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2012

Pejman Abdolmohammadi

Cristiano Bettini

NAZIONI DISUNITE

Mario Arpino

novembre-dicembre

numero 69 anno XIII euro 10,00

quaderni di geostrategia

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Il Palazzo di carta Un apparato burocratico non riformabile. Le accuse dall’America EDWARD LUTTWAK

Pierre Chiartano

Un’operazione di successo

risk

I baschi blu in azione nel Libano meridionale PAOLO SERRA

Siria, equilibri instabili

Giancristiano Desiderio

La frammentazione degli interessi internazionali e il conflitto senza fine CARLO JEAN

NAZIONI DISUNITE

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Teheran e Onu, tra storia e fallimenti Petrolio, guerra, nucleare e diritti civili, good e bad practice tra Iran e l’organismo internazionale PEJMAN ADOLMOHAMMADI

Carlo Jean

Alessandro Marrone

Nicola Pedde

Paolo Serra

w w w. riskrivista. it

Stranamore

PRESENTE, PASSATO E FUTURO DELL’ONU, LUCI E OMBRE DEL GIGANTE DI VETRO IN UN MONDO SEMPRE PIÙ FRAMMENTATO

RISK NOVEMBRE-DICEMBRE 2012

Edward Luttwak

Un nuovo modello per le missioni Cristiano Bettini

Shadid, il grande narratore di Marjayoun Mario Arpino

• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •


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quaderni di geostrategia

DOSSIER

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M

A

SCACCHIERE

Il Palazzo di carta

Europa

intervista a Edward Luttwak di Pierre Chiartano

Alessandro Marrone

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I

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Missioni di pace on call

Americhe

Stranamore

Riccardo Gefter Wondrich

Un’opearazione di sucesso

Africa

Paolo Serra

Maria Egizia Gattamorta

Siria, equilibri instabili

pagine 64/67

Carlo Jean

Teheran e Onu, tra storia e fallimenti Pejman Abdolmohammadi

LA STORIA Virgilio Ilari

Un anno sul Meridiano 42

pagine 68/73

Nicola Pedde pagine 5/45 • •

EDITORIALI

Michele Nones Stranamore

LIBRERIA

Mario Arpino Giancristiano Desiderio pagine 74/79

pagine 46/47

SCENARI

Italiani da peacekeeping Alessandro Marrone

Un nuovo modello per le missioni Cristiano Bettini

Braveheart e l’oro nero Osvaldo Baldacci pagine 48/63

www.riskrivista.it

DIRETTORE Michele Nones

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000

REDATTORE Pierre Chiartano COMITATO SCIENTIFICO Ferdinando Adornato Luisa Arezzo Mario Arpino Enzo Benigni Gianni Botondi Giorgio Brazzelli Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Giulio Fraticelli Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Andrea Nativi Giuseppe Orsi Remo Pertica Luigi Ramponi Ferdinando Sanfelice di Monforte Stefano Silvestri Guido Venturoni RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gattamorta, Gefter Wondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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NAZIONI DISUNITE Ha ancora senso un’organizzazione come le Nazioni Unite? È un gigante burocratico divoratore di risorse che produce una burocrazia autoreferenziale e che spesso diventa la foglia di fico per operazioni inconcludenti, se non dannose per gli scopi che si prefigge. All’Onu vige la legge dei numeri e se si escludono i meccanismi del consiglio di Sicurezza, puoi imbatterti in dittatori che dovrebbero difendere i diritti umani, inquinatori che dovrebbero proteggere l’ambiente, o un’agenzia Onu influente come l’Unesco che non prende posizione di fronte alla distruzione del patrimonio culturale di un intero paese. Inoltre molti pensano che non debba essere l’Onu a condurre operazioni militari internazionali ed è facile raccontare una storia infarcita di insuccessi, di polemiche, di imprese costosissime, di sprechi, abusi a supporto di questa tesi. In realtà non sempre le missioni Onu si sono rivelate fallimentari. Si può anzi dire che l’intervento diretto dell’Onu può avere un esito positivo, purché si tratti di operazioni svolte in un contesto assolutamente benigno, nel quale si opera con il consenso delle parti e quindi con un livello di minaccia minimo o inesistente. In pratica l’Onu va benissimo quando si tratta di verificare e monitorare l’adempimento di un accordo o di effettuare missioni di osservazione, controllo, disarmo. Se si deve mantenere la pace, pur con qualche distinguo, l’intervento dell’Onu può essere non solo efficace, ma anche l’unica alternativa possibile, perché sono ben poche le organizzazioni internazionali capaci di pianificare, finanziare ed eseguire anche solo missioni relativamente semplici. In sostanza si tratta dell’Unione Europea, della Organizzazione degli Stati Africani, della Nato. Storicamente sono molti i casi dove il Palazzo di vetro non ha svolto il ruolo che gli compete, ma bisogna anche essere onesti nell’affermare quanto sia complicato produrre una politica che metta d’accordo tutti gli stati membri. Anche l’America ha dovuto arrendersi a certe logiche per poter utilizzare l’ombrello di una Risoluzione quando era necessario, come in Iraq. Nel corso dell’età contemporanea, anche l’Iran ha dovuto confrontarsi con le Nazioni Unite in diversi frangenti. Sono quattro i casi di rilevanza internazionale che, dal 1945, hanno visto coinvolti, insieme, le Nazioni Unite e l’Iran sul palcoscenico mondiale: la nazionalizzazione del petrolio nel 1951; la risoluzione 598 riguardante la fine della guerra Iran-Iraq nel 1988; il caso nucleare iraniano e la questione della violazione dei diritti umani nella Repubblica Islamica. I primi due casi fanno ormai parte della storia politica dell’Iran, mentre gli ultimi due sono di estrema attualità e, ormai da anni, sono parte della politica globale. E ci sono anche dei casi di good practice come nel sud del Libano con la missione Unifil per lungo tempo sotto la responsabilità di un comando italiano. Quale sarà il futuro di questo gigante è la domanda che ci dovremmo porre nei prossimi anni.

Ne scrivono: Abdolmohammadi, Chiartano, Jean, Pedde, Serra, Stranamore


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ossier

UN GIGANTE BUROCRATICO NON RIFORMABILE, ECCO LE ACCUSE DEL POLITOLOGO AMERICANO

IL PALAZZO DI CARTA INTERVISTA A

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EDWARD LUTTWAK DI PIERRE CHIARTANO

l Palazzo di vetro delle Nazioni Unite non è proprio una casa di vetro. È un gigante burocratico divoratore di risorse che produce una burocrazia autoreferenziale e che spesso diventa la foglia di fico per operazioni inconcludenti, se non dannose per gli scopi che si prefigge. All’Onu vige la legge dei numeri e se si escludono i meccanismi del consiglio di Sicurezza, puoi imbatterti in dittatori che dovrebbero

difendere i diritti umani, inquinatori che dovrebbero difendere l’ambiente, o un’agenzia Onu influente come l’Unesco che non prende posizione di fronte alla distruzione del patrimonio culturale di un intero paese. In estrema sintesi è questo il distillato del Luttwak-pensiero sull’utilità delle Nazioni Unite oggi. Il politologo americano, esperto geostratega e consulente economico del governo di Tokyo, come al solito, non gira intono al problema. «Le Nazioni Unite sono diventate un grande baracca burocratica che fornice posti di lavoro». Insomma, per il noto politologo americano d’origine rumena, l’Onu è diventato uno stipendificio con tipologie specifiche. «Ci sono due tipi di funzionari, il primo è quello che viene inviato dal ministero degli Esteri o dal governo di un paese come rappresentante al Palazzo di vetro. Ci sono delle quote internazionali da rispettare, i funzionari che arrivano dalle nazioni più arretrate rappresentano il meglio della loro classe dirigente e farebbero meglio a lavorare a casa propria. Parliamo di paesi poverissimi anche di risorse umane, di gente qualificata che preferisce lavorare ed essere pagata in maniera affidabile a New York, piut-

tosto che vivere in situazioni precarie, da tutti i punti vista, nel proprio paese. L’altra categoria di funzionari appartiene ai paesi avanzati. Tra questi troviamo l’un per cento di idealisti e il resto sono degli sfaticati che le burocrazie nazionali sono felicissime di potere “scaricare” negli uffici dell’organizzazione internazionale. Il risultato è la proliferazione di attività inutili, la nascita di strutture controproducenti. Ad esempio un consiglio sui Diritti umani presieduto dall’Iran o dalla Libia di Gheddafi. Parliamo dunque di un mostro che fa cose mostruose. Si occupa di tutto meno che della cultura, basta che si denunci Israele, nessuno si è accorto della devastazione fatta dei monumenti archeologici palestinesi. Nessuno si è accorto dell’Arabia saudita che per motivi ideologici ha addirittura distrutto i monumenti della Mecca e ha portato alla devastazione di quelli di Timbuctù che erano gli unici reperti africani importanti, distrutti sull’altare del wahabbismo senza che Unesco e Onu abbiano detto una parola. Se fosse stato Israele demolire tre mattoni storici di un villaggio palestinese… ci sarebbero state sessioni speciali, convocazioni d’urgenza… A Timbuctù è stata cancellata una me5


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dossier moria importante, forse unica, della storia africana e all’Onu nessuno ha fatto nulla». E se il concetto non fosse ancora ben chiaro. «Le strutture della Nazioni Unite non funzionano. Guardiamo all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che altro non è che un conclave burocratico. L’Italia come sempre è un po’ sfortunata in questi frangenti e per compensare tutte le altre fortune, è diventata sede della Fao che è diretta e presieduta da chi l’agricoltura la vuole distruggere. La Fao non ha mai fatto nulla per cambiare delle politiche agricole che spesso hanno portato vaste aree del globo a patire la fame. Anche lì c’è la pletora di diplomatici mandati a vivere a Roma per partecipare a inutili riunioni». Per Luttwak siamo alla «proliferazione di organizzazioni controproducenti» il cui cuore è «il consiglio di Sicurezza che naturalmente non è in grado di gestire i conflitti. Se una crisi è importante c’è sempre un veto». Un altro esempio di organismo “controverso” è l’Agenzia internazionale per l’energia atomica che ancora di recente produceva comunicati dicendosi «molto preoccupata» circa il programma nucleare di Teheran, insistendo nel voler «trovare una soluzione diplomatica» alla crisi. «Per anni la Aiea ha solo permesso al programma nucleare iraniano di andare avanti. Per anni è successo questo sotto la direzione di el Baradei che ha anche preso un premio Nobel». L’inefficacia della varie agenzie Onu è solo il condimento del grande problema del palazzo di vetro secondo l’analisi del consulente del Pentagono.

«Il consiglio di Sicurezza è il vero problema. È stato quasi sempre paralizzato dai veti contrapposti. Russi e cinesi che fondamentalmente difendono ogni dittatura, oggi difendono Assad prima difendevano Gheddafi. Agiscono così per principio, non perché ci sia ammirazione per questi dittatori, ma perché sono contrari a qualsiasi intervento del potere internazionale per la tutela dei diritti “individuali”. Essendo Pechino e Mosca delle dittature, temono di creare un precedente e vogliono proteggere il principio di Westfalia. I cinesi comunisti e i russi che non

«Le Nazioni Unite sono diventate un grande baracca burocratica che fornice posti di lavoro e produce sempre più spesso una classe di funzionari inutile e sfaticata. Il problema della politica all’Onu è che richiede sempre compromessi di dubbia efficacia. Gli Usa sono ritornati ad essere membri dell’Unesco che continua a non tutelare la cultura a livello internazionale e tanto meno promuove le scienze» lo sono più, sono coloro i quali difendono i principi di Westafalia che gli occidentali hanno ormai abbandonato per abbracciare la dottrina del “dovere d’intervento” (o ingerenza umanitaria, ndr) che crea enormi problemi. Ci sono abusi dovunque egli interventi sono altamente arbitrari. E anche possibile che questa volta siano russi e cinesi ad avere ragione e l’Occidente ad avere torto. Con il dovere d’intervento si è giustificata la guerra nel Kosovo in aperta violazione del principio di Westfalia, secondo cui la Serbia era un governo sovrano e il Kosovo una delle sue province. Ogni principe è assoluto a casa sua, recita la dottrina. Il diritto d’intervenire è arbitrario perché si interviene nei Balcani e non in Arabia Saudita dove la violazione dei diritti è continua?». L’istituzione, nata sulle ceneri dell’idealismo wilsoniano che aveva portato alla nascita della Società delle nazioni, non può essere migliorata a meno che non si pensi a soluzioni drastiche: alla Luttwak. «L’Onu non è riformabile. Ma si potrebbe fondare un’organismo simile, limitato ai paesi che si considerano democra7


Risk tici, cioè a quelli i cui governi devono rispondere del loro operato di fronte ai cittadini, con un metodo elettorale che rifletta una realtà del consenso. Un’istituzione del genere potrebbe funzionare». Un’idea che ricorda un po’ il progetto di Bush jr di qualche anno fa. «Sì, era stata ventilata». Ora l’America di Obama ingaggiata nell’apertura di dialogo col mondo islamico, fra alterne fortune, ha un approccio meno chiuso, difensivo rispetto ai tempi della forte influenza della dottrina neocon. Per anni gli Usa non avevano pagato i conti dell’Onu per protesta e i motivi li ha spiegati benissimo Luttwak. Ora i conti sono stati saldati e sembra che la Casa Bianca voglia contare nel Palazzo di vetro. «I conti sono stati pagati, ma il problema della politica all’Onu è che richiede compromessi continui di dubbia efficacia. Gli Usa sono ritornati ad essere membri dell’Unesco che continua a non tutelare la cultura a livello internazionale e tanto meno promuove le scienze. Cioè non fa il suo mestiere. Anche la riforma del consiglio di Sicurezza non è che un wishful thinking. L’unico piano proposto è quello di allargarlo ad altre potenze in rappresentanza di Asia, Africa e America del Sud, rispettivamente con India, Sud Africa e Brasile. Il problema e che le rispettive regioni non approveranno mai questa ripartizione. Se dovessimo avere la Nigeria in rappresentanza dell’Africa suppongo che il risultato sarebbe quello di legalizzare le frodi su internet.

La scelta del Brasile sarebbe inaccettabile per tutta l’America latina di lingua ispanica. Immagino come potrebbe piacere una candidatura dell’India da parte del Pakistan ad esempio». Però scavando nella memoria qualche volta l’Onu deve aver funzionato. «Ci sono situazioni in cui tutte le parti in conflitto vogliono smettere di combattere e allora accettano la presenza dei caschi blu. Gli Usa tollerano il 99 per cento degli abusi e si impuntano sull’un per cento. In passato hanno criticato l’Unesco e lo hanno abbandonato. Lo stesso è accaduto quando Gheddafi ha avuto la presidenza della commissione sui Diritti umani. Ma sul 90 per cento degli abusi non reagi8

«Nessuno si è accorto dell’Arabia saudita che per motivi ideologici ha addirittura distrutto i monumenti della Mecca e ha portato alla devastazione di quelli di Timbuctù che erano gli unici reperti africani importanti, distrutti sull’altare del wahabbismo senza che Unesco e Onu abbiano detto una parola» scono». Ma quale sarebbe la quadra per Washington? «Innanzitutto togliere l’Assemblea generale da New York. Bisognerebbe quindi votare lo spostamento della sede dall’America. In modo che tutti questi diplomatici e funzionari non possano vivere in un posto così comodo, sarebbe appropriato portare la sede nel Terzo mondo, nel Mali ad esempio. Un posto molto adatto al numero di sfaticati che popola il Palazzo di vetro». Venendo alla cronaca degli ultimi giorni c’è la crisi di Gaza, l’Egitto ha chiesto un intervento del consiglio di Sicurezza che stigmatizzasse l’azione israeliana che ha colpito con un missile l’auto sui cui viaggiava il capo dell’ala militare di Hamas. «L’Egitto governato dai Fratelli musulmani controlla una delle frontiere di Gaza, un territorio governato dalla Fratellanza. Dovrebbero rimuovere le barriere, aprire le frontiere occuparsi della Striscia prendendosi delle responsabilità: amministrarla. Rifiutare di fare tutto ciò per poi criticare gli israeliani quando reagiscono è sbagliato. Hamas che governa Gaza ha deciso che, invece di creare sviluppo e costruire qualcosa per migliorare le condizioni della propria gente, usando i finanziamenti che arrivano dal Quatar, sia meglio fare militanza antiisraeliana».




dossier I NUOVI STRUMENTI DEGLI INTERVENTI MILITARI DEL PALAZZO DI VETRO

MISSIONI DI PACE ON CALL DI •

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STRANAMORE

n molti pensano che non debba essere l’Onu a condurre operazioni militari internazionali ed è facile raccontare una storia infarcita di insuccessi, di polemiche, di imprese costosissime, di sprechi, abusi a supporto di questa tesi. In realtà non sempre le missioni Onu si sono rivelate fallimentari. Si può anzi dire che l’intervento diretto dell’Onu può avere un esito positivo, purché si tratti di

operazioni svolte in un contesto assolutamente benigno, nel quale si opera con il consenso delle parti e quindi con un livello di minaccia minimo o inesistente. In pratica l’Onu va benissimo quando si tratta di verificare e monitorare l’adempimento di un accordo o di effettuare missioni di osservazione, controllo, disarmo. Se si deve mantenere la pace, pur con qualche distinguo, l’intervento dell’Onu può essere non solo efficace, ma anche l’unica alternativa possibile, perché sono ben poche le organizzazioni internazionali capaci di pianificare, finanziare ed eseguire anche solo missioni relativamente semplici. In sostanza si tratta dell’Unione Europea, della Organizzazione degli Stati Africani, della Nato. L’Onu invece non è in grado di condurre operazioni d’imposizione della pace o che comunque abbiano una concreta possibilità di subire una escalation, quel mission creeping che porta a cambiare in corsa finalità e scopo di una missione, come accadde ad esempio in Somalia. In pratica, se c’è da sparare per davvero è meglio che l’Onu non si immischi. Se invece il contenuto militare della missione è tale da richiedere il semplice schieramento di contingenti relativamente poco numerosi e dotati di armamento leggero, sostanzialmente quanto basta per garantire l’autodifesa e la sicurezza del contingente stesso, l’Onu può e deve avere un ruolo importante.

In realtà l’Onu ha una funzione significativa anche quando si tratta di andare a combattere una guerra, perché imporre la pace è solo un modo politicamente corretto per definire operazioni belliche: in tutti questi casi l’Onu può comunque assumere una importante responabilità, quella di fornire una giustificazione giuridica valida sul piano del diritto internazionale e universale per consentire a qualche altro attore di darsi da fare. Spesso è sufficiente a tal fine una risoluzione o una serie di risoluzioni del consiglio di Sicurezza. Con una simile copertura giuridica, che potrebbe anche consentire alle forze messe in campo di indossare il fatidico casco blu, si può fare praticamente di tutto, basta vedere quanto è accaduto in Iraq, in Afghanistan ed in precedenza nei Balcani o, in diversi casi, in Africa, da ultimo in Libia. In linea di principio si deve ritenere che lo schema migliore sia quello che prevede una sorta di delega da parte dell’Onu ad un’altra organizzazione internazionale, primariamente alla Nato, ma anche alla Unione europea, per l’esecuzione di una missione che preveda il raggiungimento di un «end state» definito in termini abbastanza vaghi, consentendo naturalmente a chi esegue la massima libertà nello scegliere come e quando dichiarare che l’obiettivo è stato conseguito. Si dovrebbe anche discutere della latitudine di questi mandati, talvolta troppo ambiziosi, ma non in questo con11


Risk

Se c’è da sparare per davvero è meglio che l’Onu non si immischi. Se invece il contenuto militare della missione è tale da richiedere il semplice schieramento di contingenti relativamente poco numerosi e dotati di armamento leggero, l’Onu può e deve avere un ruolo importante

testo. Sì, si tratta di una sorta di delega in bianco. Ma talvolta potrebbe essere impossibile ottenere la disponibilità di una organizzazione internazionale a farsi carico di un compito che può essere impegnativo, costoso, sanguinoso e di durata incerta. La seconda alternativa potrebbe prevedere la formazione di una coalizione ad hoc, formata da un gruppo di Stati che si rende disponibile ad eseguire il mandato. Esisterebbe in realtà anche una terza opzione: quella di assegnare la missione ad una organizzazione privata, una società, una Private military company (Pmc), come è stato proposto in qualche caso, ma l’idea ha subito scatenato una serie di polemiche e contestazioni, che in realtà non sono così fondate. Perchè in molti casi l’intervento di una Pmc potrebbe risultare conveniente dal punto di vista politico, visto che non impegna direttamente governi e non ha quindi ricadute politiche, ha una “visibilità” anche mediatica decisamente minore e probabilmente risulterebbe più conveniente anche sotto il profilo costo/efficacia. Per un paese Onu è più semplice aprire il portafoglio e contribuire finanziariamente ad una operazione di pace o stabilizzazione piuttosto che mettere a disposizione un proprio contingente di truppe o forze di polizia. Dunque in una missione a guida Onu, l’Onu sceglie la Pmc, firma i contratti, definisce il mandato, controlla lo svolgimento delle operazioni e ne assume la re12

sponsabilità politica. Se così avvenisse le operazioni Onu avrebbero sicuramente vita più facile. E quanto ai risultati, una Pmc di alto profilo, con procedure, personale e capacità provate può svolgere missioni di basso ed anche medio livello con una efficacia pari o superiore a quella ottenuta dall’Onu direttamente. Naturalmente se si deve combattere una guerra non ci si può affidare ad una Pmc, almeno se parliamo di conflitti ad alta intensità e che richiedono l’impiego su vasta scala di uomini e mezzi sofisticati. Ma per tutto il resto il ricorso ad una grande Pmc rappresenta una alternativa allettante. In termini molto cinici, le azioni di una Pmc e del suo personale non possono essere attribuite a questo o quel governo. La responsabilità politica è solo dell’Onu, non certo degli Stati membri. E quanto alle polemiche che hanno ripetutamente interessato i comportamenti delle Pmc che operano per conto del Pentagono o del dipartimento di Stato statunitensi, c’è da dire che non è che il personale militare e di polizia dei contingenti che i diversi paesi mettono a disposizione dell’Onu abbia un “record” migliore. Anzi... più volte militari e poliziotti che agivano in nome e per conto delle Nazioni Unite si sono macchiati di crimini gravissimi, dallo strupro all’omicidio, per non parlare della mancanza di trasparenza nella gestione dei fondi, dei materiali, persino dell’armamento. Lo stesso Onu non rappresenta certo un modello di efficienza. Il ricorso a “mercenari”, se così vogliamo chiamarli, da parte delle Nazioni Unite non sarebbe in realtà disdicevole, anche perché dato che l’Onu non possiede un proprio esercito è comunque costretto ad utilizzare personale che non è alle proprie dipendenze, pagandone i servigi. Si tratta comunque di mercenariato, solo che a fortnire i “servizi” sono governi inveci che società private. Ma il concetto rimane lo stesso. Del resto più volte si è parlato di ricorrere alle Pmc anche per effettuare le operazioni di protezione, sorveglianza e contrasto della pirateria, perchè risulterebbe meno costoso e politicamente impegnativo rispetto all’utilizzo della marine militari da parte di organizzazioni internazionali o coalizioni di volontari.


Del resto non solo l’Onu non ha un proprio esercito, non ha neanche le strutture per impiegarlo e neppure una vera dottrina strategica o di impiego delle forze. La carta dell’Onu in realtà prevedeva proprio la costituzione di un esercito permanente, di uno stato maggiore ed una serie di meccanismi che avrebbero fatto delle Nazioni Unite la vera “superpotenza” . Il tutto è contenuto in una serie di articoli del famoso capitolo VII, in particolare gli articoli 43-47, i quali sono sostanzialmente rimasti inattuati. E del resto è comprensibile che gli Stati ed i governi non vogliano delegare ad un organismo sovranazionale ove ogni membro ha un voto (più o meno, visto come funziona ed è composto il consiglio di Sicurezza) la gestione del globo. Però visto che in qualche modo l’Onu si deve occupare di mantenimento o stabilimento della pace, di disarmo, di sicurezza, di disinnescare crisi e di ricomporre conflitti qualcosa andava fatto.

L’Onu si serve a questi fini di un Dpko, Diparti-

mente per le operazioni di pace, creato nel 1992 e al quale sono andate le funzioni in precedenza svolte dal Dipartimento per gli affari speciali. Nel corso degli anni il Dpko è cresciuto per capacità, staff, strutture, ma non è né un organismo politico di direzione delle operazioni né tantomeno ha la capacità tecnica-operativa per condurre operazioni, che di fatto vanno delegate ai paesi o alle organizzazioni che accettano di svolgere le missioni internazionali in nome dell’Onu. Anche se si sta facendo molto per cercare di rendere il Dpko più efficace ed efficiente, ad esempio potenziando le (quasi inesistenti) capacità d’intelligence, oppure puntando a istituire una capacità di intervento proattivo e non solo reattivo (è ovviamente più facile e meno costoso disinnescare una crisi potenziale quando ancora non è divampata), anche attraverso meccanismi che consentano, ad esempio, di mobilitare ed impiegare rapidamente contingenti militari messi a disposizione (stand-by) dagli Stati. Si vorrebbe arrivare ad avere almeno una forza di polizia permanente. In realtà il Dpko non ha capacità effettive di pianificazione e gestione delle operazioni. A que-



dossier sto devono pensare organizzazioni internazionali come Nato o Ue o direttamente gli stati membri. Del resto quando l’Onu ha provato a dirigere sul campo operazioni militari i risultati sono stati disastrosi. Non ha neanche funzionato il tentativo di co-gestione, con Onu e altri protagonisti, come la Nato che cercano di guidare insieme una operazione di stabilizzazione. Quanto è avvenuto nei Balcani è esemplare in questo senso. Del resto non si può pensare che il principio cardine delle operazioni militari, quello della unicità di comando, possa essere messo in discussione solo per ragioni di opportunità politica. Il Dpko peraltro ha competenze importanti sotto il profilo finanziario, quello logistico (basta ricordare la creazione della base logistica a Brindisi) e in larga misura anche nella acquisizione di materiali ed equipaggiamenti, mentre si occupa pure di formazione del personale e dei funzionari e sta cercando di sviluppare una propria dottrina per le operazioni di militari di mantenimento della pace, studiando le «best practices» internazionali. I progressi indubbiamente ci sono, anche se le troppo ambiziose proposte ed indicazioni contenute nel Rapporto Brahimi del Duemila sono ancora oggi rimaste lettera morta. Anche se non ha un proprio esercito l’Onu è sicuramente un protagonista indiscusso nel campo delle operazioni militari: di fatto è secondo soltanto agli Stati Uniti e dal Duemila ad oggi il numero di militari che l’Onu dispiega nel mondo è cresciuto di quasi cinque volte, il che dimostra da un lato come crisi e conflitti invece di diminuire aumentino, così come aumenta la instabilità, mentre è evidente che gli Stati delegano volentieri all’Onu l’onere e l’onore di occuparsi soprattutto di quei conflitti dimenticati che pursono i più sanguinosi e devastanti.

