Professione Sanità - Gennaio 2021

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EDITORIALE

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Perché un nuovo giornale? di Armando Piccinni

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ncora un giornale online? Ma non ce ne sono già a sufficienza? Prima di rispondere, lasciateci spiegare chi siamo e perché nasce Professione Sanità. La rivista nasce come organo di stampa della Fondazione BRF (Brain Research Foundation), istituto per la ricerca scientifica in Psichiatria e Neuroscienze La BRF è un organismo libero ed indipendente che si occupa di ricerca sul cervello in condizioni di normalità e di patologia. Il nostro focus di interesse non sarà, però, limitato alla salute del cervello, ma si allargherà nel nostro giornale a tutti coloro che operano nell’ambito sanitario. Cercheremo di dar voce e spazio a tutti coloro che per lavoro e per passione impiegano il loro tempo, e la loro vita, al servizio della salute degli altri: medici, farmacisti, psicologi, biologi, infermieri, fisioterapisti, ostetriche, logopedisti, tecnici di radiologia, di laboratorio, della riabilitazione psichiatrica. Ogni mese saranno pubblicate inchieste e approfondimenti sulle varie tematiche che legano ricerca, scienza, medicina e società, oltre a interviste a personaggi del mondo politico ed accademico che saranno per il lettore argomento di riflessione riguardo tematiche di interesse e di attualità. Una serie di sezioni dedicate agli ordini, poi, daranno vita a notizie e dibattiti nell’ambito delle diverse professioni. Cercheremo di favorire, in questa sezione, gli

scambi e le reciproche opportunità di informazione e di crescita. Una parte del giornale sarà dedicata, ancora, alle ricerche sul cervello ma anche ai comportamenti, alle abitudini ed in modo più allargato ai fenomeni sociali e di attualità. L’obiettivo sarà quello di favorire una maggior familiarità con il cervello inteso come organo responsabile dei nostri comportamenti sociali, culturali e affettivi. Cercheremo di creare legami, di condividere conoscenze, di comunicare cosa accade nel giardino dei nostri stretti vicini di cui spesso sappiamo poco o nulla. Frequentemente il nostro lavoro si svolge a compartimenti stagni: integrare competenze, condividere esperienze, esprimere necessità potrebbe essere un’opportunità per tutti. Ci auguriamo che questo possa accadere. Noi ci impegneremo al massimo delle nostre possibilità per creare un servizio per tutti, sperando di raccogliere il supporto di tutti, per il bene della ricerca scientifica e di una sempre più ampia collaborazione tra i vari “segmenti” (tutti ugualmente importanti) che compongono il mondo della medicina e della scienza. Il giornale avrà cadenza mensile, sarà distribuito on-line e sarà gratuito. Sarà anche possibile, per chi avrà preferenza, abbonarsi ad una versione cartacea. Non resta, a questo punto, che augurarvi buona lettura. E darvi già da ora appuntamento al prossimo numero di Professione Sanità.



SOMMARIO EDITORIALE

3 Perché un nuovo giornale di Armando Piccinni PRIMA PAGINA

8 La nebbia nella testa di Carmine Gazzanni

12 Virus e danni al cervello di Carmine Gazzanni L’INTERVISTA

16 Zampa: “Fondamentale la collaborazione tra gli ordini sanitari” di Carmine Gazzanni

Professione Sanità Anno II | N. 1 | Gennaio 2021 Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca Diffusione: www.fondazionebrf.org Direttore responsabile: Armando Piccinni Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca


PROFESSIONI

48 Fisioterapia respiratoria

nella gestione del Covid di Antonio Acerbis

50 Affaticamento e stress da smart-working

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di Francesco Carta

L’INCHIESTA

52 Battaglia ai tumori

22 Il siero della illegalità

“killer” del cervello

impigliato nella rete

di Antonello Di Bella

di Stefano Iannaccone

54 Cranio ricostruito

L’INTERVISTA

26 Anelli (Fnomceo):

con la stampa 3D di Alessia Vincenti

“Più fondi e strutture di Stefano Iannaccone RICERCA

30 Natale con il Covid di Nicola Pela

34 LSD e Ibogaina

di Ernesto Daniel Cavallo

38 #parliamone di Irene Torre

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ZOOM

40 Così il nostro cervello

L’AUTORE

56 Silvia Avallone: “il Covid

“si innamora” di Donatella Marazziti

ha cambiato tutto, anche i rapporti con i social”

44 Il mangiatore per ricompensa

di Flavia Piccinni

e il cibo di conforto come “bisogno”

LIBRI

58 Alla scoperta del tempo

di Tiziana Stallone

perduto con il principe Matila Ghyka

IL DIRETTORE RISPONDE

47 Sono insicura, dubbiosa

di Flavia Piccinni

e piena di paure

CINEMA E TV

di Armando Piccinni

59 Dentro la comunità La serie di Netflix su San Patrignano di Flavia Piccinni TITOLI DI CODA

62 Una pandemia per tutti 44

ma per qualcuno di più di Pietro Pietrini



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LA NEBBIA NELLA TESTA Gli effetti a lungo termine del Covid sulla salute mentale. Ecco a che punto è la ricerca sulla “foggy brain” e quale potrebbe essere il nesso con l’infezione

di Carmine Gazzanni

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na «nebbia». Un «velo che ad un certo punto cala sulle facoltà cognitive e determina una concomitante sensazione di smarrimento». In questi nove mesi di emergenza sanitaria legata al coronavirus la dottoressa Alessandra Bizzarro, neurologa del Day Hospital Post Covid del Policlinico Universitario Gemelli, ha avuto modo di occuparsi di un numero infinito di pazienti, per età, cultura e talvolta anche etnie differenti, ma tutti accomunati da un sentimento comune: «l’essere passati attraverso una tempesta». Una tempesta che, proprio uno studio condotto dal Gemelli e pubblicato su Jama («Persistent Symptoms in Patients After Acute Covid-19»), rivela può lasciare strascichi anche a livello mentale e psicologico. Sin dall’i-

nizio della pandemia, in effetti, ci si è interrogati sugli eventuali legami tra salute mentale e Covid-19, su quali conseguenze potrebbe comportare l’infezione a livello cognitivo, oltreché prettamente neurologico. C’è un dato indubitabile che è emerso in Italia come altrove: in molti soggetti, in particolare nei casi gravi ma non solo, anche una volta che l’infezione vera e propria è finita persistono diversi sintomi, come la stanchezza e l’aritmia. Anche se queste sono al momento domande cui naturalmente non è possibile dare una risposta certa, sono in corso molti studi che analizzano quella che è stata definita “foggy brain” (o nebbia cognitiva) e che per molti è già identificabile come una vera e propria “sindrome post-Covid-19”. Ma cosa si intende, nel dettaglio, per foggy brain?


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FOGGY BRAIN

«Il termine – spiega ancora la dottoressa Bizzarro a Professione Sanità – esprime quella sensazione riportata al colloquio anamnestico dai pazienti post Covid che descrivono un “offuscamento” o anche proprio un “annebbiamento” delle loro capacità cognitive». Superata la fase acuta di malattia con la progressiva ripresa dei ritmi e delle attività proprie della loro vita lavorativa e sociale diversi soggetti «si accorgono, molto più che durante la fase di acuzie dell’infezione, di presentare un affaticamento che non è solo fisico ma anche cerebrale». Una vera e propria nebbia, dunque: «Le difficoltà riferite riguardano la capacità di concentrazione (soprattutto se richiesta per tempi medio-lunghi), l’attenzione, la memoria (soprattutto

di breve termine)». Ma c’è di più: gli studi e l’esperienza clinica rivelano come «i pazienti raccontino di difficoltà in attività che in epoca pre-Covid svolgevano senza alcun problema e questa percezione alimenta uno stress reattivo alle difficoltà che tende poi ad incrementarle. Ogni paziente valutato risponde chiaramente di non sentirsi più efficiente sul piano mentale come lo era prima della malattia». Uno dei primi centri al mondo a valutare questa sindrome è stato proprio il Gemelli: dal mese di aprile 2020, cioè da quando da un’idea del professor Francesco Landi (autore non a caso anche dello studio, insieme al geriatra Angelo Carfì) è nata la realtà assistenziale del Day Hospital post Covid, la struttura ha valutato circa 500 pazienti con un approccio multidisciplinare che comprende anche la visita neurologica e la valutazione neuropsicologica. «L’osservazione di una casistica così ampia – racconta ancora la dottoressa Bizzarro – ci ha permesso di confermare che esiste una sintomatologia cognitiva che si rende più evidente in epoca post-Covid e che non si esaurisce in una “sensazione soggettiva” ma, attraverso la batteria di test cognitivi specifici somministrata a ciascun paziente, fornisce dati oggettivi relativi ai sintomi che vengono riportati e ci consente di quantificare questi disturbi e di analizzarli anche sotto il profilo qualitativo. Sono dati che stiamo analizzando e che ci confermano una condizione di impegno delle funzioni cognitive soprattutto sul piano mnesico-attentivo». Insomma, nessuna casualità ma il rischio di una causalità. Non è un caso che diversi consorzi scientifici e centri di ricerca si stanno occupando proprio di comprendere quale possa essere l’eventuale legame tra infezione e sintomatologia cognitiva nei pazienti Covid. C’è da sottolineare,

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“Il termine esprime quella sensazione riportata al colloquio anamnestico dai pazienti post Covid che descrivono un offuscamento o anche proprio un annebbiamento delle loro capacità cognitive”

Uno dei primi centri al mondo a valutare questa sindrome è stato il Gemelli. La struttura ha valutato circa 500 pazienti con un approccio multidisciplinare che comprende anche la visita neurologica e la valutazione neuropsicologica.


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I meccanismi ipotizzati sono molteplici e comprendono sia un potenziale effetto diretto dei virus (in alcuni studi è stata riscontrata la presenza della proteina Spike nel liquor dei pazienti, commenta ancora la neurologa) che un effetto indiretto attraverso la tempesta citochinica o un’alterazione dei meccanismi di coagulazione.

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però, che dati relativi a precedenti studi su altri Sars-virus indicano analoghi quadri cognitivi nei pazienti valutati: i meccanismi ipotizzati sono molteplici e comprendono sia un potenziale effetto diretto dei virus («in alcuni studi è stata riscontrata la presenza della proteina Spike nel liquor dei pazienti», commenta ancora la neurologa) che un effetto indiretto «attraverso la tempesta citochinica o un’alterazione dei meccanismi di coagulazione». A questi effetti di natura strettamente biologica si associano, molto probabilmente, le modificazioni di parametri neurovegetativi (in primis i disturbi del sonno) e psico-emotivi (che in alcuni pazienti si configurano come un vero e proprio disturbo post traumatico da stress). Non solo. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che l’infezione possa anche aumentare il rischio di sviluppare il morbo di Parkinson o la malattia di Alzheimer. Cosa plausibile anche secondo il geriatra Angelo Carfì che immagina che l’infezione da Covid-19 possa aggravare una situazione di pre-Alzheimer per esempio: «L’eccessivo stress cui un paziente che ha una predisposizione per la malattia verrebbe sottoposto a causa del virus potrebbe portare ad una manifestazione più rapida dei primi sintomi», ha spiegato alcune settimane fa.

LA STANCHEZZA CHE NON VA VIA

La nebbia cognitiva, però, sembra essere legata a un altro sintomo che colpisce una fetta di pazienti post-Covid sul lungo periodo: una persistente stanchezza. Intervistato da Science, Michael Marks, specialista in malattie infettive alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, ha precisato l’importanza di rintracciare i sintomi che causano tale stanchezza per poterla gestire. Alla base potrebbe esserci una fibrosi polmonare o una funzione car-

diaca compromessa, ad esempio. Certo, è vero che anche quando abbiamo l’influenza avvertiamo questo senso di stanchezza, principalmente «dovuto alle citochine infiammatorie rilasciate dal sistema immunitario al fine di arginare il patogeno invasore», ha spiegato tempo fa ancora Carfì. Ci sono, però, diversi fattori che potrebbero spiegare perché il sintomo persista nel tempo, ad esempio «la liberazione di citochine, che continua anche dopo l’infezione perché il corpo si sta ricostituendo, oppure una persistenza del virus negli organi», ipotizza il dottore. Senza dimenticare, però, che l’astenia potrebbe anche essere dovuta, secondo altri ricercatori, all’impatto devastante che ha avuto la patologia non solo dal punto di vista organico ma anche sul morale, sulla motivazione, sull’aspetto cogniti-


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vo. L’isolamento, il ricovero, la drammaticità dell’emergenza sanitaria inedita sono un’esperienza decisamente traumatica. In tale quadro, però, bisogna comunque far riferimento alle basi fisiopatologiche della dispnea, dovuta al fatto che i polmoni, gli organi più fortemente colpiti dal Covid-19, sono in corso di guarigione e ci vuole un po’ di tempo perché i tessuti si ricostituiscano completamente. Come sottolineato in un altro studio dal neurologo Michael Zandi e citato nell’articolo di Science, anche malattie comuni come la polmonite possono necessitare di un periodo di recupero di circa un mese.

IL DRAMMA DI UNA PANDEMIA

Al momento, dunque, il quadro è piuttosto complesso. I troppi pazienti

con difficoltà cognitive e persistenti segni di stanchezza lasciano aperti diversi interrogativi che, tuttavia, sembrano confermare un nesso con l’infezione. «È abbastanza chiaro – spiega ancora la dottoressa Bizzarro – che i pazienti più fragili già in epoca pre-malattia (per età o per patologie concomitanti) siano di base più esposti ai cosiddetti “strascichi” così come lo sono i pazienti che hanno sperimentato la terapia intensiva. Tuttavia, molti pazienti giovani che hanno potuto anche gestire la fase acuta al proprio domicilio riferiscono una sintomatologia di fatica ed esauribilità cognitiva che viene poi confermata alla valutazione oggettiva». Insomma, la foggy brain sembra colpire chi ha altre patologie e chi invece non ne ha, chi è andato in terapia intensiva e chi invece non ci è andato, anziani e chi invece, giovane, ha affrontato la convalescenza a casa. Resta la consapevolezza che una pandemia, comunque la si viva, non può non lasciare segni duraturi. Specie se si è contratto il virus. «Ogni paziente ha sperimentato la paura di conseguenze molto gravi, qualcuno la terapia intensiva, molti la perdita di un familiare, tutti l’isolamento sociale che è forse una delle situazioni più difficili da accettare e gestire, dato che nessuno di noi è umanamente abituato e pronto a non essere assistito da un proprio caro durante una fase di malattia», riflette ancora la Bizzarro. Che ci lascia con una storia, uguale purtroppo a centinaia di altre storie, e che lascia comprendere quanto si possa restare segnati dal Covid: «Tra tutte le storie sempre molto toccanti dei miei pazienti forse quella che ricordo di più è quella di una signora che aveva sviluppato un enorme senso di colpa nei confronti della madre deceduta per via dell’infezione e che probabilmente aveva “portato” lei in casa». Un dramma che non va più via.

