di più del posizionamento strategico verso l’Asia-Pacifico, il rapporto con la Russia o l’impasse mediorientale. Ragion per cui, come al solito, sarà la politica economica a decidere chi sarà il prossimo presidente. E governare il paese che ha ancora intenzione di essere «faro e speranza» per il resto del mondo non è un compito facile. L'Occidente è in un prolungato periodo di lenta crescita economica, di alta polarizzazione politica e insicurezza, e produce crisi di governance democratica. Il progetto d’integrazione europea vacilla, mentre il Mediterraneo è nuovamente in fiamme e gli Usa si sentono ancora una volta soli nella lotta al terrorismo internazionale. Per alcuni la soluzione va ricercata in una formula politica: i leader di tutto l'Occidente devono elaborare agende di «populismo progressista». Per altri il momento storico dovrà rinsaldare i tradizionali legami tra le due sponde atlantiche. Comunque sia, il mondo euroamericano è costretto dalle circostanze a convivere e a condividere scelte ed impegni, sia dal punto di vista militare e della sicurezza che da quello economico. Di recente, l'ambasciatore americano a Roma, David Thorne, ha affermato: «Il benessere economico degli Usa dipende dall'interscambio con l'Europa. E allo stesso tempo l'Europa ha bisogno di una forte economia americana come mercato di riferimento. Siamo tutti sulla stessa barca ed è importante trovare il giusto equilibrio nel ricercare una maggiore austerità e nello stimolare allo stesso tempo la crescita». Mentre a Washington si discute sul termine della stagione delle «guerre senza fine», in particolare in Iraq e in Afghanistan, Obama deve convincere gli americani di essere l'unico vero timoniere capace di traghettare gli «States» fuori sia dalla crisi internazionale sia da quella economica e sociale. Ne scrivono: Arezzo, Arpino, Chiartano, Giannino, Malgieri, Stranamore


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TRA CRISI E DECLINO, LE RICETTE DI OBAMA E ROMNEY PER SALVARE IL PAESE

LA SFIDA DEI CANDIDATI DI

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MARIO ARPINO

ercare di intuire le linee d’azione di quello che potrebbe essere il futuro della politica estera, di sicurezza e difesa americana non è questione affatto semplice, specie se affrontata nella fase più cruda della campagna per le elezioni presidenziali. In primo luogo perché, come era ampiamente previsto, il «nucleo duro» del dibattito si è naturalmente incentrato sulle

problematiche di carattere economico ed interno, che, storicamente, sono quelle che interessano con maggiore immediatezza l’attenzione dell’elettore medio. Disoccupazione, tasse, inflazione, debito federale, solvibilità delle banche e protezione sociale influiscono infatti sulla qualità di vita quotidiana del cittadino – almeno in termini di percezione diretta – assai di più del posizionamento strategico verso l’Asia-Pacifico, il rapporto con la Russia o l’impasse mediorientale. In secondo luogo, perché i toni di qualsiasi campagna elettorale vanno sempre oltre quello che sarà il reale futuro comportamento dei candidati, una volta eletti. Le stesse divergenze vengono amplificate in modo tale che, terminata la rincorsa, alla fine si potrebbe scoprire che si trattava invece di convergenze, o solamente di problemi di metodo nel conseguire comunque il medesimo obiettivo. In terzo luogo, perché nello stesso ambito democratico o repubblicano molto spesso la visione non è uniforme, ma può variare anche sostanzialmente in funzione di chi la esprime, o del momento nel quale la esprime. Ciò non significa che, nell’insieme e andando all’es-

senziale, non se ne possano trarre delle valutazioni con un sufficiente grado di attendibilità, anche perché, entrando nel vivo, i candidati non si sono potuti esimere dall’includere anche argomenti di politica estera, sicurezza e difesa. Capostipite di tutte le argomentazioni nel settore è certamente il dibattito, in atto ormai da tempo, sulla percezione globale del cosiddetto «declino americano», che entrambi i candidati tendono a smentire e rifiutano in quanto tale. La differenza è che Obama, accusato di averlo rassegnatamente e silenziosamente accettato, si difende dicendo che un cambiamento della global posture degli Stati Uniti era comunque necessario, essendo cambiato il mondo. Al contrario, Romney sembra convinto che il «destino manifesto» debba continuare ad essere – considerata l’«eccezionalità» degli Stati Uniti – quello di una sorta di leadership mondiale, riallacciandosi così alle tradizioni repubblicane e a quelle posizioni reaganiane che avevano consentito di vincere la guerra fredda. In definitiva, chiunque si insedierà alla Casa Bianca nel gennaio 2013, si troverà comunque, democratico o repubblicano, nella necessità di 5


dimostrare attraverso i fatti che il «declino» americano altro non è che inconsistente retorica. In questa campagna Obama, ormai fattosi esperto, ne ha parlato per primo. Romney però vi ha forse dedicato maggiore attenzione e più tempo prima dell’ultima fase cruciale, tanto che già nell’ottobre 2011 annunciava la formazione di un proprio Foreign policy and National security advisory team. Consiglieri speciali i cui nomi sono tutti di grido, come Condoleeza Rice, Michael Hayden, Eliot Cohen e Robert Kagan (gli europei vengono da Venere e gli americani da Marte) che, in caso di vittoria, sono per certo destinati a far parte del Consiglio di sicurezza nazionale. Partiamo da qui, nel presupposto che il pensiero di questo gruppo di esperti possa rappresentare l’impostazione della politica estera statunitense che Romney intenderà avviare in caso di elezione.

I grandi temi oggetto di analisi di questo gruppo riguardano ovviamente, oltre la «dottrina Obama» così come esplicitata dal presidente al Cairo a metà 2009 e all’inizio dello scorso gennaio alla Casa Bianca, il rapporto strategico-diplomatico con la Cina e con la Russia, la politica nel Medio Oriente e nel Nord Africa, il rientro dall’Afghanistan, la questione iraniana, quella norcoreana ed il rapporto con la Nato e con l’Europa. Vari sono gli analisti ed i commentatori che, anche qui in Italia, hanno cercato di porre la lente di ingrandimento sui contenuti di questa dialettica, e le loro conclusioni, in sintesi, non sembrano differire sostanzialmente. Al Cairo Obama, sorprendendo alcuni e con il plauso di altri, dava una visione multipolare del mondo che avrebbe in seguito portato a un riconoscimento del ruolo della Cina, con la creazione del G2, un ruolo di attenta equidistanza nei rapporti tra Israele e palestinesi, un supporto «a distanza» alle rivolte arabe (leadership from behind), una mano tesa – peraltro rifiutata – all’Iran, una sorta di accondiscendenza alle istanze russe con la firma del nuovo Start e la sospensione – o trasformazione – della difesa antimissile. Veniva poi data ufficialità al riconoscimen6


dossier to della centralità della regione Asia-Pacifico, riaffermando il ruolo guida (pivotal role) degli Stati Uniti, si invitava di conseguenza l’Europa e la Nato a «fare di più» anche in termini di responsabilità e si cercava di fare chiarezza (riporteremo a casa i nostri ragazzi) sulla durata e le strategie circa l’intervento in Afghanistan. Ovviamente, nulla di ciò che è stato fatto in questi settori – tranne, in certa misura, l’attenzione verso l’Asia-Pacifico – risulta concettualmente gradito al gruppo di teste d’uovo repubblicane. Data per scontata la necessità di ripristinare la posizione egemonica degli Stati Uniti, lasciata colpevolmente erodere da Obama, secondo Romney vanno analizzate le minacce in grado di compromettere, nel futuro, questa posizione. Le azioni da portare avanti parallelamente, al fine di evitare che ciò possa accadere, in ordine prioritario sono: il contenimento dell’espansione economica, politica e militare della Cina, il contrasto della tendenza della Russia a riacquistare il rango di grande potenza, la sconfitta dell’estremismo islamista. Il contenimento cinese, tuttavia, secondo Romney – e qui la sua posizione è destinata ad avvicinarsi a quella di Obama – non deve trasformarsi in un fatto militarmente conflittuale, ma è comunque necessario trovare il modo di costringere la Cina a interrompere l’attuale percorso verso una «egemonia regionale», per deviarlo verso un più mite atteggiamento di «partnership responsabile». Naturalmente, secondo il candidato repubblicano il potenziamento militare nell’area del Pacifico, peraltro già concettualmente avviato da Obama, è prerequisito essenziale per le azioni successive, o concomitanti. Per diminuire l’influenza di Pechino vanno giocate tutte le carte che gli Stati Uniti e l’Occidente hanno disponibili. In concreto, viene proposta a livello globale una Internet freedom initiative, che esponga maggiormente la Cina alla cultura occidentale e, di conseguenza provochi all’interno «istanze di libertà genuina e riforme democratiche». Per gli stessi fini – rendere sempre più costoso il processo egemonico cinese – è necessario riportare in

primo piano, sia nei rapporti bilaterali che in quelli multilaterali, la questione dei diritti umani, al miglioramento dei quali va condizionato ogni tipo di cooperazione. Esplicita accusa, questa, alla debolezza dell’azione diplomatica di Hillary Clinton, che «avrebbe relegato la questione dei diritti umani al secondo, se non al terzo posto». Sulla correttezza delle iniziative commerciali della Cina, Romney è stato davvero duro, tanto da essere accusato, anche al proprio interno, di voler scatenare una guerra commerciale. «Una guerra c’è già – ha risposto – sono dei manipolatori di valuta, rubano la nostra proprietà intellettuale, entrano nei nostri computer,

I grandi temi “esteri” dei candidati riguardano, oltre la “dottrina Obama” esposta al Cairo nel 2009, il rapporto strategico e diplomatico con la Cina e la Russia, la politica in Medioriente e Nordafrica, il rientro dall'Afghanistan, l’Iran, la Corea del Nord e il rapporto con la Nato e l’Europa abbassano artificialmente i prezzi, tentano di uccidere i nostri posti di lavoro. Non ci possiamo rilassare, lasciando che ci travolgano… ». Circa il futuro atteggiamento verso la Russia di Vladimir Putin, le idee dei repubblicani divergono sostanzialmente dall’azione sinora portata avanti con le iniziative di Obama. Una panoramica assai esplicativa, che cerchiamo di riassumere, ce la propone il ricercatore Davide Borsani, su Ispi Analisys online del giugno scorso. La percezione di Romney, decisamente condivisa all’interno dell’Elefantino, è che sotto la rinnovata guida di Putin la Russia stia 7


Risk gradualmente tornando a recuperare l’antica influenza sul vecchio continente, troppo debole e disunito per reagire. La leva energetica è lo strumento principale, ma la preoccupazione si estende anche alla sicurezza di tutta la regione europea: questa deve rimanere un pilastro del sistema globale di Washington in termini di «alleanza sicura», altrimenti diventa assai difficile distogliere le forze e l’attenzione necessarie per rendere fattibile la prioritaria politica verso la regione Asia-Pacifico. Che Mosca abbia questi intendimenti lo si nota dall’ostruzionismo diplomatico condotto in ogni sede multilaterale dai rappresentanti russi e dalla spinta ultimamente conferita all’ammodernamento delle forze armate. Occorre rallentare questa tendenza, e per questo, ad esempio, è condivisa la pressione dell’esecutivo di Obama verso il progetto energetico Nabucco, alternativo al South Stream del consorzio italo-russo tra l’Eni e il gigante Gazprom. Ciò che non è affatto condiviso, ma aspramente criticato, è la ratifica (fine 2010) da parte del Senato americano del nuovo trattato Start, che effettivamente fa pendere gli equilibri strategici nucleari a favore della Russia, garantendole un eccessivo margine di manovra. La principale critica mossa da Romney riguarderebbe il preambolo del trattato, che avrebbe ceduto alle insistenze russe per un’interrelazione tra la riduzione delle armi offensive strategiche e l’iniziativa Usa, ora trasferita alla Nato, per una difesa missilistica operativa entro il 2020.

La moratoria di Obama sul dispiegamento secondo il piano originale (Polonia e Repubblica Ceca) viene giudicato molto negativamente, tale da non escludere, secondo i repubblicani, un ritorno ad accordi bilaterali. Quindi, al di fuori del multilateralismo della Nato. In altre parole, in caso di vittoria Romney continuerebbe a sostenere il progetto così come modificato da Obama, ma con la riserva di procedere unilateralmente in caso di ritardi europei nella realizzazione del programma. Vi è da dire, tuttavia, che nel caso dei rapporti con la Rus8

Data per scontata la necessità di ripristinare la posizione egemonica degli Stati Uniti, lasciata colpevolmente erodere da Obama, secondo Romney vanno analizzate le minacce in grado di compromettere, nel futuro, questa posizione sia non vi è totale identità di vedute nemmeno in casa democratica. Ad esempio, il tanto criticato expresidente Jimmy Carter, spesso citato da Kagan come esempio negativo della debolezza e confusione dei democratici in politica estera, ha anche recentemente evidenziato come le tendenze imperiali russe, che non si sono mai allentate, continuino a costituire un problema per la sicurezza dell’Europa e, di riflesso, anche degli Stati Uniti. A questo punto è evidente come, in caso di vittoria repubblicana, nei rapporti con la Russia sia lecito attendersi quanto meno un energico reset del già celebre reset tanto caro a Hillary Clinton. Al fine del ripristino, almeno parziale, di una nuova posizione egemonica degli Stati Uniti (la missione salvifica indicata 250 anni orsono dai padri fondatori), rimane la terza grande preoccupazione: la questione iraniana ed il progredire dello jihadismo violento. Il fatto che ci siano differenziazioni teologiche tra gli islamisti sciiti dell’Iran e quelli sunniti di al-Qaeda è, secondo il credo repubblicano, del tutto secondario, visto che ciò non diminuisce in alcun modo la minaccia. In un libro pubblicato da Romney nel 2010 (No apology: the case for american greatness), scritto come critica alla pigrizia di Obama verso l’Iran e a parte del contenuto del discorso del Cairo del 2009, si può leggere che entrambi gli estremismi, pur nelle loro differenze, «condividono un comune fine universale: una violenta guerra santa all’America e all’Occidente, la


distruzione di Israele e degli ebrei, la riacquisizione di tutte le terre una volta sotto il controllo dei musulmani, l’eliminazione dei leader infedeli negli stati islamici come Giordania, Egitto e Arabia Saudita e, infine, la sconfitta di tutte le nazioni non musulmane». Il candidato repubblicano è un mormone fervente, certamente crede a questa missione degli Stati Uniti e, se eletto, difficilmente si esimerà dal prendere posizioni nette sul Medio Oriente, sul rafforzamento dell’assistenza militare al governo israeliano, su una maggiore presenza navale in Mediterraneo e nel Golfo e su più incisive sanzioni all’Iran. Due frasi sono da ricordare. La prima: «sarà Gerusalemme la destinazione del mio primo viaggio all’estero». La seconda: l’opzione militare preventiva verso l’Iran «deve rimanere sul tavolo, e questa minaccia deve essere credibile». Come si vede, sembrerebbe che proprio su Iran e Medio Oriente ci siano le maggiori differenziazioni con la politica di Obama, mentre qualche convergenza sia riscontrabile sul supporto più o meno diretto alle operazioni contro il terrorismo islamista, qualsiasi confessione o colore. Va rimarcato che anche su questi problemi vi è un certo dualismo, per non dire fermento, anche in casa democratica. Il noto politologo democratico Zbignew Brezezinki, pur giudicando pericoloso l’atteggiamento repubblicano, pone l’accento sulla sterilità della politica estera di Obama e riconosce che il presidente è stato «messo nell’angolo» dalla propria indeterminatezza nel caso della questione nucleare iraniana. «Obama – ha soggiunto – ha una grande forza comunicativa che non corrisponde a una pari capacità strategica». Pur senza tirare in ballo alcuni paralleli cari ai membri del già citato consiglio di Sicurezza-ombra repubblicano – e segnatamente da Robert Kagan – circa l’accostamento in politica estera di Obama a Carter e di Romney a Reagan, è già possibile cercare di estrapolare i lineamenti essenziali di quella che potrebbe essere la politica estera, di sicurezza e difesa americana a partire dal 2013. Ovviamente, sottratta la dovuta tara a tutto ciò che è stato detto e si sta an-



dossier cora dicendo in campagna elettorale. Come saggiamente osserva su Affarinternazionali on-line Alessandro Marrone, ricercatore presso l’area sicurezza e difesa dello Iai, va fatta innanzi tutto una distinzione tra i toni degli interventi e le reali scelte programmatiche dei due contendenti. In secondo luogo, abbiamo già notato che, pur tra consistenti differenze programmatiche, su alcuni dei grandi temi di politica estera tra i candidati vi sono alcune convergenze, per cui un cambio di amministrazione potrebbe non presentarsi, almeno in un primo tempo, con effetti drammatici. C’è anche da dire che Obama, spesso a proprie spese, ormai ha fatto esperienza ed è assai difficile che in un eventuale secondo mandato – di norma più tranquillo e con meno ansie del primo – sia nuovamente spinto a ripetere quegli errori che gli sono costati la fama di voler rendere l’America «uno Stato come tutti gli altri». Privo, cioè, di quel carattere di «eccezionalità» che invece è storicamente così caro ai repubblicani. Parimenti Romney, posto di fronte a realtà oggettive che dovrà toccare con mano sarà costretto a ridimensionare, o quanto meno a graduare nell’azione quotidiana le sue velleità più spinte. In altre parole, Obama avrebbe ormai l’esperienza e lo spazio temporale necessari a fare qualche correzione alla sua politica, sinora caratterizzata da discontinuità e da qualche apparente tocco di schizofrenia. Ciò gli consentirà di fare qualche passo avanti per far riguadagnare all’America quella credibilità che, effettivamente e non solo per colpa sua, negli ultimi anni si è andata alquanto attenuando. Romney, al contrario, sarà indubbiamente costretto a fare qualche passo indietro appena si accorgerà che una parte di ciò che desidera per l’America oggi non è più sostenibile. In entrambi i casi, quindi, assisteremo in primo luogo a un tentativo di ridimensionamento, con ogni mezzo non cruento disponibile, dell’invadenza cinese. In parallelo, vedremo un’accentuazione della politica di maggior presenza in Asia-Pacifico, cosa che potrebbe anche richiedere un ripristino – al-

Le tendenze imperiali russe, che non si sono mai allentate, continuano a costituire un problema per la sicurezza dell’Europa e, di riflesso, anche degli Stati Uniti. A questo punto è evidente come, in caso di vittoria repubblicana, nei rapporti con Mosca sia lecito attendersi quanto meno un energico reset meno parziale – dei bilanci del Pentagono. La politica nei confronti della Russia potrebbe non essere altrettanto severa, ma ciò dipenderà dai risultati più o meno positivi che sarà in grado di ottenere la pressione che gli Stati Uniti continueranno ad esercitare su Europa e Nato per alleggerire i loro problemi in questa parte del mondo. La politica per l’Afghanistan è già scritta, e non dovrebbero presentarsi involuzioni. Per la questione sicurezza e lotta al terrorismo, Obama aveva dato un certo grado di continuità alla politica dell’Amministrazione precedente, e poco dovrebbe cambiare con Romney. Diverso è per il comportamento nei confronti dell’Iran, dove, effettivamente, in caso di cambio di Amministrazione le novità potrebbero essere anche di rilievo, mentre il controllo dell’evoluzione in Nord Africa e Vicino Oriente rimarranno appannaggio quasi esclusivo della Nato e dell’Europa. Nel complesso, vincano i democratici o i repubblicani, si può prevedere una tendenza al ritorno dell’America come guida dell’Occidente e, a livello globale, un graduale tentativo di riaffermazione di quella leadership della quale, dopo la guerra fredda, per un decennio era stata incontrastata depositaria. Fino all’11 settembre 2001, quando è stato sconvolto ogni equilibro ed azzerata ogni certezza… 11



dossier L’ITALIA, L’EUROPA E LA CRISI, COSA NE PENSA L’AMBASCIATORE USA IN ITALIA

L’EGEMONE RILUTTANTE INTERVISTA CON •

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DAVID H. THORNE DI PIERRE CHIARTANO

l paese guidato da Barack Obama ha dovuto affrontare una delle maggiori crisi economiche della storia, prodotta anche da un vizio di sistema che in alcuni momenti ha fatto temere il peggio: lo scollamento tra strutture finanziarie e mondo produttivo. Sullo sfondo della decennale guerra al terrore globale e del confronto sempre più serrato e complesso con la Cina. Uno scenario da brivido.

Se mai inquilino della Casa Bianca ha avuto un’agenda “da paura” questo è stato sicuramente l’attuale comandante in capo del governo federale. Molte sfide sono state lanciate e vinte, da quella delle riforme, all’eliminazione di Osama Bin Laden, alla promozione di internet come strumento di libertà e democrazia, fino alla lenta ma costante ripresa dell’economia americana – pur nell’altalena dei dati – sfinita dalla crisi e dalle difficoltà del suo principale partner commerciale e politico, l’Europa. Abbiamo chiesto a David H. Thorne, dall’agosto 2009 ambasciatore Usa in Italia, di fare un’analisi spassionata della situazione europea e naturalmente di quella italiana. Visto anche il legame particolare che lo vincola al nostro paese dal 1953, anno in cui si trasferì a Roma con la famiglia. Oltre a essere un diplomatico figlio d’arte, suo padre, Landon Thorne Junior, fu incaricato dal presidente Eisenhower di amministrare il Piano Marshall in Italia, l’ambasciatore è un eccellente comunicatore e come da buona tradizione americana (che non ama le feluche impomatate e salottiere) ha anche una discreta esperienza nel mondo degli affari. Cognato del senatore democratico John Kerry, si è laureato alla Yale University nel 1966 in Storia americana ed ha proseguito gli studi con un master in giornalismo alla Columbia University. Thorne ha poi servito la Marina militare dal 1966 al 1970 ed è l’autore di The New

Soldier (Macmillan 1971). È sposato con Rose ed ha due figli. Durante il suo incarico in Italia, l’ambasciatore, che è un grande sostenitore dei new media e dei social media come motori di cambiamento, ha lanciato il Def (Digital economy forum, www.digitaleconomyforum.it) con l’obiettivo di scambiare nuove idee su come le tecnologie digitali, le piattaforme online ed il flusso aperto d’informazioni possano aiutare le start-up e le aziende a crescere, raggiungere nuovi mercati e produrre innovazione. Un mestiere che in Italia le Pmi dovrebbero imparare in fretta per restare attive sui mercati globali. «L’Europa ha le capacità economiche e finanziarie per superare la crisi». Il presidente Barack Obama ha confermato questa convinzione nell’ultimo incontro avuto col premier Mario Monti. Cosa gli manca? «L’Europa sta affrontando la crisi finanziaria più difficile dall’introduzione della moneta unica e una delle peggiori crisi economico-finanziarie dal secondo dopoguerra. Molto spesso, noi politici e diplomatici, ci concentriamo su elementi impersonali come lo spread - il differenziale sul rendimento dei titoli di Stato – o sui freddi numeri come le statistiche sulla disoccupazione e gli indici di crescita del pil. Ma questi sono numeri che non dicono niente alla gente che soffre, perché ha perso il lavoro oppure perché teme per il futuro dei figli, che non hanno più una prospettiva 13


Risk

«I leader europei hanno varato un gran numero di misure improntate al rigore negli ultimi due anni. L’Italia ha messo a posto il proprio sistema fiscale per gli anni a venire ed è impressionante vedere ciò che il governo Monti è riuscito a realizzare in soli otto mesi» di vita migliore di quella dei propri genitori. E ciò è vero sia negli Stati Uniti che in l’Italia, perché queste sono le preoccupazioni che angosciano la maggior parte delle persone. Sicuramente l’Europa possiede la forza e la capacità economica e finanziaria per superare la crisi. Ciò che serve è la volontà di fare scelte difficili, ma necessarie per il bene comune». L’America cosa spera che succeda presto in Europa? I leader europei hanno varato un gran numero di misure improntate al rigore negli ultimi due anni. L’Italia ha messo a posto il proprio sistema fiscale per gli anni a venire ed è impressionante vedere ciò che il governo Monti è riuscito a realizzare in soli otto mesi. Comunque c’è ancora molto da fare a livello europeo. Potrei parlare della necessità di maggiore chiarezza sul progetto di unione bancaria, così come dei mezzi per ridurre il tasso dei prestiti per Spagna e Italia, ma queste sono tutte materie su cui l’Italia ora ha una certa familiarità. Abbiamo accolto con favore la notizia che il Consiglio europeo di giugno abbia fatto dei passi in avanti su questi argomenti e guardiamo ai leader dei paesi dell’Unione affinché varino misure concrete per mostrare che stanno facendo tutto il possibile per difendere l’euro. Spesso l’Italia non riesce a mettere a valore risorse umane e scientifiche che possiede, si parla di meritocrazia tradita quando le migliori menti dell’Italia scappano all’estero per costruirsi un futuro e 14

una carriera. Ma a volte è il sistema di trasferimento della ricerca sui prodotti commerciali che fa difetto. Ci sono esempi di buona pratica adottati dall’attuale amministrazione Usa? «I migliori successi nel sistema americano sono prodotti da ingegneri e ricercatori che spesso provengono da paesi stranieri. Sono degli agenti di cambiamento che trasformano le idee in iniziative imprenditoriali e sono loro a fare la differenza. Spesso non hanno bisogno di tanti sostegni pubblici e agenzie per lo sviluppo per far bene il loro lavoro, ma solo di una migliore collaborazione tra i centri di ricerca e il mondo delle imprese. Un’altra fonte di successo ha origine nei cosiddetti epicentri dell’innovazione, di cui Sylicon Valley è l’esempio più classico. La cultura dell’innovazione e la filantropia che nasce dalla business community sono un fattore determinante, molto di più degli incentivi pubblici e delle normative statali. L’Italia ha delle grandi potenzialità nel campo scientifico e tecnologico, serve solo che sappia come utilizzare queste risorse dell’innovazione che sono già a portata di mano». Un’altra spina nel fianco dell’economia italiana è il basso livello d’investimento dei capitali stranieri, quasi ci fosse un timore latente sul rischio e la scarsa redditività delle iniziative nel nostro paese. Dalla selva di leggi all’alto livello di corruzione, sono molti gli ostacoli ai capitali stranieri. Lei che guarda all’Italia con un occhio imparziale come percepisce il problema? «Secondo il rapporto della Banca Mondiale “Doing business”, l’alta tassazione, politiche del lavoro troppo rigide, alti costi dell’energia e un sistema giudiziario lento contribuiscono nell’assegnare all’Italia un posto in classifica decisamente poco lusinghiero, oltre a scoraggiare gli investitori. Recentemente ho incontrato alcuni importanti investitori americani, intenzionati a venire in Italia. Erano rimasti colpiti dalle ultime riforme varate dal paese. È un fatto importante, ma restavano ancora diffidenti per la mancanza di trasparenza e per le preoccupazioni sottolineate proprio nel rapporto della Banca Mondiale. Molto


semplicemente è difficile per gli investitori stranieri capire le regole del gioco quando si lavora in Italia, così molti di loro ne stanno alla larga. Ci sono grandi opportunità, e vogliono investire, ma hanno bisogno di maggiori certezze per far seguire alla intenzioni investimenti significativi». Gli Stati Uniti sono in prima linea nella promozione di una grande rete web aperta e libera. Quali sono le ragioni di questa politica? Pensa che si possano nascondere anche dei pericoli? «Negli Usa siamo convinti che una rete web aperta sia essenziale per la salute del sistema di governo e per un’economia forte. La libertà d’espressione, che sostiene il nostro sistema democratico, si esprime in varie maniere, una di queste lo fa attraverso internet. Per sua stessa natura, internet incoraggia il libero scambio di idee che di conseguenza facilita il dialogo creativo e innovativo. Una più grande apertura della rete porta molti vantaggi, poiché permette ai cittadini di esercitare una moral suasion affinché il proprio governo mantenga un comportamento politico onesto e trasparente. Molto di ciò che è avvenuto con la Primavera Araba non sarebbe stato possibile senza gli strumenti messi a disposizione da internet. Parlo soprattutto dei social media come Facebook e Twitter. Sono mezzi che aiutano veramente a costringere un governo

