Brain. Settembre 2023

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Vittorino Andreoli

“Donne annientate dalle violenze”

SUICIDI L’EMERGENZA IGNORATA

I dati preoccupanti dell’Osservatorio BRF Servono cure, studi e l’intervento della politica italiana

Lo Yoga come terapia per i disturbi dell’alimentazione

Elisa Claps

Dove nessuno ha guardato

Anno IV | N. 9| Settembre 2023
Con
i contributi di Andreoli, De Leo, Laino, Marcì, Piccinni, Pompili.

Libri fuori dal tempo e dalle mode

www.edizionidiatlantide.it

Emergenza suicidi la strada davanti a noi è ancora lunga e complessa

Da anni stiamo assistendo a un’epidemia silenziosa che ha gettato un’ombra oscura sulla nostra nazione: l’emergenza suicidi. Per fare luce su questo tragico fenomeno - che soffre della mancanza di dati aggiornati - con la Fondazione Brf Onlus abbiamo istituito durante la pandemia, nel 2019, l’Osservatorio Nazionale Suicidi che, monitorando la stampa nazionale e locale, fotografa la situazione in tempo pressoché reale e di cui troverete in questo numero l’aggiornamento relativo ai primi otto mesi dell’anno, nei quali sono stati registrati 608 gesti suicidari e oltre 500 casi di tentato suicidio.

Da sempre nel campo della neurologia e della psichiatria siamo abituati a scrutare i misteri complessi del cervello umano, a cercare risposte in profondità nei meandri della mente. Tuttavia, adesso ci troviamo di fronte a una sfida senza precedenti, una sfida che richiede un approccio multidisciplinare e un’attenzione straordinaria.

I suicidi non sono solamente il risultato di un singolo fattore scatenante, ma rappresentano il risultato di una complessa

interazione di variabili biologiche, psicologiche e sociali. Ed è per questo che mai come adesso la neurologia e la psichiatria devono lavorare in sinergia per affrontare questa emergenza.

Dal punto di vista neurologico, dobbiamo approfondire la nostra comprensione delle basi biologiche delle condizioni mentali che portano al suicidio. L’identificazione precoce di segnali neurologici e biomarcatori associati al rischio suicidio è essenziale per lo sviluppo di strumenti di diagnosi e interventi terapeutici mirati.

La psichiatria, d’altra parte, come avrete modo di leggere in questo numero di Brain dedicato al fenomeno che pubblichiamo proprio a ridosso della Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio, domenica 10 settembre, gioca un ruolo fondamentale nella valutazione clinica e nella gestione dei pazienti a rischio. È imperativo migliorare l’accesso ai servizi di salute mentale e promuovere la consapevolezza dei segni premonitori del suicidio tra i professionisti della salute e la popolazione in generale.

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EDITORIALE
di Armando Piccinni

Oltre a ciò, dobbiamo anche riconoscere l’importanza dei determinanti sociali nell’emergenza suicidi. La disuguaglianza economica, l’isolamento sociale e le sfide strutturali hanno un impatto significativo sulla salute mentale della nostra società. La ricerca e l’attivismo devono collaborare per affrontare queste questioni di ampio respiro.

Mai come oggi, l’emergenza suicidi richiede il nostro impegno incondizionato e la nostra dedizione alla causa della preven -

zione. Come specialisti della neurologia e della psichiatria, abbiamo la responsabilità di continuare a cercare soluzioni basate sulla scienza e di diffondere la consapevolezza della necessità di agire ora. La strada davanti a noi è lunga e complessa, ma con determinazione, ricerca innovativa e una cooperazione senza limiti tra le discipline, possiamo sperare di invertire questa tendenza devastante che ogni anno stronca migliaia di vite. Di chi compie il tragico gesto, e di chi resta.

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EDITORIALE

Fiocco della consapevolezza sul tema dei suicidi.

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EDITORIALE

Emergenza suicidi, la strada davanti a noi è ancora lunga e complessa di Armando Piccinni

PRIMO PIANO

De

Brain

Anno IV | N. 9 | Settembre 2023

Testata registrata al n. 6/2019

del Tribunale di Lucca

Diffusione: www.fondazionebrf.org

Direttore responsabile: Armando Piccinni

Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca

Brain Set 2023 7 SUICIDI L’EMERGENZA IGNORATA I dati preoccupanti dell’Osservatorio BRF Servono cure, studi e l’intervento della politica italiana Anno IV | N. 9| Settembre 2023 Vittorino Andreoli “Donne annientate dalle violenze” Lo Yoga come terapia per i disturbi dell’alimentazione Elisa Claps Dove nessuno ha guardato Con contributi di Andreoli, De Leo, Laino, Marcì, Piccinni, Pompili.
“Per combattere l’emergenza suicidi servono cultura e prevenzione” di Carmine Gazzanni
Leo: “Fondamentale avere dei dati aggiornati sul suicidio” di Flavia Piccinni
SOMMARIO

Quasi tre vittime ogni giorno. I dati shock dell’osservatorio suicidi

di Chiara Andreotti

Familiari “abbandonati dalle istituzioni”

di Chiara Andreotti

Un impegno preso solo a parole. Le promesse al vento della politica di Carmine Gazzanni

L’INTERVISTA

Violenza sulle donne, da Caivano a Palermo: “Vittime annientate a livello psicologico, fisico e sociale” di Flavia Piccinni

APPROFONDIMENTO - BRF

L’ambizioso progetto europeo per preparare gli operatori sanitari a eventuali future emergenze di Valentina Formica

CONTRIBUTO

Disturbi del comportamento alimentare: l’interesse nell’utilizzo dello Yoga come terapia integrativa di Federica Laino

L’esordio della psicosi all’interno del trauma evolutivo

di Cristi Marcì

#PARLIAMONE

Clorophilla: «Dipingere

è un atto terapeutico»

di Chiara Andreotti

NEUROSCIENZE

Emergenza Alzheimer, in Italia 2,3 milioni casi nel 2050 di Alberto Lupi

Interfaccia neurale, la realtà supera l’immaginazione di Federico Piccinni

L’anuptafobia, sempre più single a rischio sindrome “Bridget Jones” di Alessia Vincenti

Vacanze, stress da rientro. Esiste ed ecco come superarlo di Francesco Carta

Un milione di anni fa l’antenato dell’uomo rischiò l’estinzione di Attilio Personi

PODCAST

Elisa Claps: in un podcast il male nascosto che nessuno ha voluto vedere di Flavia Piccinni

SERIE TV

Blue zone: la ricetta sempre più globale per la vita da centenari (o quasi) di Flavia Piccinni

LIBRI

La letteratura come forma di addio di Flavia Piccinni

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“PER COMBATTERE L’EMERGENZA SUICIDI SERVONO CULTURA E PREVENZIONE”

Intervista a uno massimi esperti sul suicidio, lo psichiatra Maurizio Pompili

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di Carmine Gazzanni

Idati, per quanto a volte lacunosi, sono come sempre un ottimo indicatore per capire l’andamento di un fenomeno. E il fatto che nei primi sei mesi del 2023 ci siano state oltre 3.700 le richieste d’aiuto raccolte da Telefono Amico Italia per gestire pensieri suicidi, è qualcosa che deve far riflettere. Il dato, peraltro, è superiore del 37% rispetto al primo semestre del 2022. «Se poi si pensa che il 29% degli Sos arriva da under 26, il problema assume un rilievo ancora più allarmante», spiega il professor Maurizio Pompili. Tra i massimi esperti a livello internazionale nell’ambito del suicidio, Pompili è professore ordinario di Psichiatria presso la facoltà di Medicina e Psicologia, Sapienza Università di Roma, e direttore UOC di Psichiatria, Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea, Roma. Fa parte dell’International Association for Suicide Prevention (IASP). Ha ricevuto lo Shneidman Award 2008 dell’American Association of Suicidology per “Contributi eccezionali nella ricerca in suicidologia”. «Bisogna precisare che il suicidio è presente in tutte le fasce d’età, con una tendenza a crescere con l’aumento degli anni. Per entrambi i generi, dunque, la mortalità per suicidio cresce all’aumentare dell’età. Ma ciò che sorprende è – negli ultimi 50 anni circa – l’aumento proporzionalmente maggiore dei suicidi nelle fasce giovanili. Tanto che, nella fascia 15-29 anni, il suicidio è la terza causa di morte a livello globale».

Minori più a rischio, insomma. Perché secondo lei?

A riguardo ci sono varie teorie, in realtà. Certamente può incidere in alcuni casi l’abuso di alcol o quello di sostanze stupefacenti. E poi c’è un altro fattore non trascurabile: i cambiamenti socio-culturali che abbiamo vissuto e stiamo vivendo. In alcuni casi i giovani si spingono verso esperienze tipiche dell’età adulta, più complesse e che ne-

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PRIMO PIANO Fiocco della consapevolezza sul tema dei suicidi. Maurizio Pompili

“Bisogna precisare che il suicidio è presente in tutte le fasce d’età, con una tendenza a crescere con l’aumento degli anni. Per entrambi i generi, dunque, la mortalità per suicidio cresce all’aumentare dell’età. Ma ciò che sorprende è – negli ultimi 50 anni circa – l’aumento proporzionalmente maggiore dei suicidi nelle fasce giovanili. Tanto che, nella fascia 15-29 anni, il suicidio è la terza causa di morte a livello globale”.

cessitano di una crescita proporzionale. Inoltre cambiamenti o eventi emotivamente importanti possono a volte essere enfatizzati e difficili da gestire perché in giovane età si sta ancora completando la maturazione affettiva.

In che senso?

Le emozioni nella fase adolescenziale sono impetuose, spesso incontrollabili. E, quando questo accade, possono prendere il sopravvento, specie in momenti di pesante sconforto. Solo con l’età e la maturità si impara a controllare e “razionalizzare” le emozioni. E dunque fare esperienze già “da adulti” espone i più piccoli a vivere emozioni forti e, come detto, impetuose.

Gli ultimi dati ufficiali disponibili (Istat) ci dicono che nel 2019 si sono suicidate 3.726 persone, uomini in oltre tre casi su quattro. Tuttavia i casi di cronaca fanno pensare che ci sia negli ultimi anni una crescita del fenomeno. È così?

Purtroppo, come giustamente sottolineava, non abbiamo dati ufficiali aggiornati. E dunque diventa difficile poterlo dire con certezza. Abbiamo però alcuni indicatori importanti. Un primo è quello, ricordato, delle richieste di aiuto pervenute al Telefono Amico. E poi ci sono dati che ci arrivano dagli Stati Uniti, secondo i quali nel 2022 ci sarebbe un importante incremento lì, in Usa, del fenomeno suicidario. È possibile che la stessa cosa stia avvenendo anche in altri contesti geografici, nonostante ufficialmente disponiamo in molti casi solo di statistiche ancora pre-pandemiche.

A proposito di pandemia: crede che l’onda lunga del Covid abbia contribuito a questo incremento del fenomeno?

Si presumeva che il Covid avrebbe portato ad un aumento drammatico per le morti da suicidio durante la pandemia, specie in lockdown. Invece, quello che si è visto, è che nel periodo della

pandemia e subito dopo non c’è stato un aumento delle morti. Ma le conseguenze di quanto abbiamo vissuto potrebbero emergere proprio in questi anni: gli effetti sui suicidi non sono mai immediati, ma logorano nel medio-lungo tempo. Anche perché la pandemia ha creato molto spesso situazioni di disagio - dal non avere soldi al perdere lavoro, dall’isolamento sociale fino alla paura di morire - che, su situazioni di fragilità pre-esistente, possono portare a effetti nefasti nel tempo. Ecco perché è necessario enfatizzare gli aspetti della prevenzione per agire in anticipo. Detto questo, tuttavia, bisogna precisare un aspetto fondamentale.

Quale?

Il suicidio è un fenomeno multifattoriale: non c’è un’unica causa che lo spiega in maniera diretta. Dunque la sola pandemia non può essere di per sé causa di suicidio o tentato suicidio. Nonostante si faccia spesso riferimento ai disturbi mentali e psichiatrici, è necessario precisare che sono fattori importanti ma non esclusivi per il rischio di suicidio: fortunatamente la maggior parte delle persone che soffrono di disturbi mentali, con disturbo depressivo maggiore o altro, non si suicida.

Quali possono essere allora i fattori che portano a gesti estremi?

Ce ne sono diversi, potenzialmente. Da eventi avversi all’abuso di sostanze, dall’abuso di alcool fino alle esperienze vissute nell’infanzia. Quello che è importante sottolineare è che, al di là delle cause, dello stato civile, dell’età, del livello di istruzione e dello status sociale, il soggetto pensa al suicidio quando vive un dolore mentale e una sofferenza che diventa insopportabile. Questo dolore è fatto da emozioni negative che lede l’individuo, lo destabilizza, fino a fargli perdere una visione prospettica positiva nei confronti del futuro.

Cosa possono fare le istituzioni per affrontare tale fenomeno?