Considerando che gli Stati Uniti hanno or-

mai decisamente intrapreso una politica del disimpegno e che una volta usciti da Iraq ed Afghanistan si guarderanno bene dal farsi invischiare in altre operazioni di «cambio di governo» con connesso impegno a lungo termine per stabilizzazione e ricostruzione, l’Onu diventerà protagonista indiscusso ed anzi po-

Con delle Private military company le operazioni Onu avrebbero sicuramente vita più facile. E quanto ai risultati, una Pmc di alto profilo, con procedure, personale e capacità provate può svolgere missioni di basso ed anche medio livello con una efficacia pari o superiore a quella ottenuta dall’Onu direttamente

trebber essere costretto ad ampliare ancora il numero e lo spettro delle attività nel campo del mantenimento della pace. Ma già oggi non scherza: le Nazioni unite hanno in corso 16 operazioni nelle quali sono impegnati 81mila militari, ma anche 13.500 poliziotti e 2mila osservatori. A questi si aggiungono quasi 5.400 civili, circa 13mila civili reclutati localmente e oltre 2.200 volontari. Il totale può cambiare sostanzialmente a seconda dell’andamento delle missioni, ma ormai l’Onu impiega in missioni di pace quasi 120mila tra uomini e donne. Ed evidentemente uno sforzo del genere comporta anche costi significativi, il budget di ques’tanno, da luglio 2012 a giugno 2013 ammonta ad oltre 7 miliardi di dollari. Già, perchè l’Onu deve pagare gli stipendi ai propri dipendenti e si deve anche provvedere a “rimborsare” gli Stati che mettono a disposizione il personale, deve sostenere i costi operativi diretti ed in molti casi deve anche acquistare equipaggiamenti, materiali, mezzi ed armi. Frequentemente infatti i Paesi che offrono contingenti non sono in grado o non vogliono dotarli dei mezzi indispensabili per svolgere il proprio compito. E quando questo avviene l’Onu va sul mercato internazionale e compra, di tutto un po’, dai mezzi blindati agli autocarri fino agli elicotteri, oppure ricorre all’acquisto di servizi, ad esempio noleggiando aerei e navi. Ma non essendo questo il suo “mestiere” 15


Risk non sempre gli acquisti e i contratti sono convenienti in termini di costo/efficacia. Quello del peacekeeping è quindi anche un vero business, che interessa molto Stati e governi, per una serie di motivi. Innanzitutto conta il prestigio politico, specie per paesi emergenti o in via di sviluppo. Ma ci sono anche motivazioni prosaiche: offrendo il proprio personale i governi incassano rimborsi significativi, che in qualche caso eccedono largamente il soldo e i costi vivi sostenuti. Attraverso la partecipazione alle missioni si riesce quindi non solo a farsi pagare il costo di una parte del proprio personale, ma addirittura ci si guadagna, quando il differenziale tra retribuzioni e rimborsi ha un segno positivo. Inoltre, partecipando alle missioni quadri, ufficiali e in qualche misura anche i soldati fanno esperienza sul campo. Esperienza che poi potrà essere sfruttata in altre missioni internazionali non Onu o in generale consentirà di migliorare il livello di competenza e preparazione dei propri militari. Non sorprende così che la classifica dei paesi che più contribuiscono alle missioni dell’Onu sia guidato dal Bangladesh e dal Pakistan, entrambi impegnati con oltre 9mila tra militari e poliziotti, seguiti dall’India a quota ottomila, poi da Etiopia e Nigeria, con oltre 5.500 uomini, da Ruanda, Nepal ed Egitto, con più di 4mila e quindi, nell’ordine, da Giordania, Ghana, Brasile, Uruguay, Senegal, Sud Africa, Indonesia, Cina, Marocco, Tanzania. Il primo paese occidentale è l’Italia, al 19mo posto. In tutto sono 116 i paesi che contribuiscono e i “primi della classe” per quanto riguarda le capacità militari non sono certo ai primi posti nell’elenco. Questo è un ulteriore controsenso: le missioni internazionali sono condotte dal Segretario generale su delega del consiglio di Sicurezza, nel quale chi conta davvero sono i cinque membri permanenti, quelli che un tempo costituivano il club atomico. Però ad andare sul campo sono i soldati inviati da paesi che hanno ben poca influenza e peso nel decidere dove, come, quando e in che modo l’Onu debba intervenire. Indubbiamente la scarsa qualità dei contingenti militari che formano il nerbo delle forze Onu è tra i primi fattori che contribuisce ai risultati non sermpre positivi delle mis16

sioni internazionali. Proprio per questo anche il numero di vittime che i contingenti subiscono è relativamente elevato: solo i caduti superano quota 3mila, per non parlare del numero di feriti. Anche sul versante del personale civile le cose non vanno meglio: mentre è comprensibile la scelta di assumere elementi del luogo, anche per contribuire a sostenere l’economia locale che in qualche caso è... inesistente, di fatto si finisce per privilegiare l’aspetto assistenziale a quello operativo: le missioni diventano erogatori di sussidi/stipendi e volano per l’economia, ma questo va a detrimento della efficienza, mentre le missioni finiscono per “drogare” il tessuto sociale ed economico locale, con il risultato di impedire una effettiva e sana crescita delle istituzioni e delle realtà economiche, che hanno tutto l’interesse a far sì che la missione Onu continui sine die. Lo si è visto non solo in Africa o in Asia, ma anche nei Balcani, in Bosnia prima ed in Kosovo ancora oggi.

Cosa si può fare dunque per migliorare, parten-

do dal principio per cui la “domanda” di «caschi blu» non potrà che aumentare in futuro? Già, perchè se gli Stati Uniti centellineranno l’uso del proprio strumento militare, privilegiando comunque l’impiego di mezzi e tecnologie piuttosto che di uomini e puntando comunque a limitare la durata della missione, se la Nato deve ancora disimpantanarsi dall’Afghanistan e non ha a sua volta alcuna intenzione di ripetere l’esperienza (e peraltro i Paesi Nato andarono in Iraq e Afghanistan su richiesta Usa... ), se l’Unione europea ha ed avrà per parecchi anni da occuparsi di rifondare l’Unione e superare una crisi economica e finanziaria la cui soluzione non è certo a breve termine, se l’Unione africana rimane incapace di prendersi cura delle crisi che sconvolgono il continente, è evidente che l’Onu si vedrà riconosciuto un ruolo ancora superiore a quello attuale. Dunque è importante che si attrezzi in fretta e con lungimiranza per far fronte alle nuove incombenze. Perchè l’alternativa è rappresentata dal... restare alla finestra e rimanere spettatori delle tragedie che continueranno a verificarsi ad


dossier ficazione, comando e controllo, formazione e addestramento e gestione che sono state sviluppate nel corso dei decenni nella stagione dell’ingerenza umanitaria, dei cambi di regime, di esportazione della democrazia. Un’era che si va a concludere. Ma gli strumenti sono lì e possono e devono essere utilizzati. Comando e controllo, pianificazione, supporto logistico. Questo può essere il contributo. Che le truppe, i soldati, i civili, i mezzi i costi operativi vengano pure da Onu e dai paesi volenterosi. Ma se le operazioni sono impostate e gestite meglio non potranno che produrre risultati migliori. Una soluzione «mista» quindi, ma che affidi a chi lo sa fare la parte più difficile. Per le missioni più semplici invece l’Onu può e dovrà fare da solo ed a questo punto si spera che davvero le lezioni apprese siano messe a frutto. Magari il Dpko potrà essere potenziato e possibilmente dovrebbe essere gestito da chi è in grado di farlo funogni latitudine. Cosa può succedere lo vediamo, per zionare. L’Onu potrebbe anche insistere nel tentativo restare ad una crisi che si svolge nella nostra regio- di creare una forza di polizia semipermanente o on ne, in Siria. E già il modo in cui la comunità interna- call, perchè in molte occasioni forze di polizia e mizionale ha affrontato la guerra civile in Libia certo litari devono operare contemporaneamente mentre non è stato esemplare: a pagare i costi della indeci- esistono situazioni nelle quali forze di polizia ed ossione e del mezzo commitment sono state le popola- servatori possono essere sufficienti. zioni libiche. Dunque dovremo rassegnarci a lasciare all’Onu la responsabilità di intervenire. Però è inu- L’Onu dovrà anche imparare a comprare e getile sperare che l’Onu possa farsi davvero carico del stire meglio mezzi e servizi. Infine rimane la carta peace enforcing. In situazioni come quella in atto in della privatizzazione delle missioni di pace. Per ora Siria l’Onu non potrà che chiedere l’intervento delle ci si può permettere di essere schizzinosi, ma se i granpotenze militari o di Nato o Ue. E se queste non si di se ne lavano le mani e l’Onu non cresce e migliorenderanno disponibili... si potrà solo tentare la carta ra potrebbe rivelarsi la soluzione da percorrere. Per della politica o delle sanzioni, con risultati prevedi- di più molte delle Pmc con la fine delle grandi opebili, come dimostra appunto lo svolgimento della vi- razioni Usa si troveranno a corto di clienti, mentre la cenda siriana. Per fortuna non ci sono solamente guer- riduzione dei ranghi del personale militare in tutto re vere e proprie, sia pure interne, da affrontare. In l’Occidente metterà sul “mercato” migliaia di profesmolti casi i conflitti sono magari su vasta scala, ma sionisti addestrati e disoccupati. Che è meglio cercanon richiedono un massiccio intervento convenzio- re di utilizzare in modo controllato e per nobili fini. nale. In questi casi l’Onu può e deve intervenire, ma Si tratta di “turarsi il naso” e di passare dal mondo deve essere messo in grado di intervenire. I paesi più delle risposte ideali, ma irrealizzabili, a quello delle grandi, Nato Ue dovrebbero essere almeno disponi- formule di compromesso che consentono di soddibili ad assumere la guida operativa della missione, sfare in qualche modo le esigenze. Vale la pena di mettendo in campo le formidabili capacità di piani- pensarci, senza preclusioni ideologiche.

Dal Duemila ad oggi i militari che l’Onu dispiega nel mondo è cresciuto di quasi cinque volte, il che dimostra da un lato come crisi e conflitti invece di diminuire aumentino, così come aumenta la instabilità, dall’altro gli Stati delegano volentieri all’Onu l’onere e l’onore di occuparsi soprattutto di quei conflitti dimenticati che pur sono i più sanguinosi e devastanti

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Risk I BASCHI BLU IN AZIONE NEL LIBANO MERIDIONALE

OPERAZIONE DI SUCCESSO DI •

I

PAOLO SERRA

l Sud del Libano, dalla fine della guerra del 2006 ai nostri giorni, ha goduto di uno dei periodi più calmi e stabili della sua storia recente, grazie alla presenza ed all’attività dei caschi blu della United nations Interim force in Lebanon, Missione meglio nota con il suo acronimo: Unifil. La missione Unifil1, così come delineata dal consiglio di Sicurezza dell’Onu con la Risoluzione 1701 (11 agosto 2006) emanata a

seguito della guerra tra le forze armate israeliane ed il mo2 vimento paramilitare libanese Hezbollah , rappresenta oggi il fiore all’occhiello del moderno peacekeeping e si pone quale riferimento per tutte le operazioni poste in essere dalle Nazioni Unite. A circa 6 anni dal varo della missione, nonostante il Libano stia attraversando uno dei periodi di maggiore tensione, esposto non solo all’ormai storico confronto tra Hezbollah e lo Stato di Israele, ma anche alle ripercussioni dei conflitti in atto nella regione (Siria e Striscia di Gaza), Unifil appare pienamente rispondente alle dinamiche mutevoli ed imprevedibili proprie del complesso contesto all’interno del quale si trova ad operare. L’obiettivo di questo articolo è quello di analizzare i principali fattori di successo della Missione, evidenziando come questi influiscono sul conseguimento degli obiettivi fissati nel mandato delineato dalla citata Risoluzione 1701.

La missione

Per meglio comprendere le peculiarità di Unifil è importante analizzarne sinteticamente le caratteristiche principali, soffermandosi sulla complessità dei compiti derivanti dal mandato delle Nazioni Unite, sulla composizione, sulla struttura della missione e sulle principali attività svolte. Nel 2006, con la citata risoluzione 1701, il consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato un incremento della forza di Unifil (fino a 15mila militari) ed ha significativamente 18

modificato il mandato della missione , includendo i seguenti compiti: controllare la cessazione delle ostilità; supportare le Forze armate libanesi (Lebanese armed forces – Laf) nel loro rischieramento nel Libano meridionale, in seguito al ritiro delle forze israeliane e per la realizzazione, tra la cosiddetta Blue Li4 ne a Sud ed il fiume Litani a Nord, di un’area nella quale gli unici armamenti autorizzati siano quelli di Unifil e delle Laf stesse; assistere la popolazione civile, nei limiti delle capacità della Missione e senza interferire con il Governo libanese. Unifil è oggi composta da circa 12mila militari, 8 navi e 10 elicotteri, provenienti da 37 Paesi membri del5 le Nazioni Unite, da circa mille civili ed ha alle dipendenze «operative» una cinquantina di osservato6 ri militari della missione Untso . Tutte queste componenti assicurano l’implementazione del mandato della Missione, così come delineato nella Risoluzione 1701 del consiglio di Sicurezza dell’Onu. In aggiunta al coordinamento di queste componenti «interne» alla Missione, Unifil, come previsto nel suo mandato, opera in stretta collaborazione con le Laf, conducendo esse in maniera congiunta circa il 10 per cento delle proprie attività operative giornaliere. Le forze di Unifil agiscono all’interno di un’Area di operazioni terrestre (Ao) di estensione relativamente limitata (circa 1026 Kmq), delimitata a Sud e ad Est dal3



la cosiddetta Blue Line, a Nord dal fiume Litani ed a Ovest da circa 34 chilometri di costa del mar Mediterraneo. La natura particolarmente collinosa del terreno ne rende difficile un controllo capillare. L’Area di operazioni di Unifil è suddivisa in due settori del livello Brigata (Sector West a guida italiana e Sector East a guida spagnola) ai quali si aggiunge un’unità in riserva (Force Commander Reserve a guida francese), a livello reggimento, alle dirette dipendenze del Force Commander. In aggiunta, Unifil ha la responsabilità anche di una Area of maritime operations 7 (Amo) all’interno della quale opera la Maritime task force, componente navale di Unifil, con il compito di prevenire, in concorso alla Marina militare libanese, la condotta di traffici illeciti attraverso le linee di comunicazione marittime. L’Mtf, prima ed unica forza navale schierata in un’operazione di peacekeeping dell’Onu e che opera sinergicamente con le unità terrestri di Unifil, è attualmente costituita da 8 navi di 6 paesi diversi (1 brasiliana – flagship – 2 del Bangladesh, 1 greca, 1 indonesiana, 2 tedesche ed 1 turca). Tra le principali attività condotte nell’ambito della missione una delle più importanti consiste nella demarcazione della Blue Line attraverso il posizionamento di Blue Pillar. Si tratta di un’attività molto delicata, basata sul consenso di ambo le parti e volta a ridurre le tensioni e le possibili violazioni della Blue Line stessa. In tale ambito, gli assetti Unifil svolgono un ruolo chiave nell’individuare con precisione i punti di posizionamento, nello sminamento delle aree interessate e nella costruzione dei cosiddetti Blue Pillar. Ad oggi le parti hanno concordato la posizione di oltre 250 punti su circa 500 necessari per demarcare i 120 chilometri della Blue Line. La stabilità raggiunta è anche il frutto delle molteplici attività operative che le unità di Unifil conducono, sia autonomamente sia in coordinamento con le Laf. Tali attività consistono essenzialmente in operazioni di controllo del territorio, sviluppate attraverso pattuglie e posti osservazione (permanenti e temporanei), focalizzate prioritariamente sulla Blue Line e sui cosiddetti hot spot, al fine di scongiurare che la “spiralizzazione” di


dossier incidenti «di confine» possa portare ad una ripresa delle ostilità su larga scala. Da ultimo, nel contesto del progresso economico e sociale del Sud del Libano, non vanno sottaciute le attività di cooperazione civile militare (Cimic), condotte in collaborazione con le organizzazioni civili nazionali ed internazionali. Tali attività, che hanno il fine ultimo di mantenere ed incrementare il consenso alla presenza di Unifil, sono dedicate alla ricostruzione delle infrastrutture danneggiate durante i numerosi conflitti svoltisi nell’area, all’aggiornamento scolastico, alle campagne ecologico-sanitarie, alle attività sportive ed alla valorizzazione ambientale e storica del paese. A tal fine la missione dispone (ad integrazione dei fondi resi all’uopo disponibili dai paesi contributori) di un piccolo budget per i cosiddetti Quick impact project. Si tratta, in pratica, di un portafoglio a disposizione dell’Head of mission/Force commander, per la reasettore d’interesse contingente). In aggiunta agli inlizzazione di progetti nei settori descritti. contri Tripartito, Unifil mantiene contatti costanti ed a tutti i livelli con le Israeli defense forces (Idf) e le I fattori di rischio I risultati conseguiti in questi anni dalla missione so- Laf. Ciò, sempre al fine di allentare la tensione e rino il frutto della sinergie, delle iniziative e delle mi- solvere con il dialogo le delicate problematiche che sure intraprese dalla missione Unifil, operante in possono nascere soprattutto lungo la Blue Line. A tal un’area geografica storicamente instabile e dalle di- uopo, nell’ambito della missione opera la Liaison namiche politico-sociali estremamente complesse. In branch incaricata di interagire regolarmente con le tale ambito, Unifil svolge un incisivo ruolo di media- due parti. La Liaison branch dispiega permanentezione, favorendo il continuo dialogo tra le Parti per mente due team lungo la Blue Line, uno in Israele e l’implementazione dei contenuti della risoluzione l’altro in Libano, e due presso i comandi militari, li1701 (2006) e per ricercare soluzioni efficaci ai con- banese e israeliano, competenti per territorio. Tale sitenziosi tecnico-militari che potrebbero compromet- stema, di provata efficacia, permette di facilitare il tere la stabilità nell’Ao. Si tratta di una capillare ope- flusso di informazione tra le parti e ridurre i possibira di collegamento, coordinamento e confidence buil- li fattori di contrasto. Il successo della missione risieding posta in essere con ambo le parti. Tale attività si de anche nella crescente capacità da parte delle Laf realizza principalmente attraverso gli Incontri Tripar- di garantire il controllo e la stabilità del Sud del Li8 tito con i rappresentanti militari libanesi ed israelia- bano. La consapevolezza di ciò ha portato, in aggiunni. Il meccanismo del Tripartito deriva dal mandato ta alle aree d’interazione già delineate, al lancio delstesso della risoluzione 1701 che prevede per Unifil lo Strategic Dialogue, progetto/processo di sostegno 9 il coordinamento delle attività con le parti ed è riu- alle Forze armate libanesi finalizzato ad incrementarnito a cadenza mensile nel formato ordinario (con ne le capacità operative affinché possano essere in un’articolazione standard) o ad hoc per esigenze ur- grado, in futuro, di assolvere autonomamente i com10 genti (coinvolgendo, eventualmente, specialisti del piti connessi con il mandato di Unifil, in previsione

La Missione Unifil, così come delineata con la Risoluzione 1701 emanata a seguito della guerra tra le forze armate israeliane ed il movimento paramilitare libanese Hezbollah, rappresenta oggi il fiore all’occhiello del moderno peacekeeping e si pone quale riferimento per tutte le operazioni poste in essere dalle Nazioni Unite

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Risk di un suo possibile ripiegamento (End State). In questo ambito, la funzione di Unifil è quella di supporto ed indirizzo nel definire un’organizzazione delle Laf più coerente con gli obiettivi da conseguire, nonché nell’individuare i mezzi (equipaggiamento ed armamento) necessari per avere un effettivo controllo dell’area a Sud del fiume Litani. Gli attori coinvolti nel processo sono, oltre ad Unifil ed alle Laf, il Governo libanese ed i potenziali donor internazionali. Nei confronti di questi ultimi Unifil dovrà fungere da catalizzatore/facilitatore degli accordi bilaterali (tra il Libano ed i singoli donor) che si renderanno necessari per il conseguimento dell’End State. Un ulteriore punto di forza della missione è rappresentato anche dal numero di nazioni che ne fanno parte. La multinazionalità, garantita oggi da 37 paesi partecipanti, può essere considerata un reale valore aggiunto ed espressione della volontà della comunità internazionale di promuovere la stabilità e la pace nel Sud del Libano. Sicuramente ciò comporta problemi linguistici e procedurali che potrebbero rivelarsi una criticità soprattutto per chi opera sul terreno. Tuttavia la presenza di un “corpo dottrinale” standardizzato, comprensivo di manualistica, direttive di policy e procedure operative, ha permesso di minimizzare tale rischio, garantendo al personale di Unifil di operare efficacemente nel pieno rispetto della cultura e delle tradizioni del Paese ospitante. L’interesse che le singole nazioni assegnano

Unifil mantiene contatti costanti ed a tutti i livelli con le Israeli defense force e le Lebanese armed force. Ciò, sempre al fine di allentare la tensione e risolvere con il dialogo le delicate problematiche che possono nascere soprattutto lungo la Blue Line 22

ad Unifil è altissimo, come dimostrato dalle molteplici visite istituzionali internazionali alla missione. Un altro aspetto la cui portata non è da sottovalutare è dato dall’integrazione realizzata all’interno della missione tra la componente civile e quella militare ed all’esterno tra Unifil e le altre entità dell’Onu operanti nella regione (UN Country team). Relativamente all’integrazione interna, questa è garantita, prima di tutto dal doppio ruolo del responsabile della Missione stessa: esso è infatti contemporaneamente Head of mission e Force commander, avendo l’opportunità di perseguire sia gli obiettivi operativi militari veri e propri (sicurezza) sia quelli che vedono coinvolte le autorità governative libanesi (governance). Inoltre, la nomina, da parte del Dpko, di un vicecapo missione, funzionario civile dell’Onu, e la costituzione in ambito missione di un team di pianificazione integrato (civile-militare) cui è richiesto di individuare soluzioni operative integrate alle problematiche tecnico-operative, ha permesso di sfruttare sinergicamente il contributo di tutte le risorse disponibili, siano esse militari o civili, minimizzando le criticità in termini di comando e controllo. In ambito esterno, il coordinamento degli sforzi di Unifil con quelli delle altre entità Onu, primo fra tutti Unscol (United special coordinator for Lebanon) è realizzato attraverso un costante e continuo collegamento, nell’ottica di conseguire il più importante obiettivo, tra quelli previsti dalla Risoluzione 1701 (2006), ovverosia il cessate il fuoco permanente tra Libano ed Israele ed una soluzione a lungo termine del conflitto tra i due Stati. Da ultimo, va evidenziato come ulteriore punto di forza la continua azione di revisione volta a garantire una configurazione della missione sempre aderente all’implementazione del mandato stesso. In tale contesto, il Department of peacekeeping operations (Dpko) dell’Onu ha avviato, a partire dalla fine del 2011, una revisione politico-strategica della missione (Strategic Review) che ha portato alla redazione del Military capability study (Mcs) il cui fine è ridurre numericamente la forza di Unifil sen-


za diminuirne, peraltro, le capacità di assolvimento dei compiti connessi con il mandato. Il piano di implementazione del Mcs, della durata di circa 1824 mesi a partire da giugno 2012, prevede una riduzione delle forze impiegate da conseguirsi principalmente attraverso: il ripiegamento di assetti ritenuti non più essenziali ai fini del conseguimento dei compiti assegnati; la chiusura di alcune basi non più necessarie dal punto di vista operativo, con conseguente recupero del personale logistico e di Force protection ivi impiegato; la riduzione del personale di staff del Comando della missione e dei Comandi di Settore.

Prospettive future e conclusioni

Unifil – in collaborazione con le Forze armate e lo stesso Governo libanese – continua a giocare un ruolo fondamentale nella creazione di un ambiente strategico più sicuro e stabile nel Sud del Libano. In tale contesto, a partire dalla fine del conflitto del 2006, la leadership della missione ha saputo cogliere le opportunità emerse nell’affrontare le diverse sfide/criticità per rafforzare la missione ed agevolarne l’operato teso al conseguimento degli obiettivi fissati dal consiglio di Sicurezza. Non bisogna tuttavia dimenticare le lezioni che ci vengono dalla storia del paese, tradizionale cassa di risonanza di tutto ciò che avviene nella turbolenta regione medio-orientale. I problemi più urgenti cui si deve dare risposta sono senza dubbio legati alla crisi siriana che rischia pericolosamente di espandersi nel Libano settentrionale e che già vede la fuga di centinaia di migliaia di profughi verso i paesi vi11 cini e alle operazioni militari israeliane condotte nella Striscia di Gaza, iniziate lo scorso 14 novembre 2012. Nondimeno, il forte impegno profuso dal Governo libanese attraverso la condotta di una politica di non coinvolgimento nei confronti della crisi siriana e le iniziative poste in essere, anche con 12 il supporto di Unifil , per prevenire il coinvolgimento del Sud del Libano nel conflitto tra Israele e Hamas fanno ben sperare. Altra problematica di


Risk stringente attualità è quella legata allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi e di gas naturale situati a largo delle coste libanesi ed israeliane. Il ruolo di Unifil in questa vicenda, qualora chiesto ufficialmente dalle parti ed approvato dall’Onu (che dovrà necessariamente definire le aree di rispettiva competenza, al fine di evitare conflitti di interessi e nuovi motivi di conflittualità), potrebbe essere quello di essere disponibile a suggerire misure atte a garantire la sicurezza marittima. A tal fine si renderebbe necessario estendere il mandato Unifil anche a questa componente, non contemplata nell’attuale formulazione. In conclusione, nonostante siano stati fatti notevoli progressi per il raggiungimento di una pace sostenibile e durevole nel Sud del Libano, molto rimane ancora da fare per conseguire la completa implementazione dei contenuti della Risoluzione 1701 (2006). Ciò non di meno, Unifil ha acquisito una posizione privilegiata per fronteggiare le future sfide grazie ad una struttura militare completamente integrata e alle sinergie derivanti dall’alto livello di integrazione tra le sue componenti, militare e civile. A ciò va aggiunto lo sforzo posto in essere, attraverso lo Strategic Dialogue, per incrementare la capacità operativa

I problemi più urgenti cui si deve dare risposta sono senza dubbio legati alla crisi siriana che rischia pericolosamente di espandersi nel Libano settentrionale e che già vede la fuga di centinaia di migliaia di profughi verso i paesi vicini e alle operazioni militari israeliane condotte nella Striscia di Gaza, iniziate lo scorso 14 novembre 2012 24

delle forze armate libanesi operanti nell’area e l’eccellente ed efficace organizzazione di collegamento e coordinamento con le Parti, operante a tutti i livelli. Non va infine trascurato che la forza di Unifil è garantita dal fatto che la sua presenza nel Libano meridionale e le attività da essa svolte, sono fortemente accettate e supportate dai Governi di Libano ed Israele. La Missione, pertanto, non opera per imporre una propria idea di pace, bensì per favorire un clima di stabilità, idoneo al raggiungimento di un accordo tra le parti, nel pieno rispetto del mandato Onu. L’attività di Unifil è pertanto legittimata oltre che dalla comunità internazionale che ha sostenuto la risoluzione 1701, soprattutto dalla volontà dei due Governi direttamente interessati alla soluzione della vertenza. 1 La missione fu istituita dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel marzo del 1978 per garantire il ritiro israeliano dal Libano, ristabilire la pace e la sicurezza e per assistere il Governo libanese nel riassumere la propria legittima autorità nel Paese (UNSCR 425 e 426). 2 Partito di Dio.

3 Il 30 agosto 2012, il Mandato di UNIFIL è stato prorogato di un anno (fino al 31 agosto 2013) senza modifiche sostanziali (UNSCR 2064, 30 agosto 2012).

4 La c.d. Blue Line è una linea di riferimento, accettata dalle parti (Libano ed Israele), che materializza la linea di ripiegamento delle forze israeliane dopo il conflitto del 2006. UNIFIL è responsabile del controllo del rispetto delle parti di questa linea di riferimento quale separazione (non confine nella sua accezione giuridica) tra i due Paesi. 5 Di cui il 34% funzionari dell’ONU ed il 66% cittadini libanesi, assunti in loco.

6 United Nations Truce Supervision Organization. L’operazione, iniziata nel maggio del 1948, è la più “antica” operazione di peacekeeping dell’ONU. Gli osservatori controllano il cessate il fuoco ed il rispetto dell’armistizio tra Israele ed i Paesi arabi confinanti (Egitto, Giordania, Libano e Siria), prevengono l’escalation della tensione e forniscono assistenza alle altre missioni dell’ONU nella regione per il conseguimento dei rispettivi mandati. 7 L’AMO si estende per circa 110 miglia nautiche da Nord a Sud (lungo tutta la costa libanese) e per circa 45 miglia nautiche da Est ad Ovest, per un totale di circa 5000 miglia quadrate. 8 Verosimilmente unico forum al mondo che vede dialogare fattivamente, ancorché a livello militare, due Paesi formalmente in regime di cessazione delle ostilità. 9 UNSCR 1701 (2006), para 11.c..