«Molto di ciò che è avvenuto con la Primavera Araba non sarebbe stato possibile senza gli strumenti messi a disposizione da internet. Parlo soprattutto dei social media come Facebook e Twitter. Sono mezzi che aiutano veramente a costringere un governo a essere responsabile»


a essere responsabile, e non solo quando si ha a che fare con regimi oppressivi. Louis Brandies, membro della Corte suprema americana, scrisse nel 1913 che «i raggi del sole sono conosciuti per essere i migliori mezzi antisettici». Con la sua capacità di arrivare ovunque, internet porta il sole in tutti gli angoli del globo. Naturalmente è anche vero che il cyberspazio comporta dei pericoli. Gruppi terroristici e regimi oppressivi possono avere a disposizione nuovi strumenti digitali contro la libertà delle persone. Allo stesso modo il materiale tutelato da copyright va protetto. Certamente dobbiamo essere consapevoli dei rischi ed essere pronti ad affrontarli; comunque una rete web soggetta a restrizioni non è la soluzione. Invece, attraverso la vigilanza e la cooperazione con in nostri partner internazionali, possiamo costruire degli standard globali per risolvere il problema». Cosa fa il governo Usa per mantenere aperto e sicuro il cyber-spazio? Che lezione possono apprendere gli altri governi da questo esempio? «Gli Usa partono da un principio: l’impegno per ottenere la massima libertà possibile nella rete. Per questo scopo non censuriamo, né ostacoliamo in alcun modo l’uso di internet da parte dei nostri cittadini. Nei fatti andiamo ben oltre, sponsorizzando programmi sulla libertà della rete che insegnino agli attivisti delle libertà civili, in tutto il mondo, a esercitare i loro diritti su internet. Questo penso sia il messaggio più importante diretto agli altri paesi. Come ho già affermato, la salute del cyber-spazio dipende dalla cooperazione della comunità globale e solo attraverso il coordinamento possiamo stabilire una cornice affidabile, sicura e che faciliti ogni tipo di sinergia. Nel maggio 2011 il presidente Obama ha affrontato questa grande sfida, quando ha annunciato la nuova Strategia internazionale per il cyber-spazio. Basata sui principi di massima apertura, sicurezza e stabilità, cerca di creare un futuro dove una forte partnership diplomatica si adegui agli standard internazionale di un mercato aperto e reti sicure a disposizione di tutti».



Risk COME LE DEMOCRAZIE OCCIDENTALI AFFRONTANO LA CRISI ECONOMICA E DI GOVERNANCE

LA LUNGA DERIVA DI

S

OSCAR F. GIANNINO

iamo al trentottesimo mese dacché sui mercati si è manifestata la crisi finanziaria che continua duramente a colpire noi vecchi paesi europei. Ed è l’orologio mondiale del debito pubblico, a misurare l’asimmetria tra mondo nuovo che cresce e traina il pianeta ancora a tassi complessivamente superiori al 4%, e mondo vecchio che ansima – gli Stati Uniti, che stanno assai peggio di quanto

dica il loro tasso di crescita 2012 ancora più vicino al 2 che al’1% ma con un 11% di pil di deficit annuale federale – e che geme, l’Euroarea alle prese da due anni con il serio spettro del break up, e con una realtà fatta di amara deflazione e recessione per tutta l’area eurolatina. Se consideriamo il debito pubblico degli stati sovrani a livello planetario, a settembre 2012 eravamo alla quota astronomica di 49mila miliardi di dollari, con un tasso medio di aumento di 114 mila dollari ogni secondo. Di questi, 11.200 miliardi sono del solo debito pubblico statunitense: pari al 72% del Gdp (pil) Usa ma solo perché i criteri contabili pubblici federali sono assai più laschi di quelli europei, in realtà il debito pubblico consolidato ha già superato il 100%, ed è aumentato del 13% nell’ultimo anno. Sommando al debito pubblico americano quello dell’eurorea, arriviamo a ben oltre la metà del totale, visto che la Germania sta a quota 2700 miliardi di dollari, l’Italia a 2500, la Francia a 2400, il Regno Unito a 2100, la Spagna a quota mille, e via continuando. In Italia, tanto per ricordarcelo, i quasi 2000 miliardi di euro di debito pubblico nel settembre 2012 aumentano ancora di circa 157 milioni di euro ogni giorno. Per avere un ordine di grandezza rispetto ai paesi locomotiva della crescita mondiale, la Cina sta a quota 1200 miliardi di dollari cioè la metà dell’Italia, il Brasile 100 miliardi sopra, l’India a meno di 18

mille cioè al di sotto della Spagna. L’Indonesia è indebitata per 182 miliardi, mentre nel Cono Sud latinoamericano il Cile rigoroso e sano ha solo 21 miliardi di dollari di debito pubblico, l’Argentina 10 volte tanto. L’Irlanda da sola ha 227 miliardi di dollari di debito pubblico, rispetto ai 157 della Russia. L’Egitto è il più indebitato in Africa, con 206 miliardi, seguito dal Sud Africa con 142. L’Arabia Saudita ha un debito di soli 82 miliardi di dollari, che rispetto alle sue risorse petrolifere sono poco più che nulla. Queste cifre per ricordare che la crisi finanziaria che abbiamo alle spalle non ha solo, nel vecchio mondo, travolto il sistema finanziario e l’economia reale. Si è riverberata in questa terza dimensione, quella del debito pubblico di cui un tempo eravamo campioni solo noi italiani e il Giappone. La crisi attuale, che dura ininterrottamente attraverso varie fasi dal 2007 è una crisi atipica per i suoi connotati e la sua durata, che ha ecceduto quelle delle precedenti crisi e richiederebbe per il suo superamento, come recentemente enunciato anche dal presidente della Bce, strumenti altrettanto atipici di politica economica e di politica monetaria, mentre viene affrontata ancora con strumenti convenzionali. In termini di tempo la crisi della prima guerra del Golfo durò dal 3 Agosto 1990 al 17 Gennaio 1991, quella asiatica andò dal 27 Ottobre 1997 al 9 Gennaio


dossier 1998, la crisi russa dal 4 Agosto 1998 al 28 Ottobre dello stesso anno. La crisi delle Torri gemelle dal 7 Settembre (cominciò prima del giorno 11) 2001 al 5 Novembre 2001, infine la crisi Enron e poi a seguire la seconda guerra del Golfo andarono dal 3 Luglio 2002 al 7 Aprile 2003. Ciascuna di queste crisi durò un arco di tempo che non ha ecceduto in ciascun caso l’anno, e tra una crisi e l’altra ci sono stati periodi di forte ripresa dell’economia globale. Non è questo il caso della crisi attuale che dura ininterrottamente dal 9 Agosto 2007 e ha visto succedersi in un tutt’uno al suo interno anche la crisi della Lehman (15 settembre 2008-27 Maggio 2009), quella greca (dal 6 Maggio 2010) e quella più generale di altri paesi dell’Euro (dall’8 Agosto 2011). La prima metà di questi due anni e mezzo ha visto una crisi dovuta a eccesso di consumo privato finanziato a debito, soprattutto nell’area anglosassone dei paesi avanzati. La seconda, un eccesso di consumo pubblico finanziato a debito, nell’euroarea. Le misure adottate per contrastarla hanno comportato un netto aumento del debito pubblico nella generalità dei paesi interessati trasferendo a carico dei contribuenti i guasti di una politica finanziaria che è benevolo definire arrischiata. In aggiunta – è questo il dato più allarmante – hanno implicato pesanti effetti recessivi in alcuni paesi dell’area euro che hanno modificato, comprimendola invece di allargarla, la base imponibile fiscale. E hanno ulteriormente abbattuto l’output potenziale. Molte attività hanno cessato di esistere o sono sull’orlo di farlo e il tasso di attività complessivo misurato dagli occupati effettivi rispetto alla popolazione attiva va restringendosi ad una velocità mai vista prima nel dopoguerra, specie nei paesi periferici dell’area euro e quindi anche in Italia.

dell’euro-area – e pubblici poi, ha generato prima una asimmetria e poi un generale riallineamento del comportamento delle maggiori banche centrali, cioè, con tutto il rispetto verso i governi centrali e le loro ambiziose prerogative, dei veri stati maggiori della guerra mondiale che si combatte sui mercati. La Fed, la cui politica monetaria lascia negli anni di Greenspan e sopratutto nei primi anni Duemila, ha alimentato la bolla finanziaria, sin dalla prima fase della crisi ha abbattuto il tasso d’interesse di 200 punti base fino a raggiungere un tasso reale negativo (cioè tenendo conto dell’inflazione). Poi dopo Lehman ha assunto su di sé perdite e ricapitalizzazioni bancarie in omaggio alla preservazione del canale principe di trasmissione della politica monetaria. Poi attraverso i Quantitative Easing I, II e III ha iniziato le cosiddette politiche monetarie non ortodosse cioè below the zero bound dei tassi: prima assumendo su di sé acquisto e sostegni delle Mortgage backed securities, cioè dei titoli e degli attivi immobiliari di Fannie Mae e Freddie Mac; poi iniziando a comprare centinaia di miliardi di dollari di «Treasuries» (bond), titoli pubblici Usa; infine estendendo gli acquisti a security e bond privati. L’innovazione del presidente Fed Ben Bernanke è la vera via nuova – sin qui – di risposta alla crisi finanziaria che ci accompagna da cinque anni. Ha la pretesa di incorporare la lezione anti-ripetizione del 1929 (ne uscimmo solo con la seconda guerra mondiale) di libri sacri come La storia della politica monetaria Usa di Milton Friedman e Anna Schwartz, ma in realtà le scuole degli economisti sono molto divise. Piace ai keynesiani ovviamente, che da sempre preferiscono tassi negativi nelle crisi e banche centrali proattive, pur di limitare il riallineamento energico verso il basso dei prezzi degli asset in bolla, e l’effetto che tutto ciò comporta sulle attività reali e sui redditi diLa guerra monetaria sponibili. Piace ultimamente anche a una neoscuola Lo squilibrio tra le diverse propensioni al debito pub- americana che si è autodenominata dei «market moblico come risposta ed effetto alla crisi di “illiquidità” netarists», il cui portabandiera è uno dei più ascoltati di un numero crescente di asset finanziari privati pri- blogger finanziari al mondo come Scott Sumner, che ma – i famosi prodotti finanziari tossici, la vasta clas- propone di abolire come target indicator delle banche se Euro3 nella legenda degli intermediari finanziari centrali sia l’offerta monetaria sia l’inflazione, per as19


Risk

Le cifre ricordano che la crisi finanziaria che abbiamo alle spalle non ha solo, nel vecchio mondo, travolto il sistema finanziario e l’economia reale. Ma si è riverberata in una terza dimensione, quella del debito pubblico di cui un tempo eravamo campioni solo noi italiani e il Giappone sumere invece la crescita del pil nominale (in altre parole, le banche centrali comprano asset e accettano collaterali di bassa liquidità a prezzo di favore – ergo stampano moneta a gogò – finché crescita reale più inflazione non raggiungono nuovamente dalla stagnazione o recessione un certo obiettivo positivo). In realtà, la Fed con questa sua risposta alla crisi ha anche spaccato il mondo. È ovvio che gli americani – come sempre avviene nelle crisi mondali dacché con Nixon separarono il dollaro dall’oro e il mondo andò verso cambi fluttuanti e moneta puramente fiduciaria prima ed elettronica poi – possono relativamente fregarsene dell’inflazione potenziale che accendono con queste politiche monetarie, finché il dollaro è il tallone monetario dei mercati mondiali delle riserve come delle commodity. Perché esportano e rimbalzano una quota rilevante della loro inflazione nel mondo intero. Ma la Bce non è nata per seguire questa strada. E non l’ha sinora seguita. Neanche con gli acquisti di emergenza – per evitare la crisi dell’euro – di titoli eurodeboli deliberato il 6 settembre dal Consiglio Bce, su fortissimo impulso di Draghi e grazie ai quali abbiamo avuto lo stop del riaprirsi della forbice degli spread nell’agosto scorso. Anche questa misura straordinaria, quando verrà attuata, dovrà rispettare la sterilizzazione dell’offerta monetaria complessiva. In altre parole per ogni acquisto di titolo pubblico eurodebole gli attivi Bce vedranno la vendita di asset detenuti per equi20

valente valore. La Bce, per statuto, per storia e per convergenza alla sua nascita di tutti i paesi aderenti, timorosi e rispettosi del dramma inflazionistico tedesco da cui nacque la seconda guerra mondiale, non è nata e congegnata per diventare lo stato maggiore dell’Europa alla guerra delle monete. Non finché i mercati dei beni e dei servizi europei resteranno separati, il che significa un unico tasso d’interesse applicato ad aree separate con diverse curve di costo, non autoequilibrantisi come negli Usa, secondo il principio dei vasi comunicanti. Non finché mancherà una politica europea. A cominciare da quella della comune responsabilità di bilancio e debito. Ed è un bene che sia così, a differenza di quanto dicano molti politici europei in questi ultimi due anni, che invocano una banca centrale all’americana senza mercati uniti né politica sovrannazionale: lo dicono per far dimenticare agli elettorati le loro menzogne e i debiti pubblici che hanno concorso a formare. Purtroppo, in questa situazione di eurocrisi, la politica monetaria iperlasca della Fed ha ottenuto e ottiene l’effetto di accentuare la nostra crisi. Di fronte all’insofferenza crescente della politica e degli elettorati dei paesi eurodeboli alle prese con riallineamenti drastici della propria propensione a deficit e debito pubblico, la Fed – e gli ultra Fed come Paul Krugman che incessantemente chiedono ogni giorno ancor più deficit e debito pubblico – finiscono per diventare gli idoli polemici sempre più forti di chi in Europa addita nel rigore tedesco il nemico dell’euro, invece che nelle proprie dissipazioni pubbliche a bassa produttività. Naturalmente, ai sostenitori europei di Obama-Bernanke sfuggono alcuni punti essenziali. La crescita americana inferiore al 2% sarebbe di molto peggiore della nostra recessione italiana, se non fosse drogata da un deficit pubblico a doppia cifra, mentre noi siamo in avanzo primario. Inoltre, l’euro non è il dollaro, ergo la sua inflazione si ripercuoterebbe essenzialmente sugli europei a più basso reddito, e premierebbe invece i più grandi indebitati, cioè quegli stati che vanno invece rieducati e puniti, costretti a spendere meno e meglio e in equilibrio, per meno tasse se si


vuole ri-alimentare una crescita sana e non drogata da politiche monetarie accomodanti. Infine, la Fed con il suo lassismo accomodante ha finito per obbligare anche la Cina a mutar segno alla sua politica monetaria. Il rallentamento della crescita cinese, per effetto della crisi dei paesi di vecchia industrializzazione, ha spinto la Banca centrale di Pechino dallo scorso giugno ad abbassare i tassi. È per molti versi la vendetta americana verso la resistenza cinese a rivalutare il renmimbi, che pure è salito del 15% in 5 anni. Ed è per molti versi l’esatto opposto di ciò di cui avrebbe bisogno il sistema del credito cinese, gravato nei grandi gruppi bancari pubblici da attivi di bassa qualità, con severi problemi di asset immobiliari in bolla nella aree a maggior tasso di sviluppo negli anni recenti, e nella necessità di evitare ulteriore credito facile, come purtroppo già con eccessiva generosità si è fatto negli ultimi anni. Il virtuale allineamento delle banche centrali asiatiche (quella giapponese è iperlasca da anni e anni) alla Fed è foriera di pessimi effetti. I paesi ad alto sviluppo consolidato hanno bisogno di tassi più alti, altrimenti la conseguenza è inevitabile. Gli Usa stanno spingendo il resto del mondo a reiterare l’azzardo morale. Come non bastasse quello che la Fed ha alimentato prima della crisi, che alla crisi ha portato. Del resto, dalla guerra delle monete, finché il mondo va così, solo America e dollaro hanno da guadagnare. In questo, la Germania non è isolata in Europa, come noi qui ci ostiniamo a credere leggendo la parziale marcia indietro che Merkel e Berlino hanno dovuto compiere con la doppia decisione, quella Bce del 6 settembre e quella della Corte di Karlsruhe del 12 settembre. La Germania, col suo rigore di bilancio e con la sua convinzione per una politica monetaria non accondiscendente verso politici che fanno deficit, è isolata oggi praticamente nel resto del mondo. Anche se ha ragione. Il che è purtroppo un guaio. Quando si resta soli, ad aver ragione, è il torto che prevale, addossando a chi ha ragione le responsabilità dei mali prodotti da chi ha torto. Restano inascoltati moniti come quello contenuto nell’ International monetary fund WP/12/189 Imf Working paper,



dossier On Price Stability and Welfare, del luglio scorso. Lo studio segnala che un aumento di due punti percentuali del tasso d’inflazione (ad esempio dal 2% al 4%) provocherebbe in paesi come gli Stati Uniti un aggravio dei costi del welfare pari allo 0,3% del pil; se l’inflazione salisse al 10% l’aggravio sul bilancio pubblico dei costi del welfare potrebbe, in certe condizioni, arrivare all’equivalente del 7% del pil: «The key finding of this paper is that an increase in inflation targets generates additional welfare costs, even after taking into account the constraint of the zero lower bound on nominal interest rates. Based on parameter values consistent with Us data and using a conservative approach, it is estimated that a rise in inflation targets from 2 to 4 percent gives rise to additional welfare costs equal to about 0.3 percent of real income. These additional welfare costs could be as high as 7 percent of real income, depending on parameter value (…) Thus, while acknowledging the appeal of raising inflation targets to offer more room to maneuver to policymakers in the conduct of monetary policy, the analysis in this paper recommends caution about adopting such an option». Ben peggiori sarebbero gli effetti negativi in Europa, con sconvolgimenti sociali di ampia portata e il dissolversi della politica di coesione il cui venir meno nelle trascorse epoche storiche è sempre stata una delle cause, non certo la meno importante, della deca-

La crescita americana inferiore al 2% sarebbe di molto peggiore della recessione italiana, se non fosse drogata da un deficit pubblico a doppia cifra, mentre noi siamo in avanzo primario. Inoltre, l’euro non è il dollaro, ergo la sua inflazione si ripercuoterebbe essenzialmente sugli europei a più basso reddito

denza e della frantumazione degli stati, e ha generato al contempo guerre rovinose.

Eppure la coesione ha retto

Gli ultimi cinque anni hanno dunque, nella politica finanziaria e monetaria e nella radicale divergenza seguita in questo tra le due rive dell’Atlantico, un segno assai diverso da quello che apparirebbe prima facile nel bilancio ultraventennale della Nato post caduta del muro. Storicamente, la maggior parte delle alleanze non sopravvive alla dissoluzione della minaccia che le ha fatte nascere. La Nato non solo è sopravvissuta al crollo dell’Unione Sovietica, ma ha continuato ad accogliere nuovi membri dell’Europa centrale e ad intraprendere missioni militari in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Libia. L’Alleanza ha certamente sofferto la sua parte di battute d’arresto. La guerra in Iraq del 2003 mise a dura prova le relazioni transatlantiche e ha sottolineato le differenze di vedute. L’elezione di Barack Obama sembrò guidare gli Stati Uniti e l’Europa verso un riallineamento. Ma è stato un effetto temporaneo. Dal riscaldamento globale alla dure critiche americane verso l’eurodebolezza degli ultimi due anni, le rive dell’Atlantico si sono allontanate. È vero che anche i pessimisti come Robert Kagan hanno avuto torto. Dieci anni fa, nel suo Potenza e debolezza “profetava” che l’America hobbesiana ossessionata dal potere e dalla coercizione armata fosse destinata a separarsi da un’Europa unita nel credo kantiano di influenzare il mondo solo attraverso la legge e le istituzioni. Non è avvenuto. Ma è anche vero che negli ultimi anni la crisi economica ha portato Stati Uniti ed Europa a doversi concentrare soprattutto sui propri guai di economia domestica. Nel corso del tempo, la progressiva mancanza di rilevanza geopolitica europea diminuirà la solidarietà transatlantica. Con o senza l’Europa al suo fianco, gli Stati Uniti sono ancora impegnati per una leadership globale, e il focus è spostato verso il Pacifico. Se per la prima volta nella sua storia, la Nato ha fatto valere l’impegno alla difesa collettiva in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2011 contro gli Stati Uniti, e decine di migliaia di 23


Risk

L’Occidente è in un periodo di lenta crescita economica, di alta polarizzazione politica e insicurezza, producendo crisi di governance democratica. Il progetto di integrazione europea vacilla proprio quando la volontà collettiva e la capacità dell’Unione europea sono necessari militari europei sono stati e sono ancora in Afghanistan, e se 24 paesi europei (anche non membri della Nato) hanno inviato più di 50mila soldati in Iraq, il bilancio europeo di tali esperienze è ipercritico.

Tre sfide

Oggi, la visita di Obama per una settimana in Europa, nel maggio 2011, per sottolineare il valore permanente del collegamento Atlantico, sembra lontana anni luce. La retorica obamiana del «governo multilaterale del mondo» non ha visto Stati Uniti ed Europa convenire né su una riforma bancaria e finanziaria comune, né su un riordino del sistema monetario mondiale. L’Occidente è in un prolungato periodo di lenta crescita economica, di alta polarizzazione politica e insicurezza, producendo crisi di governance democratica. Negli States come a casa nostra. In Europa, la crisi di governabilità si manifesta attraverso una forte rinazionalizzazione della politica. Il progetto di integrazione europea vacilla proprio nel momento in cui la volontà collettiva e la capacità dell’Unione europea sono necessari: per salvare se stessi e per consolidare il legame transatlantico e aiutare un cambiamento globale in funzione di guida appaiata. Nella società aperta europea, convinta della superiorità del proprio modello di sviluppo ad onta di una forte deindustrializzazione diffusa e di curve demografiche spaventevoli, la globalizzazione sta producendo un divario crescente tra ciò 24

che gli elettori chiedono ai loro governi e ciò che questi governi sono in grado di fornire. Questa mancata corrispondenza tra la crescente domanda di buon governo e la sua offerta inefficiente è in grado di compromettere molto pericolosamente ogni scopo comune del mondo occidentale. L’incapacità delle democrazie a corrispondere alle preoccupazioni dei cittadini aumenta la disaffezione pubblica, mina ulteriormente la legittimità e l’efficacia delle istituzioni rappresentative. La sfida principale di fronte alla comunità atlantica non è, come prevedevano i pessimisti alla Kagan, quella tra europei che vivono in un mondo post-storico, e americani ancora convinti di un’egemonia storica. Oggi, la sfida più urgente per la comunità atlantica deriva dalla debolezza economica e politica che è scesa su tutto l’Occidente. Che è alle prese con un triplice ordine di seri problemi. In primo luogo, le democrazie occidentali devono individualmente e collettivamente abbracciare strategie di rinnovamento economico che vanno ben oltre il business as usual. Nella crisi degli ultimi anni, Stati Uniti ed Europa sono stati incapaci di comune pianificazione strategica economica su una scala senza precedenti. Solo con massicci investimenti in posti di lavoro, infrastrutture, istruzione, ricerca e innovazione le economie occidentali non perderanno ciò che a torto considerano diritto acquisito. In secondo luogo, i leader di tutto l’Occidente devono elaborare agende di populismo progressista, chiamiamolo così con il termine che usa Charles Kupchan nel suo recentissimo No One’s World: The West, the Rising Rest, and the Coming Global Turn, cioè agende capaci di incanalare il malcontento elettorale verso fini costruttivi. Le élite devono garantire al vasto elettorato di massa le condizioni per nutrire ancora fiducia nella capacità delle istituzioni democratiche di produrre prosperità ampiamente condivisa. In altre parole, i governi occidentali devono evitare che i loro elettori siano tentati dal ripiegarsi su se stessi, in nome di autarchia e ancor più debito pubblico. Non è facile per nulla, con l’America che fa debito a questo ritmo, rassegnarsi a star peggio per non poterlo fare.