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Molti pazienti giovani che hanno potuto anche gestire la fase acuta al proprio domicilio riferiscono una sintomatologia di fatica ed esauribilità cognitiva che viene poi confermata alla valutazione oggettiva». Insomma, la foggy brain sembra colpire chi ha altre patologie e chi invece non ne ha, chi è andato in terapia intensiva e chi invece non ci è andato.


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VIRUS E DANNI AL CERVELLO Una relazione da scoprire. Ecco come il Neuro-Covid di Brescia traccia la strada

di Carmine Gazzanni

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he fosse insidioso e dirompente lo abbiamo imparato nei giorni più duri dell’emergenza sanitaria. Che attaccasse i polmoni generando crisi respiratorie, quella insopprimibile «fame d’aria» provata da molti malati, lo sapevamo, così come avevamo appreso di casi – molto rari – in cui l’offensiva colpisce il muscolo cardiaco. Quello che invece non era stato ancora esplorato è il rapporto tra coronavirus e cervello, tra infezione da Covid e complicanze neurologiche. Ad aprire uno squarcio che ora in tutto il mondo si sta approfondendo è stato uno dei primi reparti Neuro-covid mai aperto: quello di Brescia. «L’idea – spiega a Professione Sanità Alessandro Padovani, ordinario di Neurologia all’Università degli Studi di Brescia e direttore della Neurologia all’Ospedale Civile della città lombarda – è nata sin dall’inizio della prima ondata». Il 25 febbraio, quando il problema era circoscritto al territo-

rio di Codogno, l’ospedale di Brescia contava già tre medici che avevano contratto il virus. «All’8 marzo (e dunque con l’avvento del primo lockdown, ndr) – spiega Padovani – abbiamo avuto il primo caso di malato neurologico, e dunque ricoverato in reparto, positivo al Covid». È lì che è nata l’idea di costituire un reparto specifico che tenesse assieme la cura dell’infezione e l’attenzione neurologica. Una necessità, dunque, alla base di una struttura che tanti in tutto il mondo guardano oggi con ammirazione: «Ci siamo posti un problema: a chi affidare malati covid-positivi che rischiavano, però, di avere ictus o encefaliti? A cosa dare la priorità? Insomma, o lasciavamo che questi pazienti, con problematiche molto delicate, andassero in altri reparti con tutte le conseguenze che questo comportava, oppure cominciavamo ad occuparcene direttamente noi». Un bivio tremendo, reso drammatico dai numeri del contagio che nel


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frattempo crescevano. «Nella settimana successiva – ricorda oggi Padovani – i malati ricoverati in reparto erano diventati cinque, e due di loro erano morti poco dopo». Come spesso accade, però, le idee migliori nascono nei periodi più critici: ed è lì, nel mezzo della prima critica emergenza, che Padovani, insieme alla sua équipe, decide di costituire il reparto Neuro-covid. Un reparto che, tuttavia, secondo Padovani rappresenta un primo passo verso un progetto molto più ampio: «L’idea è costituire strutturalmente un reparto Neuro-cardio-covid: le complicanze post-infezione possono essere cerebrovascolari o cardiovascolari, effetti che oggi ci impongono nuovi percorsi». Secondo Padovani, d’altronde, le due specialità, pur avendo ovviamente aspetti e competenze specifiche, hanno tanto in comune: «Molti pazienti neurologici, ad esempio, finiscono spesso con l’avere problemi cardiovascolari. Il Covid, poi, da quella che

è stata la nostra esperienza, in alcuni casi aumenta il rischio di complicanze trombolitiche e cerebro e cardio vascolari». Ed è questo il punto su cui oggi in tanti si interrogano: che nesso è ravvisabile tra l’infezione da Covid ed eventuali conseguenze neurologiche come ictus o trombosi? «Bisogna necessariamente distinguere le amplificazioni di questa problematica che pure ci sono state, dalla realtà dei fatti», precisa innanzitutto Padovani. Innanzitutto, occorre dire che non è così raro che un’insufficienza respiratoria possa determinare un danno cerebrale. In altre parole: causando il Covid nella sua forma acuta un’insufficienza respiratoria, ecco che si arriva alla complicanza neurologica. Il nesso, però, è indiretto. Così com’è indiretto il nesso se si considera l’altra tipologia di complicanza verificatasi: «Spesso le problematiche di quest’ordine sono da rintracciare nella reazione immunitaria

“Ci siamo posti un problema: a chi affidare malati covid-positivi che rischiavano, però, di avere ictus o encefaliti? A cosa dare la priorità?”.


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Su circa 5mila pazienti, sono state riscontrate 20 encefaliti e in 5 casi l’evoluzione della complicanza è risultata fatale.

RICERCA

e infiammatoria. Ci sono stati casi in cui, a causa di una reazione incontrollata, si sono determinate encefalopatie infiammatorie e, dunque, alterazioni e crisi dello stato mentale. Abbiamo avuti anche casi in cui i pazienti sono finiti per questo in coma». Il dato è eloquente, ma bisogna sempre considerare che a determinare le crisi cerebrali non è il Covid in sé, spiega ancora Padovani, quanto la reazione immunitaria, che «potrebbe verificarsi potenzialmente con qualsiasi infezione virale». Senza dimenticare, ancora, che i numeri raccolti dal Neuro-covid, comunque, per quanto drammatici e da attenzionare seriamente, al momen-

to sono esigui: su circa 5mila pazienti, sono state riscontrate 20 encefaliti e in 5 casi l’evoluzione della complicanza è risultata fatale. Insomma, che ci sia una neuro-invasività del Covid è fuor di dubbio, ben più determinante nel cosiddetto long-Covid e che si manifesta con nebbia cognitiva, stanchezza duratura e confusione mentale. Resta una fetta, tuttavia, oggi al centro di tanti studi, che parlano di evoluzioni neurologiche ancora più gravi. «Ma al momento – conclude Padovani – starei cauto nel saltare a conclusioni affrettate. Facciamo proseguire la ricerca. E facciamo parlare la scienza».



L’INTERVISTA

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ZAMPA: “FONDAMENTALE LA COLLABORAZIONE TRA GLI ORDINI SANITARI” Intervista al sottosegretario della Salute. Che assicura: “A breve il nuovo Piano Pandemico. Priorità ad assistenza territoriale e digitalizzazione. Al prossimo G20 parleremo di salute mentale”

di Carmine Gazzanni

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a campagna di vaccinazione «avviata in Italia con un quantitativo di dosi purtroppo ancora limitato e che vorremmo vedere crescere molto di più». La necessità ora di «rafforzare enormemente l’assistenza territoriale e di realizzare il prima possibile le “Case della Salute” o “Case della Comunità”». I medici di famiglia che «quando saranno vaccinati, saranno certamente arruolati nella campagna di vaccinazione di massa» e avranno «un ruolo di primo piano». E poi, ancora, la salute mentale post-Covid, tema su cui il governo ha posto l’accento tanto che «abbiamo deciso che nell’ambito del G20 si terrà un grande appuntamento proprio dedicato alla salute mentale». Una notizia che in anteprima il sottose-

gretario alla Salute Sandra Zampa, nella sua lunga intervista a Professione Sanità, rivela e che è indice di come in questo periodo voglia avere il polso della situazione sui tanti capitoli aperti riguardanti l’emergenza Covid-19 e anche su quelli che si apriranno di qui a breve. Partiamo, però, dalla campagna di vaccinazione. Si può dire soddisfatta di cosa sta accadendo in Italia? La campagna di vaccinazione per il Covid-19, avviata in Italia con un quantitativo di dosi purtroppo ancora limitato e che vorremmo vedere crescere molto di più, è finalmente iniziata ed è andata di giorno in giorno sempre migliorando. Tra le Regioni si è avviata una sorta di competizione virtuosa, che era anche quello in cui noi speravamo. Come è


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Sandra Zampa.

noto, il Ministero della Salute ha il compito di fornire tutto il necessario, dal vaccino al diluente fino alle siringhe. Le Regioni stanno correndo non in misura eguale ma certamente tutte sono impegnate per essere presto in condizione di parità. È un rodaggio necessario che ha dato sicuramente un’ottima prova e che ci fa sperare per l’avvio di una buona campagna di vaccinazione di massa. Essere una volta tanto in cima alle classifiche dell’Europa è oggettivamente una notizia che ci rende orgogliosi. Nel piano del Recovery Plan c’è grande spazio per i fondi destinati alla salute, soprattutto per quanto riguarda assistenza territoriale e digitalizzazione. Quali creda debbano essere i primi obiettivi da considerare una volta che arriveranno i fondi dell’Unione Europea? Abbiamo bisogno di rafforzare enormemente l’assistenza territoriale e di realizzare il prima possibile le ‘Case della Salute’ o ‘Case della Comunità’, che devono diventare un punto di rife-

rimento dove i cittadini possano trovare una risposta ai propri bisogni di salute a 360 gradi, in qualunque momento della settimana, dell’anno e del giorno. Luoghi che prevedano aperture con orari prolungati e la presenza continua di specialisti e di medici in grado di soddisfare anche prestazioni non particolarmente sofisticate dal punto di vista tecnologico e tecnico, servendosi della necessaria strumentazione. Queste strutture devono diventare luoghi di riferimento della salute dove fare anche educazione e formazione, necessarie per una buona prevenzione. Non dobbiamo dimenticare che dopo il Giappone l’Italia è il Paese con il numero più elevato di anziani, che hanno purtroppo pagato a carissimo prezzo l’impatto con la pandemia. Sono loro i più fragili e i più esposti, spesso costretti ad assumere molti principi attivi per pover fronteggiare le numerose patologie da cui sono affetti. E per quanto riguarda la digitalizzazione? Per quanto riguarda la digitalizza-

“La campagna di vaccinazione per il Covid-19, avviata in Italia con un quantitativo di dosi purtroppo ancora limitato e che vorremmo vedere crescere molto di più, è finalmente iniziata ed è andata di giorno in giorno sempre migliorando”.


L’INTERVISTA

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“Siamo consapevoli che tutti gli italiani, senza distinzione di classe sociale o età, hanno pagato un prezzo molto alto in termini di depressione e acutizzazione di disturbi psicologici”.

zione credo sia arrivato il tempo che il Fascicolo Sanitario diventi un grande e straordinario strumento di lavoro, di pianificazione, compresa quella delle politiche sanitarie, e di gestione di eventi come questo della pandemia. E dunque, che l’intelligenza artificiale cominci davvero ad essere utilizzata a pieno regime, prima di tutto con l’estensione ai cittadini italiani del Fascicolo, con modelli predittivi in grado di dirci per tempo qual è l’evoluzione della salute del Paese ma anche delle persone, e di accompagnarci dalla nascita fino alla nostra vecchiaia. Ritengo inoltre molto importante implementare la telemedicina. Durante il Covid-19 molte persone hanno lamentato una profonda solitudine e credo che in parte proprio strumenti di telemedicina più efficaci avrebbero potuto alleviare tale isolamento. Dunque, via libera ad una modernizzazione della sanità e ben

Matera, sede del prossimo G20.

vengano le risorse che finalmente il Recovery Plan ci assegna anche in questo settore. La pandemia ha prodotto dei danni significativi anche sulla mente degli italiani. Come crede che si debba intervenire a riguardo per evitare un’emergenza di ordine psichiatrico? Siamo consapevoli che tutti gli italiani, senza distinzione di classe sociale o età, hanno pagato un prezzo molto alto in termini di depressione e acutizzazione di disturbi di tipo psicologico. L’accesso alle cure, già difficile prima del Covid, si è complicato ancora di più. Molti servizi dedicati a pazienti con problemi mentali sono stati sospesi, in Italia come in altri Paesi. Nel pieno del lockdown il Ministero della Salute ha messo a disposizione un numero verde proprio per dare conforto e serenità alle crisi d’ansia. Occorre potenziare enormemente i servizi


L’INTERVISTA

di salute mentale, facendo in modo che le persone trovino rapidamente assistenza, ascolto e, ove necessario, anche la presa in carico. Naturalmente bisognerà monitorare da vicino la situazione della tenuta psicologica degli italiani, in particolare dei giovani: gli adolescenti iscritti alle superiori hanno pagato anche il prezzo di non poter andare a scuola, costretti a stare in casa e spesso in solitudine, lontani dai propri amici e dai compagni di classe, acuendo dove già presenti i problemi di tipo psicologico, dipendenza dagli strumenti tecnologici, isolamento familiare e sociale. Occorrerà quindi davvero una riflessione su questa tematica e non a caso abbiamo deciso che nell’ambito del G20 si terrà un grande appuntamento proprio dedicato alla salute mentale. Pensa ancora che ci sarà bisogno di caldeggiare e sostenere la vaccinazione in chi lavora nel pubblico rendendola obbligatoria? In questo momento non stiamo pensando di rendere obbligatorio il vaccino, anche perché non abbiamo elementi di preoccupazione tali da spingerci in questa direzione. Pensiamo invece che le persone abbiano bisogno di trovare risposte e chiarimenti ai propri dubbi, attraverso la corretta informazione e l’accompagnamento verso un’adesione volontaria alla vaccinazione. È evidente che ad un certo punto il Governo e questo Ministero dovranno fare un bilancio per capire quale sia il tasso di adesione. Nel caso si dovesse rendere necessario occorrerà una riflessione che ci porti a prendere provvedimenti che riguardino in particolare, come ho avuto modo di dire, quanti lavorano nel Sistema Sanitario Nazionale, nelle Rsa e nel mondo della scuola: non possiamo immaginare che un medico diventi veicolo di infezione e, in particolare, di un’infezione così grave, pericolosa e rischiosa fino a mettere in discussione la vita di un paziente.