10 Un incontro Tripartito straordinario, ad esempio, é stato indetto dal Comandante di UNIFIL il 23 febbraio 2012, per risolvere una situazione molto delicata nel villaggio di Kafer Kila nella zona sud orientale del Libano, dove si erano verificati episodi di tensione tra le parti e dove Israele aveva pianificato di costruire un muro per evitare ulteriori attriti. Nel corso dell’anzidetto meeting, grazie all’intermediazione di UNIFIL, entrambe le parti hanno completamente aderito all’esigenza di trovare una soluzione concreta che ha permesso di erigere il muro in un contesto pacifico e di sicurezza per tutti gli attori coinvolti. 11 Nel solo Libano, secondo stime recenti dell’UNHCR (United Nations High Commissioner for Refugees), sarebbero presenti circa 120.000 profughi siriani. 12 UNIFIL in collaborazione con le LAF ha incrementato le attività


dossier LA FRAMMENTAZIONE DEGLI INTERESSI INTERNAZIONALI E IL CONFLITTO SENZA FINE

SIRIA, EQUILIBRI INSTABILI DI •

L

CARLO JEAN

a geopolitica del Medio Oriente è stata sconvolta dalle decisioni dei vincitori della prima guerra mondiale – in particolare Gran Bretagna e Francia – sulla spartizione delle spoglie dell’Impero ottomano. Furono creati Stati artificiali. Essi non hanno retto alla dura realtà della storia. La loro artificialità risulta evidente dai loro stessi nomi. Quello del Libano deriva da un

monte; quello della Giordania da un fiume; per la Palestina fu ripristinato l’antico nome di «paese dei Filistei». La Siria fu assegnata dai britannici alla dinastia hashemita, che li aveva sostenuti nella grande rivolta araba anti-ottomana, ma che era stata cacciata dalla Penisola Arabica da parte dei sauditi. Poi fu ceduta alla Francia. Il re hashemita della Siria fu ricompensato con il regno dell’Iraq. Durante il mandato di Parigi, la minoranza alawita – setta sciita eterodossa – prima confinata sulla fascia montana che separa la costa del Mediterraneo Orientale fra la Turchia e il Libano dall’altipiano siriano fra Homs ed Aleppo, conobbe un aumento d’importanza. Fornì la massa di ausiliari all’esercito francese. Fu ricompensata con una forte autonomia. Poi, fu divisa, quando la Francia, per ingraziarsi la Turchia al fine di evitare che si alleasse con la Germania, cedette ad Ankara l’Hatay – la regione di Alessandretta – abitata anche da mezzo milione di alawiti. La costituzione di Stati secondo gli interessi strategici ed economici dei vincitori non fu limitata al Medio Oriente. Riguardò anche l’Europa. Francia e Gran Bretagna decisero di interporre una fascia di piccoli Stati, spesso artificiali perché plurietnici – riuniti nella «Piccola Intesa», fra la Germania e l’Unione Sovietica – come Polonia, Jugoslavia, Cecoslovacchia e Romania. Essi potevano sopravvivere so-

lo grazie alla garanzia strategica di Parigi e di Londra. Inglobarono consistenti minoranze dalle nazioni vinte nel conflitto, in particolare tedesche e ungheresi. La loro esistenza fu una delle cause della seconda guerra mondiale, quando a Monaco Francia e Gran Bretagna le tradirono, non rispettando i loro impegni. Lo stesso può capitare in Siria, multietnica e multiconfessionale, come la Bosnia-Erzegovina. Il suo collasso – qualunque assetto avrà il paese – darebbe luogo a nuovi conflitti, che coinvolgerebbero l’intero Medio Oriente. La Siria ne costituisce uno dei baricentri. In essa si incrociano tutte le conflittualità della regione e anche quelle globali fra le grandi potenze.

Lo scontro che avviene in Siria non è solo et-

nico e confessionale fra la maggioranza sunnita e le varie minoranze: alawita, sciita, ismailita, cristiana, drusa, curda, armena e circassa, a cui va aggiunto quasi mezzo milione di rifugiati palestinesi. Gli alawiti, pur rappresentando solo il 10-12 per cento della popolazione sono al potere dal 1966. L’hanno conquistato con il controllo delle forze armate e con una serie di colpi di Stato militari. Hanno cooptato nel governo del paese altre minoranze, in particolare quella cristiana (divisa però in una quindicina di sette). Tutte temono di essere soverchiate dai sunniti, 25


Risk che sono il 60 per cento della popolazione. Non perderebbero solo la loro posizione privilegiata. Gli Alawiti sanno che verrebbero massacrati o, nel caso migliore, confinati nella fascia collinare e montana, che costituisce la loro terra di origine. Lottano perciò disperatamente. È in gioco la loro sopravvivenza. Temono una soluzione di tipo libico. Il presidente Basher al-Assad ha ribadito all’inizio di novembre che non ha alcuna intenzione di dimettersi. Ha affermato che vivrà e morirà in Siria. La volontà di schiacciare la rivolta e il rifiuto di ogni compromesso da parte del governo di Damasco sono rafforzati dalla persuasione che non vi sarà un intervento internazionale. La caduta del regime e la possibile implosione della Siria destabilizzerebbero l’intero Medio Oriente. A differenza della Libia, la Siria non è isolata. Da protagonista del mondo arabo è divenuta un terreno di scontro sia confessionale che geopolitico fra tutte le varie forze che si contrappongono in Medio Oriente e fra i loro sponsors esterni. Sempre a differenza della Libia, la rivolta è poi frammentata. Non dispone di una regione – come fu in Libia la Cirenaica – sotto il controllo della rivolta, dove essa possa organizzare le sue forze. I componenti del Consiglio nazionale siriano sono per lo più esuli, con scarsi contatti con i rivoltosi ed anche con i comitati civici locali degli insorti. Non esercita alcun potere sull’Esercito della Siria libera. Anche quest’ultimo è diviso in gruppi e brigate per lo più locali, spesso in competizione fra di loro. L’afflusso nei suoi ranghi di islamisti, jihadisti e al-qaedisti ha preoccupato l’Occidente o, almeno, la sua parte che conta, cioè gli Usa.

Per superare tale situazione di frammentazione e di confusione, in cui i vari gruppi d’insorti avevano i loro protettori esterni, che fornivano armi e denaro, l’11 novembre è stato costituito a Doha, in Qatar, un «gruppo ombrello», la «Coalizione nazionale siriana dell’Opposizione e delle forze rivoluzionarie», maggiormente rappresentativo delle varie realtà della rivolta. Secondo gli Usa e i paesi arabi che l’hanno sponsorizzato, esso dovrebbe aprire la strada alla for26

mazione di un governo provvisorio. La direzione è stata affidata ad un predicatore sunnita – Moaz al Khatib – già imam di una moschea a Damasco, figura moderata che potrebbe costituire un raccordo fra gli insorti secolari e quelli islamisti. È dubbio che riesca ad unificare le centinaia di gruppi di insorti. Per aiutarlo, è stato deciso che tutti gli aiuti internazionali alla rivolta vengano convogliati attraverso la «Coalizione», nel cui ambito è stato creato un «Comitato militare», che dovrebbe supervisionare anche le operazioni militari. Il condizionale è d’obbligo. Le differenze e rivalità sono troppo forti.

La Russia, la Cina e, soprattutto, l’Iran appog-

giano Basher al-Assad nel suo tentativo di soffocare la rivolta. Anche Il governo di Baghdad dello sciita alMaliki lo sostiene, anche se in modo più sfumato e, in parte, ambiguo. Lo fa in odio verso i sunniti siriani, legati a quelli iracheni, e anche verso la Turchia. Ankara ha concesso asilo politico al vicepresidente iracheno condannato a morte per terrorismo. Inoltre, appoggia la rivolta in Siria con un’innaturale alleanza con l’Arabia Saudita e il Qatar. Innaturale, perché Ankara sostiene in Siria le forze che si richiamano alla Fratellanza Musulmana, mentre Riad e Doha appoggiano quello dell’Islam più rigorista, salafita e wahhabita, a cui si richiamano anche i miliziani jihadisti affluiti da vari paesi nord-africani e mediorientali. Infine, le tensioni fra l’Iraq e la Turchia stanno crescendo, dato che i turchi stanno in pratica colonizzando il Kurdistan. Tra l’Iraq e la Siria, esiste la contrapposizione storica fra due dei più importanti centri politici e culturali del mondo islamico: Baghdad e Damasco. Tale frattura storica esisteva anche nel partito Baa’th, al potere in entrambi i paesi. Il baathista governo alawita dava rifugio in Siria agli oppositori di Saddam Hussein. Lo stesso al-Maliki è stato esule in Siria per ben quindici anni. L’Iraq – a parer mio, giustamente – teme che un governo sunnita in Siria appoggi il terrorismo sunnita sul suo territorio. Se la rivolta siriana sta già provocando la destabilizzazione del Libano, in futuro potrebbe essere all’origine di quella dell’Iraq. I jihadisti,


dossier affluiti in Siria da tutto l’Islam, si sposterebbero in Iraq, finanziati ed armati dalle petro-teocrazie del Golfo, che vogliono indebolire il governo di Baghdad, alleato di Teheran.

I Curdi dell’Iraq del Nord sostengono i curdi siriani. Questi ultimi hanno sinora cercato di mantenersi al di fuori dello scontro fra il governo di Damasco e i rivoltosi. Sperano di poter conquistare l’indipendenza o, almeno, un’autonomia simile a quella del Kurdistan iracheno. L’esercito di Assad ha evacuato le province abitate in maggioranza dai Curdi. Essi hanno costituito, con l’aiuto dei peshmerga iracheni, robuste milizie di autodifesa. Sembra – o, almeno, Ankara ne è persuasa – che la decisione di Assad di ritirarsi da tali regioni non sia derivata tanto dalla sua speranza di avere l’appoggio dei curdi per reprimere la rivolta, quanto dalla sua volontà di lanciare un avvertimento alla Turchia. Le basi dei terroristi del Pkk, allora guidato da Ochalan, erano situate fino al 1998 proprio nel Nord-Est della Siria. Le tensioni fra Ankara e Damasco giunsero quasi al punto di provocare un conflitto fra i due paesi. La Siria si spaventò. Aveva perduto il suo protettore sovietico. Ochalan si rifugiò in Russia, dove fu prelevato e portato in Italia da un fenomeno da baraccone della politica italiana, che verosimilmente voleva giocare a fare il “Garibaldi curdo”. La rabbia popolare fu diretta allora contro i nostri connazionali in Anatolia. I Turchi non se lo sono dimenticati. Hanno ricordato l’episodio con toni alquanto beffardi, durante la «Riunione dell’Amicizia Italo-Turca», sponsorizzata a Roma da Unicredit nella prima metà di novembre. I rapporti fra curdi e insorti arabi, sembrano mutati. Gli insorti hanno avuto scontri con le milizie curde nella zona di Aleppo. Non è da escludere che un nuovo fronte di guerra si apra nel Nord-Est della Siria. I Palestinesi sono divisi. L’ufficio politico di Hamas ha abbandonato la Siria per la Turchia, anche perché il movimento sta riscoprendo le sue radici. Era nato infatti come una branca della Fratellanza Musulmana egiziana. Il mezzo milione di palestinesi, rifugia-

tisi in Siria è diviso fra la riconoscenza verso il regime alawita, che li ha ospitati e si è sempre opposto ad Israele, e la solidarietà confessionale con i rivoltosi sunniti. Soprattutto, a Damasco si sono verificati scontri fra le milizie palestinesi sia con gli insorti che con le truppe lealiste di Assad. La situazione è comunque fluida. Per ora, la guerra civile in Siria, non ha avuto un «effetto domino» nei territori palestinesi. Qualche bomba da mortaio è caduta sul territorio dello Stato ebraico, consentendo a Netanyahu di mostrare i muscoli. Israele cercherà comunque di tenersi per quanto possibile fuori dal conflitto. Israele ha interessi diversi. Assad garantiva la stabilità. Oggi che è stato indebolito dalla rivolta e che forse ne è prossima la fine, Israele deve prepararsi per tale eventualità. Tacitamente appoggia la rivolta o, almeno, non la critica. Vede certamente con favore la caduta del governo alawita filo-iraniano e sostenitore dell’Hezbollah, ma non sa se i benefici supereranno i rischi di un governo sunnita a Damasco, che potrebbe essere radicale. Forse la sua principale preoccupazione riguarda il grande arsenale siriano di armi chimiche (il quarto del mondo). Teme che esso cada nelle mani “sbagliate”. Quella che si svolge in Siria è anche una guerra per

La Siria, multietnica e multiconfessionale, è come la Bosnia-Erzegovina. Il suo collasso – qualunque assetto avrà il paese – darebbe luogo a nuovi conflitti, che coinvolgerebbero l’intero Medio Oriente. La Siria ne costituisce uno dei baricentri. In essa si incrociano tutte le conflittualità della regione e anche quelle globali fra le grandi potenze 27


Risk

Quella che si svolge in Siria è anche una guerra per procura. In essa, s’incrociano varie rivalità regionali e globali. Il regime e i vari gruppi di rivoltosi combattono anche per gli interessi di attori esterni. Ciascuno ha propri sponsor, da cui riceve sostegni politici, finanziamenti e armi procura. In essa, s’incrociano varie rivalità regionali e globali. Il regime e i vari gruppi di rivoltosi combattono anche per gli interessi di attori esterni. Ciascuno ha propri sponsor, da cui riceve sostegni politici, finanziamenti e armi. Taluni avevano pensato che i colpi di mortaio che hanno colpito dalla Siria il territorio turco e la dura risposta di Ankara avrebbero segnato un punto di svolta della situazione. Dallo stallo attuale si sarebbe potuto passare ad uno scenario di tipo libico, con un intervento militare turco a sostegno della rivolta. Tale mutamento non è però avvenuto. Certamente, le tensioni continueranno. È improbabile un intervento militare turco. Dovrebbe essere sostenuto direttamente dall’Occidente. E questo è quasi da escludere. L’esercito di Assad è ancora forte. Ha l’appoggio di una consistente parte della popolazione siriana. Ankara poi teme che una fine traumatica del conflitto comporti la concessione ai curdi siriani di una larga autonomia e, forse, la loro unione con i curdi iracheni, con contagio sulla Turchia. Ankara continuerà a sostenere la rivolta, non solo per solidarietà confessionale con i sunniti siriani, ma anche per la crescente tensione che conosce con Teheran e con Baghdad. Ha interessi geopolitici e geo-economici ben precisi. Il suo rango internazionale è grandemente cresciuto con l’appoggio dato alla “primavera araba”. In Siria si gioca una partita fra l’Iran e l’Arabia Saudita, nonché fra quest’ultima e l’Egitto, che sta rigua28

dagnando la tradizionale preminenza nel mondo arabo. Si svolge anche un confronto fra la Fratellanza Mussulmana e l’Islamismo più radicale dei salafiti, collegato, più o meno, strettamente a seconda dei paesi, con il wahhabismo saudita. A livello più globale, sono in campo i contrasti fra gli Usa e l’Iran ed anche fra Washington, Mosca e Pechino. Per l’Iran è presto detto. Teheran ha nel regime alawita siriano un alleato indispensabile per l’estensione della sua influenza fino al Mediterraneo Orientale. La Siria consente all’Iran la continuità della «mezzaluna sciita» dagli Hazara afgani sino agli Hezbollah libanesi. Se riuscisse a far restare Assad al potere otterrebbe un importante successo di prestigio. Eviterebbe il rischio che venga destabilizzato in Iraq il regime sciita filo-iraniano. Quello “regalato” dagli Usa all’Iran rappresenta il maggior successo geopolitico di Teheran da quando, nel XVII secolo, l’Impero persiano fu cacciato dagli Ottomani dalla Mesopotamia (e dai luoghi sacri dello sciismo). La Siria è quindi una pedina nel “gioco” strategico fra la Turchia e l’Iran. Il confronto fra i due sta estendendosi dalla Mesopotamia, tradizionale fascia di scontro fra i due imperi, allo Yemen e al Corno d’Africa. Infatti, la Turchia sta aumentando la sua presenza economica, politica e culturale in Somalia; l’Iran in Eritrea, oltre che in Sudan.

Per la Russia – e in modo molto più cauto ed in-

diretto per la Cina – il sostegno ad Assad ha motivazioni economiche e strategiche ma, soprattutto, geopolitiche. Mosca e Pechino, con il loro veto all’Onu non solo contro un intervento in Siria, ma anche contro la condanna di Assad, hanno voluto dimostrare che è finita l’epoca dell’unilateralismo americano in Medio Oriente. Nonostante i suoi duri toni contro Mosca e, più sommessamene, contro Pechino, penso che a Washington abbiano tirato un respiro di sollievo. La responsabilità del mancato intervento internazionale per far cessare i massacri è di Mosca e di Pechino. Gli Usa non devono scegliere fra l’Arabia Saudita e la Turchia come dovrebbero inevitabilmente fare se intervenissero. Possono continuare a negoziare “dietro le quin-



te” con l’Iran. La loro opinione pubblica è sempre più contraria a nuovi interventi. Non vuole che gli Usa si insabbino nuovamente in Medio Oriente. Nei confronti televisivi per le elezioni presidenziali Usa, entrambi i candidati hanno sottolineato la priorità del «Pivot on Asia». Ma in realtà si è trattato di un «Pivot on America». Nessuno può contare su “mamma America” per togliere le castagne dal “fuoco siriano”. Dovrebbe intervenire l’Europa, però sempre più divisa nonostante le liriche ambizioni di un’«Europa potenza globale» e assorbita nel “leccarsi le ferite” di una crisi economico-finanziaria disastrosa, da cui non sa come uscire. I principali attori del “gioco” hanno interessi contrapposti, spesso anche al loro interno. Anche la rivolta è divisa. Domina l’incertezza su quale sia il reale peso delle sue varie componenti. Washington appoggia i rivoltosi, sia in nome dei “massimi principi”, sia perché la caduta del regime di Assad infliggerebbe un duro colpo all’Iran, rendendolo forse più malleabile nei negoziati sul nucleare e, soprattutto, sui futuri assetti geopolitici nel Golfo. Essa isolerebbe anche l’Hezbollah libanese, costante minaccia per Israele e per la stabilità del Libano. La cacciata di Assad consentirebbe poi a Washington di infliggere un’umiliazione a Mosca. È un by product che non va sottovalutato, specie con un Obama rieletto che deve acquisire un prestigio necessario per rilanciare il reset con Mosca e soprattutto per fronteggiare il prossimo scoppio della «bolla» del debito federale americano. Visto che dalla situazione di stallo non si può uscire con una soluzione militare, dato che nessuno ha intenzione di intervenire direttamente se non a chiacchiere, l’unica via d’uscita dovrebbe essere quella di una soluzione negoziata, cioè «politica». Essa è però resa impossibile anche dalla richiesta non solo degli insorti, ma anche degli Usa, che la precondizione per trattare sia costituita dall’allontanamento di Assad dal potere. Per questo, gli Usa, pur sostenendo la Turchia, loro alleato sempre più indispensabile, si oppongono ad un’escalation che gli stessi turchi sono peraltro indecisi a fare, pur sapendo che esitazioni e dubbi stanno erodendo il loro prestigio.


dossier La posizione della Turchia è particolarmente interessante. Presenta aspetti contradditori. La politica estera di Ankara, basato sullo «zero problems with the neighbours», è fallita. È in corso di riformulazione. Si spera che lo sia in modo coerente o, almeno, non contrario agli interessi dell’Occidente. C’è da augurarsi che l’altro principio cardine della politica estera turca, anch’esso formulato dal brillante ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu – quello della «profondità strategica» e del suo corollario dell’Afro-Eurasia (ampia regione in cui la Turchia eserciterebbe un’influenza determinante) – riesca a reggere. Il rafforzamento del ruolo della Turchia costituisce una condizione indispensabile per la stabilità di una regione tanto importante per l’Europa e per l’Italia. Essa non è più garantita dagli Usa. Oggi, la Turchia conosce tensioni «a giro d’orizzonte»: con Cipro, con Israele, con la Siria, con l’Iran e con l’Iraq.

La politica iniziale di Ankara era stata di te-

nersi fuori dalla mischia, per poter giocare il ruolo del mediatore imparziale – tanto vantaggioso per i suoi interessi commerciali e per il suo prestigio nel mondo arabo e nell’intero Islam. Oggi non tiene più. Le scelte che deve fare Erdogan sono difficili. I dilemmi che lo confrontano non riguardano solo la politica estera, ma anche quella interna turca. Teme l’autonomia delle province curde. Porterebbe all’intensificazione degli attentati del Pkk. Per contro, una vittoria di Assad sarebbe un trionfo per l’Iran. Farebbe fallire il «progetto neo-ottomano». L’«imperioso» Erdogan non accetterebbe mai un’umiliazione. Sotto il profilo della politica interna, un intervento diretto in Siria susciterebbe l’opposizione della principale forza di opposizione: i kemalisti del Partito repubblicano del popolo, preoccupati della crescente islamizzazione dell’Akp e dell’abbandono della priorità attribuita alla secolarizzazione e alla modernizzazione del paese. Opposti sono anche gli Alevi (oltre il 10 per cento dei turchi), setta sciita “cugina” degli Alawiti siriani. Contrario è anche il mezzo milione di Alawiti, abitanti nella regione di Alessandretta. Erdogan

ha bisogno del sostegno del maggior numero di forze politiche per disporre della maggioranza necessaria per attuare il suo progetto di modifica della costituzione in senso presidenziale. Una volta che è sicuro del sostegno politico di Washington e del mantenimento dell’unione doganale con l’Ue, non si vede quale interesse abbia a coordinare la sua politica mediorientale con l’Europa. Ridurrebbe prestigio e peso turco nel Medio Oriente e nell’Islam. A parer mio, neppure l’Europa ha molto interesse ad un diretto coordinamento della sua politica estera con la Turchia. Intanto, non ne ha una comune. Non sa neppure che cosa vuole in Medio Oriente. Vuole rimanere tranquilla; insomma essere una “grande Svizzera”. Poi, gli obiettivi nazionali turchi sono strutturalmente coerenti con quelli europei e italiani. Tanto vale lasciar decidere a Ankara che cosa fare, cercando di rafforzarne l’azione, senza assumere iniziative, che rischierebbero solo di fare guai. Questa mia convinzione è stata definita «provocatoria» dai fondamentalisti dell’«Europa potenza globale», che si guardano bene di proporre soluzioni concrete, differenti dal semplice «lirismo europeista». Ogni ottimistica previsione sulla fine del conflitto e delle stragi, sulla caduta di Basher al-Assad, sulla vittoria dei “buoni” sui “cattivi” e sull’inizio di una fase di transizione pacifica e di riconciliazione nazionale è smentita dall’andamento degli scontri. Lo dimostra il fallimento della iniziativa di tregua, che il mediatore

Ogni ottimistica previsione sulla fine del conflitto e delle stragi, sulla caduta di Basher al-Assad, sulla vittoria dei “buoni” sui “cattivi” e sull’inizio di una fase di transizione pacifica e di riconciliazione nazionale è smentita dall’andamento degli scontri. Lo dimostra il fallimento della iniziativa di tregua 31


Risk dell’Onu e della Lega Araba, l’algerino Brahimi, aveva proposto in occasione della «Festa del sacrificio». Il confronto fra governo ed insorti ha ormai superato il punto di non ritorno. È probabile che la guerra finisca in un bagno di sangue, con un vincitore che imporrà brutalmente la propria volontà al vinto. Il regime degli Assad dimostra una resilienza superiore a quella che gli veniva accreditata. Molti siriani continuano ad appoggiarlo. Secondo talune valutazioni sono il 40 per cento della popolazione. Solo il 30 per cento sarebbe attivo nella rivolta, mentre il 30 per cento sarebbe rimasto neutrale, aspettando di vedere come si mettono le cose. Le diserzioni dall’esercito lealista sono state contenute. Malgrado sia prevalentemente formato da coscritti sunniti, nessuna unità è passata in blocco dalla parte dei rivoltosi con i suoi armamenti pesanti. Anche le defezioni fra i dirigenti del regime sono state limitate, molto inferiori a quelle verificatesi in Libia. Poco fondate appaiono le speranze di un colpo di Stato – militare o di palazzo – che allontani dal potere Assad, rendendo possibile una trattativa con gli insorti. Il prolungamento della lotta la renderà più brutale. Ne comporterà inevitabilmente la radicalizzazione, nonostante gli sforzi americani di unificare la direzione politica della rivolta e di eliminare da essa gli elementi islamisti più radicali. Il conflitto è destinato a durare a lungo. Rimarrà uno d’attrito, seguendo i meccanismi descritti da Mao Zedong nella sua «teoria della guerra rivoluzionaria». Alla fine, comunque, il regime degli Assad sembra destinato a soccombere. Troppo potenti sono le forze che vogliono abbatterlo. L’Iran è indebolito dalle sanzioni. Di fronte a qualche concessione americana nel Golfo, è probabile che abbandoni Assad al suo destino. Per salvarlo, la Russia non continuerà a sacrificare i suoi rapporti con gran parte del mondo arabo. Soprattutto, se riceverà una garanzia che i suoi interessi verranno salvaguardati – anche quelli relativi alla base navale di Tartus e ai diritti di sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi del «Bacino Levantino» – verosimilmente attenuerà il proprio sostegno al dittatore siriano. Anche l’atteggiamento della Cina diverrà ancora più sfumato. Pe32

chino ha crescente necessità del petrolio saudita e del Golfo. Ha quindi un interesse crescente diretto alla stabilità del Medio Oriente. Secondo Niall Ferguson è Pechino e non Washington (che sempre meno dipende dal petrolio del Golfo) a dover intervenire militarmente in Siria! La vera soluzione politica non va ricercata in Siria, ma in compromessi fra le potenze esterne. Non si sa insomma come andrà a finire. L’unico errore evitato in Siria, rispetto alla Libia, consiste nel non avere fatto emettere un mandato di cattura per Assad e i suoi più stretti collaboratori da parte del Tribunale internazionale per i Crimini di guerra. Non è stata una dimenticanza. Gli si è voluta certamente lasciare loro una via d’uscita, a differenza di quanto era stato fatto per Gheddafi. Ma in Libia si è proprio trattato di un errore? Oppure è stato un calcolo? Si voleva mettere Gheddafi in condizioni di non accettare alcun compromesso, per poterlo poi cacciare dal potere o inviare nelle braccia di Allah. È probabile quindi che in Siria si continuerà a combattere e a morire ancora a lungo. Una soluzione di compromesso, seguita da una riappacificazione nazionale, è ormai impossibile tra le forze che si contrappongono nel paese. I sostenitori del regime continueranno a battersi. Non appaiono praticabili né una federazione, che garantisca le minoranze, né una divisione del paese, con la creazione di un piccolo Stato alawita nel Nord-Ovest, lungo la costa mediterranea, né l’adozione di una soluzione analoga a quella bosniaca (formalizzata a Dayton, con la creazione di entità autonome, di fatto mono-etniche e mono-confessionali). Ormai si è sparso troppo sangue. E il sangue chiama sempre vendetta. È inevitabile che se ne sparga molto altro, fino a che la rivolta riuscirà a schiacciare il regime, indebolito non dalla sua brutalità e dal suo isolamento internazionale, ma dal “tradimento” dei suoi sponsor internazionali. Il principale problema che dovrà affrontare l’Occidente sarà allora quello umanitario, della sorte che sarà riservata ai cristiani e alle altre minoranze e di salvare dal contagio di una guerra civile, almeno la Giordania e i territori palestinesi. Per il Libano e, a più lungo termine per l’Iraq, è verosimilmente troppo tardi per poterlo fare.


