Anno II | N. 9 | Dicembre 2021
BRAIN IO STO BENE IO STO MALE
Episodi depressivi ed episodi maniacali Il disturbo bipolare visto da vicino
Antidepressivi Scudo contro infezioni da Covid?
Microbiota Il “secondo cervello” e la salute mentale
In ricordo di Anneliese Alma Pontius
In copertina, citazione del brano “Io sto bene” dei Cccp
EDITORIALE
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Il Covid-19 la paura, i no-vax e don Abbondio
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di Armando Piccinni
a pandemia che stiamo vivendo è un’esperienza totalizzante. Siamo coinvolti giornalmente e in maniera radicale in una serie di comportamenti e pensieri sconosciuti fino a solo due anni fa. Siamo stati scossi emotivamente, privati di affetti, esposti a scenari che mai avremmo immaginato di conoscere. La nostra vita odierna è condizionata di continuo da decisioni che riguardano le strategie di lotta al virus. Siamo su un’altalena che oscilla tra notizie buone e incoraggianti e notizie cattive e preoccupanti che ci demoralizzano. Ognuno di noi sogna che tutto finisca al più presto per cancellare questa sorta di incubo, per poter ritornare alla propria normalità. Alimentiamo la nostra speranza se sentiamo che il numero dei vaccinati aumenta, se parte la somministrazione della terza dose che terrà elevati i livelli di immunità specifica. Ci preoccupiamo se arrivano segnalazioni dell’incremento del numero di contagi e dei ricoveri. Per fortuna o per virtù la maggioranza della popolazione crede nella scienza e nella pratica vaccinale come tappa obbligata per affrancarci dalla pandemia. Ma in questo ambito non sono tutte rose e fiori. Esiste una minoranza della popolazione che è contraria al vaccino e si definisce no vax. Alcuni sono
talmente radicali da affermare che la pandemia non esiste, il virus è solo un’invenzione del potere, dei giornalisti e dei media, di big Pharma. Le notizie sui no vax provocano amarezza e sconforto per chi comprende l’importanza dell’approccio scientifico e approva gli sforzi per controbattere il flagello del coronavirus. Ma chi sono in realtà i no vax? Come è possibile che siano negate evidenze come i ricoveri in rianimazione ed altro, così incontrovertibili e drammatiche? Cos’è che li spinge in questa direzione che appare ai più incomprensibile ed autolesionista? Nella mia pratica clinica mi sono tante volte trovato davanti a pazienti che pur vivendo condizioni psichiche di grave sofferenza non riuscivano ad accettare l’idea di dover assumere farmaci per curarsi e stare meglio. Avevano un sacro terrore di introdurre nel loro corpo delle sostanze di cui temevano le cose più disparate: di venire cambiati dall’azione del farmaco, di avere reazioni incontrollate, di essere inquinati e intossicati. Parliamo di pazienti difficili per cui sono necessari lunghi colloqui per spiegare, coinvolgere, responsabilizzare e dimostrare che in quel medicinale non si nasconde il diavolo ma la possibilità di migliorare la qualità della propria vita e delle persone che gli vivono intorno. Spesso i pazienti pro-
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EDITORIALE
vano timidamente ad assumere il farmaco e se riescono a raggiungere un miglioramento abbassano le proprie difese, ed ammettono che l’ostacolo maggiore che li condizionava era la paura. Nel passato di questi pazienti la paura era diventata terrore che aveva provocato una completa incapacità di assumere qualsiasi cura vivendo per anni nella sofferenza e nella disperazione. In questi mesi ho parlato di frequente con i miei pazienti farmacofobici quasi unanimemente erano impauriti anche dall’assunzione di una sola dose di vaccino. Le motivazioni erano le stesse che avevano sempre espresso nei confronti dei farmaci. La paura di essere cambiati, di subire effetti collaterali terribili e irreversibili e molto spesso la paura di morire a causa di una reazione violenta al vaccino. È proprio la paura il sentimento più potente che anima i comportamenti dei no vax. La maggior parte dei componenti di questo gruppo è costituita da persone che temono gli effetti del vaccino. La paura però non è un sentimento di cui vantarsi o da mostrare orgogliosamente agli altri. È più facile nascondersi dietro una serie di tentativi di “razionalizzazione” che conducono alla ricerca delle spiegazioni più disparate e stravaganti. Pensare che il vaccino possa provocare la sterilità o contenga un microchip capace di controllarci è perlomeno bislacco. A capo dei no vax ci sono figure che arringano il gruppo inveendo contro questo o quello addossandogli errori e responsabilità. Sono soggetti a metà tra la guida spirituale ed il condottiero che colgono l’occasione per mettersi alla testa di un piccolo esercito che si è raccolto spontaneamente, intorno a paure e preoccupazioni comuni. Queste persone hanno un compito fondamentale: aumentare il collante tra i componenti del gruppo, renderli coesi e orgogliosi del senso di appartenenza. Il loro compito sostanziale è quello di aumentare il più possibile la paura. Maggiore sarà il senso di minaccia e di pericolo
che i componenti del gruppo avvertiranno, più saranno disposti a combattere fino in fondo dietro un’unica bandiera: la missione di salvare il mondo da tutti i mali connessi al vaccino e provenienti dalla propaganda di un virus che non esiste. Il gruppo si sentirà come detentore della verità con la missione di rivelarla al mondo. È questa la storia già vista della minoranza chiassosa che condiziona le maggioranze silenziose. I soggetti psicologicamente fragili saranno facili prede di chi sbandiera a gran voce drammi e sciagure. È proprio su questi indecisi, che cercano negli altri una guida al proprio comportamento, che la propaganda urlata dei no vax è di facile presa. Gli urlatori indicano la strada maestra, dettano il comportamento e danno corpo alla paura in chi la paura ce l’ha già dentro. Ma allora cosa possiamo fare per aiutare queste persone a comprendere l’importanza vitale dei vaccini e delle indicazioni del mondo scientifico? Incrementare l’informazione scientifica corretta, limitare lo spazio dato alle fake news, dare una corretta esposizione a quegli eventi che possono fuorviare le decisioni dei soggetti più esitanti. Gli sviluppi della ricerca farmacologica stanno per mettere a disposizione dei medici nuovi farmaci ad hoc per combattere il coronavirus. Questi presidi aiuteranno un’ulteriore fascia di popolazione tra coloro che non hanno voluto sottoporsi alla vaccinazione. Al di là di questi resterà ancora una piccola porzione di soggetti che continuerà ad essere oppositiva verso qualsiasi trattamento. È il popolo degli irriducibili, impotenti verso quella paura che non riescono ad ammettere a nessuno. Nemmeno a loro stessi. Mi viene in mente a questo proposito un episodio dei Promessi Sposi in cui il cardinale Borromeo dopo aver interrogato Don Abbondio su come fossero andati i fatti che lo coinvolgevano commentò sconsolato: “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”.
Anno II | N. 9 | Dicembre 2021
BRAIN SOMMARIO EDITORIALE
3 Il Covid-19, la paura, i no-vax e don Abbondio
IO STO BENE IO STO MALE
Episodi depressivi ed episodi maniacali Il disturbo bipolare visto da vicino
Antidepressivi Scudo contro infezioni da Covid?
Microbiota Il “secondo cervello” e la salute mentale
In ricordo di Anneliese Alma Pontius
In copertina, citazione del brano “Io sto bene” dei Cccp
di Armando Piccinni PRIMO PIANO
8 Il mondo del disturbo bipolare Parla il prof. Giulio Perugi di Carmine Gazzanni
14 Disturbo bipolare come si cura e come lo si riconosce di Andrea Zanotto FOCUS
18 Gli antidepressivi fanno da scudo contro le infezioni da Covid? di Antonio Acerbis
Brain Anno II | N. 9 | Dicembre 2021 Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca Diffusione: www.fondazionebrf.org Direttore responsabile: Armando Piccinni Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca
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RITRATTI
36 A cent’anni dalla nascita di Anneliese Alma Pontius di Alberto Carrara RITRATTI
40 Denti da latte: possibili indicatori della salute mentale di madre e bambino dI Duccio Petroni
18 22 Salute mentale infantile: con la pandemia disturbi in aumento di Alessia Vincenti
26 Long-Covid anche nei bambini? Il punto
di Alessandro Righi
36 TITOLI DI CODA
41 Un viaggio nell’universo infinito del cervello di Pietro Pietrini
32 SALUTE
26 Il nostro “secondo cervello” AA. VV.
32 Ictus, segni premonitori già dieci anni prima di Rocco Antenucci
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IL MONDO DEL DISTURBO BIPOLARE. PARLA IL PROF. GIULIO PERUGI Lunga chiacchierata col massimo esperto di bipolarità di Carmine Gazzanni
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o sappiamo: sempre più spesso sentiamo parlare di disturbo bipolare senza che poi tutti comprendiamo fino in fondo di cosa si sta parlando. Eppure parliamo, secondo gli ultimi dati, di una patologia che colpisce oltre l’1% della popolazione mondiale, indipendentemente dalla nazionalità, dall’origine etnica o dallo status socioeconomico. «Di fatto è un disturbo dell’umore, una condizione in cui esistono oscillazioni tra due opposte fasi dell’umore: la fase depressiva e la fase maniacale caratterizzata da eccitamento/euforia», spiega uno dei massimi esperti del tema in Italia e non solo, il professore e psichiatra Giulio Perugi. Partiamo da principio, professore. Quando nasce il disturbo bipolare? Indicativamente negli anni Cinquanta e diventa ufficiale in psichiatria a partire dagli anni Ottanta. Prima si parlava di malattia maniaco-depressiva ma era senz’altro un termine più generico. Ora invece sono state per così dire isolate tutte quelle forme che possono rientrare in una categoria più omogenea. Quali sono i caratteri del disturbo bipolare? Innanzitutto, questo disturbo coinvolge in maniera complessa la totalità dell’individuo determinando oscillazioni dell’energia, delle prestazioni cognitive, dell’attenzione, della concentrazione, delle capacità di critica e di giudizio. Spesso il disturbo è di difficile riconoscimento in quanto con grande facilità è associato ad altri disturbi psichiatrici come il disturbo di panico, il disturbo ossessivo compulsivo, i sintomi psicotici,
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“Nella pratica clinica esiste una varietà infinita di tipologie. Però per dare parametri più efficienti si è deciso giustamente di sottotipizzare le forme critiche a seconda della gravità della fase depressiva e di quella maniacale. Da qui si sono stabiliti due tipi di disturbo bipolare: il “tipo1” caratterizzato da forme attenuate di episodi maniacali; e il “tipo2” caratterizzato invece da forme critiche”.