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Considero questa una precondizione per quanti lavorano nel pubblico ma, come dicevo, ci confortano i dati relativi all’adesione, alta tra i medici e gli infermieri che sono a contatto con gli anziani negli ospedali. Rispetto alla vaccinazione, quale crede debba essere il ruolo dei medici di famiglia? Quando saranno vaccinati, i medici

Sede del Ministero della Salute in viale Ribotta a Roma.

di famiglia, i medici di base e i pediatri di libera scelta saranno certamente arruolati nella campagna di vaccinazione di massa. Avranno un ruolo di primo piano, perché a loro spetterà sia la somministrazione del vaccino sia il contatto con le famiglie, in particolare con chi ha maggiori difficoltà a recarsi nello studio medico o non sa orientarsi su dove ricevere informazioni e poter essere vaccinato”. Considerate le polemiche degli ultimi mesi, il Ministero della Salute si è già attivato per aggiornare il piano pandemico? Il Ministero della Salute sta lavorando alla revisione e all’aggiornamento del Piano Pandemico. È un lavoro che è stato affidato alla Direzione competente. Una volta che il Piano sarà stato elaborato andrà all’esame del Consiglio Superiore di Sanità. Da quel momento inizierà un iter di revisione su un lavoro

“Gli adolescenti iscritti alle superiori hanno pagato anche il prezzo di non poter andare a scuola, costretti a stare in casa e spesso in solitudine, lontani dai propri amici e dai compagni di classe, acuendo dove già presenti i problemi di tipo psicologico”.


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“La collaborazione deve ispirare il lavoro degli ordini sanitari: dai medici agli infermieri, agli OSS, dai biologi ai chimici, fino ai farmacisti e agli assistenti sociali, ognuno è chiamato a fare la propria parte”.

Vaccinazione anti-Covid-19.

L’INTERVISTA

che è già in corso e che sta andando anche molto celermente. Quanto sarà importante la collaborazione tra i vari ordini sanitari per uscire definitivamente dal rischio pandemia? Mai come in questo momento la collaborazione è la parola che guida tutte le nostre azioni, non solo qui al Ministero della Salute ma anche a livello interministeriale e tra le Istituzioni e la società. A maggior ragione la collaborazione deve ispirare il lavoro degli ordini sanitari: dai medici agli infermieri, agli OSS, dai biologi ai chimici, fino ai farmacisti e agli assistenti sociali, ognuno è chiamato a fare la propria parte. Abbiamo spesso un problema di integrazione tra le varie figure professionali rappresentate dai rispettivi Ordini. Questa è certamente l’occasione per superare le difficoltà e far interagire le varie professioni e le loro competenze per dare finalmente

agli italiani una migliore e più efficace risposta in termini di salute e di benessere. Negli ultimi mesi tanto si è discusso sulla necessità o meno di modificare il Titolo V della Costituzione, viste le polemiche tra governo centrale e alcune regioni. Lei che ne pensa dell’eventualità che la delega sulla sanità torni a gestione statale? Penso che l’epidemia ci abbia dimostrato grandi limiti dell’attuale organizzazione e delle competenze in materia sanitaria e della cosiddetta ‘concorrenza Stato-Regioni’. La strada maestra non è però quella di una nuova centralizzazione della sanità. Occorre una riflessione sulla riforma del Titolo V, con un potenziamento delle competenze, del ruolo e dei poteri dello Stato centrale rispetto alle Regioni, sia in termini di programmazione che in termini di poteri ispettivi, di controllo e di monitoraggio sui territori e, dove necessario, di poteri sostitutivi come nel caso, ad esempio, dei LEA. Questa è la riflessione che ho maturato nel dover registrare troppi distinguo e troppe carenze. È accaduto che, a fronte della necessità di ricevere dati da parte delle Regioni, alcune li hanno inviati con un metodo diverso dalle altre e, a volte, i dati non c’erano o non sono stati forniti. Questo è solo un esempio per dire che in questo modo non si può programmare la sanità e non si può davvero mettere in campo una risposta efficace in termini di politiche sanitarie nei confronti dei bisogni dei cittadini. Dunque, ben venga una riflessione guidata anche da esperti e da costituzionalisti. Una riflessione libera da pregiudizi ma certamente capace di fare un bilancio oggettivo di come sono andate le cose in questo anno molto triste dominato dall’epidemia da Coronavirus, individuando i cambiamenti e le linee di intervento per una revisione del Titolo V della Costituzione.


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L’INCHIESTA

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IL SIERO DELLA ILLEGALITÀ IMPIGLIATO NELLA RETE I vaccini anti-Covid sono finiti nel mercato nero del darkweb. Una colossale truffa. Ma c’è chi dice di avere a disposizione delle dosi. A mille euro ciascuna

di Stefano Iannaccone

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l vaccino anti-Covid 19 diventa un gigantesco, quanto illegale, giro di affari. Impossibile da quantificare, per la sua natura criminale. La diffusione del siero, per vincere la battaglia contro Sars-Cov-2, ha solleticato gli istinti animali di chi si aggira nell’ombra, nelle pieghe del web sommerso, in un magma indi-

stinto dentro il quale la criminalità si muove con sagacia. E con un know how pluriennale. La vendita del vaccino contro il Covid è stata così vista come una miniera d’oro per chi opera nel darkweb, luogo virtuale in cui fioriscono operazioni di compravendita, senza alcuna possibilità di tracciamento. Le parole del direttore del Servizio


L’INCHIESTA

di Polizia postale e delle Comunicazioni, Nunzia Ciardi, sono allarmanti: da settimane vengono proposte dosi di vaccino, talvolta a un costo di mille euro ciascuna. Oltre al danno c’è la beffa: si tratta di una colossale truffa. «In sintesi chi ac-quista e paga queste dosi poi non si vede recapitare nulla», ha raccontato Ciardi. Ciononostante,

affiorano le “inserzioni” nei vari mercati virtuali illegali, noti per la vendita di sostanze stupefacenti. Ma come è possibile che accada tutto questo? Prima di tutto è necessario conoscere cos’è di preciso il dark-web, comprendere appieno cosa si muova davvero al suo interno. È un territorio digitale in cui è possibile na-vigare in maniera anonima, senza lasciare tracce. Qualcosa di molto diverso rispetto all’esperienza comune della navigazione online. Quando parliamo di Rete, infatti, c’è quella che solitamente viene usata da milioni di utenti, con gli indirizzi quotidianamente consultati: dai più noti a quelli più sconosciuti. Esiste, poi, il deepweb, il web più profondo sotto la superficie, composto da siti non indicizzati dai motori di ricerca. Per accedere oc-corre un particolare browser. All’interno del deepweb, c’è il darkweb, una sorta di isola dove è possibile ac-cedere con specifici software. E per tale ragione è diventato un luogo virtuale caratterizzato per lo più da traf-fici illeciti, tra cui la cessione di armi e il traffico e di droga. L’esempio storico è quello del portale Silk Road (la via della Seta, con una citazione anche storica), creato nel 2011 e definitivamente chiuso dall’Fbi nel 2014. Era stato ribattezzato l’Amazon delle droghe, tanto per capire la reputazione. In realtà era un market virtuale in cui poter acquistare qualsiasi tipo di prodotto, legato comunque alla contraffazione. Facendo un’ipotesi: se fosse ancora aperto, magari ci si potrebbe potuti trovare a contrattare l’acquisto di un vaccino anti-Covid. O meglio di un presunto vaccino. Proprio per la natura del darkweb diventa complicato portare avanti le indagi-ni. «Non è semplice infatti individuare chi propone la vendita, visto che queste zone del web sono caratteriz-zate da un anonimato molto spiccato», ha

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La diffusione del siero, per vincere la battaglia contro SarsCov-2, ha solleticato gli istinti animali di chi si aggira nell’ombra, nelle pieghe del web sommerso.

La vendita del vaccino contro il Covid è stata così vista come una miniera d’oro per chi opera nel darkweb, luogo virtuale in cui fioriscono operazioni di compravendita, senza alcuna possibilità di tracciamento.


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Da settimane vengono proposte dosi di vaccino, talvolta a un costo di mille euro ciascuna. Oltre al danno c’è la beffa: si tratta di una colossale truffa.

L’INCHIESTA

ammesso Ciardi. Il punto è provare a capire se qualcuno ha vera-mente messo le mani sulle fiale da destinare alla popolazione. Ma «non siamo a conoscenza di sottrazioni alle aziende produttrici», ha sottolineato Ciardi. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti: non è possibile sapere realmente il contenuto di quelle fiale, vendute a peso d’oro. Potrebbe trattarsi, nella migliore delle ipotesi, di placebo. Ma può essere addirittura rischioso per la salute di chi li assume. «Nel darkweb è relativamente facile accedere al reperimento di droghe, ma anche medicinali non approvati», conferma a Professione Sanità Dario Piermattei, uno dei cofondatore di Visionari, associazione impegnata per la promozione e la divulgazione di scienza e tecnologia. «Nel caso del vaccino contro il Covid-19 - osserva Piermattei - c’è un rischio aggiuntivo: venire in possesso di un prodotto tutt’altro che adeguato, perché come abbiamo letto e sentito più volte, per esempio, il vaccino di Pfizer-Biontech necessita di una particolare cate-na del freddo. Ed è chiaro che difficilmente questo possa essere garantito per un acquisto online, sul dark-web». E allora cosa spinge una persona a rivolgersi a questo universo? «La disperazione», sintetizza Riccardo Tomassetti, altro cofondatore di Visionari. «La dinamica è proprio la stessa che conduce all’acquisto di altri prodotti in queste aree di illegalità: il disperato bisogno di accaparrasi un qualcosa, sia droga o altro. Un’operazione realizzata senza tenere minimamente conto dei pericoli che si possono correre». Ma c’è un elemento ulteriore che evidenziano gli esperti dell’associazione: «Il vaccino contro il Covid rappre-senta un esempio unico nell’ambito del mercato sul darkweb. Si tratta, per la sua natura, di un prodotto mol-

to particolare». In effetti il contenuto delle fiale è top secret, brevettato dalle aziende produttrici. «In genera-le l’acquisto, seppure virtuale, avviene seguendo esattamente gli stessi percorsi nella vita reale, basato sulla “fiducia”. Se qualcuno cerca della droga, per esempio, avrà probabilmente il suo spacciatore di riferimento. Sul web come nella vita reale». C’è poi un ulteriore spunto di riflessione in merito al rapporto tra darkweb e vaccino. «Al di là di quello contro il Covid-19, il vaccino anti-influenzale si rivela una fonte di affari imponente. Ci sono delle tratte di smercio, corridoi privilegiati per accaparrarsi le fiale. È qualcosa di noto e in un certo senso semplice». Rispetto al siero impiegato per combattere il Coronavirus, infatti, il vaccino anti-influenzale ha modalità di reperimento più semplice. In questo caso non si agisce nemmeno sul territorio scivoloso della truffa: la “merce”, ossia il vaccino, è di buona qualità, probabilmente anche certificato. Nessun inganno. Pie-mattei racconta: «Semplicemente c’è una maggiore possibilità di approvvigionamento e una logistica più age-vole da gestire. Inoltre, il cliente ha più fiducia in questa operazione. Perché resta comunque complicato ven-dere un presunto vaccino anti-Covid». Per la serie: alcuni possono cascarsi con il vaccino contro il Coronavirus, altri sono meno sprovveduti: Tomassetti approfondisce con una riflessione: «È matematico che ci saranno dei vaccini anti-Covid fake. Ma del resto qualsiasi prodotto molto prezioso viene molto ricercato. Quindi si cerca di dare un’offerta. Bisogna partire da un principio: nel darkweb il mercato è creato dalla domanda stessa. Se c’è richiesta di un determinato prodotto, allora arriva l’offerta». «Ci sarà sempre un mercato per le perso-


L’INCHIESTA

ne che non avranno necessariamente accesso a quel farmaco e che vogliono proteggere se stessi e le loro famiglie», ha osservato Amy Shortman, un’esperta di logistica farmaceutica. Un punto è dato per scontato: l’impossibilità di quantificare il business che si muove intorno ai vaccini fake. «Siamo in un territorio in cui c’è riciclaggio. Di certo non esiste un tracciamento». L’obiettivo è l’esatto contra-rio: seppellire le informazioni utili. E non c’è solo il vaccino ad animare questo business illegale: nel mare ma-gnum dell’illegalità online è possibile reperire anche dei test per il Covid bocciati dalle autorità sanitarie. L’idrossoclorichina, farmaco su cui c’è stato un intenso dibattito, è un altro prodotto molto ricercato nel

dark-web. Il quadro è, insomma, complicato. Perché il Covid-19, tra i tanti stravolgimenti, ha cambiato anche i con-notati della criminali. «C’è un fenomeno pandemico dei cyber reati», ha denunciato il direttore della Polizia postale, rimarcando «un aumento del numero dei reati informatici che è un effetto collaterale ulteriore della pandemia». Il motivo è anche facilmente intuibile: «Il web, in questo momento, è per la criminalità l’unico terreno favorevole. La percentuale di incremento dei reati sul web nei primi 11 mesi del 2020 è di oltre il 400%. I nostri dati sono quelli che in assoluto registrano una crescita maggiore ma ciò che è veramente preoccupante non è la crescita quanto la dimensione della crescita», ha concluso Ciardi.

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La percentuale di incremento dei reati sul web nei primi 11 mesi del 2020 è di oltre il 400%.


L’INTERVISTA

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ANELLI (FNOMCEO): “PIÙ FONDI E STRUTTURE” Parla Anelli, presidente degli Ordini dei Medici, che chiede più medici in corsia, non solo in tempo di Covid

di Stefano Iannaccone Filippo Anelli.

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nnovazione, rafforzamento degli organici e adeguamento degli stipendi. Filippo Anelli, presidente Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), a Professione Sanità, indica la strada per affrontare i problemi del settore. Che cosa servirebbe per affrontare questa fase di emergenza, lunga ormai un anno? Dipende dagli obiettivi. Fino a poco tempo fa non avevamo il vaccino, l’obiettivo era il contenimento. Ora si può

pensare a una vera e propria soluzione. Del resto, le strategie di sanità pubblica variano in ragione dell’obiettivo. Si può pensare di ridurre il Covid a una malattia di carattere endemico: in questo senso il traguardo è molto legato alla tempistica di distribuzione dei vaccini. Intanto, dovremmo continuare ad avere un intervento di carattere normativo: i provvedimenti devono consentire di abbassare ulteriormente la curva. E cosa bisogna fare per limitare la diffusione del virus? Da ottobre fino a dicembre, l’o-


L’INTERVISTA

biettivo era di contenere al massimo la diffusione della pandemia compatibilmente con l’attività economica. In questa fase si può fare una riflessione diversa: con la prospettiva di vaccinazione degli italiani, si possono assumere misure ancora più drastiche. Non è più il caso di pensare a zone rosse, arancione e gialle, ma converrebbe attuare restrizioni più importanti per abbassare il numero di contagi e di morti, così da consentire la vaccinazione degli italiani. E quindi ripartire. Ci sono stati degli errori nella ge-

stione del Covid-19, eventualmente da migliorare anche in ottica di possibili future pandemie, definite probabili dall’Oms? Ci siamo trovati di fronte a una situazione improvvisa. Non abbiamo avuto una capacità di reazione adeguata. Avevamo vissuto una prima esperienza con la Sars, ma si è auto estinta senza provocare grossi danni. L’insegnamento del Covid è che non si può affrontare una pandemia con un’organizzazione ordinaria. Quando arriva lo straordinario occorre avere una preparazione e una strumentazione straordinaria. Nella prima fase abbiamo avuto la drammatica mancanza di dispositivi di protezione individuale, per questo c’è stato un alto numero di vittime. Poi nessuno aveva pensato a un accesso differenziato negli ospedali per malattie infettive e per patologie ordinarie. Ora siamo in grado di elaborare strategie per rafforzare le aree indispensabili alla diffusione di una pandemia. Sul piano istituzionale, invece, quali punti vanno migliorati? Una gestione frantumata in 21 servizi sanitari non ha giovato. Non è possibile che i governatori decidano di fare quello che vogliono: occorre una centralizzazione, almeno nella gestione di una pandemia. E su questo punto, purtroppo, vengono fuori anche le disuguaglianze. Se l’Emilia-Romagna ha ventimila addetti in più rispetto alle regioni meridionali, a parità di popolazione, è evidente una differenza. I fondi da impegnare nella sanità devono colmare le disuguaglianze. La Costituzione italiana prevede obblighi solidaristici di ogni Ente. Sono sufficienti i fondi alla sanità previsti dal Recovery Plan? Bisogna dare atto al governo e al ministro Speranza di essersi impegnato sul finanziamento del Sistema sanitario. Già nel 2019, nella Legge di Bilancio,

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“Non è più il caso di pensare a zone rosse, arancione e gialle, ma converrebbe attuare restrizioni più importanti per abbassare il numero di contagi e di morti, così da consentire la vaccinazione degli italiani”.