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TEHERAN E ONU, TRA STORIA E FALLIMENTI DI •

L

PEJMAN ABDOLMOHAMMADI

a conoscenza dell’altro è uno dei principi fondamentali per la costruzione di un nuovo ordine mondiale nel quale i diversi dispotismi imperanti cessino di esercitare il proprio potere sulla maggior parte delle società globali. La non conoscenza dà origine, spesso inconsapevolmente, al pregiudizio e all’intolleranza tra i popoli e tra gli stati, causando di conseguenza conflitti

e tensioni nocivi per la realizzazione di una convivenza pacifica. La sapienza è sempre fonte di prosperità per la civiltà umana, quando essa viene oscurata dall’ignoranza, l’uomo perde, nella storia, il senso della giustizia, dell’eguaglianza e, soprattutto, della libertà politica e civile. L’incontrarsi, tra soggetti diversi, provenienti da realtà e culture completamente differenti, favorisce la possibilità di un dialogo e di un confronto costruttivo. Le Nazioni Unite, nello specifico, potrebbero divenire uno spazio socio-culturale e politico-economico attraverso il quale le diverse civiltà, rappresentate dai propri stati, possano dialogare, al fine di realizzare un nuovo ordine mondiale, in grado di riportare l’equilibro e la convivenza pacifica nelle aree tormentate del globo. «Annuncio che rispetterò e preserverò ciascuna delle tradizioni, dei costumi e delle religioni delle nazioni appartenenti al mio impero, e non permetterò che alcun governante possa proferire parole d’insulto verso alcuno (…) Finché io sono il re non permetterò che qualcuno espropri con la violenza la proprietà di altri o che la prenda senza il dovuto corrispondente. Finche avrò vita impedirò il lavoro forzato o senza remunerazione. In quest’oggi annuncio che ogni uomo è libero di professare la propria religione (…) Vieto la schiavitù e i delegati al governo hanno l’obbligo di proibire lo scambio di uomini e 34

donne come schiavi. Questo costume (della schiavitù) deve essere estirpato dal mondo intero». Queste frasi sono state estrapolate dal cilindro dei diritti umani del fondatore dell’Impero persiano, Ciro il grande. Ciò rende bene l’idea di quello che, a livello storico, nell’Impero persiano di allora nel VI secolo a. C. era lo stato di avanzamento della dignità dell’uomo. Il cilindro è il frutto della dichiarazione di Ciro dopo la conquista pacifica di Babilonia e ancor’oggi è custodito presso il British Museum di Londra, e depositato appunto presso le Nazioni Unite come documento storico per l’affermazione dei diritti umani, illustrando come alcuni diritti fondamentali dell’uomo, già da tempi antichi, siano stati al centro dell’attenzione di civiltà e culture diverse. I tentativi dell’uomo, fino ad oggi, di istituire una organizzazione internazionale super partes, in grado di garantire pace, stabilità politica ed equità nel mondo non hanno ancora avuto successo. La fondazione delle Società delle Nazioni nel 1919 e, dopo la seconda guerra mondiale, la nascita delle Nazioni Unite hanno dovuto confrontarsi con l’eccessivo potere degli stati nazionali che, in qualche modo, sono riusciti a rendere poco efficace la governance mondiale dell’Onu. Pertanto oggi ci troviamo di fronte a una macchina burocratica che funziona lentamente e senza alcuna reale efficacia. I limiti dell’ONU si palesano


dossier sempre di più anche nell’ambito delle relazioni internazionali del Medio Oriente. Il conflitto tra Israele e Palestina, la continua violazione dei diritti umani in paesi quali l’Arabia Saudita , il Qatar e il Bahrein (alleati principali delle forze occidentali), la questione curda e il caso nucleare iraniano sono solo alcuni esempi di come l’Organizzazione internazionale delle Nazioni Unite non sia in grado di essere incisiva nei processi politici mediorientali.

Il caso Iran

Nel corso dell’età contemporanea, l’Iran ha dovuto confrontarsi con le Nazioni Unite in diverse occasioni. Sono quattro i casi di rilevanza internazionale che, dal 1945, hanno visto coinvolti, insieme, le Nazioni Unite e l’Iran sul palcoscenico mondiale: la nazionalizzazione del petrolio nel 1951; la risoluzione 598 riguardante la fine della guerra Iran- Iraq nel 1988; il caso nucleare iraniano e la questione della violazione dei diritti umani nella Repubblica Islamica. I primi due casi fanno ormai parte della storia politica dell’Iran, mentre gli ultimi due sono di estrema attualità e, ormai da anni, sono parte della politica globale. La nazionalizzazione del petrolio nel 1951. Una delle questioni più rilevanti degli anni quaranta e cinquanta in Iran erano i contratti petroliferi: sin dalla scoperta dell’oro nero in Iran, nel 1908, gli inglesi avevano goduto, tramite la fondazione dell’Angloiranian oil company (Aioc), del vantaggio di instaurare un rapporto commerciale esclusivo con l’Iran, in modo tale che la compagnia petrolifera britannica era diventata fortemente dipendente dal petrolio persiano. La situazione geopolitica mondiale, però, si trovava in una fase di transizione: il potente impero britannico, dopo la seconda guerra mondiale, aveva perso il suo predominio e due nuovi imperi, quello sovietico e quello statunitense, entravano con maggior forza sulla scena politica internazionale. Questi cambiamenti influenzarono anche i rapporti commerciali che l’impero britannico, nel corso della prima metà del Novecento, aveva instaurato con i diversi Stati sottoposti alla propria egemonia. Gli Stati Uniti ave-

vano iniziato a concludere diversi contratti petroliferi con altri paesi produttori di petrolio (come il Venezuela) concedendo il cinquanta per cento del ricavato al paese ospitante. Tale contratto era ben più vantaggioso di quello firmato tra la Persia e il Regno Unito. In questo contesto il Fronte nazionale, sotto la leadership di Mohammad Mosaddeq, formò una commissione parlamentare sul caso del petrolio iraniano. Così nel 1951 il Parlamento approvò una legge che prevedeva la sua nazionalizzazione. Mosaddeq, nominato primo ministro, si occupò, in primis, di rendere operante la legge sul petrolio, mentre la Gran Bretagna minacciava l’Iran e chiedeva a tutti i paesi il boicottaggio del suo petrolio. Tutti gli esperti britannici lasciarono il Khuzestan e il governo britannico si rivolse al consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, chiedendo l’intervento dell’organismo internazionale per risolvere il caso. Nell’ottobre del 1951 Mosaddeq stesso si recò alle Nazioni Unite a New York e difese la causa dell’Iran. Il suo intervento fu molto persuasivo e indusse il consiglio di Sicurezza a pronunciarsi a favore dell’Iran, essendo la nazionalizzazione del petrolio una questione meramente interna. La seguente descrizione, citata nel testo di J.F. Goode, chiarisce come il ruolo del consiglio di Sicurezza fu fondamentale nel 1951 per la politica iraniana: «The British in mid-September (1951), without consulting Washington, submitted the dispute to the United Nation Security Council, clumsily offering the Iranian leader an international forum. Musaddiq (Mosaddeq) thereupon won the American public, especially the early television audience, with its performance at the UN, where members refused to condemn Iran or force it to arbitrate as the British proposed, and rejected a US-sponsored compromise reso1 lution» . Questo intervento dell’Onu nei confronti dell’Iran può considerarsi come uno de pochi in grado di spiegare efficacia influenzando positivamente la questione. Infatti, a seguito della decisione del consiglio di Sicurezza, i britannici dovettero lasciare la Persia e il petrolio di fatto venne nazionalizzato. 35


La risoluzione 598, la fine della guerra Iran- Iraq

Il testo adottato nella risoluzione 598 del consiglio di Sicurezza manifesta una profonda preoccupazione da parte della comunità internazionale nei confronti dei cittadini dei due paesi dell’Iran e dell’Iraq, in guerra, all’epoca, da oltre sette anni. Una guerra, iniziata nel 1980, a seguito dell’invasione dell’Iran da parte di Saddam Hossein che continuò per otto anni, provocando circa un milione di morti tra gli iraniani e circa 500mila tra gli iracheni. La risoluzione definisce «deplorevole i bombardamenti contro i civili e l’uso delle armi chimiche che violano, in modo palese, il dritto internazionale e la convenzione di Ginevra». Poi chiede immediatamente «il cessate il fuoco», auspicando «il raggiungimento di un giusto compromesso allo scopo di porre fine alla guerra». Sebbene ci sia voluto più di un anno, dall’emissione della risoluzione 598, perché gli iraniani e gli iracheni accettassero di sedersi sul tavolo della pace, è tuttavia da ritenere la risoluzione di una certa importanza per il successivo cessato fuoco tra i due paesi. Anche in questo caso si nota come il formale intervento del consiglio di Sicurezza abbia contribuito, in qualche modo, a porre fine a una guerra logorante in Medioriente, sebbene siano state le difficili condizioni dei due paesi, entrambi estenuati da otto anni di guerra, a determinare la fine del conflitto. Se, nei primi due casi citati, l’Onu riesce a ritagliarsi un ruolo rilevante nella politica iraniana, negli ultimi due, si vedrà, invece, come questa organizzazione internazionale non sia riuscita ad essere altrettanto incisiva.

Il caso nucleare iraniano

Sono ormai dieci anni che il caso nucleare iraniano è divenuto una delle tematiche rilevanti della cronaca internazionale, coinvolgendo, direttamente, l’Iaea e il consiglio di Sicurezza dell’Onu. Tutto inizia nell’agosto 2002, quando Alireza Jafarzadeh, analista iraniano, nel corso di una conferenza a Washington rivelò che nel sito di Natanz era nascosto gran parte del pro-


dossier gramma nucleare segreto iraniano: nucleare a scopo 2 militare e non civile . Secondo quanto affermava l’analista, la Repubblica islamica dell’Iran aveva creato, di nascosto, delle strutture finalizzate all’arricchimento dell’uranio a Natanz e alla lavorazione dell’acqua pesante in Arak, entrambi elementi necessari per la realizzazione dell’arma atomica. L’effetto che la circolazione di queste informazioni creò, nell’ambito internazionale, fu dirompente, provocando una serie infinita di controlli e di perlustrazioni effettuati dagli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica in Iran, allo scopo di verificare le finalità del progetto nucleare persiano. Un processo lungo e logorante che continua fino ai giorni nostri, senza il raggiungimento di concreti risultati. I colloqui tra gli ispettori dell’Iaea con i responsabili della repubblica islamica hanno attraversato diverse fasi: dal 2002 al 2005, con la presidenza del riformista Seyyed Mohammad Khatami, i colloqui hanno prodotto risultati positivi e si stava di fatto andando verso una soluzione accettabile da entrambe le parti. Con l’ascesa al potere del presidente Mahmoud Ahmadinejad, però, l’andamento delle trattative subì un forte freno. Il presidente Ahmadinejad, a seguito delle sue dure dichiarazioni contro lo stato d’Israele, rilasciate nel 2006, ha infatti incrementato le preoccupazioni della comunità internazionale nei confronti del progetto nucleare iraniano. È stato proprio da quel momento che un potenziale Iran atomico non poteva essere più tollerato né da parte di Washington, né a parte di Tel Aviv. Le minacce di fare sparire Israele dalla mappa mondiale sono state fatali per il processo nucleare persiano. Pertanto, oltre all’Iaea, anche le Nazioni Unite si sono dovute occupare del caso: si è formato infatti l’ormai noto gruppo «5 più uno», costituito da Gran Bretagna, Cina, Russia, Francia e Stati Uniti, con diritto di veto al consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania, con il compito di portare avanti le trattative con Teheran. La scorsa primavera, a seguito di alcune aperture mostrate sia da Teheran che dal gruppo «5 più uno», sembrava che si potesse giungere, dopo molti anni, a una soluzione definitiva del caso, ma tali speranze sono nau-

«Il costume della schiavitù deve essere estirpato dal mondo intero». La frase è stata estrapolata dal cilindro dei diritti umani del fondatore dell’Impero persiano, Ciro il grande. Ciò rende bene l’idea di quello che, a livello storico, nell’Impero persiano era lo stato di avanzamento della dignità dell’uomo

fragate nel corso del tempo. Il capo degli ispettori che ha guidato, lo scorso agosto, la delegazione dell’ Iaea, Herman Nackaerts, ha concluso la sua missione rilasciando la seguente dichiarazione: «le discussioni sono state intense ma tra l’Iran e l’Agenzia restano differenze importanti che hanno impedito un accordo», mentre il capo della delegazione iraniana Ali Asghar Soltanieh ha detto: «senza dubbio ci sono stati progressi nella rimozione di alcune differenze e punti ambigui, ma restano comunque alcune divergenze. Si tratta di una questione molto delicata, le questioni legate alla sicurezza nazionale di uno stato membro sono qualcosa di molto delicato». Le dure sanzioni economiche emesse, negli ultimi mesi, da parte del consiglio di Sicurezza dell’Onu e dell’Unione Europea nei confronti di Teheran, allo scopo di sospendere la proliferazione nucleare iraniana, hanno provocato la più grave crisi economica del paese sin dalla fine della guerra Iran-Iran nel 1988. Secondo quanto si legge in un rapporto di Adnkronos International (Aki), il bazar di Teheran sta affrontando uno dei momenti più critici della propria storia. Le attività commerciali sono ferme e diverse sezioni del mercato tradizionale iraniano sono colpite dalla crisi economica che sta investendo tutto l’Iran. I commercianti di gioielli e di tappeti sono tra le categorie più colpite del bazar di Teheran che è sempre stato un luo37


Risk go simbolo per l’economia iraniana. Secondo il sito d’opposizione Iranpressnews, il malcontento tra i commercianti è in continuo aumento e rischierebbe di sfociare in nuove proteste antigovernative. Lo scorso ottobre infatti centinaia di commercianti iraniani sono scesi in piazza nel bazar di Teheran protestando contro il governo, definito responsabile per la grave crisi economica in cui si trova il paese. Le sanzioni internazionali contro Teheran stanno colpendo diverse categoria sociali della popolazione. La svalutazione della valuta iraniana rial e l’incremento dell’inflazione hanno di fatto provocato un diffuso malcontento tra i cittadini. Il bazar di Teheran è stato storicamente un luogo simbolo dal quale sono partiti i moti di protesta popolare in Iran. Sia durante la rivoluzione costituzionale del 1906 sia durante la rivoluzione islamica del 1979, il bazar ha svolto un ruolo decisivo nei cambiamenti politico-sociali dell’Iran. Pertanto l’intervento drastico, soprattutto nell’ultimo anno, del consiglio di Sicurezza dell’Onu; tramite le pesanti sanzioni economiche contro Teheran, potrebbe arrecare un duro colpo alla stabilità interna della repubblica islamica, già minata dal consenso della maggioranza dei propri cittadini. Si potrebbe concludere questa analisi, rilevando la scarsa efficacia degli organismi internazionali, in generale, e quello dell’Onu, in particolare, quando si propongono di intervenire in determinate controversie con petizioni di principio o generiche dichiarazio-

Sono quattro i casi di rilevanza internazionale che, dal 1945, hanno visto coinvolti, insieme, le Nazioni Unite e l’Iran sul palcoscenico mondiale: la nazionalizzazione del petrolio nel 1951; la risoluzione 598 riguardante la fine della guerra Iran- Iraq nel 1988; il caso nucleare e i diritti umani 38

ni, mentre più marcata pare l’efficienza degli stessi quando si esprimono attraverso l’emanazione di provvedimenti a contenuto concreto come le sanzioni economiche che, associate a un quadro di malcontento generale nella popolazione colpita dalle stesse, possono innescare reali ripercussioni nel paese.

La violazione dei diritti umani

In Medioriente, l’ambito dei diritti umani è quello più trascurato dall’Onu. Vi è sicuramente da registrare una scarsa vigilanza dell’Onu verso realtà di fondamentali diritti dell’uomo sistematicamente negati in alcuni paesi arabi del Golfo Persico, alleati del fronte occidentale, quali l’Arabia Saudita, il Qatar, il Bahrein e il Kuwait. Anche la Repubblica Islamica, come diversi paesi mediorientali, viola i diritti umani dei propri cittadini su diversi fronti, ma questi, stante la situazione di non allineamento al fronte occidentale della repubblica islamica, sono maggiormente messe in risalto dal consiglio per i Diritti umani dell’Onu. L’efficienza delle nazioni unite a questo riguardo pare terminare con un potere di denuncia, senza però riuscire a spiegare una qualche efficacia risolutiva della realtà denunciata. Sono tre gli esempi eccellenti che possono render più evidente tale affermazione. Impiccagioni: secondo la legge islamica vigente in Iran, a seguito della rivoluzione del 1979, alcuni reati quali l’adulterio, il traffico di droga, la lotta armata contro lo stato islamico, l’omicidio e l’omosessualità, sono puniti con la pena capitale. Negli ultimi tre anni il regime iraniano ha impiccato almeno duemila persone. Nonostante l’Unchr abbia diverse volte chiesto a Tehran di fermare l’ondata delle impiccagioni, la magistratura iraniana non solo ha continuato a impiccare i propri cittadini, ma ha, anzi, aumentato il numero delle esecuzioni. Minoranze religiose: negli ultimi anni sono aumentate in modo considerevole le conversioni, soprattutto dei giovani, dall’Islam ad altre religioni quali il cristianesimo, il zoroastrismo e la fede baha’i, suscitando le dure reazioni delle autorità politico-religiose della Repubblica Islamica. «Attentato alla sicurezza nazionale», «propaganda contro


la repubblica islamica» e «organizzazione di riunioni religiose in chiese private» sono tra i capi d’accusa più ricorrenti a carico di questi cittadini iraniani. Secondo i siti attivi nell’ambito dei diritti umani, negli ultimi due anni, oltre 500 persone sono state arrestate per reati di opinione. Le condanne delle Nazioni Unite e, in alcuni casi, i richiami e le risoluzioni emesse da parte dell’Assemblea generale non sono stati in grado di fermare la repubblica islamica. Il caso dell’85enne baha’i, Mohammad Hossein Nakhai, arrestato e condannato, poche settimane fa, a 3 anni di reclusione soltanto per appartenenza alla religione baha’i, conferma come le pressioni delle Nazioni Unite non abbiano prodotto alcun risultato tangibile. La repressione esercitata nei confronti dei prigionieri politici è un altro caso importante: noti avvocati e giornalisti quali Abdolfattah Soltani, Nasrin Sotudeh e Narghes Mohammadi sono stati condannati a diversi anni di carcere soltanto per aver svolto, in modo coerente, la propria professione. Poche settimane fa, Sattar Behehsti, giovane blogger 35enne ha perso la vita, sotto tortura, nel carcere di Robat Karim, vicino a Teheran, suscitando l’indignazione della società civile iraniana. Beheshti era stato arrestato per aver scritto commenti critici nei confronti della Guida suprema l’ayatollah Ali Khamenei e contro la Repubblica islamica. Il giovane blogger, dopo alcuni giorni di carcere ha perso la vita sotto tortura. Tutto ciò continua ad accadere, nonostante l’Onu, cerchi di esercitare un soft power su Teheran. La domanda che sorge infine, collegandosi anche all’introduzione di questo articolo, è la seguente: «siamo veramente sicuri che l’Onu, con la sua forma attuale, riesca ad adempiere ai suoi compiti principali e non sia invece necessario un ripensamento e una riorganizzazione in un senso di maggiore potere di intervento, svincolato da alcuni limiti assoluti come il diritto di veto esercitabile da parte di qualunque nazione seduta al tavolo dell’organizzazione?». 1 GOODE J.F., The United States and Iran, 1946-51: The Diplomacy of Neglect, London, The Macmillian Press, 1989, p. 107.

2 Si veda Antonella Vicini, Prima della rivoluzione: la storia del nucleare iraniano, in Reset, 2011.


Risk IL RUOLO DELL’AMISOM E DEGLI USA IN SOMALIA: LA RINASCITA DELLE ISTITUZIONI

UN ANNO SUL MERIDIANO 42 DI •

N

NICOLA PEDDE

essuno dal 1991, di solito, fa progetti a lungo termine in Somalia. Il 2012, tuttavia, verrà senza dubbio ricordato come eccezionale, e non in pochi sperano che questo significhi la rinascita del paese dopo oltre vent’anni di anarchia. Il vero cambiamento è iniziato in realtà nel 2011, quando gli Stati Uniti hanno optato per un radicale mutamento di strategia nella lotta

alle milizie islamiche dell’Al-Shabaab, una milizia radicale e in parte con orientamento filo-qaedista sorta nel 2005 con l’ascesa al potere delle Corti islamiche a Mogadiscio. Constatato il più totale insuccesso della missione militare condotta dall’Etiopia, ed il contestuale fallimento della politica d’azione delle cannoniere aeree contro i villaggi considerati alleati delle milizie islamiche, gli Stati Uniti hanno definito un nuovo e ben più articolato piano d’azione per la normalizzazione della Somalia. Sono cessati gli interventi armati contro i villaggi, le forze etiopiche sono state ritirate in direzione del confine settentrionale, e contestualmente è stato poderosamente rinvigorito il mandato e la capacità d’azione della missione internazionale dell’Amisom, condotta dall’Unione Africana e composta dalle forze militari di paesi limitrofi, impegnati in una complessa missione di peacekeeping. È stato avviato infine un concreto programma di rinascita istituzionale a livello locale, con la fine del mandato al governo transitorio e l’avvio di una nuova fase politica caratterizzata dall’insediamento di un nuovo Parlamento, di un presidente della Repubblica eletto da questo, e di un esecutivo insediatosi recentemente alla guida del paese e della complessa fase di ricostruzione. Ascoltando quello che ripetutamente era stato loro suggerito dai somali sin dal 2005, gli 40

Usa hanno optato quindi per un sostegno diretto alle autorità centrali del paese, hanno contribuito significativamente alla rinascita delle Forze armate locali, ed hanno infine sostenuto il ruolo e la capacità operativa delle forze di peacekeeping dell’Unione africana. Queste ultime sono state ulteriormente potenziate dall’ingresso del Kenya, che ha fornito un contributo molto importante nella lotta alle milizie dell’Al Shabaab nel sud del paese e nella provincia di Mogadiscio. Gli Stati Uniti hanno quindi assunto un ruolo defilato e poco visibile, limitando la loro presenza in loco ad una stazione dell’intelligence sull’aeroporto di Mogadiscio e alla massiccia presenza di Uav a sostegno delle operazioni dell’Amisom e delle forze somale sul terreno. Determinando, almeno per il momento, un mutamento complessivo degli equilibri locali a dir poco epocale.

L’African Union Mission to Somalia

La missione Amisom è stata istituita il 19 gennaio 2007 in seno al Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana, e ratificata dalle Nazioni Unite il 21 febbraio dello stesso anno, con un mandato iniziale di sei mesi rinnovabile. Lo scopo della missione, che seguiva la breve e fallimentare esperienza dell’Igasom (la precedente missione organiz-


dossier zata dall’Igad) era quello fornire supporto alle autorità del governo transitorio della Somalia sotto il profilo della sicurezza e della distribuzione degli aiuti umanitari. Si trattava in realtà di una missione ben più complessa e di ampia portata, finalizzata a gestire la sicurezza nella Somalia centro-meridionale dopo il sostanziale fallimento dell’intervento etiopico e per fronteggiare il crescente ruolo e potere delle milizie islamiche dell’Al Shabaab, che da Mogadiscio a Kisimayo controllavano la gran parte del territorio amministrandolo in nome dell’Islam più radicale e, soprattutto, della sistematica razzie degli aiuti umanitari diretti nella regione. La missione avrebbe dovuto inizialmente essere composta da circa 8mila uomini, facenti parte dei contingenti dell’Uganda, della Nigeria, del Ghana, del Malawi e del Burundi, ma le prime unità militari furono in grado di raggiungere Mogadiscio solo alla fine del 2007. I primi a schierare le proprie truppe in Somalia furono il Burundi e l’Uganda, attestandosi nei quartieri centrali della capitale ed organizzando una prima labile maglia di sicurezza intorno a quella che avrebbe dovuto consolidarsi come la prima «zona verde» della missione. Si trattò, purtroppo, di consolidare una minima presenza sul campo per molto tempo, a causa dei non pochi problemi organizzativi derivanti a monte da un non completo e convinto supporto alla stessa da parte della comunità internazionale. E in particolar modo da parte degli Stati Uniti e dell’Europa, incerti sul modo in cui affrontare il problema somalo, concentrati all’epoca più sull’emergenza pirateria e scarsamente consapevoli delle reali opzioni sul terreno nella Somalia centro-meridionale. La natura della missione cambiò sensibilmente nel corso del 2010, quando venne deciso dall’Unione Africana di reagire alla sempre più minacciosa azione dell’Al Shabaab in Somalia e nella regione (alcuni attentati avevano infatti sconvolto la capitale ugandese nell’estate del 2010), transitando da una missione essenzialmente impostata sul concetto di peacekeeping in direzione di una più squisitamente

orientata al peace-enforcement. Il Burundi e l’Uganda lamentarono tuttavia la scarsità di uomini, mezzi e risorse a disposizione della missione, che non aveva sino ad allora mai raggiunto il programmato livello di capacità e consistenza, per il venir meno di alcuni tra gli iniziali promotori e contributori della missione. Un rinnovato sforzo economico sostenuto anche dagli Usa, permise quindi di incrementare inizialmente i soldati del contingente burundese, portandolo a 4.500 uomini, per poi dare impulso ad un generale potenziamento dell’intera missione e delle sue capacità operative, che nel gennaio del 2012 raggiunse la consistenza di oltre 17mila uomini. Al tempo stesso, grazie al poderoso sforzo della cooperazione internazionale, venne avviato il contestuale processo di ricostituzione delle forze armate somale, che per la prima in oltre vent’anni permise alle autorità del paese di dotarsi di una propria capacità per garantire la sicurezza, gestendo in modo diretto il rapporto con la popolazione. Il ricostituito esercito somalo, cui ha fatto seguito in tempi più recenti un primo embrione anche di unità navale, ha potuto assorbire grazie alla capacità di finanziamento garantita dalla cooperazione internazionale, una gran parte dei miliziani prece-

Gli Stati Uniti hanno definito un nuovo piano d’azione per la della Somalia. Sono cessati gli interventi armati contro i villaggi, le forze etiopiche sono state ritirate in direzione del confine settentrionale, e contestualmente è stato poderosamente rinvigorito il mandato e la capacità d’azione della missione internazionale dell’Amisom 41


dentemente impiegati dalle milizie dei cosiddetti «signori della guerra» e dello stesso Al Shabaab, incrementando considerevolmente la capacità d’azione sul terreno e la rapida riconquista di alcuni storici caposaldi delle milizie islamiche. La presenza degli Stati Uniti si era fatta nel frattempo silenziosa ed invisibile in Somalia, sebbene sempre presente ed assai efficace. Da una modalità di gestione del problema di tipo muscolare, con l’utilizzo dei C-130 Spectre e delle unità delle forze speciali impegnati nella distruzione dei santuari delle milizie, si passò al sostegno diretto ma invisibile al governo somalo e all’Unione Africana, mediante l’impiego di Uav e di unità speciali ubicate presso l’aeroporto di Mogadiscio, attive sia nell’addestramento delle forze militari somale che nella partecipazione occulta ad alcune delle più delicate missioni. È grazie a questa collaborazione, in modo particolare, che le forze armate somale hanno potuto costituire un loro embrione di unità speciali, il Gruppo Alfa, cui è stato progressivamente demandato un crescente carico di compiti al seguito delle forze dell’Unione Africana, dalla protezione degli aiuti umanitari a quella delle personalità di spicco del governo, e negli ultimi tempi anche nella lotta a ciò che resta delle milizie dell’Al Shabaab sul territorio. A partire dagli ultimi mesi del 2010, infine, si era unito allo sforzo per la stabilità della Somalia anche il Kenya, interessato ad impedire un trasferimento delle milizie islamiche in direzione del proprio territorio e preoccupato per la crescente influenza dell’Al Shabaab all’interno dei numerosi campi profughi dei somali lungo i confini settentrionali del paese. Il Kenya, dopo una iniziale azione di mero contenimento delle unità ostili in movimento lungo il vasto territorio di confine con la Somalia, decise per un più poderoso e diretto intervento in direzione della città della Somalia meridionale di Kisimayo, ultima roccaforte dell’Al Shabaab e perno del controllo economico regionale. Con grande abilità politica, l’Unione Afri-


dossier cana riuscì a negoziare l’intervento del Kenya con la missione Amisom, inserendo ufficialmente le truppe di Nairobi nel contingente multinazionale impegnato in Somalia, e conferendo quindi alla missione un ulteriore e notevole impulso. Il 12 novembre del 2011, quindi, le truppe keniane passarono sotto il comando della missione dell’Unione Africana, portando un incremento di oltre 5mila uomini al numero complessivo della missione.