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Fondamentale è la prevenzione e fare formazione, diffondendo cultura. Quest’ultimo aspetto, spesso sottovalutato, è determinante. Bisogna diffondere una cultura della prevenzione e del riconoscimento precoce. Si agisce di anticipo, ad esempio, facendo formazione nelle scuole e portando avanti una seria e concreta lotta allo stigma che ancora oggi tocca il suicidio. Non si vuole parlare di questo fenomeno, si preferisce evitarlo. E invece bisogna parlarne, affinché tutti siano consapevoli dei rischi e imparino a riconoscerli. In che modo dovrebbe essere strutturata una seria prevenzione?

Esistono tre tipi di prevenzione, tutte fondamentali. C’è quella primaria che è dedicata a tutta la popolazione. In questo caso si divulgano informazioni adeguate, aumentando così la consapevolezza del fenomeno e indicando quali sono i campanelli d’allarme. C’è poi la prevenzione secondaria, che si dovrebbe fare sui gruppi più a rischio, ad esempio giovani e anziani, ma ne potremmo elencare diversi. E in questo caso, ovviamente, dovrebbe esserci un’attenzione maggiore, appunto con dei corsi e con una formazione dedicata nelle scuole, ad esempio. Infine, c’è la prevenzione terziaria, rivolta a chi ha già manifestato intenti suicidari. E qui, a seconda dei casi, si interviene con trattamenti psicoterapeutici o, se occorre, farmacologici.

Lei parlava di campanelli d’allarme. Quali sono?

Ce ne sono di diversi. Per esempio: l’individuo inizia a parlare di non farcela più, di non vedere più soluzioni, di non avere più speranza nella vita né nel futuro. Possono avere dei cambiamenti delle abitudini del sonno o dell’alimentazione. Utilizzano droghe o bevono alcool in modo eccessivo, quando invece prima non erano soliti; si allontanano dagli effetti, dagli amici e dalla precedente vita sociale. C’è anche chi inizia

a cimentarsi in atti molto pericolosi che mettono a rischio la vita, propria o degli altri. Ancora, c’è chi mette a posto i propri affari, magari facendo anche testamento; regalando degli oggetti ai quali tengono molto – una collezione, un gioiello – ad un amico o ad un familiare. In questo caso il messaggio implicito è chiaro: “Voglio che questa cosa alla quale tengo, sopravviva a me”. Inoltre, possono verificarsi dei cambiamenti d’umore repentino. Questi sono dovuti al fatto che la persona che pensa al suicidio è molto ambivalente: perché nessuno vorrebbe mai morire, in realtà.

E allora cosa fare quando ci rendiamo conto di uno di questi campanelli d’allarme?

Innanzitutto, se c’è ovviamente un grado di confidenza e di fiducia, occorre fare la fatidica domanda: “Stai pensando al suicidio?”, con tatto e con delicatezza. È una domanda che fa paura, anche a chi la fa. Non è semplice. Ma questa domanda decodifica e accorcia le distanze. Se la persona in crisi si fida di chi pone questa domanda, si apre e confida qualcosa che fino a un attimo prima pensava che non avrebbe mai potuto confidare a nessuno. Il processo di decodifica in questo caso può essere importante, se non vitale.

A quel punto bisogna contattare degli esperti?

Non bisogna mai perdere tempo o credere che si possa risolvere tutto da soli. La coalizione con più figure professionali è spesso determinante. Anzi, bisogna sempre agire con un eccesso di zelo in questi casi. Ma il primo passo, torno a ripeterlo, è entrare in relazione con la persona in crisi. Ancor prima di contattare esperti. Bisogna far sì che la persona si fidi e si affidi. È importante ricordarlo sempre: le persone che pensano al suicidio non vorrebbero morire, ma vorrebbero vivere, ammesso che qualcuno li aiuti a ridurre i livelli di sofferenza, ad avere ancora speranza nel futuro.

“Fondamentale è la prevenzione e fare formazione, diffondendo cultura. Quest’ultimo aspetto, spesso sottovalutato, è determinante.

Bisogna diffondere una cultura della prevenzione e del riconoscimento precoce. Si agisce di anticipo, ad esempio, facendo formazione nelle scuole e portando avanti una seria e concreta lotta allo stigma che ancora oggi tocca il suicidio”.

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PRIMO PIANO

DE LEO: “FONDAMENTALE AVERE DEI DATI STATISTICI AGGIORNATI SUL SUICIDIO”

Dalle forze dell’ordine ai giovani, ecco le categorie più a rischio. Intervista allo studioso di calibro mondiale sul tema del suicidio di Flavia Piccinni

«Nessuno vuole sentir parlare di morte, tantomeno questa società che non vuole invecchiare». Esordisce così il professor Diego De Leo, professore emerito di psichiatria e unanimemente considerato come uno dei massimi esperti di suicidi al mondo. «La nostra società ha un problema ad accettare la finitudine delle cose. Da una parte si illude di poter creare un’aspettativa di vita fino a cent’anni, dall’altra si convince che il suicidio riguardi solo i malati mentali. Ma questa è una sciocchezza».

Il Covid-19 ha dimostrato l’intrinseca fragilità di noi esseri umani, e il suicidio è diventato uno dei temi centrali del nostro tempo, per quanto spesso non venga considerato tale.

Durante il 2020, l’anno in cui la pandemia da COVID-19 ha avuto inizio, si è assistito a un notevole clamore mediatico riguardo a un presunto aumento dei suicidi. Tuttavia i dati effettivi hanno dimostrato una sostanziale stabilità nei tassi di suicidio, contraddicendo le previsioni allarmistiche. È importante notare che, sebbene questa stabilità sia un buon segnale, il mantenimento dello status quo dovrebbe comunque essere motivo di preoccupazione.

Sempre più spesso gli esperti evidenziano la necessità di una strategia nazionale, che però sembra molto lontana.

Un impegno a livello nazionale è fondamentale per proteggere la salute mentale della popolazione. Per questo è necessaria una maggiore coordinazione per affrontare

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il problema. Ma è fondamentale anche avere dei dati aggiornati, fornire risposte tempestive e gestire al meglio i cluster di suicidi o contagio emotivo. Bisogna poi ricordare che è necessario distinguere tra tentativi di suicidio e suicidi effettivi. I tentativi di suicidio comprendono comportamenti che vanno dalle autolesioni ai gesti dimostrativi e possono variare notevolmente in gravità. La definizione precisa è cruciale per comprendere appieno il fenomeno.

Analizzando i dati dell’Osservatorio suicidi della Fondazione BRF Onlus, emerge come esistano dei settori in cui l’allarme è chiaro. Uno di questi riguarda le forze dell’ordine. Perché?

Si tratta di una questione preoccupante. Gli agenti di polizia hanno accesso ad armi letali e spesso evita -

no il supporto psicologico a causa di un codice etico che scoraggia la manifestazione di debolezza. Questo fenomeno richiede una soluzione urgente. Di certo il supporto psicologico dovrebbe essere reso più accessibile.

Anche nelle carceri i dati sono inquietanti.

Il sistema carcerario presenta un elevato tasso di suicidi, che ha raggiunto dati significativi nel 2022. Parliamo di un vero e proprio annus horribilis, in cui si sono verificati 85 suicidi accertati. Un numero enorme che non ha mai avuto pari in passato. Si tratta di un fenomeno legato al sovraffollamento e sottolinea la necessità di riforme e miglioramenti nelle condizioni dei detenuti per prevenire ulteriori tragedie. Bisogna poi notare che nelle

“Gli agenti di polizia hanno accesso ad armi letali e spesso evitano il supporto psicologico a causa di un codice etico che scoraggia la manifestazione di debolezza. Questo fenomeno richiede una soluzione urgente”.

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Diego De Leo.

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“Un impegno a livello nazionale è fondamentale per proteggere la salute mentale della popolazione”.

carceri una persona dovrebbe essere sorvegliata, quindi dovrebbe essere protetta e dovrebbe avere meno possibilità di riuscire a togliersi la vita, se non altro per la mancanza di elementi con cui farsi del male. Invece, e purtroppo, le persone riescono ugualmente a trovare una strada per ammazzarsi.

Un’altra emergenza, forse più silente, riguarda il mondo dei giovani.

Molti centri significativi del no -

stro Paese, penso per esempio al Meyer di Firenze, hanno registrato aumenti nelle ammissioni di giovani che avevano tentato il suicidio o che manifestavano intenzioni suicidarie. Non abbiamo dati specifici sul tema ma è bene ricordare che attualmente in Italia l’età media della persona che si dà la morte per suicidio è intorno ai cinquant’anni, e che protagonisti di questi gesti sono perlopiù anziani di sesso maschile.

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PIANO

QUASI TRE VITTIME OGNI GIORNO. I DATI SHOCK

DELL’OSSERVATORIO SUICIDI

Ecco i risultati dell’analisi della Fondazione BRF

Èuna fotografia tragica quella che emerge dall’aggiornamento relativo ai primi otto mesi dell’anno dell’Osservatorio Suicidi portato avanti dalla Fondazione BRF Onlus.

Dai dati emersi dalle analisi della Fondazione - che quotidianamente monitora la stampa nazionale e locale - dall’inizio dell’anno al 31 agosto 2023 si sono verificati 608 suicidi e 541 casi di tentato suicidi, in aumento vertiginoso rispetto ai dati raccolti nello stesso periodo dell’anno scorso quando i suicidi, sempre ovviamente considerando solo le notizie di cronaca uscite sui giornali, erano stati 351 suicidi e i tentati suicidi 391. Parliamo, peraltro, di un dato al ribasso, considerando ovviamente che c’è un sommerso, specie per i tentati suicidi, che non viene coperto dai media.

Dal report emergono anche ulteriori spunti di riflessione: si evidenzia,

ad esempio, un picco di gesti suicidari nel mese di marzo (87 episodi) e giugno (79). Inoltre, il maggior numero di tragici eventi si è registrato nel Nord Italia (240 episodi), seguito dal Sud (231) e dal Centro (138). Per quanto riguarda i tentati suicidi, invece, spicca il Sud (177), seguito dal Nord (168) e dal Centro (158).

Dati non esaustivi che purtroppo possono solo aiutare a presumere l’ammontare dei casi che avvengono mensilmente e che rimangono nell’ombra. L’Osservatorio, iniziato durante la pandemia per sensibilizzare l’opinione pubblica di fronte a un fenomeno tanto preoccupante quanto silente, rispetto al 2023 evidenzia un picco di gesti suicidari nei mesi di marzo (87 episodi) e di agosto (79). Le categorie più colpite appaiono al momento le forze dell’ordine e la popolazione carceraria.

«Negli ultimi 20 anni, le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria

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di Chiara Andreotti

hanno sventato più di 23mila tentati suicidi e impedito quasi 175mila atti di autolesionismo», ha spiegato il segretario regionale del Sindacato

Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe) Donato Capece, mettendo in luce come entrambe le categorie si trovino a dover gestire situazioni stressanti che possono compromettere la salute mentale.

Un ulteriore elemento di riflessione sono poi i dati diffusi dal Telefono Amico, che registra un significativo

aumento dei contatti in cerca di sostegno. In soli 6 mesi ci sono state 3.700 telefonate, il 37% in più rispetto al 2022. A questo proposito si nota una maggioranza di giovani tra 18 e 35 anni, ma si registra un aumento anche relativo agli under 18, segnalando così la necessità di intervenire al più presto tra i giovanissimi. Sensibilizzare l’opinione pubblica ed educare rispetto alla salute mentale e alla necessità di cercare assistenza sono elementi fondamentali.

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PRIMO PIANO

FAMILIARI “ABBANDONATI DALLE ISTITUZIONI”

Il suicidio ha sempre fatto parte della storia dell’umanità: ogni epoca ha dovuto scontrarsi con questo tragico evento, ma mai come nella società odierna tale atto estremo è diventato così sistematico da richiedere attenzione costante.

Per questo da tre anni ormai la Fondazione BRF si è attivata per abbattere lo stigma che grava su questo fenomeno, e lo fa attraverso l’Osservatorio Suicidi: ogni mese, i ricercatori della Fondazione, catalogano gli articoli di cronaca, conteggiando i suicidi e i tentativi di suicidio avvenuti nel nostro Paese. Ovviamente si tratta di numeri incompleti, che però dovrebbero risvegliare l’attenzione delle autorità e delle istituzioni, portando ad interventi preventivi per tutelare coloro che hanno perso la speranza e le famiglie che si trovano ad affrontare questo terribile percorso. Sono tanti. Più di quello che si possa pensare. Una di loro è Amina. La madre si è tragicamente tolta la vita. Un macigno che ancora pesa sulla donna. Ed è per questa ragio -

ne che ha deciso di dar voce alle sue sofferenze con una lettera dedicata “A quelli che restano”. Una lettera in cui, coraggiosamente, Amina, racconta cosa significhi convivere con la conoscenza ravvicinata del suicidio.

Tutto parte dall’analisi della parola “suicidio”: quali credi siano le implicazioni di questo termine?

La parola suicidio per me è un’ombra, un alone di mistero e paura, un’entità più che una parola che si porta dietro un tabù, uno stigma, qualcosa di impronunciabile dal momento che passa nella propria mente, qualcosa di cui vergognarsi a pensarlo, a farlo a trovarsi a viverlo come sopravvissuta. Nel 2023 è una di quelle cose che ancora non è accettata, affrontata con la trasparenza, la serenità di tutte le cose della vita. Sembra che a parlarne sia contagioso, che faccia male alla società e che le persone coinvolte facciano bene a non parlarne per non alimentarne una forza malvagia.