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l’abuso di sostanze ed i disturbi del controllo degli impulsi. I pazienti affetti da questa malattia possono avere gravi conseguenze sulle relazioni sociali, lavorative e familiari, specie quando il disturbo tarda ad essere riconosciuto e curato. Quanti tipi di disturbo bipolare esistono? C’è da dire che nella pratica clinica esiste una varietà infinita di tipologie. Però per dare parametri più efficienti si è deciso giustamente di sottotipizzare le forme critiche a seconda della gravità della fase depressiva e di quella maniacale. Da qui si sono stabiliti due tipi di disturbo bipolare: il “tipo1” caratterizzato da forme attenuate di episodi maniacali; e il “tipo2” caratterizzato invece da forme critiche. Però è bene stabilire che possono esserci diverse varianti anche a seconda della tipologia di frequenze. E allora, ad esempio, avremo varianti ad episodio sporadico o cicli rapidi con centinaia di episodi depressivi e/o maniacali nel giro di un tempo relativamente ristretto. Ancora, si potrebbe avere anche la presenza di varianti psicotiche. C’è, infine, anche la tipologia mista. Cosa si intende? Parliamo di una sorta di terzo polo del disturbo, caratterizzato dalla concomitanza di sintomi della fase depressiva e della fase maniacale. Questo spiega anche perché si parlava prima di malattia maniaco-depressiva. Mi spiego meglio: la stragrande maggioranza dei pazienti è sempre caratterizzata dalla compresenza di più sintomi. E dunque, nel caso della tipologia “mista”, avremo ad esempio soggetti depressi ma agitati e irritabili. Constateremo,
insomma, eccitamento ma contemporaneamente anche depressione. Esiste un’età in cui si manifesta di solito? L’età di esordio si colloca tipicamente tra il termine dell’adolescenza e gli anni che seguono: dai 20 ai 30 anni. Esistono però anche forme ad esordio tardivo tra i 50 e i 60 anni spesso connesse con disturbi legate all’invecchiamento patologico. Questo è uno degli aspetti più interessanti, a mio avviso. Tutti gli studi clinici ci dicono che la diagnosi viene ricevuta con ritardo dal paziente. Questo avviene per una serie di ragioni: per fare una corretta diagnosi ovviamente ci devono essere stati entrambi gli episodi, sia quello maniacale che quello depressivo. Il punto è che è impossibile individuarli entrambi retroattivamente. Senza dimenticare
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che le forme maniacali, specie quelle più attenuate, sono difficilmente riconoscibili dal paziente stesso che, dunque, inizialmente non si preoccupa. Molte volte non riportano alcuna problematica al medico e pertanto riportano solo gli episodi depressivi. In definitiva, potenzialmente diverse diagnosi di depressione potrebbero in realtà essere annoverate nel disturbo bipolare. In più ci sono gli stati misti che rendono il tutto ancora più complicato. Spesso, ad esempio, il disturbo bipolare è legato a sintomi fisici o stress. E dunque, ancora una volta, la patologia viene scambiata per altro, nella fattispecie per disturbo di comportamento. E nel caso degli adolescenti? Anche in questo caso non è facile discernere l’insorgenza del disturbo. I primi sintomi che si manifestano
spesso in concomitanza con altri disturbi. Faccio un esempio: il giovane particolarmente disinibito è probabile che cada nell’abuso di alcol o nella tossicodipendenza. E dunque anche in questo caso c’è il rischio che si faccia confusione tra le patologie. Di fatto, dunque, il disturbo bipolare si riconosce solo quando si tipizza e diventa ciclico. Esistono dei campanelli d’allarme cui bisogna fare attenzione? Esistono alcuni temperamenti denominati “temperamenti affettivi” che sono considerati fattori predisponenti all’avvento del disturbo. I temperamenti sono: l’ipertimico, il depressivo, il ciclotimico e l’irritabile. Soggetti portatori di questi tipi di temperamento hanno una maggiore possibilità di ammalarsi di un disturbo dell’umore. Spesso le fasi di malattia sono precedute da alterazioni del sonno e da sintomi neurovegetativi. E per quanto riguarda le cause? I dati ci dicono che il disturbo bipolare è frutto di una concomitanza di cause a seconda anche dei soggetti colpiti. Nel caso dei giovani, per esempio, gioca un ruolo fondamentale la genetica. Nel caso degli anziani, invece, se c’è una comparsa tardiva può essere frutto di neurodegenerazione. Con la giusta terapia il paziente può tornare a vivere come prima? Attualmente esistono numerose possibilità di trattamento del disturbo bipolare e se la terapia è instaurata il più possibile precocemente ed è ben regolata può consentire al paziente una vita assolutamente normale. Il Golden standard del trattamento resta sempre quello con i sali
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“Esistono alcuni temperamenti denominati ‘temperamenti affettivi’ che sono considerati fattori predisponenti all’avvento del disturbo. I temperamenti sono: l’ipertimico, il depressivo, il ciclotimico e l’irritabile. Soggetti portatori di questi tipi di temperamento hanno una maggiore possibilità di ammalarsi di un disturbo dell’umore. Spesso le fasi di malattia sono precedute da alterazioni del sonno e da sintomi neurovegetativi”.
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“Attualmente esistono numerose possibilità di trattamento del disturbo bipolare e se la terapia è instaurata il più possibile precocemente ed è ben regolata può consentire al paziente una vita assolutamente normale. Il Golden standard del trattamento resta sempre quello con i sali di litio a cui si sono però affiancati altri farmaci con attività stabilizzatrice per la prevenzione degli episodi di malattia”.
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di litio a cui si sono però affiancati altri farmaci con attività stabilizzatrice per la prevenzione degli episodi di malattia. In definitiva, però, si possono usare tutti gli strumenti in mano alla psichiatria e dunque interventi psicologici, farmacologici, e nelle forme più gravi anche gli strumenti elettro-convulsivanti. Ciò che conta, però, non sono i singoli strumenti, ma la gestione delle terapie. Se si utilizzano farmaci antidepressivi probabilmente il soggetto riemergerà immediatamente ma c’è il rischio cada altrettanto immediatamente negli episodi maniacali. E viceversa. Se il trattamento è troppo “aggressivo” specie nelle fasi acute e se non c’è una prospettiva a lungo termine, non si fa altro che accelerare la ciclicità degli episodi. La vera “cura”, invece, dev’essere finalizzata ad allungare il più possibile i momenti di pausa tra un episodio e l’altro. I farmaci, dunque, devono essere dati con una chiara strategia e, nelle fasi acute, sempre controbilanciati. Ma, ripeto, sono i sali di litio al momento i più efficaci nell’allungare le fasi di intervento. Perché è la gestione della terapia ad essere fondamentale, non l’eliminazione dei sintomi in fase acuta. Mi scusi la domanda: ma si può “guarire”? È come dire se si può guarire dall’ipertesione. In realtà la “guari-
gione” è propria dell’immaginario collettivo: non avviene quasi per nessuna delle malattie umane. I disturbi possono, questo sì, essere stabilizzati con la giusta cura. Che rapporto c’è tra il disturbo bipolare e le malattie neurodegenerative? È un rapporto molto complesso. Ciò che bisogna dire, però, è che in alcuni pazienti la bipolarità compare appunto in età avanzata. Ed è di fatto già la prima forma di neurodegenerazione. Dunque, non è conseguenza, ma è la spia stessa della forma neurodegenerativa. È, se così vogliamo dire, il campanello d’allarme. Così, quando compaiono episodi bipolari in età avanzata dobbiamo allarmarci. E dunque bisogna essere cauti e molto attenti con tutto ciò che può impattare sul funzionamento cognitivo per non peggiorare quei primi sintomi di neurodegenerazione. E invece che rapporto c’è tra bipolarità e suicidio? Tutta la letteratura clinica ci dice che tra le malattie psichiche quella che più si associa maggiormente al suicidio è proprio il disturbo bipolare. I dati sono chiari: il 10-15% dei pazienti bipolari può andare incontro a episodi suicidari. Ovviamente il panorama è ampio: ci sono persone che appena cadono in depressione hanno pensieri legati al suidicio, altri invece no. Ma l’aspetto fondamenta-
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le è che queste percentuali aumentano vertiginosamente in tutti quei soggetti bipolare che non curano i sintomi. Cosa si può fare? Purtroppo, non abbiamo molti strumenti per combattere questo rapporto: il suicidio è un evento predicibile, ma non prevedibile. Posso cioè dire che ci sono i rischi legati a una data persona, ma non potrò mai prevedere quando quel soggetto deciderà eventualmente di togliersi la vita. Non abbiamo neanche evidenti strumenti terapeutici. Faccio un esempio: gli antidepressivi migliorano la sintomatologia, ma non riducono il rischio di suicidi. Lo stesso vale per gli antipsicotici. L’unico farmaco per cui ci sono dati positivi è il litio. Nell’immaginario collettivo si dice però che la bipolarità sia legata al genio e alla creatività di grandi artisti e intellettuali del passato, è così? Sì, è così. Già Platone scriveva che nessun poeta può mai raggiungere le altezze della poesia composta da chi scrive “con la mania”. Il punto è che la bipolarità si associa a caratteristiche temperamentali morali: sensibilità esasperata e oscillazione
dell’umore. Di fatto, avere una sensibilità maggiore significa godere di un’osservazione del mondo più ampia. E questo è un importante plus, aggiunge qualità. E non è un caso che le vite degli artisti sono cosparse di follie, ansia, suicidi, disturbi. Proprio a causa dell’alternarsi di episodi maniacali e depressivi. Le stesse ragioni che amplificano le capacità creative e di leadership - a cominciare dalla enorme sensibilità umana - si ritrovano poi ad amplificare anche i momenti depressivi. A che punto è la ricerca nel campo del disturbo bipolare? La scienza procede come sempre per strappi, dunque dove si andrà nessuno lo sa di preciso. Ma ci sono alcuni segnali interessanti. È possibile che ci siano diverse forme di disturbo bipolare a seconda di particolari tipi di popolazione. Ultimamente, dunque, si stanno conducendo studi sull’alterazione dello sviluppo neurologico e sullo spettro autistico che spesso risulta associato al disturbo bipolare. Ciò che è fondamentale, in ogni caso, è la personalizzazione delle cure. Sicuramente su questa strada andrà l’evoluzione della ricerca scientifica.