La rinascita delle istituzioni somale

Alla fine di agosto del 2012 è ufficialmente terminato il ruolo delle Autorità governative transitorie (Tfg), con la promulgazione di una nuova Costituzione (che dovrà essere poi ratificata), l’elezione di un nuovo Parlamento e, soprattutto, per la prima volta in oltre vent’anni con l’elezione di un nuovo presidente della Repubblica, Hassah Sheikh Mohamud. Questa trasformazione istituzionale, garantita dalla presenza sul terreno delle forze dell’Amisom e dalle ricostituite Forze armate somale, ha permesso di riavviare la macchina dell’economia nazionale, ancora largamente basata sulle rimesse dall’estero e sugli aiuti internazionali, e di rivitalizzare il supporto della società somala. Che oggi, per la prima volta in vent’anni, spera concretamente nella possibilità di una normalizzazione della situazione e nel ritorno del paese nel novero delle nazioni propriamente dette. La rinascita delle istituzioni somale si è poi completata con l’elezione di un primo ministro e di un esecutivo, cui sono stati assegnati compiti di straordinaria importanza per la ricostruzione del paese e la rinascita della sua economia. Non potrà camminare con le sue gambe da sola, la Somalia, ancora per parecchio tempo. Questo è chiaro ai somali, ma deve essere chiaro anche alla comunità internazionale chiamata a sostenere continuativamente il processo di finanziamento della missione Amisom, degli aiuti umanitari e, più in generale, alla ricostruzione sociale, culturale e morale di un paese devastato da oltre vent’anni di anarchia e guerra. Mai come oggi le milizie dell’Al Sha-

baab sembrano poi essere sulla difensiva, ed impegnate anzi in una strenua lotta per la sopravvivenza delle poche cellule ancora operative sul territorio e costrette dall’intervento militare congiunto dell’Amisom a cercare rifugio nelle aree rurali. Dove diventa difficilissimo poter trovare i mezzi di sostentamento per la propria struttura, e dove sempre più ostile è l’atteggiamento delle popolazioni, il cui interesse è adesso rivolto verso Mogadiscio e le possibilità di una ripresa economica del paese. Con la caduta di Kisimayo, il 28 settembre, è venuta meno l’ultima vera roccaforte delle milizie dell’Al Shabaab in Somalia. Dopo la disfatta subita pochi mesi prima a Mogadiscio e in alcune località della costa meridionale del paese, la città costituiva l’ultimo strumento significativo di sostentamento economico per le milizie islamiche, attraverso i cospicui proventi generati dal porto e dal taglieggiamento degli aiuti umanitari destinati alle popolazioni locali. La conquista di Kisimayo, possibile solo grazie al ruolo delle forze militari del Kenya che da mesi la cingevano d’assedio, ha rappresentato quindi un risultato che va ben oltre la mera dimensione militare, sancendo da un lato la dispersione dell’Al

Il ricostituito esercito somalo ha potuto assorbire grazie alla capacità di finanziamento garantita dalla cooperazione internazionale, una gran parte degli uomini precedentemente impiegati dalle milizie dei cosiddetti «signori della guerra» e dello stesso Al Shabaab considerato pericoloso per i suoi legami con la rete di al Qaeda 43



dossier Shabaab nelle aree rurali e dall’altra rinvigorendo l’immagine delle nuove istituzioni somale e della loro capacità di conseguire risultati concreti ed altamente significativi per la popolazione. Alle sempre meno consistenti milizie dell’Al Shabaab, non resta quindi altra alternativa se non quella di condurre attentati all’interno delle aree abitate, nel tentativo di alimentare il terrore della popolazione e sottrarla al rapporto di fiducia con le nuove autorità politiche. Missione pressoché impossibile, che ha al contrario alimentato ulteriormente l’ostilità nei confronti delle milizie, spingendo in numerosi casi la popolazione civile ad una più aperta e decisa collaborazione con le forze di sicurezza. Gli attentati compiuti a Mogadiscio, Kisimayo e nel Kenya settentrionale nel corso degli ultimi mesi – con effetti peraltro minimi – testimoniano quindi l’incapacità dell’Al Shabaab di fronteggiare una minaccia divenuta ormai insostenibile, dovendo le milizie ricalibrare la propria azione solo sulla gestione di attentati ed agguati. E così facendo inimicandosi ulteriormente la popolazione e disperdendo il residuo supporto su cui potevano contare a livello internazionale.

La Somalia di domani

Non sono pochi, e non sono di dimensioni contenute, i problemi sul tavolo delle nuove amministrazioni politiche della Somalia. In primo luogo è necessario oggi consolidare il processo di stabilità politica, affrontando i non pochi nodi irrisolti rappresentati essenzialmente dalla effettiva rappresentatività del Parlamento, dalla presenza all’interno di questo di ex «signori della guerra» dal non immacolato passato, e più in generale dalla persistente presenza di spinte anti-unitarie che ironizzano sull’effettiva capacità di controllo da parte del governo, ricordando l’essenziale ruolo dell’Amisom nel mantenimento della sicurezza sul terreno. Non pochi, inoltre, accusano le autorità centrali di non esercitare il controllo sulla gran parte delle aree extra-urbane, dimenticando tuttavia di aggiungere come queste siano scarsamente abitate, pressoché irrilevanti sotto il profilo

È grazie alla collaborazione con gli Usa che le forze armate somale hanno potuto costituire un loro embrione di unità speciali, come il Gruppo Alfa, cui è stato demandato un crescente carico di compiti al seguito delle forze dell’Unione Africana, dalla protezione degli aiuti umanitari alla protezione delle personalità di spicco del governo, e negli ultimi tempi anche nella lotta a ciò che resta delle milizie dell’Al Shabaab sul territorio economico – almeno per il momento – e che è alquanto scadente la rete viaria per raggiungerle ed amministrarle. È poi necessario avviare un concreto e poderoso programma per la rinascita economica nazionale, per affrancarsi dall’economia degli aiuti umanitari e trasformare gradualmente le potenzialità della Somalia in realtà concrete e durature. È necessario che la comunità internazionale comprenda, nonostante le spinte contrarie dettate dalla persistente crisi economica globale, quanto sia nell’interesse collettivo di tutti poter contare su un processo di ripresa della Somalia stabile e duraturo. Per impedire che torni ad essere un failed state e che, soprattutto, possa trasformarsi ancora una volta nel più pericoloso ricettacolo del radicalismo religioso, della criminalità organizzato, e della miseria più esasperata. 45


Risk

GLI

EDITORIALI/MICHELE

NONES

Finmeccanica e il suo azionista distratto

Da quando Finmeccanica è stata privatizzata, quindici anni fa, il suo azionista di riferimento (col 30 per cento) è lo Stato. Come tale, designa la maggioranza del consiglio di Amministrazione e un consigliere senza voto, ma, soprattutto, il vertice della società. Governi di sinistra e di destra, e gran parte delle forze politiche ci hanno ripetuto che in questo modo potevano essere tutelati gli interessi nazionali nell’ormai unico grande gruppo italiano impegnato nel settore delle tecnologie avanzate. Fino a due anni fa nessuna ombra e nessun dubbio. Certo i conti non erano entusiasmanti e il fardello del settore trasporti erodeva i bilanci. Ma i successi commerciali sul mercato mondiale e l’acquisto di nuove società estere (oltre ad una costosissima promozione dell’immagine) facevano credere ai decisori politici e all’opinione pubblica che tutto andasse per il meglio. L’azionista di riferimento continuava così a dormire sonni tranquilli. Da due anni il gruppo è, però, entrato in una bufera giudiziaria e mediatica senza fine, partita su contratti nazionali e subito allargatasi a quelli esteri. Si è via via ipotizzato che dietro praticamente tutti i grandi contratti acquisiti o tentati si nascondano attività corruttive. La credibilità internazionale del gruppo è stata, così, messa a repentaglio, insieme ai nostri rapporti con i paesi che dovrebbero essere o diventare i principali mercati di sbocco delle nostre capacità produttive e tecnologiche. Le inchieste giudiziarie sembrano ipotizzare che siano stati comprati politici e militari, facendo girare cifre da capogiro. Qualsiasi azionista si sarebbe preoccupato, ma quello di riferimento non sembra, invece, essersi scomposto. Anche lo Stato dovrebbe puntare a preservare il valore del suo investimento, come chiunque altro, ma, in più, lo Stato dovrebbe difendere quello che deve essere considerato un asset del paese e, insieme, l’immagine internazionale dell’Italia. Un altro aspetto curioso della vicenda è legato alle ipotesi su cui si sta indagando. Negli ultimi venti anni si è sempre sostenuto che abbiamo la migliore legge al mondo per il controllo delle esportazioni: ogni trattativa e ogni esportazione militare deve essere autorizzata dal governo (compresi i compensi per intermediazione); anche l’avvenuta

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consegna e i pagamenti sono controllati. Il governo dovrebbe, quindi, poter verificare rapidamente se qualcosa è andato storto. Se non ci si è riusciti, ci si dovrebbe domandare perchè non sia stato possibile con un sistema così apparentemente “perfetto”. Il governo, inoltre, ha sempre un’altra possibilità di verifica attivando riservatamente e informalmente la nostra «intelligence». Finmeccanica rappresenta circa due terzi delle capacità industriali italiane nel comparto della difesa. È stata, quindi, la prima beneficiaria dell’impegno di governo, amministrazioni pubbliche, diplomazia e forze armate per favorire le esportazioni. A questo fine l’Italia ha messo in gioco durante lo scorso decennio la sua immagine in molti paesi. In quest’ottica sono stati anche sottoscritti appositi accordi intergovernativi di collaborazione nel campo della difesa. Una ragione in più perché il governo intervenga per fare chiarezza e contenere i danni nei confronti dei nostri più importanti partner commerciali. È difficile ipotizzare quando si concluderanno le indagini in corso. Anche auspicando che alla fine emergano solo fatti secondari che non coinvolgono i vertici del gruppo, è del tutto evidente che, nel frattempo, Finmeccanica non può essere lasciata ulteriormente sulla graticola. Il contesto di riferimento richiede tempestive e coraggiose decisioni per portare a termine il processo di ristrutturazione avviato con la dismissione delle attività estranee al core-business (energia, trasporti, sistemi ferroviari, motori aeronautici), la concentrazione delle attività elettroniche in Selex, l’internazionalizzazione delle attività militari più limitate (armamenti, siluri), il rafforzamento delle attività aeronautiche civili. Nel frattempo il fallimento della prospettata fusione EadsBae Systems ha rotto l’equilibrio che ha caratterizzato la struttura dell’industria europea della difesa nell’ultimo decennio e si è così aperta una finestra di opportunità anche per Finmeccanica: ma, come tutte le opportunità, è destinata a non resistere a lungo. Il governo deve, quindi, assumersi le responsabilità che gli competono sia come azionista di riferimento sia come soggetto che deve tutelare l’interesse nazionale. L’attuale vertice non deve e non può essere lasciato solo in questo delicato momento.


editoriali

GLI

EDITORIALI/STRANAMORE

Meglio un uovo oggi che...

La revisione complessiva dello strumento militare italiano è già in corso, anche se formalmente il calcio d’avvio non c’è ancora stato. Già, perchè al momento il disegno di legge delega proposto dal governo, dopo aver superato finalmente l’esame del Senato è ora in approvazione alla Camera. E data la situazione politica occorrerà una azione pressante per ottenere il via libera del secondo ramo del parlamento in tempi rapidi. Idealmente il tutto si dovrebbe completare per la fine dell’anno, in modo da consentire al Governo di procedere all’emanazione dei decreti delegati. Solo allora si potrà dire che il governo tecnico è riuscito nell’impresa di avviare quella ristrutturazione tanto necessaria ed attesa quanto rimasta nel libro dei sogni da almeno un decennio. L’attuale Modello di Difesa risale al Duemila ed era già superato... con l’11 Settembre 2001, ma non è mai stato rivisto. In particolare i suoi obiettivi, anche per quanto riguarda la consistenza degli organici del personale civile e militare, erano già irrealistici quando furono stabiliti, ma sono diventati insostenibili, anche per via degli interventi che via via hanno ridotto gli stanziamenti per la «professionalizzazione». All’Italia serve una Difesa «lean & mean» e il Ddl ne pone le fondamenta. Se si arrivasse alla emanazione dei decreti delegati ai futuri governi “politici” basterebbe solo eseguire il compito, possibilmente senza introdurre stravolgimenti, come quelli che negli anni annacquato la legge di riforma dei vertici militari. Tuttavia visto che l’Italia e la Difesa non si possono più permettere di proseguire imperterriti nella mission impossible di attuare il Modello Duemila con fondi sempre più inadeguati, già dall’inizio della primavera si è data una accelerata alla attività di razionalizzazione ed efficientamento dello strumento militare. Già perché, sia pure in modo non organico, sia pure a lento pede e con poco entusiasmo, il sistema difesa nazionale vive una condizione di ristrutturazione... permanente. Il ministro sta agendo con vigore per anticipare quanto possibile della riforma prevista con il Ddl ed una mano in questo senso è arrivata con il Dl 95/2012, il quale, tra l’altro, ha imposto una riduzione del personale a 170mila unità rispetto ai

182mila effettivi ed ai 190mila previsti dal Modello. Questo entro il 2016. Parallelamente è stata condotta una spending review accurata per quanto riguarda i programmi di investimento ed ammodernamento e si è cercato di rinegoziare i contratti in essere, di diminuire i quantitativi, di rimodulare le consegne, di modificare i termini finanziari, evitando però di incorrere in penali o liti giudiziarie. Presto la Difesa rivedrà i piani di investimento a medio termine ed intanto il ministro sta cercando di stabilizzare gli stanziamenti, per garantire quella certezza sulle disponibilità finanziarie indispensabile per definire i piani a lungo termine tipici del settore. Peraltro c’è anche la consapevolezza che la riduzione della spesa per investimenti ha ricadute sulla industria aerospaziale e della difesa nazionale, sulla sua competitività, sul rinnovamento del patrimonio tecnologico. Si è anche intervenuti sul versante delle missioni internazionali, rivedendo al ribasso l’impegno nazionale, che nel 2013 dovrebbe scendere sotto la soglia delle 6mila unità, mentre erano 8.300 nel 2010. La spesa per le missioni si attesterà intorno ad 1 miliardo/anno, salvo improvvise emergenze. Quello che non è possibile tagliare immediatamente sono le basi, enti e reparti, mentre è difficile accorpare funzioni e competenze, magari in chiave interforze. Già le azioni intraprese porteranno a benefici già nel breve termine. Se gli stanziamenti complessivi per la Difesa si manterranno sui livelli del 2011, dopo il massacro del 2012, con un forte calo del personale e una revisione degli investimenti ed una qualche azione sulle strutture si potrà recuperare efficienza e aumentare il tasso di capitalizzazione, l’investimento pro capite, e se si troverà qualche soldo in più per il settore dell’esercizio la macchina difesa potrà funzionare un po’ meglio, anche perché sarà al contempo diventata più agile e leggera. Dunque benvenuta la riforma “invisibile” anche se ci può far storcere il naso, perché non ha l’esplicito viatico parlamentare ed avviene in assenza di un piano organico complessivo. Ma in Italia puntare al meglio spesso è uno stratagemma per non cambiare nulla. Se poi arriverà le legge delega... meglio ancora.

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cenari

MONDO

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ITALIANI DA PEACEKEEPING DI

ALESSANDRO MARRONE

e missioni internazionali, il crescere di altre nali hanno vissuto un minacce da parte di attovero e proprio boom ri spesso non-statuali, dal dal termine della guerra fredterrorismo alla proliferada, quando con la fine del conzione di armi di distruziofronto bipolare l’attenzione e ne di massa, alle crisi ingli interventi dell’Occidente si nescate da guerre civili o sono concentrati nell’affrontastati falliti, non poteva che re guerre civili, conflitti etniessere affrontato con un L’Italia è chiamata a ripensare ci, stati falliti e crisi regionali, interventismo attraverso la politica delle missioni militari dai Balcani alla Somalia. In missioni internazionali all’estero. La nuova dottrina Obama molti casi, specie nelle prime nuove rispetto al periodo con il ritiro da Iraq e Afghanistan e la scarsa propensione all’intervento missioni, l’obiettivo era mandella guerra fredda. Non da parte della Ue non devono però tenere l’accordo raggiunto tra a caso Onu, Nato e Ue lasciar credere che stia calando il sipario sulle missioni fuori area le fazioni, ad esempio con il hanno visto negli ultimi della Nato e sulla politica cessate il fuoco, per far sì che due decenni un il moltidella «responsability to protect» un armistizio temporaneo si plicarsi di missioni intertrasformasse in una pace stabile – da qui il termine di nazionali di varia natura. La Nato in particolare ha peace-keeping. L’11 settembre ha dato via a missio- rotto il tabù dell’intervento out-of-area con le missioni internazionali come quella in Afghanistan di carat- ni in Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Libia, Golfo di tere sostanzialmente diverso: si trattava di imporre la Aden, e l’Ue sotto la guida di Solana ha messo in piepace, anche tramite operazioni di combattimento. Inol- di le strutture per le missioni Pesd testandolo direttatre, nel corso degli ultimi due decenni le missioni han- mente sul campo in Chad, Bosnia, e in una dozzina no avuto caratteri diversi: da quelle aeree in Serbia e di altri teatri con interventi militari, civili o civili-miLibia, a quelle navali nel Mediterraneo e nel Golfo di litari. In questo contesto l’Italia ha contribuito in moAden, a quelle prevalentemente terrestri ma con una do sostanziale a tutte le principali missioni internaforte connotazione joint nei Balcani, Libano, Afgha- zionali in ambito Onu, Ue e Nato che si sono svolte nistan – da qui l’utilizzo di un temine più ampio qua- negli ultimi due decenni in Corno d’Africa, Balcani, le «crisis management operations». Come è stato am- Medio Oriente, Asia Centrale, Golfo di Aden e Nord piamente osservato, anche durante un recente conve- Africa, nonché in teatri distanti come Timor Est, con gno Iai sul ruolo dell’Italia nelle missioni internazio- un dispiegamento di soldati all’estero che nel primo 48


scenari decennio di questo secolo superava regolarmente le 10mila unità. Un impegno che ha contribuito non solo ad affrontare minacce dirette o indirette alla sicurezza nazionale e agli interessi italiani, ma che ha contribuito a rafforzare la credibilità dell’Italia agli occhi degli alleati europei e transatlantici.

Il breve periodo: cautela e continuità

Alcuni anni fa, in particolare nel 2008-2009, sull’onda dell’impegno Nato in Afghanistan – che ha visto schierati 20-30 mila soldati europei su base annua per diversi anni – alcuni sostenevano che operazioni come quella afgana fossero il nuovo modello di operazioni militari per l’Occidente. Qualche anno dopo, alla luce della voglia di disimpegno dall’Afghanistan, alcuni affermavano invece che interventi militari all’estero non sarebbero più avvenuti per gli alti costi e gli insoddisfacenti risultati di operazioni come quella afgana, specie in tempi di crisi economica. Nel 2011 l’intervento in Libia ha temporaneamente smentito tanto l’idea di avere sempre e comunque missioni prevalentemente terrestri tanto lo scenario di un completo non-interventismo. Ora l’inazione dell’Occidente in Siria – ma anche in altri teatri – sembra puntare su una nuova direzione. Premessa la grande difficoltà di formulare scenari, nonché il forte rischio delle cosiddette «sorprese strategiche», possono essere identificati alcuni trend che probabilmente influenzeranno in modo stabile il modo di condurre missioni internazionali nei prossimi anni da parte dell’Occidente. In primo luogo, rimarrà per alcuni anni una forte riluttanza ad avviare operazioni che prevedano l’impiego su vasta scala di truppe di terra in paesi con una forte resistenza locale ad interventi stranieri, proprio alla luce dell’esperienza in Afghanistan. Ciò vale per l’America guidata da Obama, che ha spinto per accelerare il disimpegno dall’Iraq e dall’Afghanistan anche a rischio di compromettere i modesti risultati raggiunti in loco dopo anni di sforzi internazionali. Ciò vale anche, e forse di più, per un’Europa che a causa del frazionamento su base nazionale delle politiche di difesa e delle capacità militari fa un’enor-

me fatica – in termini militari, economici e politici – a mantenere significative presenze militari all’estero, specie a distanza strategica. In secondo luogo, permane una certa disponibilità da parte di Europa, Stati Uniti e Canada, a prendere in considerazioni l’avvio di missioni che utilizzino solo o prevalentemente il potere aereo, come nel caso della Libia, perché si ritiene che costino meno soldi, che creino meno vittime tra i proprio militari – ma non necessariamente tra la popolazione in loco – e che siano più accettabili dall’opinione pubblica e dall’elettorato. Non a caso l’amministrazione Obama conduce da 4 anni – in continuità con l’amministrazione Bush – una regolare e intensa campagna aerea, soprattutto attraverso i velivoli senza pilota, contro coloro identificati come nemici, in varie parti del mondo inclusi Afghanistan e Pakistan e probabilmente con l’ausilio di forze speciali sul terreno. In terzo luogo, come nel caso della Siria, sia gli Stati Uniti che alcuni paesi europei – nonché la Russia e alcuni paesi arabi – sembrano preferire una strategia indiretta basata sul supporto economico, sui rifornimenti di armi, e sull’appoggio più o meno coperto a fazioni di un determinato conflitto. Se questi sono i trend, non si può affatto escludere che shock come un nuovo attacco terrorista su larga scala verso gli Stati Uniti spingano di nuovo l’Occidente a intraprendere nuove missioni internazionali con una sostanziale presenza di truppe europee ed

La Nato in particolare ha rotto il tabù dell’intervento out-of-area con le missioni in Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Libia, Golfo di Aden, e l’Ue sotto la guida di Solana ha messo in piedi le strutture per le missioni Pesd testandolo direttamente sul campo in Chad, Bosnia, e in una dozzina di altri teatri 49


Risk americane sul terreno. Né bisogna dimenticare che fino al 2014 Isaf continuerà ad operare su vasta scala in Afghanistan, e che circa 10-20mila soldati Nato rimarranno nel paese dal 2015 con compiti di addestramento e supporto alle forze di sicurezza afgane. Così come è probabile continui ad operare nel prossimo futuro la missione Onu in Libano, e le missioni Ue e Nato nei Balcani e nel Golfo di Aden. In altre parole, la presenza di migliaia di soldati europei in teatri operativi continuerà nei prossimi anni, con i relativi costi e rischi, nonché con la connessa importanza politico-diplomatica per i paesi partecipanti. Così come continuerà la proiezione militare globale americana, anche attraverso le missioni internazionali, e la richiesta, da parte di Washington, di supporto agli alleati del Vecchio Continente. In quest’ottica, fa bene l’Italia a mantenere un impegno costante nelle missioni internazionali cui partecipa, anche con importanti ruoli di comando e responsabilità come nella missione Unifil in Libano e nel Regional command west in Afghanistan. Impegno che passa anche attraverso una revisione dello strumento militare che in tempi di austerità di bilancio dia la massima priorità alle capacità operative, necessaria affinché tale strumento assolva i compiti relativi alla sicurezza nazionale – oggi più che mai ampi e diversificati – e contribuisca alla politica di difesa ed estera dell’Italia nelle organizzazioni multilaterali di riferimento, in primis Nato ed Ue.

In futuro rimarrà una forte riluttanza ad avviare operazioni che prevedano l’impiego su vasta scala di truppe di terra in paesi con una forte resistenza locale ad interventi stranieri, proprio alla luce dell’esperienza in Afghanistan. Ciò vale anche per l’America guidata da Obama

gli ultimi due decenni, sia dal bipolarismo della guerra fredda, ed avrà effetti diretti e indiretti sulle missioni internazionali. Ad esempio, è probabile che emergano potenze regionali abbastanza forti da impedire interventi militari nella loro sfera d’influenza da parte dell’Occidente – siano essi tramite la Nato, l’Ue o coalizioni ad hoc, riducendo quindi lo spazio per missioni internazionali. Ciò può avvenire tramite un veto di Russia o Cina a risoluzioni Onu che autorizzano l’uso della forza militare, veto che toglierebbe quella legittimità internazionale necessaria per convincere l’opinione pubblica interna a sostenere, o almeno tollerare, missioni internazionali in casi in cui non viene percepita una minaccia diretta alla sicurezza nazionale. Ciò in parte sta già avvenendo in Siria, dove peraltro Stati Uniti ed Europa non hanno molta intenIl medio periodo: multipolarismo zione di avviare un intervento militare diretto sebbee interdipendenza ne i massacri in corso da più di un anno siano ben pegSe proiettiamo lo scenario oltre il 2014, nel medio pe- giori di quelli imputati al regime di Gheddafi nelle riodo, le missioni internazionali non potranno che es- settimane precedenti l’intervento del marzo 2011. sere influenzate da alcuni trend dominanti a livello L’opposizione da parte di potenze regionali all’interglobale. È probabile che il sistema internazionale con- ventismo occidentale può avvenire anche tramite la tinui la sua transizione verso un assetto multipolare, costruzione e il dispiegamento di capacità militari che in cui gli Stati Uniti rimarranno la prima potenza eco- progressivamente renderanno troppo pericoloso, conomica e militare, ma si ridurrà il loro vantaggio ri- stoso e difficile, l’intervento di potenze esterne: è quelspetto ad altri stati continentali come Cina, Russia, lo che sta facendo la Cina sulla costa del Pacifico, India e Brasile. Sarà probabilmente una situazione di- nonché nello spazio e nel cyberspace, rispetto agli versa sia dall’egemonia occidentale sperimentata ne- Stati Uniti. Infine, tale affermazione delle potenze re50


gionali può avvenire tramite pretese unilaterali di sovranità nazionale su acque internazionali, come quelle regolarmente avanzate dall’India negli scorsi anni – che sono una delle cause del contenzioso con l’Italia rispetto alla giurisdizione sul caso dei Marò italiani. Un futuro – prossimo – assetto multipolare del sistema internazionale, caratterizzato di fatto da sfere di influenza, ormai discusse dalla letteratura internazionalistica con l’eufemismo di «crescente regionalismo», implica che eventuali crisi come guerre civili, stati falliti o conflitti etnici, non saranno necessariamente gestite dall’Occidente, ma eventualmente dalla potenza regionale di riferimento. Un sorta di rivincita della geopolitica rispetto all’idea di un mondo assolutamente piatto e ridotto a “villaggio globale”, nonché dell’hard power militare ed economico rispetto al soft power culturale. Non bisogna infatti dimenticare che le potenze emergenti o ri-emergenti, in primis Cina, Russia e India ma anche Brasile, non hanno mai sostenuto con entusiasmo l’interventismo Occidentale degli anni Novanta, basato anche su principi come la cosiddetta «ingerenza umanitaria». Hanno piuttosto tradizionalmente difeso il principio della sovranità nazionale, salvo poi nel caso della Russia in Georgia intervenire militarmente senza preoccuparsi di avere una qualche forma di legittimazione da parte dell’Onu. Se è vero che oggi la cosiddetta «responsibility to protect» è riconosciuta in via di principio dalla quasi totalità dei paesi membri dell’Onu, è altrettanto vero la nonrilevanza di questo riconoscimento nella realtà delle relazioni internazionali è ampiamente dimostrata dal caso della Siria – nonché della Somalia, dello Yemen, ecc. Allo stesso tempo, è molto probabile che il processo di globalizzazione continui, e che quindi l’inter-dipendenza economica, politica e sociale tra i paesi e le regioni del mondo cresca – anche se in modo diverso da paese a paese. Ciò continuerà a fare sì che crisi e minacce presenti in teatri lontani dall’Europa avranno un impatto diretto o indiretto sull’economia e sulla società del


Vecchio Continente. Ad esempio, se avvenisse un blocco temporaneo di alcune rotte cruciali per l’approvvigionamento energetico, e in generale per il commercio internazionale, nel Golfo Persico, nell’Oceano Pacifico o Indiano, ciò avrebbe immediati effetti sul funzionamento dell’economia europea ed italiana in termini di inflazione, produzione, esportazioni, ecc. Non si può neanche escludere un ritorno di fiamma della minaccia terrorista, anche alla luce dell’andamento della transizione iniziata del mondo arabo, che potrebbe colpire il territorio o gli interessi europei anche attraverso attacchi de-territorializzati come quelli attraverso il cyberspace. Ci si troverebbe dunque nel difficile scenario in cui l’Occidente, e in particolare l’Europa, è interconnessa con regioni del mondo da cui potrebbero provenire minacce e crisi, ma non può intervenire tramite missioni internazionali non solo per i limiti interni in termini di capacità militari o coesione politica, ma per la forza militare, economica e politica degli attori regionali che si oppongono a un intervento occidentale.