Risk CHIUNQUE VADA ALLA CASA BIANCA DOVRÀ TENERE CONTO CHE L’EUROPA È IN PERICOLO

LAMPI SUL MEDITERRANEO DI •

I

GENNARO MALGIERI

l Mediterraneo è nuovamente in fiamme e gli Stati Uniti si sentono ancora una volta soli nella lotta al terrorismo internazionale. Potrebbe essere questa la sintesi politica degli effetti dell’attentato al consolato americano di Bengasi nel quale l’11 settembre scorso, data fatidica, sono stati uccisi l’ambasciatore Chris Stevens ed altri tre membri dello staff diplomatico. Soli e trascurati

soprattutto dall’Europa che nel bacino mediterraneo dovrebbe svolgere quello stesso ruolo che gli Usa, specialmente nel Pacifico, adempiono con dispendio di mezzi notevole, per non parlare dell’interventismo in Medio Oriente e nelle regioni centro-asiatiche. L’Europa ha delle attenuanti, naturalmente. La più importante delle quali è quella di essere stata “invogliata” e pressata dagli Usa nel sostenere lo sviluppo delle cosiddette “primavere arabe” che due anni fa fecero gongolare l’intellighentia occidentale e mossero gli entusiasmi di alcune cancellerie europee. Poi, l’attacco, proditorio ed ingiustificato, alla Libia, non certo guidata da un governante illuminato, promosso in particolare dalla Francia e dalla Gran Bretagna per puri motivi di egemonia economico-finanziaria, fece capire a Barack Obama che un nuovo fronte strategico, proprio in vista di nuovi scenari di sicurezza, poteva aprirsi con la caduta di Gheddafi. Non valutò il presidente americano, rassicurato sul punto da Sarkozy e da Cameron, che i cosiddetti ribelli libici erano i peggiori manutengoli del tiranno di Tripoli alla cui sudditanza volevano sottrarsi. L’impegno euro-americano in Libia ha, dunque, sortito l’effetto contrario a quello sperato. Così come la decapitazione dei regimi tunisino, egiziano, yemenita ha aperto la strada allo jihadismo incontrollato che se, per molti versi, assomiglia nelle tecniche che adotta al qaedismo, se ne di26

stacca dal punto di vista organico e gerarchico dal momento che il movimento che fu di Bin Lade agisce in combutta con elementi locali, come una “rete”, insomma, anche per non essere facilmente individuato. Sicché, sostenere, come è stato fatto, che l’eccidio di Bengasi è attribuibile ad Al Qaeda è sbagliato. Probabilmente elementi vicini all’organizzazione, o semplici simpatizzanti, hanno cooperato alla riuscita, ma non dovrebbe esservi dubbio alcuno che militanti di una rivoluzione i cui contorni ancora non si conoscono abbiano lanciato una sfida agli Stati Uniti prendendo pure a pretesto la diffusione della ridicola pellicola blasfema The innocence of muslims, attribuita a tale Sam Bacile, il cui vero nome sarebbe invece Nakoula Basseley Nakoula, cinquantacinquenne cristiano-copto residente in un sobborgo di Los Angeles. Per quanto l’amministrazione americana abbia immediatamente preso le distanze dal film che ridicolizza Maometto ed offende l’Islam, le folle musulmane non si sono placate e difficilmente si placheranno poiché nella mobilitazione generale che sta ramificandosi in buona parte dell’Africa, passando attraverso la Nigeria, il Mali ed il “califfato” somalo, gli islamisti vedono l’opportunità di riprendere la lotta contro l’Occidente, temporaneamente dopo i fatti afghani ed iracheni il cui bilancio è tutt’altro che lusinghiero per le forze dell’alleanza euro-americana. Con tutta evidenza ognu-


dossier no ha cercato di fare la propria parte al meglio, ma non si è tenuto conto tanto negli Stati Uniti quanto in Europa che la guerra al terrorismo è una guerra asimmetrica non perché i jihadisti adottino tecniche da guerra rivoluzionaria (conosciuta peraltro nel nostro Continente fin dai tempi delle rivolte anti-napoleoniche in Spagna), ma per il semplice fatto che il clanismo, il tribalismo, il regionalismo militare sono difficili da affrontare con modalità tradizionali. L’invito, per essere espliciti, alle “primavere arabe” ad emanciparsi dai vecchi satrapi, è stato colto non nel senso di una unità impossibile in quei paesi, ma come una ribellione tout court che non ha un centro di comando, un ordine riconoscibile, uno scopo condiviso. Il solo amalgama è l’Umma, l’unione della comunità e della fratellanza musulmana: è per raggiungere questo scopo, nel Mediterraneo e altrove, che si lotta cercando innanzitutto di dissuadere l’America prima e l’Europa poi ad ingaggiare una guerra davvero di civiltà che se finora è stata evitata non è detto che si riuscirà a scansarla in un domani che prefiguriamo purtroppo assai vicino. Su questo punto Usa e Europa, al tempo della presidenza di Barack Obama, non hanno mostrato la sintonia che ci si attendeva. Non è azzardato ritenere che l’inquilino della Casa Bianca nel giugno 2009, in occasione del fin troppo celebrato discorso del Cairo, aprì il portone, sia pure inconsapevolmente, ad interpretazioni equivoche sui destini dell’islamismo a fronte della chiusura che l’amministrazione repubblicana aveva praticato. E quel discorso fece nascere aspettative tanto nel mondo arabo fondamentalista quanto nell’Europa mediterranea che vide con favore la possibilità di accentuare un dialogo con la sponda Sud del Mare Nostro. Dunque, vi fu una convergenza che sulle prime fece ben sperare, ma che poco dopo, nel magma delle “primavere”, mostrò tutta la sua incongruenza nella ricerca d un confronto possibile. Obama disse, tra l’altro: «Qualsiasi cosa pensiamo del passato, non dobbiamo rimanerne prigionieri. I nostri problemi vanno affrontati in partnership e il progresso va condiviso. Ma la prima questione da affrontare

è l’estremismo violento in tutte le sue forme. L’America non sarà mai in guerra con l’Islam. Tuttavia, confronteremo senza tregua gli estremisti violenti che pongono un serio rischio alla nostra sicurezza. Il mio primo compito come presidente è proteggere il popolo americano». In poco più di tre anni i salafiti di Alessandria d’Egitto ed i Fratelli musulmani hanno risposto come sappiamo ad Obama il quale, con ogni probabilità, non si è reso conto che le sue «buone intenzioni» hanno esposto maggiormente l’Europa agli attacchi del terrorismo islamista. E forse, ancora oggi, ridirebbe ciò che in quella occasione disse al Cairo suscitando le apprensioni europee sulle minacce iraniane. «Invece di rimanere intrappolato nel passato, il mio paese è pronto ad andare avanti. Il confronto sul controverso programma nucleare iraniano è a una scelta decisiva. Non riguarda solo gli interessi americani, ma si tratta di prevenire una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente che potrebbe portare la regione e il mondo intero lungo un cammino molto pericoloso. Riaffermo l’impegno dell’America per un mondo senza armi nucleari, ma ogni nazione, Iran compreso, dovrebbe aver diritto ad avere accesso al nucleare per scopi pacifici, se rispetta gli obblighi del Trattato di non proliferazione nucleare».

Musica per le orecchie degli ayatollah i quali

mai hanno cessato di spacciare il programma nucleare in stato di perfezionamento, se non già definito, per scopi pacifici. Anche su questo l’Europa si è trovata priva di ombrello. Insomma, all’università di Al Azhar, Obama disse molte cose interessanti, animato da buon senso e buona volontà. La sola cosa che gli sfuggì – e a rileggere quel discorso oggi si capisce perché il terrorismo jihadista abbia ripreso nuovo vigore, utilizzando ben tre anni per organizzarsi – è che con quegli accenti metteva l’Europa in seria difficoltà. I sentimenti antiamericani, comunque, per quanto latenti,soprattutto in alcuni Paesi dell’Unione europea, non hanno mai pregiudicato negli ultimi quattro anni i buoni rapporti tra Stati Uniti e Vecchio Continente. Neppure quando la valanga della crisi economica, origi27


Risk

Sostenere, come è stato fatto, che l’eccidio di Bengasi è attribuibile ad Al Qaeda è sbagliato. Probabilmente elementi vicini all’organizzazione, o semplici simpatizzanti, hanno cooperato alla riuscita, ma non dovrebbe esservi dubbio alcuno che militanti di una rivoluzione i cui contorni ancora non si conoscono abbiano lanciato una sfida agli Stati Uniti prendendo pure a pretesto la diffusione della ridicola pellicola blasfema «The innocence of muslims» nata negli Usa, si è abbattuta sui mercati europei. Come fa notare l’ultima indagine di «Transatlantic Trends», diffusa il 12 settembre, «se persiste uno scarto tra le due sponde dell’Atlantico su alcuni punti relativi alla sicurezza, l’indagine rivela però che Ue e Stati Uniti continuano a ritenersi alleati imprescindibili. Quasi due terzi degli europei (61 percento) affermano che gli Stati Uniti sono più importanti per gli interessi del proprio paese rispetto all’Asia».

Nonostante questi buoni indici, si sottolinea

da più parti in Europa che l’America è affetta da debolezza internazionale. Nella stessa amministrazione si constata, come ha di recente osservato Cesare Merlini in un report per l’Istituto Affari Internazionali, che «gli Stati Uniti, pur restando al vertice della piramide delle potenze della Terra, sono in declino relativo in un contesto caratterizzato dal multipolarismo interdipendente. E che in esso hanno bisogno di partner. Sulla tipologia dei quali però il discorso tende a confondersi, perché non è chiaro se le priorità siano legate

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più ai rapporti di forza, anche là dove essi sono suscettibili di essere di rivalità anziché di partnership, o a rapporti di alleanza, anche laddove questi sono percepiti come insufficienti». La prima opzione riguarda la Cina ed il mondo asiatico. La seconda i Paesi europei verso i quali l’incertezza della Casa Bianca e dell’establishment «è relativa al grado si condivisione con essi delle decisioni, oltre che dei problemi, anche se ciò comporta degli adattamenti della propria condotta internazionale». Insomma, si fa intendere che gli interessi strategico-militari, ma anche diplomatici degli americani dovrebbero essere assecondati in Europa a fronte delle sfide comuni, ma tutti sanno che la debolezza europea, dovuta alle numerose opzioni che nell’Ue convivono, esporrà sempre alla diffidenza americana il Continente che dovrebbe essere l’avamposto nel contrastare i pericoli di infiltrazione in Occidente dell’islamismo aggressivo. Su questo presupposto è francamente difficile immaginare una migliore concertazione tra Stati Uniti ed Europa, sia che venga riconfermato Obama o che vinca Mitt Romney. Comunque sia, il mondo euro-americano è costretto dalle circostanze a convivere e a condividere scelte ed impegni, sia dal punto di vista militare e della sicurezza che da quello economico. A tale riguardo, di recente, l’ambasciatore americano a Roma, David Thorne, ha detto: «Il benessere economico degli Stati Uniti dipende dall’interscambio con l’Europa. E allo stesso tempo l’Europa ha bisogno di una forte economia americana come mercato di riferimento. Siamo tutti sulla stessa barca ed è importante trovare il giusto equilibrio nel ricercare una maggiore austerità e nello stimolare allo stesso tempo la crescita». Ed ha anche aggiunto che la collaborazione «è destinata a diventare ancora più stretta ora che gli Stati Uniti si affideranno sempre di più alle partnership multilaterali con l’Europa per portare avanti gli interessi comuni». Anche in assenza di quella chiarezza nel nuovo sistema globale che permetteva di distinguere i rapporti, per esempio, al tempo della guerra fredda. Ciò vuol dire che se, come il quadriennio di Obama ha dimostrato, la necessità della collaborazione tra le due



Risk sponde dell’Atlantico è nelle cose, non è detto che per ragioni interne, soprattutto per ciò che concerne l’America, distanze considerevoli potrebbero manifestarsi: è già accaduto con la prima crisi economica, potrebbe accadere nuovamente. Soprattutto se l’Europa non dovesse riuscire a risolvere i suoi problemi. A tale riguardo è interessante sapere come nell’Ue il 65 per cento della popolazione si senta direttamente colpito dalla crisi e negli Stati Uniti è il 79 per cento a nutrire lo stesso sentimento. La maggioranza degli americani non apprezza le misure dell’amministrazione Obama in campo economico, mentre la stessa percentuale di europei non è soddisfatta delle misure adottate per risalire la china. Dati che fanno crescere la diffidenza tra Ue e Usa e non promettono niente di buono qualora dovesse prendere piede un nuovo isolazionismo americano, che è un’ipotesi remotissima viste le circostanze, come fa capire Romney. Per di più, secondo sondaggi recenti, Obama perde consensi in Europa rispetto al 2009, al punto che la sua politica estera cala di ben dodici punti, dall’83 per cento al 71 per cento. Un rapporto problematico, dunque. Nonostante l’europeismo del presidente uscente che tuttavia, per i motivi succintamente ricordati, non è riuscito a stabilire un legame di forte simpatia tra il suo Paese e l’Europa. Contraddicendo quanto era lecito attendersi, oltretutto. Infatti, durante la campagna elettorale del 2008, nel corso della quale aveva tenuto discorsi anche in Europa, famoso quello pronunciato a Berlino, e dopo la sua elezione, Obama suscitò molte speranze tra gli europei sia, da parte dell’opinione pubblica che di molti governi, considerato soprattutto che, durante l’amministrazione Bush, gli Stati Uniti avevano avuto una linea diversa rispetto alle due maggiori forze dell’Unione europea (Francia e Germania) in merito alla guerra in Iraq, cominciata nella primavera 2003, quindi circa un anno e mezzo dopo il dramma dell’11 settembre 2001, e alla gestione dell’intervento di per sé sempre condiviso in Afghanistan.

servatore, Paul Kagan, aveva detto che (in merito all’Iraq e più in generale rispetto alla lotta globale al terrorismo) che gli Usa vivevano su Marte, avendo compreso l’inevitabilità della guerra come condizione permanente del mondo, mentre l’Europa viveva su Venere cullandosi nell’utopia di un mondo dal quale sarebbero presto scomparsi tutti i conflitti. Non c’è dubbio che Obama si è mosso per mutare approccio. In generale una significativa parte dei giornalisti e degli analisti europei considerarono, fin dall’inizio, Obama come un amico dell’Europa, anzi come un dei presidenti che maggiormente considerava i rapporti con il Vecchio continente come una priorità assoluta. In realtà vi è stata un certa parte di retorica, perché in effetti il libro pubblicato da Obama in campagna elettorale, il famoso The Audacity of Hope, dedicava gran parte del saggio alla politica estera ed alle relazioni politiche ed economiche, già allora evidentemente più strategiche rispetto a quelle storiche con il Vecchio continente, con l’Asia. Soprattutto nel primo biennio presidenziale Obama (anche se da parte dei repubblicani, per esempio a proposito della ventilata e a dire il vero mai realizzata chiusura vergogno campo di concentramento di Guantanamo, lo si accusava soprattutto all’ inizio del mandato di non avere personalità andando a cercare l’applauso degli europei) ha concretamente dedicato molto più spazio all’Asia, oltretutto “snobbando” alcuni appuntamenti significativi con gli europei (assente – unico leader occidentale – alle cerimonie del 20° anniversario della caduta del Muro di Berlino; l’autodefinizione di «presidente pacifico» alle relazioni transpacifiche degli Usa; l’assenza al vertice Ue-Usa del maggio 2010). Per quanto non gravi sono stati fatti significativi che hanno messo sotto gli occhi del mondo il rapporto altalenante di Obama con l’Europa, dando la sensazione che il presidente volesse non mutare i rapporti, ma ricostruire un nuovo ordine internazionale fondato sulla pariteticità tra il mondo europeo e quello asiatico, senza trascurare il mondo africano dove però, nonostante i suoi viaggi e l’atNella parte finale dell’ultimo mandato di Bush, tenzione profusa, sembra aver fatto un buco nell’acun personaggio allora molto influente in ambito con- qua. Sul Medio Oriente ha tenuto una posizione con30


dossier se di destra: roba per manuali di psico-patologia politica o, più prosaicamente, esempio di sindrome di Stoccolma), è stato il detonatore che ha fatto esplodere i rapporti che – anche grazie a Sarkozy ed al suo progetto di Unione per il Mediterraneo, come prosecuzione dell’interrotto Processo di Barcellona – si stavano costruendo nell’ambito della comunità euro-mediterranea. L’Europa, comunque, nonostante tutto, alternando delusioni ed entusiasmi, si è trovata sostanzialmente in sintonia con Obama, rispetto a quanto avvenuto con Bush col quale si consumarono rotture clamorose nel marzo 2003 nelle ore drammatiche della vigilia dello scoppio della guerra in Iraq, per il rispetto della tabella di marcia per il disimpegno daltraddittoria generata dal citato discorso del Cairo. Po- l’Iraq e per la continuazione della presenza in Afghasizione che certo non ha agevolato l’azione del «Quar- nistan, pur se in graduale assottigliamento e con la tetto» e la mediazione di Tony Blair: da quelle parti si prospettiva per ora chiara del 2014. ricomincia sempre daccapo, non certo per colpa di Obama, sia chiaro, ma anche per la sua non straordi- Una continuità tra Obama e Bush vi è stata invenaria produzione di sforzi nel mettere Israele e Pale- ce in merito ai rapporti con Israele (rispetto alla quastina nelle condizioni di potersi avvicinare, o quanto- le anche Obama ha sempre apertamente detto nei suoi meno, di trattare. Impresa non facile, ovviamente, ma discorsi che garantirne la protezione è un obiettivo che stupisce che non ci si sia neppure provato. per gli Usa non verrà mai meno, anche se sul fronte A proposito di Medio Oriente, fermo restando che gli specifico degli insediamenti israeliani nei territori paentusiasmi di molti su un Obama paladino della de- lestinesi il presidente in carica è stato più tiepido rimocrazia in contrasto con il “guerrafondaio” Bush spetto al suo predecessore). A ciò si lega pure la consembrano superficiali, non vi è dubbio che abbia svi- vinzione con cui, anche sotto Obama, gli Stati Uniti luppato linee alternative rispetto al suo predecessore. hanno rimarcato le distanze dall’Iran e l’impossibiliTanto Bush aveva puntato al sostegno di regimi (per tà di un compromesso in merito ai programmi nucleaesempio quelli di Mubarak in Egitto e della dinastia ri degli ayatollah, ma non con la determinazione mosaudita) dal pugno di ferro, ma fino a un certo punto strata dalla precedente amministrazione: vedi al riin grado di tenere i rispettivi Paesi in salvo da una pos- guardo sempre il citato discorso del Cairo. sibile irrimediabile deriva fondamentalista, quanto Il punto di differenza certamente più forte e chiaro tra Obama ha avuto l’abilità di cavalcare l’onda e offri- Bush e Obama riguardo alle relazioni con l’Europa si re sostegno politico alla cosiddetta “primavera ara- è consumato nel settembre 2009 quando il nuovo preba”: come si è detto, un errore di valutazione le cui sidente ha messo da parte, abolendolo, il programma conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Per di più relativo al cosiddetto «scudo antimissile» che l’ammil’entusiasmo dell’amministrazione americana ha “con- nistrazione Bush aveva programmato, mediante appotagiato” anche l’Europa, al punto che la sciagurata stiti accordi con gli Stati interessati, di posizionare in «campagna di Libia», ispirata tra gli altri da un intel- Polonia e Repubblica Ceca. Si trattava di un grande lettuale controverso come Bernard-Henry Levy (un sistema potenzialmente in grado di intervenire contro uomo di sinistra che ha irretito un presidente france- eventuali attacchi missilistici provenienti da oriente.

L’Europa, comunque, nonostante tutto, alternando delusioni ed entusiasmi, si è trovata sostanzialmente in sintonia con Obama, rispetto a quanto avvenuto con Bush col quale si consumarono rotture clamorose nel marzo 2003 nelle ore drammatiche della vigilia dello scoppio della guerra in Iraq

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dossier spetto a quelli spesso burrascosi tra Bush e il primo Putin presidente (lo stesso Medvedev, incontrando Obama, disse che era venuto il momento di «azzerare le nostre relazioni e di aprire una nuova pagina nel nostro percorso comune»). Fino a poco tempo fa, quando le “primavere arabe” facevano presagire un futuro migliore ed un’apertura alle istanze democratiche frustrate da un ritorno alla sharia, com’era facile immaginare, la stabilizzazione della Libia sembrava alla portata, i temi dell’economia sarebbero stati più centrali rispetto alObama ha spiegato la decisione col fatto che sotto la l’era Bush. Oggi, da quanto accade nel Mediterrasua guida gli Usa avrebbero avuto un nuovo approc- neo, sembrano essere quelli della sicurezza i temi cio, meno ancorato a modelli vecchi e ormai fuori dal intorno ai quali costruire nuove relazioni transatlantempo, rispetto alla Russia e al Medio Oriente. tiche. Obama o Romney dovranno tenerne conto ed Questa decisione è importante non solo dal punto di immaginare un nuovo ordine mondiale che abbia il vista strategico degli Usa, ma anche da quello degli suo baricentro nel Mediterraneo: da qui, infatti, postati dell’Europa orientale (il che vale soprattutto per trebbe venire l’attacco all’Europa e trascinare in un quelli che sono già membri della Ue) che oggi, infat- più sanguinoso conflitto l’America. ti, sotto Obama sono decisamente meno filo-americani (cosa che invece avveniva in modo estremamente Tra le due sponde dell’Atlantico le relazioni pur marcato durante il periodo di Bush) e più attivamen- solide hanno bisogno di essere rafforzate a fronte delte interessati a contribuire alle questioni europee. le emergenze che si stanno manifestando. L’aggresUn chiaro filo di continuità tra Bush e Obama è stato sione all’Occidente, questa volta, è massiccio e coorinvece registrato in merito a un altro tema molto im- dinato: tutto il mondo arabo-musulmano, quasi comportante per l’Europa, ovvero lo status e le prospetti- pletamente nelle mani degli integralisti, è fermamenve politico-militari della Turchia. Sia col vecchio che te determinato a soggiogare una popolazione che si col nuovo presidente gli Stati Uniti hanno continuato aggira intorno al miliardo e mezzo, di fede islamica, ad essere forti alleati della Turchia, vista come un al- nel nome di una Umma senza confini, governata dalleato (ieri rispetto alla vicenda irachena, oggi rispetto la sharia. Il mondo euro-americano è il nemico. O si alle ambiguità iraniane e all’instabilità seguita alla pri- unisce nella stessa battaglia, che non preveda immamavera araba) decisivo nell’area mediorientale, soste- ginifiche quanto imbecilli «esportazioni della demonendone le aspirazioni a far parte della Ue a dispetto crazia» (materiale tutt’altro che esportabile, come si dello scetticismo decisivo soprattutto di francesi e te- è visto), o è destinato a soccombere. Non è più temdeschi. Non a caso, durante il suo primo viaggio da po di distinguo. Prima se ne rendono conto Obama e presidente in Europa (aprile 2009), Obama inserì an- Romney e meglio è per tutti, a cominciare dagli stanche la visita – che fu di grande successo – in Turchia. chi europei alle prese con lo spread mentre non si acAltro tema importante è quello dei rapporti con la Rus- corgono che il pericolo ritorna sotto le mura di Belsia. La stampa americana ha più volte notato come tra grado, sinonimo di tragedie europee che si ripetono a Obama e il presidente Medvedev (da qualche mese distanza di secoli, come nel 1717. Se dovesse accadeormai non più in carica e sostituito da Putin) si fosse- re l’irreparabile, temiamo che non ci sarà un Eugenio ro instaurati rapporti positivi e certamente migliori ri- principe di Savoia a sgominare gli assedianti.

Obama o Romney dovranno immaginare un nuovo ordine mondiale che abbia il suo baricentro nel Mediterraneo: da qui, infatti, potrebbe venire l’attacco al Vecchio continente e trascinare in un più sanguinoso conflitto l’America

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Risk LA POLITICA DEI TAGLI ALLE SPESE MILITARI, TRA LIMITI E OPPORTUNITÀ

GLI USA E LA DIFESA PROSSIMA VENTURA DI •

I

STRANAMORE

l grande dibattito in corso nella Washington belt, l’area intorno alla capitale ove sono basati istituti di ricerca, uffici del Pentagono, centri di ricerca e società di lobbisti, non riguarda solo e principalmente il mutamento in atto della politica di difesa e le prospettive di ulteriori cambiamenti a valle delle elezioni di novembre, quanto il possibile impatto del temutissimo «sequestro», ovvero i

tagli automatici al budget del Pentagono che in teoria potrebbero scattare già a gennaio, a prescindere da chi sarà il nuovo presidente, se il Congresso e la Casa Bianca non troveranno un accordo sulla riduzione dell’astronomico deficit federale. A legislazione vigente, scatteranno riduzioni automatiche di spesa che riguarderanno in larga misura proprio la spesa militare, per un ammontare stimato in 500 miliardi di dollari in un decennio. Il Pentagono è davvero preoccupato, come il segretario alla Difesa, Leon Panetta, ripete continuamente e quasi ad esorcizzare la catastrofe è stata impartita la direttiva di non procedere ad alcuna pianificazione per studiare come fronteggiare l’avvio di questo secondo round di tagli. Già, perché in realtà il department of Defense (DoD) già ha incassato riduzioni di bilancio per 487 miliardi di dollari, spalmati su un decennio. Panetta sostiene che grazie alle misure di efficientamento e ad una nuova politica di sicurezza, unita alla fine della stagione delle «guerre senza fine», in particolare in Iraq e in Afghanistan la prima “botta” può essere assorbita senza compromettere la sicurezza nazionale e il ruolo di superpotenza degli Stati Uniti. Ma le cose cambierebbero se a gennaio entrasse in vigore una serie di brutali tagli lineari. Con l’avvicinarsi dell’appuntamento elettorale, lo scontro politico si va infiammando e le lobby si sono messe al lavoro, mentre vengono pubblicati studi sempre 34

più allarmistici sull’impatto di 500 miliardi di tagli. Ad esempio l’Aia, l’Associazione delle Industrie Aerospaziali, ha sponsorizzato una ricerca i cui risultati evidenziano come i tagli porterebbero a cancellare fino a 2,14 milioni di posti di lavoro diretti ed indiretti, mentre solo nel Fiscal year 2013 ci sarebbe una perdita di 215 miliardi di dollari di prodotto interno lordo. C’è chi afferma che le grandi società del settore cominceranno a spedire migliaia di lettere di licenziamento già a partire da ottobre, in modo da anticipare la ristrutturazione inevitabile e la riduzione di capacità produttiva, addolcendo quindi in qualche misura gli effetti dei futuribili tagli di spesa.