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“La scienza procede come sempre per strappi, dunque dove si andrà nessuno lo sa di preciso. Ma ci sono alcuni segnali interessanti. È possibile che ci siano diverse forme di disturbo bipolare a seconda di particolari tipi di popolazione”.
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DISTURBO BIPOLARE COME SI CURA E COME LO SI RICONOSCE Un pendolo tra episodi depressivi e maniacali che colpisce l’1% della popolazione mondiale
di Andrea Zanotto
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l disturbo bipolare colpisce oltre l’1% della popolazione mondiale, indipendentemente dalla nazionalità, dall’origine etnica o dallo status socioeconomico [The Lancet, 2016], ed è tra le prime venti cause di disabilità [Bipolar Disorder, 2016]. Le fasce di età più coinvolte vanno dai 15 ai 35 anni [World Health Organization, 2019] e, in particolare, il disturbo bipolare colpisce i più giovani, cui può provocare compromissioni cognitive e funzionali che portano persino al suicidio. Questi dati danno un’idea dell’impatto, anche sociale ed economico, del disturbo bipolare che, in estrema sintesi, si può definire come un distur-
bo cronico ricorrente caratterizzato da fluttuazioni dello stato d’animo e dell’energia. Come si riconosce Nel box sono elencati i sintomi delle due fasi che, tipicamente, attraversano i pazienti [World Health Organization, 2019]. Gli stati d’animo vanno quindi da periodi estremamente “up”, euforici (episodi maniacali) a periodi molto tristi, “down”, in cui i pazienti hanno bassi o bassissimi livelli di attività (episodi depressivi). Tipi di disturbo bipolare Non esiste comunque un’unica forma di disturbo bipolare, ma se ne
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Episodi depressivi
Episodi maniacali
• tristezza • perdita di interesse per le cose a cui si era solitamente interessati • perdita di energia e stanchezza • cambiamenti nell’appetito e nel sonno – mangiare e dormire troppo o troppo poco • sentirsi in colpa o inutili • bassa autostima • pensiero più lento, dimenticanze • difficoltà di concentrazione • pensieri di autolesionismo e suicidio
• umore elevato – “sentirsi al di sopra del mondo” – sensazione di assoluta felicità • eccessiva irritabilità, rabbia • aumento di energia e/o irrequietezza • maggiore loquacità • perdita delle normali inibizioni sociali; disattenzioni finanziarie • diminuzione del bisogno di dormire • autostima gonfiata (posso fare qualunque cosa io voglia!) • distraibilità (incapacità di concentrarsi) • elevata energia sessuale
distinguono tre [The National Institute of Mental Health, 2018]. Il disturbo bipolare I è caratterizzato da episodi maniacali che durano almeno sette giorni (la maggior parte della giornata, quasi ogni giorno) e, in alcuni casi, sono talmente gravi da rendere necessaria un’assistenza di tipo ospedaliero. Gli episodi depressivi in genere durano almeno due settimane. Sono anche possibili episodi di disturbi dell’umore con caratteristiche miste (contemporaneità di depressione e episodi maniacali). Il disturbo bipolare II si caratterizza per episodi depressivi e episodi ipomaniacali di entità minore rispetto a quelli attraversati dai pazienti affetti dal disturbo di tipo I. Esiste infine il disturbo ciclotimico (o ciclotimia), in cui in cui episodi ipomaniacali e sintomi depressivi
non sono abbastanza intensi o non durano abbastanza a lungo da essere qualificati come tali. In questi casi i sintomi si registrano per almeno due anni negli adulti e per un anno nei bambini e negli adolescenti. Le cure Il disturbo bipolare non migliora da solo: è necessario l’intervento di uno specialista. Non sempre però è facile riconoscere la necessità di chiedere aiuto. Spesso accade che sia i pazienti, sia le persone a loro vicine, in qualche modo valutino positivamente i periodi euforici delle fasi maniacali, però necessariamente seguiti da crolli emotivi che lasciano depressi, logorati, e spesso sono causa indiretta di problemi finanziari, legali, relazionali [Mayo Clinic, 2021]. Non è del resto facile nep-
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Il disturbo bipolare non migliora da solo: è necessario l’intervento di uno specialista. Non sempre però è facile riconoscere la necessità di chiedere aiuto. Spesso accade che sia i pazienti, sia le persone a loro vicine, in qualche modo valutino positivamente i periodi euforici delle fasi maniacali, però necessariamente seguiti da crolli emotivi che lasciano depressi, logorati, e spesso sono causa indiretta di problemi finanziari, legali, relazionali.
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Attualmente le linee di ricerca più interessanti a livello internazionale sono quelle che cercano di definire terapie sempre più personalizzate.
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pure per lo specialista fare una diagnosi accurata del disturbo bipolare, sia perché al momento non esistono biomarcatori, sia perché l’insorgenza è solitamente legata a un episodio depressivo che può spingere a diagnosticare una depressione unipolare [The Lancet, 2015]. Il trattamento medico riesce comunque ad aiutare molti pazienti, anche quelli affetti dalle forme più gravi. I tipi più comuni di farmaci prescritti sono gli stabilizzatori dell’umore e gli antipsicotici atipici. Gli stabilizzatori dell’umore (come il litio) possono aiutare a prevenire gli episodi maniacali o depressivi o comunque ridurre la loro gravità. Nei piani terapeutici di trattamento agli stabilizzatori dell’umore vengono spesso associati a farmaci che mirino a regolarizzare il sonno e i livelli di ansia. In combinazione con i farma-
ci viene spesso utilizzata anche la psicoterapia, allo scopo di aiutare i pazienti a identificare ed eventualmente modificare emozioni, pensieri e comportamenti. [The National Institute of Mental Health, 2018]. La ricerca Il disturbo bipolare ha avuto una propria definizione solo nella seconda metà del Novecento: la distinzione tra disturbi affettivi unipolari e bipolari si deve infatti, in Europa, a Leonhard (1957), Angst (1966) e Perris (1966) e, negli Stati Uniti, a Winokur e Clayton (1967) [Rivista di Psichiatria, 2008]. Negli ultimi decenni c’è stata quindi un’enorme crescita nel numero degli studi, in particolare – come mostra il grafico – sul disturbo bipolare tra bambini e adolescenti [The International Society for Bipolar Disorders, 2017].
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Attualmente le linee di ricerca più interessanti a livello internazionale sono quelle che cercano di definire terapie sempre più personalizzate. Come spiega il professor Antonio Tundo, direttore dell’Istituto di Psicopatologia, “in attesa di nuovi e più efficaci strumenti terapeutici, la ricerca clinica internazionale oggi tenta di individuare, all’interno dei disturbi bipolari, sottotipi più omogenei per poter personalizzare le cure e ottenere la migliore risposta possibile. Sappiamo, per esempio, che sono necessarie terapie differenti se il disturbo è cominciato con una depressione o con un’euforia (polarità di esordio), se le ricadute sono più spesso di tipo depressivo o euforico (polarità prevalente) oppure se le fasi di benessere tra un episodio e l’altro sono lunghe, molto brevi o addirittura assenti (ci-
clicità continua)”. Tra i tanti studi di ambito prettamente clinico è forse interessante citarne uno dai risvolti anche sociologici, considerato che ribalta la diffusa percezione dei pazienti bipolari come persone violente. Lo studio dimostra come ciò sia il frutto di una sorta di stigma sociale, più che di una effettiva realtà clinica. Tra i pazienti coinvolti nello studio solo l’1% ha infatti mostrato atteggiamenti aggressivi verso altre persone, mentre in altri casi è stata registrata violenza verso gli oggetti oppure esclusivamente verbale. Inoltre, durante i periodi di benessere gli episodi di violenza registrati tra i pazienti affetti da disturbo bipolare non di discostano, quanto a frequenza, da quelli misurati nel resto della popolazione [Journal of Psychopathology, 2021].
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Tra i tanti studi di ambito prettamente clinico è forse interessante citarne uno dai risvolti anche sociologici, considerato che ribalta la diffusa percezione dei pazienti bipolari come persone violente. Lo studio dimostra come ciò sia il frutto di una sorta di stigma sociale, più che di una effettiva realtà clinica.
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FOCUS
GLI ANTIDEPRESSIVI FANNO DA SCUDO CONTRO LE INFEZIONI DA COVID? La conferma da recenti studi italiani e francesi: determinante l’effetto antinfammatorio
di Antonio Acerbis
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na scoperta tanto inattesa quanto incredibile: i farmaci antidepressivi avrebbero un effetto-scudo contro i danni più gravi dell’infezione da Sars-CoV-2. I medicinali che combattono il mal di vivere agendo su “messaggeri neurologici” come la serotonina e noradrenalina riescono infatti a ridurre nel sangue i livelli di interleuchina 6 (IL-6), una sostanza responsabile di pesanti reazioni infiammatorie e conseguenti danni polmonari nei malati Covid.