“Bisogna dare atto al governo e al ministro Speranza di essersi impegnato sul finanziamento del Sistema sanitario”.


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“Uno dei problemi durante la pandemia è che stata l’assenza di diversificazione dei percorsi, perché sono strutture vecchie. La visione romantica del medico di famiglia che va a incontrare i pazienti non ha alcun significato. C’è certamente bisogno di un modello di team multiprofessionale”.

L’INTERVISTA

era stato deciso l’aumento di 4 miliardi del fondo sanitario nazionale. In quel momento sembrava uno sconvolgimento rispetto ai tagli. Ci siamo trovati spiazzati quando inizialmente erano stati previsti 9 miliardi nel Recovery Plan. I 20 miliardi attuali sono ora un ottimo risultato. Cosa fare con queste risorse? Prima di tutto l’ammodernamento della rete ospedaliera, secondo i criteri oggi ritenuti importanti. Uno dei problemi durante la pandemia è che stata l’assenza di diversificazione dei percorsi, perché sono strutture vecchie. Un altro elemento importante è il territorio: qui scontiamo decenni di totale abbandono con responsabilità altissime della politica. I medici sono stati lasciati da solo. Occorre quello sviluppo multiprofessionale di cui si parla? La visione romantica del medico di famiglia che va a incontrare i pazienti non ha alcun significato. C’è certamente bisogno di un modello di team multiprofessionale, in cui il medico lavori, ma ci siano infermieri, psicologi, assistenti sanitari, terapisti della riabilitazione per garantire al paziente competenze peculiari. Ed è il piano su cui il Ministero della Salute stava intervenendo con le Case di Comunità. E come è possibile attuare questo radicale cambiamento? Serve uno sforzo di innovazione, andando oltre una visione conservatrice. Occorre dare maggiore forza e autonomia alle professioni, così da consentire la massima espressione delle proprie capacità.

Di recente un sondaggio ha denunciato l’insoddisfazione dei medici, soprattutto quelli ospedalieri. Cosa bisogna fare per fornire adeguate risposte? In una logica del rifondazione, abbiamo la necessità di dare una soddisfazione di carattere professionale agli operatori. Oggi non ci sono risorse per pagare stipendi e promuovere chi ha competenze. Ma soprattutto c’è il problema del numero degli addetti: si sono trovati ad affrontare una condizione eccezionale come la pandemia. Ben prima di questa situazione avevamo organizzato, con i medici ospedalieri, avevamo provocariamente regalato allo Stato un assegno virtuale di mezzo miliardo di euro, relative ai 15 milioni di ore lavorate senza alcun pagamento di straordinario. Erano, appunto, ore regalate. Con la pandemia i milioni di ore saranno diventate il doppio. Il rimedio ha due strade: più professionisti e stipendi adeguati. Non possiamo continuare a essere gli ultimi in Europa su questo tema.


nuovo coronavirus

Consigli sulle terapie in corso Titolo Non trascurare le tue patologie croniche. Continua ad assumere i farmaci che ti sono stati prescritti seguendo sempre le raccomandazioni del tuo medico. Le tue patologie non aspettano la fine della pandemia! Contatta il tuo medico per chiedergli consiglio, se hai qualche dubbio sulla terapia che stai assumendo. Il medico può fornirti telefonicamente il numero della ricetta con il quale ritirare i medicinali di cui hai bisogno presso la farmacia. Informati su quando potrai riprendere i tuoi controlli medici periodici. Non sospendere le terapie in corso senza aver consultato il tuo medico, in caso di positività al COVID-19. Ricordati di riferire al medico se stai assumendo integratori alimentari.

Chiedi conferma degli appuntamenti per le vaccinazioni dei tuoi bambini e cerca di non saltarli. Non esiste solo il COVID-19!

A cura del Gruppo ISS “Comunicazione Nuovo Coronavirus” 13 maggio 2020


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di Nicola Pela

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iao, 2020. L’anno appena concluso verrà sicuramente ricordato come uno dei più travagliati e complicati della storia contemporanea. Abbiamo d’altronde vissuto una terribile pandemia mondiale da cui ancora non siamo riemersi. L’ultima di cui si abbia memoria è stata la cosiddetta “influenza spagnola” del 1918-1920: dopo un secolo in cui scienza e tecnologia erano riuscite a contenere l’espansione della maggior parte delle epidemie, tra la fine del 2019 ed i primi mesi del 2020, il virus Covid-19 ha afflitto nuovamente la popolazione mondiale partendo dalla città di Wuhan nella Cina centrale e via via propagandosi a macchia d’olio, prima in Germania, poi in Italia e, infine, nel resto d’Europa e del mondo. Per tre mesi - da marzo a giugno, durante “la prima ondata” del virus –

la popolazione italiana (ma non solo) è stata costretta a restare chiusa in casa e a vivere pesanti (ma inevitabili) norme di restrizione. Per tre mesi le attività economiche considerate “non necessarie”, poiché non legate alla vendita di generi alimentari e primari, sono state obbligate alla serrata forzata. Dopo un’estate in cui una fetta di italiani si era illusa di aver ormai sconfitto il virus, abbiamo vissuto una “seconda ondata”. Le istituzioni hanno tentato di arginare la grave crisi economica e sociale così innescata organizzando per tutto lo Stivale chiusure circoscritte, differenziando le Regioni in fasce di colore, in rapporto alla gravità dell’estensione territoriale del virus: da zona rossa a zona gialla, passando per quella arancione. Data la particolarità della situazione, la Fondazione BRF ha pensato di indagare come il virus abbia modificato


RICERCA

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NATALE CON IL COVID Una ricerca della Fonmfazione Brf rivela che 3 persone su 4 hanno ritenuto necessarie le norme imposte dal Governo. E sui vaccini solo 1 su 10 dice che non lo farà

il modo di vivere degli italiani. I ricercatori, con l’aiuto del comitato direttivo, hanno realizzato un questionario per comprendere quale fosse il sentimento della popolazione di fronte alle difficoltà incontrate durante il 2020 e ai decreti restrittivi via via promulgati dal governo, specie in relazione ai giorni di festa – natalizi e di fine anno – che, com’è facilmente immaginabile, sono stati giorni completamente differenti rispetto alla canonica serenità degli anni passati. Ecco i risultati che la Fondazione ha raccolto. Innanzitutto il campione dei soggetti esaminati era costituito per i tre quarti da donne e un quarto da maschi. Poco meno della metà erano residenti al Nord, un quarto nelle regioni centrali e un quinto al Sud e il 10% nelle Isole. Il livello culturale era equamente distribuito tra soggetti laureati (46%) e

diplomati (44%). Per quanto riguarda l’attività lavorativa il 45% dei soggetti erano casalinghe, il 17% pensionati e via via liberi professionisti (15%) e imprenditori (12%). «Dall’esame delle risposte – spiega il professor Armando Piccinni, presidente della Fondazione BRF – è emerso un quadro per cui oltre il 90% (93,5) delle persone intervistate aveva trascorso il Natale in famiglia negli anni precedenti. E questo perché gli italiani intervistati sono risultati tradizionalisti. Quasi il 75%, non a caso, ha ritenuto il Natale un’occasione per ritrovarsi con i familiari e in una percentuale inferiore al 10% con gli amici più cari». Nonostante la grande adesione alla tradizione per familiari e cenoni, ciò che è emerso è un grande senso civico degli italiani, disposti a rispettare le regole imposte per uscire dallo stato di crisi:

I ricercatori, con l’aiuto del comitato direttivo, hanno realizzato un questionario per comprendere quale fosse il sentimento della popolazione di fronte alle difficoltà incontrate durante il 2020 e ai decreti restrittivi via via promulgati dal governo.


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“Praticamente tutti hanno condiviso la necessità di prendere precauzioni in vista delle festività natalizie, dotandosi di mascherine o tamponi, comunque isolandosi il più possibile”.

Sondaggio Fondazione Brf.

RICERCA

«La metà degli intervistati – commenta ancora Piccinni – ha scelto la risposta “cercherò di isolarmi da amici e parenti” o “sarò da sola con il mio coniuge”. Praticamente tutti hanno condiviso la necessità di prendere precauzioni in vista delle festività natalizie, dotandosi di mascherine o tamponi, comunque isolandosi il più possibile. Non siamo in grado di dire se il significato della parola “Natale” ha assunto in questo periodo un particolare significato, ma la stragrande maggioranza degli intervistati ha evocato pensieri di familiarità, di spiritualità e rinascita. Molti hanno rivolto il loro pensiero alle persone più svantaggiate o comunque hanno scoperto di avere una venatura di tristezza, ripensando agli anni passati». Il dato più eclatante, in questo quadro, però è relativo proprio alle norme di restrizione volute dal governo: le risposte indicano che la maggior parte degli intervistati (74,8%) ha considerato necessarie le restrizioni del Governo

Conte II, e una percentuale ancora più vasta (84,7%) ha ritenuto imprescindibile l’utilizzo della mascherina in quanto dispositivo di protezione dal contagio da Covid-19. Altro dato interessante – e connesso ai precedenti – è che la popolazione italiana sembra essere disposta a mettere in atto tutte le misure necessarie per riconquistare la normalità dei rapporti umani. Questo emerge da percentuali ben precise. Una su tutte: quasi il 60% degli intervistati guarda con speranza al 2021, come un passaggio verso una situazione più tranquilla. Nella stessa direzione è anche il dato che evidenzia un’elevata inclinazione alla vaccinazione (86,6%), anche se con tempistiche diverse. Infatti, il 51% pensa di fare il vaccino non appena sarà disponibile, il 25% solo dopo aver ricevuto informazioni certe e, infine, è presente una minoranza più scettica (10,6%) che si vaccinerà dopo che l’avrà già sperimentato la maggior parte


RICERCA

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Scala Likert: Da 1 a 4, in cui 1=completamente in disaccordo e 4=completamente d’accordo.

degli italiani. Né va, però, dimenticato un ulteriore 10% degli intervistati che pensa di non vaccinarsi con motivazioni bislacche come “il vaccino è inutile” e “sono certo che non sarò contagiato”. Un discorso a parte va riservato all’ambito economico. Per quanto rigurda gli acquisti di Natale, quasi la metà del campione (46,7%) ha preferito non modificare il proprio budget, per far sentire la propria vicinanza con un piccolo presente. Solamente una piccolissima nicchia (3,8%) è riuscita, malgrado tutto, a comprare più regali. Le modalità di acquisto sono state principalmente due. Il 41,3% si è recata personalmente in negozio; al contrario, per il 36,5% ha prevalso la comodità delle principali piattaforme e-commerce. Non deve passare inosservato un dato allarmante, che evidenzia come la forbice della disparità economica e sociale si sia allargata: l’11,5% ha deciso di non fare regali. Infine, va rilevato come per certe categorie professionali la pandemia non stia poi influendo così negativamente dal punto di vista economico (58,1%). È questo il caso dei lavoratori dei servizi che, usufruendo dello smart working durante il lockdown generale, non si

sono mai fermati. In alcuni casi, addirittura migliorando la propria condizione iniziale (6,7%). «Nel complesso – conclude il professor Piccinni – il quadro che emerge è quello di una condizione di equilibrio degli italiani intervistati in un campione che rappresenta in maniera proporzionale Nord, Centro, Sud, Isole. Il quadro mostra persone legate alle proprie tradizioni, ai propri costumi e in un certo modo emotivamente nostalgici di tutto ciò che è famiglia. La sorpresa dell’indagine è, però, legata all’elevata adesione ai provvedimenti del governo in tema di prevenzione. Gli intervistati hanno affermato di condividere e praticare quelle che sono le misure previste e di aspettare con ansia l’arrivo del vaccino. È un quadro che disegna la volontà di voler uscire al più presto e di comprendere la gravità della situazione, condividendo l’eccezionalità dei provvedimenti». Il test della Fondazione, dunque, mostra un’Italia spesso diversa da quella raccontata dai media: «Probabilmente le minoranze urlanti spesso prevalgono sulle maggioranze silenziose che, senza lamentarsi, senza disobbedire, vanno avanti costituendo lo zoccolo duro del Paese».

Un discorso a parte va riservato all’ambito economico. Per quanto rigurda gli acquisti di Natale, quasi la metà del campione (46,7%) ha preferito non modificare il proprio budget, per far sentire la propria vicinanza con un piccolo presente.