In realtà la situazione non è così drammatica.

È vero che la legge anti deficit è stata concepita come una sorta di trappola mortale per la Difesa e l’industria della difesa, in modo da costringere repubblicani e democratici a trovare un accordo. Ed è vero che sono passati 17 mesi senza che si sia raggiunto un compromesso ed ora l’incubo rischia di diventare realtà, anche perché con l’orologio che corre verso l’appuntamento elettorale e, considerando anche la composizione del ticket repubblicano, le posizioni dei due schieramenti si vanno radicalizzando. Entrambi i partiti convengono che il taglio automatico della spesa federale per oltre 1 «triliardo» (mille mi-


liardi) di dollari va scongiurato, ma si dividono sulla ricetta: i democratici propongono un incremento della tassazione, diretta ed indiretta, colpendo soprattutto i ceti più ricchi che hanno beneficiato di esenzioni di imposta rilevantissime per lustri. I repubblicani ed in particolare gli influenti Tea Party di nuove tasse non ne vogliono neanche sentir parlare e propongono piuttosto di ridurre selettivamente la spesa federale, puntando su Medicaid, Foodstamp e buoni pasto scolastici. Neanche una formula intermedia sembra avere molte probabilità di successo, specie considerando che i repubblicani controllano la Camera e i democratici il Senato. Difficilmente si andrà quindi a realizzare quel «grand bargain» in cui molti continuano a sperare. Però qualche misura di “addolcimento” è già arrivata: da un lato la legge taglia deficit è stata interpretata in modo da escludere dagli automatismi gli stipendi del personale della Difesa. Il che da un lato è positivo, perché non mette a rischio la forza organica, dall’altro sposta il peso delle riduzioni su investimenti e funzionamento. Altro passaggio importante è l’accordo bipartisan sulla necessità di varare una legislazione finanziaria “ponte” che consenta alla macchina federale di operare come nel Fy 2012 fino alla fine di marzo. Si procederà quindi a «dodicesimi», usando come base il bilancio dell’anno in corso. Tagli dunque rinviati, anche se durante il periodo ponte il Pentagono avrebbe le mani legate, con poche possibilità di spostare soldi da un programma all’al-

I tagli automatici al budget del Pentagono in teoria potrebbero scattare già a gennaio, a prescindere da chi sarà il nuovo Presidente, se il Congresso e la Casa Bianca non troveranno un accordo sulla riduzione dell’astronomico deficit federale



dossier tro oppure di avviare nuovi progetti. Va anche considerato che non è la prima volta che il Pentagono deve affrontare una drastica riduzione degli stanziamenti: durante l’era degli sciagurati ed avventati «dividendi della pace» successivi alla disgregazione dell’Urss la consistenza delle forze armate si ridusse in soli 5 anni, dal 1990 al 1995 di quasi 600mila uomini, per poi invertire il processo dopo l’11 Settembre. Oggi l’amministrazione Obama ha già varato una contrazione del personale dello Us Army e dello Usmc di 92mila unità. Aeronautica e Marina a loro volta dimagriranno, ma in misura largamente inferiore. Il che peraltro è coerente con la voglia di disimpegno dalle operazioni militari internazionali che caratterizza la nuova politica di difesa Usa. Obama sta facendo di tutto per disimpegnare gli Usa da Iraq e Afghanistan e conseguentemente il budget straordinario per le operazioni di guerra è in calo continuo: dai 160 miliardi di dollari del 2011 si è scesi a 115 quest’anno e a 88 previsti per il 2013, con la prospettiva di scendere a 43 miliardi nel 2017. Non c’è invece ancora alcuna vera riduzione del bilancio della difesa “core”: il budget 2011 poteva contare su 558 miliardi di dollari, nel periodo 2001-2011 il bilancio ordinario per la difesa Usa è aumentato del 40 per cento in termini reali. L’aumento dal 2001 è stato invece del 70 per cento, sempre in termini reali, considerando anche le “spese di guerra”. Il bilancio core nel 2012 è stato di 561 miliardi di dollari e sono stati richiesti 558 miliardi per il 2013. A titolo di paragone è utile ricordare come durante la guerra in Vietnam gli Usa abbiano speso, al culmine del conflitto, l’equivalente in termini reali di 534 miliardi di dollari. Quindi… al momento non ci si può davvero lamentare. Va anche chiarito però che il pil statunitense ha continuato a crescere nel corso dei decenni e quindi oggi la Difesa “pesa” per poco più del 3,5 per cento del pil, tenendo conto del solo bilancio core, mentre complessivamente il settore aerospazio e difesa rappresenta il 5 per cento del pil Usa. Peraltro la spesa militare costituisce una fetta molto significativa del bilancio federale, poco meno del 18 per cento, ed è per questo che il «sequestro» andrà ad afflig-

Panetta sostiene che grazie alle misure di efficientamento e ad una nuova politica di sicurezza, unita alla fine della stagione delle «guerre senza fine», in particolare in Iraq e in Afghanistan, la prima “botta” può essere assorbita senza compromettere la sicurezza nazionale gere in larga misura proprio la Difesa. Tuttavia va ben chiarito che l’attuale pianificazione del Pentagono, pur assorbendo quasi 500 miliardi di tagli, consente di soddisfare tutte le esigenze nazionali di sicurezza. Il discorso cambierebbe con altri 500 miliardi in meno rispetto al previsto. Ma sarebbero comunque ripartiti su 10 anni. Anche se Panetta dice che la sequestration avrebbe l’effetto di svuotare di capacità effettive lo strumento militare, in realtà gli Usa resterebbero la prima potenza militare mondiale. Sempre che non si vadano ad invischiare in qualche altra guerra eterna di controguerriglia.

Gli Usa però sembrano aver imparato la lezio-

ne… non solo non si parla più di «esportare la democrazia» o di «ingerenza umanitaria», ma si è fermamente convinti che lo strumento militare vada utilizzato solo quando sono in gioco gli interessi essenziali del Paese, prendendo in considerazione diverse tipologie di conflitto. Innanzitutto una guerra ad alta intensità combattuta contro un avversario statuale, con forme «convenzionali», sia pure innovate per tener conto dell’evoluzione tecnologica. Anche se non lo si dice apertamente, ci si prepara al confronto con la Cina e magari con l’Iran. Si parla quindi di guerre «stato contro stato», dove quel che conta è la supremazia tecnologica, operativa, addestrativa, qualitativa. Ci possono poi essere conflitti su scala più o meno vasta, 37


nei quali però gli Usa vogliono limitarsi ad un ruolo di supporto: supporto pregiato, anche importante per quantità e qualità, ma limitando al minimo l’impegno diretto in combattimento. Questo tipo di conflitto è ben rappresentato dalle operazioni Nato contro la Libia di Gheddafi. Ancora, ci sono e saranno le «guerre indirette», combattute da alleati e proxy locali, come è accaduto nei primi mesi della guerra in Afghanistan. C’è infine l’ampia gamma delle operazioni militari contro il terrorismo, che richiederanno un impiego massiccio di forze speciali, di mezzi robotici, a partire da quelli senza pilota, dell’intelligence, con un uso molto disinvolto delle armi ovunque necessario, come avviene già oggi in Somalia, in Yemen, in Pakistan, in diversi Paesi africani. Si agisce in modo determinato, senza troppa pubblicità, in Paesi collassati o con l’accordo di governi locali più o meno credibili e legittimati. Quello che nessuno vuol più fare è trovarsi impantanati in operazioni di stabilizzazione e controguerriglia su vasta scala e senza fine, come è accaduto in Afghanistan ed in Iraq, ed in precedenza anche nei Balcani. Se ci deve essere un «cambio di regime» si dovrà fare in modo che non ci siano vuoti da riempire e Paesi da ricostruire. Certo è più facile a dirsi che a farsi. Ovvio comunque che se non si prevede più di dover mantenere in azione consistenti armate di terra con decine di migliaia o centinaia di migliaia di uomini, la macchina militare Usa cambierà volto. Non solo la componente terrestre, che ha nel «sistema d’arma soldato» il suo principale elemento va a ridimensionarsi se perde peso l’esigenza di avere grandi numeri di «boots on the ground», ma cambiano anche le priorità degli investimenti. Quindi si spende meno per fronteggiare quelle minacce che, in assenza di qualcosa di più temibile, erano assurte a preoccupazione principale durante gli anni della guerra di guerriglia: parliamo ad esempio del contrasto delle mine e degli ordini improvvisati, dei veicoli protetti ad alta mobilità, dei sistemi di scoperta ed eliminazione dei cecchini, dei sistemi per la difesa delle basi avanzate nei confronti degli attacchi condotti con razzi, bombe da mortaio e


dossier qualche volta proietti d’artiglieria. Nel corso degli anni sono stati spesi decine e decine di miliardi di dollari per programmi finalizzati a rispondere alle esigenze urgenti che giungevano dai teatri di guerra. Ora questi fiumi di denaro si andranno a ridurre considerevolmente. In compenso si spenderà di più in cyberwarfare, intelligence, sistemi di sorveglianza, di comando e controllo, nelle forze speciali i cui ranghi continuano ad infoltirsi, si cercherà di difendere la supremazia di cui gli Usa godono nel campo spaziale. Si spenderà anche in quelle tecnologie sofisticate che sono considerate essenziali per mantenere una indiscusso vantaggio nei confronti dei potenziali concorrenti. Il che non vuol dire che si perseguirà la tecnologia fine a se stessa, come spesso è avvenuto in passato. In tempi di ristrettezze economiche i soldi vanno spesi bene. Lo si vede ad esempio dal nuovo approccio al rinnovamento dell’arsenale nucleare: gli Usa non hanno intenzione di mantenere un costosissimo complesso di forze che risulta da un lato esorbitante le ragionevoli esigenze di deterrenza e che dall’altro assorbe risorse indispensabili alle forze convenzionali. Quindi ben vengano gli accordi di riduzione degli armamenti nucleari con la Russia, che ha lo stesso problema.

Nel futuro ci saranno meno atomiche, ma più

precise e letali. Al contempo a dispetto della avversione dimostrata dalla amministrazione Obama nei confronti dei programmi per la difesa antimissile, gli Usa hanno ed avranno uno scudo multistrato sempre più efficace e credibile, che renderà vani gli sforzi di molti Paesi di dotarsi di missili a lungo raggio armati con testate nucleari e per contro permetterà agli Usa di considerare il ricorso preventivo all’arma nucleare con minori preoccupazioni circa una eventuale ritorsione dell’avversario. E se si deve ottenere il massimo ritorno per ogni dollaro speso, da un lato il Pentagono cercherà di contenere i suoi sogni, smettendo di chiedere l’impossibile e pagando poi… l’impossibile per ottenere solo in parte quanto desiderato, dall’altro si imporrà al sistema industriale maggiore responsabilità, rispetto degli impegni, dei costi, dei tempi, delle pre-

Il bilancio core nel 2012 è stato di 561 miliardi di dollari e sono stati richiesti 558 miliardi per il 2013. È utile ricordare come durante la guerra in Vietnam gli Usa abbiano speso, al culmine del conflitto, l’equivalente di 534 miliardi di dollari

stazioni richieste. Cambia dunque anche il modo in cui il doD (department of Defence) fa e farà la spesa. Ovviamente ci sarà anche una riduzione nei numeri delle forze combattenti pregiate convenzionali: meno aerei, meno navi, meno elicotteri, carri armati e così via. Però i sistemi e le piattaforme che resteranno saranno largamente superiori a quelle degli avversari, sia singolarmente sia, soprattutto, una volta messe «a sistema» ed integrate. E il «prodotto operativo», la percentuale di uomini e mezzi impiegabili effettivamente in rapporto alla forza complessiva, moltiplicata per il coefficiente qualitativo relativo al livello tecnologico e capacitivo dei sistemi d’arma e al livello addestrativo del personale dovrebbe risultare più elevato grazie allo sforzo nell’ammodernamento, alle procedure di rotazione dei militari tra impegni operativi e periodi di ri-addestramento e riposo, al periodico miglioramento tecnologico dei sistemi in servizio. Non solo, gli Usa hanno scelto chiaramente di spostare il focus della propria attenzione nelle regioni considerate più importanti: questo vuol dire innanzitutto l’Asia e il Pacifico, il Golfo Persico, in minor misura il Medio Oriente, l’Africa e persino il Sud America. La Nato in un contesto del genere non può più essere il fulcro della politica di alleanze militari e di sicurezza. Gli Usa mantengono in Europa un presidio ancora consistente, anche perché solo in questo modo possono continuare a dirigere la Nato stessa ed a poterne chiedere il supporto per questa o quella operazione, ma le forze presenti in Europa sono più che altro preposizionate per poter essere proiettate in altri teatri. 39



dossier Gli alleati Europei sono stati invitati con discreta veemenza ad abituarsi a far da se. Soprattutto dopo che è fallito il tentativo di allargare la Nato ampliandone le competenze e le responsabilità all’Asia ed includendo paesi come Australia o Corea del Sud o Giappone. Visto che questa operazione è naufragata, l’Europa ha perso ulteriormente rilevanza. Va osservato per inciso che l’essere irrilevanti a livello internazionale comporta però il pregio di potersi concentrare sui propri problemi di sicurezza che, almeno nel brevissimo termine, sono fortunatamente poco significativi. Gli Usa ora vogliono costruire qualche forma di alleanza militare e di sicurezza strutturata in Asia, rinverdendo i fasti di una Seato. Ma fino ad oggi sono mancate le condizioni politiche, strategiche, economiche e militari per riuscire a unire paesi con ambizioni e interessi divergenti, come è il caso appunto per Australia, Corea, Giappone, Taiwan, Singapore, India eccetera.

Washington comunque sta muovendo uomini

e mezzi in Asia, consapevole che è lì che potrebbe giocarsi il confronto con la sempre più temibile realtà cinese. Riducendo la presenza in altri paesi e schierando poi i sistemi d’arma più moderni primariamente nel Pacifico, Washington è in grado di mantenere inalterati o migliorare i rapporti di forza nei confronti della Cina a dispetto del formidabile sforzo compiuto da Pechino per accorciare le distanze e per creare forze armate moderne e in grado di proiettare potenza a lunga distanza dalla madrepatria. Non ci si faccia confondere dal fatto che alcuni sistemi d’arma cinesi «assomigliano» a quelli statunitensi o europei: per ora e per ancora lustri il differenziale tecnologico a vantaggio dell’Occidente rimarrà marcato e un certo rallentamento della crescita economica della Cina potrà costringere a ridimensionare gli obiettivi o almeno la tempistica per tradurli in realtà. E nel frattempo gli Usa avranno avuto quantomeno l’opportunità per superare le proprie difficoltà economiche. In conclusione, lo strumento militare che il nuovo presidente comanderà nei prossimi quattro anni non è certo una «hollow force», al contrario è il frutto di una

evoluzione compiuta nel corso di un decennio, frutto delle lezioni apprese sui campi di battaglia e di significativi progressi tecnologici compiuti in diverse aeree (ad esempio nel campo della robotica, dell’armamento di precisione, delle armi ad energia diretta, dell’elettronica, dello stealth, del cyberwarfare, del comando e controllo). Con la fine delle guerre di stabilizzazione il Pentagono continuerà si ad essere coinvolto in operazioni militari di livello e portata limitata, ma potrà sostanzialmente concentrarsi nel rendere ancora più affilata e efficace la punta di lancia. Una lancia che potrà entrare in azione più velocemente che in passato e che sarà in larga misura gestita da veterani con esperienza reale di combattimento. Certo, c’è lo spettro incombente della «sequestration», ma con il ricorso alla legislazione di spesa provvisoria si guadagneranno mesi preziosi che dovrebbero consentire alla nuova amministrazione ed al nuovo Congresso di trovare davvero un compromesso ragionevole tra rigore finanziario e esigenze di difendere la posizione di leadership globale. Non è un caso se il documento d’indirizzo strategico militare pubblicato dal Pentagono ad inizio anno è improntato a spiegare come sarà possibile continuare a Sustaining Us Global Leadership. In realtà anche gli stessi protagonisti della scena industriale statunitense considerano probabile che la nuova amministrazione sarà costretta a diminuire gli stanziamenti per la Difesa, ma lo farà in misura decisamente inferiore rispetto a quanto previsto dal meccanismo della sequestration. E difficilmente ci sarà un rovesciamento della attuale impostazione politica: se Obama e i democratici vogliono riportare a casa i soldati che da troppo tempo combattono in Iraq ed Afghanistan (già, combattono, quando si parla di «fine delle operazioni di combattimento» si fa solo propaganda e pubbliche relazioni) i repubblicani condizionati dai Tea Party rischiano addirittura di riproporre concetti all’insegna dell’isolazionismo e del «fortress America». Non c’è quindi alcun motivo per attendersi un radicale mutamento di rotta, né un’abdicazione di Washington alla posizione che ha assunto dalla fine della seconda guerra mondiale. 41


Risk RITRATTO DEI DUE CANDIDATI ALLA CASA BIANCA TRA «PAURE» E «SPERANZE»

I DUE PRESIDENTI DI •

U

LUISA AREZZO

n mese all’election day e tre certezze: l’esplosione salafita islamista del mondo musulmano ha reso carta straccia, o quasi, mesi di campagna elettorale; quest’ultima, fatte salve le recenti settimane (ma è triste e sinistro doverlo constatare) è stata noiosa e priva di idee – tanto che per mesi i sondaggi hanno dato Obama e Romney in sostanziale parità –; infine, mai

l’America è stata tanto lontana da quell’«Hope and Change» che aveva mandato alla Casa Bianca il primo presidente di colore della sua storia. E se speranza e cambiamento nel 2008 era stato il mantra capace di conquistare il cuore e le menti degli elettori, nel 2012 la parola d’ordine è «Fear», paura. Un sentimento che corre sotto traccia e che nessuno dei due candidati è disposto ad ammettere, ma che nel segreto dell’urna peserà sulla scelta degli elettori, eccome. «Nel mondo, oggi l’America è più rispettata»: suonano sinistre a rileggerle adesso quelle parole di speranza ed orgoglio pronunciate dal presidente a Charlotte ad una settimana dalla strage di Bengasi. Mentre è sempre più evidente che dalla capacità di risposta della Casa Bianca dipenderà la riconferma o meno di Barack. «Gli Stati Uniti non si ritireranno mai dal mondo, perché questa è l’essenza della leadership americana», ha detto il 17 settembre Obama, accogliendo insieme a una Hillary Clinton tra le lacrime i feretri dei quattro diplomatici uccisi dalla piazza fondamentalista. Una frase forte, testimone tuttavia di un’importante cambio di prospettiva: l’America gioca in difesa. Così come il suo presidente, che deve convincere gli americani di essere l’unico vero timoniere capace di traghettare gli «States» fuori sia dalla crisi internazionale sia da quella economica e sociale. L’ondata di 42

violenza e odio verso i valori incarnati dall’Occidente, Stati Uniti in primis, è stato un brutale risveglio per tutti. Nulla a che vedere con il sommesso realismo della Convention democratica. La mano tesa da Obama all’Iran e all’intero mondo islamico quattro anni fa al Cairo, non ha dato i frutti sperati, anzi. Mai il clima era stato più teso.

E la primavera araba fortemente sostenuta da Washington è stata, almeno nella sua fase iniziale, un abbaglio. La Storia sarà più chiara in merito, ma nel breve periodo – quello che conta alle elezioni – la radiografia è spietata: il mondo del «Yes we can» e dell’«hope and change» non solo non è decollato, ma è sparito. E l’America del prermio Nobel per la pace, Obama, non è mai stata tanto odiata e tanto in difficoltà. Alla luce di tutto questo, molti analisti hanno pronosticato la possibile vittoria del candidato repubblicano Mitt Romney. Ma anche lui, da Tampa in poi, non sta giocando bene le sue carte. Anzi. La sua convention è stata macchiata dall’intervento di Clint Eastwood che con il suo monologo alla sedia vuota ha fatto infuriare, e in modo trasversale, gli elettori. Il suo attacco poi a Barack Obama a poche ore dalla morte di Christopher Stevens in Libia e dei tre funzionari all’ambasciata è stato a dir


dossier poco fuori luogo. Davanti alle tragedie il popolo Usa si compatta e non sopporta di finire in mezzo a una sterile contesa elettorale. Romney nel merito avrà pure avuto ragione, ma ha scelto il momento sbagliato per dirlo. E adesso paga pegno. Ma soprattutto mostra di essere indeciso. Il Wall Street Journal (mica il New York Times!) ha definito la sua campagna elettorale «disastrosa e ideologicamente vuota». Una considerazione, quest’ultima, che nei mesi scorsi era stata letta come una scelta ben precisa, l’unica capace di convogliare il voto sia dei moderati che dei repubblicani doc. La tattica sembrava poter funzionare (anche grazie alla scelta a vicepresidente di Paul Ryan, a cui l’identità Gop certo non difetta), ma dopo che le sedi diplomatiche statunitensi di mezzo mondo sono state assaltate la sua equidistanza è apparsa più una debolezza che un punto di forza. Ronald Reagan era duro e acritico rispetto a ciò in cui credeva. Così come lo era Margaret Thatcher, la Lady di ferro britannica alla quale tante volte Romney si è ispirato. Entrambi sono stati in grado di vincere le elezioni, cambiare il partito e trasformare i loro paesi perché erano dei conservatori che avevano chiesto il voto agli elettori su un programma chiaro che si proponeva di trasformare il modello di governo che li aveva preceduti. Vennero eletti e fecero esattamente ciò che avevano promesso. Calcoli e strategie politiche non erano nelle loro corde. Romney probabilmente avrebbe dovuto decidere molti mesi fa chi voleva essere: l’ultimo dei repubblicani alla Rockefeller o un genuino leader conservatore, con idee ben precise e dettagliate su come guidare l’America. E benché Romney non si sia mai stancato di dire che l’America ha bisogno di presidenti con una visione moralmente chiara del mondo, semplice da capire sia per gli amici sia per i nemici e magari capace di anticipare le crisi prima, non è riuscito a farlo. E questo oggi potrebbe costargli caro. Paradossalmente, ciò che lui non era stato in grado di fare glielo ha servito su un piatto d’argento lo stesso Obama quando, al

termine della Convention democratica ha offerto agli elettori una scelta chiara tra due visioni diverse, la sua e quella di Romney. Il discorso conclusivo del presidente, sotto questo profilo, è stato molto efficace. I democratici, ha spiegato, pensano che entro certi limiti lo stato possa contribuire a migliorare le vite dei cittadini, specie in tempi di crisi come questi, e che la riduzione delle imposte vada fatta per la classe media, non per chi guadagna più di 250 mila dollari l’anno.

I repubblicani, sempre secondo Obama, voglio-

no invece tornare alle politiche del passato e non sono interessati a pagare il conto della rete di protezione per chi rimane indietro nella scala sociale. Epperò il presidente non ha brillato nel proporre delle soluzioni: non ha offerto nuove ricette per uscire dalla crisi né per contenere il debito (e nemmeno sulle questioni internazionali). Si è limitato a chiedere più tempo per completare il lavoro iniziato quattro anni fa e a ricordare che le proposte degli avversari farebbero peggiorare ulteriormente i conti pubblici. L’argomento che non si debba lasciare un lavoro a metà e che sia meglio consentire al presidente di finire ciò che ha cominciato è argomento forte, ma già il primo anno, e poi il se-

Obama deve convincere gli americani di essere l’unico vero timoniere capace di traghettare gli «States» fuori sia dalla crisi internazionale sia da quella economica e sociale. Mentre l’ondata di violenza e odio verso i valori incarnati dall’Occidente, Stati Uniti in primis, è stato un brutale risveglio per tutti 43


Risk condo, e poi terzo, Obama aveva promesso che con le sue ricette le cose si sarebbero messe a posto. Ma il sogno non si è realizzato. Ora è più cauto, ma in assenza di nuove idee, di nuove proposte, di nuove soluzioni, chiedere più tempo e sottolineare le incongruenze dei repubblicani non può dirsi una strategia forte, piuttosto è stata vista come l’unica via percorribile per la rielezione. «Last but not least», la sua scelta di citare Franklin Delano Roosevelt, il 32mo presidente degli Stati Uniti in carica dal 1932 fino alla morte, nel 1945, benché avesse un significato politico ben preciso non è stata poi così felice.