Nato, Ue e Italia

Se questo scenario si realizzasse, occorre chiedersi quale sarebbe il ruolo di Nato e Ue, e quindi quali le opzioni per l’Italia. In ambito Nato la riflessione è aperta sul ruolo dell’Alleanza post-2014, quando l’impegno in Afghanistan sarà drasticamente ridotto – ma non certo terminato. Dalla fine della guerra fredda l’evoluzione dell’Alleanza è in buona parte stata guidata dalle missioni internazionali, o meglio dal fatto che l’Occidente ha affrontato determinate crisi e/o minacce alla sicurezza alleata operazioni Nato. Ora che si prefigura un periodo di minore impegno operativo dell’Alleanza, si pongono due questioni. A livello militare, mantenere il grado di inter-operabilità e convergenza tra i dispositivi militari dei paesi membri faticosamente costruito tramite le missioni internazionali, e in particolare quella afgana – da qui l’iniziativa Joint Force 2020. A livello politico, mantenere un consenso tra i paesi alleati sul ruolo, gli obiettivi e l’area di intervento della Nato, con gli Stati Uniti –


scenari ma non solo – che continuano a spingere per una Nato in qualche modo globale. In ambito è preoccupante il drastico calo dell’impegno in missioni internazionali dalla nomina di Catherine Ashton ad alto rappresentante/vicepresidente della Commissione, rispetto al quale il recente varo di una nuova missione Ue nel Corno d’Africa rappresenta l’eccezione più che la regola, che è possibile continui nel prossimo futuro. Inoltre i bilanci della difesa di molti paesi europei si sono drasticamente ridotti nel 2011-2012, ed è probabile che l’austerità di bilancio colpirà la difesa nei prossimi anni, specie in una situazione di stagnazione economia o bassa crescita. Allo stesso tempo il probabile perdurare della crisi dell’euro terrà l’agenda politica europea concentrata su questioni di politica e governance economico-monetaria. Se tutto ciò avverrà, c’è il fondato rischio che l’Ue abbandoni le sue ambizioni militari rispetto alle missioni internazionali, nonostante gli sforzi dell’Agenzia europea di difesa, limitando il proprio campo di azione alle missioni puramente civili e dimenticando così la lezione faticosamente appresa rispetto alla necessità della cooperazione civile-militare. In questo contesto, l’inserimento nell’agenda del Consiglio europeo di fine 2013 della politica di difesa, su iniziativa peraltro di Italia e Francia, è un’occasione da sfruttare per rilanciare il ruolo Ue quanto a politica estera e di difesa – con un ovvio impatto sulle missioni internazionali. Se l’Ue rimarrà sostanzialmente inattiva quanto a gestione delle crisi esterne e la Nato tenderà verso un ruolo maggiormente globale come voluto dagli Stati Uniti, quali sono le opzioni per l’Italia? Da un lato c’è l’esigenza di concentrare le limitate risorse – militari e politiche – sull’area del Mediterraneo allargato – incluso Nord Africa, Medio Oriente e Corno d’Africa – , perché è la più direttamente collegata agli interessi nazionali. Dall’altro c’è la necessità di rimanere un partner attivo degli Stati Uniti e sullo stesso piano rispetto ai principali paesi europei, anche attraverso impegni in teatri più lontani al fine di mantenere un certo rapporto con gli Usa, lo status in Europa, l’accesso a processi decisionali Nato, e la posizione in ambito

Eventuali crisi come guerre civili, stati falliti o conflitti etnici, non saranno necessariamente gestite dall’Occidente, ma eventualmente dalla potenza regionale di riferimento. Un sorta di rivincita della geopolitica rispetto all’idea di un mondo assolutamente piatto e ridotto a “villaggio globale” Onu. Le missioni internazionali infatti hanno spesso servito e continueranno a servire, in misura diversa, due interessi nazionali diversi ma connessi. Da un lato quello di affrontare una crisi nel Mediterraneo allargato che ha un impatto diretto sugli interessi italiani, come quelle nell’ex Jugoslavia o in Albania – dove l’Italia ha voluto e guidato la missione internazionale Alba – che hanno alimentato instabilità e flusso di traffici illeciti nell’Adriatico. Dall’altro lato quello di avere peso e influenza a livello internazionale rispetto agli alleati e alle organizzazioni di riferimento – Nato, Ue, Onu – acquisendo un capitale politico da spendere su questioni di sicurezza ma non solo: basti pensare alla battaglia per il cambiamento dei seggi del consiglio di Sicurezza in cui l’Italia ha fatto valere come uno dei criteri principali – e suo punto di forza – il contributo alle missioni di peace-keeping Onu, oppure all’assegnazione degli incarichi di vertice in ambito Nato, o alle ricadute per l’industria nazionale della formazione di gruppi di testa nella cooperazione europea nella difesa. Nel futuro scenario delle missioni internazionali, il bilanciamento di questi due interessi continuerà a richiedere da parte della classe dirigente italiana consapevolezza della realtà mondiale e continuità nelle scelte strategiche. 53


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ITALIA

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UN NUOVO MODELLO PER LE MISSIONI DI

CRISTIANO BETTINI

el momento in cui il nostro di risorse vitali quali, acqua, enerPaese si trova immerso, sia gia, terre ad uso agricolo e minepoliticamente che militarrali. Nel mondo occidentale alle mente, in molti teatri di crisi o connuove fragilità legate al cadere di flittuali, caratterizzati da scenari e certezze sulla piena disponibilità dinamiche molto differenti tra lodi questi beni, si somma la più rero, ma con il denominatore comucente crisi finanziaria che pone le ne della distanza dai classici consocietà evolute di fronte a nuovi flitti che hanno segnato il secolo incerti percorsi di crescita. In amscorso, ci interroghiamo su quali bito nazionale, a fronte di risorse siano i metodi migliori per ragioautonome limitate, l’evidenza che L’interesse nazionale nare ed attuare scelte in termini di le fonti di approvvigionamento dell’Italia si muove oggi comprehensive approach, ove si in- in un sistema geopolitico energetico sono quasi tutte in aree globalizzato, dove tegrano nella dimensione geopolidi crisi o dal futuro non scontato, la complessità dei fattori tica tutti i fattori che concorrono a richiede sia processi di cooperaspinge verso politiche definire i più vitali interessi naziozione e scambio internazionale eledi gestione del rischio e la crisi economica nali. Oltre 200 conflitti si sono gevati, sia una riflessione sulle straa una riduzione ragionata nerati nel mondo dal dopoguerra tegie di sicurezza da adottare, poidelle risorse senza alcuna forma declaratoria, ché l’accesso ed il controllo di ponendo in evidenza progressiva sia che è termina- queste risorse diverranno sempre più veri fattori di ta l’epoca nella quale crisi e conflitti si dovevano in potenza per chi li detiene. qualche modo ammantare di ideologie, sia rendendo palese la natura di fondo di ogni conflitto, vuoi Strategie e complessità di natura sociale, demografica o, come più spesso Così, il perimetro degli interessi nazionali si riconfiappare, legata alla scarsità di risorse primarie ed gura dal cosiddetto Mediterraneo allargato, spostanenergetiche. L’aumento demografico e la contestua- dosi più ad Est nell’Eurasia e più a Sud nel continenle ricerca di miglioramento della qualità della vita te africano; qui la fascia ecologicamente critica del Saporterà ad un generalizzato aumento di richiesta di hel, a cavallo del 14° parallelo sud, viene già considebeni e servizi, non corrisposto da pari disponibilità rata la nuova frontiera meridionale dell’Europa per il e fruibilità di risorse. Un recente rapporto della Fao controllo dei flussi migratori e la porosità verso le orprevede che entro il 2050 raddoppierà la richiesta ganizzazioni terroristiche criminali. In questa grande 54


area del globo, ove giocano gli interessi nazionali, il fattore sicurezza non sarà da sostenere solo diplomaticamente e militarmente ma attraverso il sostegno alla governance ed allo sviluppo di stati fragili ma crocevia energetici e con criticità demografiche, sociali, politiche. In questo ampio spazio politico a «N» dimensioni, si svolge già un confronto, più che tra modernità e tradizione, tra sviluppo e marginalità, tra dipendenza e sfruttamento energetico; il confronto tra islamismo militante e scommessa su forme di democrazia possibili nei paesi più islamizzati è parte integrante di questo scenario. Tensioni a lungo latenti sono capaci di innescare fenomeni fortemente dinamici, che presentano subito l’imprevedibilità sugli esiti possibili, tipica delle situazioni complesse, capaci di influire su regioni geopolitiche limitrofe, con allargamenti solo in parte imprevedibili, secondo le logiche del cosiddetto «caos deterministico». È qui che gli strumenti d’analisi strategica classica rischiano di non essere sufficienti per capire per tempo l’evoluzione delle crisi e predisporre uno strumento militare adeguato; si usa aggettivare la costruzione di questo strumento con «flessibile», «agile», «proiettabile», «interoperabile», «multiruolo», «sostenibile», eccetera ma la domanda principale rimane: adeguato a fare cosa? Ad assicurarci da quali rischi? Questi aggettivi non possono infatti rispondere in modo esauriente a queste due domande; domande che si presentano a chi sta da oltre un anno lavorando sull’ampia ristrutturazione dello strumento militare nazionale, volta ad un sensibile contenimento, ma mirata a mantenere elevati i fattori capacitivi e qualitativi, partendo da una situazione di gravame materiale non rapidamente eliminabile per fattori finanziari. Si presenta subito la necessità di un cambio di passo, muovendo da un approccio tradizionale del problema ad uno più dinamico, non basato solo su ipotesi di «minaccia» ma basato sulla «gestione del rischio» associato, con criteri di analisi tipici della «complessità», consapevoli fin dall’inizio che le nostre scelte ed il nostro strumento potranno coprire solo alcune aree di aleatorietà. Molti sono i case study che potremmo utilizzare, ma credo che la recen-


Risk

La fascia ecologicamente critica del Sahel, a cavallo del 14° parallelo sud, viene già considerata la nuova frontiera meridionale dell’Europa per il controllo dei flussi migratori e la porosità verso le organizzazioni terroristiche criminali

te crisi georgiana possa essere paradigmatica perché presenta tutti i connotati di una crisi potenzialmente globale che tale non è stata, anche dal punto di vista militare. Tutti noi ricordiamo la rapida escalation, l’accentramento di forze, il gioco geopolitico e diplomatico: una serie innumerevole di input dinamici, in veloce progressione quasi geometrica; era difficile allora prevederne l’esito, potenzialmente drammatico ed esteso. La «Teoria dei giochi e delle decisioni», ultimo tentativo deterministico, ma ancora statico o lento di giocare alcune scelte e decisioni strategiche, se applicato, risulterebbe inadeguato. Conosciamo come variabili in ingresso apparentemente trascurabili, come nel famoso esperimento di Lorenz, possano in realtà produrre in rapida successione un numero tale di conseguenze possibili e diversificate che nessuno strumento militare potrebbe fronteggiarle tutte adeguatamente. Occorre dunque scegliere già in fase iniziale in uno spettro di possibili soluzioni non tutte soddisfabili. Poiché non ci muoviamo più in sistemi chiusi, né militarmente né economicamente, la globalizzazione ci impone di pensare con la logica dei sistemi aperti. Sappiamo anche che l’irrefrenabile aumento di entropia, insita nei sistemi chiusi, non è tale nei sistemi aperti, come è appunto un sistema geopolitico globalizzato; è indicativo che uno dei primi a parlare di sistemi aperti/chiusi geopolitici sia stato Deng Xiao Ping negli anni Ottanta per traghettare la Cina fuori dal sistema chiuso maoista. Lo ricorda in un volume da poco edito il politologo statuniten56

se Ronald Coase (Coase-Wang, How Cina became Capitalist). Nei primi, oltre certi limiti di criticità, il sistema non è più salvabile e si passa a nuovi ed imprevedibili assetti cosiddetti di «autorganizzazione», con, all’interno, emergenti logiche di intelligenza distribuita; nei secondi, invece un apporto energetico esterno (economico/militare/diplomatico o talora anche solo di comunicazione strategica) ma tempestivo, può ripristinare e stabilizzare il sistema (si parla di neghentropia). Dunque la capacità di capire i segnali iniziali di crisi e la scelta preventiva da quali rischi vogliamo o siamo in grado di assicurarci e quindi di quale strumento disporre, costituiscono il cuore delle decisioni strategiche che la dirigenza militare deve essere preparata a svolgere. È necessario dunque abbandonare od associare oggi ad un esame dei fenomeni di crisi emergenti, svolto con metodi lineari, deterministici e troppo statici, di semplificazione causa-effetto, l’uso di metodi caratteristici dell’analisi dei sistemi dinamici non in equilibrio, ormai molto evoluta; in essi vige una continua interazione tra i parametri in ingresso, che non consente di definire il valore delle incognite del nostro sistema logico; questo, in uno scenario geopolitico, significa non poter prevedere nelle fasi iniziali, in modo affidabile, le soluzioni più adatte tra quelle possibili. Occorre dunque associare al nostro modo di procedere metodi selettivi dettati dall’analisi dei rischi, con valutazioni e calcoli anche a base probabilista, avendo chiaro che lo sviluppo degli eventi procede in modo non lineare nella maggioranza dei casi (la linearità è un artifizio semplificativo), che molti esiti risultano non reversibili e che un continuo feed-back deve caratterizzare il nostro lavoro, con una più spiccata sensibilità e metodologia critica dei fenomeni iniziali delle crisi. È dunque necessario sì un ridimensionamento dello strumento per mantenerne la qualità, ma per indirizzarlo all’efficacia con scelte di requisiti adeguati per i futuri scenari, è necessario un adeguamento dei nostri sistemi e capacità di analisi e gestione delle crisi, anzitutto culturale («adaeguatio rei et intellectus») e quindi anche di formazione.



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SCOZIA

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BRAVEHEART E L’ORO NERO DI

OSVALDO BALDACCI

fida in kilt per il petrolio del za assoluta nel parlamento di EdimMare del Nord. «Siete d’accorburgo per il suo Scottish national pardo sul fatto che la Scozia doty. D’altro canto l’indipendenza sporvrebbe essere un Paese indipendentiva è un dato ormai acclarato: a molte?». Sono a favore del sì Sean Conti sono familiari le nazionali della nery («La prima volta che diedi pubScozia ad esempio nel rugby e nel blicamente il mio appoggio allo Scotcalcio (ed è fallito il tentativo di una tish national party fu più di quarannazionale alle Olimpiadi: dopo le pot’anni fa»), Merida la ribelle protagolemiche di Londra 2012 non si ripenista del nuovo film della Disney-Piterà a Rio 2016). Ma nonostante l’enxar, Mel Gibson (in qualità di Bravetusiasmo e la parata di star vere o di heart, ma comunque un australiano fantasia, e benché il sentimento auche con gli inglesi sembra avere un tonomista in Scozia sia oggi molto Il 2014 sarà un conto aperto, se si considera anche Il appuntamento storico per diffuso, più che nel recente passato, patriota sulla rivoluzione americana), gli scozzesi, oltre al 700mo secondo i sondaggi solo un terzo deanniversario della l’australiano di origine scozzese Rugli elettori sembrerebbe favorevole battaglia di Bannockburn, pert Murdoch (forse per vendetta verall’indipendenza secca. Un chiaridovranno decidere so le inchieste che lo riguardano, ma mento subito: c’è molto romanticisull’indipendenza. Il confronto tra comunque di origine scozzese), masmo in questa disfida, ma ci sono anEdimburgo e Londra gari il celebre romanziere Walter Scott, che diversi risvolti geopolitici e sosi è dunque cominciato l’ultimo Highlander, fors’anche diverprattutto economici: come spesso aca giocare in anticipo si personaggi di Harry Potter, gli attocade, al nocciolo è (anche) una queri Alan Cumming (da 007 a The Mask a The Good Wi- stione di petrolio. La sfida si concretizzerà in un refefe) e Brian Cox (da Manhunter a Matchpoint), la poe- rendum per l’indipendenza indetto da Edimburgo, in tessa Liz Lochead e il musicista Pat Kane. Tutti pron- linea di principio fissato per l’autunno del 2014 e, doti a brindare con lo scotch nello spirito dei miti scoz- po vicende contrastate, accettato formalmente dal gozesi: William Wallace, Robert Bruce, Maria Stuarda, verno britannico lo scorso 15 ottobre. Ma non tutto è Rob Roy MacGregor, spirito ravvivato da colui che il scontato. Non si pensi sia solo una boutade: l’iniziatiTimes ha nominato uomo britannico dell’anno 2011, va dei nazionalisti (maggioranza assoluta al ParlamenAlex Salmond, primo ministro scozzese, il politico pa- to di Edimburgo rinato nel 1999 con ampi poteri di pocato e raffinato che è riuscito a ottenere la maggioran- litica interna) non è puro folklore e ha serie chance di 58


scenari riuscire; non sarebbe il primo nuovo Stato a diventare indipendente in Europa negli ultimi anni. Allo stesso tempo puntare all’indipendenza può essere l’arma per ottenere molto altro in cambio della rinuncia, e su questo torneremo a riflettere. D’altro canto se invece si arriverà allo show-down, per gli scozzesi non è per nulla chiaro se si tratterà di una nuova Bannockburn (la battaglia dell’indipendenza) o invece di una Falkirk (una delle pesanti sconfitte degli highlander da parte degli inglesi). Ed è per questo che la sfida tra Edimburgo e Londra si è cominciata a giocare ben in anticipo sul vero e proprio voto referendario e i primi campi di battaglia sono apparentemente formali, ma in realtà decisivi. Il primo terreno di scontro è appunto quello della data, il secondo quello della formulazione del quesito, il terzo la selezione dei votanti. In quest’ultimo caso il premier scozzese Salmond ha definito dei confini precisi: no a chi abita fuori dalla Scozia, quindi no agli scozzesi dell’emigrazione, forse perché potrebbero aver annacquato il loro patriottismo; sì invece a sedicenni e diciassettenni, fascia di età passionale dove non a caso il nazionalismo è più diffuso e acceso. E su questo punto ha vinto: per la prima volta si voterà a partire dai 16 anni. L’Snp ha poi promosso delle consultazioni per sapere se gli scozzesi vogliono un quesito secco, come chiede Londra «indipendenza sì o no», oppure se sulla scheda possa comparire una terza opzione, quella che chiederebbe un’autonomia enorme, specie in campo economico, in alternativa all’indipendenza piena. Il primo ministro britannico Cameron ha già posto tra le condizioni al referendum quella che l’alternativa sia solo tra l’indipendenza e lo status quo, perché è contrario, come lo è il Parlamento di Westminster, alla «devo-max», cioè l’estrema devolution che darebbe moltissimi poteri a una Scozia ancora britannica, ma praticamente solo di nome. Lo stesso Cameron ha già iniziato la sua campagna di persuasione degli elettori scozzesi promettendo appunto maggiori poteri autonomi alla Scozia se boccerà l’indipendenza, ma il punto è che non vuole precisare quali e ne rimanda la definizione a dopo l’esito del referen-

dum. Che è esattamente quello che gli contestano i nazionalisti scozzesi, cioè il fare vaghe promesse che non è certo saranno mantenute. Loro semmai accetterebbero di trattare se questi poteri venissero definiti subito, e così mostrano di puntare in realtà forse soprattutto alla «devo-max», che consentirebbe loro di gestire maggiormente la fiscalità (non per aumentare le tasse, ma per abbassarle alle imprese rispetto all’Inghilterra, in modo da attrarre gli investimenti) ma soprattutto di ottenere maggiori introiti dall’estrazione del petrolio.

Lo Scottish national party formalmente era con-

tro la terza alternativa, puntando deciso all’indipendenza. Poteva essere un calcolo politico. Da una parte sfruttare fino in fondo l’ondata di entusiasmo nazionalista e indipendentista senza smorzarlo già in partenza con compromessi burocratici. Dall’altra vedere fino a che punto si può tirare la corda per mettere Londra alle strette e avere più forza contrattuale. Dall’altra ancora, infine, verificare se per caso, una volta innestata la marcia, la meta dell’indipendenza non finisca per essere davvero raggiungibile. Però la domanda secca la voleva anche Londra, soprattutto Londra, e quindi sarà così e in fondo porre gli elettori di fronte a un’alternativa chiara si può al momento considerare un vantaggio per gli unionisti. E giocherà un ruolo importante anche il terzo elemento formale su cui c’è stato contrasto con Londra: la data. Cameron avrebbe voluto che il referendum si fosse tenuto al più presto, praticamente entro il 2013. La motivazione invocata è che i mercati non possono restare più a lungo appesi ai destini futuri della Scozia e della Gran Bretagna. Ma c’è anche l’obiettivo di spingere nell’angolo gli scozzesi: dite sì o no e ditelo subito. Per questo Londra ha comunque ottenuto come limite temporale entro cui tenere il referendum il 2014 e non oltre. La speranza era che il timore dell’incertezza favorisse il no alla secessione – e infatti gli attuali sondaggi indicano questa direzione – ponendo un serio freno alle ambizioni di Salmond e dei suoi. I quali hanno fissato per l’autunno del 2014 la data della consultazione, 59


Risk

La sfida si concretizzerà in un referendum per l’indipendenza indetto da Edimburgo, in linea di principio fissato per l’autunno del 2014 e, dopo vicende contrastate, accettato formalmente dal governo britannico lo scorso 15 ottobre

e non l’hanno fatto a caso. Anche qui il motivo formale era che questo periodo era quello promesso in campagna elettorale, e che la scelta è così importante, di portata storica, da meritare tutto il tempo per essere approfondita, valutata e ponderata da parte degli scozzesi. I quali nel frattempo devono anche decidere sulle questioni discusse poco sopra, cioè la platea degli elettori e la scelta dei quesiti. Anche qui in realtà c’è una strategia politica: Salmond vuole avere il tempo di far maturare ulteriormente lo spirito nazionalistico, affiancandogli elementi economici e politici che convincano gli scozzesi. E non è un caso se a giugno 2014 cade il 700° anniversario della battaglia di Bannockburn (23-24 giugno 1314) nella quale Robert Bruce con 8.500 scozzesi sconfisse un preponderante esercito inglese di 27mila armati conquistando così l’indipendenza della Scozia e la sua corona. Un bel volano propagandistico. D’altro canto la storia della Scozia e della sua unione con la Gran Bretagna è lunga e travagliata, ben oltre i film di grande incasso. La divisione precede era la Britannia romana e la Caledonia separate dal celeberrimo Vallo di Adriano. Anche in epoca altomedievale le lotte fra clan e fra potentati locali ha comunque vissuto momenti di contrapposizione nordsud all’epoca dei sassoni e del Regno di Alba (una curiosità: gli eponimi scoti sono di origine irlandese). Nel 1265 la Scozia viene conquistata da Enrico II Plantageneto, poi seguono gli anni di William Wallace e Robert Bruce. La lotta scozzese per l’autonomia e l’identità nazionale si forma in quegli anni e come terminus a quo si fa riferimento alla dichiarazione di Arbroath 60

(1320) con la quale un gruppo di nobili scozzesi chiese al Papa a nome dell’intera comunità di appoggiare l’indipendenza della Scozia. In seguito tornò per breve tempo il dominio inglese, ma con la dinastia degli Stuart, la Scozia guadagnò “definitivamente” l’indipendenza. Fino a Maria Stuarda, che fu decapitata, e a Elisabetta I che morì senza figli, lasciando la corona di Inghilterra al nuovo re di Scozia Giacomo. E qui la storia vive un paradosso: la vera unione tra Inghilterra e Scozia avviene grazie a un re scozzese, che però si trasferì subito a Londra, nel 1603. È da allora che i due paesi sono uniti, nonostante le ulteriori vicende del XVII e XVIII secolo, cioè la guerra civile inglese e poi la ribellione giacobita naufragata nella battaglia di Culloden. Nel 1707 intanto c’era stata la nascita ufficiale della Gran Bretagna, con l’Atto di Unione, trattato tra due Stati indipendenti in cui la Scozia rinunciava al suo Parlamento in cambio di favorevoli condizioni economiche, della conservazione di importanti aspetti del diritto scozzese e del riconoscimento della supremazia della Chiesa di Scozia nella sua forma presbiteriana, e i regni di Scozia e d’Inghilterra si riunificavano come uno Stato e due nazioni. Fino alla rinascita del Parlamento scozzese con l’autonomia del 1997. E ora il referendum. Il conservatore Cameron (non nato in Scozia, ma discendente diretto da un antico clan scozzese di Inverness), i laburisti di Milliband (tra l’altro sia Tony Blair che Gordon Brown sono nati in Scozia) e i liberali di Clegg si sono uniti per tuonare contro l’indipendenza e hanno lanciato una contro iniziativa di propaganda sotto un comitato unico che hanno chiamato «Better together», (meglio insieme), riferendosi ovviamente alla Gran Bretagna e non alle loro parti politiche. Miliband e Cameron hanno dichiarato che Inghilterra e Scozia sono «più forti se unite, più deboli se separate». «Il Regno Unito non è un accordo banale che può ridursi a un minimo comune denominatore. È una cosa preziosa. È la nostra storia, i nostri valori, la nostra identità condivisa e il nostro comune posto nel mondo», ha detto Cameron dicendosi «pronto a combattere (politicamente, ndr) per l’unità del nostro paese». Insomma, siamo in un momento caldo, e Sal-


mond già da maggio scorso ha aperto ufficialmente la sua campagna, dopo che almeno da gennaio aveva messo formalmente al centro del dibattito scozzese questo tema. «L’indipendenza aiuterà la Scozia ad essere una nazione più ricca e più giusta», ha proclamato Salmond, immaginando un Paese che «parla con la propria voce, sta a testa alta nel mondo e si assume le responsabilità del suo futuro». «Vogliamo una Scozia più verde (i verdi scozzesi sono schierati per il sì all’indipendenza, ndr), più giusta e più prospera – ha detto Salmond lanciando il referendum – Per raggiungere questi scopi dobbiamo essere indipendenti». «Voglio che la Scozia diventi indipendente, non perché pensi che sia un Paese migliore di tutti gli altri, ma perché credo che sia altrettanto buono come tutti gli altri. Vogliamo tornare a far parte della grande famiglia delle nazioni», ha sottolineato il leader nazionalista che ha spiegato: «L’Onu aveva 50 paesi membri alla sua fondazione nel 1945, ne ha quasi 200 oggi. E gli ultimi 10 paesi che si sono uniti all’Unione europea hanno quasi tutti ottenuto l’indipendenza soltanto negli anni Novanta.