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LSD

E IBOGAINA Da droghe psichedeliche a farmaci contro la depressione

Lo studio pubblicato su Nature apre nuove strade nel contrasto ai disturbi mentali. Ecco a che punto è la ricerca sulla TBG

di Ernesto Daniel Cavallo


RICERCA

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mmettiamolo: avete mai sentito parlare del “giorno della bicicletta”? È il giorno in cui per la prima volta l’uomo ha fatto esperienza di LSD, acronimo della dietilamide dell’acido lisergico. Era il 19 aprile 1943. Il ricercatore della Sandoz Albert Hofmann assunse intenzionalmente 250 µg (microgrammi) di LSD, da lui considerato il dosaggio minimo efficace. Hofmann, però, sbagliò la stima di un ordine di grandezza. E inevitabilmente gli effetti furono decisamente diversi a quelli immaginati: un’esperienza molto più potente di quanto avesse previsto. “Ho visto un flusso ininterrotto di immagini meravigliose, forme straordinarie con un intenso gioco caleidoscopico di colori”, raccontò non a caso Hofmann. Andò poi a casa in bicicletta facendosi accompagnare da un assistente. Fu una pedalata psichedelica: “All’interno del mio campo visivo la realtà era distorta come vista attraverso uno specchio curvo”, si legge nel libro dello scienziato Lsd – il mio bambino difficile. Ed è proprio per questa ragione che il 19 aprile venne ribattezzato da allora Bicycle Day, una giornata ancora oggi celebrata dai nostalgici della cultura hippy. Al di là dell’aneddoto, però, quella storia ha “segnato” la comunità scientifica. A partire dagli anni ‘50 e ‘60, infatti, l’attenzione dedicata ai composti psichedelici (Lsd, psilocibina, ibogaina) è via via cresciuta esponenzialmente. Da allora non a caso sono stati pubblicati centinaia di studi sui possibili utilizzi in clinica di tali composti. E, come la scienza, così le istituzioni: anche i servizi segreti di tutte le nazioni cominciarono a interessarsene iniziando così a sperimentarne le potenzialità, soprattutto come sostanza da far assumere durante gli interrogatori o per il controllo mentale.


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Nel 1943, il ricercatore Albert Hofmann assunse intenzionalmente 250 µg (microgrammi) di LSD: “Ho visto - disse - un flusso ininterrotto di immagini meravigliose, forme straordinarie con un intenso gioco caleidoscopico di colori”.

RICERCA

C’è da dire che questi composti trovarono largo uso in primo luogo nella cosiddetta psicoterapia psichedelica mostrando spesso benefici in pazienti depressi e dipendenti da alcool. Alla fine degli anni ’60, tuttavia, a seguito del sempre più largo utilizzo di tali sostanze nella popolazione e con le crescenti preoccupazioni per la sicurezza delle nuove generazioni, la produzione di LSD e psilocibina per scopi sia personali sia scientifici venne bandito nella maggior parte dei Paesi del mondo. Fino ad arrivare ad oggi. Nel corso degli ultimi anni c’è stato un rinnovato interesse per il potenziale terapeutico dei composti psichedelici, tra cui LSD, psilocibina e ibogaina per il trattamento della depressione resistente al trattamento, disturbo da stress post-traumatico e ansia. La vera novità è arrivata con uno studio pubblicato su Nature, il cui primo autore è Lindsay P. Cameron, ricercatore dell’Università della California. Gli scienziati si sono concentrati sulla sintesi di un analogo non allucinogeno dell’ibogaina che potrebbe avere il potenziale per trattare la dipendenza e la depressione. L’ibogaina, infatti, è un alcaloide naturale che si trova nell’arbusto della foresta pluviale dell’Africa occidentale (Tabernanthe iboga). Il nome del nuovo composto è la Tabernanthalog (TBG) facilmente sintetizzato in un unico passaggio da materiali già disponibili. Ma come funziona la TBG? Gli autori hanno dimostrato che il composto attiva potentemente la proteina del recettore della serotonina 2A (5-HT2AR). Hanno inoltre dimostrato che la TBG ha un potenziale allucinogeno inferiore rispetto all’ibogaina, e ha anche mostrato una minore tossicità cardiaca specialmente a basse dosi. Questi dati suggeriscono che la TBG è probabilmente un’alternativa molto più sicura all’ibogaina, nonostante ovviamente siano ne-

cessari ulteriori studi per comprendere appieno la tossicità della TBG in una gamma di dosi e nei regimi di dosaggio acuto o cronico. E per quanto riguarda le potenziali proprietà terapeutiche? Nello studio si osserva che la TBG ha avuto rapidi effetti simili agli antidepressivi solo un giorno dopo il trattamento, in misura paragonabile alla ketamina, un antidepressivo ad azione rapida. Resta un difetto ancora da sondare pienamente: gli effetti della TBG, infatti, non sembrano duraturi come quelli della ketamina. Ma non è finita qui. I ricercatori hanno anche osservato come il trattamento con la TBG abbia ridotto rapidamente il consumo di alcol, con effetti duraturi (della durata di almeno due giorni), paragonabili ai benefici spesso osservati con altri farmaci anti-dipendenza. Stesso discorso anche per il consumo di droghe: è stato scoperto che la TBG ha efficacemente eliminato le ricadute nei soggetti che erano stati sottoposti a sospensione di eroina per 12-14 giorni. Una protezione, dunque, straordinariamente duratura non osservabile dopo un singolo trattamento con altri farmaci. Ciò suggerisce che la TBG potrebbe essere particolarmente utile per ridurre il comportamento di ricaduta nelle persone che si stanno riprendendo dalla tossicodipendenza. Saranno ovviamente necessari studi approfonditi in altri modelli animali e successivamente in studi clinici per chiarire meglio il meccanismo d’azione del nuovo composto TBG. Non a caso Cameron e i suoi collaboratori sono stati molto attenti a sottolineare che questo studio è solo un primo passo in una nuova direzione e non un invito a iniziare immediatamente a utilizzare la TBG, l’ibogaina o altri composti simili. Non si può negare, però, che il passo compiuto potrebbe aprire nuove interessanti strade nel contrasto ad alcune patologie mentali.



RICERCA

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#PARLIAMONE La campagna della Fondazione BRF per abbattere lo stigma delle patologie mentali. Un modo per avvicinare l’opinione pubblica a disturbi che toccano milioni di italiani

di Irene Torre

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a Fondazione BRF Onlus ha tra i suoi obiettivi quello di combattere lo stigma legato alle patologie di ordine psichiatrico, uno stigma che pesa soprattutto sul malato e sui suoi familari. Il pregiudizio sui disordini mentali, infatti, molto spesso porta alla condanna sociale e alla colpevolizzazione della persona, che penserà quindi di dover nascondere il suo disturbo e, nei casi peggiori, di isolarsi per timore o vergogna. È, d’altronde, l’origine stessa della parola “stigma” che lascia capire il peso di questo tabu. La parola, infatti, deriva dal concetto di marchio, un segno che separa chi è sano da chi non lo è, discriminando ed emarginando. Con la campagna di sensibilizzazione #Parliamone lanciata proprio questo mese, la Fondazione BRF vuole inviare un messaggio chiaro, abbattendo i pregiudizi legati alle patologie di ordine mentale: avere un disturbo mentale non è un’onta, parlarne è fondamentale per iniziare un percorso di

cura e di accettazione. Parlarne è importante per “rompere la bolla” del silenzio e stracciare il velo di Maya che avvolge le persone che soffrono di depressione, ansia, panico, disturbi alimentari, un velo che fa pensare loro di essere casi rari e isolati. Non è così: secondo il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità una persona su quattro ogni anno ha esperienza di problemi di salute mentale. In un anno i servizi specialistici del Sistema Sanitario Nazionale hanno assistito più di 850.000 persone. Inoltre, questi sono dati che si riferiscono a un periodo antecedente alla diffusione dell’epidemia di COVID-19, che, secondo le prime stime raccolte, ha comportato anche una “pandemia emozionale”, vedendo crescere in modo esponenziale ansia, disturbi del sonno e depressione. Sembra già evidente che «chi era già escluso o emarginato dalla vita sociale ha visto questo disagio crescere e sta pagando un prezzo altissimo», secondo quanto dichiarato anche dal sotto-


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Illustrazione dell’artista Yao Xiao che ha aderito alla campagna.

segratario alla Salute Sandra Zampa. Le patologie di ordine mentale sono quindi molto diffuse, più di quanto siamo portati a pensare nel nostro quotidiano. Potenzialmente potrebbero riguardare ogni famiglia italiana. Per questa ragione abbiamo pensato di rompere questa “bolla del silenzio” avvalendoci delle testimonianze di personaggi famosi del mondo dello spettacolo o dello sport, condividendo sui social della Fondazione BRF le loro interviste rilasciate a diverse testate giornalistiche, in cui gli stessi vip parlavano della loro esperienza di disordine mentale. Lo scopo è mettere in discussione l’idea per cui chi soffre di tali patologie sia debole, mostrando come anche chi è all’apice della carriera e della fama possa attraversare momenti difficili. Chiaro il concetto espresso da Selena Gomez, celebre cantante e attrice statunitense con problemi di ansia e depressione: «I miei problemi non mi rendono difettosa, né debole. Mi rendono umana».

Importanti nomi del fumetto italiano e internazionale, tra cui Yao Xiao, Carlotta Scalabrini, Alessandro Baronciani, Fabio Magnasciutti e Mario Natangelo, hanno donato una loro opera a favore della campagna #parliamone, contro lo stigma legato ai disturbi mentali. Siamo convinti che le immagini abbiano il potere formidabile di rendere comprensibile la sofferenza, il disagio e in generale le emozioni, più di quanto potrebbero fare mille parole. Per questo, abbiamo realizzato con queste illustrazioni t-shirt e gadget che possono essere acquistate sul sito www.worthwearing.org. Un piccolo aiuto che potrà avere tuttavia la forza di abbattere uno stigma che per troppi anni è stato portato avanti e che la Fondazione BRF, sin dalla sua nascita, sta cercando di combattere. Come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità, d’altronde, non possiamo parlare di salute trascurando quella di uno dei nostri organi più importanti: il cervello.

Secondo il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità una persona su quattro ogni anno ha esperienza di problemi di salute mentale. In un anno i servizi specialistici del Sistema Sanitario Nazionale hanno assistito più di 850.000 persone


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COSÌ IL NOSTRO

CERVELLO “SI INNAMORA”

Il 14 febbraio, come tradizione vuole, è il giorno di San Valentino. Ma come ci innamoriamo? Cosa scatta nel nostro cervello? Ecco alcune risposte a tutte le nostre domande

Al cuor non si comanda? In realtà è sempre il cervello a trasmettere le emozioni

di Donatella Marazziti Responsabile ricerche Fondazione BRF, psichiatra professoressa all’Università di Pisa e all’UniCamillus


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li uomini devono sapere che dal cervello e solo dal cervello derivano piacere, gioia, riso, scherzo, così come tristezza, pena, dolore e paure. Grazie al cervello noi possiamo pensare, vedere, sentire…”. Senza dubbio l’affermazione di Ippocrate, uno dei medici più famosi dell’antichità e a cui si attribuisce il giuramento tuttora declamato dai neolaureati in Medicina, può sembrare confortante, perché fa pensare che praticamente da sempre si sapesse che il cervello è la sede delle emozioni, in effetti non è così: per lungo tempo, emozioni e pensiero sono stati a lungo considerati espressioni di processi diversi, localizzati in organi distinti e, quindi, profondamente antitetici. Per quanto riguarda l’amore, gli antichi greci ritenevano che fosse necessario l’intervento di un dio, Eros, che si divertiva a scagliare le sue frecce sui miseri mortali, rendendoli schiavi della passione, come se l’ amore dipendesse da un fattore esterno all’ uomo, in grado di soggiogarlo contro la sua volontà. Eros viene rappresentato con le sembianze di un bambino, eppure, sotto l’ aspetto innocente, nasconde un’estrema crudeltà che si manifesta con le ferite laceranti delle sue frecce che non risparmiano né dei, né uomini. È chiaramente implicito in questa concezione un giudizio negativo sul sentimento amoroso, che si estende anche alle altre emozioni, considerate di gran lunga inferiori al pensiero logico. Platone, così come tanti altri filosofi e poeti, si scaglia contro Eros nel “Convivio” e lo considera un demone nato da povertà ed espediente, sempre agitato ed insoddisfatto. Se prima il dibattito era di competenza filosofica, nell’ultimo secolo si è andato progressivamente spostando in ambito scientifico e poi neuroscientifico, fino ai nostri giorni, in cui vediamo che la ricerca biologica non fa che ag-


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Se prima il dibattito era di competenza filosofica, nell’ultimo secolo si è andato progressivamente spostando in ambito scientifico e poi neuroscientifico. fino ai nostri giorni, in cui vediamo che la ricerca biologica non fa che aggiungere tasselli al complesso mosaico dei meccanismi nervosi delle emozioni.

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giungere tasselli al complesso mosaico dei meccanismi nervosi delle emozioni. Oggi sappiamo di essere innamorati perché ce lo dice la corteccia cerebrale che è in grado di interpretare nella maniera giusta il batticuore e la sensazione di svenimento che ci prende quando incontriamo il nostro partner e che sa distinguere benissimo che questo stato d’animo, pur presentandosi con le stesse modalità, non è la reazione da paura che proviamo quando siamo spaventati da qualcosa o qualcuno. Anche se l’amore nasce nel cervello, però, senza sintomi periferici non ci sarebbe nulla da interpretare: questo vuol dire che il corpo è il teatro delle emozioni. Quindi, solo dalla perfetta armonia ed integrazione delle varie componenti del nostro organismo derivano le emozioni ed i sentimenti e solo la corretta interpretazione che ne dà il nostro cervello ne rende possibile la consapevolezza, acquisizione umana che, a sua volta, è alla base della progettualità, della pianificazione delle strategie ed anche del controllo delle emozioni troppo dolorose, come avviene nel caso dell’ amore quando il sentimento non è ricambiato. Molto recentemente, i possibili substrati anatomici dell’amore sono stati esplorati con le più moderne tecniche di indagine della funzionalità cerebrali, quali la tomografia ad emissione di positroni (PET), ma siamo in una fase

molto iniziale, anche se promettente. Mettendo insieme tutti i dati attualmente disponibili, possiamo dire che strutture come i lobi frontali, il lobo limbico e, in particolare, l’amigdala, l’ippocampo e le aree del setto, sembrano svolgere un ruolo fondamentale nell’elaborazione delle emozioni legate alla passione amorosa, anzi, qualche neuroscienziato parla di un vero e proprio circuito dell’amore che coinciderebbe con quello del cervello sociale. Non tutto il lobo frontale, però, sembra così importante, ma solamente le parti più anteriori, poste davanti all’area che regola il movimento volontario, e che si chiamano prefrontale ed orbito-frontale. Individui con lesioni circoscritte in queste zone mostrano, infatti, un’intelligenza normale, memoria e linguaggio immodificati, raziocinio pressoché intatto, ma una ridotta capacità di prendere una qualsiasi decisione, insieme ad un appiattimento delle emozioni e dei sentimenti. Il ruolo dell’amigdala nell’e-


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laborazione delle emozioni, ancora, è emerso fin dai primi esperimenti compiuti su scimmie a cui venivano asportati chirurgicamente i due lobi temporali in cui sono contenuti appunto amigdala e ippocampo. Gli esperimenti hanno mostrato il legame tra queste zone e la nostra docilità. Esistono descrizioni di pochi pazienti con lesioni limitate dell’amigdala che però sono molto interessanti: tali individui mostrano disturbi del comportamento emozionale e sociale e, in particolare, manifestano una profonda alterazione della capacità di valutare gli aspetti più sottili e qualitativi delle emozioni ed il significato affettivo di quanto accade intorno a loro: si parla a questo proposito di “cecità affettiva”. C’è, poi, l’area del setto. Negli animali da esperimento la stimolazione di queste aree con elettrodi evoca le cosiddette reazioni da piacere: gli animali, inoltre, se liberi di autostimolarsi, trascurano ogni altro attività, perfino di mangiare e bere. Nell’uomo non sono stati ancora trovati dei centri specifici del piacere, anche se le prime indagini sembrano evidenziare che le emozioni positive possono attivare numerose aree cere-

brali, oltre alle “classiche” aree del setto e del lobo limbico già menzionate, e in particolare il circuito dopaminergico che dai nuclei tegmentali va al nucleo accumbens e alla corteccia cerebrale. Senza dubbio il piacere, così come la sofferenza, è un’emozione complessa e non c’è da meravigliarsi troppo che non esistano, almeno nell’uomo, centri del piacere veri e propri, ma che questa sensazione sia il risultato dell’attività di tante aree cerebrali. È tuttavia affascinante, e non fantascientifico, come qualcuno potrebbe pensare, sostenere che certe emozioni, come l’innamoramento e l’amore, vengano ricercate spontaneamente perché attivano dei circuiti cerebrali in grado di suscitare sensazioni positive e di benessere, mentre altre vengono evitate proprio per il motivo opposto. Ancora più affascinante è constatare che si tratta di una ricerca spontanea: non ce lo deve insegnare nessuno che amare ed essere riamati rappresenta la gioia più grande della vita, superiore ad ogni gratificazione economica o successo personale, è una consapevolezza iscritta da sempre nella nostra memoria umana.