I democratici hanno provato a dipingere Romney come un avido finanziere, come un tagliateste senza cuore che licenzia la gente al solo fine di ottenere un gigantesco profitto personale. Romney si difende dicendo che tra licenziamenti e nuove assunzioni il saldo netto di Bain Capital è stato di centomila posti di lavoro creati

Roosevelt arrivò al potere sulla scia del disastro economico lasciato dal crollo della Borsa del 1929 e dalla Grande Depressione che l’amministrazione repubblicana di Herbert Hoover non aveva saputo contrastare. Il suo piano di riforme economiche e sociali, il cosiddetto New Deal, contribuì a superare la crisi e portò innovazioni come l’assistenza sociale, le indennità di disoccupazione, di malattia e vecchiaia e l’agenzia per il controllo del mercato azionario. Ma il paragone non ha suscitato entusiasmo, tutti hanno capito che la fase storica che stiamo vivendo non è destinata, almeno nel prossimo quadriennio, a un’exploit di siffatta gran44

dezza. E le sue parole sono solo riuscite a confermare uno dei principali difetti di questo presidente: il suo ego smisurato. Solo un mese fa il New York Times (non il Wall Street Journal!) ha pubblicato un lungo articolo in prima pagina di Jodi Kantor, autrice di The Obamas, splendido ritratto della coppia presidenziale, e una delle prime firme americane sulle questioni di politica. Che cosa dice l’articolo? Dice che Obama forse ha un po’ perso la testa, come capita a quasi tutti i presidenti che si trovano isolati dentro lo Studio Ovale e in particolare a quelli dotati di un enorme ego (tutti i presidenti hanno un enorme ego, figuriamoci il primo presidente nero degli Stati Uniti). L’articolo dice che Obama gioca sempre per vincere, non solo in politica, ma anche con gli amici e con chiunque gli giri intorno. Una cosa che infastidisce parecchi dei suoi. Obama è mosso da uno spirito tenace (che i critici definiscono «arrogante») secondo cui qualsiasi cosa faccia deve comunque essere il migliore: dal golf al biliardo, dal leggere le favole ai bambini a giocare a carte, dalla gestione di una campagna elettorale alla scrittura di un discorso politico. Lui è il più intelligente e il più bravo e punto. Quando assume qualcuno spiega sempre che lui potrebbe fare quel lavoro molto meglio. «I think that I’m a better speechwriter than my speechwriters. I know more about policies on any particular issue than my policy directors. And I’ll tell you right now that I’m going to think I’m a better political director than my political director» ha detto qualche anno fa al direttore politico del suo staff. Agli stagisti della Casa Bianca, poi, ha spiegato la sua filosofia: «Quando avrete bambini è importante lasciarli vincere. Fino a quando compiono un anno. Poi cominciate a vincere». Diciamolo, fra queste parole e i risultati che ha portato a casa, c’è un abisso. Impossibile non notarlo. Nel 2009, Obama aveva conquistato la Casa bianca impegnandosi a restituire potere decisionale alla politica (sottraendolo alla finanza) e a su-


perare gli sterili dibattiti e le partigianerie che l’avevano condannata alla stagnazione e all’inedia. Sebbene la missione iniziale del presidente sia naufragata, nel 2009 la presidenza Obama riuscì convogliare le forze del paese nella lotta alla peggior crisi finanziaria della storia, e poi nel grande dibattito sulla garanzia dell’assistenza sanitaria ai cittadini meno abbienti. Passi importanti, eppure insufficienti a fargli elaborare una visione in grado di giustificare appieno un suo secondo mandato presidenziale. Tutto questa incertezza è stata però spazzata via dalla rivolta islamista, che ha riportato l’attenzione del paese sulla politica estera e della sicurezza. Temi sui quali Mitt Romney è sempre stato un po’ claudicante e che adesso si trova a rincorrere assieme ai suoi consiglieri più fidati, come John R. Bolton, l’ex ambasciatore Usa alle Nazioni Unite, già soprannominato «il falco» durante la presidenza di George W. Bush. Ecco perché, in questa “corsa” caratterizzata da lunghi mesi di stallo, i tre prossimi faccia-a-faccia (il 3 ottobre a Denver, il 16 ottobre a Hampstead (New York) e il 22 ottobre a Boca Raton (Florida) vanno assumendo una crescente importanza. Tra l’altro, proprio nelle settimane dei dibattiti, milioni di americani già andranno al voto con l’early voting (il voto anticipato o il voto per posta).

Da tempo i due rivali si stanno preparando ad

incrociare le armi direttamente. Il presidente sta studiando posizioni e slogan del rivale sin dalle primarie repubblicane e si sta allenando al testa a testa assieme al senatore John Kerry, chiamato a fargli da contrappeso nel ruolo di Romney. Il candidato repubblicano probabilmente è un po’ più avanti nella preparazione: sin dopo aver conquistato la nomination, i suoi strateghi gli hanno “ritagliato” nel calendario elettorale spazi di tempo espressamente dedicati ai dibattiti ed è ormai più di un mese che si allena in un’isolata residenza nel Vermont assieme al senatore Rob Portman nel ruolo di Obama. Si calcola che saranno decine di milioni le per-



dossier sone che, dal salotto di casa, guarderanno i dibattiti tv (quattro anni fa, oscillarono tra i 52 e i 63 milioni): un’audience decisamente superiore a quella delle convention e che determinerà il prossimo presidente degli «States». Una spada di Damocle continua nel frattempo ad aleggiare su Romney: quella relativa agli ultimi giorni da proprietario e gestore del fondo di investimenti Bain Capital. Dal 1984 al 1999, Romney ha guadagnato una cifra compresa tra i 190 e i 250 milioni di dollari da un business che, secondo il Wall Street Journal, ha prodotto in 77 affari circa 2,5 miliardi sulla base di un investimento di 1,1 miliardi di dollari. I democratici hanno provato a dipingere Romney come un avido finanziere, come un tagliateste senza cuore che licenzia la gente al solo fine di ottenere un gigantesco profitto personale.

Romney si difende dicendo che tra licenziamen-

ti e nuove assunzioni il saldo netto di Bain Capital è stato di centomila posti di lavoro creati, ma è difficile quantificare seriamente l’impatto di una società il cui obiettivo era fare profitti e non far crescere l’occupazione. In ogni caso, almeno fino a questo momento, le accuse non hanno funzionato. E in assenza di colpi di scena continueranno a non funzionare. Dunque Mitt Romney resta in pista, non scalda i cuori, non galvanizza l’elettorato, ma la sua grigia sicumera lo rende credibile e di buona volontà, mentre il suo passato da grande imprenditore gli garantisce quella competenza per aggiustare l’economia che gli americani cercano come il pane. Resta incerto il suo appeal sui «latinos» e le donne (ambiti nei quali Obama spadroneggia), ma la middle class potrebbe essere con lui e mandarlo alla Casa Bianca. Per Obama il discorso è diverso e certamente non è il candidato avversario, che sarà comunque debole. Il vero avversario di Obama è lui stesso, o meglio il sogno che ha rappresentato e che non ha realizzato. La nuova crisi internazionale, la fragilità dell’America, la situazione economica negativa e soprattutto il tasso di disoccupazione pesano su di

Sui soldi (anche da Wall Street) Obama è in vantaggio (non di moltissimo, ma in vantaggio). Ma questa volta non potrà contare su quella grande coalizione di liberal, indipendenti, interessi imprenditoriali e stampa molto amichevole che lo elesse nel 2008 lui come un macigno. Sui soldi (anche da Wall Street) Obama è in vantaggio (non di moltissimo, ma in vantaggio). Ma questa volta non potrà contare su quella grande coalizione di liberal, indipendenti, interessi imprenditoriali e stampa molto amichevole che lo elesse nel 2008. Quella coalizione irripetibile è saltata. I repubblicani, di contro, hanno come migliore alleato il sistema elettorale: la partita come al solito si giocherà stato per stato e, in particolare, su Florida e Ohio. Da non sottovalutare, però, il Colorado e l’Iowa. Se Obama vince in questi due stati rimane alla Casa Bianca anche se perde Ohio e Florida. Occhio anche al Wisconsin, se passa a Romney (grazie a Ryan) alla Casa Bianca ci va Romney, e la scelta di Ryan verrà ricordata come la più geniale di tutti i tempi. Ma è difficile.

Il punto è sempre lo stesso: Romney deve vin-

cere Ohio e Florida comunque e, inoltre, un paio di altri stati in bilico (come il Michigan). Non è impossibile, visti i sondaggi e l’economia e i soldi, ma la strada verso i 270 per Obama sembra più semplice. Se però Obama dovesse perdere Ohio e Virginia e, come preconizza Halperlin, non dovesse mantenere Virginia e Indiana, il presidente sarà un altro. Tutta questa incertezza a un mese dalle elezioni, tuttavia, fa venire un sospetto: che Obama a questo “giro” sia l’underdog, il candidato che parte svantaggiato alle prossime elezioni? 47


Risk

GLI

EDITORIALI/MICHELE

Un’industria strategica

Con l’approvazione da parte del Governo dello schema di decreto proposto dal ministro della Difesa che identifica le attività strategiche, previsto dalla legge 56/2012, si è aggiunto un altro tassello al sistema di controllo degli investimenti nel settore della difesa che, buon ultimo fra tutti i principali paesi industrializzati, anche l’Italia ha messo in campo quest’anno. Una volta completato l’iter di approvazione del decreto, eventuali cambiamenti di proprietà dovranno essere sottoposti all’esame del governo. Rimarrà poi solo da mettere a punto il regolamento di esecuzione della normativa (con particolare riferimento al ruolo di coordinamento della presidenza del Consiglio dei ministri. La normativa è volutamente flessibile perché ogni interferenza sul mercato va gestita con grande cautela. Solo la fase “informativa” verso le autorità è obbligatoria. Ogni decisione è, invece, facoltativa: il governo può prendere atto dell’iniziativa, può imporre specifiche condizioni a tutela degli interessi essenziali della sicurezza nazionale, può, infine, opporsi al cambiamento di proprietà. In realtà, quest’ultimo caso costituisce solo la soluzione estrema, perché nel mercato della difesa è molto difficile che un investitore non verifichi preventivamente l’orientamento dei decisori politici del paese interessato. Un’impresa della difesa nasce per soddisfare prioritariamente le esigenze delle proprie forze armate. In ogni caso se vuole esportare deve contare sul loro supporto e, quasi inevitabilmente, sull’adozione dell’equipaggiamento da parte del cliente nazionale o, almeno, sulla sua certificazione. La prosecuzione delle forniture nei loro confronti è indispensabile per assicurare il mantenimento delle capacità operative, ma lo è anche per il mantenimento e lo sviluppo dell’impresa interessata: essere sicuri che la Difesa continuerà ad acquisire determinati mezzi, favorendo inevitabilmente il fornitore nazionale (sempre che sia efficiente e competitivo), è un presupposto per ogni investimento finanziario. Lo stesso vale, a maggior ragione, per i programmi di ricerca e tecnologia, perché vi si gioca il futuro dell’impresa. In altri termini per opporsi ad un intervento sgradito basterebbe dare chiari e tempestivi segnali, anche solo informali. L’obiettivo del nuovo sistema di controllo non è, quindi, quello di impedire gli investimenti esteri, ma di consentirli, fissandone, caso per caso, limiti e condizioni. Fra il far west e il dirigismo

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di staliniana memoria c’è un mare dove si può navigare in modo relativamente tranquillo a condizione che si rispettino le regole. Governo e amministrazioni dovranno attrezzarsi e gestire con grande equilibrio questo “potere”. Non sarà facile perché la nostra cultura, è più legata al prevenire possibili critiche o obiezioni che non ad ottenere efficaci risultati. Si preferisce poter «utilizzare il bilancino del farmacista» per decidere sulla base di parametri prefissati che non doversi assumere la responsabilità di una valutazione basata su una seria analisi, anche delle implicazioni. Per definizione quest’ultimo approccio comporta più rischi (anche di possibili interferenze politiche), ma è ineluttabile per operare efficacemente in un mercato in continua evoluzione e sempre più internazionalizzato. Possono, però, essere adottati due antidoti: competenza, serietà, onestà degli addetti e volontà e correttezza dei decisori, da una parte, e trasparenza delle procedure e delle decisioni, dall’altra. In questo quadro la riservatezza deve servire per far fronte a possibili specifiche esigenze di sicurezza nazionale e non deve diventare la foglia di fico per nascondere eventuali interessi e affari privati. L’aver stabilito che le attività strategiche vanno particolarmente tutelate e averle identificate non può, comunque, limitarsi a considerare l’assetto proprietario. La “strategicità” deve riflettersi in un cambiamento che coinvolge la politica di bilancio, delle acquisizioni, della ricerca, delle esportazioni: assicurare un adeguato livello di spese militari e, in particolare, di quelle per investimenti e garantirne la stabilità all’interno di una pianificazione quinquennale; assicurare la priorità nella scelta dei programmi di acquisizione, fermo restando che sono le esigenze delle forze armate a determinare le acquisizioni; privilegiare l’innovazione di prodotto e di processo di queste attività nel finanziamento dei programmi di ricerca e tecnologia con fondi militari e civili; favorire le esportazioni concentrandovi le nostre limitate capacità di supporto, ma tenendo presente i rischi connessi coi trasferimenti tecnologici. Tutto questo può far sì che da uno specifico provvedimento nasca una strategia complessiva per rafforzare il sistema della difesa, concentrando le risorse umane e finanziarie sulle nostre aree d’eccellenza tecnologica e industriale e rimanendo, così, un player nel mercato internazionale della difesa.


editoriali

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EDITORIALI/STRANAMORE

Fermenti asiatici

Rischia davvero di farsi rovente la situazione nel Pacific rim e non solo per ragioni climatiche. Due episodi di cronaca hanno appena risvegliato l’attenzione di commentatori e analisti europei, ma sono stati vissuti con viva preoccupazione negli Stati Uniti sempre più coinvolti nelle vicende asiatiche. Un primo segnale è arrivato dalla visita di ministri appartenenti al partito democratico del premier nipponico Yoshihiro Noda al cosiddetto «Tempio della discordia» di Yasukhi, cosa che ha suscitato proteste, non solo di routine, da parte del governo di Pechino e più di un borbottio a Seoul. Certe manifestazioni erano quasi tollerate se condotte da appartenenti al partito liberale, ma se ci si mettono anche i democratici… Non sono passate neanche due settimane ed ecco che una imbarcazione cinese, salpata da Hong Kong, ha raggiunto le sole Senkaku ed ha tentato di sbarcarvi un gruppo di attivisti, provocando la immediata e ferma reazione della guardia costiera giapponese (che ha la consistenza e le capacità di una vera marina da guerra). I toni dalle due parti si sono fatti accesi e mentre i “reduci” della bravata venivano accolti in Cina con festeggiamenti e tributi, una flottiglia di natanti battente bandiera giapponese ha raggiunto le Senkaku, carica di esponenti politici e appartenenti a gruppi nazionalisti i quali hanno riaffermato la sovranità giapponese sull’arcipelago pressoché disabitato, ma di potenziale interesse strategico per via della possibile presenza di risorse naturali e giacimenti pregiati. Il botta e risposta è complicato dal fatto che Taiwan non è propriamente agnostica nella vicenda e, in qualche misura, non contesta la legittimità delle rivendicazioni cinesi. Peraltro, che la sovranità delle Senkaku sia giapponese, è cosa riconosciuta a livello internazionale. La questione dell’arcipelago delle isole Senkaku è in realtà solo una delle tante dispute territoriali, che riguardano isole e zone marittime di interesse economico, in larga misura provocata dalle decisioni assunte al termine della seconda guerra mondiale.

Il puzzle vede coinvolti praticamente tutti gli attori, dalla Cina alla Corea del Sud, dalla Malesia alle Filippine, da Taiwan al Giappone, dal Vietnam alla Russia e via discorrendo. In generale, per ora i toni e il livello delle discussioni sono ancora all’interno di un quadro di confronto ragionevole. Ma ogni volta che i problemi tornano in scena le rispettive posizioni si irrigidiscono e le manifestazioni e gli atti di rivendicazione e le conseguenti risposte si fanno più seri. Gli interessi in gioco sono economici, politici, strategici e vengono conditi con additivi pericolosi, come orgoglio nazionale e prestigio. In un contesto dove la competizione economica e strategica si sta facendo più accesa e coinvolge una pluralità di protagonisti simili episodi rischiano di trasformarsi in altrettanti detonatori di crisi. Scenari di crisi che poi potrebbe essere difficile disinnescare, mentre i tentativi di risolvere le questioni pacificamente e attraverso colloqui negoziali e confronto sereno hanno ben poco successo. Cosa che crea lo sconforto degli Stati Uniti, i quali vorrebbero costruire una rete di alleanze in chiave anti-cinese che unisca tutti i principali attori regionali. I quali però, se temono la Repubblica popolare cinese, non dimenticano gli attriti e le rivalità con gli altri protagonisti del nuovo “grande gioco”. Intendiamoci, per ora siamo abbastanza lontani dall’incubo di uno scontro accidentale, ma non troppo tra forze del calibro di quelle di Cina e Giappone, però… meglio cominciare a preoccuparsi seriamente. Anche perché, a differenza di quanto è accaduto nel Mediterraneo, dove Turchia e Grecia hanno smesso di fronteggiarsi, dopo decenni di frizioni e scontri aperti, solo perché Atene ha abbandonato il ring per via del meltdown finanziario ed ha quindi rinunciato alla velleità di proseguire la competizione militare con Ankara, in Asia le economie continuano a tirare e tutti i governi stanno potenziando i rispettivi arsenali. Quando si miscelano armi, soldi, nazionalismo e politiche espansionistiche presto o tardi dalle parole si finisce per passare ai fatti.

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cenari

MONDO

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I NUOVI MARTIRI

DI

BERNARDO CERVELLERA

a parola «cristianofolical Alliance, i cristiabia» è entrata da poni perseguitati sono olco nell’uso comune e tre 200 milioni; l’agensui media. Finora si era semzia protestante Open pre e solo parlato di antiseDoors dice che vi è un mitismo e più di recente di martire cristiano ogni islamofobia. Per la diffusiocinque minuti… ne del termine «cristianofoNel vortice delle cifre, bia» bisogna attendere la vale la pena citare la I cristiani sono perseguitati in ben 130 pubblicazione di un libro di World christian encyclopaesi nel mondo. E come ha affermato René Guitton (Cristianofopedia che pone (con stiil Pontefice «tanti subiscono bia. La nuova persecuzione, me) a 150mila il numequotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro Torino 2010, già pubblicato ro dei cristiani che ogni ricerca della verità, della loro fede in nel 2009 in Francia). Dopo anno perdono la vita per Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà di esso, perfino Benedetto la fede o per valori legareligiosa». Una persecuzione XVI ha usato questo termiti alla loro fede. Il Pew che avviene anche grazie all’Occidente ne in un suo discorso coi research center viene a e al mondo cosiddetto libero che ha dimenticato le proprie radici membri della Curia romana sostegno di queste cifre. il 20 dicembre 2010. RicorIn un rapporto pubblicadando il Sinodo speciale per le Chiese del Medio to alla fine del 2009 ha mostrato che nel 70 per cenOriente tenutosi nell’ottobre dello stesso anno, il to dei paesi nel mondo vi è persecuzione religiosa pontefice ha detto: «Le parole e i pensieri del Si- e che i cristiani sono perseguitati in ben130 di esnodo devono essere un forte grido rivolto a tutte si. Il Pontefice ha ribadito il concetto in occasione le persone con responsabilità politica o religiosa del messaggio per la Giornata mondiale della paperché fermino la cristianofobia». Il termine in- ce 2011, dedicata alla libertà religiosa. In esso egli dica che vi è una politica e un atteggiamento per- afferma: «I cristiani sono attualmente il gruppo resonale o di gruppo che mira all’eliminazione dei ligioso che soffre il maggior numero di persecucristiani. In effetti, i cristiani sono la comunità re- zioni a motivo della propria fede. Tanti subiscono ligiosa più perseguitata al mondo. Secondo Guit- quotidianamente offese e vivono spesso nella pauton nel pianeta vi sono 50 milioni di cristiani che ra a causa della loro ricerca della verità, della loro soffrono persecuzione; secondo la World Evange- fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello per50


scenari ché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale». Vale la pena rilevare il nesso che Benedetto XVI mostra fra persecuzione e minacce «alla sicurezza e alla pace», come pure al freno per «un autentico sviluppo umano integrale»: come dire che la questione della persecuzione dei cristiani e della libertà religiosa in generale non è solo un fatto confessionale, o umanitario, ma coinvolge e indebolisce la politica e l’economia dei paesi nel mondo. Forse è proprio per questo che nel 2011 il Parlamento europeo, rilevando che la maggior parte degli atti di violenza religiosa nel mondo siano perpetrati contro cristiani, ha condannato tali attacchi e ha chiesto lo sviluppo di una strategia comune per tutelare la libertà religiosa.

La cronaca quotidiana fornisce di conti-

nuo esempi di ogni tipo di persecuzione anti-cristiana in tante parti del mondo. Negli ultimi tempi la comunità internazionale è stata testimone impotente dei massacri contro le chiese nigeriane, delle violazioni continue alla libertà religiosa in Cina, delle persecuzioni contro i cristiani del Pakistan, dei pogrom contro quelli iracheni, indiani e le violenze contro i cristiani in Egitto. La lista in effetti è sterminata ed è in crescendo. In un intervento alla XIX sessione della Commissione per i diritti umani a Ginevra (marzo 2012), monsignor Silvano M. Tomasi ha sottolineato che nel periodo dal 2003 al 2010, gli attacchi terroristi verso i cristiani in Africa, Medio Oriente e Asia sono aumentati del 309 per cento! Fra i paesi che più colpiscono i cristiani, vi sono certo le nazioni a maggioranza musulmana. Un caso esemplare è quello del Pakistan dove la situazione sembra peggiorare di giorno in giorno. Per quanto per Costituzione esso sia “laico”, il paese è (anche nella sua denominazione ufficiale) una

«repubblica islamica». La legislazione vigente permette ai tribunali religiosi una libertà che non viene concessa a quelli civili: la legge contro la blasfemia, insieme alle Ordinanze Hudood, fornisce ai fondamentalisti locali la possibilità di incriminare, arrestare e persino condannare i non musulmani anche sulla base di semplici voci di villaggio o accuse non verificate. Varate al tempo della dittatura di Zia-ul-Haq e approvate durante il primo governo di Benazir Bhutto – divenuta dopo la morte un’icona dell’Occidente, nonostante il suo perenne impegno a favore dell’islamizzazione del Pakistan – queste norme hanno portato all’arresto e al linciaggio impunito di almeno mille cristiani nel corso degli ultimi dieci anni. Alla fine di agosto AsiaNews ha diffuso la notizia dell’arresto di Rimsha Masih, la bambina cristiana disabile di mente, accusata in base alla «legge nera» per aver bruciato alcune pagine con impressi versi del Corano. Per il codice rischia fino all’ergastolo e si temono ritorsioni di elementi vicini al fondamentalismo talebano, che più volte hanno assassinato in via extra-giudiziale persone incriminate per blasfemia. I giudici hanno concesso poi la scarcerazione (su cauzione), dopo che una commissione medica indicata dal tribunale ha stabilito che la ragazzina ha meno di 14 anni e dimostra un’età mentale inferiore a quella stabilita dall’anagrafe. Non vi sono invece particolari indicazioni circa la natura della disabilità mentale che la affliggerebbe. Tale versione è contestata dagli isla-

Secondo René Guitton nel pianeta 50 milioni di cristiani sono perseguitati; per la World Evangelical Alliance, ogni anno 150 mila di loro sono uccisi e per l’agenzia protestante Open Doors vi è un martire cristiano ogni cinque minuti 51


Risk

Il Santo Padre: «I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa misti, che chiedono un regolare processo e la conseguente punizione. La vicenda ha fatto registrare però uno sviluppo clamoroso che permetterebbe di risolvere la vicenda in modo positivo per Rimsha Masih: la polizia ha infatti arrestato Khalid Jadoon Chishti, l’imam che ha denunciato la ragazzina cristiana per il presunto rogo di pagine contenenti versetti tratti dal Corano. Il 31 agosto scorso un testimone, con coraggio e responsabilità, identificato col nome di Hafiz Zubair, ha trovato la forza di presentarsi davanti agli inquirenti e di denunciare Chishti per calunnia. Il leader religioso avrebbe infatti accusato ingiustamente e in maniera del tutto deliberata Rimsha Masih di aver violato la «legge nera», montando contro di lei prove false. Egli avrebbe infatti bruciato pagine del Corano e le ha messe fra le cose bruciate dalla ragazzina per scatenare un pogrom contro i cristiani e cacciarli dalle loro case per impossessarsi dei loro beni. E in effetti ancora oggi diverse centinaia di famiglie cristiane sono in fuga dal villaggio di Rimsha, vicino ad Islamabad. La legge sulla blasfemia, come ha detto un sacerdote pakistano, «è una spada di Damocle sulla te52

sta di ogni pakistano» e distrugge la convivenza in tutta la nazione. Ci sarebbe poi da parlare sull’incremento delle madrassah islamiche nel paese e sugli attentati contro le scuole femminili (cristiane) per avere la misura del modo in cui la persecuzione ferisce lo sviluppo di un paese. In Africa, la persecuzione religiosa dell’islam contro i cristiani si mescola alla contrapposizione etnica. In Nigeria, per esempio, per quanto i vescovi e i sacerdoti locali abbiano più volte sottolineato la natura «neutrale» delle chiese, esse vengono prese di mira da miliziani armati che professano l’islam e che sfruttano la contrapposizione etnica ed economica che vi è fra i cristiani del sud – più sviluppati – e le tribù islamiche del nord, costituite da pastori e agricoltori. La vigilia di Natale del 2010, la Nigeria è stata segnata da una serie di attacchi armati ed esplosivi che hanno causato 86 vittime. La vicenda si è ripetuta l’anno successivo, dove già a novembre sei chiese erano state attaccate a Damaturu, con numerose vittime. In occasione del Natale 2011, cinque attentati sono stati condotti contro chiese cristiane provocando la morte di almeno 39 persone. Nelle settimane successive una serie ulteriore di attentati, realizzati da una setta musulmana con l’obiettivo dichiarato di provocare l’esodo dei cristiani dal nord del Paese, ha provocato la morte di altre 28 persone. Gli eventi hanno provocato la fuga di decine di migliaia di cristiani dal nord. L’8 aprile 2012, in occasione della Pasqua, un nuovo attentato con esplosivo vicino a una chiesa a Kaduna ha colpito la Nigeria settentrionale: almeno venti i morti e decine i feriti. Poche settimane dopo, un commando armato ha aperto il fuoco sui fedeli che assistevano a una messa a Kano, causando venti morti e decine di feriti gravi. Il 3 giugno 2012 un attacco condotto da un kamikaze che conduce un’auto imbottita di esplosivo contro una chiesa a Yalwa (Bauchi) nel nord del paese, causa oltre 15 morti. La settimana successiva un duplice attentato condotto da un attentatore suicida e da


uomini armati contro due chiese durante lo svolgimento di funzioni religiose ha causato la morte di almeno quattro persone e il ferimento di decine, alcune delle quali in gravissime condizioni. Quasi tutti questi attentati sono stati rivendicati dalla setta islamica Boko Haram, che vuole cacciare i cristiani emigrati nel Nord del paese, per imporre un califfato islamico. Il macabro rituale degli attentati contro i cristiani in occasione delle messe festive è proseguito anche nella domenica successiva: nello stato settentrionale di Kaduna sono state colpite tre chiese, con un bilancio di almeno 23 morti, compresi diversi bambini, e circa 80 feriti. Va detto che Boko Haram rifiuta la scolarità di stampo occidentale (e moderna) e vorrebbe condannare la Nigeria all’analfabetismo e al sottosviluppo. Per questo essa è criticata anche da molti settori musulmani della società.