Senti mai il peso dello stigma?

Sempre. Lo sento dai giorna -

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Parla Amina: “Veniamo messi da parte come sono stati messi da parte i nostri cari defunti”

li, da come vengono annunciate le morti suicide e successivamente commentate, dalle persone intorno a me che commentano morti altrui non sapendo del mio vissuto dandomi conferma che non posso esplicitarlo, da come ci sia una sorta di omertà sul voler specificare cosa abbia portato a una morte e quando è specificato è trattato non come qualcosa di serio da affrontare ma come qualcosa di ingestibile, incontrollabile, da tenere lontano per

non esserne contagiati. Non ho mai parlato e non parlo della morte di mia madre perché mi sento giudicata, compatita, e sento giudicare lei, come sento giudicare gli altri come dei folli, dei malati di mente, delle persone che con quel gesto hanno perso la dignità di essere ricordati come tutti gli altri.

Cosa ti ha spinto a scrivere una lettera dedicata, come detto, “a quelli che restano”?

La mia sofferenza da ormai 20

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“La parola suicidio per me è un’ombra, un alone di mistero e paura, un’entità più che una parola che si porta dietro un tabù, uno stigma, qualcosa di impronunciabile dal momento che passa nella propria mente, qualcosa di cui vergognarsi a pensarlo, a farlo a trovarsi a viverlo come sopravvissuta”.

anni, a volte conscia altre inconscia, per qualcosa che non ho potuto elaborare come chiunque può elaborare il lutto nel ricordo rispettoso, condiviso, amorevole. Non poterne parlare mi ha spinto a scrivere e cercare persone che vivono lo stesso dolore e la stessa esclusione.

Lo dicevi anche prima: tu racconti di non poter parlare né ricordare tua madre. Come hai imparato a convivere con tutto questo?

Non ho imparato. Le fasi sono dimenticarmene per andare avanti e poi avere momenti di profonda depressione, inquietudine, pensieri suicidi a mia volta in una sorta di legame empatico con mia madre, come la sua morte e il suicidio fossero il mio legame con lei e un giorno che io lo voglia o no sarà la mia sorte. È morta a 40 anni e io tra qualche mese compirò 40 anni, la mia unica elaborazione è stata con lei, quando sono lucida so che questi pensieri sono dovuti al fatto che non ho mai avuto la possibilità di elaborare il suo lutto, il mio senso di colpa, il mio legame con lei come se la sua morte vissuta in maniera così privata tra me e lei fosse ciò che ancora ci lega, perché non c’è nessun altro.

Hai trovato sostegno in persone che hanno vissuto il tuo stesso dramma?

Sì, mi hanno scritto altre persone con le stesse identiche problematiche, sole con gli stessi compagni, figli e intimi, che vivono nel silenzio e in una sofferenza privata, avvolti dal senso di colpa e dalla vergogna. Anche loro hanno bisogno di sostegno, condividerlo è già stato un passo ma non è sufficiente. Sto pensando molto a rilento di incontrarci anche se non ho trovato nessuna figura guida.

E dalle istituzioni?

Nulla. L’unica cosa che è accaduta stata un’ambulanza nell’immediato che voleva somministrarmi dei calmanti che ho rifiutato, quel dolore è necessario viverlo tutto. Poi le luci si sono spente. Ho parlato con degli psicologi ma già solo il fatto che fossi così lucida nell’esporlo non gli ha fatto comprendere che ho bisogno di aiuto. Spesso si pensa che sia necessario attuare un sistema di prevenzione che certamente è di primaria importanza. Allo stesso tempo però non esiste alcun tipo di supporto per coloro che si trovano

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PRIMO PIANO

involontariamente a scontrarsi con il suicidio.

Nella lettera definisci te e quelli che vivono lo stesso dramma dei “sopravvissuti”: cosa vi trovate a fronteggiare quotidianamente?

Il silenzio. Il segreto. La vergogna. La paura del suicidio di noi stessi. L’ingiustizia per essere messi da parte noi come i nostri cari defunti.

Tu ha creato una casella email dedicata “A quelli che restano”: cosa è riuscita a raccogliere?

Alcune testimonianze simili alle mie e il bisogno di uscire allo sco -

perto senza sapere come fare, un dolore persistente e fresco anche dopo tantissimi anni. Poco fa li ho ricontattati per chiedere loro di vederci e capire come aiutarci.

Cosa vorresti chiedere alle istituzioni?

Che il tema sia affrontato seriamente con servizi efficaci per la prevenzione dei suicidi e assistenza ai sopravvissuti in modo trasparente e pubblico come parte della società in cui viviamo e non con un approccio medievale intriso di credenze, divinità e misteri. (C. A.)

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UN IMPEGNO PRESO SOLO A PAROLE. LE PROMESSE AL VENTO DELLA POLITICA

Approvata

Èil quindici giugno 2022. Di fatto, poco più di un anno fa. Politicamente, invece, sembra passata un’era.

E, in un certo senso, è anche vero. È finita una legislatura e ne è iniziata un’altra. È cambiata l’intera squadra di governo. C’è un nuovo presidente del Consiglio che un taglio politico - al di là di come la si veda - nettamente diverso da quello precedente. Ciononostante, gli atti parlamentari restano (o dovrebbero restare) e gli impegni che vengono assunti dalle istituzioni rimangono (o dovrebbero rimanere). Specie se poi ad essere coinvolto è l’intero arco parlamentare all’unanimità.

È esattamente quanto accaduto quel 15 giugno 2022. Il Parlamento approva senza alcun voto contrario una mozione presentata dall’allora deputato Cristian Romaniello.

«Con l’approvazione della mozione, da oggi anche l’Italia dovrà dotarsi di una strategia strutturale per la prevenzione del suicidio, fenomeno in larga parte ancora sommerso perché considerato spesso un tabù, ma che figura come una delle prime cause di morte tra i giovani», esultava quel giorno uno dei pochi onorevoli che durante la scorsa legislatura si era battuto fino in fondo sul tema. E ancora: «Nel nostro Paese si stimano circa 4mila suicidi all’anno, prima della pandemia, senza considerare il dato sommerso, non calcolato per mancanza di strumenti adeguati ed errori di classificazione”, ha spiegato il deputato. L’istituzione di un Osservatorio pubblico per mappare il fenomeno sul territorio è un primo passo fondamentale, per poi costruire una rete di supporto per i

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nella scorsa legislatura una mozione Ma nulla è stato fatto dai governi di Carmine Gazzanni

soggetti a rischio - aggiungeva sempre prendendo parola in Aula nel giugno 2022 - per i quali verrà predisposto anche un numero verde telefonico di emergenza gratuito”.

E, come detto, la mozione viene approvata all’unanimità. Da chi allora era all’opposizione e da chi invece era in maggioranza. Una convergenza non affatto scontata, considerando anche l’importanza del tipo di atto parlamentare con cui si “impegna” il governo a prendere una serie di provvedimenti, tutti - in questo caso - finalizzati a formare, informare e tutelare sul fenomeno suicidario. Il punto però è che nulla è accaduto. Quell’impegno è rimasto lettera morta. E la cosa più paradossale è che non solo il governo Draghi non ha mosso un dito, ma neanche l’esecutivo Meloni oggi in carica. Nonostante, come detto, ad approvare la mozione siano stati anche i parlamentari di Fratelli d’Italia (allora all’opposizione). Insomma, a parole sia Lega sia Forza Italia che Fratelli d’Italia sarebbero pronti ad adottare misure concrete per combattere il fenomeno.

«La mozione sulla prevenzione del suicidio, a mia prima firma, ma con le firme di tutti i gruppi politici (salvo Fratelli d’Italia, che comunque ha votato a favore) e di esponenti di grande rilievo, come Cappellacci, Del Rio, Laura Boldrini, Ferri, Bersani, Carelli, Fioramonti, Villarosa, è stata approvata all’unanimità dalla Camera. Ha impegnato il Governo Draghi ad istituire una strategia nazionale per la prevenzione del suicidio, un governo che è caduto un mese dopo», ricorda non a caso oggi Romaniello, contattato da Brain. «Tuttavia, le forze politiche attualmente in parlamento, e la maggioranza tutta - quindi il Governo espresso da

essa - si sono impegnate per creare una cintura di protezione sul suicidio, non solo nelle carceri, che ogni anno fanno parlare dei sé sul tema (il quale richiede interventi che puntualmente non arrivano), ma anche per i giovani, gli anziani, per le forze dell’ordine, per chi vive in povertà, per chi non ha più speranze nella vita.

Eppure, una normativa che, oltre a rappresentare un avanzamento civile, non peserebbe molto sulle casse dello Stato, non riesce ad avere spazio nell’agenda politica. Mi auguro che ci sia modo di portare avanti la proposta. I costi sociali legati al suicidio sono così alti che il Governo dovrebbe considerare questo progetto come un investimento. La fiducia nelle istituzioni passa anche da qui». E, con lui, ce lo auguriamo anche noi.

25 Brain Set 2023
PRIMO PIANO

VIOLENZA SULLE DONNE DA CAIVANO A PALERMO: “VITTIME ANNIENTATE A LIVELLO PSICOLOGICO, FISICO E SOCIALE”

Lo psichiatra Vittorino Andreoli: “Chi subisce una violenza di questo tipo non sarà più la stessa e non potrà mai essere uguale alle altre”

di Flavia Piccinni Vittorino Andreoli

Da sempre il pensiero del Prof. Vittorino Andreoli, rinomato psichiatra e neurofarmacologo, si concentra sul tempo e sulla società, accompagnando il lettore nel ventre del contemporaneo e obbligandolo a riflettere sulle dinamiche che scandiscono il nostro mondo.

Nel suo ultimo libro in uscita a metà settembre, Insieme si vince (Solferino, pp.256), lei sfiora uno degli argomenti centrali della sua riflessione più contemporanea: una regressione totalizzante nella società contemporanea. Cosa intende per regressione e quali sono i segni più evidenti di questa tendenza?

La regressione a cui mi riferisco è un ritorno a tempi più barbari, una profonda discesa nella crudeltà umana. Assistiamo a un cambiamento nei rapporti tra uomini e donne, dove la violenza, la dominazione e l’annientamento delle donne diventano sempre più evidenti. Questi episodi di violenza estrema, come quelli che abbiamo visto recentemente a Palermo o a Parco Verde e che hanno coinvolto giovani violentate brutalmente, sono indicativi di una ferocia inaudita. La sessualità sembra essersi trasformata e ha avuto un ruolo del tutto marginale in questi episodi.

Violenza, dominazione e annientamento delle donne. Tre temi centrali del nostro tempo.

Ci troviamo di fronte a una cultura dominata dal maschio, che attraverso l’abuso trae piacere. In queste storie di violenza, l’eros sembra essere completamente assente. Sono storie di abusi collettivi che reagiscono a logiche di competizione e supremazia da branco. Episodi che sembrano esistere solo in relazione alla possibilità di essere filmati, moltiplicati e diffusi. Il che li rende ancora più inquietanti.

Lei ha menzionato la violenza su queste giovani come omicidio psichico

27 Brain Set 2023
L’INTERVISTA

“Ci troviamo di fronte a una cultura dominata dal maschio, che attraverso l’abuso trae piacere. In queste storie di violenza, l’eros sembra essere completamente assente. Sono storie di abusi collettivi che reagiscono a logiche di competizione e supremazia da branco”.

della vittima. Cosa intende con questa affermazione?

Non si tratta di una provocazione, ma di una constatazione basata sulla mia esperienza. I danni causati da questi abusi sono irreversibili. Le vittime vengono annientate a livello psicologico, fisico e sociale. Chi subisce una violenza di questo tipo non sarà più la stessa e non potrà mai essere uguale alle altre. La persona viene trasformata in uno straccio, devastata fisicamente e resa impura socialmente attraverso una delegittimazione. Questo è ciò che è successo a Palermo, dove hanno sparato sulla psiche e sull’esistenza della giovane con l’unico scopo di distruggerla.

Parliamo di giovanissimi, in alcuni casi di minorenni. In tutto questo la famiglia che ruolo gioca?

La famiglia è in grave crisi. Troppo spesso i genitori non hanno tempo né voglia di stare con i propri figli e di

educarli con l’esempio. Questo ha portato al tracollo delle dinamiche familiari tradizionali. Tuttavia, è fondamentale che ci si concentri sull’attenzione verso le vittime e sulla necessità di aiutarle a ritrovare una voce e una dignità.

Lei ha anche menzionato l’uso dei social media. Qual è la sua opinione sulla loro influenza sulla società?

Ritengo che l’uso eccessivo dei social media possa influenzare negativamente la nostra capacità di connetterci con le persone in modo autentico. La meccanicità della vita online può far perdere la logica della mente e dei sentimenti. Molti dei fenomeni che vediamo sul web sono il risultato di persone che non hanno tempo per le relazioni reali e che cercano di colmare questo vuoto attraverso l’universo virtuale. È importante riscoprire la nostra umanità e prestare attenzione alle relazioni reali. Oggi più che mai.

28 Brain Set 2023
L’INTERVISTA

PER RESTARE SEMPRE INSIEME

Il microchip è il modo migliore per ritrovare il tuo amico a quattrozampe in caso di smarrimento.