Un quadro secondo alcuni rivoluzionario che emerge da uno studio dell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze, pubblicato su Panminerva medica. “L’interleukina 6, attivata in modo abnorme da Covid-19, è la molecola principalmente coinvolta nella tempesta infiammatoria responsabile della maggior parte dei danni causati dal coronavirus all’organismo e in particolare all’apparato respiratorio - spiega lo psichiatra Leonardo Fei, direttore della Psiconcologia
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di Careggi e autore del lavoro - Abbiamo osservato che alcuni pazienti colpiti dal virus, anche se debilitati da gravi patologie pregresse e quindi particolarmente a rischio, mostravano sintomi e danni attenuati rispetto ad altri nelle medesime condizioni. Abbiamo individuato la causa della minor gravità nel trattamento, già prima del ricovero per Covid-19, con alcuni antidepressivi caratterizzati da effetti sulla preservazione dei livelli di serotonina e noradrenalina nel cervello, molecole fondamentali nella terapia della depressione”. Lo studio, in collaborazione con le Malattie infettive, l’Immunoallergologia e i reparti Covid della Medicina interna di Careggi, “apre un orizzonte sulla comprensione dei meccanismi biochimici alla base delle reazioni infiammatorie da coronavirus - sottolinea Fei - e in prospettiva allo sviluppo di nuove terapie che, è sempre bene chiarire, non sono assoluta-
mente riferibili all’uso inappropriato degli anti depressivi, che devono essere impiegati sotto stretto controllo medico - puntualizza lo specialista - e nel massimo rispetto delle indicazioni attualmente prescritte dalle linee guida internazionali e dagli organi sanitari competenti”. Questo studio, peraltro, è l’ultimo di una serie che già avevano individuato questo legame tra farmaci antidepressivi e danni dell’infezione da Covid. Un largo studio francese osservazionale (mirato a rilevare l’associazione di fenomeni, senza indagare sulle cause) pubblicato sulla rivista Molecular Psychiatry condotta nei 39 ospedali di Parigi dedicati all’assistenza dei malati della Covid-19, tra il 24 gennaio e l’1 aprile 2020, aveva fatto emergere la stessa correlazione. In quel caso lo psichiatra Nicolas Hoertel aveva spiegato che “l’uso di antidepressivi è parso significativamente associato
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I medicinali che combattono il mal di vivere agendo su “messaggeri neurologici” come la serotonina e noradrenalina riescono infatti a ridurre nel sangue i livelli di interleuchina 6 (IL-6), una sostanza responsabile di pesanti reazioni infiammatorie e conseguenti danni polmonari nei malati Covid.
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I diversi antidepressivi si conoscono le proprietà antinfiammatorie, cosa che potrebbe in parte spiegare i risultati raccolti. Altri studi hanno anche mostrato che diversi antidepressivi possono ridurre la capacità dei virus di invadere certe cellule, mentre alcuni - tra cui la fluoxetina potrebbero anche avere proprietà direttamente antivirali.
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a un diminuito rischio di intubazione o di morte, indipendentemente dalle caratteristiche del paziente. Sono dati da prendere con cautela, considerando la natura osservazionale dello studio. Tuttavia sono risultati validi per sostenere l’utilità di condurre studi clinici randomizzati controllati sugli antidepressivi nella cura della Covid-19”. Gli scienziati parigini hanno preso in esame i dati medici di 7.230 adulti dai 18 anni in su ricoverati per il coronavirus. Tra questi, 345 avevano ricevuto un antidepressivo entro le prime 48 ore di ricovero: 195 un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (classe Ssri) e 150 un antidepressivo di altre classi. I pazienti in cura con antidepressivi erano tra l’altro più anziani e più ma-
lati. Considerati tutti i fattori, i pazienti che prendevano antidepressivi hanno mostrato un rischio di intubazione o morte ridotto del 44%. In particolare gli Ssri hanno ridotto il rischio del 49% mentre le altre classi di antidepressivi del 35%. A riguardo Hoertel ricorda che di diversi antidepressivi si conoscono le proprietà antinfiammatorie, cosa che potrebbe in parte spiegare i risultati raccolti. Altri studi hanno anche mostrato che diversi antidepressivi possono ridurre la capacità dei virus di invadere certe cellule, mentre alcuni - tra cui la fluoxetina - potrebbero anche avere proprietà direttamente antivirali. La cautela resta d’obbligo, per quanto gli studi qui menzionati aprono una strada decisamente interessante.
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SALUTE MENTALE INFANTILE: CON LA PANDEMIA DISTURBI IN AUMENTO Colpiscono tra il 10 e il 20% di bambini e adolescenti, quasi due milioni
di Alessia Vincenti
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isturbi del linguaggio, dell’apprendimento e dello spettro autistico. Disabilità intellettiva, epilessia, disturbi neurologici, malattie rare e dello sviluppo, disturbi psichiatrici, depressione e conseguenti atti autolesivi e tentativi di suicidio. I disturbi neuropsichici dell’età evolutiva sono estremamente frequenti e in Italia colpiscono quasi 2 milioni di bambini e ragazzi, tra il 10 e il 20% della popolazione infantile e adolescenziale tra gli 0 e i 17 anni. Con ma-
nifestazioni molto diverse tra loro per tipologia, decorso e prognosi, per la maggior parte determinate da un complesso intreccio tra predisposizione genetica, vulnerabilità neurobiologica e variabili ambientali e sociali. È questo lo scenario che ha visto l’apertura del congresso della SINPIA - Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, il primo dall’inizio della pandemia. Durante i lavori del Congresso, accolto dalla presenza del ministro
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Diverse relazioni hanno affrontato, inoltre, il delicato tema dell’impatto che la Pandemia sta avendo sulla salute mentale dei minorenni (con relazioni che certificheranno un preoccupante aumento del trend), e di come trasformare le risposte dei servizi per garantire interventi terapeutici più efficaci.
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alle Pari Opportunità e alla Famiglia Elena Bonetti e salutato da un messaggio del ministro per le Disabilità Erika Stefani, sono state dedicate sessioni ai progressi della neurologia dell’età evolutiva verso la medicina di precisione e i più recenti trattamenti personalizzati, applicati in particolare sull’epilessia del bambino per una personalizzazione della scelta terapeutica, al trattamento dei disturbi del movimento in età evolutiva e alle malattie muscolari, dove le avanzatissime terapie geniche, unitamente ad un approccio riabilitativo personalizzato, si stanno dimostrando in grado di modificare in modo significativo la storia naturale di malattie considerate in passato incurabili come la distrofia muscolare di Duchenne e l’atrofia muscolare spinale. Diverse relazioni hanno affrontato, inoltre, il delicato tema dell’impatto che la Pandemia sta avendo sulla salute mentale dei minorenni (con relazioni che certificheranno un preoccupante aumento del trend), e di come trasformare le risposte dei servizi per garantire interventi terapeutici più efficaci. «Le risposte ai bisogni di salute dei bambini e ragazzi con disturbi neuropsichici dell’età evolutiva e alle loro famiglie – spiega Antonella Costantino, presidente di SINPIA, Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza presentano criticità molto rilevanti, con una grande discrepanza tra il giusto investimento di risorse sulla salute fisica dei bambini e lo scarso investimento su quella neuropsichica, reso ancora più drammatico dagli effetti della pandemia. Ecco
perché un adeguato investimento nell’ambito della promozione della salute mentale e della prevenzione e intervento nei disturbi neuropsichici dell’età evolutiva è sempre più strategico. Una diagnosi precoce ed un altrettanto precoce e tempestivo intervento in sinergia tra territorio e ospedale può cambiare, in molti casi, la storia naturale dei disturbi neuropsichici e prevenire le numerose sequele, evitando un decorso ingravescente ed invalidante, diminuendo in modo rilevante i
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costi emotivi, sociali ed economici sull’individuo, sulla famiglia e sulla società». In meno di dieci anni è raddoppiato il numero degli utenti seguiti nei servizi di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (NPIA), con una prevalenza di accesso 4 volte superiore a quella dei servizi di salute mentale adulti e 8 volte superiore a quella dei servizi per le dipendenze patologiche. Un trend in vistosa crescita a cui contribuisce la maggiore consapevolezza
della popolazione, il cambiamento dei criteri diagnostici, l’introduzione di strategie di screening e di individuazione precoce, l’aumentata sopravvivenza di soggetti con gravi disabilità e la presenza di modificazioni ambientali rilevanti e molto rapide che impattano sullo sviluppo e sul livello atteso di funzionamento. Ma anche, ora, l’impatto della Pandemia e delle restrizioni e ritardi di accesso ai servizi ad essa conseguenti, soprattutto nelle fasce più vulnerabili. Tuttavia, permangono criticità sistemiche e culturali che favoriscano una diagnosi precoce e un intervento tempestivo. I pazienti e le loro famiglie sono infatti tutt’oggi oggetto di pregiudizi marcati, che interferiscono con la diagnosi e la terapia, con l’inclusione sociale e soprattutto con la programmazione sanitaria. Nonostante cambiamenti molto rilevanti nella sensibilità della popolazione, infatti, la tendenza a negare l’esistenza dei disturbi neuropsichici è purtroppo ancora molto marcata e impatta sulle politiche nazionali e internazionali. «È di pochi giorni fa l’allarme UNICEF-OMS che sottolinea come a livello mondiale, 1 adolescente su 7 presenti problemi di salute mentale, peggiorati dalla pandemia, e come il mancato contributo alle economie a causa dei problemi di salute mentale che portano a disabilità o morte tra i giovani sia stimato in quasi 390 miliardi di dollari all’anno. Ciononostante, i governi continuano a investire troppo poco per affrontare questi bisogni fondamentali», conclude Antonella Costantino.