Molto recentemente, i possibili substrati anatomici dell’amore sono stati esplorati con le più moderne tecniche di indagine della funzionalità cerebrali, quali la tomografia ad emissione di positroni (PET).


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IL MANGIATORE PER RICOMPENSA E IL CIBO DI CONFORTO COME “BISOGNO” Il cibo come gratificazione per una vita faticosa può causare il sovrappeso. Insorogono insoddisfazione o scarsa autostima per non riuscire a resistere alle piccole concessioni che allontanano l’agognato peso forma

di Tiziana Stallone Biologa nutrizionista, phD, Presidente Enpab

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empre più frequente e di facile osservazione è la figura del mangiatore che potremmo definire “per ricompensa”, volendo intendere con questo aggettivo una persona che cerca gratificazione nel cibo non per una vera e propria patologia depressiva, ma per una continua e costante flessione, in senso modestamente negativo, del tono dell’umore. In una vita faticosa, dedita al lavoro, agli altri, agli impegni, ai pensieri costanti una delle poche concessioni riservate a sé stessi nel mangiatore per

ricompensa è rappresentata dal cibo: un quadratino di cioccolata dopo cena, un bicchiere di vino, una coppetta di gelato, gelatine di frutta custodite nel comodino prima di andare a letto, un pacchetto di patatine. Non una compulsione di fatto ma un bisogno compensatorio di cibo, in maniera continuativa, che può portare queste persone ad una condizione di sovrappeso e difficilmente di severa obesità. Nel mangiatore per ricompensa o malinconico è presente un senso di insoddisfazione e scarsa autostima per


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non essere in grado, per piccole ma continue concessioni, di raggiungere il tanto desiderato peso forma. Quale frustrazione più grande della consapevolezza che “basterebbe davvero poco per dimagrire” ma quel poco non si riesce a farlo? La dietologia del passato non ha dato risposte risolutive a queste necessità delle persone, offrendo di fatto alle loro richieste di aiuto un piano nutrizionale caratterizzato dalla restrizione calorica e dall’assenza di deroghe. Dal punto del comportamento alimentare riteniamo che sia indispensabile assicurare a tali persone una compensazione alle loro fatiche psicologiche quotidiane, che sia anche conciliabile con il dimagrimento. Una risposta integrata tra counselling nutrizionale e personalizzazione della dieta che dia soluzioni durature nel tempo. Nel mangiatore per ricompensa e con sottofondo malinconico di fatto non considerare la gratificazione in una dieta potrebbe determinare l’abbandono della stessa.

Il concetto chiave del lavoro sul mangiatore per ricompensa nel percorso dietetico è “dimagrire sentendosi appagati”. Per il mangiatore per ricompensa il dolce, il salato o il bicchiere di vino e qualsiasi concessione alimentare non sono il frutto dell’ingordigia o della mancanza di volontà, ma rappresentano una gratificazione necessaria per la modulazione verso l’alto del tono dell’umore. Questo mangiatore ritrova il suo benessere nella biochimica del cibo, che gli serve non solo dal punto di vista energetico, ma psicologico. Se le concessioni si reiterano nel tempo, se non si conoscono le regole base del corretto stile di vita, queste deroghe possono favorire sovrappeso o obesità. Ogni deroga scatena il senso di colpa per non saper rinunciare al piacere. Con alla base un lavoro sulla qualità dell’alimentazione e sulla modifica dello stile di vita, tuttavia, queste deroghe sono assolutamente conciliabili sia con il dimagrimento che con il miglioramento dello

Quale frustrazione più grande della consapevolezza che “basterebbe davvero poco per dimagrire” ma quel poco non si riesce a farlo? Il concetto chiave del lavoro sul mangiatore per ricompensa nel percorso dietetico è “dimagrire sentendosi appagati”.


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stato di salute. D’altronde lo stesso Ippocrate saggiamente affermava: “È preferibile un cibo anche un po’ nocivo ma gradevole, a un cibo indiscutibilmente sano ma sgradevole” Ippocrate di Cos (460 a.C. circa – 377 a.C.)

“Non è più il caso di pensare a zone rosse, arancione e gialle, ma converrebbe attuare restrizioni più importanti per abbassare il numero di contagi e di morti, così da consentire la vaccinazione degli italiani”.

Il lavoro su questo tipo di mangiatore è elaborare una dieta che dia la massima gratificazione e che sia allo stesso tempo efficacie per dimagrire. Una dieta necessariamente larga e generosa, sostenibile nel tempo. Una dieta che non fa sentire la persona “a dieta”. Il fine di una dieta per il mangiatore per ricompensa è quello di condurlo ad una condizione gratificante, efficace e sostenibile, che non lo faccia sentire in colpa e che gli consenta di ottenere risultati. In un contesto significativamente migliorato rispetto alle abitudini consolidate, un cioccolatino non può minare alcun equilibrio. Veniamo alle concessioni quotidiane. Quali scegliere? Cosa introdurre? Basta chiederlo alla persona, non c’è infatti concessione più inefficace di una concessione imposta. La concessione può essere suggerita, concordata, ma mai imposta. È come dire puoi mangiare una pizza a patto che sia rossa o un gelato a patto che sia alla frutta. Se mangio quel che altri pensano sia gratificante per me e non quello di cui ho davvero bisogno, rimarrei con il desiderio. Sappiamo ora che la deroga è importante per mantenere l’equilibrio psichico, ma nel ventaglio di deroghe possibili un nutrizionista non dovrebbe mai dimenticare, questo è ovvio, il suo ruolo e il suo lavoro, cercando di guidare costantemente la persona che a lui si rivolge alle scelte migliori. L’obiettivo è quindi di inserire la qualità nella deroga, guidare la persona

a comprendere le differenze sostanziali tra cibo palatabile e cibo spazzatura. A seguire qualche esempio di gratificazione che non si oppone al dimagrimento. Il contenuto calorico di ogni spuntino è entro le centocinquanta chilocalorie, anche se le calorie non sono sicuramente l’aspetto principale. Le diverse scelte hanno buon bilanciamento dei nutrienti e anche qualche virtù: Latte caldo con cacao amaro – una tazza Fonte di calcio ad alta biodisponibilità e di peptidi bioattivi con azione sedativa e calmante. Cioccolato con almeno il 85% di pasta di cacao – 20 grammi Ricca di polifenoli ad azione antiossidante, cardioprotettiva, serotoninergica e calmante, a basso tenore di zuccheri. Noci o altra frutta secca 15 grammi (esempio 3 noci o 15 mandorle) Fonte di acidi grassi omega 3 anche essenziali come l’acido alfa linolenico ad azione antiossidante e antinfiammatoria, contengono vitamina E. Yogurt bianco fino ad un 2% di grassi con cioccolata fondente, frutta secca o frutta fresca Fonte di calcio ad alta assimilazione, vitamine del gruppo B, fermenti lattici e in più polifenoli, acidi grassi essenziali, vitamine e sali minerali. La psiconutrizione è una scienza relativamente nuova su cui il dibattito ferve. Pur non esistendo ancora linee guida in tal senso esiste, tuttavia, il buonsenso e l’esperienza del nutrizionista professionista. Iniziamo infatti a comprendere che un fare direttivo, privativo e restrittivo basato sul solo computo calorico può fornire risposte sul breve termine ma non soluzioni.


IL DIRETTORE RISPONDE

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Sono insicura, dubbiosa e piena di paure D

ottore, non sono mai stata male in vita mia ma da quando è iniziata la pandemia la mia vita è cambiata: sono insicura, dubbiosa, piena di paure. Mi alzo la notte spaventata che possa accadere qualcosa a me e ai miei cari. Mi controllo continuamente la febbre e la controllo continuamente anche a mio figlio. Cosa devo fare? Secondo lei ne usciremo? Anna Mancinelli

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entile signora, quello che lei descrive è una condizione di allarme conseguente allo stress generato dalla pandemia. Molte persone stanno attualmente vivendo una condizione come la sua; avvertono la condizione del momento come una fonte di pericolo incombente, come minaccia che genera un senso di paura e di insicurezza. Di solito coloro i quali sviluppano una sintomatologia del genere hanno una certa predisposizione all’ansia ed alla preoccupazione. Con piacere, però, fornisco a lei e chi si

trova nella sua stessa condizione alcuni consigli per aiutarla a superare questo periodo: innanzitutto eviti le sostanze eccitanti come la caffeina contenuta nel caffè e in alcuni energy drink; se fuma riduca il numero delle sigarette poiché anche la nicotina tende a peggiorare gli stati d’ansia. Se le è possibile, faccia attività fisica all’aperto lontano da tutti. Adotti una puntuale igiene del sonno dormendo intorno alle 8 ore, evitando di addormentarsi molto tardi o svegliandosi in mattinata avanzata. In una situazione come questa, infatti, è molto importante che sia conservato un corretto ritmo sonno-veglia. Se dovesse insorgere insonnia con difficoltà all’addormentamento, sonno frammentato o risveglio precoce tenga presente che questo può aggravare la sintomatologia e crearle dei problemi più importanti che le consiglio di affrontare con il suo medico di famiglia o con uno specialista psichiatra. Armando Piccinni

Hai domande da rivolgere al comitato scientifico della Fondazione BRF? Scrivi a stampa@fondazionebrf.org. Nel prossimo numero pubblicheremo le tue domande e le risposte fornite da uno specialista o direttamente dal direttore Armando Piccinni.


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FISIOTERAPIA RESPIRATORIA NELLA GESTIONE DEL COVID In Brasile la presenza dello specialista obbligatoria nei reparti di medicina intensiva. Una strada che anche l’Italia potrebbe intraprendere

di Antonio Acerbis

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a fisioterapia respiratoria è un tassello fondamentale nella riabilitazione post Covid-19. Ce ne siamo accorti tutti nel corso degli ultimi mesi. Il supporto di questa disciplina mira alla riduzione della fatica respiratoria (come si sa, uno dei tratti peculiari dei sintomi da coronavirus), migliora la gestione dei sintomi riducendo così la necessità di intubazione. E tutto questo – cosa non secondaria vista l’emergenza che abbiamo vissuto - può aiutare il paziente a raggiungere l’autonomia rispetto alla ventilazione meccanica e ai supporti respiratori, agevolando così il paziente nella ripresa dell’autonomia nella vita quotidiana. Questi sono solo alcuni dei temi su cui il fisioterapista respiratorio “fa la differenza” e sui quali si è sviluppa-

to nelle scorse settimane il seminario internazionale «Respiratory physiotherapists fighting Covid-19» organizzato dall’Associazione Riabilitatori dell’Insufficienza Respiratoria-Arir, evento che ha visto la partecipazione di 800 specialisti di settore. Un evento che ha aperto uno squarcio fondamentale sul futuro dell’assistenza territoriale, e che ha visto intervenire autorevoli esponenti della disciplina: da Andrea Lanza (Vicepresidente Arir, Equipe Fisioterapia Respiratoria, Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, Milano) fino a Emilia Privitera (Consigliere Arir, Fisioterapista, Dipartimento Professioni Sanitarie, Irccs Ca’ Granda-Ospedale Maggiore Policlinico, Milano). Le tre sessioni in cui era suddivisa la kermesse hano evidenziato, non a caso,


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un dato: il fisioterapista è stato coinvolto ovunque nella gestione dei casi da Covid-19, dalla gestione in pronto soccorso alle terapie intensive e sub-intensive, ma ha potuto offrire il massimo apporto laddove la sua figura era già prevista presente nei team multidisciplinari. Non è stata una mera coincidenza, infatti, che laddove la sua presenza non era già prevista è stato necessario integrare urgentemente il fisioterapista all’interno dei gruppi di lavoro, per assicurare gli interventi precoci e indispensabili già dalle prime fasi di cure intensive, ma anche per gestire formazioni “lampo”, sulla gestione delle strategie e dei presidi respiratori, dedicate ai colleghi ed ai professionisti sanitari non specializzati, contribuendo anche ad individuare e valutare tutti i tipi di apparecchiature (ventilatori, interfacce, sistemi di erogazione dell’ossigeno) più utili per i pazienti. Così com’è stato sottolineato anche nel corso del dibattito – e così com’è all’origine della nascita stessa di Professione Sanità – la pandemia che stiamo vivendo ha sottolineato (semmai ce ne fosse ancora bisogno) come l’integrazione tra le varie discipline mediche sia fondamentale per il successo della comunità scientifico-assistenziale. «C’è molto da imparare da questa esperienza - hanno

sottolineato i relatori - e tutto questo ci renderà più pronti ad affrontare le sfide future, comprese quelle pertinenti alla Fisioterapia ed alla riabilitazione polmonare». La conclusione del seminario è stata affidata alle parole di Andrea Lanza: «Ora più che mai i fisioterapisti respiratori sono chiamati all’azione. Tuttavia, dobbiamo ampliare le nostre competenze per rispondere ai sempre nuovi bisogni di salute che si affermano anche in periodi emergenziali: per questo dobbiamo riscrivere i modelli organizzativi nei contesti acuti e rafforzare il nostro ruolo nella comunità». E in giro per il mondo la riscrittura del modello di gestione dell’emergenza è già in atto: non a caso in Brasile - ha sottolineato il professor Wellington Pereira Yamaguti, fisioterapista dell’Hospital Sirio-Libanes di San Paolo, il più importante centro sanitario del Sud America - al termine della prima fase pandemica è stata emessa una direttiva sanitaria che include il fisioterapista in tutti i reparti di medicina intensiva, con l’indicazione della presenza di un fisioterapista ogni 6-10 letti. Anche il nostro Paese potrebbe uniformarsi a questa scelta lungimirante. Per essere pronto ad acquisire un’importante risorsa nella gestione non solo della riabilitazione ma anche delle terapie intensive.