E allora cosa aspetti?

Se il tuo cane o il tuo gatto non lo hanno ancora, recati dal tuo veterinario o al servizio veterinario pubblico competente per territorio, per identificarlo e iscriverlo in anagrafe degli animali d’affezione!

COS’È IL MICROCHIP E A COSA SERVE?

● Il microchip, obbligatorio per legge per il cane e presto anche per il gatto, è un piccolo dispositivo elettronico che identifica il tuo amico a quattrozampe e lo lega a te in maniera unica. L’identificazione con microchip di cani, gatti e furetti è inoltre obbligatoria per poter acquisire il passaporto europeo, per recarsi all’estero.

● Non temere per la sua salute: l’inserimento del microchip è sicuro e indolore!

● Il certificato di iscrizione nell’anagrafe degli animali d’affezione è la sua “carta d’identità”. Ricordati di portarlo sempre con te!

È un’iniziativa del Ministero della Salute in collaborazione con LAV

Informati su www.salute.gov.it e www.lav.it
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L’AMBIZIOSO PROGETTO EUROPEO PER PREPARARE GLI OPERATORI SANITARI A FUTURE EMERGENZE

di Valentina Formica

La diffusione globale della pandemia da COVID-19 ha lasciato un’impronta indelebile sul tessuto sociale ed economico dei paesi di tutto il mondo. L’inaspettata irruzione del virus e la mancanza di conoscenza iniziale su di esso hanno gettato gli operatori sanitari in un mondo di incertezza e sfide senza precedenti. Nonostante i considerevoli sforzi intrapresi da ogni nazione, le disparità nell’istruzione e nella formazione dei professionisti della salute nell’Unione Europea si sono rivelate evidenti, dando luogo a un’assenza di approcci uniformi e alla mancanza di linee guida internazionali.

In questo contesto cruciale, la Fondazione BRF si sta attualmente

dedicando all’implementazione di un ambizioso progetto europeo, collaborando a stretto contatto con altri stati membri dell’Unione. L’obiettivo primario di questa iniziativa è quello di potenziare le capacità e le competenze degli operatori sanitari, al fine di prepararli in modo più completo ed efficace ad affrontare eventuali future emergenze sanitarie. Tra i risultati che il progetto prevede di conseguire, spicca in particolare lo sviluppo di una piattaforma di formazione online, mirata a fornire agli operatori della salute uno strumento fondato sulle ultime evidenze scientifiche e sulla raccolta delle conoscenze e delle migliori pratiche a livello europeo nell’ambito dell’emergenza da Covid e delle emergenze sanitarie in generale.

30 Brain Set 2023
Capofila del progetto la Fondazione BRF. Ecco tutti i dettagli
APPROFONDIMENTO - BRF

L’importanza di coprire ogni aspetto della malattia, dalla prevenzione alla riabilitazione post-recupero (ad esempio, il cosiddetto long-COVID), è fondamentale per affrontare in modo esaustivo le sfide che emergono da una pandemia. Nel contesto di questo progetto, varie metodologie sono state impiegate per raccogliere il massimo numero possibile di informazioni. Attualmente, i partner coinvolti hanno condotto una revisione sistematica della letteratura scientifica relativa al tema e hanno anche organizzato focus group a livello nazionale al fine di esplorare e discutere i bisogni specifici degli operatori sanitari e individuare gli errori commessi e le migliori pratiche adottate.

Dai confronti svolti nei focus group sono emersi temi cruciali che mettono in luce l’importanza di una comunicazione chiara, accurata e basata su dati scientifici. Questa comunicazione emerge come un fattore essenziale in qualsiasi situazione di emergenza, poiché contribuisce a ridurre lo stato di incertezza. Inoltre, uno dei risultati chiave di questi incontri è stata la constatazione, in linea con quanto riportato dalla letteratura, degli impatti significativi della pandemia sulla salute mentale sia della popolazione generale che degli operatori sanitari. Le sfide della gestione in condizioni di incertezza, rischio e isolamento hanno suscitato la necessità urgente di supporto psicologico e di interventi di psico-educazione. Questi aspetti si presentano come cardini da migliorare per affrontare in modo più efficace eventuali futuri scenari emergenziali.

Inoltre, i partecipanti ai focus group hanno evidenziato l’importanza di una comunicazione del rischio che sia equilibrata ed efficace. Questo significa garantire che le informazioni trasmesse non scatenino allarmismo ingiustificato, ma neanche indifferen-

za. La creazione di strategie di comunicazione che siano in grado di guidare il pubblico verso comportamenti prudenti senza generare panico è un ulteriore obiettivo chiave per affrontare situazioni di emergenza in futuro.

In sintesi, il progetto descritto costituisce un passo determinante verso un approccio più integrato e preparato alle sfide delle emergenze sanitarie. Attraverso una piattaforma di formazione online basata sull’evidenza e l’analisi delle migliori pratiche, nonché il riconoscimento dell’importanza della salute mentale e della comunicazione equilibrata, gli operatori sanitari potranno acquisire le competenze necessarie per affrontare situazioni di crisi in modo più efficace, riducendo l’impatto negativo su individui e comunità.

31 Brain Set 2023
APPROFONDIMENTO - BRF

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO

ALIMENTARE: L’INTERESSE

NELL’UTILIZZO DELLO YOGA

COME TERAPIA INTEGRATIVA

L’importanza di un approccio olistico di Federica Laino

Definire cosa sia lo Yoga è sempre piuttosto complesso, o meglio riduttivo, vista la sua origine millenaria e le sue ramificazioni nei molteplici stili. Difficoltà che può portare ulteriore confusione quando il contesto di riferimento è quello occidentale, dove gli stili proposti sono spesso in contraddizione tra loro o distanti dal lignaggio tradizionale con lo Yoga Vidya, ovvero la Scienza Yoga. Una volta individuato lo stile di Yoga più adatto a noi, però, ecco che si presenta un nuovo “ostacolo”, che si traduce nel bisogno di trovare una definizione, una cornice razionale che ci permetta di porci degli obiettivi tangibili, misurabili, e di comprendere dove la pratica voglia esattamente condurci.

Parlo volutamente di ostacolo perché lo Yoga richiede uno sforzo in più, che è quello di provare ad uscire da quel bisogno - tanto caro alla mente ordinaria - di definire le cose, di approcciarsi alla pratica con fiducia e sincera curiosità, mettendo da parte giudizi e aspettative, praticando nella consapevolezza e nella fiducia che una trasformazione accadrà. Sono atti che richiedono una certa dose di coraggio e di forza interiore, ma è quando si impara ad affidarsi che, ad un certo punto del proprio cammino, qualcosa dentro di noi si sblocca e si fa chiaro quello che è il significato - nonché il fine ultimo - dello Yoga, ovvero l’unione. Ed ecco allora che quello che inizialmente appariva come un ostacolo si trasforma in un grande dono.

L’unione - ad un livello più semplicistico, ma non per questo riduttivo - è intesa come integrazione, di corpo, mente e spirito (o coscienza). Di quelle parti di noi che nell’era moderna, dominata da digitalizzazione e individualismo, siamo abituati a considerare come separate, con il conseguente risultato di sentirci frammen-

33 Brain Set 2023
CONTRIBUTO

Siamo abituati a curare spesso il sintomo e non la causa, l’origine della malattia; siamo abituati a curare il corpo o la mente, cadendo in un approccio dualistico che non si prende invece cura della totalità, oltre che dell’unicità ed irripetibilità, della persona. Ci prendiamo cura di noi quando il corpo o la mente manifestano un sintomo, non riuscendo a cogliere preventivamente quei segnali che anticipano la malattia. Perché accade?

tati. Una condizione che di fronte al manifestarsi di malattie mentali, e nello specifico dei DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) - verso cui rivolgiamo in modo generico l’attenzione in questo articolo - conduce inevitabilmente a non avere chiaro quale possa essere il percorso di cura più adatto da intraprendere per tornare a quel senso di unione.

Siamo abituati a curare spesso il sintomo e non la causa, l’origine della malattia; siamo abituati a curare il corpo o la mente, cadendo in un approccio dualistico che non si prende invece cura della totalità, oltre che dell’unicità ed irripetibilità, della persona. Ci prendiamo cura di noi quando il corpo o la mente manifestano un sintomo, non riuscendo a cogliere preventivamente quei segnali che anticipano la malattia. Perché accade? Perché manchiamo di consapevolezza enterocettiva ed emozionale, ritrovandoci ad essere disconnessi da noi stessi e da quanto accade dentro di noi. Tale mancanza si acuisce quando la malattia è intangibile e invisibile e, oltre alle difficoltà enterocettive, si manifestano il senso di vergogna, il timore di non essere compresi e di venire giudicati, e la credenza di poterne uscire da soli. È questo il caso dei Disturbi del Comportamento Alimentare, dove non sempre il corpo mostra i segni della malattia.

L’enterocezione: cosa mi sta comunicando il corpo?

Quando viene compromessa l’enterocezione, ovvero la capacità di percepire e comprendere in modo chiaro quei segnali che il corpo (organi, pelle e tessuti) costantemente ci invia, ecco che lo Yoga può diventare un valido strumento di aiuto e di auto-aiuto. Lo Yoga, infatti, attraverso il ricco bagaglio di tecniche che mette a disposizione, insegna o rieduca anche all’en-

terocezione, guidando la persona in un processo di decodifica, lungo un cammino che conduce ad una sempre maggiore consapevolezza di sé nella propria interezza.

Quando si convive con un DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare) è come se questa abilità - di cui ognuno dispone - fosse temporaneamente disattivata. Questo vale sia per i segnali fisiologici (come il senso di fame e di sazietà) che per quelli emotivi (come tristezza, rabbia, paura, ansia). Attraverso lo Yoga - inteso, questa volta, come l’unione di pratiche fisiche, tecniche di respirazione, meditative e di auto-consapevolezza - è possibile attivare nuovamente ed affinare la nostra capacità enterocet-

34 Brain Set 2023
CONTRIBUTO

tiva, tornando o imparando ad ascoltare quei segnali.

Lo Yoga: consapevolezza e ascolto di sé

Un Disturbo Alimentare si sviluppa quando non c’è ascolto verso le proprie emozioni: una mancanza di consapevolezza che nasce dal concepire e vivere corpo, mente ed emozioni come disconnessi.

Nella pratica Yoga abbiamo l’opportunità di recuperare e affinare la nostra capacità di percepire cosa accade nel corpo: osservando e ascoltando come stiamo nel qui e ora, ci apriamo alla possibilità di riconoscere e comprendere i nostri stati interni, e quindi di agire su di essi. Ciò avviene

grazie al profondo lavoro di ascolto di sé verso cui lo Yoga conduce, sul piano fisico e su quello più sottile.

Il primo approccio avviene solitamente sul piano fisico: si inizia praticando gli Asana (posizioni), focalizzandosi principalmente sul soma (corpo), che si rinforza e rinvigorisce. Si introducono poi le tecniche di Pranayama (respirazione), che con il tempo guidano il movimento: qui il praticante viene invitato in modo naturale all’ascolto del proprio respiro, a comprenderne il significato del ritmo e gli effetti calmanti che questo ha sul sistema corpo-mente, oltre che sul sistema immunitario, che grazie agli effetti detossificanti di tali tecniche si fortifica. Se vogliamo davvero parlare di Yoga, però, è importante includere la Meditazione che, insieme alle pratiche di Consapevolezza, ne è parte inscindibile: è grazie ad essa che la persona giunge ad un profondo stato di pace interiore, imparando ad accettare, rispettare e amare il proprio corpo, e ad accogliere le proprie emozioni. Questo si rivela di grande aiuto per le persone che soffrono di DCA, che necessitano di strumenti amorevoli per tornare a sentirsi a proprio agio con se stesse. Attraverso lo Yoga possono sviluppare un’immagine mentale più sana di sé, sentire e accettare le proprie sensazioni corporee (come fame e sazietà) senza il timore di perdere il controllo o di cadere, per contro, nell’iper-controllo, maturando un buon grado di auto-accettazione.

Il corpo accusa il colpo Prendendo in prestito le parole dello Psichiatra e ricercatore Bessel van der Kolk - uno dei più importanti pionieri nella ricerca e nel trattamento dello stress traumatico - “il corpo accusa il colpo”, poiché è proprio nel corpo che l’energia emotiva si accu-

Un Disturbo Alimentare si sviluppa quando non c’è ascolto verso le proprie emozioni: una mancanza di consapevolezza che nasce dal concepire e vivere corpo, mente ed emozioni come disconnessi. Nella pratica Yoga abbiamo l’opportunità di recuperare e affinare la nostra capacità di percepire cosa accade nel corpo

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CONTRIBUTO

Sono diversi gli stili Yoga che oggi abbiamo a disposizione, e diverso è il modo in cui questi agiscono sui nostri corpi. Tra questi, vorrei parlare dello Yin Yoga, uno stile lento e introspettivo, che integra i principi della Medicina

Tradizionale Cinese e della Psicosomatica, ispirandosi al pensiero taoista di “Yin e Yang”.

mula e, se non liberata, e consapevolizzata, si congela portando al manifestarsi della malattia.