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Permangono criticità sistemiche e culturali che favoriscano una diagnosi precoce e un intervento tempestivo. I pazienti e le loro famiglie sono infatti tutt’oggi oggetto di pregiudizi marcati, che interferiscono con la diagnosi e la terapia, con l’inclusione sociale e soprattutto con la programmazione sanitaria.
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LONG-COVID ANCHE NEI BAMBINI? IL PUNTO Studi discordanti sulla durata. Ma i sintomi sono gli stessi degli adulti: annebbiamento, stanchezza e mal di testa
di Alessandro Righi
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rischi, in fase acuta, sono pochi. Dopo un anno e mezzo di pandemia, è ormai chiaro che i bambini colpiti dalle conseguenze più gravi di Covid-19 rappresentano un’eccezione. Quello che rimane da chiarire è quanto di frequente i più piccoli contagiati da Sars-CoV-2 si portano dietro i sintomi della malattia per un periodo più lungo di quello che corrisponde con la presenza del virus nell’organismo. È il long-Covid, finora riscontrato soprattutto tra gli adulti. Questa condizione - così definita, anche se è da escludere che l’infezione da Sars-CoV-2 possa cronicizzare - è rilevabile anche tra i bambini? E attraverso quali sintomi, eventualmente? Una prima - e non lieta - risposta arriva da alcuni esperti della rivista
del Mit, secondo i quali, per l’appunto, anche i bambini possono soffrire di long-Covid, con il 7-8% di chi è colpito in età pediatrica che ha sintomi per almeno tre mesi. Non solo. Gli esperti sottolineano come il problema diventerà sempre più di attualità dato il calo dell’età media dei contagi. “Con il virus che ancora circola spiega Sean O’Leary, vicepresidente dell’American Academy of Pediatrics - saranno colpite le persone più vulnerabili, cioè quelle non vaccinate. I bambini sotto i 12 anni non sono ancora vaccinabili, e quelli un po’ più grandi hanno i tassi più bassi di copertura”. Il dubbio, però, resta. Sulla prevalenza del long-Covid tra i più piccoli e soprattutto sulla durata i pochi studi condotti finora hanno dato ri-
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sultati discordanti. Una ricerca italiana pubblicata su Acta Pediatrica ad esempio ha trovato che il 42% dei piccoli pazienti aveva ancora un sintomo due mesi dopo la diagnosi, e il 27% a quattro mesi. Più basse le cifre di altre ricerche: secondo l’Office of National Statistics britannico il 1013% dei bambini positivi ha sintomi per più di cinque settimane, e il 7-8% per almeno tre mesi, gli stessi numeri di una ricerca australiana. Uno studio in preprint condotto su 1700 bambini in età scolare in Gran Bretagna ha invece visto sintomi per più di un mese nel 4,4% del campione, mentre per più di due mesi solo nell’1,8%. Dove invece gli esperti sono concordi è sui sintomi del disturbo, che rispecchiano quelli degli adulti, con fatica, dolori muscolari, mal di testa e perdita di gusto e olfatto tra i più comuni in entrambe le categorie. “Abbiamo visto - spiega Alicia Johnston
del Boston Children’s Hospital - molti bambini che si lamentano di mal di testa persistenti, ‘annebbiamento’ del cervello e problemi di concentrazione”. In definitiva, dunque, facendo una media tra i diversi lavori condotti in diverse aree del mondo, si può però stimare che una quota compresa tra il 10 e il 20% di bambini ammalatisi di Covid-19 (indipendentemente dalla severità della malattia) si porta dietro una serie di sintomi per un periodo variabile tra 5 e 15 settimane (durante le quali non si è contagiosi). Complessivamente, dalle poche ricerche finora condotte emerge un quadro simile a quello rilevabile tra gli adulti: con affaticamento, dolori muscoloscheletrici, mal di testa, palpitazioni, rash cutanei, disturbi del sonno e gastrointestinali. Condizioni che, quando presenti, possono condizionare il benessere e la qualità della vita dei più piccoli. E, di riflesso, dei loro genitori.
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Gli esperti sottolineano come il problema diventerà sempre più di attualità dato il calo dell’età media dei contagi.
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IL NOSTRO “SECONDO CERVELLO” Ecco come il microbiota aiuta la salute mentale
di Alessandro Cuomo, Giovanni Barillà, Claudia Libri Alessandro Spiti, Pietro Carmellini, Andrea Fagiolini Università di Siena
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e malattie mentali negli ultimi anni hanno trovato una base neurobiologica della loro causa all’interno del cervello, organo per lungo tempo considerato “isolato” rispetto al resto dell’organismo per via di una barriera molto selettiva definita barriera ematoencefalica. Progressivamente, questa visione ha lasciato spazio all’evidenza che le malattie mentali trovano ragion d’essere anche al di fuori del cervello, basti pensare a quanto l’infiammazione sistemica e la sindrome metabolica impattano sui disordini mentali maggiori quali depressione e disturbo bipolare. In tal senso, la ricerca degli ultimi anni ha messo sotto la lente di ingrandimento un nuovo “organo”, talvolta definito come “superorganismo”, composto da un mondo variegato e ricco dentro ognuno di noi: il microbiota intestinale. Una persona adulta ospita una comunità di oltre 100 trilioni di batteri nel tratto intestinale, che è più di 10 volte il numero di cellule umane in tutto l’organismo: più di 1 kg di batteri, un equivalente in peso pari a quello del cervello, tale per cui spesso si parla del microbiota intestinale come “secondo cervello”. Inoltre, si stima che ci siano oltre 10 milioni di geni microbici, che è 150 volte più del genoma umano. Pertanto, non sorprende che una serie di condizioni fisiologiche nel corpo e nel cervello siano sempre più legate allo stato del microbioma intestinale. Se infatti in passato si parlava di “asse intestino-cervello”, parlando delle influenze reciproche fra l’intestino ed il cervello, la ricerca attuale definisce invece un triplice rapporto definito
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Questi microrganismi svolgano un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’omeostati dell’organismo; alterazioni della composizione della popolazione batterica intestinale – condizione definita “disbiosi” - può determinare ed influenzare diverse malattie. I disordini psichiatrici maggiori da un punto di vista neurobiologico sono correlati ad alterazioni neurotrasmettitoriali, squilibri ormonali come alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (che regola la risposta allo stress) oltre che all’infiammazione.
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“asse microbiota-intestino-cervello” che rappresenta un sistema di comunicazione bidirezionale che consente ai microbi intestinali di comunicare con il cervello (influenze down-top) e al cervello di inviare segnali all’intestino (influenze top- down). Tali comunicazioni prevedono meccanismi di diversa natura, ad esempio la produzione da parte dei batteri di molecole di diversa natura (neurotrasmettitori, ormoni, metaboliti, amminoacidi, falsi neurotrasmettitori) che direttamente o indirettamente possono influenzare l’attività cerebrale, oppure mediante l’attivazione del sistema immunitario, la cui attivazione influenza e modula l’attività dell’intero organismo. È noto infatti che il microbiota sia responsabile dell’adeguato funzionamento della parete intestinale, evitando così che sostanze dannose possano essere assorbite; inoltre ha un ruolo fondamentale nel metabolismo dei macroe micronutrienti, provvedendo tanto al fabbisogno energetico dell’individuo quanto all’assorbimento di molecole essenziali (amminoacidi, vitamine, etc), fondamentali per il funzionamento dell’organismo. È chiaro quindi che questi microrganismi svolgano un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’omeostati dell’organismo; alterazioni della composizione della popolazione batterica intestinale – condizione definita “disbiosi” - può determinare ed influenzare diverse malattie. I disordini psichiatrici maggiori – depressione maggiore, disturbo bipolare, schizofrenia, disturbi d’ansia – da un punto di vista neurobiologico sono correlati ad alterazioni neurotrasmettitoriali, squilibri
ormonali come alterazioni dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (che regola la risposta allo stress) oltre che all’infiammazione. Negli ultimi anni, inoltre, sempre maggiore è stata la ricerca orientata a definire il rapporto tra le alterazioni del microbiota intestinale con i disturbi neuropsichiatrici, non solo come causa di questi ma anche come possibile target di trattamento. Lo stress cronico, condizione precipitante i disturbi mentali, può causare uno squilibrio clinicamente significativo nella comunità microbica: l’aumento dei livelli di cortisolo determina un aumento della permeabilità della parete intestinale
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che facilita quindi una risposta infiammatoria sistemica così come evidenziato dall’aumento dei livelli di TNF-α circolanti, interferone-γ e IL-6; tale stato infiammatorio facilita un’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (ovvero del sistema che fisiologicamente regola le risposte allo stress) determinando una condizione di iper-cortisolemia, responsabile di un effetto neurotossico, della riduzione della serotonina e della riduzione dell’espressione del BDNF, fattore trofico a livello del sistema nervoso centrale responsabile del benessere delle cellule nervose e del loro funzionamento. Inoltre, ad esempio, è risaputo
che il microbiota può influenzare i livelli plasmatici ed il metabolismo del triptofano e dell’acido chinurenico, un suo metabolita che sembra essere coinvolto nella patogenesi della schizofrenia. Di interesse, l’acido chinurenico è un antagonista del recettore NMDA, anch’esso coinvolto nella patogenesi della schizofrenia. Inoltre, il microbiota può influenzare la neurofisiologia dell’individuo attraverso la produzione di metaboliti e neurotrasmettitori. Per esempio, Bifidobatteri e Lattobacilli possono generare GABA; la famiglia Bacillus può generare dopamina e noradrenalina, ed Escherichia può generare noradrenalina e serotonina. Inoltre, germi come il Clostridium sporogenes decarbossilatotriptofano alla triptamina, impedendo l’assorbimento di questo aminoacido essenziale necessario per la biosintesi della serotonina. Non è chiaro allo stato attuale quale sia la struttura di un microbiota normale: tuttavia, quello che è evidente è che maggiore è la diversità, meglio è. Pertanto, numerosi sono stati gli studi orientati a definire la diversa composizione del microbiota fra pazienti affetti da malattie mentale e controlli sani. Uno stato di benessere mentale è stato positivamente correlato, ad esempio, ad elevati livelli di batteri Faecalibacterium e Coprococcus e bassi livelli di Dialister e Coprococcus, mentre nella depressione si ha ad esempio una riduzione dei primi di questi batteri. Anche nella schizofrenia si sono rilevati alterazioni della composizio-
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Anche nella schizofrenia si sono rilevati alterazioni della composizione del micobiota. Uno studio evidenziava bassi livelli di Bifidobacterium fecale ed Escherichia coli; inoltre, il risultato interessante è stato verificare che dopo 24 settimane di trattamento con adeguata terapia (nel caso specifico, di risperidone), si è assistito ad un aumento significativo dei numeri di Bifidobacterium fecale ed E. coli, oltre che un miglioramento da un punto di vista clinico del paziente.