La Scozia è piccola, ma è più grande di sei di quei

dieci paesi. Il viaggio della Scozia, il viaggio della nostra patria, fa chiaramente parte di un più vasto trend internazionale. È nello stato naturale delle genti e delle nazioni. Non essere indipendenti è l’eccezione». Argomenti difficili da contestare. E infatti Cameron e gli unionisti puntano su altre problematiche per criticare l’opportunità dell’indipendenza scozzese. Quelle geopolitiche, intanto: «Il seggio in Consiglio, la membership nell’Unione europea, la nostra leadership nella Nato, il nostro deterrente nucleare, le nostre forze armate, sono tutte cose che appartengono al Regno unito nel suo insieme», ha affermato Cameron. Problemi non da poco (la Gran bretagna all’Onu è membro permanente del Consiglio di sicurezza e dispone di diritto di veto) la cui soluzione non è stata indicata nel caso di fuoriuscita della Scozia dal Regno unito. Il laburista Milliband dal canto suo ha sollevato il problema che la Scozia sarebbe fuori dall’Unione europea e dovrebbe ricominciare da capo i negoziati per l’adesione, «con tutti i 35 capitoli, riga per riga». Su


alcun i temi per l a verità

Salmond ha lasciato intravedere la strada: l’assemblea del suo partito ha votato contro le armi nucleari e persino il transito dei sottomarini atomici, per quanto riguarda gli aspetti militari ha contestato come illegali le guerre in Afghanistan e Iraq, ha tenuto le porte aperte all’Unione Europea. Anche su alcuni aspetti istituzionali lo Scottish national party non vuole estremizzare le provocazioni, anzi semmai cerca di trarre il meglio a proprio vantaggio: per Salmond non ci sarebbero problemi a mantenere la regina di Inghilterra come capo di Stato (lo è anche di Canada e Australia) e della Chiesa di Scozia, «vogliamo avere un’unione sociale alla pari con le altre parti di queste isole». Per altro la famiglia reale non è malvista in Scozia: il giubileo di Elisabetta è stato apprezzato, e la banca scozzese ha emesso una banconota per celebrare la regina; William e Kate sono stati nominati Cavalieri del Cardo, antica onorificenza scozzese; il principe Carlo ha suscitato grandi entusiasmi ad agosto partecipando agli Highlanders Game invece che presenziare alle Olimpiadi. Ma come dicevamo il cuor della questione è tutto economico. Intanto c’è la questione della moneta, su cui i conservatori avanzano i dubbi: «La Scozia manterrebbe la sterlina? E se sì, come funzionerebbe? O si unirebbe all’euro?». Anche su questo i nazionalisti vorrebbero il massimo vantaggio col minimo sforzo: loro sono per mantenere la sterlina sotto la Banca d’Inghilterra. Ma non si può avere tutto unilateralmente, e così molte cose sarebbero da vedere. Poi c’è la combattuta questione del bilancio scozzese. Cameron ha ricordato che uscendo dall’unione la Scozia si troverebbe con un sistema bancario «sfilacciato», riferendosi alle sorti della Royal bank of Scotland (RbS), l’istituto bancario con sede a Edimburgo nazionalizzato da Londra allo scoppiare dell’attuale crisi. Ma c’è anche un altro macigno molto controverso: la questione del deficit e del debito pubblico. La Scozia si dovrebbe accollare una parte del debito del Regno Unito. «Ci sono accordi precisi e ci saranno ulteriori confronti», risponde Salmond a chi gli chiede del debito. Secondo uno studio dell’organizzazione Taxpayer Scotland, uno Stato scozzese indipendente potrebbe ritrovarsi con un debito di 270 miliardi di sterline (circa 300 miliardi di


scenari euro), pari a oltre il doppio del pil (ricordiamo che le regole dell’euro prevedono un massimo di 103 per cento di debito e i recenti impegni lo riducono a 60). Inoltre anche considerando i ricavi petroliferi (abbondanti ma volatili) la Scozia spenderebbe attualmente circa 10 miliardi di euro all’anno più di quanto incassi. Si aggiunga che parte integrante del programma dell’Snp (che a dispetto del nazionalismo è un partito liberale di centro-sinistra), una Scozia indipendente si proporrebbe di diminuire le entrate (un fisco più favorevole alle aziende per attrarre investimenti) e di aumentare le spese (Salmond critica la riforma del welfare in Inghilterra e promette università e sanità gratuite). Per i nazionalisti la Scozia sarebbe perfettamente in grado di sostenersi economicamente, e citano uno studio britannico del 1975 tenuto nascosto fino al 2005 (con grande indignazione degli scozzesi) che sosteneva questo punto di vista. Negli ultimi 5 anni, una Scozia indipendente, con pieno controllo dei proventi del gas e del petrolio, avrebbe avuto un avanzo primario di 7,5 miliardi di sterline, ha sostenuto il premier scozzese in un’intervista. Secondo quanto ha affermato Salmond, la Scozia ha il sesto prodotto interno lordo del pianeta, è ricca di risorse naturali, esporta whisky. Molto ruota attorno al petrolio scoperto nel 1969, ai cui proventi i nazionalisti puntano.

La Scozia per convenzione internazionale ha

la giurisdizione sul greggio e sul gas al di sopra del 55esimo parallelo. In base ai confini impiegati attualmente per delimitare le zone di pesca scozzesi e quelle inglesi, il 95 per cento del petrolio e il 58 per cento del gas (2010), andrebbero alla Scozia. In queste settimane molti esperti si stanno esercitando su questi calcoli. Dal 2005 al 2010, i proventi derivanti dal petrolio e dal gas hanno inciso in percentuali variabili dal 6,8 per cento al 10,8 per cento sull’economia scozzese, mentre Salmond chiede autonomia fiscale e soprattutto il 90 per cento dei ricchi introiti dalle risorse del Mare del Nord. Nell’anno fiscale 2008-2009, quando i prezzi del petrolio raggiunsero cifre record, i proventi fiscali del petrolio del Mare del Nord ammontarono

Cameron ha già iniziato la sua campagna di persuasione degli elettori scozzesi promettendo appunto maggiori poteri autonomi alla Scozia se boccerà l’indipendenza a 12,9 miliardi di sterline, prima di crollare di circa la metà (6,5 miliardi) l’anno successivo e poi risalire a 8,8 miliardi di sterline nel 2010-2011. Inoltre, la produzione petrolifera britannica, secondo i dati del dipartimento dell’Energia, si è più che dimezzata tra il 1999, (anno della massima produzione) e il 2010. Altri calcoli dicono che anche in base al 90 per cento dei proventi del petrolio e del gas, la Scozia avrebbe ricevuto l’equivalente del 36 per cento del budget del governo scozzese, budget allocato dal tesoro britannico e che ammonta a circa il 60 per cento di tutta la spesa pubblica in Scozia. Su queste basi, i proventi del petrolio coprirebbero solo il 21 per cento della spesa, e non la spesa per la sanità e gli enti locali. Insomma, il petrolio è un elemento centrale di questa disputa, ma rischia anche di essere sopravvalutato. Anche perché l’indipendenza scozzese potrebbe trascinare altre complicazioni. Se è vero, ad esempio, che essa potrebbe servire da modello ad altre realtà compresi il Galles e l’Irlanda del Nord con tutti i problemi conseguenti, e se è vero che già l’Isola di Jersey ha minacciato l’indipendenza dal Regno se non saranno mantenuti intatti i suoi privilegi fiscali, è altrettanto vero che la stessa Scozia rischia di essere pugnalata alle spalle. Questa complicazione per Edimburgo si chiama Isole Shetland. Le isole “vichinghe” si sentono più affini alla Scandinavia nonostante appartengano alla Scozia dal XV secolo, e un movimento indipendentista è già attivo da alcuni anni. Il punto è che se gli abitanti sono appena 22 mila, le isole però controllano una buona fetta di quei giacimenti di idrocarburi di cui tanto si discute e senza i quali la Scozia ha ben poche possibilità di farcela. 63


lo scacchiere

E

Europa /l’unione fuori casa

La politica estera di Bruxelles tra crisi, tagli e perdita d’ambizioni DI ALESSANDRO MARRONE

ppur si muove. L’Europa dal 2011 è totalmente presa dal vortice della crisi dell’euro, in gran parte causata proprio dall’iniziale incapacità europea di fronteggiare una crisi finanziaria nata in America e una speculazione internazionale contro la moneta unica. Eppure qualcuno sembra accorgersi che l’Unione europea non può lasciar perdere il suo instabile vicinato e i cambiamenti in corso a livello globale, in altre parole la sua proiezione esterna, finché dura la crisi dell’euro. Anche perché l’azione esterna dell’Ue – basti pensare a poli-

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tica energetica, politica commerciale, partnership, gestione dei flussi migratori, ecc – ha un impatto, positivo o negativo, sull’economia europea oltre che sulla sicurezza dell’Unione. Aldilà delle vaghe dichiarazioni di intenti approvate dal consiglio Affari esteri Ue a luglio 2012, lo scorso settembre i ministri degli Esteri di undici paesi europei – Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Germania, Lussemburgo, Olanda, Polonia, Portogallo e Spagna – hanno presentato un documento sul futuro dell’Europa che propone idee ambiziose rispetto sia alla governance economica della zona euro sia al funzionamento dell’Ue. Idee quali l’elezione diretta del presidente della Commissione europea che diventerebbe a tutti gli effetti capo di un governo dell’Unione, e pieni poteri legislativi al Parlamento europeo. La ratio politica del rapporto sembra essere l’affermazione dell’obiettivo di lungo periodo della piena integrazione politica dell’Europa, che non è condiviso da tutti i maggiori paesi Ue – in primis Gran Bretagna – e non è attuabile nei prossimi anni, ma che rimane come stella polare per le decisioni degli undici ministri firmatari del documento. Ministri che, stranamente, affermano di esprimersi sulla loro competenza di politica estera «a titolo personale». Lo scorso novembre poi i ministri degli Esteri e della Difesa di Francia, Germania, Italia, Polonia e Spagna, hanno approvato a Parigi una dichiarazione sulla necessità di rafforzare una


scacchiere «ambiziosa» politica estera e di difesa dell’Unione. Il documento propone diverse misure concrete, dalla costruzione di strutture permanenti per la pianificazione e condotta di «crisis management operations» Ue, sia civili che militari, al coordinamento dei programmi di ricerca europei per sostenere tecnologie dual-use e l’industria europea della difesa, al pooling&sharing di determinate capacità militari tra i paesi membri, alle operazioni Ue in corso in Afghanistan, Corno d’Africa e Georgia. Traguardo, e in parte motore, del rinnovato interesse politico per l’azione esterna dell’Unione è il Consiglio europeo dei capi di stato e di governo di fine 2013, che grazie all’impulso dato nei mesi scorsi da Italia e Francia ha inserito in agenda proprio la politica estera e di difesa dell’Ue. Nel 2013 è anche prevista una revisione del Servizio europeo di Azione esterna, in potenza un efficace strumento a disposizione della proiezione globale dell’Unione che però non ha realizzato le sue potenzialità sotto la debole guida dell’attuale Alto rappresentante Ue. Infine, nel 2013 la European security strategy approvata dall’Unione all’indomani della guerra in Iraq, sotto la forte guida del precedente Alto rappresentante, compirà dieci anni: nessuna strategia, neanche la migliore, può rimanere valida e utile dopo un decennio nel mondo contemporaneo perennemente, rapidamente e confusamente in cambiamento. Anche per questi motivi, i governi di Italia, Polonia, Spagna e Svezia hanno lanciato a luglio 2012 l’idea di elaborare una nuova European global strategy. Una nuova strategia che, guardando anche ai cambiamenti in corso, fornisca linee guida per l’utilizzo dell’intero set di strumenti a disposizione dell’azione esterna dell’Ue – strumenti diplomatici, capacità militari e civili per la gestione delle crisi, aiuto allo sviluppo, assistenza umanitaria, politica commer-

ciale, ecc – al fine di promuovere e difendere i valori e gli interessi europei. Sul piano accademico il processo di elaborazione di un rapporto sulla nuova European global strategy è stato affidato a quattro think tank dei quattro paesi promotori – lo Iai in Italia – mentre sul piano politico il processo diplomatico europeo segue le proprie dinamiche. La politica estera e di difesa dell’Ue ha vissuto tre anni di stallo nonostante gli strumenti istituzionali e le potenzialità messe a disposizione dal Trattato di Lisbona. L’Europa rischia di perdere preziose capacità militari a causa dei tagli scoordinati ai bilanci nazionali della difesa, e l’Ue corre il forte pericolo di perdere qualsiasi ambizione in fatto di gestione delle crisi esterne a causa della crisi economica interna. Quanto i documenti approvati e quelli in fase di elaborazione potranno contribuire a superare lo stallo e ad evitare tali rischi rimane tutto da vedere. Eppur si muove.

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Risk

Americhe/middle class, sindacati e la Kirchner

L’

Argentina in bilico tra crisi economica e tentazioni peroniste DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

8 e il 20 novembre 2012 saranno ricordati a lungo in Argentina. Sono le date di due manifestazioni molto diverse tra loro, contro il governo di Cristina Fernández de Kirchner. La prima ha visto quasi un milione di persone scendere spontaneamente in piazza con pentole e coperchi per rivendicare più sicurezza pubblica, meno inflazione e il rifiuto di una seconda ri-elezione che manterrebbe la Kirchner al potere fino al 2019. Era la classe media urbana, stanca dei toni autoritari e della continua ingerenza del governo nell’economia nazionale. La seconda è stata organizzata da frange del sindacalismo dissidente, organizzazioni di diversi settori e gruppi della sinistra estrema, che hanno bloccato i principali accessi a Buenos Aires e a numerose altre città. Nessun corteo questa volta, solo le immagini un po’ surreali delle tangenziali e del centro della capitale deserti, a mostrare il livello di adesione allo sciopero. L’obiettivo era l’aumento del salario minimo imponibile per l’imposta sul reddito, l’aumento delle pensioni, maggiori bonus per i figli a carico, per tenere testa ad un’inflazione che viaggia attorno al 25 per cento all’anno. È stato il primo sciopero generale dal 2003, anno d’inizio dell’era Kirchner. A tre anni dalla fine del secondo mandato e con la possibilità di puntare ad un terzo nel 2015 previa modifica della Costituzione, Cristina Kirchner ha minimizzato entrambe le proteste e prosegue imperturbabile nell’implementazione del suo modello. L’Argentina di questi anni è un aereo con quattro motori: il settore agro-esportatore, principale fonte di divisa; la crescita del Brasile, grande mercato e fonte di investimenti; la spesa pubblica; l’emissione di moneta. Se le piogge saranno buone e il Brasile continuerà la sua corsa, l’aereo continuerà a volare, si pensa. Dal 2007-2008 il paese sudamericano si è trasformato tuttavia in un’economia chiusa. Undici anni dopo

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il default, ci sono ancora 40 miliardi di dollari in moratoria nei confronti dei risparmiatori privati, del Club di Parigi e di alcune imprese nazionalizzate, tra cui la spagnola Repsol. I beni argentini all’estero sono a rischio d’embargo, come è il caso della nave scuola «Libertad» bloccata dal 2 ottobre nel porto di Tema, in Ghana. Non potendo indebitarsi in dollari sulle piazze internazionali, per pagare il debito in scadenza si attinge alle riserve della Banca Centrale. Il deficit fiscale, alimentato dall’alta spesa pubblica, è coperto con emissione monetaria. Per evitare la fuga di capitali e l’apprezzamento del dollaro, poi, il governo ha imposto restrizioni all’acquisto di valuta straniera. Una misura efficace, ma che ha provocato il congelamento del settore immobiliare e creato un mercato cambiario parallelo. L’equazione è semplice: le esportazioni permettono l’entrata di dollari, che compensano la diminuzione delle riserve della Banca Centrale; la spesa pubblica assicura i suffragi elettorali; l’aumento della massa monetaria stimola il consumo di beni nazionali. La contropartita è che gli investimenti stranieri si riducono, le aziende ex-privatizzate e poi nazionalizzate (Aerolineas Argentinas, Ypf) hanno pochi capitali e molti debiti, il ritardo nelle infrastrutture toglie competitività al paese, il credito bancario è quasi assente e le province dipendono sempre più dai finanziamenti discrezionali del governo centrale. Gigante agricolo e promessa mineraria ed energetica, l’Argentina è un «paria» del sistema finanziario internazionale e un paese dove investire diventa sempre più complicato. L’opposizione politica è frammentata e non sembra in grado di costruire un’alternativa alla macchina kirchnerista. I giochi sono tutti interni alla galassia peronista, ed è in questo contesto che la ribellione di una metà del sindacalismo nazionale può aprire scenari inediti, in vista delle elezioni legislative di metà mandato del 2013.


scacchiere

Africa / mali e congo, peccati d’Occidente

L

Governi centrali deboli e responsabilità internazionali alla radice delle crisi DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

e crisi che si stanno verificando in Mali e Repubblica democratica del Congo (RdC), seppur di diversa natura, dimostrano chiaramente le debolezze dei rispettivi governi centrali, i tentennamenti delle organizzazioni regionali, ma soprattutto mettono in luce l’incapacità della comunità internazionale nel dare un contributo concreto alla risoluzione dei problemi locali ed evidenziano la sovrapposizione degli interessi di attori terzi. Il supporto garantito per anni da Usa ed Europa a presidenti come Amadou Toumani Tourè e Joseph Kabila, senza critiche costruttive, solo perché apparentemente garantivano la stabilità e la democrazia o perché permettevano alle multinazionali occidentali di sfruttare le risorse minerarie nazionali, ha aggravato le insofferenze delle popolazioni di aree periferiche mal collegate con il centro del Paese. Le richieste dei Touareg di ritagliare un proprio territorio indipendente nelle regioni nordorientali maliane (Azawad) non sono nate dal nulla, ma da secoli di tradizioni e culture sedimentate in zone specifiche; le rivendicazioni di movimenti ribelli nei territori congolesi a confine con il Rwanda affondano le loro radici in politiche irresponsabili dell’ultimo secolo che hanno elargito la cittadinanza agli stranieri a fasi alterne e secondo le necessità di chi gestiva il potere pro tempore (il riferimento è ai colonizzatori belgi e alle scelte avallate dal regime di Joseph Mobutu). Sfortunatamente, tali istanze sono state sottovalutate per lunghi anni e sono state prese in considerazione dai player occidentali solo quando hanno messo a repentaglio i propri interessi. Da un lato preoccupa lo spettro del terrorismo internazionale - vale a dire l’alleanza del Mouvement national pour la libération de l’Azawad con i gruppi jihadisti di Ansar Dine e del Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest)dall’altro una pericolosa instabilità nella Regione centrale africana dei Grandi Laghi che potrebbe avere ripercussioni sulle industrie nazionali di alta tecnologia (per

via del coltan) e potrebbe causare una nuova emergenza umanitaria. In tale contesto, ci sono tre elementi in comune tra i due casi presi in esame, che sarà bene non sottovalutare per il prossimo futuro. Il primo riguarda la formazione di forze armate africane incapaci di gestire le sfide del territorio, sottopagate o non pagate addirittura per lunghi mesi, non motivate, non rispettose della catena di comando, non addestrate e non munite di armi appropriate. Induce a riflettere la posizione del capitano Amadou Sanogo che ha guidato il golpe militare nel marzo scorso a Bamako e che continua a rimanere nell’ombra a distanza di mesi, ma ancor di più la destituzione del capo di Stato maggiore dell’Esercito congolese, il generale Amisi Kumba, accusato di aver venduto munizioni ed armi ai ribelli che seminano terrore nell’est del paese e di essere a capo di una rete per la vendita illegale di avorio e risorse naturali. Il secondo riguarda la debolezza delle organizzazioni regionali africane, che spesso si dimostrano scatole vuote o comunque non riescono ad implementare iniziative assunte in sede collegiale. La Communauté economique des Etats de l’Afrique de l’Ouest e la Conférence internationale sur la Région des Grands Lacs hanno tentennato nelle proposte e si sono limitate a proporre un invio di uomini o una forza neutrale che comunque richiederanno tempo per il loro dispiegamento. Solo loro responsabilità? No di certo. C’è da chiedersi infatti perché l’African Union non abbia messo subito in campo la cosiddetta African standby force, promossa diversi anni fa con grande clamore proprio per gestire in tempi rapidi situazioni di crisi. Il terzo fattore riguarda l’inefficienza mostrata ancora una volta dai donatori internazionali che si ostinano a voler gestire piuttosto che a risolvere le cause dei gravi problemi africani. Se ciò non bastasse, tali attori pretendono di non influire sulle scelte locali, ma poi vi incidono profondamente (nello specifico, il riferimento è al sostegno mostrato da Usa e Regno Unito a Rwanda e Uganda) 67


La storia

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Carlo Catinelli, la questione italiana pensata altrimenti di Virgilio Ilari

hi la dura la vince. Il mese scorso, rio, rubizzo… trovamela tu, colto lettore, la parola dopo vent’anni di diplomazia rinfor- giusta per «muso alla Tominz»! zata, ho finalmente potuto incollare Forestiero è invece il tipo fisiognomico schizzato a sulla porta della mia privacy, appo- punta di piombo (nel 1816) da Jean Auguste Domisitamente ridipinta di bianco, una fo- nique Ingres (1780-1867) ed esposto nella pinacotetocopia a colori del celeberrimo au- ca provinciale di Gorizia. Lì ne menano gran vanto: toritratto (1825) di Giuseppe Tominz (1790-1866) che ma perché non possono permettersi la Grande Odasi può ammirare al Civico museo Rivoltella di Trie- lisque (1814), non per il personaggio ritratto. «Cati ste e che fu dipinto in origine per rivestire la nuda ta- …chi?» risposero infatti Fabio e Adriano, quando provola lignea che dava adito al suo recesso. Il peana del- posi di sperperare il provento del best seller su John la buona digestione, la posa elegante, il Boyd (il profeta dell’Ooda loop che ha sorriso cordiale, l’ammiccante sospetto umiliato il rozzo veni vidi vici cesariano) sulla reale funzione dei guanti, sono per finanziare la ristampa dell’insignifiun’icona di quella che doveva essere la cante volumetto pubblicato nel 1858 da felice Gorizia di Francesco II. Da TrieGiovanni Paternolli (la Druck und Verlag ste a Cividale ormai è un’unica conurvon Paternolli, poi Stabilimento tipograbazione. Ma le facce mutano ogni venfico Paternolli, durò giusto un secolo, dal ti chilometri e sono proprio certi ultimi 1837 al 1937; poi più nulla fino al 1982, «musi alla Tominz» a marcare l’ex conquando fu felicemente fondata la Libretea asburgica su cui quattro secoli fa si ria Editrice Goriziana). Quando Ingres gli scornarono gli eretici olandesi al soldo fece il ritratto (Hans Naef, Die BildniszeiJohn Boyd, military strategist veneziano. Arguto, impertinente, bonachnungen von J.-A.-D. Ingres, Band 2, (1927-1997) 68


Giuseppe Tominz, Autoritratto

Jean Auguste Dominique Ingres (Montauban, 1780-1867)

Benteli, 1980, pp. 48-57) Carlo Catinelli aveva tren- zherzog Josef), poi come capitano di stato maggiore tasei anni, vissuti intensamente [v. online la voce nel e del genio (impiegato per rilievi topografici e lavori Dizionario Biografico degli Italiani (22, 1979, Sergio di fortificazione campale) e infine come maggiore del Cella)]. Catturato dalla matita, lo sguardo ci rende il reggimento di stanza a Gorizia (IR Nr. 13 Freiherr mite disincanto di chi, orripilato dai cuori del secolo, Reisky). Distintosi a Marengo, subì in seguito due s’era illuso di trovare una mente tra i reazionari; ep- gravissime ferite (nel 1803 in un incidente e nel 1805 pure la bocca accenna un sorriso ancora operoso. nella battaglia di Caldiero) che lo costrinsero a lunOriundo modenese, una vaga rassomiglianza con Ales- ghi periodi di convalescenza (di cui approfittò per risandro Manzoni, era nato a Gorizia (1780) e il tede- prendere gli studi e scrivere una monografia su Masco l’aveva imparato dai serviti a Gradisca. Dopo il rengo) e ad un primo pensionamento (1807). Distinginnasio voleva studiare fisica, tosi ancora nel 1809 a RatisboPersonaggio “contro” ma arrivò a Vienna sedicenne, na, Eckmühl e Abensberg, nel quando la priorità era arruolarsi della narrativa ufficiale 1810 Catinelli dovette essere linel corpo franco universitario cenziato come tutti gli ufficiali che portò all’Unità per difendere la capitale minacoriundi dei territori annessi ald’Italia, ingegnere ciata da Bonaparte; e gli studi li militare antinapoleonico l’impero francese a seguito delcontinuò da militare, all’Accala pace di Vienna. e antirisorgimentale demia degli ingegneri. CombatMolti di costoro fecero allora la era convinto che per té poi in Italia nel 1799-1801, scelta imitata due anni dopo da fare l’Italia si volesse 1805 e 1809, prima come tenenClausewitz e da un quarto degli disfare l’Europa te in un reggimento vallone di ufficiali prussiani, e cioè di abnuova formazione (IR Nr. 63 Erbandonare il proprio sovrano co69


Lord William Cavendish Bentinck (1774-1839)

Un secolo e mezzo di editoria goriziana: da Carlo Cartinelli a John Boyd

stretto all’appeasement e passare al servizio di chi continuava a combattere contro l’oppressore. I prussiani passarono coi russi, gli austro-italiani con gli inglesi. Catinelli e gli altri raggiunsero Malta via Durazzo e Lissa, e formarono, con colleghi sabaudi e borbonici, i quadri dell’Italian levy, l’unico dei «Foreign Corps in British Pay» delle guerre napoleoniche che (a differenza del Calabrian Free Corps e del Sicilian Regiment) non figura nell’Army List. Questa legione fantasma, ideata dal generale savoiardo Vittorio Amedeo Ferdinando Sallier de la Tour (17731858), fu formata a Cagliari e a Palermo nel 1812 da Lord William Cavendish Bentinck (1774-1839), comandante in capo del Mediterraneo e sponsor dei gattopardi siciliani, allo scopo di sollevare la Penisola Italiana e “fottere” il suo odiato rivale Arthur Wellesley, futuro Lord Wellington (1769-1852), che dal Portogallo stava ricacciando Boney oltre i Pirenei. L’intricatissima spy story dei tre reggimenti italiani in giacca rossa (167 ufficiali, di cui 109 italiani, e tremila uomini reclutati tra gli esuberi delle truppe sarde e siciliane e tra gli italiani che avevano disertato in Spagna dalle truppe napoleoniche), sepolta tra le covert operation per odio settario sublimato col tempo in crassa ignoranza, l’abbiamo disseppellita «Guido e Lapo ed io» (v. online Lord Bentinck’s Italian Army). Inizialmente Bentinck li usò nel suo fallito tentativo di aprire un secondo fronte sulla costa me70

diterranea della Spagna, e Catinelli, secondo dopo La Tour alla testa della legione, diresse l’attacco a San Felipe e partecipò alla battaglia di Castalla e all’assedio di Tarragona. Tornato sconfitto in Sicilia, nell’estate del 1813 Bentinck cominciò a negoziare la pace separata con Murat e a pianificare la sollevazione dell’Italia centrale contro Napoleone, cercando anzitutto di impadronirsi della futura Linea Gotica con sbarchi simultanei dal Medio Tirreno e dall’Alto Adriatico. I tempi erano maturi. La plutocrazia italiana, che tutto doveva a Napoleone, era pronta a buttarlo a mare. Arricchita dal saccheggio dei beni nazionali e delle forniture militari e garantita dalla gendarmeria e dal Code civil, era però rovinata dal protezionismo doganale dell’Esagono e dal blocco continentale follemente proclamato dall’assediato, il cui unico effetto era stato di inondare la Festung Europa di merci, agenti e gazzette inglesi e di risucchiare i capitali nei floridi empori di Ponza, Malta e Lissa santuarizzati dalla flotta nemica. Il progetto dei due sbarchi convergenti era stato concordato con Laval Nugent von Westmeath (1777-1862), un oriundo irlandese maestro di incursioni a lungo raggio sulle retrovie nemiche, che a Caldiero aveva salvato la vita all’amico Catinelli e che aveva appena liberato Istria e Dalmazia. Il 13 novembre, mentre Napoleone cercava di tenere il Reno e i Pirenei, e il viceré d’Italia l’Adige, Nugent sbarcò a Comacchio con 3mila croati, ungheresi e an-


glo-svizzeri puntando su Ferrara e Rovigo e il 10 dicembre lanciò da Ravenna un proclama in cui spiegava agli italiani che le armi alleate erano «venute a liberarli» e a farli «divenire una nazione indipendente», «un nuovo Regno indipendente d’Italia». Lo stesso giorno Catinelli sbarcò a Viareggio con mille uomini del 3rd Italian levy, per «arborer sur la côte occidentale d’Italie l’étendard italien» e installarsi nell’Alta Valle del Serchio, nido di insorti e disertori. Ma banchieri lucchesi e commercianti livornesi gli opposero lo stesso frustrante «attendismo» sperimentato centotrent’anni dopo dai partigiani: perché correre rischi, visto che il tiranno aveva i giorni contati? Dopo una scaramuccia sotto le mura di Livorno, Catinelli si reimbarcò. Le forze franco-italiane resistettero valorosamente altri quattro mesi sul Mincio e sul Po, punzecchiate alle spalle dal titubante voltafaccia murattiano. Sbarcato il 20 febbraio 1814 a Livorno col corpo anglo-siciliano, il 13 marzo Bentinck lanciò da lì un proclama ai «guerrieri dell’Italia» invitandoli a «far valere i propri diritti», ad «essere liberi», a considerare che «la gran causa» della loro Patria era nelle loro mani. Il 17 aprile, dopo che calabresi, greci e italiani avevano preso i forti esterni, Genova si arrese. L’Italian levy rimase tra Liguria e Provenza per venti mesi, alimentando sogni di un intervento inglese per impedire l’annessione al Piemonte o per cacciare gli austriaci dalla Lombardia e durante i cento giorni sbarcò a Marsiglia in appoggio ai monarchici. La legione fu congedata nel 1816. Catinelli, rifiutato un posto nell’Armata sarda, svolse missioni diplomatiche a Parigi e a Londra prima di congedarsi nel luglio 1817. L’anno dopo sposò Anna de Gironcoli da cui ebbe sette figli (incluso un futuro generale dell’artiglieria austriaca) e, dopo un breve soggiorno a Modena nel 1821-22 per riorganizzare l’accademia militare, rimase sempre a Gorizia, occupandosi delle sue terre, della Società agraria, di studi storico-geografici sul corso del Timavo e dell’Isonzo e di consulenze per l’acquedotto di Trieste (1836), il prosciugamento del bosco di Montona e la progettata ferrovia Trieste-Vienna. Nel 1848 si unì alla spedizione di soccorso a Ra-