Il supporto di questa disciplina mira alla riduzione della fatica respiratoria (come si sa, uno dei tratti peculiari dei sintomi da coronavirus), migliora la gestione dei sintomi riducendo così la necessità di intubazione.


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AFFATICAMENTO E STRESS DA SMART-WORKING I dati raccolti dal dipartimento di Psicologia della Cattolica di Milano: due su tre avvertono sintomi psicosomatici e una “invasione” nella sfera privata

di Francesco Carta

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e abbiamo sentito tanto parlare. Inizialmente forse il fenomeno è stato sottovalutato. Adesso, invece, non c’è molto da sorridere con l’avvento dei primi studi e delle prime ricerche. Ricerche che esprimono un concetto molto chiaro: sì, l’online fatigue esiste. Tutta colpa dell’eccessivo smart-working, secondo gli specialisti di psicologia. Fatto sta che sintomi psicosomatici, assenza di tempo libero, scarsa qualità di vita ed estensione illimitata dell’orario lavorativo quotidiano, oltre a una profonda sensazione di interferenza tra vita privata e vita lavorativa, sono ormai all’ordine del giorno. Questi sono i risultati di un’indagine condotta da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Psicologia e del Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano - Serena Barello, Andrea Bonanomi, Federica Facchin, Daniela Villani - che ha fatto


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un bilancio dell’esperienza dei docenti universitari italiani dopo nove mesi di lavoro prevalentemente in remoto e dell’impatto di tale esperienza sulla loro vita personale. I risultati sono a tratti inquietanti: due intervistati su tre avvertono una profonda invasione delle tecnologie nelle proprie vite, con un utilizzo superiore alle sei ore al giorno per la maggioranza del campione, inclusi i weekend e i giorni di festa, o in orario extra-lavorativo. Inoltre, un intervistato su due dichiara di trascorrere in media più di quattro ore al giorno su piattaforme di comunicazione (come Zoom, Skype, Teams). Ma ciò che colpisce è soprattutto la profonda sensazione di interferenza tra vita privata e vita lavorativa riportata dalla maggioranza degli intervistati (55%). Secondo la ricerca, nell’ultimo mese, il 65% degli accademici si è dedicato al lavoro anche in orari o giornate non lavorative. Il 67% ha percepito che la propria vita personale è stata invasa dalle tecnologie utilizzate per lavoro, e tale percentuale supera l’80% tra chi trascorre più di otto ore al giorno online. Ci sono, tuttavia, anche alcuni aspetti positivi. L’altro lato della medaglia racconta che, nonostante la fatica, la maggioranza dei partecipanti continua a sentirsi orgogliosa del proprio lavoro (84%) e a considerarlo ricco

di significati e di obiettivi (73%), evidenziando alti livelli di coinvolgimento, dedizione e resilienza. Gli universitari, ovviamente, non sono gli unici a risentire di questa dinamica. Secondo molti altri studi realizzati in questo periodo non c’è dubbio alcuno che lo smart-working crea stanchezza e stress: sicuramente indebolisce il rapporto interpersonale, senza dimenticare che è stato accertato che vedere sempre la propria immagine sullo schermo crea profondo stress. Un altro studio, ancora, ha riscontrato che già un secondo di ritardo significa un maggior sforzo per il cervello umano. Inoltre, una risposta data con leggero ritardo rende l’interlocutore meno attento, coscienzioso ed estroverso ai nostri occhi, influenzando negativamente il proseguimento della riunione virtuale. Altro aspetto fondamentale è la “pericolosa” tentazione del multitasking: soprattutto quando le riunioni virtuali vanno per le lunghe, i partecipanti tendono a svolgere altri compiti nel mentre. Se così facendo da un lato si aumenta la propria produttività, dall’altro questo multitasking stanca e inficia la qualità del lavoro svolto. A chiudere il cerchio ci sono, poi, i bambini “condannati” molto spesso a studiare lontano dai banchi di classe. Da uno studio recente dell’associazione di psicologi “Donne e qualità della vita”, svolto nel corso del 2020 su un campione di 600 soggetti tra i 12 e i 19 anni, risulta che 1 su 3 ha sviluppato un disturbo di tipo ansioso-depressivo che si manifesta attraverso gesti autolesionistici, tentativi suicidari, disturbi del comportamento alimentare, attacchi di panico, fino ad arrivare a stati dissociativi importanti accompagnati da depersonalizzazione e derealizzazione. «Questi dati - sottolineano gli specialisti - sono in correlazione diretta con il fatto di non recarsi fisicamente a scuola».

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I risultati sono a tratti inquietanti: due intervistati su tre avvertono una profonda invasione delle tecnologie nelle proprie vite, con un utilizzo superiore alle sei ore al giorno per la maggioranza del campione, inclusi i weekend e i giorni di festa, o in orario extra-lavorativo.


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di Antonello Di Bella

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n’importante scoperta che apre una strada nella lotta al glioblastoma, il cancro al cervello più aggressivo e letale, con una sopravvivenza mediana di appena 15 mesi dalla diagnosi. A realizzare lo studio un team di scienziati della Columbia University di New York, guidato dagli italiani Antonio Iavarone e Anna Lasorella. Ma cos’è stato scoperto? I ricercatori hanno dimostrato nel 20% circa dei glioblastomi un’iperattività dei mitocondri, le centrali energetiche della cellula. Quest’anomalia alimenta i tumori in cui si presenta, che quindi possono essere contrastati usando farmaci inibitori dei mitocondri, già disponibili o in sperimentazione clinica. Secondo gli autori dello studio - pubblicato su Nature Cancer - il lavoro apre la strada a terapie personalizzate in grado di bersagliare il cancro non più in base all’organo o al tessuto in cui nasce, bensì in base al suo metabolismo. La nuova scoperta è stata

possibile grazie ai recenti progressi delle tecniche di analisi molecolare effettuate su singole cellule tumorali. Complessivamente, i ricercatori hanno caratterizzato le proprietà biologiche di 17.367 singole cellule da 36 diversi tumori cerebrali. In questo modo, esaminando la malattia e classificandola a seconda delle sue caratteristiche biologiche fondamentali, hanno descritto l’esistenza di 4 tipi differenti di glioblastoma: di questi - spiegano gli scienziati - due ricapitolano le funzioni attive nel cervello normale, rispettivamente le cellule staminali o i neuroni, mentre gli altri due gruppi includono i tumori mitocondriali e una tipologia con attività metaboliche multiple (il cosiddetto “tumore plurimetabolico’”) che è altamente resistente alle attuali terapie. Adesso, però, i pazienti potrebbero contare su un nuovo approccio terapeutico: dallo studio emerge infatti per i farmaci che inibiscono i mitocondri «un potente effetto antitumorale» contro le


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BATTAGLIA AI TUMORI “KILLER” AL CERVELLO Studio italiano pubblicato in Usa, ma da un team coordinato da due italiani. Potrebbero essere fondamentali i farmaci inibitori dei mitocondri

cellule di glioblastoma con mitocondri iperattivi. Non è un caso, che farmaci inibitori dei mitocondri sono già in sperimentazione. Ma «ora possiamo espandere questi studi clinici a un gruppo più ampio di malati - afferma Iavarone, docente di Neurologia alla Columbia - perché possiamo identificare i pazienti con tumori che, indipendentemente dalle alterazioni genetiche, sono caratterizzati da attività mitocondriale elevata». «Siamo incoraggiati per la scoperta del gruppo mitocondriale di tumori al cervello, perché abbiamo già farmaci per questo gruppo in fase di sperimentazione clinica - commenta Lasorella, docente di Pediatria dell’ateneo newyorkese». Il risultato è fondamentale perché adesso, classificando i tumori cerebrali in base alle loro caratteristiche biologiche chiave e non solo alle alterazioni genetiche o ai biomarcatori cellulari, si potrebbe recuperare il gap sull’esempio dei successi già segnati ad esempio con-

tro il cancro al seno: «Nel caso dei tumori della mammella – ricordano i due ricercatori su Nature Cancer - si sono identificati sottotipi molto ben definiti, e questo ha portato allo sviluppo di terapie mirate». In altre parole, potrebbe essere possibile classificare ogni cellula tumorale sulla base della biologia reale che la sostiene. «Questo approccio evidenziano i due scienziati - dovrebbe portare a identificare attività biologiche comuni ai diversi tipi di cancro indipendentemente dal tessuto di origine. Quindi i farmaci che trattano il cancro mitocondriale al cervello potrebbero essere efficaci nel sottotipo mitocondriale di altri tumori, come quello al polmone». La strada è tracciata: classificando i tumori in base alle attività biologiche fondamentali su cui le cellule tumorali si basano per sopravvivere e moltiplicarsi, potremo scoprire che i tumori hanno in comune più di quanto non sia evidente solo esaminando le alterazioni dei loro geni.

I ricercatori hanno dimostrato nel 20% circa dei glioblastomi un’iperattività dei mitocondri, le centrali energetiche della cellula. Quest’anomalia alimenta i tumori in cui si presenta, che quindi possono essere contrastati usando farmaci inibitori dei mitocondri.


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CRANIO RICOSTRUITO CON LA STAMPA 3D La nuova frontiera per diagnosi e cure su misura. La sfida (già vinta) per la chirurgia maxillo-facciale e odontoiatria

di Alessia Vincenti

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n risultato incredibile che, ancora una volta, mostra come la tecnologia possa essere al servizio della salute e della chirurgia. Mentre la sanità piemontese è impegnata a gestire l’epidemia di Covid, la sfida nell’utilizzo delle nuove tecnologie anche in urgenza è stata vinta. Nei giorni scorsi un ragazzo di 23 anni, ricoverato al Cto per un gravissimo trauma facciale, è stato sottoposto a un lungo intervento di ricostruzione: un viso completamente nuovo grazie a una ricostruzione virtuale in 3D. Una corsa contro il tempo, vista la necessità di intervenire rapidamente,

ma sulla base di una lunga esperienza e competenza che si sono formate nel tempo: un laboratorio per sperimentare nuove metodiche chirurgiche con l’ausilio delle tecnologie 3D è infatti attivo da due anni alle Molinette nel reparto di Chirurgia maxillo facciale. Grazie a software dedicati, consente di progettare l’intervento chirurgico in modo da ottenere soluzioni personalizzate per ogni paziente. Il laboratorio si trova all’interno del reparto di Chirurgia maxillo facciale e consente di ricreare un modello del paziente e tramite software dedicati progettare l’intervento chirurgico, in modo da ottenere soluzioni personalizzate per ogni paziente. Il laboratorio è dotato di una postazione per l’elaborazione virtuale 3D dei modelli anatomici, che poi verranno realizzati attraverso l’utilizzo di stampanti 3D presenti in reparto, per coadiuvare la pianificazione degli interventi chirurgici. Una sinergia di tecnologie ed esperienza clinica, dunque, che ha permesso di sviluppare nuovi protocolli di diagnosi e cura di pazienti, con la possibilità di trasferire la pianificazione degli interventi in sala operatoria. Tuttavia, nonostante la


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presenza del laboratorio all’interno del reparto, la simulazione chirurgica e la stampa 3D in urgenza differita sono rimaste fino ad oggi una sfida soprattutto in termini di tempo. Appena le immagini della Tac sono state disponibili, gli ingegneri del dipartimento di Ingegneria gestionale e della produzione del Politecnico di Torino, su indicazione dei chirurghi, hanno simulato al computer l’intervento cercando di ridare forma all’anatomia del volto. Poi è stato stampato un modello 3D del volto ricostruito su cui i chirurghi hanno modellato placche di titanio personalizzate sul paziente da utilizzare in sala operatoria come guide per la ricostruzione. L’intervento chirurgico è stato eseguito da Pompeo Cassano dell’équipe di Chirurgia plastica e ricostruttiva del Cto e da Emanuele Zavattero dell’équipe di Chirurgia maxillo facciale delle Molinette con la collaborazione dall’anestesista Sergio Levi del team di Anestesia e rianimazione. L’intervento preparato in 3D a tavolino ha consentito di ridurre i tempi operatori velocizzando i passaggi chirurgici e la soluzione dei possibili imprevisti.

La pianificazione chirurgica virtuale, integrata con le tecnologie di stampa additiva, ha consentito di svolgere, all’interno delle sale operatorie della Città della Salute di Torino, numerosi interventi di chirurgia ad alta complessità del volto. Non è un caso che soprattutto negli ultimi mesi sono stati pubblicati diversi articoli – specie sulla rivista scientifica The Journal of Craniofacial Surgery – in cui si sottolinea come la tecnologia permetta innovative soluzioni destinate a dare una svolta per le cure sempre più su misura dei difetti ossei dentali e maxillo facciali. Tra gli autori di questi articoli e coordinatori delle ricerche c’è anche è il dottor Giuseppe Cicero, docente dell’Università di Madrid, a capo di un team di ricerca per l’utilizzo della stampante 3D con sofisticati programmi software di facile utilizzo. «La tecnologia 3D presenta numerosi vantaggi – ha avuto modo di spiegare in passato sul sito specializzato Tecnomedicina – Anzitutto, modifica il rapporto fiduciario tra medico e paziente, con una verifica da parte del paziente con i propri occhi del tipo di intervento che dovrà eventualmente subire; in secondo luogo, permette il passaggio da una diagnosi solo visiva ad una anche di tipo tattile. Infine, questa nuova tecnologia democratizza il tridimensionale grazie ai costi contenuti e apre orizzonti inediti alla prevenzione e alla realizzazione di operazioni virtuali, ma anche a nuove applicazioni nel campo del maxillo-facciale attraverso la riproduzione dell’intero cranio. Con la stampa 3D riusciamo a migliorare le diagnosi e a limitare al massimo gli errori clinici, creando una chirurgia sempre più su misura di precisione». Esattamente come accaduto nella ricostruzione del cranio avvenuta a Torino.