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Quello che sorprende è quanto anche farmaci non antibiotici possano influenzare il microbiota intestinale: uno studio pubblicato su Nature del 2018 mostrava che in questa categoria di farmaci, gli antipsicotici avevano un ruolo assolutamente importante nel determinare un’attività “anti-commensale”. È noto infatti quanto vecchi farmaci antipsicotici come le fenotiazine potessero avere proprietà antibatteriche, ma quello che è emerso dallo studio è che quasi tutte le sottoclassi degli antipsicotici, anche chimicamente diverse, ha mostrato attività anti-commensale.
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ne del micobiota. Uno studio evidenziava bassi livelli di Bifidobacterium fecale ed Escherichia coli; inoltre, il risultato interessante è stato verificare che dopo 24 settimane di trattamento con adeguata terapia (nel caso specifico, di risperidone), si è assistito ad un aumento significativo dei numeri di Bifidobacterium fecale ed E. coli, oltre che un miglioramento da un punto di vista clinico del paziente. In tal senso, è chiaro che diversi farmaci possano influenzare la composizione del microbiota intestinale. È noto infatti quanto gli antibiotici, il cui indirizzo specifico è l’azione sui microrganismi, possano alterare la flora batterica intestinale, con il rischio di selezionare dei batteri “resistenti” agli antibiotici oppure di favorire la crescita di alcuni batteri determinando patologie quali la Colite pseudomembranosa da Clostridium Difficile. Quello che sorprende è quanto anche farmaci non antibiotici possano influenzare il microbiota intestinale: uno studio pubblicato su Nature del 2018 mostrava che in questa categoria di farmaci, gli antipsicotici avevano un ruolo assolutamente importante nel determinare un’attività “anti-commensale”. È noto infatti quanto vecchi farmaci antipsicotici come le fenotiazine potessero avere proprietà antibatteriche, ma quello che è emerso dallo studio è che quasi tutte le sottoclassi degli antipsicotici, anche chimicamente diverse, ha mostrato attività anti-commensale. In tal senso, questo effetto di inibizione diretta sui batteri residenti potrebbe essere interpretato non solo come effetto collaterale degli antipsicoti-
ci, ma rientrare a tutti gli effetti fra i meccanismi di azione del farmaco, la cui azione sempre di più è evidente non estrinsecarsi esclusivamente a livello recettoriale dei neurotrasmettitori specifici, ma la cui potenzialità pleiotropica è diversa (basti pensare agli effetti sulla regolazione dell’espressione genica e ai diversi effetti antinfiammatori evidenziati in letteratura). Si è quindi tentato di valutare diverse strategie atte a rimodulare e favorire un’adeguato equilibrio a livello del microbiota intestinale per favorire un effetto a livello della salute mentale. Ad esempio, mediante l’utilizzo di Prebiotici e Probiotici. Con prebiotici si intendono sostanze fermentate selettivamente che provocano cambiamenti specifici nella composizione e / o attività del microbiota gastrointestinale, conferendo così benefici alla salute dell’ospite. I probiotici sono invece microrganismi vivi, che se somministrati in quantità adeguate, conferiscono un beneficio per la salute all’ospite. Allo stato attuale, la maggior parte dei batteri che hanno dimostrato di avere effetti psicobiotici provengono da due generi, Lactobacillus e Bifidobacterium. Nonostante risultati incoraggianti su un possibile effetto antidepressivo ed ansiolitico, allo stato attuale dell’arte è necessaria ulteriore ricerca per definire meglio l’evidenza nell’utilizzo routinario di questi prodotti, definendo ulteriormente non solo la specie da utilizzare, ma anche il ceppo specifico. Un altro tentativo terapeutico sul microbiota ha preso spunto da un trattamento delle coliti del costri-
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dium difficile resistenti alla terapia farmacologica: Il trapianto fecale, noto anche come batterioterapia fecale. Questo trattamento ha mostrato degli ottimi risultati, in un recente studio, nei bambini affetti da disturbi dello spettro dell’autismo, che spesso e volentieri presentano frequenti problemi gastrointestinali: i trapianti fecali da individui “neurotipici”, cioè sani, a soggetti con autismo ha determinato, oltre che una riduzione della sintomatologia gastrointestinale, una importante riduzione (circa del 45%) dei sintomi tipici del disturbo dello spettro autistico legati al linguaggio, alle interazioni sociali e al comportamento, mantenuti anche a distanza di 2 anni rispetto al trattamento iniziale. Risultati incoraggianti, inoltre, sia in studi preclinici che clinici di piccoli campioni di pazienti, sembrano essere rivolti anche per il trattamento della patologia ansioso-depressiva con il trapianto fecale di microbiota (MFT). Ancora una volta, perno per mirare ad un adeguato stato di salute tanto per il microbiota quanto per la nostra mente risulta l’alimentazione. Una dieta malsana, ricca di grassi saturi, zuccheri raffinati, dolcificanti artificiali, e a basso contenuto di fibre, determina la selezione di batteri proteolitici con un effetto netto proinfiammatorio con risultato ultimo di incrementare la permeabilità della parete intestinale, oltre che la produzione di molecole e acidi grassi a catena corta responsabili di effetti depressogeni e neurotossici. D’altra parte, una dieta ricca di fibre, polifenoli (contenuti ad esempio nelle verdure, olive,caffè etè) e acidi grassi insaturi ( di cui è ricca
la dieta mediterranea) è associato al miglioramento e alla promozione della crescita di taxa microbici intestinali benefici ed ad una maggiore diversità di specie a livello del microbiota, oltre che ad un effetto di benessere a livello della salute mentale; così come gli stessi effetti sembrano essere indotti dall’esercizio fisico. In maniera inversa, anche la depressione ed i disordini psichiatrici maggiori possono influenzare lo stile di vita dell’individuo e la sua alimentazione, andando per tanto ad influenzare la composizione del microbiota e contribuendo così ad influenzare uno stato infiammatorio persistente e le condizioni correlate, spesso presenti nei nostri pazienti, quali sindrome metabolica, obesità ed ipertensione, che in un circolo vizioso si associano ad un peggioramento dei sintomi psicopatologici. Per concludere, sempre maggiori sono le evidenze che tanto il benessere mentale quanto quello del microbiota intestinale siano intrinsecamente legate tra loro; la ricerca orientata a definire quanto è possibile influenzare il microbiota al fine di favorire i trattamenti dei disturbi psichiatrici è ancora agli albori, tuttavia i risultati sono entusiasmanti. Piccoli cambiamenti dello stile di vita, come ad esempio periodi di diete ricche di verdure (come ad esempio “la dieta del minestrone”) potrebbe tuttavia favorire la ricomposizione della varietà del microbiota intestinale favorendo anche un benessere per quel che riguarda la salute mentale ed un terreno maggiormente stabile su cui intervenire con altri trattamenti specifici, quale la terapia psicofarmacologica.
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Piccoli cambiamenti dello stile di vita, come ad esempio periodi di diete ricche di verdure (come ad esempio “la dieta del minestrone”) potrebbe tuttavia favorire la ricomposizione della varietà del microbiota intestinale favorendo anche un benessere per quel che riguarda la salute mentale ed un terreno maggiormente stabile su cui intervenire con altri trattamenti specifici, quale la terapia psicofarmacologica.
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ICTUS SEGNI PREMONITORI GIÀ DIECI ANNI PRIMA
I risultati di uno studio che ha monitorato 14.712 persone per 28 anni. E una ricerca italiana rivela anche l’importanza dei polifenoli di Rocco Antenucci
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a notizia è di quelle che potrebbe portare a una svolta fondamentale nella cura di uno dei mali maggiori del nostro tempo, specie negli anziani: l’ictus. Secondo uno studio dei ricercatori dell’Erasmus MC University di Rotterdam, pubblicato sul Journal of Neurology Neurosurgery & Psychiatry, i segni che rivelano un Ictus sono individuabili fino a dieci anni prima. Gli studiosi hanno esaminato i dati di 14.712 persone che sono state monitorate per 28 anni. I partecipanti hanno sostenuto una serie di test mentali e fisici e un colloquio all’inizio dello studio e poi ogni due anni. Una ricerca, dunque, poderosa che ha mostrato un dato che ha dell’incredibile. Questi test includevano prove di memoria, fluidità verbale, tempi di reazione e una valutazione della loro capacità di lavare, cucinare, pulire e gestire le proprie finanze. Durante il periodo di studio, 1.662 partecipanti hanno subìto un primo ictus, a un’età media di 80 anni. L’analisi ha rivelato che le loro prestazioni nei test hanno cominciato a divergere da coloro che non hanno subito un ictus fino a dieci anni prima dell’evento. Le differenze nella loro capacità di svolgere compiti quotidiani di base e avanzati sono emerse due o tre anni prima dell’ictus. I risultati indicano che i cambiamenti dannosi avvengono nel cervello, dunque, con anni di anticipo. Ma non è tutto. Le persone di sesso femminile, quelle con un gene associato al morbo di Alzheimer e quelle con più scarso livello culturale, sembrano a maggior rischio. Le
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I risultati indicano che i cambiamenti dannosi avvengono nel cervello, dunque, con anni di anticipo. Ma non è tutto. Le persone di sesso femminile, quelle con un gene associato al morbo di Alzheimer e quelle con più scarso livello culturale, sembrano a maggior rischio.