La persecuzione contro i cristiani avviene anche nei paesi atei o dove lo stato pretende di dettare legge in tutte le fibre della società, anche quelle dello spirito. L’esempio più tipico è la Cina. La Repubblica popolare è atea e governata da un Partito comunista oligarchico che ancora oggi – nonostante un boom economico che ha creato 100 milioni di nuovi miliardari – si richiama (almeno teoricamente) ai valori del maoismo e del comunismo leninista. Per controllare le religioni e in particolare la Chiesa cattolica, Mao aveva costituito le Associazioni patriottiche. Quella che controlla la Chiesa cattolica è un organismo che, da più di 50 anni, cerca di dividere la comunità cattolica cinese attraverso diverse forme di coercizione; non riconosce l’autorità del Papa e del Vaticano; predica una fedeltà assoluta soltanto nei confronti dello stato. Tutte le attività religiose al di fuori del controllo dell’Associazione patriottica sono conisderate illegali. Per questo, la Chiesa non ufficiale (o “sotterranea”), che invece vuole man-



scenari tenere il rapporto con Roma ed esige libertà religiosa, rischia sempre la persecuzione anche violenta. Nonostante non siano più i tempi della Rivoluzione culturale, nel paese tre vescovi e almeno 14 sacerdoti sono ancora in stato di arresto – in alcuni casi da più di 40 anni – per essersi opposti a questo status quo. E praticamente con cadenza quotidiana giungono notizie di limitazioni alla vita religiosa e alla libertà di espressione per i cattolici locali. La persecuzione come controllo e invadenza del regime colpisce ormai anche la Chiesa ufficiale (quella sottoposta al controllo dell’Ap). Ne è prova la continua pretesa di organizzare ordinazioni episcopali senza il mandato papale, dividendo ancora di più le comunità, corrompendo i nuovi vescovi con regalie e favori, e usandoli come personaggi politici. Per le altre denominazioni cristiane le cose non vanno meglio. Quelle che si oppongono al «Movimento delle tre autonomie» – l’equivalente dell’Associazione patriottica per i protestanti – si riuniscono in chiese domestiche che vengono però continuamente prese d’assalto con dei veri e propri raid dalla polizia e dagli agenti dell’Ufficio affari religiosi, a cui seguono arresti. La persecuzione dei cristiani in Cina è certo parte del controllo globale che il partito esercita sulla popolazione. Ma la violenza verso i cristiani ha un motivo profondo: molti dissidenti, che lottano per la democrazia e i diritti umani scoprono che è proprio il cristianesimo la base per fondare questi diritti e la dignità dell’uomo. Lasciare libero corso alla missione dei cristiani significherebbe la fine della dittatura del partito.

La persecuzione contro i cristiani avviene anche nei Paesi atei. L’esempio più tipico è la Cina. La Repubblica popolare è atea e governata da un Partito comunista oligarchico che ancora oggi – nonostante un boom economico che ha creato 100 milioni di nuovi miliardari – si richiama (almeno teoricamente) ai valori del maoismo e del comunismo leninista

ri del terrorismo, quali nemici della pace. È infatti il relativismo (e l’interesse a non rovinare alcun rapporto economico) che fa dimenticare di alzare la voce per difendere la libertà religiosa nei dialoghi internazionali. È il relativismo e il pragmatismo che fa combattere per le «primavere arabe» della Libia e della Siria, incuranti di una crescita del potere di al Qaeda in questi stessi Paesi; distruggere l’Iraq di Saddam Hussein creando una delle più grandi fughe di cristiani, di intellettuali e di professionisti dal paese, causate dall’insicurezza conseguente. Per vincere il relativismo – che porta solo distruzione – c’è bisogno di riscoprire il valore della religione nella vita e apprezzare un confronto arricUna persecuzione anticristiana così va- chente col cristianesimo. E invece, proprio in Eusta e violenta a livello universale e planetario av- ropa e in America assistiamo a gesti e politiche che viene anche grazie all’Occidente e al mondo co- emarginano sempre di più i simboli religiosi crisiddetto libero. Avendo ormai come ideale solo il stiani, il contributo dei cristiani alla società (vedi mercato e avendo dimenticato le sue radici cristia- scuole e ospedali), in nome di fantomatici «diritti ne, l’Occidente è scivolato nel relativismo. Bene- della maggioranza» (aborto, eutanasia, matrimodetto XVI, nel suo messaggio per la Giornata del- nio omosessuale) che discriminano i cristiani e dila pace già citato, ha messo il relativismo alla pa- struggono il tessuto sociale. 55



S

cenari

SIRIA

IL JIHAD DI

LAURA QUADARELLA

a cosiddetta “Primavera ararato dalle Nazioni Unite a metà luba” sta vivendo uno dei moglio, in uno stato di «guerra civimenti più bui in Siria. La pole». Cosa che tra l’altro comporta polazione civile subisce da mesi in l’applicazione delle norme del dinumerose città la violenza degli ritto internazionale dei conflitti arscontri tra le truppe regolari fedeli mati ed imporrebbe dunque a tutte al presidente Bashar al-Assad ed i le parti coinvolte numerosi obblinumerosi gruppi di rivoltosi, che forghi di comportamento. Obblighi mano un fronte sicuramente non che sembrerebbero non esser rispetomogeneo ed al cui interno stanno tati da nessuna delle parti in causa, recentemente emergendo vari grupche si scambiano reciprocamente Diventa sempre più pi terroristici, anche alqaedisti. Menaccuse relative alla commissione di complesso il puzzle tre drammaticamente il conflitto sicrimini di guerra. della crisi siriana, dove a un frantumato fronte riano si sta trasformando in uno Facendo un passo indietro, va rileinternazionale, con Cina scontro sunniti-sciiti che sta già varvato come dal reclutamento di ex e Russia pronte a porre cando i confini del paese. soldati siriani all’arrivo di combatil veto su qualsiasi intervento contro il regime Nessun segno della presenza di tenti jihadisti dall’estero il passo è di Damasco, si somma gruppi estremisti, né tanto meno terstato breve, e così il fronte anti Asanche il mosaico roristi, era evidente nell’ormai lon- delle forze ribelli in campo. sad si è ritrovato nel giro di pochi La componente radicale tano marzo 2011 al verificarsi delle mesi ad avere al suo interno una e islamista avanza grazie prime manifestazioni popolari conmolteplicità di gruppi che in comua salafiti, jihadisti tro il regime, ma le file dei pacifici ne hanno solo l’obiettivo del rovee cellule di al Qaeda manifestanti si ingrossarono ben presciamento del regime, mentre misto grazie alle sempre più numerose defezioni di sol- rano alla sua caduta ad instaurare qualcosa di profondati che si rifiutavano di sparare sulla popolazione damente diverso gli uni dagli altri. E già allo stato atcivile. Nacque così rapidamente il cosiddetto «Eser- tuale sono divisi a causa della rigida imposizione di cito siriano libero» (Free syrian army – Fsa), che per alcuni precetti coranici da parte degli estremisti, mal difendere le popolazioni e far cadere il regime ha ini- visti dagli altri rivoltosi, anche perché rischiano di ziato a fronteggiare apertamente le truppe fedeli al far venir meno il consenso dell’opinione pubblica ocpresidente in scontri armati sempre più importanti cidentale e delle nazioni che ad oggi li stanno sosteche hanno ormai portato il paese, così come dichia- nendo. Difficile dire quale sia stato il vero momento

L

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Risk di svolta, quando la rivolta popolare sia stata affiancata da altro, ma di sicuro dalla fine dello scorso anno sono iniziati a verificarsi attentati rivendicati da vari gruppi jihadisti, alcuni dei quali apertamente legati ad al Qaeda, e dopo un iniziale momento di incertezza sui veri autori degli attacchi anche l’Occidente ha dovuto pian piano ammettere (in primo luogo a se stesso) che la linea di demarcazione “buoni” – “cattivi” non è più così netta, che all’interno del fronte da loro sostenuto non tutti cercano libertà e democrazia, e soprattutto che qualcuno potrebbe al contrario rivelarsi pericoloso e quindi si deve far molta attenzione nel sostenere gli insorti. Questi non sono certo tutti terroristi come vorrebbe far credere Assad, che cavalca la tesi del terrorismo che gioca sicuramente a suo favore, ma hanno al loro fianco vari gruppi jihadisti, alcuni dei quali dichiaratamente legati ad al Qaeda. Se siamo arrivati a questo punto è tuttavia in buona parte colpa del regime baathista siriano che nelle prime fasi della rivolta ha deliberatamente ucciso manifestanti inermi, manifestanti che spinti dalla ventata di democrazia che soffia dall’inizio del 2011 in tutto il Medio Oriente ed il Nord Africa avevano iniziato a protestare disarmati contro la decennale dittatura della famiglia Assad, con manifestazioni pacifiche in un po’ tutte le maggiori città del paese. La forte risposta armata del regime di Assad

La guerra civile è stata la calamita che ha spinto estremisti islamici salafiti e jihadisti a unirsi contro Assad e a riversarsi in massa in Siria da tutti i paesi vicini. Il maggior numero di “combattenti” sono arrivati dall’Iraq, ma anche da Giordania, Libano e Turchia 58

ha poi di fatto trasformato il conflitto in una lotta tra la minoritaria setta alawita al potere, che seppur con notevoli distinguo è inquadrabile tra gli sciiti, e la stragrande maggioranza sunnita. Tale lotta è stata quindi la calamita che ha spinto estremisti islamici salafiti e jihadisti ad unirsi al movimento contro Assad riversandosi in massa in Siria da tutti i paesi vicini. In numero maggiore i “combattenti” sono arrivati dall’Iraq, anche per ricambiare il sostegno ricevuto negli scorsi anni dai siriani nella lotta contro l’ “invasore americano” ed aiutarli ora a liberarsi del regime che li opprime da più di quarant’anni, e dallo Yemen, dove sembrerebbe essersi di recente leggermente arrestata la possente avanzata territoriale che nelle fasi della caduta del presidente Saleh li aveva visti conquistare una buona parte di territorio nel sud del Paese. Numerosi comunque i combattenti giunti anche da Giordania, Libano e Turchia e, in misura minore, da un po’ tutti i Paesi dell’area e da quelli in cui da anni si combatte contro gli infedeli per l’instaurazione della sharia, come Afghanistan e Cecenia, con un flusso che si è sensibilmente rafforzato dopo l’esortazione in tal senso nei mesi scorsi da parte dei vertici di al Qaeda, che per voce di al Zawahiri hanno invitato i musulmani di tutto il mondo ad accorrere in aiuto dei fratelli in lotta contro Assad, definiti «Leoni del Levante». Il risultato di tale esortazione sembra esser stato quello sperato, e ancorché non sia spesso possibile verificare l’autenticità delle rivendicazioni degli attentati che sempre più numerosi si registrano in varie città della Siria, ad iniziare dalla stessa Damasco dove ad esser colpiti sono palazzi istituzionali, caserme, sedi governative e della tv di stato, prova ne sono il flusso di guerriglieri che ormai quotidianamente attraversa le frontiere soprattutto dall’Iraq (come confermato ad inizio agosto anche dal ministro degli Esteri iracheno) e la costituzione di alcuni campi, non lontano dal confine turco, in cui gli alqaedisti si sono acquartierati. Difficile inquadrare la risposta che il fronte anti Assad ha dato a questo neanche tanto lento infiltrarsi


tra le loro fila di terroristi stranieri, alcuni dei quali si definiscono alqaedisti, altri salafiti, mentre molti più genericamente jihadisti. A dir la verità non si tratta forse neanche di un fenomeno definibile «infiltrazione», in quanto netta è spesso la divisione tra i guerriglieri siriani ed i terroristi stranieri che accumunati dal condiviso scopo di rovesciare il regime sono disposti ad operare insieme ma non intendono mischiarsi con i guerriglieri siriani, né tantomeno prender ordini da loro: non vogliono infatti fondersi con uomini che non rispettano in senso più che scrupoloso tutti i precetti musulmani e ad esempio non sono stati sempre rigidi nell’osservanza del digiuno assoluto durante il Ramadam, ma hanno fumato o bevuto durante il giorno. Ancorché non manchino foto e filmati in cui accanto a uomini con la divisa del Free syrian army compaiono guerriglieri alqaedisti altrettanto facilmente identificabili per le loro “divise” nere con il vessillo di al Qaeda, nelle rare interviste rilasciate da alcuni esponenti dei gruppi alqaedisti è esplicitamente ribadito che talvolta si combatte contro i lealisti gli uni al fianco degli altri. Il Fsa è solo un gruppo tra gli altri gruppi del fronte che combatte il regime e che, a differenza di quanto si possa credere in Occidente, non prevale sugli altri: solo dopo la caduta di Assad si vedrà chi è il più potente e quindi chi comanderà in Siria. Dal canto loro i guerriglieri siriani costituiscono, come detto, un fronte eterogeneo, composto da un elevato numero di brigate, profondamente frazionate e non ancora in grado di esprimere una politica comune. Tale caratteristica è ancora più evidente nel modo di confrontarsi con i terroristi giunti dall’estero. Alcuni salutano con entusiasmo questi volontari ben armati e ben addestrati, altri ne temono invece le modalità di combattimento, proprie del terrorismo e non dello scontro armato aperto tra eserciti rivali, e le conseguenze che un loro affermarsi potrebbe avere sia sull’opinione pubblica mondiale – che farebbe venir meno il suo sostegno – sia sulla stabilità interna del paese, che potrebbe rischiare di ritrovarsi senza Assad, ma divi-


so in fazioni in lotta tra loro, alcune delle quali desiderose di instaurare la sharia.

Anche gli estremisti islamici composti da al-

qaedisti, salafiti e jihadisti, non sono a loro volta uniti, tanto che è veramente difficile seguire la nascita e lo sviluppo dei gruppi che sono dietro le varie sigle con cui si rivendicano gli attentati di questi mesi: tra di essi emergono soprattutto Al-Nusra front to protect the Levant (traduzione inglese della sigla araba Jabhat al-Nusra Li-Ahl al-Sham), Al Qaeda in Iraq e Fatah al Islam. Gli ultimi due citati sono gruppi terroristici noti da anni: ala irachena di Al Qaeda il primo, che quando venne formata da al-Zarqawi per combattere l’invasione statunitense vide una forte presenza di miliziani siriani e sta ora ricambiando il sostegno ricevuto; uno dei movimenti sunniti più radicali del Nord del Libano il secondo, da sempre acerrimo nemico degli hezbollah sciiti libanesi. A dominare tristemente la scena in Siria per numero ed importanza degli attacchi è però la nuova sigla di Al-Nusra, il Fronte di protezione del Levante, che ha formalmente annunciato la sua esistenza in un video di inizio anno, ma è operante in Siria già da fine 2011. Al-Nusra, responsabile di decine d’attentati tra cui quelli contro la sede delle forze di sicurezza, costato in luglio la vita a vari ministri dei dicasteri più importanti, e quello di agosto contro la sede della tv di stato, opera sotto la guida di Abu Muhammad al-Julani e vede nelle sue fila un buon numero di terroristi giunti dall’Iraq. Come altri gruppi affiliati ad al Qaeda, anche Al-Nusra sta abitualmente diffondendo le sue rivendicazioni, e più in generale i suoi comunicati ed i suoi video propagandistici, attraverso un proprio organo di stampa, al-Manara al-Baida, il Minareto Bianco, che è attivo anche online e pubblica numerosi video su YouTube. Al di là delle sigle utilizzate dai vari gruppi e delle modalità con cui operano, va rilevato come al Qaeda stia riuscendo in Siria a cogliere quell’occasione che le era sfuggita in altri Paesi: cavalcare la Primavera araba e penetrare in nuovi territori. Sino ad ora si era


scenari infatti limitata a sostenere le rivolte con vari proclami, messaggi audio, video e riviste jihadiste online, provando ad insinuarsi tra gli insorti solo in Libia, ove però ha trovato l’ostilità di un fronte ben coeso che non le ha lasciato molto spazio, e approfittando invece in Yemen del vuoto di potere verificatosi nelle ultime fasi della presidenza di Saleh per conquistare territorialmente zone in cui in realtà già si registrava la sua presenza, zone soprattutto da cui sono originari alcuni dei suoi leader. Gli scontri in Siria hanno fornito ad al Qaeda l’opportunità di passare dai proclami all’azione, dall’opera volta a non perdere consenso ed a screditare l’Occidente per il suo falso appoggio alle legittime richieste dei popoli contro tiranni scaricati solo per accattivarsi le masse, all’ope- to parte della comunità cristiana si è di recente aperra che potrebbe condurre ad ampliare la sua zona di tamente schierata contro il regime di Assad e la sua sanguinosa repressione, dall’altro si tratta di una influenza in aree sino ad ora inaccessibili. minoranza che ogni giorno di più teme che la sua Una delle questioni più delicate riguarda caduta possa portare al potere gli estremisti sunniinfine come inquadrare le tensioni sunniti-sciiti al- ti, che potrebbero mettere a rischio la sua stessa sol’interno del conflitto siriano, tensioni che stanno pravvivenza nel paese, ancorché nella millenaria conquistando un ruolo sempre più centrale ed han- presenza in quelle terre già numerose volte sia riuno già varcato i confini siriani. scita a resistere a pesanti persecuzioni. Tornando Si deve considerare che con il regime della fami- alle conseguenze sugli sciiti anche al di fuori del glia Assad per decenni la minoranza sciita degli ala- territorio siriano, l’affermarsi dei sunniti in Siria fawiti ha governato un paese a maggioranza sunnita, rebbe venir meno all’Iran il sostegno di uno dei suoi e che se da un lato lo sciita Iran rappresenta uno de- pochissimi alleati, ma il rischio è che ciò incremengli ultimi paesi a sostenere ancora apertamente il ti ulteriormente le tensioni dell’area e conseguenregime, dall’altro numerosi movimenti islamici fa- temente le tensioni Iran-Occidente. Tra i timori lecenti parte dell’eterogeneo gruppo dei rivoltosi so- gati alla sempre più forte presenza di al Qaeda nelno composti da estremisti sunniti altrettanto aper- le fila dei combattenti anti-regime uno dei maggiotamente avversari degli sciiti. Mentre le “tensioni” ri è proprio che i qaedisti sfruttino la situazione sisunniti-sciiti sono già divenute “scontro” generan- riana per continuare la loro lotta agli sciiti, cui codo anche un «gioco di rapimenti incrociati» tra sun- me noto, e seppur con notevoli distinguo visto che niti e sciiti in cui gli hezbollah libanesi non sono sono da alcuni addirittura definiti «eretici», gli alaovviamente rimasti a guardare. In mezzo come sem- witi sono comunemente inquadrati. Non si tratta di pre la popolazione civile, una popolazione decisa- uno scenario difficile da immagine se si pensa che mente multi religiosa, con una maggioranza sunni- è naturale un forte sentimento di rivalsa, e che d’alta da decenni, come detto, governata dalla mino- tronde la medesima situazione si è verificata anche ranza sciita degli alawiti, ma al cui interno forte è in Yemen, da sempre diviso tra un nord sciita zaila presenza di altre confessioni religiose, tra cui so- dita ed un sud sunnita, ove l’avanzata alqaedista nel prattutto drusi e cristiani. In particolare se da un la- sud del Paese è stata accompagnata anche da attac-

La crescente tensione sunniti-sciiti sta provocando ripercussioni anche in altri paesi ad iniziare dal Libano, ove gli hezbollah in risposta ai primi rapimenti di sciiti operati in Siria dai guerriglieri sunniti anti-regime hanno rispolverato l’arma dei sequestri

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Risk

Il consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è bloccato dai veti di Russia e Cina e prospettare un intervento umanitario senza autorizzazione seguendo l’esempio Kosovo sarebbe impossibile

chi contro leader sciiti seguiti da rivendicazioni in cui i vertici alqaedisti hanno affermato che «la lotta contro i crociati ed i loro seguaci non li discosta da quella contro gli sciiti, che insultano la religione ed il Profeta, e commettono crimini contro i sunniti».

La crescente tensione sunniti-sciiti sta inol-

tre già provocando ripercussioni anche in altri paesi ad iniziare dal Libano, ove gli hezbollah in risposta ai primi rapimenti di sciiti (alcuni dei quali con passaporto libanese) operati in Siria dai guerriglieri sunniti anti-regime hanno rispolverato l’arma dei rapimenti, a loro tanto cara negli anni Ottanta, avendo questa volta come obiettivi né cristiani né occidentali, ma sunniti, senza distinzione alcuna in base alla nazionalità. Tali rapimenti hanno provocato l’immediata reazione di molti paesi mediorientali, e soprattutto di quelli del Golfo, che hanno invitato i propri connazionali a lasciare immediatamente il paese dei cedri, che spaccato tra hezbollah sciiti pro regime siriano e sunniti pro rivoltosi rischia di ripiombare in un caos da cui sembrava esser venuto fuori. In questo incerto contesto si inserisce la posizione dell’Iran ed il ruolo che il paese sta più o meno apertamente giocando: basti pensare alla questione dei 48 «pellegrini» iraniani sequestrati dagli insorti ad inizio agosto con l’accusa di essere agenti iraniani (vicenda che ricalca quella degli 11 «pellegrini» libanesi rapiti in maggio ad Aleppo). Delle due l’una: o gli insorti odiano a tal punto gli sciiti da aver pre62

so in ostaggio inermi pellegrini sciiti, e ci troveremmo davanti ad un grave scenario, o, più probabile anche alla luce del fatto che appare poco verosimile pensare a pellegrini in zone di guerra, l’Iran sta operando sul terreno in sostegno del regime siriano, e si tratterebbe di uno scenario certamente non meno preoccupante. Di certo per l’Occidente c’è che la caduta di Assad rovescerà i rapporti di forza sciiti-sunniti in Siria e farà perdere all’Iran un importante alleato, il rischio è che nel nuovo delicato scacchiere mediorientale si rafforzino alqaedisti e salafiti. Anche senza pensare alle implicazioni che la situazione siriana potrebbe avere in merito alla questione iraniana, non facili sono allo stato attuale le scelte che le potenze straniere si trovano a dover fare. Si tratta di prendere decisioni vitali per la sicurezza di milioni di civili inermi ed il futuro di un Paese strategicamente determinante per l’intera area mediorientale in una fase in cui va tra l’altro considerato che il cambio di regime in Egitto e l’ascesa al potere dei Fratelli Musulmani potrebbe già porre dubbi sulle scelte di politica estera del Cairo e sul ruolo che assumerà nella lotta agli estremisti islamici, tema quest’ultimo che allarga ulteriormente l’area interessata dalle decisioni fino a ricomprendervi le stesse potenze straniere. Il timore che l’estremismo sunnita prenda piede sarebbe, insieme ad innegabili interessi politici, economici e strategici (a Turtus è presente l’unica base navale russa nel Mediterraneo), uno dei motivi per cui Mosca continua a sostenere il regime di Assad. Si deve rilevare come ancorché la posizione russa sia responsabile dello stallo al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite e della conseguente mancata protezione delle popolazioni civili siriane, non è da ritenere del tutto sbagliato il ragionamento degli analisti russi, per i quali seppur autoritario il regime siriano ha avuto il merito di tenere insieme in un contesto relativamente laico e moderno quel mosaico di etnie e religioni che compongono il Paese, ma si dovrebbe lavorare per ottenere una graduale uscita di scena degli esponenti del regime invece di


supportarli. Alla luce di tali considerazioni i governi occidentali dovrebbero trovare il modo per fermare il massacro operato in Siria dall’esercito lealista, che taluni temono possa addirittura usare armi di distruzione di massa, ma lavorando sin d’ora per un passaggio dei poteri che, un po’ come accaduto nello Yemen, preveda poi un governo sostenuto da tutte le forze in campo e che collabori con le potenze straniere nella lotta ad al Qeada e più in generale ad ogni forma di terrorismo ed estremismo islamico. Sebbene proprio in territorio siriano (allora facente parte dell’Impero Ottomano) si ebbe nel 1860 il primo «intervento umanitario» ante litteram della storia delle relazioni internazionali, con i francesi che dietro mandato del Concerto Europeo (ma con l’Inghilterra in realtà contraria), intervennero per sedare i sanguinosi scontri tra la comunità dei drusi musulmani e quella dei cristiani maroniti, sui quali la Francia rivendicava uno speciale diritto di protezione, difficile sarebbe invece a parere di chi scrive pensare ora ad un intervento militare esterno in difesa della popolazione siriana.