Kolk, insieme ad una squadra di ricercatori americani, da diverso tempo studia proprio la relazione tra Yoga e trauma psicologico e psichiatricostrettamente correlato al manifestarsi del disturbo alimentare -, dimostrandone l’efficacia nel percorso di guarigione di persone vittime del trauma psicologico, appunto. Le ricerche lo hanno portato in seguito a fondare un istituto dedicato, il Trauma Center di Boston, rinomato centro clinico e di ricerca a livello internazionale, dove da ormai 15 anni è presente anche un centro dedicato allo Yoga (il Trauma Center Trauma Sensitive Yoga). Lo stile proposto in questo caso è il Trauma Sensitive Yoga, ed è efficace come terapia integrativa in caso di traumi della relazione e di attaccamento, che si ritrovano nella maggior parte delle malattie psichiatriche, tra cui i DCA.

Il Trauma Sensitive Yoga è una delle pratiche di Yoga Therapy maggiormente diffuse in America e in Europa per l’applicazione dello Yoga nelle problematiche psicologiche e psichiatriche, ma vi sono altri stili che risultano efficaci per lavorare in modo profondo sul piano emozionale. Tra questi, lo Yin Yoga.

Lo Yin Yoga per liberare emozioni e memorie traumatiche

Delle emozioni che il nostro corpo concretamente trattiene, così come del trauma stesso, accade spesso di non averne consapevolezza. Questo fa sì che nel momento in cui la pratica Yoga porta ad un rilascio emotivo, non si sia sempre pronti ad accogliere ciò che emerge - per la forma stessa dell’emozione o per la sua entità - e che non si disponga degli strumenti per elaborare ed integrare quanto rilasciato. Cosa fare, allora?

Come anticipato in questo articolo, sono diversi gli stili Yoga che oggi abbiamo a disposizione, e diverso è il modo in cui questi agiscono sui nostri corpi. Tra questi, vorrei parlare dello Yin Yoga, uno stile lento e introspettivo, che integra i principi della Medicina Tradizionale Cinese e della Psicosomatica, ispirandosi al pensiero taoista di “Yin e Yang”. È una pratica molto profonda e meditativa che, attraverso il mantenimento prolungato delle posizioni, lavora sull’energia (detta Qi) che scorre nei canali energetici (meridiani) che attraversano tutto il nostro corpo. Attraverso il mantenimento delle posizioni in una tensione ottimale, aiutate da una respirazione profonda, corpo e mente si rilassano, ristagni di energia vengono eliminati e questa torna a scorrere in modo fluido nell’intero organismo.

Uno stile che risulta particolarmente adatto quando l’intento è quello di liberare il corpo da quelle emozioni e memorie traumatiche che restano bloccate nei tessuti più profondi. Questo è possibile perché lo Yin Yoga, attraverso il mantenimento prolungato delle posizioni, appunto, permette di agire in modo mirato sui canali energetici e sui tessuti più profondi del corpo (come fascia e articolazioni), depositari delle nostre memorie emotive, memorie che il nostro corpo mappa in modo molto preciso, collocandole in specifiche parti del corpo.

Le nostre anche, ad esempio, oltre a rivestire una grande importanza dal punto di vista fisico, sul piano emozionale sono associate al bagaglio emotivo individuale, sede delle emozioni più intime (legate alla sessualità, al senso di pudore, alla vergogna) e delle memorie arcaiche e genealogiche, oltre a rappresentare la porta tra conscio e inconscio, i nostri schemi profondi, il nostro programma di vita, il nostro rapporto con gli altri e

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CONTRIBUTO

con l’esterno e il modo in cui noi lo vediamo. Solitamente il lavoro sulle anche è faticoso, di nuovo, non meramente su un piano fisico - visto il coinvolgimento di muscoli, tendini e legamenti - ma sul lavoro che di riflesso andiamo a svolgere su rigidità interiori, schemi di pensiero limitanti e vissuti. Posizioni di Yoga mirate ecco che offrono allora la possibilità di contattare, sciogliere e lasciare andare specifiche memorie, ritrovando armonia e leggerezza. È quindi evidente che i benefici dello Yoga, in generale, vadano ben oltre il piano fisico e lo spazio-tempo che dedichiamo alla pratica.

Nei casi in cui siano presenti memorie traumatiche, vissuti emotivi di una certa rilevanza o emozioni inespresse - siano essi consapevoli o inconsapevoli - oltre alla pratica Yoga, è fondamentale rivolgersi ad un professionista della salute mentale, come può essere uno Psicologo, che aiuti la persona ad elaborare, integrare e pacificare quelle memorie liberate. Lo Yoga, infatti, non sostituisce il percorso terapeutico ma, soprattutto se inserito in un percorso multidisciplinare, può davvero risultare un importante forma di terapia integrativa, offrendo alla persona strumenti di auto-aiuto cui poter attingere per tutta la vita.

Un approccio sempre più olistico

Sebbene a livello nazionale sia ancora piuttosto debole la letteratura scientifica a supporto dei benefici apportati dallo Yoga, è ormai ampiamente dimostrato che la pratica generi un aumento dei livelli del neurotrasmettitore gamma-aminobutirrico del cervello (GABA), che può aiutare a combattere l’ansia e la depressione. Due meccanismi mentali, questi ultimi, che sono spesso l’anticamera per lo sviluppo di un DCA.

Sempre in tema DCA, sono diversi i centri residenziali per il trattamento dei disturbi alimentari, le cliniche ed i professionisti che propongono trattamenti come lo Yoga e la Meditazione come parte del percorso di cura. Il diffondersi di un approccio sempre più olistico, e di un dialogo sempre più aperto tra medicina tradizionale e discipline olistiche, indica come sia ormai inevitabile prendersi cura della persona considerandola nella sua totalità, nella sua dimensione fisica e sottile. Approccio noto in Oriente, dove tale dialogo è consolidato da millenni, e verso cui anche il nostro paese sembra lentamente e fortunatamente aprirsi.

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CONTRIBUTO

L’ESORDIO DELLA PSICOSI ALL’INTERNO DEL TRAUMA EVOLUTIVO

Come il proprio background esperienziale può bloccare l’acquisizione di nuove rappresentazioni

Le psicosi delineano un quadro psicopatologico (Garrett, 2022) caratterizzato da fattori sia biologici che psicologici, rispetto ai quali il vissuto di ciascun individuo ricopre un ruolo importante circa il possibile esordio. Le esperienze individuali infatti a partire dal periodo perinatale (Brockington 2007), rispecchiano un campo di indagine ove il proprio vissuto e le prime modalità di autoregolazione emotiva, promuovono lo sviluppo di quei pattern che non solo vengono interiorizzati, ma che al contempo tracciano un imprinting epigenetico in grado di riverberarsi sulla dimensione neurobiologica e comportamentale.

Sin dalle prime fasi di vita e successivamente nel corso del proprio sviluppo affiora una propria modalità di stare al mondo (e con gli altri) che gradualmente si traduce in rap-

presentazioni mentali (Siegel, 2001). Queste ultime risentono infatti di una risonanza emotiva e cognitiva in grado di conferire al proprio modo di percepirsi una dimensione interpersonale interna, cioè una lente attraverso la quale orientarsi nel mondo. Grazie alla teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali (Klein, 1946) tanto le esperienze individuali quanto le modalità con le quali viene plasmata l’identità, descrivono la nascita e lo sviluppo delle rappresentazioni mentali (del Sé e degli altri), costantemente sottoposte ad un processo di modellamento (e/o rimodellamento). Più nello specifico attraverso questa teoria è possibile sottolineare come l’oggetto psicologico (Freud, 1915) rifletta la rappresentazione mentale di una persona reale o immaginata, un’entità o ancora un’astrazione personificata, che per l’individuo ricopre un interesse

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CONTRIBUTO
Psicologo Specializzando in Psicoterapia Psicosomatica Operatore Perinatale

particolare. Pertanto gli oggetti interni e/o interiorizzati altro non sono se non il riflesso di una quota di interesse di cui si è servito l’individuo per attribuire un certo grado di importanza rispetto ad una figura esterna, che di contro esiste nel proprio mondo psichico ma non nella realtà fisica.

Quello che la rappresentazione evidenzia è dunque l’insieme delle esperienze emotive personali che in rapporto al mondo esterno determinano (o hanno determinato) la comparsa di sentimenti, fantasie, pensieri e ricordi connotati da una forte valenza emotiva (Kernberg, 1976)

Nel quadro della dimensione psicotica (Skodlar, 2013) ad emergere è proprio la fusione di una rappresentazione mentale di una persona (o entità reale) con una rappresentazione oggettuale connotata da elementi esperienziali intrapsichici del Sé, che una volta proiettati vengono vissuti

quasi fossero reali (Marcus, 2017). L’aspetto oltremodo interessante è circoscritto alle medesime relazioni oggettuali e al loro flusso dinamico di coscienza, che come sottolineato da Kernberg (1976) possono risentire all’unisono di una dimensione conscia o inconscia, in grado di incidere circa l’elaborazione del proprio vissuto.

A supporto di quanto descritto sinora quello che emerge è la presenza di una dimensione preverbale (Klein, 1952) che negli individui con psicosi sembra riconnettere la persona alle proprie origini e cioè ad uno stile primitivo che non si è mai evoluto, ma che al contrario ha provocato un blocco maturativo. Il quale consente di inquadrare la psicosi quale dimensione psicopatologica ove i processi mentali in età adulta risultano pilotati da modalità di cognitive e percettive prettamente infantili (Arlow, 1969),

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CONTRIBUTO

Grazie alla teoria psicoanalitica delle relazioni oggettuali (Klein, 1946) tanto le esperienze individuali quanto le modalità con le quali viene plasmata l’identità, descrivono la nascita e lo sviluppo delle rappresentazioni mentali (del Sé e degli altri), costantemente sottoposte ad un processo di modellamento (e/o rimodellamento).

in grado di riaffiorare in età avanzata e di rimodellare e/o cablare (Siegel, 2020) la mente del giovane adulto. Determinando così l’insorgenza di uno strato della mente primordiale disadattivo e pur tuttavia in linea con il proprio modo di sentire.

Entrando più nel dettaglio quanto emerge è un vero e proprio dialogo intrapsichico costellato prevalentemente da un aspetto primigenio (Winnicott, 1962) presente sia nel pensiero che nel comportamento dell’individuo con psicosi. E che riflette al contempo un insieme di operazioni mentali che anziché risentire di un armonioso equilibrio tra più parti, conferma al contrario la presenza di una discontinuità. Ossia la frammentazione e/o mancata maturazione di più processi che in maniera ripetuta e cumulativa chiamano in causa stili interpersonali risalenti ad un periodo precedente la vita adulta. Favorendo in tal modo l’acquisizione e la consolidazione di una logica mai simbolizzata ma al contrario pronta ad affiorare nei momenti di maggiore stress; attraverso i quali si riscontra una equivalenza tra la situazione avversa che l’individuo vive e il suo contenuto primitivo mai simbolazzato.

L’insorgenza della psicosi quale possibile modalità di risposta dinanzi a un vissuto traumatico

In rapporto con quanto proposto sinora, il concetto di trauma si propone quale chiave di lettura in grado di descrivere la possibile dinamica d’esordio delle psicosi. Se dunque quest’ultima rispecchia una mancata maturazione dei processi cognitivi e/o psicologici cristallizzati ad una fase di elaborazione primitiva (di sé stessi e degli altri), di contro l’evento traumatico di natura cumulativa mette in luce una modalità percettiva e

rappresentativa del mondo sedimentate nel passato individuale. Con il conseguente rischio di consolidare non solo una visione distorta di sé stessi e degli altri bensì di tracciare a livello psicosomatico un marker epigenetico (Bloss et al., 2010) che rischia di ripercuotersi sui processi psicologici individuali.

Se da un lato le vicende traumatiche sono dunque in grado di apportare notevoli modifiche a livello neurobiologico e cognitivo, esse risultano determinanti nel modellare in maniera disadattiva i diversi distretti cerebrali, conferendo così una ristrutturazione morfologica che rischia di riverberarsi su quanto di più

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CONTRIBUTO

lontano è inscritto nel corpo e nella psiche dell’individuo (Nasca et al., 2015).