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prestazioni delle persone colpite da ictus hanno continuato a diminuire più rapidamente dopo l’evento. Il dottor Alis Heshmatollah, autore dello studio, ha sottolineato che “i risultati hanno dimostrato che i futuri pazienti con ictus iniziano a manifestare sintomi fino a 10 anni prima dell’evento acuto, suggerendo che le persone con declino cognitivo e funzionale sono a maggior rischio di Ictus e sono possibili candidati per prove di prevenzione”. Secondo gli esperti, individuare questi primi segnali può consentire ai pazienti di ridurre il rischio adottando uno stile di vita più sano o sperimentando nuovi farmaci. La ricerca, dunque, è solo all’inizio. Ed è un bene considerando che recenti dati Istat dimostrano che più di un anziano su due presenta multimorbilità. Nel 2019, circa 7 milioni di ultrasessantacinquenni (appunto, più di un anziano su due),
presentano multimorbilità, riferendo almeno tre patologie croniche. Tra gli over-85 la quota raggiunge i due terzi, con una percentuale più elevata tra le donne, il 69 per cento contro il 60 per cento tra gli uomini. Le patologie più diffuse (in una lista di 22) sono artrosi (47,6 per cento), ipertensione (47 per cento), patologia lombare (31,5 per cento) e cervicale (28,7 per cento), iperlipidemia (24,7 per cento), malattie cardiache (19,3 per cento) e diabete (16,8 per cento). Ma non mancano le patologie gravi: il 43,2 per cento degli anziani di 65 anni e più dichiara almeno una patologia grave. Tra cui proprio l’ictus, al fianco di tumori e demenze. La ricerca, dunque, prosegue. E alcuni importanti risultati potrebbero arrivare anche con la collaborazione dei nostri scienziati. Un gruppo di ricercatori italiani coordinati da David Della Morte Canosci,
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professore di Neurologia all’Università di Miami, di Medicina Interna all’Università Tor Vergata di Roma e all’Università San Raffaele di Roma e Direttore Medico Scientifico di Palazzo Fiuggi, ha mostrato come il nostro organismo sia programmato per prevenire ed eventualmente eliminare qualsiasi minaccia. Ictus ischemico, compreso. Basta solo attivare gli “interruttori” giusti. In una review pubblicata sulla rivista Nutrients, i ricercatori hanno passato in rassegna oltre 80 studi sperimentali ed epidemiologici che descrivono il ruolo di alcuni polifenoli nella prevenzione dell’ictus ischemico. Ebbene, dai risultati è emerso che molecole come resveratrolo, pterostilbene, polidatina e onochiolo agiscano sia come potenti antinfiammatori e antiossidanti che come “attivatori delle sirtuine”. “Queste molecole - spiega Della Morte - attivano la produzione
di proteine da parte dei cosiddetti ‘geni della longevità’. Questi composti, attraverso l’attivazione delle sirtuine, oltre ad avere un’azione antifiammatorie e antiossidante, agiscono come antiaggreganti prevenendo l’insorgenza di ictus ischemico”. I polifenoli sono micronutrienti presenti in una varietà di alimenti, che hanno guadagnato interesse negli ultimi 30 anni per le loro proprietà antiossidanti e per il loro ruolo emergente nella prevenzione di diverse malattie legate allo stress ossidativo, come il cancro, i disturbi cardiovascolari e neurodegenerativi. Una nuova via di studio non secondaria, considerando che l’ictus ischemico è ancora tra le principali cause di mortalità e disabilità in tutto il mondo. Si stima che nel nostro paese colpisca all’incirca 150.000 persone ogni anno.
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Recenti dati Istat dimostrano che più di un anziano su due presenta multimorbilità. Nel 2019, circa 7 milioni di ultrasessantacinquenni (appunto, più di un anziano su due), presentano multimorbilità, riferendo almeno tre patologie croniche.
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A CENT’ANNI DALLA NASCITA DI ANNELIESE ALMA PONTIUS Neuropsichiatra molto attuale che credeva nella Neuroetica, a cavallo tra bioetica, neuroscienze, psichiatria, clinica, filosofia della mente
di Alberto Carrara Direttore del Gruppo di ricerca in Neurobioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e Docente di Neuroetica presso la facoltà di Psicologia dell’Università Europea di Roma, Fellow dell’UNESCO Chair in Bioethics and Human Rights
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e rivoluzionarie scoperte scientifiche nell’ambito della vita e della salute dell’essere umano hanno portato alla luce il problema di come interpretare ed applicare i dati delle ricerche neuroscientifiche. Tali questioni hanno fatto sorgere una disciplina-ponte identificata con il neologismo neuroetica: luogo di giunzione tra neuroscienze, filosofia e riflessione bioetica; un terreno di riflessione antropologica, culturale e sociale. Identificata sin dal 2002 quale porzione specifica di quella bioetica riguardante il sistema nervoso ed il cervello come sua parte specifica,
solo recentemente la neuroetica è stata definita quale riflessione sistematica ed informata, cioè filosofica, sulle neuroscienze e sulle multiformi interpretazioni delle stesse con il fine di migliorare la nostra comprensione su noi stessi e poter prendere decisioni sul presente delle applicazioni all’essere umano di tecnologie e sostanze che interferiscono con il normale funzionamento neurale e sul futuro di tali impieghi per la salute e il benessere di tutto l’uomo e di ogni uomo. Nella maniera più assoluta, il grande problema contemporaneo nel dibattito neuroetico non si concentra sul turbamento o sui
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potenziali timori che possono sor- dell’essere e dell’agire della persona gere da una concezione, per così umana tali da fornire risposte adedire, “cerebrocentrica” del vivere guate capaci di tradursi, in ultima e che i cosiddetti “neuro-maniaci” analisi, in soluzioni terapeutiche tendono ad enfatizzare, bensì la che beneficino realmente il paziengrande sfida è quella dell’integra- te, l’essere umano reso vulnerabile zione, cioè quella di incorporare i dalla malattia, specie di quella di dati e le evidenze empiriche delle natura psichiatrica. Nel panorama contemporaneo, a neuroscienze all’interno di una cavallo tra bioetica, cornice più vasta neuroscienze, psiriguardante l’essechiatria, clinica, fire umano, capace losofia della mente di contenere, sen(Mind Philosophy), za ridurle, assoremerge, sin dagli birle o escluderanni Settanta del le a priori, sfere secolo scorso, un dell’esistenza e del ambito di riflessiovissuto personale, ne e d’azione proculturale e sociale prio, definito per irriducibili al mero la prima volta con e spurio meccaniil neologismo Neucismo elettrochi- Anneliese Alma Pontius. ro-Ethics (Neuroetica) dal medico e mico cerebrale. Tale integrazione si rende quanto neuropsichiatra di origini tedesche mai necessaria, non soltanto teoreti- Anneliese Alma Pontius (1921camente parlando, bensì soprattutto 2018) nata cent’anni fa. Nel 1973 la professoressa della a livello di modelli di comprensione
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La neuroetica è stata definita quale riflessione sistematica ed informata, cioè filosofica, sulle neuroscienze e sulle multiformi interpretazioni delle stesse con il fine di migliorare la nostra comprensione su noi stessi e poter prendere decisioni sul presente delle applicazioni all’essere umano di tecnologie e sostanze che interferiscono con il normale funzionamento neurale e sul futuro di tali impieghi per la salute e il benessere di tutto l’uomo e di ogni uomo.
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Le ricerche neuroscientifiche della Pontius che diedero origine al neologismo neuroetica si dispiegano in un contesto temporale e culturale americano che corrisponde agli anni Settanta. In quel periodo erano ferventi e si moltiplicavano le sperimentazioni sull’essere umano facenti capo alla psicologia comportamentista la quale a metà del Novecento dominava incontrastata la scena della psicologia nordamericana.