La celeberrima teoria del ciclo OODA

detzky organizzata dall’amico Nugent. Eletto deputato di Gorizia alla Costituente austriaca, tornò presto dimissionario, subendo per questo dure contestazioni. Amareggiato e isolato, cominciò a scrivere nel 1849 gli Studj sopra la questione italiana che fu poi rimaneggiato e pubblicato nel 1858 da Paternolli e, in edizione ridotta e in francese, a Bruxelles. Nel 1859 Nugent volle seguire l’imperatore al campo e assistette alla battaglia di Solferino. Morì tre anni dopo, e gli fu dunque risparmiata la catastrofe del 1866. Non così a Catinelli, che, vecchio e quasi cieco, morì, se non altro, prima di Porta Pia. L’edizione integrale degli Studj conta 501 pagine; otto densi capitoli costellati di note e citazioni, troppo ricchi di osservazioni originali e penetranti per poterli riassumere qui. L’autore si definiva austriaco per nascita e sentimenti, eppure non pregiudizialmente ostile all’Italia. Gli argomenti storici, giuridici e geopolitici che opponeva ai sostenitori del principio di nazionalità e della «Causa Italiana» gli sembravano oggettivamente inoppugnabili e definitivi. Il filo conduttore del libro è in sostanza la denuncia della «viltade» degli Italiani, per non essersi uniti alla ribellione degli altri popoli europei contro Napoleone. Due volte, nel 1809 e nel 1813, avevano mancato l’occasione, prolungando, con la servile acquiescenza al comune oppressore le sofferenze dell’Europa. E citava la risposta data da Lord Castlereagh nel dibattito parlamentare del 20 marzo 1815: «L’Italia che fece ella per scuotere il giogo francese? Perciò non poteva essere considerata che come paese conquistato». Il Congresso di Vienna aveva il pieno diritto di disporre il riassetto dell’Italia in modo da prevenire altre guerre. Del resto l’annessione di Ge71


UN GIOCO PER TUTTI LAGHETTO DELL’EUR SCUOLA VELA


storia nova al Piemonte (imposta rolo meridionale, ma pure dall’Inghilterra per ragioni Canton Ticino, Corsica, Malmilitari) era stata l’unica deta, Ionie, Istria, Dalmazia … cisione contraria al volere dei La conformazione geo-strapopoli italiani: la restaurategica obbligava a recuperazione sabauda, pontificia e re le dimensioni del regno di borbonica e la successione Teodorico. L’Italia unita saaustriaca alla corona lombarrebbe stata forte sul mare e do-veneta erano state accoldebole a terra: le Alpi infatti te come una liberazione. difendevano la Germania, Il «partito sovversivo» non non l’Italia; nessuna invasioaveva presa sul «vero popone da Nord e da Est aveva lo». La rivoluzione del 1848 mai potuto essere fermata. In a Milano e Venezia era stata compenso nessun altro paeinnescata dalle insurrezioni se, come aveva detto Napodi Parigi e di Vienna e dal leone, aveva una linea costiecalcolo sbagliato di Carlo Alra così estesa: «la nuova Itaberto che l’Austria fosse orlia sarà perciò nella necessimai agonizzante. La sconfittà di farsi grande potenza ta ingloriosa aveva assestamarittima». Sarebbe poi dito un colpo mortale all’agivenuta una «repubblica detazione italiana, che aveva mocratica», fomite di rivolurialzato la testa solo con la zioni: insomma, per fare Il Proclama di Lord Bentinck, 14 marzo 1814 partecipazione piemontese l’Italia si sarebbe dovuto dialla guerra di Crimea. La pace di Parigi aveva però sfare l’Europa. Un’Italia indipendente c’era già: Piedi nuovo gelato la speranza dei rivoluzionari in un monte, Ducati, Toscana, Roma, Due Sicilie. Ma l’agiintervento anglo-francese contro l’Austria. Alla Cri- tazione voleva riunire tutti gli italiani in un unico stamea Catinelli dedicava il IV capitolo, intitolato «sul- to-nazione. L’occasione c’era stata nel 1813: ma «non la necessità per l’Europa di porre un fine all’agita- volerne allora sapere, e venire post festum a dar legzione italiana». A suo avviso gli esuli italiani a Co- gi al mondo, e volerlo sconvolgere, questa è un’esorstantinopoli avevano contribuito a provocare la guer- bitanza che ha dell’incredibile». ra, sabotando le iniziative di pace della diplomazia Naturalmente non è possibile sostenere seriamente austriaca, di cui analizzava pure gli aspetti stretta- che l’unità italiana potesse nascere da un’insurreziomente militari. Alla conferenza di Parigi si era poi ne antifrancese analoga a quella che gli spagnoli chiainsistito pericolosamente sulla pretesa «anomalia» mano «guerra de la independencia nacional». Ma fordello Stato pontificio e del Regno ellenico, quando se col tempo, vedendo a gran passi morire il suo monlo stato veramente anomalo e «perturbatore della pa- do, Catinelli si convinse di aver davvero creduto che ce» era il Piemonte. Secondo il diritto internaziona- i proclami di Nugent e di Bentinck fossero più sincele «c’est sans doute se déclarer l’ennemi du genre ri del proclama murattiano di Rimini. Oggi che per humain que de tâcher à exciter les peuples à la ré- fare l’Europa bisogna disfare l’Italia, e che vedo a gran volte en leur promettant secours». L’unità italiana passi morire il mio mondo, cerco anch’io, a ritroso, non metteva in questione solo Lombardo-Veneto e Ti- l’occasione non colta che ci avrebbe salvato. 73


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ANTHONY SHADID, IL GRANDE NARRATORE DI MARJAYOUN

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di Mario Arpino

a Casa di Pietra può essere considerato il testamento spirituale del giornalista-reporter Anthony Shadid, deceduto in Siria il 16 febbraio di quest’anno. È uno dei casi in cui è impossibile parlare del libro senza prima aver parlato dell’Autore. Chi lo desidera, sulla rete può trovare tutto, perché già il 17 febbraio i grandi quotidiani americani per cui aveva lavorato davano rilievo alla notizia della sua morte con articoli che sono più vicini ad una orazione funebre celebrativa, piuttosto che alla descrizione di un fatto di cronaca o ad una biografia di una persona dalle indiscusse qualità umane e professionali. Indubbiamente, è stato un personaggio fuori dal comune. Ciascuno di questi «pezzi», infatti, aggiunge particolari e ricordi inediti che, tutti assieme, danno più l’impressione di un super-eroe, piuttosto che di un «eroe della quotidianità» emblematico dei pericoli e delle vicissitudini con cui convivono i corrispondenti delle strane guerre dei nostri giorni. Ma Anthony non è morto da eroe, saltando su una bomba o colpito da una pallottola in una sparatoria. Questo gli era già successo a Ramallah, durante l’intifada, ma allora se l’era cavata quasi a buon mercato. Paradossalmente, la sua fine è stata causata da un forte attacco di asma da allergia equina con complicazioni respiratorie letali mentre, assieme al suo fotografo, stava tentando di entrare illegalmente in Siria cavalcando di notte attraverso i monti della Turchia. Cerchiamo di riassumere l’efficace descrizione che ne fa Lucia Annunziata – lo aveva conosciuto a Bagdad durante la seconda guerra del Golfo – su La Stampa

ANTHONY SHADID

La casa di pietra ADD Editore pagine 445 • euro 18,00 L’Autore (1968 – 2012) è stato corrispondente dal Medioriente per diverse testate giornalistiche. Ha vinto il Premio Pulitzer per il giornalismo nel 2004 e nel 2010. Statunitense di origine libanese, ha lavorato per il Washington Post, il Boston Globe e il New York Times. Per quest’ultima testata ha seguito la primavera araba dal 2011. È morto in Siria all’età di 43 anni. Shadid narra di quel Medioriente che così bene conosceva e che a lungo aveva indagato.

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Risk del 18 febbraio. Nato negli Stati Uniti nel 1968, ma di discendenza arabo-libanese, cresciuto lontanissimo dal Medioriente – in Oklahoma, dove c’è una forte comunità di origine libanese – parlava fluentemente l’arabo, comprendeva la cultura araba antica e moderna, « …ma scriveva e lavorava come un americano». Una strana e brillante combinazione che – continua la giornalista – dopo l’attacco alle due torri fece di lui il punto di riferimento di tutto il mondo politico e giornalistico che segue gli sviluppi degli eventi mediorientali. Aveva iniziato con l’Associated Press al Cairo, e poi con il Boston Globe. Dopo la seconda guerra del Golfo è a Bagdad per il Washington Post, da dove con i suoi reportage nel 2004 si guadagna il Premio Pultzer, facendo il bis nel 2010 con i servizi giornalistici sulle rivolte arabe. Le aveva seguite sin dall’inizio prima in Tunisia, poi in Egitto e in Libia, dove era stato catturato ed espulso. Nel 2006, ancora prima del blitz israeliano in Libano, aveva avvertito in modo prepotente la spinta che lo aveva portato a ritornare nella terra dei suoi avi. La Casa di Pietra tratta, appunto, di questo periodo. Ma non solo: ci racconta il Libano e la sua gente, così come sono nella vita quotidiana. La genuinità è tale che gli si può credere. Come molti libanesi, è cristiano, e della sua terra d’origine non ne parla da arabo, ma nemmeno da americano. «È riuscito ad evitare la doppia seduzione: non è mai stato un arabo militante, ma nemmeno uno Zio Tom dell’Impero». Da cittadino del mondo globalizzato, è evidente che ha superato questa duplicità « …con la semplice scelta di essere se stesso, e di usarsi per raccontare storie e personaggi, cogliendo tutte le sfumature di quel mondo che sembravano sfuggire agli altri osservatori». Ma racconta anche la storia dei luoghi, e lo fa così bene che sembra davvero di viverci. Shadid ci spiega che la distinzione tra Siria e Libano una volta non c’era, l’abbiamo creata noi occidentali negli anni venti, nell’ansia di spartirci la torta dopo la rovinosa caduta dell’Impero Ottomano. Alla fine della prima guerra mondiale, dopo Ver76

sailles, la Società delle nazioni aveva affidato la grande Siria – che lui chiama con il nome storico Bilad al-Sham, la Provincia del Levante – al mandato francese. Era un tutto territoriale che comprendeva le cinque provincie che oggi formano il Libano. La conferenza di Sanremo ne definiva limiti e compiti, e il tutto veniva poi sancito dall’Organizzazione internazionale nel luglio del 1922. Ma già prima, nel settembre del 1922 la Francia, con uno di quei suoi soliti colpi di mano che tendono a creare situazioni di fatto, all’interno del proprio mandato e senza sentire nessuno, aveva autonomamente creato lo Stato del Grande Libano, area prima inclusa nell’indifferenziata – e geopoliticamente indifferenziabile – amalgama etnico-religiosa dei territori di al-Sham. Non viene mai detto come esplicita accusa, né con acrimonia, ma non c’è capitolo del libro in cui non appaia evidente che la rottura di ogni antico equilibrio nell’area sia da ascriversi all’infausta azione delle potenze straniere. Come l’Inghilterra ma, sopra tutto, la Francia. L’embargo delle coste dell’Impero durante la guerra mondiale aveva provocato in tutta al-Sham, ma specie nel suo meridione, disastrose carestie, con epidemie e stragi. Si racconta che in alcuni villaggi agricoli sia deceduto per fame e malattia un terzo della popolazione, con conseguente emigrazione di massa. La fame non è mai buona consigliera, e la lotta per la sopravvivenza acuisce ogni differenza, tribale, etnica o religiosa che sia. A tutto ciò, il dominio francese non ha apportato alcun miglioramento – se non nelle città – ma tutto il resto del territorio si è ridotto in condizioni peggiori di prima. Così, Shadid su questo è chiaro sia nei frequenti stacchi storici, sia quando fa parlare i suoi personaggi: tutto ciò che nell’area è accaduto dopo altro non è che una sorta di nemesi storica. L’asse del pendolo tra Siria e Libano tende alla quiete, ma è condannato a non raggiungerla sopra tutto perché la Francia ha voluto separare artificialmente due entità prima omogenee persino nella loro differenziazione interna per cultura, tradizioni, orografia, etnia e cocktail religioso. Con


libreria queste lunghe premesse, possiamo ora accingerci a spiegare il perché della Casa di Pietra. Nella lingua araba classica la parola che traslitterata suona come bayt letteralmente significa «casa». Ma la lingua ha così tante sfumature che le parole vanno lette nel contesto, ed assumono significati diversi a seconda del discorso. Così – ci spiega Shadid – le connotazioni di bayt vanno oltre i muri, le stanze e le pareti, ma evocano sentimenti, desideri, immagini, persone, patria e tradizioni raccolte attorno alla «famiglia» ed al «luogo». Per esprimere qualcosa di simile un tedesco direbbe heimat, un inglese home e noi, forse, focolare. Ecco perché Shadid, con una figlia e un matrimonio fallito alle spalle, cerca rifugio nella terra dei padri. E, nella casa semidiroccata che un suo avo aveva costruito a Marjayoun all’inizio della dominazione francese, questo rifugio lo trova. Ma la casa va ristrutturata, praticamente rifatta, cercando di mantenerne inalterato lo stile. Come impegno pianta un piccolo olivo vicino all’ingresso e, preso per un anno congedo dal giornale americano per cui lavora, ritorna determinato a dare l’avvio alla ricostruzione. Il libro è tutto incentrato attorno a questa vecchia casa disabitata del sud del Libano, una casa di famiglia in cui sono passati gli avi accumulando oggetti, sentimenti, abitudini e culture di cui, in Oklahoma, aveva solo sentito parlare. Per un anno intero Anthony abita e ristruttura quella casa, scoprendo in quelle stanze, osservate con l’occhio del cronista, la storia della propria famiglia e di tutto il Medioriente. Lo fa muovendosi tra la grandezza e le meschinità dell’uomo, tra epoche di glo-

ria e declino fino all’attuale quotidianità, precaria e sempre più difficile. In altre parole, con il pretesto della casa Shadid ci racconta come in quell’area del mondo, così bella e così tormentata, si mescolino tra loro e si scontrino più culture e perché ognuno di noi, globalizzato quanto si vuole, alla fine si scopra inscindibilmente legato alle proprie origini. Dave Eggers, scrittore, editore e saggista americano tra i più conosciuti nei nostri giorni, in proposito si esprime così: « …Questo è sì un libro di guerra, sulla dispersione di un popolo, su una zona del mondo devastata e sulla toccante storia di una famiglia, ma è scritto con un candore e una poesia che lo rendono una lettura che non si vorrebbe finire mai». Noi possiamo solo aggiungere che questo libro è il Libano, descritto per come è non già al centro di Beirut, ma sul territorio, lungo i confini, sul fiume Litani, nei paesini dispersi sui monti e sulle colline, quasi sempre raggruppati – ma non è sempre stato così – per etnie e religione. Vi è stata un’epoca, racconta Shadid, in cui il suo bisnonno Hana, cristiano ortodosso e sindaco del villaggio, il venerdì spesso saliva sul minareto al posto del muezzìn a fare il richiamo alla preghiera per i musulmani. Oggi non sarebbe nemmeno immaginabile. Questo accadeva proprio quella parte del Libano che ormai, dopo sette anni, i nostri soldati con il basco blu conoscono così bene. Noi, che non abbiamo fatto questa esperienza, dobbiamo accontentarci di leggere La Casa di Pietra. È un libro che chi vuol «capire di più» non può permettersi di perdere.

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FASCISMO IN «REVISIONE» Come e perché Mussolini prese il potere di Giancristiano Desiderio

o storico Roberto Vivarelli, allievo di Gaetano Salvemini e Federico Chabod, ha ultimato la sua monumentale opera sull’ascesa del fascismo pubblicando il terzo volume: Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma pubblicato da Il Mulino (gli altri due libri, riproposti in ristampa dalla casa bolognese, uscirono: il primo addirittura nel 1967 e il secondo nel 1991). Una grande opera di storia, dunque, che può essere paragonata solo a quella compiuta da Renzo De Felice sul capo del regime fascista: Benito Mussolini. Il lavoro di Vivarelli, però, ha una particolarità: proprio perché riguarda le «origini del fascismo», quindi il perché e il modo in cui i Fasci nacquero e conquistarono il potere, indaga, con grande scrupolo filologico, quattro anni o il periodo che va dalla fine del 1918 alla fine del 1922. Si potrebbe dire: ma è una storia già nota che già si conosce per filo e per segno. E, invece, le cose non stanno così. Nella breve ma bella prefazione al volume è proprio Vivarelli a dire alcune cose su questo punto preciso che, credo, sia qui utile riprendere. Dice lo storico, che ha dedicato la sua «intera opera» ai suoi maestri: «Non si trattava soltanto di ripercorrere di quel periodo le cronache, una fatica pur necessaria ma non sufficiente. La difficoltà vera stava nel comprendere la natura e la storia di quei nodi che allora vennero al pettine, e che della vittoria del fascismo furono la vera causa». È su questi “nodi” che si sofferma Vivarelli e, quindi, sulla nascita e lo sviluppo di una reazione fascista che nel giro di soli due anni, dal 1920 al 1922, acquistò progressivamente nella vita pubblica italiana un ruolo così determinante che gli consentì di conquistare tutto il potere fino a decretare la fine dello Stato liberale e la creazione del nuovo regime di dittatura. Il libro prende in considerazione da

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una parte l’affermazione del fascismo e dall’altra le circostanze in cui agì e, naturalmente, la crisi delle libere istituzioni: «Ed è mia antica e ribadita convinzione, di cui in questo volume rendo ragione, che il fascismo di quella crisi non sia la causa ma il frutto; sicché studiare le vicende del movimento di Mussolini senza al tempo stesso studiarne attentamente il contesto, non è di grande aiuto per capire come e perché Mussolini sia riuscito a vincere». Il libro di Vivarelli è importante perché Vivarelli è quello che si può definire – come è definito – uno storico d’ispirazione liberaldemocratica. Le novità del suo lavoro forniscono una lettura del fascismo – del come e del perché il fascismo nacque e si impose – che non può essere ignorata e che capovolge luoghi comuni e letture di comodo. La vulgata vuole che il fascismo sia un movimento reazionario di classe voluto dagli agrari e dagli industriali. Vivarelli mostra, con una ricchissima e qualitativamente alta documentazione, che in realtà ciò che andò in scena nel dramma nazionale di quegli anni fu una vera e propria guerra civile combattuta tra due opposte passioni politiche: la «passione della classe», interpretata dai socialisti, e la «passione della nazione», interpretata dai fascisti. Lo si può dire anche con i simboli: la bandiera rossa e il tricolore. I socialisti, vittime essi stessi del loro massimalismo, commisero due grossi errori politici: pur essendo il partito politico più grande e rappresentato, da un lato bloccarono di fatto il Parlamento e causarono la crisi delle istituzioni liberali, dall’altro lato causarono e sostennero disordine sociale, violenze con una politica antinazionale in osservanza all’ideologia della rivoluzione e al credo dell’adesione al Comintern. L’unico socialista dalla vista più lunga fu Filippo Turati, ma le sue parole al congresso di Bologna del 1919 furono ignorate e


libreria sbeffeggiate. Riporto qui solo le parole finali di quel discorso: «Ma noi facciamo di peggio: noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Poiché è chiaro che, mantenendole nell’aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e pel quale non lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e penoso di conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa. Perché chi aspetta con cieca fede il terno al lotto, non si rimbocca le maniche e non s’industria di prepararsi il pane quotidiano. In altri termini, voi uccidete il socialismo, voi rinunziate all’avvenire del proletariato. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo». Parole – osserva giustamente Vivarelli – profetiche. Ma all’inconcludenza, alle illegalità, all’antipatriottismo dei socialisti che cosa seppero opporre i governi liberali? Nulla. Questo è un punto centrale: proprio mentre i socialisti attaccano lo Stato nazionale, i governi che si succedono non sanno opporsi in modo deciso e assumono una sorta di sciagurata posizione neutrale. Alla politica antinazionale dei socialisti, che offendeva il sentimento patriottico di una nazione che dalla guerra era uscita vittoriosa e con il suo carico di lutti e tragedie, i governi liberali non seppero opporre una giusta politica nazionale capace di difendere e irrobustire democraticamente le istituzioni. Lo Stato, la nazione, la vittoria non trovarono una reazione legale nei governi liberali e proprio per questo arrivò una reazione illegale che fu organizzata quasi raccattata da terra dal fascismo e dal suo capo. Dunque, dietro l’affermazione del movimento fascista, non vi fu alcuna reazione di classe, bensì la volontà di di-

fendere lo Stato nazionale aderendo fortemente ai valori dell’interventismo di cui il fascismo volle essere l’erede culturale e politico. Il movimento fascista prese atto della guerra civile ormai in corso e prese posizione organizzando il campo lasciato libero dal governo. Ci fu complicità e intesa tra governo e fascismo? Anche su questo punto Vivarelli avanza la sua lettura – suffragata dalla ricostruzione su base documentale – che a portare il fascismo al potere fu soprattutto l’esercito che eluse gli ordini di reprimere lo squadrismo. Insomma, la colpa dei governi liberali non fu tanto la complicità, quanto l’inerzia, la duplice inerzia: prima nei confronti dei socialisti, poi nei confronti dei fascisti nei confronti dei quali avrebbe voluto intervenire ma, ormai, non solo era tardi ma il suo stesso potere era privo di autorità agli occhi dei militari. Il libro di Vivarelli è revisionista? Proprio nella prefazione al testo lo storico si rivolge al lettore e gli dice: «il lettore attento vedrà facilmente come il fascismo che nell’ottobre 1922 conquista il potere è assai diverso dal fenomeno che, con quello stesso nome, continua ad essere presentato negli studi e nell’opinione pubblica a partire dal 1945, cioè dalla fine della seconda guerra mondiale». L’opera di Vivarelli viene a mettere in questione le immagini che con il fascismo hanno «in realtà poco a che fare» e perciò è una libro revisionista che – è superfluo dirlo ma forse è meglio, come fa lo stesso Vivarelli – non riabilita di certo l’esperienza fascista ma la studia per quello che fu perché la «revisione» altro non è che «una delle più elementari esigenze del mestiere» dello storico che Roberto Vivarelli fa in modo esemplare.

ROBERTO VIVARELLI Storia delle origini del fascismo

Il mulino pagine 548 • euro 36 Il fascismo è stato a lungo considerato come la conseguenza della crisi europea dopo la grande guerra. In questa fondamentale opera Vivarelli rilegge invece la storia dell’Italia postunitaria mostrando che il fascismo fu il frutto, non la causa, delle debolezze dello Stato liberale, incapace di gestire la propria trasformazione in Stato democratico, dopo l’avvento del suffragio universale. E in questo fu uno dei pochi e veri fenomeni puramente “italiani”, spinto anche dalla debolezza delle istituzioni. Debolezza le cui ragioni vanno ricercate nel tempo, anche se fu effettivamente la guerra a creare le condizioni perché si manifestasse con effetti così deleteri. Orientato da tale ipotesi interpretativa e sorretto da una rigorosa documentazione, questo lavoro è molto più di una cronaca delle vicende italiane tra il 1918 e il 1922: al di là della guerra, infatti, il problema delle origini del fascismo trova qui la sua definizione nell’intero contesto della storia politica, istituzionale e sociale dell’Italia dopo l’Unità.

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del numero

MARIO ARPINO: generale, già capo di stato maggiore della Difesa

PEJMAN ABDOLMOHAMMADI: docente di Storia e Istituzioni dei paesi islamici presso l’Università di Genova CRISTIANO BETTINI: ammiraglio di squadra, sottocapo di SMD GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo RICCARDO GEFTER WONDRICH: Esperto di America Latina

VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle istituzioni militare presso l’Università Cattolica di Milano

CARLO JEAN: presidente del Centro studi di geopolitica economica, docente di Studi strategici presso l’Università LUISS Guido Carli di Roma

EDWARD LUTTWAK: politologo ed esperto di geostrategia, già consulente del Pentagono ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali nell’area Sicurezza e Difesa NICOLA PEDDE: direttore dell’Institute for Global Studies di Roma

PAOLO SERRA: generale, capo missione Unifil e Force commander in Libano STRANAMORE: analista militare e giornalista

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2012

Pejman Abdolmohammadi

Cristiano Bettini

NAZIONI DISUNITE

Mario Arpino

novembre-dicembre

numero 69 anno XIII euro 10,00

quaderni di geostrategia

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Il Palazzo di carta Un apparato burocratico non riformabile. Le accuse dall’America EDWARD LUTTWAK

Pierre Chiartano

Un’operazione di successo

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I baschi blu in azione nel Libano meridionale PAOLO SERRA

Siria, equilibri instabili

Giancristiano Desiderio

La frammentazione degli interessi internazionali e il conflitto senza fine CARLO JEAN

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Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Teheran e Onu, tra storia e fallimenti Petrolio, guerra, nucleare e diritti civili, good e bad practice tra Iran e l’organismo internazionale PEJMAN ADOLMOHAMMADI

Carlo Jean

Alessandro Marrone

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PRESENTE, PASSATO E FUTURO DELL’ONU, LUCI E OMBRE DEL GIGANTE DI VETRO IN UN MONDO SEMPRE PIÙ FRAMMENTATO

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