Esaminando più da vicino la psicosi come risposta a più eventi stressanti e ripetitivi nel tempo, le vicende avverse e/o di natura traumatica, possono creare una risonanza con tutto ciò che in precedenza era stato collocato al di fuori della coscienza a partire dall’infanzia (Marcus, 2017). Nello specifico infatti eventi vissuti in passato e non elaborati possono sintonizzarsi con quelle fantasie primitive circoscritte agli oggetti interni, rispetto ai quali la fantasia inizia ad invadere l’esperienza della realtà della persona (Teicher et al., 2016). At-

traverso questo meccanismo il contenuto della fantasia si connette con la realtà esterna, portando le persone in procinto di diventare psicotiche a sperimentare la vita presente come rispecchiamento di una fantasia inconscia talmente realistica da credere e ritenere che si stia realizzando nella vita attuale. (Garrett, 2022). L’aspetto centrale che entra in gioco riguarda l’ingresso del contenuto primitivo all’interno della cornice esperienziale che il soggetto vive in quel dato momento della propria tappa evolutiva. Il presente e il passato si fondono sino a creare uno stato mentale ibrido, attorno al quale convergono emozioni, pensieri e rappresentazioni privi non solo di un’adeguata simbolizzazione bensì di un fisiologico confine (Rossi, 2016). Se dunque la reazione dinanzi all’evento stressante può essere sproporzionato, di contro le modalità di autoregolazione e di risposta sono direttamente proporzionali al contenuto della fantasia inconscia che con l’evento esterno ha creato una sintonizzazione (Van der Kolk, 2005). Secondo Marcus (2017) si delinea un processo di fusione e ancor più di condensazione, in base ai quali l’esperienza emotiva-soggettiva e l’esperienza della realtà diventano un tutt’uno; un vero e proprio ibrido. Nondimeno l’autore sottolinea quanto la caratteristica principale della psicosi sia connotata da un’esperienza di condensazione specifica e organizzata tra un segmento di esperienza della realtà e il proprio background emotivo, che riversandosi sull’esame di realtà viene sperimentato ad un livello di coscienza lontano dai reali parametri e che sembra collocarsi nel proprio vissuto. Un ulteriore contributo a supporto di quanto appena proposto è quello di Daniel Siegel (2001), che attraverso il concetto di stato della mente valorizza il recluta-

Nel quadro della dimensione psicotica (Skodlar, 2013) ad emergere è la fusione di una rappresentazione mentale di una persona (o entità reale) con una rappresentazione oggettuale connotata da elementi esperienziali intrapsichici del Sé, che una volta proiettati vengono vissuti quasi fossero reali (Marcus, 2017).

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CONTRIBUTO

Lo stato mentale riflette una prospettiva multi-fattoriale, rispetto alla quale vengono chiamati in causa processi percettivi, la regolazione delle emozioni, i la memoria e le risposte comportamentali.

mento di più distretti cerebrali che ben distinti tra loro promuovono in maniera reciproca e sintonizzata l’omeostasi dell’individuo, il quale collocato all’interno di una cornice psicotica riflette un vissuto non integrato, non elaborato e tantomeno simbolizzato. Confermando quanto la mancanza di confini si riversi sui circuiti cerebrali e sulla loro mancata differenziazione di ruolo a discapito di un coinvolgimento di più parti (Hebb, 1949) che simultaneamente provoca un cortocircuito e ancor più un impiego primitivo delle funzioni non ancora sviluppate.

Lo stato mentale riflette dunque una prospettiva multi-fattoriale, rispetto alla quale vengono chiamati in causa processi percettivi, la regolazione delle emozioni, i la memoria e le risposte comportamentali.

I quali nel loro insieme assumono un significato ed una collocazione all’interno di una cornice fatta di ricordi, percezioni, sentimenti, pensieri e soprattutto credenze, in grado di delineare una chiave di lettura attraverso cui orientarsi nel mondo.

Tuttavia non sempre la mente è in grado di operare un’organizzazione adattiva nel fronteggiare determinate esperienze (Pelcovitz et al, 2005). Infatti in rapporto al trauma evolutivo la somma delle esperienze interpersonali intacca le capacità della mente stessa di creare stati coesi, flessibili e adattivi. Nello specifico infatti emergono degli stati mentali caotici e disorganizzati a conferma di una mancanza di coesione che può sfociare non solo in un tratto individuale, bensì divenire parte integrante delle sue modalità relazionali.

Un valido contributo utile alla comprensione del trauma evolutivo è quello inerente il rapporto tra due concetti: quello della continuità e della flessibilità (Fogel, 2002). Men-

tre il primo evidenzia la costanza con la quale stati precedentemente acquisiti tendono a ripetersi in futuro, il secondo viceversa mette in luce il grado di sensibilità del sistema rispetto alle condizioni ambientali. Valorizzando come la presenza di basi evolutive disadattive presentino purtroppo elevate probabilità di ripetersi lungo il proprio cammino.

L’esperienza traumatica difatti se ripetitiva e cumulativa, può quindi incrementare la “continuità” riducendo quelle capacità di cambiamento che portano il soggetto ad un’adesione a stati precedentemente fissati e troppo rigidi. Ciò che si riscontra è dunque un vero e proprio blocco nel passato rispetto a qualcosa che non si riesce a cambiare e che pur presentando delle lacune rispecchia un vuoto da colmare con una riorganizzazione che sia capace di restituire un nuovo significato.

Sotto questo punto di vista l’esordio psicotico può infatti essere percepito come una restrizione del movimento in cui la continuità, la flessibilità e il senso dello scorrere del tempo assumono caratteristiche ben diverse, modificate e non pienamente adattive.

Come sottolineato da Massimo Germani, (2017) psichiatra e psicoanalista, esperto di patologie post-traumatiche, ciò su cui è importante riflettere è la “complessità”, ovvero capire come ogni storia possa essere affrontata non solo in modo diverso bensì con modalità che tengano conto del background individuale. In quanto una condizione perpetua nel tempo rischia di sfociare in risposte ed effetti differenti.

La ripetitività e la continuità consentono di comprendere quanto la propria identità possa essere messa in crisi, poiché gli eventi stressanti presentano una soglia oltre la quale

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CONTRIBUTO

le capacità di resilienza della persona cedono (Sanavio, 2017).

Ciò che si vuole sottolineare è quanto il passato sia in grado di intaccare il presente, provocando una rottura circa il proprio equilibrio.

Il ruolo del delirio entro uno sfondo traumatico

In accordo con le pregresse vicende traumatiche questo processo e/o disturbo cognitivo sottolinea un forte desiderio individuale di essere parte del mondo, dinanzi al quale il delirio stesso riflette la possibilità di ripristinare il senso di continuità del proprio Sé, della propria realtà e soprattutto della propria identità.

Come sottolineato da Tustin (1981) in soggetti che presentano croniche storie di trascuratezza le emozioni traumatiche popolano quella parte della psiche definibile come “inconscio non rimosso”. Entro il quale prendono forma veri e propri “buchi corporei”, capaci di evocare un vissuto terrificante, pronto a manifestarsi nei quadri psicotici. Questi spazi non simbolizzati assumono pie namente le sem bianze di un vuoto (Craparo, 2017) entro il quale le emozioni impedi scono al soggetto di vivere una con sapevole esperien za circa i propri stati mentali, che di contro vengono mantenuti ad un livello pre-simbo lico e primitivo.

Se quindi il trauma riflette una traccia riguardo al proprio back

ground esperienziale, al contempo le molteplici modalità di risposta individuali confermano un tentativo di restituire un senso alla propria identità.

Valorizzando sempre più lo stretto rapporto fra il trauma evolutivo e il possibile esordio di psicosi è possibile ipotizzare come il delirio ricopra un aspetto rilevante a conferma di una modalità finalizzata ad un nuovo adattamento e/o apprendimento. Rispecchiando così uno strumento attraverso il quale riorganizzare la propria trama identitaria.

Nella sua essenza questo disturbo del pensiero viene inquadrato quale forma di “scoperta”, connotato dalla sensazione che la nuova idea affacciatasi alla coscienza consenta di “restaurare un ordine e di completare un quadro” (Rossi, 2008).

Un processo funzionale finalizzato alla creazione di una coerenza tramite la quale interpretare al meglio la realtà intrapsichica e di strutturarla in sintonia con i rispettivi bisogni (Meissner, 1978).

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CONTRIBUTO
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CLOROPHILLA: «DIPINGERE È UN ATTO TERAPEUTICO»

Da sempre l’arte è uno dei mezzi che rappresentano al meglio le emozioni umane, le fragilità e la società in cui viviamo: è, di fatto, il mezzo di comunicazione che ci ha permesso nel corso degli anni di raccontarci epoca dopo epoca con tutti i cambiamenti che la storia porta con sé.

La Fondazione BRF, anche per questa ragione, porta avanti da anni la campagna #Parliamone per dare spazio all’arte nell’arduo percorso verso l’abbattimento dello stigma che pesa sulla salute mentale.

Negli anni si sono uniti al progetto illustratori, grafici e fumettisti di fama nazionale per raccontare attraverso le loro immagini fragilità e patologie della mente.

Oggi si unisce alla campagna anche Ludovica Basso, in arte Clorophilla. Ludovica inizia a disegnare sin da piccola su tutte le superfici

che aveva a disposizione. Da ragazzina personalizzava abiti con scritte e disegni: «Ho iniziato realizzando disegni per gioco, per amici e parenti, poi piano piano ho iniziato ad avere le prime richieste da aziende ed in quel momento ho capito che sarebbe potuto diventare un vero e proprio lavoro», racconta Ludovica.

La sua arte si avvale di tanti medium diversi: dal disegno alla ceramica. «Mi piace darmi sempre il privilegio di sperimentare ed esprimermi attraverso diversi mezzi e materiali, credo sia insito nell’animo artistico aprirsi a nuove vie d’espressione», spiega non a caso.

Sperimentazioni che evidentemente danno ottimi risultati. La sua pagina Instagram, che conta ormai più di 15.000 iscritti, è una raccolta colorata e accogliente della sua arte.

Se è vero che nel mondo social può capitare di sentire la pressione quando

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La disegnatrice Ludovica Basso si unisce alla famiglia di #Parliamone. Ecco il suo disegno per la Fondazione BRF
di Chiara Andreotti

si hanno così tanti followers, Ludovica riesce a cogliere il lato positivo di questa situazione, spiegando che quando si è seguiti da tante persone che realizzano progetti interessanti, nascono anche collaborazioni e legami unici, soprattutto quando si sceglie di lasciarsi sempre ispirare da ciò che vediamo, da ciò che ci circonda.

E, non a caso, negli ultimi mesi anche i social sono diventati un potente mezzo per affrontare temi delicati, spesso tabu, come può essere il mondo della salute mentale. Sono sempre di più le pagine che scelgono di parlare senza veli e pregiudizi delle patologie mentali, creando così una narrazione che aiuta tutti a non

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Illustrazione di Clorophilla.

“Ho una community abbastanza grande ma si è creata una relazione più stretta soprattutto con alcuni follower. Mi fa sempre molto piacere ricevere messaggi così intimi da persone apparentemente sconosciute o vedere come un pensiero che credevo personale possa essere compreso da così tante persone”.

sentirsi soli o abbandonati, dando un grosso supporto a coloro che ancora non hanno trovato il coraggio di parlarne apertamente.

La condivisione delle proprie storie, infatti, come ci racconta ancora Ludovica, può essere uno stimolo per qualcuno a trovare la forza di farsi aiutare.

Lei stessa ci racconta il suo percorso: «Da un po’ di tempo ho sentito l’esigenza di aver qualcuno che mi ascoltasse davvero, qualcuno di esterno, che non fosse un familiare o un amico stretto e tutt’ora ne sto vedendo i benefici», chiarisce Ludovica, che sottolinea come ogni persona debba avere il diritto di essere seguito da un terapeuta così da riuscire a prendere in mano la propria vita e poter crescere.

Anche l’arte, dopotutto, non può che risentire della sua dimensione mentale essendo un tratto fondamentale - e prioritario - della sua esistenza: «I miei sentimenti sono strettamente legati ai miei disegni, ai miei quadri, spesso utilizzo la pittura per celebrare determinati stati d’animo e condividere la mia esperienza e il mio vissuto attraverso il mio tratto. Dipin-

gere è un atto terapeutico».

L’illustrazione che Ludovica ha donato alla campagna #Parliamone ne è una chiara dimostrazione: «Ho avuto periodi nei quali mi sentivo sola nel mio vissuto e nelle mie esperienze negative, periodi dove mi sono molto chiusa e invece che chiedere aiuto mi sono isolata».

Decide così di dare voce a questi sentimenti illustrando la volontà della persona di riuscire ad esternare il proprio vissuto, per dare inizio ad un percorso di guarigione partendo proprio dalla presa di coscienza dei propri problemi e trovare dentro se stessi la volontà di aprirsi con l’altro ed essere capaci di vedersi dall’esterno, magari con più oggettività.

L’augurio per tutti è di trovare la forza di sostenere davanti a noi la nostra storia, quella sfera luminosa che Ludovica immagina di tenere tra le mani.

Vuoi conoscere meglio il progetto #Parliamone?

Visita il sito della Fondazione BRF (www.fondazionebrf.org) per scoprire tutte le nuove grafiche e sostenere la ricerca.

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Clorophilla.

Fumettisti contro lo stigma della malattia mentale

Visita la pagina

#Parliamone sul sito www.fondazionebrf.org per acquistare i gadget della campagna e sostenere la ricerca

EMERGENZA ALZHEIMER IN ITALIA 2,3 MILIONI DI CASI NEL 2050

Ecco i 12 principali fattori di rischio per la demenza

di Alberto Lupi

48 Brain Set 2023

Entro il 2050 in Italia potrebbero vivere 2,3 milioni di persone affette da demenze come la malattia di Alzheimer, circa 800 mila in più rispetto a oggi. Si tratta, però, di una traiettoria che potrebbe essere modificata: fino al 40% di questi casi potrebbe essere infatti ritardato o evitato del tutto intervenendo sui principali fattori di rischio. È con questo messaggio che la Federazione Alzheimer Italia e Alzheimer’s Disease International hanno lanciato la dodicesima edizione del Mese Mondiale dell’Alzheimer, che si celebra proprio queste mese, a settembre, chiedendo ai governi di tutto il mondo di rafforzare il finanziamento sui principali fattori di rischio per la demenza e le strategie di contrasto alla loro diffusione. Al momento, non sembra che ciò stia avvenendo.