Il consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è

bloccato dai veti di Russia e Cina e prospettare un intervento umanitario senza autorizzazione seguendo l’esempio tracciato in Kosovo sarebbe da escludersi mancando il sostegno in tal senso della Lega Araba, che ha sì scaricato Assad, ma a differenza dal caso libico è contraria ad interventi esterni. Non resterebbe dunque che favorire un passaggio quanto più rapido possibile di poteri ad una coalizione che rappresenti tutte le forze in campo contro il regime, secondo un modello yemenita che qui è difficile riprodurre e che però prima si raggiunge maggiori saranno le possibilità di arginare l’avanzata di salafiti ed alqaedisti, con cui parte dei ribelli ha recentemente minacciato di allearsi, sentendosi abbandonati da Nazioni Unite, Lega Araba e Organizzazione per la Cooperazione Islamica, e provare ad arrestare lo scontro sunniti-sciiti che minaccia di propagarsi nell’intera area mediorientale.


lo scacchiere

Europa /la francia stile hollande

L’

La politica estera dell’Eliseo tra grandeur e crisi DI ALESSANDRO MARRONE

elezione di Francois Hollande non sembra aver portato radicali cambiamenti nella politica estera e di difesa della Francia, tuttavia alcune differenze rispetto alla presidenza Sarkozy iniziano a delinearsi. Il 27 agosto, davanti all’assemblea degli ambasciatori francesi riunita a Parigi, Hollande ha espresso alcune linee guida per la politica estera francese che erano in parte già emerse nei primi cento giorni della sua presidenza. In linea con i predecessori all’Eliseo, Hollande ha ribadito che la Francia «è una potenza mondiale», dotata di un proprio deterrente nucleare, e si è richiamato ai diritti umani, alla democrazia e in generale ai valori universali in qualche modo figli della Rivoluzione Francese. Ma, in modo significativo rispetto a Sarkozy, Hollande ha affermato che c’è una differenza tra quello che la Francia dovrebbe fare e quello che può fare, ed ha promesso di non ricorrere all’uso della forza senza una autorizzazione dell’Onu, considerato come perno della governance mondiale. Parole che riflettono la posizione attendista e cauta nei confronti della crisi siriana. Stessa cautela anche rispetto alla drammatica situazione in Mali, teatro importante per la geopolitica dell’Africa francofona, dove gruppi fondamentalisti islamici hanno preso il controllo del nord del Paese, e il governo francese è disposto al massimo ad assistere un intervento degli altri stati africani. Una po-

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sizione ben diversa dall’interventismo manifestato da Sarkozy nei confronti della Georgia e soprattutto della Libia. Hollande ha anche smorzato i toni nei confronti di Teheran, pur riaffermando che un Iran dotato di bomba atomica «è inaccettabile». Ovviamente la crisi dell’euro ha messo in cima all’agenda presidenziale la politica economica, a livello tanto nazionale che europeo. e i tagli al bilancio pubblico, incluso quello della difesa, sconsigliano di intraprendere costose operazioni militari. Tuttavia tali condizioni esistevano già nel 2011 e non hanno impedito a Sarkozy di volere fortemente l’intervento militare in Libia. Vi è quindi qui una prima differenza di stile, ma anche di sostanza, tra l’interventista Sarkozy e il cauto Hollande. Altra differenza significativa riguarda la presenza militare francese nella missione Nato in Afghanistan. Mentre l’Alleanza Atlantica pianifica un ritiro da attuare gradualmente entro il 2014, Hollande ha deciso di ritirare la maggior parte delle proprie truppe entro il 2012. Non si tratta certo dello strappo transatlantico consumato ai tempi dell’opposizione di Chirac all’intervento americano in Iraq, tuttavia il fatto che il quinto paese (su 50) per numero di truppe – dopo Usa, Gran Bretagna, Germania e Italia – ritiri unilateralmente il proprio contingente rappresenta un fatto significativo, e una differenza rispetto alla presidenza filo-americana di Sarkozy. Ulteriori cambiamenti nei rapporti transatlantici potrebbero essere portati dalla revisione che Hubert Vedrine, ex ministro degli esteri fortemente critico in passato degli Usa, sta portando


scacchiere avanti su incarico di Hollande rispetto alla posizione francese nella Nato. Tuttavia sembra improbabile una nuova fuoriuscita francese dal comando militare integrato Alleato, nel quale la Francia è tornata solo nel 2007 per decisione di Sarkozy. Così come è improbabile che Hollande sostenga l’ingresso della Turchia nell’Ue, sebbene abbia adottato una posizione più soft sui negoziati di accesso rispetto al veto opposto da Sarkozy. Rispetto ad Africa e Medio Oriente, Hollande potrebbe proseguire lo spostamento di priorità in corso da anni dall’Africa occidentale al Corno d’Africa e alla Penisola Araba. Infatti, mentre è in discussione la chiusura di alcune basi francesi sulla costa atlantica africana, rimarrà di certo attiva quella a Gibuti. Alla base di questo ri-orientamento strategico vi sono solidi motivi economici, dal momento che è aumentata la dipendenza energetica della Francia dai paesi produttori di petrolio del Medio Oriente, sono cresciute le connessioni bancarie tra istituti francesi e degli emirati arabi, nonché la domanda da parte dei paesi mediorientali di equipaggiamenti militari prodotti anche dall’industria della difesa francese. Sinora Hollande sembra aver ripreso alcuni punti tradizionali di quello che fu chiamato «gaullo-mitterandisme», ovvero una visione nazionalista della politica estera (simile a quella gollista) proposta da un presidente socialista (Mitterand) con un occhio di riguardo all’Africa e al Proche Orient. La politica estera e di difesa di Hollande è però ancora tutta da costruire. Non a caso il neo-presidente, ha convocato un gruppo di riflessione per stendere entro il 2012 un nuovo Libro Bianco della Difesa e della Sicurezza. La riflessione coinvolge rappresentanti degli stati maggiori, di tutti i ministeri interessati, del Parlamento, dell’accademia e dei think tanks, nonché dal capo dell’Agenzia Europea di Difesa e due rappresentanti stranieri – un britannico e un tedesco. Il Libro Bianco definirà le linee guida della successiva legge di bilancio quadriennale che stabilisce, in modo or-

ganico e in un’ottica di medio periodo, le risorse per la politica di difesa – sottraendole a estemporanei e non meditati tagli di bilancio che hanno invece caratterizzato e danneggiato altri paesi europei tra cui l’Italia. Legge che dovrà necessariamente ridurre i fondi per la difesa rispetto alle previsioni pre-crisi dell’euro, con possibili cambiamenti nel dispositivo militare francese – che già vede il personale dell’Esercito ridotto a 100mila uomini. Nel frattempo, il ministro della Difesa, Jean-Yves Le Drian, ha già rilanciato la cooperazione europea nella difesa, non solo con la Gran Bretagna – sulla base dell’accordo bilaterale del 2010 – ma anche con Germania e Polonia coinvolte nel cosiddetto «Triangolo di Weimar», con il quale la Francia intende comporre uno dei battlegroup a disposizione dell’Ue. Il ministro degli Esteri Laurent Fabius da parte sua sembra puntare sul rilancio della politica di sicurezza e difesa comune in ambito Ue anche attraverso una piena attuazione delle possibilità offerte dal Trattato di Lisbona, inclusa la cooperazione strutturata permanente, per fare progressi verso una difesa comune in grado di assicurare «autonomia strategica» all’Unione. L’ambito intergovernativo e quello istituzionale non sono affatto in contrapposizione nella visione francese, e dimostrano come il framework europeo – più che il puro bilateralismo franco-britannico – sia la principale cornice in cui la Francia di Hollande intende perseguire la propria politica estera e di difesa. In conclusione, gli elementi di continuità tra le due presidenze prevalgono sulle differenze, pur significative. E ciò avviene anche perché gli interessi strategici della Francia – come quelli di altri paesi europei – vanno ben oltre l’arco di una legislatura, e i politici francesi – a differenza di altri politici europei – ne sono ben coscienti. 65


Risk

I

Americhe/farc: santos ci riprova La Colombia cerca la pace con l’aiuto di Cuba e Venezuela DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

l governo colombiano e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno annunciato la volontà di dare avvio a un negoziato per chiudere in maniera definitiva un conflitto iniziato a metà degli anni Sessanta. La notizia era nell’aria da mesi. Da una ricostruzione del quotidiano El Tiempo, emerge come subito all’indomani del trionfo elettorale del 2010 il presidente Juan Manuel Santos avesse iniziato a lavorare per un nuovo processo di pace, dopo il fallimento di quello del 1999-2002. La ricucitura dei rapporti politici con Cuba e Venezuela faceva parte di questo disegno, dopo i due governi di Álvaro Uribe che avevano fatto della Colombia il principale alleato politico e militare degli Stati Uniti in America latina. Sul piano economico e su quello militare, Santos ha mantenuto la stessa linea di Uribe. Su quello politico, invece, tra i due è in corso uno scontro molto acceso proprio sulla continuità della politica di «sicurezza democratica»: mano dura e zero dialogo con i gruppi armati irregolari. Per Uribe l’apertura di credito alle Farc rischia solamente di facilitare la ri-elezione di Hugo Chávez in Venezuela. Per Santos, che di Uribe fu ministro della Difesa, questo è il momento propizio per provare di nuovo a pacificare il Paese. I rapporti con le Farc non sono stati facili. Mentre l’offensiva militare continuava e portava all’eliminazione dei principali leader guerriglieri, dal Mono Jojoy ad Alfonso Cano, emissari del governo prendevano contatti con la dirigenza delle Farc per offrire una via d’uscita politica, anche senza aver prima ottenuto una tregua o la dichiarazione di voler abbandonare la lotta armata. In realtà, sia il governo sia le Farc hanno maturato in questi anni la convinzione che la soluzione militare non sarebbe bastata. Il territorio colombiano è troppo vasto e complesso, tra montagne e selva tropicale, per poterlo controllare con la forza. Oggi le

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Farc sono incapaci di sferrare offensive strategiche, limitandosi ad azioni tattiche e attentati contro esponenti politici o gruppi indigeni. La pratica dei sequestri ha fatto loro perdere ogni consenso politico. Ottenuto il loro placet, Santos ha quindi contattato Fidel e Raúl Castro, chiedendo il coinvolgimento di Cuba nell’operazione. In gran segreto, sia nell’isola caraibica sia in Venezuela si sono susseguiti diversi incontri, fino alla firma dell’accordo per dare avvio al negoziato. Le Farc volevano che la sede dei colloqui fosse a Cuba o in Venezuela, mentre il governo insisteva che fosse in Europa. La Norvegia ha quindi offerto Oslo come sede ufficiale del negoziato, e si è detta disponibile a sostenere i costi dello stesso. I colloqui operativi dovrebbero comunque svolgersi all’Avana, a partire da ottobre. A meno di clamorosi passi indietro, nei prossimi mesi dovrebbe quindi partire un processo di pace che, oltre alla smilitarizzazione dei circa 8mila guerriglieri ancora attivi, affronti i temi dei diritti umani, la partecipazione politica, lo sviluppo rurale e il reinserimento dei guerriglieri nella società civile. Non ci sarà alcuna concessione di territorio a favore della guerriglia, uno dei principali errori del negoziato precedente. Allora, oltre alle foto dei mediatori internazionali, del governo e dei fotogenici leader guerriglieri, non solo non vi era una reale volontà di costruire la pace attraverso il dialogo, ma le Farc utilizzarono la zona smilitarizzata per riarmarsi e organizzare sequestri, narcotraffico e azioni criminali di ogni tipo. Molto protagonismo politico e nessun canale di trattative segrete, che in questi casi è fondamentale. Oggi le condizioni politiche paiono essere più favorevoli. Fa ben sperare che, stando a quanto comunicato, i lavori saranno condotti nel massimo riserbo, e solo i risultati concreti saranno resi pubblici. La maniera migliore per costruire fiducia reciproca.


scacchiere

Africa / modello etiopia nell’era post-zenawi

Q

La scomparsa dell’«intellettuale» del Corno d’Africa e il pericolo implosione DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

uale sarà il nuovo assetto dell’Etiopia postZenawi? È prevedibile un’implosione del modello di federalismo etnico oppure l’alleanza al potere dell’Ethiopian people’s revolutionay democratic front (Eprdf) troverà un equilibrio interno? Come si ripercuoterà la scomparsa del premier di Addis Abeba sulla stabilità regionale? Questi sono solo alcuni dei quesiti di analisti e leader mondiali nei giorni successivi alla scomparsa di Meles Zenawi, avvenuta nella notte tra il 20 ed il 21 agosto in un ospedale di Bruxelles. Considerato l’uomo che ha impresso una crescita sostanziale del pil etiopico dell’11-12 per cento nel 2004-2008 e colui che ha saputo mediare tra Sudan e Sud Sudan negli ultimi anni, ma anche percepito come il leader dal «pugno di ferro», Zenawi è un personaggio che ha acuito posizioni antitetiche. La sua capacità di contrapporre si è riproposta anche dopo la morte: da un lato, si è registrato il cordoglio di chi ha visto in lui «uno dei leader della rinascita continentale», «un trasformatore economico», «un grande intellettuale» (solo per citare Bill Clinton, David Cameron, Ellen Johnson Sirleaf); dall’altro, si è distinta la soddisfazione di quanti lo hanno combattuto strenuamente in vita (il movimento di Al Shabab, Isaias Afewerki, gli oppositori interni). Per quanto siano di parte queste chiavi di lettura, le critiche più pertinenti riguardano il fatto che in 21 anni di potere, Meles non ha distinto tra «missione» e «visione» – o meglio – ha dato precedenza alla seconda e di conseguenza non ha lasciato un’eredità chiara. Pur trovandosi in un contesto storico favorevole a costruire una fase di transizione dell’Etiopia del dopo Menghistu, non ha creato un equilibrio interno, anzi ha agito in modo che una minoranza (quella tigrina, il 5 per cento della popolazione locale) avesse un controllo quasi totale sul resto del Paese. Non si possono disconoscere i grandi passi fatti dal 1991 ad

oggi da quello che è considerato uno dei protagonisti dell’area orientale africana: a livello infrastrutturale ed economico l’Etiopia ha subito cambiamenti significativi e unici nel panorama continentale, ma parallelamente non ha fatto quel “salto in più” che è proprio del rispetto e della valorizzazione delle differenze dei vari attori. Disegnare ora i possibili scenari futuri è difficile, perché Zenawi aveva accentrato ogni cosa e non aveva fatto crescere una leadership capace di ereditare la successione. La nomina di Hailemariam Desalegn (già vicepresidente del Consiglio, appartenente al gruppo minoritario dei Wolayta) come premier ad interim è da considerarsi funzionale solo a sedare i primi scontri interni al fronte tigrino ed ha già riscontrato diversi dissensi, non essendogli riconosciute né competenza né legittimità politica. La transizione è in prima istanza un affare interno del Tigray people’s liberation front (Tplf, una delle formazioni che compongono l’Eprdf), e Sebhat Nega, Abay Tsehaye e soprattutto Azeb Menfin (la potente vedova di Zenawi) stanno già affilando le armi. Le alleanze serviranno a capire se l’Etiopia si dirige verso l’implosione o meno. I tigrini potrebbero arroccarsi al potere, oppure cederne formalmente una parte, ma tenere il controllo dell’intelligence e delle forze armate, oppure premere sulla demonizzazione dei nemici interni/esterni spingendo il paese in uno stato di emergenza. Più lungo sarà il vuoto di potere, più avranno buon gioco nell’agire sia le formazioni indipendentiste nazionali che i nemici dichiarati dell’area. Un’Etiopia stabile darebbe prova di maturità, garantirebbe la continuità nella mediazione di problematiche regionali, rappresenterebbe un baluardo forte contro una possibile espansione del terrorismo di matrice islamica radicale in Africa orientale e sarebbe un segnale chiaro che è possibile una «rinascita continentale del XXI secolo». 67


La storia

Quella sottile linea rossa che parlava italiano di Virgilio Ilari ultima dichiarazione di guerra la 1914-1945, per certi aspetti simile a quella in corso dal facemmo il 15 luglio 1945, con- 1990) e l’inizio di una rivoluzione copernicana dei pretro il Giappone: c’era infatti un cedenti blocchi geopolitici. Fu allora, infatti, che l’Inprogetto dello Stato Maggiore di ghilterra cominciò il percorso verso la rottura della secontribuire alla battaglia finale colare alleanza protestante con il mondo germanico e con una nuova Armir reclutata l’intesa con una Francia ormai indebolita e subalterna, tra i nostri prigionieri negli Stati Uniti e inquadrata da- dando vita al nucleo dell’Occidente moderno, ossia la gli stessi invitti generali che ce li avevano portati. Quan- somma dei due maggiori e ultimi imperi europei, svedo Togliatti lo seppe, commentò: «furbi i militari, vo- nati nel 1914 ed incassati nel 1942 dal creditore amerigliono rifare la Crimea!». cano. Talora, accecati dal nazionalismo e dalla tentazioLa Crimea, o, come si diceva all’epoca, la ne gioachimita di un mondo diverso, dimenQuestione e la conseguente Guerra ticammo la costellazione geopolitica in cui d’Oriente, fu all’origine dell’Italia unita, brillava la nostra stella, e ci illudemmo di perché il Piemonte ricevette allora dalle liberarcene inventandoci un nostro disastrodue maggiori potenze mondiali il rango e so Sonderweg tra Terzo Reich, Unione Soil mandato di stabilizzare in via permanenvietica e Terzo Mondo. Pensammo nientete la turbolenta Penisola Centrale del Memeno di esserci riusciti quando Enrico Matditerraneo. Ma quel mandato non l’avrebtei e i Mau-Mau della Farnesina si permibe avuto se la Crimea non fosse stata al sero il lusso di celebrare il centenario della tempo stesso una fase speciale della guerCrimea silurando il ministro liberale che vora mondiale 1848-1878 (l’«anello manleva sbarcare a Suez e armando poi il FronFerdinando Augusto Pinelli cante» tra le due del 1792-1815 e del te di Liberazione Nazionale algerino. Ci vol1810-1865

L’

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Carlo De Cristoforis

Camillo Benso, Conte di Cavour

Sir James Hudson 1810-1885 - Sir Coutts Lindsay (1824-1913)

lero Sigonella, e la fine di Craxi, sepolto esule nel trico- cito e l’intera flotta) era in Crimea da otto mesi e Calore palestinese, per farci comprendere la differenza tra vour, mollato da Massimo d’Azeglio, era appena partiquella che a Washington giudicarono nel 1956 una di- to disperato per Parigi, convinto che il Piemonte non savertente baruffa di botoli europei e quello che trent’an- rebbe stato ammesso al tavolo della pace, dal momenni dopo avvertirono invece come un rabbioso morso al to che la tormentata adesione all’alleanza anglo-francepolpaccio del padrone. Qualche settimana fa, una delle se (12 gennaio 1855) era avvenuta, per non provocare soldatesse di guardia alla Stazione di Trastevere, vete- l’Austria, con rango meramente ausiliario. Il contingenrana delle nuove Crimee, mi ha assicurato con affabile te previsto era di 15mila uomini (un terzo in più del masorgoglio di essere un bersagliere italiano e non un rifle- simo di cui siamo ora capaci) e in realtà ne erano partiman di Sua Maestà Britannica, coti 24mila, contando marinai e rime invece m’era parso dal bizzarserve. Le perdite in combattimenBreve storia della ro piumetto a spazzola che il suo to erano state al livello delle CriBritish Italian Legion. reggimento porta adesso sul nuomee odierne (31 alla Cernaia), ma Siamo nel 1855, c’è vo copricapo “afghano”. Mi sovl’Ossario italiano di Kamari racla guerra di Crimea e venne allor dei torinesi, quando, colse nel 1882 pure i resti di altri i red-coat italiani sono la sera del 20 febbraio 1856, viduemila morti di colera (dal che al servizio di sua dero sfilare verso Porta Susa 500 si vede quanto decisivo sia poi stamaestà britannica. Un redcoats italiane che intonavano, to, per rendere socialmente soste«as well as they could», il difficinibili le guerre umanitarie, il progruppo di legionari lissimo God save the Queen. gresso della sanità militare, rinnocomposto da patrioti In quel momento il corpo di spevata proprio allora da Florence Nie tagliagole... dizione sardo (un terzo dell’eserghtinghale). Oggi le armate inter69


Risk nazionali sono pasticci di passeri e d’elefante, perché le legione «reazionaria» sostenuta pure dagli austriaci (allegioni imperiali bastano da sole e le coorti dei volen- la quale dedicheremo un altro articolo sul prossimo nuterosi sono meri gettoni di presenza. Allora, però, i nu- mero di Risk) implicava che la nuova fosse di segno pomeri contavano e l’Inghilterra, non volendo introdurre litico opposto. Vi furono del resto esitazioni e contrasti la coscrizione, dovette raddoppiare le forze terrestri con pure in Inghilterra, tanto che la nomina del «comitato milizia, ausiliari (20mila turchi e 15mila piemontesi) e di formazione» slittò al 25 luglio. La notizia, comunimercenari. La proposta di formare una legione stranie- cata alle Camere il 30, fu subito ripresa con apprensiora temporanea fu avanzata dal principe consorte Alber- ne dalla Gazzetta del Tirolo Italiano (Trento) e dal Veto l’11 novembre 1854, proprio a seguito delle gravi per- ro amico di Roma e il 10 agosto Sir George Bowyer dite subite ad Inkermann. La legge, approvata il 26 apri- (1811-1883), un deputato liberale che nondimeno difenle 1855, consentiva di arruolare per la durata della guer- deva gli interessi cattolici e della Santa Sede, accusò il ra 10mila tedeschi, 5mila svizzeri e 5mila italiani. In governo di voler usare la legione per ingerirsi negli afpratica si spese oltre un milione di sterline per arruolar- fari interni degli stati pontificio e borbonico. La sferzanne la metà, e nessuno raggiunse il campo di battaglia. te replica di Lord Palmerston, che i guai dei due goverLa British-German Legion, reclutata negli stati minori ni, sordi ai moniti britannici, erano solo il prezzo del dedel Bund, fu formata in Inghilterra e inviata sul Bosfo- spotismo e delle mancate riforme liberali, fu ripresa con ro. A pace fatta, caduta l’idea di cederli alla Comsoddisfazione dal Protestant Magazine. Sei giorpagnia delle Indie Orientali, 2.300 legionari acni dopo ci fu la Cernaia e Il Piemonte del 21 agocettarono di trasferirsi come contadini militarizsto enfatizzò l’alleanza e la legione anglo-italiazati nella Colonia del Capo. Le altre due legioni na, futura scuola militare della nazione. Secondo furono entrambe reclutate tra i reduci di tutte le l’Economist del 1° settembre pure i conservatori cospirazioni e guerre civili d’America e d’Eurocominciavano a riconoscere che il Piemonte stapa. Il reclutamento degli svizzeri, pur vietato dalva diventando affidabile e che qualcosa doveva la confederazione, non suscitò tuttavia allarmismi Medaglia cambiare in Italia; e la legione era appunto meninternazionali, e i conservatori lo considerarono sem- di Crimea zionata tra i segnali di novità. La tesi del miracolo mai un utile spurgo di asociali. Cominciò dunque a mag- sardo fu sviluppata in un reportage dal Subalpine Kingio, contemporaneamente a quello dei tedeschi, con un gdom del giornalista Frederick Bayle St John (1822centro di raccolta in Francia e un altro a Domodossola, 1859), secondo il quale il fiasco del 1848 era dovuto ad da dove venivano trasferiti via Genova in Inghilterra e un re lugubre e digiuno di arte militare, al sabotaggio di qui a Smirne, dove rimasero fino alla pace. Gli italia- degli ufficiali, in maggioranza reazionari e austriacanni, invece, non furono solo raccolti ma pure addestrati ti, e al carattere dinastico e non nazionale delle guerre in Piemonte, suscitando da un lato la speranza e dall’al- sabaude, famigerate per tradire sempre gli alleati. In Critro il timore che la legione venisse usata per sollevare mea, però, i sardi avevano superato perfino gl’inglesi: Milano, Roma, Napoli o Palermo. A rafforzare i sospet- e non solo grazie alle riforme del ministro Lamarmora, ti austriaci concorse pure la diversa enfasi del governo ma perché per la prima volta combattevano per una cauinglese sui precedenti storici delle legioni tedesca e ita- sa nobilmente disinteressata, quella dell’umanità, riscatliana. Infatti, mentre la tedesca fu presentata come l’ere- tando così la vergogna di essere stati i volenterosi carde ideale della gloriosa King’s German Legion di Wel- nefici dell’abominevole mostro corso. lington, non si fece parola dell’Italian levy del 1812- Incaricati di formare la legione erano il plenipotenzia1816, creata da Lord Bentinck per fare concorrenza a rio a Torino, il raffinato sir James Hudson (1810-1885) Wellington sollevando contro Napoleone la «Peninsu- amico di Massimo D’Azeglio, e il colonnello Henry Perla» centrale del Mediterraneo. Dimenticare la vecchia cy (1817-1877), che aveva meritato la Victoria Cross a 70


Uniformi della British Swiss Legion

Inkermann, coadiuvati dal nizzardo Ignazio Ribotti di Molières (1809-1864), già discusso generale dell’insurrezione siciliana, e da Ferdinando Augusto Pinelli (18101865), autore di una buona Storia militare del Piemonte e futuro castigamatti della resistenza borbonica. Erano previsti 4 e poi 5 reggimenti e i primi due depositi furono aperti in settembre a Novara e a Chivasso. Ma proprio allora Percy si dimise e il sostituto, un anodino Costantine Read, arrivò solo in gennaio. Così l’11 ottobre il principe Alberto scrisse acidamente di essere «very glad» che la legione italiana fosse abortita subito, tanto alla fine sarebbe stata di sicuro un fiasco. I volontari però affluivano, tanto che a Susa fu aperto il deposito del 3° reggimento bersaglieri («rifle»). I reggimenti erano comandati da un acquarellista preraffaellita, Sir Coutts Lindsay (1824-1913), e due militari di carriera, Edwyn Sherard Burnaby (1830-1883) e William Henry Beaumont de Horsey (m. 1915). Costoro divennero generali e Burnaby anche deputato conservatore: Percy, terzogenito del duca di Northumberland, non ereditò il titolo, ma fu pittore, generale e deputato. Chirurgo capo era Joseph Sampson Gamgee (1828-1886), pioniere della chirurgia asettica e inventore di un cotone assorbente per il drenaggio. Il commissario, Edward Barrington de Fonblanque (1821-1895), scrisse un trattato di amministrazione militare: ma il comitato parlamentare sulle forniture militari non riuscì in seguito ad appurare perché diavolo la ditta Isaac & Campbell di StJames street avesse vestito gli italiani, e allo stesso prezzo delle normali giacche rosse, in «beautiful, very superior» uniformi scarlatte. Oltre Ribotti e Pinelli, italiani erano i maggiori Nicola Arduino, Evasio Candiani d’Olivola e Giuseppe De Foresti, e quasi tutti i 130 quadri in-