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Un ragazzo di 23 anni, ricoverato al Cto per un gravissimo trauma facciale, è stato sottoposto a un lungo intervento di ricostruzione: un viso completamente nuovo grazie a una ricostruzione virtuale in 3D. La pianificazione chirurgica virtuale, integrata con le tecnologie di stampa additiva, ha consentito di svolgere, all’interno delle sale operatorie della Città della Salute di Torino, numerosi interventi di chirurgia ad alta complessità del volto.


L’AUTORE

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SILVIA AVALLONE: “IL COVID HA CAMBIATO TUTTO, ANCHE I RAPPORTI CON I SOCIAL” Intervista all’autrice toscana che torna in libreria con un delicato romanzo sull’amicizia e sull’apparenza

di Flavia Piccinni

«Q

uesta pandemia ci ha insegnato come i social-vetrina, utili solo per fare a gara nel mostrare la nostra felicità, siano inutili. Adesso dobbiamo fare i conti con la verità delle nostre esistenze». Riflette così la scrittrice Silvia Avallone, classe 1984, biellese di nascita e bolognese per scelta, legata nella memoria comune al successo del suo esordio, il bestseller “Acciaio” (Rizzoli, 2010), divenuto anche un film per la regia di Stefano Mordini. Lo fa raccontando di “Un’amicizia”, appena uscito per Rizzoli (pp. 460, 19 euro) dopo tre anni di lavoro, rincorsa verso la vita adulta di Elisa e Beatrice, amiche e opposte in tutto. Una è ossessionata dai libri – su tutti “Menzogna e sortilegio” di Elsa Morante - e da autori come Vittorio Sereni o Wislawa Szymborska, l’altra

proiettata nel futuro online. Vivono in un’anonima città della costa tirrenica, T., che potrebbe essere Piombino o forse Tirrenia, e si nutrono di quell’esistenza di provincia che diventa sempre infernale nelle opere dell’autrice. «Beatrice – spiega Avallone - per me è il demone dell’immagine che abita ciascuno di noi, e che negli ultimi vent’anni segna il cambiamento fra un’epoca e l’altra. Il romanzo comincia in un momento in cui nessuno interromperebbe la sua vita per fare una foto, e arriva all’oggi in cui, dopo la grande sbornia tecnologica, ci sentiamo obbligati a raccontare noi stessi. Beatrice flirta con il tempo prima di noi. Ha la testa in questo futuro che sente arrivare, e che anticipa. Elisa, invece, è il suo opposto: è il demone della parola, soprattutto di quella letteraria, che cerca la complessità, che tiene traccia


L’AUTORE

della vita, che non si limita a fermare un’istante, ma vuole restituire la storia. È il demone che mi riguarda di più, e che vorrei salvare». Un compito ambizioso. Non credo che i social in questo momento debbano continuare a essere usati come scambi fra apparenze. Penso, piuttosto, che debbano essere un richiamo per la realtà. Questo però non può succedere senza il linguaggio giusto, del quale siamo ancora alla ricerca. Secondo lei per quale motivo? Veniamo da decenni in cui la scuola e la lettura sono stati raccontati come non prioritari. Anni in cui invece era fondamentale il successo facile, la visiblità. Strade evanescenti che ci hanno portato in un punto privo di ritorno. Potremmo essere in una situazione senza via d’uscita. O, forse, siamo pronti per cambiare strada. Lei che adolescente era? Ero una ragazza di grandi amicizie, di molte letture e di poesie, ovviamente tremende, che scrivevo in un diario con il lucchetto. Inseguivo in motorino la libertà invisibile, quei luoghi dove era possibile macinare segreti. Quel sentimento me lo porterò dietro per tutta la vita. È un invito che viene fatto soprattutto a chi, come lei, in qualche modo è famoso. Io non mi sento famosa. Uno scrittore resta pur sempre qualcuno che rimane nell’invisibilità. Sul web si cerca il protagonismo assoluto. E a patire di più sono le donne, costrette a una semplificazione di loro stesse. Siamo nella dittatura del giudizio. Oggi la vera sfida è quella di comunicarsi come persone. Siamo stufi del fasullo. Il tabù della nostra società continua a essere il fallimento, e le donne ancora oggi sono invitate a essere marginali, con la cultura che hanno introiettato nel corso dell’intera vita. Vede, i social narrano la

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Silvia Avallone.

felicità, ma io amo la letteratura che è narrazione delle crepe. Forse questa pandemia sta cambiando le cose. O no? Finalmente abbiamo tutti l’occasione di essere più cittadini di prima. Chiunque con il suo talento, con la sua passione, può tornare a una dimensione di comunità. Lo pensa davvero? Sono un’inguaribile speranzosa. Per adesso il Covid ci sta rendendo più spaventati e più arrabbiati, ma non migliori. Però sta a noi decidere. Sta a noi scegliere se fare, o meno, la differenza.

“Un’amicizia” Silvia Avallone Rizzoli 460 pagine 19 euro


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LIBRI

Alla scoperta del tempo perduto con il principe Matila Ghyka Dopo quasi cento anni, riemerge dal passato un grande classico che riesce a raccontarci chi siamo

T

empi dimenticati, che con i decenni conosciuto”. E poi c’è – come dicevamo all’eacquisiscono fascino. Incontri segre- sordio - questo romanzo che riemerge adesso ti, aspirazioni intime, la storia che si con la traduzione di Maria Sole Iommi, conintreccia ai destini umani e il ritratto figurandosi fin dall’arrivo in libreria qualche di un’epoca che oggi sa incantare più che mai. settimana fa come una straordinaria scoperta C’è tutto questo nello straordinario romanzo editoriale. Si tratta di un libro dalla prosa rafdi Matila C. Ghyka, “Pioggia di finata ed elegante, che accompagna stelle” (pp. 400, 26 euro), che arriva il lettore nella vita diplomatica del adesso in Italia per la prima volta periodo antecedente alla Prima grazie alla casa editrice Atlantide. Guerra mondiale, rivelando una Ma prima di addentrarsi nei meanstraordinaria dimensione spirituadri del romanzo, bisogna raccontale e mostrando l’incantatrice Belle re il suo autore, Matila Costiescu Epoque dallo sguardo di chi l’ha Ghyka. Principe romeno (e bisnivissuta. Con il talento dei grandi pote dell’ultimo regnante moldavo) narratori, Matila Ghyka rievoca in nacque in Moldavia nel 1881 e morì modo magistrale un mondo ormai a Londra nel 1965. La sua vita fu fa- “Pioggia di stelle” perduto, quello austro-ungarico tra volosa e romanzesca quanto quelle Matila C. Ghyk le due guerre, che trova nella Viendei suoi personaggi: ufficiale navale, Atlantide na dell’Opera e dell’Hotel Sacher 400 pagine alto diplomatico, operaio, matema- 26 euro e nella Praga fantastica e occulta tico, studioso di esoterismo, profesdegli anni Venti la propria più casore universitario, flaneur, amico di ratteristica espressione. Il racconto Paul Valery, Marcel Proust, Antonie de Saint- accompagna il lettore nelle vite di diplomatici Exupéry, autore di un libro celebre come Il ambiziosi e principesse misteriose, uomini dai numero d’oro che influenzò generazioni di natali incerti e sa parlare dei sentimenti umani studiosi e di artisti tra cui Le Corbusier e Sal- con lo sguardo di chi ha navigato la vita fra vador Dalì. Fu autore di varie opere di sag- tempeste e speranze. Anche per questo il rogistica, ammirate da personaggi quali Mircea manzo, pubblicato originariamente nel 1933 Eliade e Guido Ceronetti, che lo definì “uno in Francia da Gallimard, non può essere defidei grandi romeni contemporanei e il meno nito che come un grande classico. (F. P.)


CINEMA E TV

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Dentro la comunità La serie di Netflix su San Patrignano Passione, prevaricazione, solitudine e resistenza alle porte di Rimini, in un’Italia impreparata alle dipendenze

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atene, violenze, restrizioni, morti. Nelle ultime settimane tanto si è detto della serie doc di Netflix SanPa — Luci e Tenebre di San Patrignano, dedicata all’omonima comunità fondata a Rimini nel 1978 da Vincenzo Muccioli. Si tratta di uno dei maggiori centri di riabilitazione per tossicodipendenti in Europa, dove ancora oggi alla cura clinica e farmacologica si preferisce un «recupero residenziale a lungo termine» per il quale centrale è il ruolo del gruppo, del tutor (solitamente un ex ospite della comunità) e dei «settori di formazione» (se ne contano 50: dalla coltivazione all’artigianato, passando per il reparto “cucina” e “regia”, ovvero i film da vedere la sera). Una comunità, San Patrignano, nata dalla visione di un uomo ambizioso, mosaico di talenti e di ombre, che viene svelato con discrezione nel documentario in cinque puntate diretto da Cosima Spender e che guida lo spettatore, fra video d’archivio e interviste esclusive, in un lungo viaggio. Si parte dalla nascita del «sogno di Muccioli» per arrivare al 1995, anno della morte del fondatore; sotto la lente di ingrandimen-

to passano tanto gli ideali capaci di muovere Muccioli - il cui motto era: «curare con iniezioni potentissime. Iniezioni di amore» quanto i metodi coatti utilizzati come prassi, che comprendevano anche violenza e incatenamento ai danni degli ospiti che minacciavano di andare via, o che tentavano la fuga. Ne esce fuori un ritratto a tutto tondo, che obbliga il telespettatore a riflettere su molti aspetti. Per primo su come le questioni sospese prima o poi vengano a galla, anche in Italia; il rapporto dell’opinione pubblica e privata con l’eroina, ma anche con Muccioli, si è dimostrato a tutti gli effetti una questione sospesa, che ha animato il dibattito in concomitanza con l’uscita, mettendo in evidenza il vuoto assistenzialistico che per decenni si è protratto nel nostro Paese. Obbliga però, SanPa, anche a una riflessione allargata sul senso del bene (Il comportamento di Muccioli è giustificabile? La violenza è perdonabile se fatta per fare del bene?), sul significato di autodeterminazione e su quanto sia rischioso per lo Stato lasciar proliferare delle zone grigie, ove chiunque sia libero di operare secondo i propri principi. Spesso in barba alle leggi. (F. P.)



l’Italia rinasce con un ďŹ ore vaccinazione anti-Covid 19

www.salute.gov.it/nuovocoronavirus


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TITOLI DI CODA

Una pandemia per tutti ma per qualcuno di più di Pietro Pietrini Professore Ordinario, Direttore Scuola IMT Alti Studi Lucca

È

ormai da un anno che la pandemia in corso ha radicalmente mutato la nostra vita, scardinando riti e abitudini fondanti della nostra esistenza. Incurante di barriere geografiche o confini politici, il piccolo virus in men che non si dica ha accomunato popoli con pelle, lingua, cultura e tradizioni diverse. Come per un malevolo incanto, la nostra vita quotidiana si è congelata, privata persino del conforto di un abbraccio, del calore di una stretta di mano. Una sofferenza universale, come non avevamo mai neppure immaginato. Siamo dunque tutti sotto la stessa tempesta, ma non siamo tutti sulla stessa barca, per dirla con le sagge parole di Monsignor Paglia. Al contrario, la pandemia ha divaricato la forbice della società, colpendo più duramente le persone più vulnerabili e al contempo dotate di minori risorse per reagire. Pensiamo a chi soffre di un disturbo mentale, quale esso sia. L’impalpabilità del pericolo, l’angoscia del contagio, l’incertezza del domani alimentano disturbi d’ ansia, depressione, psicosi. Il lock-down assoluto dei primi mesi e le limitazioni agli spostamenti tuttora in corso da un lato, l’enorme domanda di risorse cliniche per far fronte all’infezione e la drastica riduzione di operatività delle attività ospedaliere non-COVID dall’altro, hanno di fatto reso ancor più difficile l’accesso all’assistenza psichiatrica. Si è instaurato un pericoloso effetto domino,

che impedisce ai pazienti psichiatrici di ricevere aiuto proprio quando ne avrebbero maggior bisogno. Vi è un’altra importante considerazione, tra le molte che si potrebbero fare. I pazienti psichiatrici sono in molti casi più vulnerabili anche per la loro condizione personale e sociale. Povertà, mancanza di supporto familiare, abuso di alcool e droghe, isolatamente o, come più sovente accade, associati tra loro, sono tutti elementi di forte fragilità. Questi individui sono più vulnerabili alle infezioni in generale e ancor di più a quelle delle vie respiratorie. L’abuso di sostanze porta comunemente a patologie cardio-polmonari, a riduzione delle difese immunitarie, a scadenti condizioni generali. Inoltre, nel vano tentativo di attenuare il disagio fisico e psichico causato dalla pandemia, questi pazienti fanno ricorso ancor più intenso all’assunzione di sostanze, con l’innesco di un deleterio circolo vizioso. Vi sono infine, ma non da ultimi, gli anziani, in particolare coloro che sono affetti da decadimento mentale, spesso ricoverati nelle residenze sanitarie. Deprivati persino di quella carezza che può quello che la parola, impedita dalla devastazione della demenza, non può più dire. In questi mesi, la pandemia ci ha offerto molteplici spunti di riflessione. Tra questi, una considerazione che emerge con clamore è che non vi può essere salute se non vi è salute mentale.


Come indossare, utilizzare, togliere e smaltire le mascherine nell’uso quotidiano Attenzione:

Utilizzare le mascherine in modo improprio può rendere il loro uso inutile o addirittura pericoloso. Se decidi di utilizzare una mascherina, segui attentamente le indicazioni sottostanti

1

4 Prima di indossare una mascherina, lava le mani con un gel a base alcolica o con acqua e sapone

2

Cambia la maschera non appena diventa umida e non riutilizzarla se pensi che sia stata contaminata

5 Copri bocca e naso con la maschera e assicurati che la maschera sia perfettamente aderente al viso

Per togliere la mascherina: - toglila da dietro (non toccare la parte davanti della maschera) - scartala immediatamente in un recipiente chiuso

3

6 Evita di toccare la maschera mentre la stai utilizzando. Se la tocchi, lava subito le mani

C AN CLLE E AN

60 °C

Se invece hai una mascherina riutilizzabile, dopo l’uso, lavala in lavatrice a 60°, con sapone, o segui le indicazione del produttore, se disponibili

Adattato da: https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019/advice-for-public/when-and-how-to-use-masks

A cura del Gruppo ISS “Comunicazione Nuovo Coronavirus” 9 aprile 2020

- lava le mani con gel a base alcolica o acqua e sapone


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