«L’Italia, aderendo nel 2017 al Piano di azione globale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla risposta di salute pubblica alla demenza, si è impegnata a dare priorità alla riduzione del rischio», afferma la presidente della Federazione Alzheimer Italia Katia Pinto. «Un aspetto che non è sufficientemente considerato nel nostro Piano Nazionale Demenze, che, oltretutto, potrebbe a breve rimanere di nuovo senza fondi: lo stanziamento economico previsto con la legge di Bilancio del 2021 si esaurirà infatti nei prossimi mesi. Per questo chiediamo con forza al Governo di garantire nuovi fondi al Piano, così da permettere di proseguire il lavoro già iniziato e implementare inoltre iniziative efficaci di prevenzione», conclude Pinto.

Secondo un’analisi condotta nel 2000 dalla Lancet Commission on dementia prevention, intervention,

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NEUROSCIENZE

and care sono 12 i principali fattori di rischio per la demenza: l’inattività fisica, il fumo, il consumo di alcol, le lesioni alla testa, i contatti sociali poco frequenti, l’obesità, l’ipertensione, il diabete, la depressione, i disturbi dell’udito, scarsi livelli di istruzione e l’inquinamento. È intervenendo su questi che si può cambiare lo scenario epidemiologico della malattia, riducendo fino al 40% i casi su scala globale, soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito. «Investire nella riduzione del rischio è un punto chiave, in assenza di un trattamento o di una cura, per prevenire il maggior numero possibile di casi di demenza», dice Paola Barbarino, ceo di Alzheimer’s Disease International.

«Dobbiamo garantire che i cittadini in tutto il mondo siano consapevoli di quali sono le strategie attuabili, a tutte le età, e abbiano accesso alle informazioni, ai consigli e ai servizi di supporto necessari».

Intanto, c’è grande attesa per le nuove terapie. Negli ultimi due anni si sono resi disponibili i primi medicinali diretti contro le placche amiloidi, ritenute responsabili del declino cognitivo. In Usa due prodotti sono stati già approvati e una terza approvazione è attesa per la fine dell’anno. A breve potrebbero essere disponibili anche in Europa. Questi farmaci non curano la malattia, ma, rallentandone la progressione, potrebbero cambiare la vita di molti malati.

50 Brain Set 2023
NEUROSCIENZE

INTERFACCIA NEURALE, LA REALTÀ SUPERA L’IMMAGINAZIONE

Ecco perché e come la Brain-computer interface potrà essere il futuro dell’interazione

L’interfaccia neurale nota come BCI, Brain-computer interface, potrà mai diventare il futuro dell’interazione tra uomo e computer? Nell’immaginario comune - che spazia dal cinema alla letteratura - la fantascienza ha descritto ampiamente l’interazione tra macchina e uomo da molti anni. Un esempio sono personaggi che abbandonano la loro umanità per diventare degli ibridi capaci di controllare computer con la mente e che si ritrovano provvisti di arti e organi artificiali in grado di andare oltre le capacità fisiche terrene. In questo momento siamo ben lontani da tale scenario, ma sicuramente negli ultimi anni si sono fatti grandi passi avanti, soprattutto in aiuto di persone con disabilità.

Ma di cosa stiamo parlando nello specifico? L’interfaccia neurale consiste nell’applicazione di elettrodi a contatto con il tessuto nervoso che permettono la registrazione dei segnali elettrici celebrali e la conseguente interpretazione. L’utilizzo va dal controllo di dispositivi elettronici all’ambito clinico per la terapia di varie patologie. Parliamo dunque di un campo ampio di applicazione, tanto che molte start-up stanno implementando lo sviluppo di nuove tecnologie come Synchron, che tra i suoi investitori vanta Bill Gates e Jeff Bezos.

Una delle principali innovazioni portate avanti da Synchron riguardano l’impianto mini-invasivo Stentrode, stent endovascola-

re metallico ricoperto da elettrodi in platino progettato per creare un bypass digitale tra cervello e dispositivi di assistenza allo scopo di migliorare lo stile di vita dei pazienti paralizzati. Si tratta di un impianto considerato altamente sicuro e con minimi effetti indesiderati. In Australia sono già stati effettuati trial sugli esseri umani, e al momento non si sono registrati effetti avversi. I pazienti interessati sono anzi riusciti a controllare gli impulsi attraverso un computer e sono stati in grado di comunicare.

Esempio delle potenzialità di questo sistema è quello che si può riscontrare in un paziente affetto da Sclerosi Laterale Amiotrofica che, dopo l’operazione, è stato capace di controllare un iPad, potendo così comunicare nonostante la patologia.

Altra azienda che ha fatto parlare di sé è Neuralink dell’imprenditore, proprietario di Tesla e di X, Elon Musk. L’azienda, infatti, a maggio 2023 ha avuto da parte dell’FDA, la possibilità ad effettuare i primi studi clinici sull’uomo.

Anche in questo caso lo sviluppo di tecnologie per persone disabili è il principale focus dell’ azienda, ma Musk fa sapere tramite X (ex Twitter) che in un futuro non troppo lontano saranno possibili integrazioni sempre più performanti, anche con l’intelligenza artificiale. E così quel futuro che oggi ci appare lontanissimo, tanto minuziosamente descritto dai film di fantascienza, sarà sempre più reale.

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NEUROSCIENZE
di Federico Piccinni

L’ANUPTAFOBIA, SINGLE A RISCHIO SINDROME “BRIDGET JONES”

La neurologa:

In Italia oggi i single (il 33,2% della popolazione) superano le famiglie (ferme al 31,2%), secondo l’ultima rilevazione Istat, ma solo per un terzo degli italiani essere single è davvero una scelta, contro oltre il 60% che dichiara di essere condizionato da altri fattori, in primis lo stress e l’insicurezza lavorativa, come rivela il 35mo Rapporto Italia di Eurispes. La scelta di essere single dunque «è, in sempre più casi, il risultato di una ricerca spasmodica del’“partner perfetto” che si traduce puntualmente in un nulla di fatto, poiché impossibile». Così Maria Cristina Gori, neurologa e psicoterapeuta, nel nuovo corso di formazione realizzato per Consulcesi dal titolo Anuptafobia: la paura di rimanere soli, altrimenti conosciuta come sindrome di Bridget Jones.

Come spiega l’esperta all’AdnKronos, «la crisi economica, i disastri naturali, la pandemia, le guerre e la crisi

climatica, stanno mettendo alla prova il nostro equilibrio psichico, alimentando in sempre più persone stati di ansia, depressione», oltre che a «paure per molti aspetti ancora fortemente sottovalutate come quella della solitudine, della morte e della malattia. Si tende così - aggiunge Gori - a trovare rifugio e consolazione nella relazione romantica, o meglio nella ricerca spasmodica di questa, finendo col passare da una relazione ad un’altra senza mai sentirsi realmente “interi”, come la storia della “mezza mela” erroneamente ci insegna».

Se è umano desiderare di trovare un partner con cui realizzare un progetto di vita insieme, la condizione di “disaccoppiati” - si legge in una notapuò diventare una vera e propria paura, al limite dell’ossessione, l’anuptafobia appunto (dal latino “anupta”, ossia “senza nozze”). Comunemente nota come la sindrome di Bridget Jones - nome della protagonista di una

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NEUROSCIENZE
“Il rischio oggi è che venga sottodiagnosticata”
di Alessia Vincenti

serie di romanzi - è una paura intensa e irrazionale che colpisce tendenzialmente, più le donne che gli uomini, specialmente fra i 30 e i 40 anni poiché «legata principalmente a quel retaggio culturale secondo cui le donne in questa età dovrebbero trovare marito e metter su famiglia». Ma anche, illustra Gori, «abbandoni, tradimenti, rifiuti… possono gravare sul senso di inadeguatezza che conduce all’anuptafobia».

Nonostante la sua rilevanza clinica, l’anuptafobia - che può causare anche seri problemi di salute mentale, attacchi di panico e depressione - rimane ancora sottodiagnosticata, a volte “scambiata” erroneamente per dipendenza affettiva, altre per ansia,

depressione, ossessioni e ruminazioni. «Per questo - sottolinea l’esperta - è importante formare non solo gli specialisti ma anche medici di medicina generale e gli altri professionisti della salute su campanelli d’allarme e sintomi psichici. Non necessariamente fornire aiuto a chi manifesta sofferenza psichica - prosegue - deve tradursi nell’indirizzare verso lo psicoterapeuta, non solo almeno e ovviamente dipende dalla gravità. Ma a volte è proprio la solitudine e l’isolamento a causare malessere, e anche semplicemente suggerire attività come la partecipazione a circoli, un nuovo o il completamento di un percorso formativo, da parte dei medici di famiglia potrebbe fare la differenza».

53 Brain Set 2023
NEUROSCIENZE

VACANZE, STRESS DA RIENTRO. ESISTE ED ECCO COME SUPERARLO

Cos’è la “post-vacation blues” e come riconoscerla

Definita anche post-vacation blues, la sindrome da rientro è una condizione di malessere psicologico e fisico che si sperimenta a fine estate e deriva dal rientro nel contesto e nella routine: un susseguirsi di impegni e di scadenze da rispettare che si sostituisce a ritmi, luoghi ed attività gratificanti dei periodi di vacanza.

Non una patologia, dunque, ma una risposta psicofisiologica alla reimmersione nello stress, che può riguardare, trasversalmente, soggetti di differenti età.

I benefici di un periodo di vacanza sono, solitamente, notevoli. Tuttavia, come confermato qualche anno fa dall’American Pyschological Association (2018), gli effetti positivi delle ferie sono decisamente fugaci. Circa 2 persone su 3 affermano che, rientrando al lavoro, i benefici scompaiono immediata -

mente (24%) o dopo pochi giorni (40%). Quasi la metà degli intervistati ha dichiarato di dover affrontare, rientrando dalle vacanze, non solo il carico di lavoro accumulatosi, ma anche i problemi che si sono verificati nel frattempo.

Dati Istat rilevano che lo stress da rientro riguarderebbe un italiano su 10. Secondo lo psichiatra Claudio Mencacci, past president della Società Italiana di Psichiatria, in Italia la sindrome da rientro colpisce «circa il 35% della popolazione, con maggior incidenza tra i 25 e i 45 anni» – più di un italiano su 3, insomma, rischierebbe di soffrire il rientro, a tal punto da somatizzarlo.

Un meccanismo scaturito dal sistema ipotalamo-ipofisi-surrene, che si manifesta con vari sintomi e che è comunque passeggero: dura circa una settimana. Ma, in alcuni casi, può scatenare problemi laten -

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NEUROSCIENZE
di Francesco Carta

ti più seri e duraturi legati ad ansia e depressione.

I sintomi sperimentati al rientro dalle vacanze possono comprendere: sensazione di spossatezza e affaticamento, difficoltà di concentrazione, mal di testa, dolori muscolari, disturbi della digestione e del sonno. Ma anche irritabilità, ansia, tensione, sbalzi d’umore, malinconia e tristezza, senso di vuoto.

Se vi capita di sperimentare questo tipo di malessere, sappiate di essere in nutrita compagnia: è una condizione molto comune che, solitamente, regredisce spontaneamente in breve tempo.

E allora la domanda: quali accorgimenti suggeriscono gli esperti per fronteggiare lo stress da rientro?

Innanzitutto, è molto importante riprendere con gradualità le attività lavorative, concedendosi un periodo di “assestamento” prima di rientrare pienamente nella routine quotidiana (anche un paio di giorni possono essere sufficienti) ed iniziando ad affrontare gli impegni a partire dai meno complessi. Efficace è anche introdurre abitudini salutari: ad esempio resettare il ritmo sonno-veglia, che solitamente in vacanza è meno regolare, aumentando le ore di sonno; prendersi cura dell’alimentazione, bere molta acqua e ridurre il consumo di caffeina e di alcolici, se in vacanza è stato più abbondante del solito; praticare regolarmente la mindfulness.

Molti esperti sottolineano che dedicare del tempo alla cura di sé può aiutare: ritagliare uno spazio per le piccole attività gratificanti (ad es. fare un bagno rilassante, una passeggiata con amici, prendere appuntamento dal parrucchiere).

E ancora l’attività fisica: lo sport, anche una semplice camminata a passo sostenuto, facilita il rilascio di endorfine a favore del buonumore. Anche la memoria e i ricordi possono essere di supporto. E dunque ricordare la vacanza attraverso fotografie o oggetti: tornare ai momenti felici trascorsi può essere utile a fronteggiare i momenti nei quali ci si sente particolarmente sotto pressione.

E poi, ancora, porsi un obiettivo: ad esempio cimentarsi in nuove attività che si rinviano da tempo, come iscriversi ad un corso di ballo o di formazione, oppure seguire un seminario. Insomma, tutto ciò che aiuti a coltivare un pensiero positivo può essere d’aiuto. Perché no, anche pianificando le prossime vacanze… o una breve gita fuori porta, realizzabile in breve tempo.