Sopra la legione anglo-italiana a Novara

feriori, inclusi tre aiutanti, otto chirurghi, due infermieri e due cappellani. Ne ritroviamo poi qualcuno fra i Cacciatori delle Alpi del 1859, e tra questi l’unico famoso fu Carlo de Cristoforis (1824-1859) l’autore di Che cosa sia la guerra, caduto nei combattimenti sul Lago Maggiore. I problemi vennero dall’incauta se non provocatoria location di Novara, pullulante di fuoriusciti lombardi, che il 6 febbraio 1856 celebrarono con un tumulto il terzo anniversario dell’insurrezione proto-socialista di Milano (sabotata dai mazziniani). Pur non avendo mandato truppe, l’Austria era formalmente alleata contro la Russia e il governo sardo dovette dare una calmata ai legionari. Emerse che i birichini avevano trafugato armi, prese in custodia da un deputato di sinistra, e che intendevano marciare su Milano. Sedici redcoats finirono al fresco, e i reggimenti, subito arretrati il 1° a Chivasso e il 2° a Susa, arrivarono il 6 marzo a Genova, in attesa del trasporto Great Britain che doveva portarli a Malta. “Cazziato” da Lord Clarendon, Hudson difese con la boccuccia a cuore i suoi ragazzi ingiustamente calunniati, e Palmerston rispose spudoratamente a Bowyer che il complotto a Novara c’era stato, sì, ma di agenti austriaci che cercavano di far disertare i legionari. Sull’Illustrated London News del 22 marzo comparve (pag. 293) una rassicurante pseudo veduta della «Review of the British Italian Legion at Novara», ora in vendita su e-bay (oggi la stampa pubblica del resto bufale peggiori). Al passaggio del Great Britain la gendarmeria pontificia fece cordone sul litorale, ed era saggia, perché il 20 marzo, dieci giorni prima della firma della pace di Parigi, Cavour almanaccava di utilizzare i legionari, una volta congedati dal servizio inglese, per liberare la Sicilia e annetterla al Piemonte. Mal71



storia ta, del resto, era la centrale insurrezionale delle Due Sicilie diretta da Nicola Fabrizi, senza contare che la legione faceva gola pure al partito murattista appoggiato da Napoleone III. Alloggiati al Forte Manoel, e decimati dal colera, i legionari facevano intanto il comodo loro: legnarono un frate che li aveva rimproverati di bestemmiare, tumultuarono per le strade della Valletta inneggiando all’Italia e il 7 maggio accopparono il poliziotto Caruana («padre di undici figli», come non mancò di sottolineare il Vero Amico). Si decise allora di affrettare il congedamento, complicato però dal rifiuto dei governi reazionari di riprendersi gli espatriati. Lo stesso Piemonte fece sbarcare a Genova solo i propri cittadini, e Cavour respinse l’accusa di aver concesso passaporti ai 44 svizzeri reduci dalla legione italiana. In settembre restavano ancora tutti gli ufficiali (158) e un terzo della truppa (783), che furono imbarcati sul Tudor diretto a Liverpool. In vista della Sicilia il capitano calabrese Francesco Angherà (18201879) tentò invano di indurre i compagni ad ammutinarsi e sbarcare: fu arrestato e fatto passare per pazzo per evitargli la fucilazione. Da Liverpool alcuni proseguirono sul Tudor per il Canada, ma il grosso sostò in Inghilterra: 450 a York, il resto a Burnley e Ashton. I migliori si trovarono un lavoro e il conte Vincenzo Sabatini Bonafede (1850-36), futuro generale italiano, sposò Penelope Every-Clayton (m. 1913) figlia del giudice di pace. I peggiori, capeggiati dal maggiore Robert Crawford e dal capitano George F. Sheppard, accettarono un ingaggio nella colonia agricola del Paranà concessa allo strapotente impresario delle ferrovie argentine, il finanziere alsaziano e luterano José de Buschental (18021870). In attesa dell’imbarco, una cinquantina finirono per «prowling about Stepney and Whitechapel, and they were all armed with bowie-knives and stilettos». A detta del London Times del 14 novembre 1856 erano armi innovative tra la mala londinese, alcune con la scritta «Americans must and shall rule America!» (il motto dei «Natives» resi famosi da Leonardo Di Caprio in Gangs of New York). Tali «Minette Luigi» e «Joseph Manosi» ci sbudellarono un paio di constable, e così il 22 novembre l’Acadia, appena salpata con a bordo i primi 158 le-

gionari diretti a Buenos Aires, fu fermata dal vaporetto di polizia e costretta ad ancorare a Sheerness Harbour accanto all’HMS Waterloo il cui comandante sequestrò pistole, coltelli, e bastoni animati. Il secondo scaglione si ammutinò a bordo del Balaclava per non aver ricevuto la razione di zucchero e la colonia alla fine naufragò tra risse e faide. Negli anni precedenti un milione di sventurati papisti irlandesi si erano dannati, morendo di fame senza il conforto della Parola di Dio, negata loro dal clero cattolico Romano. Ma grazie allo zelo dei missionari, tra i benefici della guerra umanitaria in Crimea ci fu pure la salvezza di molte anime. Il 5 ottobre 1855, appena tornato da Balaclava, il reverendo W. Carus Wilson pubblicò un rapporto su L’evangelio tra i Sardi, cioè la distribuzione della Bibbia al campo piemontese, sempre più richiesta man mano che progrediva «la terribile mortalità». Sotto il naso dei 20 cappellani e delle 76 suore di carità in forza al Corpo di spedizione sardo, alcuni militari (due toscani anglofoni, un trentino, un valdese, vari ufficiali progressisti e perfino il cappellano di una pirofregata sarda) aiutarono a distribuire, sia al campo sardo che al mercato di Kadikoi, 3620 Nuovi Testamenti in italiano e 310 in francese, più 150 Bibbie: con qualche altro missionario in più, Dio Fa’, i piemontesi avrebbero perfino smesso di bestemmiare. Analogo zelo fu riservato alla legione italiana, secondo un rapporto pubblicato il 1° agosto 1856 dall’Eco di Savonarola («foglio mensile in italiano e in inglese»). Solo a Novara furono distribuite centinaia di Bibbie, suscitando le ire del cappellano del 1st Regiment (cavalier don Luigi Grillo) che tuttavia riuscì a sequestrarne appena 150. E il signor Cerioni proseguì poi l’evangelizzazione a Malta. Durante la sosta a York il reverendo Newton, curato di St Cuthbert, mise a frutto la sua conoscenza dell’italiano offendo ai legionari due sermoni settimanali e visite nelle barrack room per distribuire a prezzo politico Bibbie in italiano (The Church of England Magazine, 1857, pag. 235). All’evangelizzazione dei legionari italiani a York è dedicato pure un capitolo di Selvaggio. A Tale of Italian Country Life (1865) di Anne Manning (1807-1879), una sorta di Oriana Fallaci dal volto umano. 73


la libreria


libreria

PERCHÉ CAVOUR NON È SOLO IL DEMIURGO DELL’UNITÀ ITALIANA

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di Giancristiano Desiderio

osario Romeo è uno dei maggiori storici italiani ed europei. Tra le sue opere importanti ricordiamo Il Risorgimento in Sicilia e Risorgimento e capitalismo. Ma il suo nome sarà per sempre legato al Conte di Cavour al quale dedicò Vita di Cavour e la monumentale opera Cavour e il suo tempo. Quest’ultima è stata ristampata dalla Laterza in tre tomi suddivisi secondo la periodizzazione che Romeo diede alla vita di Cavour e al suo tempo: 1810 – 1842 il primo libro, 1842 – 1854 il secondo tomo e 1854 – 1861 il terzo. Un’opera voluminosa, certo, ma soprattutto articolata, profonda, scrupolosa in cui attraverso la vita del massimo statista italiano si ricostruiscono la storia dell’Italia e dell’Europa nell’Ottocento, uno dei secoli più affascinanti e al contempo più sconosciuti. Il secolo in cui avvenne il fatto straordinario dell’unità d’Italia che cambiò la storia del nostro Paese, certo, ma che influì in modo non meno intenso e determinante sul vecchio continente. Il secolo delle rivoluzioni borghesi e dell’annuncio della rivoluzione sociale è stato visto il più delle volte attraverso le lenti deformanti della storiografia di parte e di partito. Lo sforzo, riuscito, di Rosario Romeo è quello di restituire l’Ottocento all’Ottocento e mostrare le alternative concrete della reazione, della riforma, della rivoluzione nella loro autenticità. Cavour fu uomo del suo tempo perché, fedele all’ideale della libertà,

ROMEO ROSARIO

Vita di Cavour Laterza pagine 549 • euro 14,00 Questo libro è un’opera completa in cui tutta la vita del politico, oltre che con una maestria di scrittura che può esser propria solo ai grandi storici, viene narrata in stretta osmosi con “il suo tempo” risultando perfettamente fusa con la storia e con la cultura risorgimentale di un’Italia sul cammino verso l’Unità. Si tratta, per usare le parole di Giuseppe Galasso, di «Una biografia diversa. Nessun isolamento dell’eroe, ma, anzi, una premura costante di leggerlo per intero entro la trama storica del suo tempo. È la storia dell’Europa romantica, coi suoi ideali religiosi e morali; l’Europa della progrediente rivoluzione industriale e borghese; l’Europa dei movimenti liberali e nazionali, e anche, già, della lotta di classe imminente.

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Risk seppe indicare la strada per non cadere né nella reazione né nella rivoluzione, i due estremi che sono molto più vicini e fratelli di quanto non si immagini. Da questo punto di vista l’opera di Camillo Benso conte di Cavour ha un carattere universale che ce lo rende particolarmente vicino. La biografia di Cavour – la sua vita, la sua formazione, il suo pensiero, la sua azione, i suoi risultati – dovrebbero essere per tutti noi, italiani, fonte continua di studio, prima ancora che di ammirazione. Il lavoro storiografico di Romeo ci offre la possibilità di farlo con la semplicità della lettura di un libro. L’attualità di Cavour è indiscutibile. Un esempio sarà sufficiente a capire. Nel 1847, nel bel mezzo della battaglia parlamentare nella vita politica subalpina, pronunciò come deputato e direttore del giornale Il Risorgimento un discorso a sostegno delle leggi Siccardi. Disse: «… volgete gli occhi a tutti i paesi d’Europa e vedete chi sono coloro che poterono resistere alla bufera rivoluzionaria… Quale è dunque il solo paese che seppe preservarsi dalla bufera rivoluzionaria? È quell’Inghilterra cui accennava il deputato Cesare Balbo. In quel paese uomini di Stato i quali avevano caro il principio conservatore, che sapevano far rispettare il principio di autorità, ebbero pure il coraggio di compiere immense riforme, a petto delle quali quella di cui ci occupiamo è ben poca cosa, e ciò quantunque una parte numerosa dei loro amici politici le combattessero come inopportune… Vedete dunque, o signori, come le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità la rafforzano; invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza… progredite largamente nella vita delle riforme e non temete che esse siano dichiarate inopportune; non temete di indebolire la potenza del trono costituzionale… che invece lo rafforzerete, invece farete sì che questo trono ponga nel nostro paese così salde radici, che quand’anche s’innalzi intorno a noi la tempesta rivoluzionaria, esso potrà non solo resistere a questa tempesta, ma altresì, raccogliendo attorno a sé tutte le forze vive d’Italia, po76

trà condurre la nostra nazione a quegli alti destini cui è chiamata». Parole che, lette oggi, possiamo anche definirle profetiche. Ma diciamo che sono più normalmente lucide perché sorrette da grande acume e forza morale. Cavour nella sua vita politica tenne fede a questo principio di libertà facendolo passare in mezzo ai due pericoli che si palleggiavano e spalleggiavano l’un l’altro: la reazione e la rivoluzione. Cinque anni dopo questo discorso, Cavour divenne presidente del Consiglio dopo aver stabilito un accordo con la sinistra moderata di Urbano Rattazzi. Un’alleanza che passerà alla storia come il “connubio” e sarà tacciata di trasformismo, ma nell’alleanza Cavour-Rattazzi c’era la fedeltà alla libertà e fu impedito che il regime parlamentare regredisse a semplice regime costituzionale con restrizioni delle libertà. Le figure importanti del Risorgimento sono tre: Mazzini, Garibaldi e Cavour. Ma la figura decisiva è il conte di Cavour. Nacque nel 1810 in una famiglia che gli diede una formazione ampia. L’ambiente era conservatore ma di una conservatorismo europeo, vasto e caratterizzato da rapporti internazionali. Attraverso i parenti di sua madre, Cavour assorbì lo spirito calvinista e liberale, viaggiò in Europa, Francia e Inghilterra e qui studiò Stato, parlamento, amministrazione, economia. La sua preparazione era improntata alla concretezza. Un altro grande storico italiano, Adolfo Omodeo, ci ha lasciato di Cavour un ritratto intenso e calibrato: «Il suo liberalismo non aveva nulla di romantico: non amava i gesti rivoluzionari né la pompa oratoria. Per lui la libertà era insieme un ideale altissimo e un metodo creativo e costruttivo. Odiava il paternalismo assolutistico, così in politica come in economia e in religione, per la sua grettezza capace solo di deprimere invece che di dirigere le forze della storia». Poi l’Omodeo aggiunge un passo che oggi induce al sorriso: «Il Cavour concepì il parlamento come la più superba arma politica per l’uomo di stato che avesse voluto e saputo servirsene». Dove si capisce chiaramente che il segreto


libreria è negli “uomini di stato” che, in fondo, sono rari come sono rari i poeti. Fatta l’Italia, Cavour morì. Se fosse rimasto in vita le cose sarebbero andate diversamente, a cominciare dalla politica svolta nel Mezzogiorno? Interrogativi oziosi e privi di senso. Certo, la morte del grande statista fu in quel momento una perdita che, come si dice, lasciò un vuoto incolmabile. Ma il conte di Cavour aveva compiuto la sua opera, quell’opera che aveva intravisto, visto e realizzato in nome della libertà e della nazione italiana unita. Perché per Cavour le due cose andavano di pari passo: libertà e nazione erano le due estremità della stessa corda. Nella conclusione dei suoi tre libri, Rosario Romeo si sofferma

in poche pagine proprio su questi temi: sul valore e sul significato del liberalismo di Cavour, sulla nascita dello Stato italiano, sul principio di nazionalità. Lo storico parla dell’Ottocento e della politica liberale e nazionale di Cavour e nello stesso tempo parla del Novecento. Perché le due cose sono tra loro vicine e lontane, come avviene in fondo in ogni vera opera di storia. Al lettore che volesse avvicinarsi ai tre libri di Romeo suggerisco di iniziare dalla fine leggendo proprio le pagine della conclusione, per poi avviare la grande avventura della vita del maggior statista italiano. Un procedimento che può apparire strano, ma che rivelerà presto il suo significato.

ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY, IL CERCATORE DI DIO

S

Per tutta la sua vita l’autore del “Piccolo Principe” ha vissuto nell’inquietudine, alla ricerca di risposte. E di spiritualità

«

di Mario Arpino

ì, dissi al piccolo principe, che si tratti di una casa, delle stelle o del deserto, quello che fa la loro bellezza è invisibile…». Questo breve corsivo, che troviamo nel risvolto della prima di copertina del libro di Enzo Romeo, potrebbe già essere sufficiente a darne il senso completo. Saint-Exupery viene definito un esploratore dell’assoluto, alla ricerca di qualcosa che riempia il cuore e l’anima. Il libro ne ripercorre una vita – ricca di avventure e di amori – che si è interrotta a 44 anni, al termine di una missione di ricognizione aerea che avrebbe dovuto svolgersi nei cieli della Savoia il 31 luglio 1944. Il tema dell’analisi di Romeo ruota tutto attorno a questa domanda: il qualcosa cercato dall’Autore del Piccolo Principe può chiamarsi Dio, ovvero l’invisibile per eccellenza? E può essere identificato nel Dio dei cristiani? Di sicuro, questo aviatore-poeta-scrittore-filosofo è l’interprete di molte delle inquietudini di oggi, del nostro nomadismo spirituale e di questa inafferra-

bile bellezza di cui l’Uomo moderno sembra avvertire una profonda nostalgia. Fra gli scrittori più letti del ‘900, quello occupato da Antoine de SaintExupery è certamente un posto di rilievo. La sua produzione letteraria, estremamente varia, ha raggiunto livelli di diffusione eccezionali: il Piccolo Principe, considerato il suo capolavoro, è stato pubblicato in 134 milioni di copie in 220 lingue. La sua vita, tuttavia, intensa e avventurosa, non è altrettanto conosciuta. Ed è un vero peccato in quanto si tratta di un personaggio di grande spessore sia lo si consideri come uomo d’azione, e in particolare aviatore, sia come scrittore-poeta ricco di intuizioni e fantasia, sia come uomo dotato di grande spiritualità, particolarmente attratto dalla ricerca speculativa dei grandi misteri che coinvolgono l’uomo e l’universo. L’invisibile bellezza di Enzo Romeo, edito da Ancora, costituisce un encomiabile tentativo di entrare nell’intimo del pensiero di Saint-Exupery attraverso la sua vita, e, sopra tutto, attraverso le sue opere. Indubbiamente non può che trattarsi di un 77


Risk

tentativo, tanto sono complesse la vita e la dimensione spirituale dell’uomo, maturata attraverso le sue infinite avventure di terra e di volo. Di quel volo che ha affascinato il giovane Antoine fin dai suoi più teneri anni, che sono anche gli anni dei primordi dell’aviazione. È il volo che è l’ispirazione delle sue pagine più belle, che costituisce forse la costante più importante della sua vita, che fu quanto mai intensa, trascorsa viaggiando instancabilmente da un continente all’altro, non risparmiandosi mai esperienze di ogni genere, anche sul piano sentimentale. È questa vita straordinariamente ricca che costituisce, in un certo senso, la base del suo rapporto con Dio, che si intensifica nei momenti di solitudine: a bordo di un aereo che vola a grande altezza, o nella vastità di un deserto. Si tratta di un rapporto del tutto particolare, che sembra risentire, più che dell’educazione religiosa ricevuta in gioventù, di una sua autonoma maturazione spirituale. Un Dio della cui esistenza egli è profondamente convinto e che egli ricerca instancabilmente, nella certezza che solo la fede possa dare risposta ai grandi interrogativi che attanagliano l’uomo. E proprio dalla consapevolezza della mancanza di questa fede che nasce quel travaglio interiore che ca78

ratterizza gran parte delle sue opere. In estrema sintesi, si tratta della storia avvincente di un aviatore impegnato nella ricerca continua di un’elevazione non solo fisica, ma sopra tutto spirituale. Un’opera che sarà particolarmente apprezzata da quegli aviatori che dal volo traggono alimento per la propria passione, ma anche spunto e ispirazione per riflessioni di più ampio respiro che investono la propria intima essenza di uomo, tutto sommato, abbastanza speciale. Le opere di Saint-Exupery sembrano semplici e immediate, ma solo per il fatto che la loro lettura scivola via, gradevolmente. In realtà non è così, perché vanno interpretate non solo in relazione allo spirito del tempo in cui sono state scritte, ma sopra tutto alla luce di quella che è stata la personalità complessa dell’Autore, così come influenzata dalla formazione religiosa dei primi anni di scuola, dalle letture, dagli amori incostanti ma sempre “eterni”, dagli studi filosofici, dai rischi mortali accettati con serenità, dalle mille e una avventure di pace e di guerra. Spirito tormentato, irrequieto, consapevole del significato della vita, ma mai attaccato ad essa ad ogni costo, sempre alla ricerca di maggiori incertezze, ma anche di quella certezza che forse è l’unica. A volte sembra quasi


libreria compiacersi del proprio tormento interiore, crogiolarvisi dentro, sicuro che sarà proprio quest’aspra continuità a condurlo per mano verso la vera Conoscenza. Attraverso un’analisi diligente ed appassionata di tutte le opere, Enzo Romeo riesce a cogliere l’essenza più intima di questo uomo-aviatore. Così, nel procedere della lettura, si avverte che il suo libro diventa progressivamente quasi una sollecitazione – al lettore che non lo avesse già fatto, o lo avesse fatto in modo superficiale ed incompleto – ad avviarsi sulla stessa strada e ad immergersi nelle stesse pagine. E in questo, oltre ad invogliarlo, lo agevola, con un capitoletto espressamente dedicato ad una sintesi delle opere. A questo modo ci consente, senza che ci dobbiamo scomodare e lasciare la poltrona, a ripercorrere Il Corriere del Sud, storia autobiografica dei suoi voli su mare e deserto con la compagnia aeropostale; Volo di Notte, una raccolta di pensieri durante i voli postali in Sudamerica; la Terra degli Uomini, Pilota di Guerra, il Piccolo Principe, scritto non molto prima della sua morte, la Cittadella, Manon ballerina ed altri scritti, come lettere inedite, racconti e sceneggiature. Sono tutte opere profondamente introspettive che, come quelle di Proust (vanno affrontate con lo stesso spirito), lasciano trasparire in ciascuna i segni di quella ricerca che a volte sembra raggiungere l’oggetto dell’indagine, a volte lo vedono allontanarsi veloce. Sono davvero opere belle ed importanti – e in questo la ricerca di Romeo ci aiuta – dove in ogni pagina ritroviamo noi

stessi, o almeno qualche frammento della nostra anima. Ritroviamo sentimenti e pensieri talvolta appena percepiti, ma che – da soli – non siamo mai riusciti ad esprimere compiutamente. Non sappiamo, né Romeo ce lo dice, se verso la fine della sua breve traversata – è morto a soli 44 anni – sia riuscito a intravedere davvero la bellezza invisibile. Forse sì, forse no. Noi non lo possiamo sapere, ma lui sì: perché deve essere qualcosa che probabilmente si vede solo negli ultimi istanti. Nel maggio del 1944, due mesi prima del suo ultimo volo, in una lettera ad un’amica scrive: «… ho un’indigestione di chilometri e di pietre miliari, e questo non porta a niente. Servirebbe rinascere». Ma poi aggiunge: «… ho corso tutta la mia vita. Ora sono stanco di correre». Qualcosa, però, doveva già aver intuito durante una delle sue avventure nel deserto descritta in Corriere del Sud. Vento, sabbia e stelle, dura regola da frati trappisti. «Bisogna aver conosciuto il deserto fisicamente e spiritualmente per parlarne e spiegare agli altri l’eco del suo appello. Qui gli uomini di solito non percepiscono lo scorrere del tempo e vivono in una quiete provvisoria. Il deserto è esigente e si offre solo a coloro che fanno il primo passo verso di lui. All’inizio sembra fatto nient’altro che di vuoto e silenzio; ma solo perché non si concede agli amanti di un giorno». È forse qui – anche Enzo Romeo potrebbe essersene convinto – che l’Uomo Antoine de Saint-Exupery deve aver avuto la sua prima, reale percezione dell’invisibile bellezza.

ENZO ROMEO

L’invisibile bellezza Ancora editore

(COLLANA QUADERNI DI RICERCA)

pagine 330 • euro 19,50

Saint-Exupéry è un esploratore dell’assoluto, alla ricerca di qualcosa che riempia il cuore e l’anima. Questo libro di Enzo Romeo, caporedattore esteri e vaticanista del Tg2, ne ripercorre la vita - ricca di avventure e di amori - interrottasi a 44 anni, al termine dell’ultima missione aerea sui cieli di Francia, il 31 luglio 1944. Il qualcosa cercato dall’autore del Piccolo Principe può chiamarsi Dio ovvero l’invisibile per eccellenza? E può essere identificato nel Dio dei cristiani? Di sicuro, SaintExupéry è l’interprete delle inquietudini d’oggi, del nostro nomadismo spirituale e di quella bellezza inafferrabile di cui l’uomo moderno avverte una profonda nostalgia.

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F I R M E

del numero

MARIO ARPINO: generale, già capo di stato maggiore della Difesa

BERNARDO CERVELLERA: responsabile dell’agenzia stampa AsiaNews e missionario del Pime GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina

VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni militari all’Università Cattolica di Milano

OSCAR GIANNINO: editorialista ed esperto di economia e finanza GENNARO MALGIERI: membro della commissione Esteri della Camera dei Deputati e giornalista

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore area Sicurezza e Difesa presso l’Istituto Affari Internazionali

LAURA QUADARELLA: dottore di ricerca in Diritto internazionale e autore di una monografia e numerosi articoli sul terrorismo internazionale STRANAMORE: analista militare e giornalista

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Mario Arpino

Bernardo Cervellera

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

Maria Egizia Gattamorta

ONAMA-ROMNEY LA FORZA DELL’OCCIDENTE

Luisa Arezzo

24

2012

settembre-ottobre

numero 68 anno XIII euro 10,00

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registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

La sfida dei candidati Tra declino e fragilità economica tutte le ricette per salvare il paese MARIO ARPINO

L’egemone riluttante

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Il futuro dei rapporti transatlantici nell’analisi dell’ambasciatore Usa un Italia DAVID H. THORNE

La lunga deriva Come le democrazie occidentali affrontano i problemi di economia e governance OSCAR F. GIANNINO

OBAMA-ROMNEY LA FORZA DELL’OCCIDENTE

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Lampi sul Mediterraneo

Oscar Giannino

Chiunque vada alla Casa Bianca dovrà tener conto che l’Europa è in pericolo GENNARO MALGIERI

Alessandro Marrone

Laura Quadarella

Stranamore

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David H. Thorne

RISK SETTEMBRE-OTTOBRE 2012

Gennaro Malgieri

LA CORSA ALLA CASA BIANCA, TRA CRISI ECONOMICA E RISCHIO ISLAMICO RIGUARDA TUTTI I nuovi martiri Bernardo Cervellera

Perché Cavour non è solo il demiurgo dell’unità italiana Giancristiano Desiderio

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