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Scuola di Medicina di Harvard presentò alla comunità scientifica un lavoro intitolato: Neuro-ethics of “walking” in the newborn, dove, in conclusione si affermava e definiva questo ambito di ricerca come: una nuova e negletta area della riflessione etica – la neuro-etica. Nata il 19 marzo del 1921 in Germania, negli anni Cinquanta Anneliese Alma Pontius si trasferì negli Stati Uniti ove studiò Medicina. Medico neuropsichiatra, coniuge del chimico Dieter Johann Jakob Pontius, la Pontius è stata professoressa di Psichiatria presso la New York School of Medicine e successivamente presso l’Harvard Medical School (1977-2001) dove ha insegnato Medicina clinica. Attraverso la sua lunga carriera di clinico attento alla patologia mentale e alle sue radici neurali, ha ricoperto numerosi incarichi, tra i quali quello di membro del Massachusetts General Hospital dal 1984 al 2001 e consulente medico del Dipartimento Salute, Istruzione e Benessere degli Stati Uniti. A lei si devono importanti scoperte in diversi campi della ricerca, condensate in una vasta letteratura medico-clinica che spazia dal 1953 al 2013. Si possono ricordare i fondamentali contributi nell’ambito neuropsichiatrico, nelle convulsioni limbiche, nella classificazione delle epilessie, nel contesto della caratterizzazione delle personalità antisociali e schizoidi, delle sindromi omicide, delle neuroscienze delle emozioni, del neurosviluppo nel bambino e nell’adolescente, nel contesto del ruolo delle neuroscienze nella strutturazione dei sistemi educativi, nella neuropsichia-
tria evolutiva ecologica. La Pontius ha offerto contributi recenti nei filoni neuroetici che oggi conosciamo quali neuroscienze in ambito forense e neurodiritto. Sul motore di ricerca specializzato nel settore medico-clinico, PubMed, si contano 54 articoli indicizzati (sei pagine A4) che spaziano dal contributo in lingua tedesca Graphological contribution to the character structure of the asthmatic pubblicato nel 1953 su Psychother Med Psychol, sino al Differential review on firesetting pubblicato su J Am Acad Psychiatry Law nel 2013. Sessant’anni di ricerca e di contributi nell’ambito delle neuroscienze e della psichiatria vissuti con intraprendenza e passione. La Pontius si spense il 2 gennaio 2018 a Friburgo all’età di 96 anni. Le ricerche neuroscientifiche della Pontius che diedero origine al neologismo neuroetica si dispiegano in un contesto temporale e culturale americano che corrisponde agli anni Settanta. In quel periodo erano ferventi e si moltiplicavano le sperimentazioni sull’essere umano facenti capo alla psicologia comportamentista la quale a metà del Novecento dominava incontrastata la scena della psicologia nordamericana. Ciò che conta per il Comportamentismo non è come l’organismo sia costituito in termini di organi, strutture e funzioni, ma i dati in ingresso e le risposte in uscita. Studiando questo meccanismo si riuscirebbe ad analizzare la struttura antropologica dell’essere umano, il suo funzionamento mentale, indipendentemente dal fatto che abbia un cervello biologico oppure persi-
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no di altro tipo (cervello artificiale). Alla luce di quest’ultima affermazione l’attenzione si posa sul dato antropologico. Alla domanda su quale sia la concezione di “uomo” che sottende la psicologia comportamentista la risposta è data: alla base domina una concezione meccanicistica (riduzionista) dell’essere umano. Lo aveva ben compreso la Pontius la quale, alla luce delle pseudo-sperimentazioni neuro-motorie e neuro-cognitive propugnate dai comportamentisti negli anni Settanta sull’essere umano in particolari stadi dell’età evolutiva (es. neonati dalla prima all’ottava settimana di vita e soggetti non ancora neuro-competenti, ecc.), avviava ininterrottamente e con passione medica numerose ricerche neuroscientifiche che fruttarono in dati medico-clinici ma anche come monito alla comunità scientifica, mostrando le potenziali conseguenze dal punto di vista neurologico derivanti dall’applicazione di tali pratiche massive in soggetti in fase di neurosviluppo. In questo panorama nasce la neuroetica. La Pontius ha assunto una visione organicista, olistica, incorporata e situata del rapporto mente-corpo. La persona è essenzialmente legata al corpo, essendo la mente umana costitutivamente incorporata (embodied) in una materialità fisica, ma la spiritualità della persona trascende tale materialità corporea, aprendosi alle idee universali, al senso della realtà, a Dio. L’uomo non è soltanto il suo sistema nervoso. In esso sono presenti sistemi di oggettivazione basati sul pensiero astratto, sul linguaggio,
sulla cultura, ove le neuroscienze non sono direttamente competenti. Motivo per cui per comprendere l’uomo occorrono le scienze “umaneˮ oltre le neuroscienze, ed elaborare una filosofia dell’uomo (antropologia filosofica) che aiuti a comprendere il giusto ruolo del cervello nell’agire umano. Così come avvenne nel 1973 nel contesto della battaglia portata avanti dalla Pontius nei confronti delle sperimentazioni del Comportamentismo e la non considerazione dei dati neuro-anatomici e neuro-fisiologici relativamente allo sviluppo del neonato (in rapporto al quale nacque la neuro-etica) e poi nell’ambito del neurosviluppo cognitivo, allo stesso modo oggi è più che mai necessaria una riflessione neuroetica a fronte del perdurare di certi fenomeni di potenziamento neuro-cognitivo nel suo aspetto farmacologico (ed altre tipologie) in soggetti sani e a fronte di altri casi drammatici tra cui il problema, affatto innocuo, delle baby-miss, aspiranti lolite, bambine e adolescenti (sedici anni).
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Per comprendere l’uomo occorrono le scienze “umane” oltre le neuroscienze, ed elaborare una filosofia dell’uomo (antropologia filosofica) che aiuti a comprendere il giusto ruolo del cervello nell’agire umano.
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SALUTE
Denti da latte: possibili indicatori della salute mentale di madre e bambino Lo studio condotto dall’Harvard School pubblicato su Jama di Duccio Petroni
L’
analisi dei denti da latte potrebbe rivelarsi utile per identificare i bambini che nascono da madri con disturbi mentali e per valutare il rischio di insorgenza di disturbi mentali nel corso degli anni. A suggerirlo sono i risultati di un nuovo studio condotto dall’Harvard School of Dental Medicine, dal quale è emerso che i denti da latte sembrano contenere delle “linee di crescita”, simili agli anelli dei tronchi degli alberi, che potrebbero fornire indicazioni sullo stato di salute mentale delle madri. Per compiere lo studio, pubblicato sulle pagine della rivista specializzata Jama Network Open, il team di ricerca coordinato da Erin C. Dunn ha analizzato i denti da latte di 70 bambini. Sono così emerse alcune differenze associate allo stato di salute mentale delle madri. Nello specifico, l’analisi ha rilevato che le linee dei denti erano più ampie nei canini dei bimbi nati da madri che hanno riferito di aver sofferto di depressione grave, sintomi depres-
sivi o ansia elevata nelle ultime settimane di gravidanza. Le linee erano, invece, più strette nei bambini nati da madri che hanno dichiarato di avere ricevuto molto supporto sociale dopo il parto. Come spiegato dai ricercatori, queste differenze persistevano anche dopo l’aggiustamento per altri fattori di rischio. «Non è chiaro cosa causi la formazione di queste linee», ha spiegato Erin C. Dunn, prima autrice dello studio. «È possibile che una madre che soffre di ansia o depressione possa produrre più cortisolo, l’”ormone dello stress”, e che questo interferisca con le cellule che formano lo smalto. L’infiammazione sistemica è un’altra opzione». Secondo i ricercatori saranno necessari ulteriori approfondimenti per confermare il legame emerso da questo primo studio. Tuttavia, studiare il processo di formazione delle linee dei denti potrebbe aiutare a identificare i bambini a rischio salute mentale e a intervenire prima che i sintomi insorgano.
TITOLI DI CODA
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Un viaggio nell’universo infinito del cervello di Pietro Pietrini Professore Ordinario, Direttore Scuola IMT Alti Studi Lucca
U
n fortuito incidente, un contadino colpito alla testa da un mattone caduto dal campanile sotto il quale sta riposando dal lavoro, segna un momento cruciale nella storia delle Neuroscienze. Siamo nel 1880, la Medicina non ha ancora alcuna delle tecniche di indagine cerebrale che l’ingegno umano avrebbe poi messo a punto nelle decadi seguenti (i raggi X saranno scoperti nel 1895; per l’elettroencefalografia bisognerà attendere il 1929), men che meno antibiotici o farmaci psicotropi. Lo sfortunato contadino, Michele Bertino, con una parte del cranio fracassata, viene portato nell’ambulatorio di Angelo Mosso, un brillante medico e professore di fisiologia con la passione per lo studio del rapporto fra pensiero, emozioni e cervello. Mosso esamina il paziente, pulisce la ferita e,
attraverso questa vera e propria “finestra sul cervello” aperta dal mattone, osserva al di sotto delle meningi dei movimenti che, ne è convinto, non possono essere affatto casuali. Costruisce una macchinetta con una membrana che permette di registrare graficamente anche le più piccole variazioni di pressione, una sorta di primordiale pletismografo, la appoggia sulle meningi attraverso il foro nel cranio e rileva le pulsazioni pressorie cerebrali mentre il paziente riposa tranquillo, quindi mentre ascolta il rintocco delle campane e ancora mentre risponde alle sue domande. In un’elegantissima serie di esperimenti, Mosso documenta per la prima volta che tra attività mentale e cervello esiste una relazione che può essere misurata.
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TITOLI DI CODA
Un secolo più tardi, negli anni ’80 del novecento, con l’avvento della Tomografia ad emissione di positroni (PET, dal nome inglese) si apre l’era degli studi dei correlati neurali delle funzioni mentali. Quello che Angelo Mosso aveva osservato letteralmente ad occhio nudo, viene misurato in maniera via via più precisa dalle cosiddette metodologie di neuroimmagine (brain imaging, nel mondo anglosassone); oltre alla PET, la risonanza magnetica nelle sue diverse applicazioni. Mosso aveva misurato grossolane variazioni di flusso ematico conseguenti al fatto che laddove aumenta l’attività neuronale sinaptica (come ad esempio nella corteccia uditiva durante la percezione di suoni o parole) aumenta parallelamente il fabbisogno energetico e dunque la necessità di glucosio e ossigeno, i soli carburanti energetici del cervello, trasportati dal sangue; da qui l’aumento di flusso ematico. Con la possibilità di misurare in maniera
non invasiva correlati metabolici della funzionalità cerebrale nell’essere umano si è dato avvio ad un vero e proprio viaggio nel cervello, non meno affascinante e grandioso dell’esplorazione dell’Universo. Negli anni seguenti, la messa a punto di paradigmi sperimentali sempre più sofisticati e complessi ha consentito di esplorare la meravigliosa architettura morfo-funzionale che sottende le diverse attività mentali in condizioni fisiologiche, come pure di individuare alterazioni strutturali o metaboliche che si associano, o addirittura precedono, patologie neurologiche e psichiatriche, con enormi ricadute sul piano sia scientifico sia clinico. In questi giorni che vedono l’Italia al centro del mondo per il (tardivo) Premio Nobel assegnato alla Scuola di fisica romana, piace ricordare che il padre di quel viaggio nell’infinito mistero del cervello umano fu un italiano, Angelo Mosso, figlio di Felice, falegname, e di Margherita Contessa, a dispetto del nome, umile sarta.
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