55 Brain Set 2023
NEUROSCIENZE

UN MILIONE DI ANNI FA L’ANTENATO DELL’UOMO RISCHIÒ L’ESTINZIONE

L’incredibile studio internazionale, a cui ha partecipato anche l’Italia

di Attilio Personi

Un nuovo studio internazionale, che ha visto per l’Italia la partecipazione della Sapienza e dell’Università di Firenze, ha identificato una drammatica crisi demografica delle popolazioni umane avvenuta meno di un milione di anni fa, cioè alla fine del Pleistocene Inferiore, che è stata messa in relazione ai drastici cambiamenti climatici di quel periodo.

L’evento avrebbe ridotto la popolazione dei nostri antenati a un numero paragonabile a quelli di specie a rischio di estinzione, ma sarebbe tuttavia stato fondamentale per far emergere Homo heidelbergensis: la specie ancestrale alle origini di Homo sapiens.

I risultati del lavoro sono pubblicati sulla rivista Science in un articolo al quale hanno partecipato un gruppo di ricercatori cinesi e italiani, tra cui esperti dell’Accademia Cinese delle Scienze, dell’Università Normale Orientale di Shanghai, dell’Università del Texas,

della Sapienza Università di Roma e dell’Università di Firenze.

Grazie a un innovativo metodo bioinformatico, chiamato “FitCoal” i ricercatori hanno esaminato i genomi completi di 3.154 individui attuali, appartenenti a 50 diverse popolazioni umane, e hanno combinato questi dati con informazioni paleoambientali (clima) e paleoantropologiche (fossili) che consentissero di risalire a periodi preistorici precedenti all’apparizione della nostra specie, come spiega il prof. Haipeng Li che ha coordinato la ricerca.

I risultati dello studio hanno infatti rivelato che tra 930 e 813 mila anni fa la popolazione dei nostri antenati si ridusse di circa il 98,7%, arrivando a contare solo circa 1.300 individui fertili: un numero paragonabile alle specie a rischio di estinzione, come sono ad esempio gli attuali panda. Tale fenomeno, noto come “collo di bottiglia” (o bottleneck) genetico, è stato con ogni probabilità dovuto ai drastici cambiamenti clima-

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NEUROSCIENZE

tici che caratterizzano la cosiddetta “transizione medio-pleistocenica”.

Successivamente a un milione di anni fa i cicli glaciali e interglaciali si ampliarono a livello planetario, portando a condizioni di estrema aridità in Africa e a estinzioni di intere comunità di grandi mammiferi. Queste avverse condizioni climatiche e ambientali resero la sopravvivenza estremamente difficile anche per i nostri antenati, portandoli sull’orlo dell’estinzione.

L’evento sarebbe stato tanto catastrofico quanto generativo, dando probabilmente origine a una specie che viene ritenuta ancestrale all’evoluzione di noi Homo sapiens (cosa che avvenne successivamente in Africa). Questi risultati genetici trovano conferma nell’assenza di fossili umani in quel periodo.

È stata infatti rilevata una lacuna di circa 300 mila anni che coincide quasi perfettamente con il periodo del collasso demografico rilevato dallo studio. Precedentemente a circa un milione di anni fa ci sono abbondanti evidenze paleoantropologiche, ma intorno a 950 mila anni fa queste scompaiono quasi

completamente dall’intero continente africano (come anche in Eurasia), per tornare ad aumentare solo dopo 650.000 anni fa con reperti che vengono solitamente attribuiti alla specie Homo heidelbergensis.

«Questo periodo di crisi demografica - ha spiegato all’Agi Giorgio Manzi della Sapienza Università di Roma e che ha contribuito allo studio - potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale nell’evoluzione umana. Durante un bottleneck, i normali equilibri ecologici e genetici vengono sconvolti, aumentando la probabilita’ che si vengano a fissare varianti genetiche inattese, contribuendo all’emergere di una nuova specie».

«Questa nuova specie è probabilmente Homo heidelbergensis - ha rimarcato Fabio Di Vincenzo dell’Universita’ di Firenze - che possiamo considerare un vero e proprio ultimo antenato comune, ossia la forma umana che si diffuse dall’Africa in Eurasia, dando origine all’evoluzione di tre diverse specie: Homo sapiens in Africa, i Neanderthal in Europa e i Denisova in Asia».

57 Brain Set 2023
NEUROSCIENZE

ELISA CLAPS: IN UN PODCAST IL MALE NASCOSTO CHE NESSUNO HA VOLUTO VEDERE

Pablo Trincia dedica quasi 9 ore di registrazioni al complesso mosaico della giovane potentina scomparsa trent’anni fa

Negli anni Novanta non si parlava d’altro. La storia di Elisa Claps, sedicenne di Potenza scomparsa il 12 settembre 1993, era al centro delle conversazioni, con ipotesi spesso irrealistiche e ancora più spesso inquietanti. Negli anni il suo è diventato uno dei misteri più oscuri della cronaca italiana, che adesso con il podcast “Dove nessuno guarda - Il Caso Elisa Claps” lo straordinario Pablo Trinciascrittore e giornalista, autore pluripremiato con il podcast “Veleno” - ripercorre in un lavoro mastodontico, dalla chirurgica precisione e dalla toccante anima.

Tutto parte da quel giorno di metà settembre di trent’anni fa quando Elisa uscì per andare a messa con un’amica. Non tornò più a casa, lasciando la sua famiglia - la madre Filomena e il fratello maggiore Gildo in primis - in

un limbo di domande, perlopiù ignorate dalla polizia e dalla stessa comunità lucana. Dopo ricerche furiose, appelli, drammi e sangue, il corpo di Elisa è stato scoperto solo nel 2010, nascosto proprio nella soffitta della chiesa della Santissima Trinità, l’ultimo luogo in cui era stata vista. E qui sta tutta la follia di questo caso: la verità sarebbe potuta essere raggiunta in poche ore. Invece l’omicidio di Elisa è diventato un mistero, la sua sparizione una scomparsa rimasta irrisolta per quasi 17 anni. Fin dall’inizio Danilo Restivo è stato il principale sospettato, un ragazzo problematico che la famiglia di Elisa aveva subito indicato come il colpevole. Ma depistaggi, segreti, sviste ed errori nelle indagini gli hanno permesso di sfuggire alla giustizia, consentendogli di compiere un secondo omicidio in Gran Bretagna.

58 Brain Set 2023
PODCAST
di Flavia Piccinni

Il racconto di Trincia non riguarda solo l’orrore degli omicidi, ma anche l’indifferenza, l’incompetenza, l’egoismo, l’ignoranza e l’opportunismo che circondano questa storia. Un giallo iniziato nel 1993 che si è trasformato in un incubo di omertà e di ingiustizia. E sta forse qui il vero talento dell’autore che crea un viaggio negli inferi della provincia italiana con la consapevolezza che le cose sarebbero potute essere diverse. Se solo qual -

cuno - anche uno soltanto dell’infinita sequenza di persone che hanno voltato altrove lo sguardo - avesse scelto di parlare.

Il podcast è disponibile su tutte le piattaforme e offre uno sguardo intenso sulla tragedia dei Claps e sulla società che li ha abbandonati. Al podcast seguirà a metà novembre una docuserie su Sky TG24, con immagini inedite e ulteriori dettagli su questa storia di dolore e rabbia.

59 Brain Set 2023
PODCAST

BLUE ZONE: LA RICETTA SEMPRE

PIÙ GLOBALE PER LA VITA DA CENTENARI (O QUASI)

Su Netflix Dan Buettner racconta il suo viaggio per le comunità

Una delle ossessioni del nostro tempo riguarda la longevità. Lo sa bene Dan Buettneresploratore del National Geographic, divulgatore, longevity coach e sempre in prima linea per diffondere uno stile di vita salutare nel mondo - che ha dedicato al tema gli ultimi trent’anni della sua vita. Ed è così che adesso, seguito dalle telecamere di Netflix, ha raccontato la ricetta per la longevità che ha elaborato dopo decenni di incontri, viaggi, scoperte e che più volte ha raccontato nei suoi libri.

Il tono del documentario in sette puntate per il colosso statunitense Netflix è un cammino intelligente e ben ponderato alla scoperta delle Zone Blu - dal colore con cui gli studiosi Gianni Pes e Michel Poulain iniziarono a cerchiarle sulla mappa geografica - in cui si ha la massima concentrazione al mondo di centenari. Ad oggi la ricerca ha individuato Okinawa (Giappone), Sardegna (Italia), Icaria (Grecia), Nicoya (Costarica) e Loma Linda (California) come le zone blu con il più alto tasso di

anziani viventi. Cinque luoghi differenti che però condividono alcuni elementi come la dieta vegetariana, una naturale attività fisica, la centralità della famiglia ed alcuni elementi fondamentali nel promuovere la longevità e la salute dei residenti. Residenti che raccontano nel corso degli episodi le loro storie, le regole che mettono in atto nella quotidianità e le modalità che hanno reso la loro esistenza più serena e ovviamente lunga.

Interessante è rilevare che secondo gli studi ventennali di Buettner, il ruolo del Dna nell’assicurare una vita prospera e lunga non supera il 20%. L’80% è invece composto da alimentazione, movimento, spiritualità e legami socio-parentali. Proprio come dimostra l’esempio italiano, quello dei centenari di Baunei in Ogliastra, ai quali è dedicato il secondo episodio della serie. Ed è attraverso l’incontro con questi “grandi vecchi” che emerge come il senso della famiglia dei sardi e la solidarietà verso i membri più anziani, accuditi in casa e apprezzati per la loro saggezza, trovano

60 Brain Set 2023
SERIE TV
più longeve del mondo dal Giappone alla Sardegna
di Flavia Piccinni

nella comunità un elemento essenziale per la longevità.

Fra i casi più incredibili c’è quello di un centenario di Nykoia dalle condizioni fisiche eccellenti, in grado di dimostrare quasi trent’anni meno; ed è proprio nella piccola comunità della Costa Rica che emerge uno degli elementi centrali del racconto, ovvero l’idea di avere un “plan de vida” ovvero un’idea chiara di come gestire il proprio tempo e il proprio futuro, che si somma al fatto che molte attività quotidiane sono ancora manuali, e proprio per questo permettono di mantenere il metabolismo attivo più a lungo.

Interessante è poi rilevare come nel 2009 Dan Buettner abbia applicato ciò che ha imparato nelle Zone Blu in una

cittadina di 18mila persone negli USA, Albert Lea in Minnesota. Raccolti i dati su alimentazione e salute, i ricercatori hanno lentamente dirottato le abitudini della popolazione verso il mangiare sano, fare movimento in modo naturale, creare legami e avere uno scopo nella vita, come il volontariato. Costruendo marciapiedi e piste ciclabili, spingendo le persone verso un cibo salutare e a camminare insieme per incrementare nuove amicizie, Albert Lea è diventato un modello di Blue Zone negli Stati Uniti. A dimostrazione che l’uomo può plasmare - un po’ come ha fatto al contrario, negli ultimi cinquant’anni - una routine e una condizione di vita più sana, votata al movimento e al mangiare in modo equilibrato.

61 Brain Set 2023
SERIE TV

LA LETTERATURA COME FORMA DI ADDIO

L’ultimo libro di Michela Murgia, scrittrice e attivista prematuramente scomparsa

Qual è la funzione della letteratura? Qual è il ruolo dell’autore nel tempo che vive? Sembra indirettamente rispondere a questo Michela Murgia con il suo ultimo libro “Tre ciotole” (Mondadori, 2023) nel quale scava profondamente nell’esperienza umana di fronte alla crisi, affrontando con una prospettiva inedita e toccante le sfide che la vita può costringerci ad affrontare.

una malattia. Ogni storia è un tassello in un mosaico di emozioni umane, eppure ognuna ha una sua unica, profonda, complessità. Filo conduttore è la resilienza umana. I protagonisti di tutte storie sono infatti costretti a trovare nuove forme di sopravvivenza emotiva mentre affrontano il baratro delle loro vite.

“Tre Ciotole”

Michela Murgia Mondadori. 2023

144 pagine, 18 euro

Autrice acclamata e pluripremiata, prematuramente scomparsa nel mese di agosto a causa di un male incurabile, Michela Murgia dimostra ancora una volta il suo talento nel trasformare storie comuni in straordinarie narrazioni. I dodici racconti che compongono il volume accompagnano il lettore nell’intimità dei personaggi nel momento in cui attraversano una serie di cambiamenti radicali, che spaziano dalla perdita di una persona cara, a una diagnosi medica devastante, alla fine di un rapporto amorevole, al licenziamento o alla scoperta di

Il tutto mentre l’autrice - sapiente tessitrice - fonde frammenti della sua esperienza biografica, forgiando una narrazione sentimentale. Emblematico il primo racconto, intitolato “Espressione intraducibile”, nel quale l’autrice condivide una diagnosi medica simile a quella che ha raccontato nella vita reale - creando un legame profondo tra la sua esperienza personale e la storia dei suoi personaggi; l’epilogo è toccante, e merita di essere scoperto in autonomia.

Nel corso delle pagine si rivela prepotente il riferimento allo struggente “L’anno del pensiero magico” di Joan Didion, e le parole - esattamente come nel caso di Didion - si trasformano in balsamo. Probabilmente per chi ha scritto, di certo per chi ha la fortuna di leggere.

62 Brain Set 2023
LIBRI
di Flavia Piccinni

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