Brain. Marzo 2022

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Anno III | N. 3 | Marzo 2022

NEURO PLASTICITÀ

Come il cervello si “modella” in risposta all’attività e all’esperienza mentale

Suicidi tra le forze dell’ordine Mozione alla Camera

Guerra in Ucraina Come reagisce la nostra psiche

Infezioni in ospedale. Così ci si ammala in corsia



EDITORIALE

Brain Mar 2022

Benessere, abitudine, guerra e storia

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di Armando Piccinni

ppartengo ad una delle generazioni più fortunate della storia. Almeno vi appartenevo fino a poco più di due anni fa. Nell’arco della mia vita non ci sono state guerre alle porte di casa e neppure carestie o epidemie fatta eccezione per quelle influenzali dell’Asiatica del 1957 e di Hong Kong nel 1968 che ebbero proporzioni nettamente minori rispetto alla Sars Cov-2 dei giorni nostri. Questo panorama fortunato ha consentito di vivere, a me e a chi ha vissuto lo stesso periodo, senza le grandi scosse che gli eventi negativi di portata epocale fisiologicamente determinano. Pur continuando a lamentarci di tutto ciò di cui ci si poteva lamentare, ci siamo abituati ad una vita comoda, confortevole, con la possibilità di viaggiare e fare delle vacanze, di mandare i nostri figli a scuola, di poterci sedere in un teatro o al cinema, con la consapevolezza che i nostri figli avrebbero potuto frequentare qualsiasi luogo di incontro dove crescere, raccontarsi, imparare e mostrarsi agli altri.

Ci siamo “adagiati” su questo tipo di vita ed abbiamo avuto tutto il tempo per considerare questa la “normalità”. L’abitudine, d’altronde, governa la vita dell’uomo. Il nostro cervello ha la tendenza a standardizzare i comportamenti e le azioni, tende a renderle automatiche; questo gli consente di risparmiare l’energia che dovrebbe impiegare per le decisioni che altrimenti sarebbe costretto a prendere di continuo. Fin da quando siamo piccolissimi abbiamo la tendenza a ripetere più e più volte le azioni finché queste non diventano automatiche dandoci così la capacità di compierle senza pensarci. Anche lo stile di vita acquisisce, fatte le dovute proporzioni rispetto alle piccole azioni quotidiane, le caratteristiche dell’abitudine. Andare per trent’anni nello stesso alberghetto in riva al mare, ritrovare i proprietari, gli stessi compagni di vacanza che prenotano in quel periodo, rivedersi, parlare, raccontarsi, diventa una consuetudine che ci conforta e ci dà stabilità.

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Anche piccole variazioni di questa standardizzazione della vita ci possono procurare un senso di disagio e di incompiutezza. Se nel solito piccolo albergo mancano alcune persone perché troppo vecchie o malate o perché non ci sono più, ciò non solo ci dispiace ma ci turba. Negli ultimi due anni siamo stati colpiti da due eventi di incredibile portata e potenza: la pandemia prima e la guerra alle porte di casa adesso. Una sorta di un unodue pugilistico di quelli che mettono ko gli atleti più esperti. La pandemia ha sconvolto in modo immediato e traumatico tutte le nostre abitudini, dalle più semplici alle più indispensabili e necessarie. Tutto è entrato in un gigantesco frullatore che ha radicalmente cambiato le nostre vite, quelle dei nostri giovani e dei nostri vecchi. Tutti i giorni ci sentiamo dire che il mondo è cambiato, che non sarà mai più lo stesso, che forse non riusciremo più a tornare alle nostre vecchie abitudini.

Certo, una sequenza di questo genere ci fa pensare che dopo tanta fortuna e stabilità la Storia, quella scritta con la S maiuscola come dice il giornalista Andrea Di Consoli, si è rifatta viva. Il cammino dell’umanità è stato da sempre caratterizzato da una sequenza di guerre, carestie, pandemie. Di questa lezione di certo ne avremmo potuto fare volentieri a meno: continuare con la nostra splendida “abitudine” al benessere e alla tranquillità sarebbe stato più piacevole ed auspicabile. Non è andata così. Un insegnamento prezioso è però da comprendere e custodire: nulla è per sempre. La vita dell’uomo è comunque da sempre una lotta, per vivere, per sopravvivere, per risolvere continuamente problemi. La forza per andare avanti la troveremo dentro di noi. La nostra storia, scritta nel nostro DNA, ci indicherà la strada per continuare il nostro cammino. Per milioni di anni questo è già successo. Ci auguriamo che possa continuare. Una deviazione da questo percorso sarebbe davvero la sciagura più grande.


Anno III | N. 3 | Marzo 2022

SOMMARIO

NEURO PLASTICITÀ

Come il cervello si “modella” in risposta all’attività e all’esperienza mentale

EDITORIALE

Suicidi tra le forze dell’ordine Mozione alla Camera

Guerra in Ucraina Come reagisce la nostra psiche

Infezioni in ospedale. Così ci si ammala in corsia

3 Benessere, abitudine, guerra e storia

di Armando Piccinni PRIMO PIANO

8 Neuroplasticità e invecchiamento: non si finisce mai di imparare di Carmine Gazzanni

13 Invecchiare bene? si piò di Carmine Gazzanni L’INTERVISTA

14 Così l’ambiente influenza la neuroplasticità del cervello di Carmine Gazzanni

Brain Anno III | N. 3 | Marzo 2022 Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca Diffusione: www.fondazionebrf.org Direttore responsabile: Armando Piccinni Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca


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43 Long-Covid, esercizio fisico contro la depressione di Francesco Carta

44 Passi in avanti sullo studio dell’origine della schizofrenia di Antonio Acerbis

46 In 5 anni 12mila infortuni a sanitari per aggressioni

20 IN PARLAMENTO

16 Allarme suicidi tra le forze

di Alberto Lepri

48 Autismo, anche pesticidi e plastiche tra le cause di Francesco Carta

dell’ordine. Mozione alla Camera di Carmine Gazzanni FOCUS

20 Guerra in Ucraina. Come sta reagendo la nostra psiche? di Valentina Formica CONTRIBUTO

24 Nascita della neuroetica (terza parte): dal Dna al neurone

50

di Alberto Carrara L’INCHIESTA

28 Ammalarsi in ospedale di Andrea Zanotto

FOCUS BRF - L’INTERVISTA

32 «Così ho cominciato a disegnare i disturbi dell’alimentazione» di Chiara Andreotti FOCUS BRF

39 New addiction. dipendenze

comportamentali degli studenti di Valentina Formica SALUTE

40 Pillole di iodio contro il rischio nucleare. Tutto quello che c’è da sapere di Alessia Righi

IL BRANO

50 Quando la malattia diventa l’unica vera cura

di Giovanni Gazzanni LIBRI

53 Nessuno è mai quel che sembra di Antonio Acerbis CINEMA

54 Oscar, tutte le volte che

a statuetta è andata a film dedicati al cervello umano di Chiara Andreotti TITOLI DI CODA

56 Il cervello al centro del mondo di Pietro Pietrini


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NEUROPLASTICITÀ E INVECCHIAMENTO: NON SI FINISCE MAI DI IMPARARE La pandemia ha aggravato i “nuovi” disturbi comportamentali. Ma non bisogna condannare tout-court le nuove tecnologie


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di Carmine Gazzanni

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on c’è organo più misterioso e al tempo stesso più affascinante del cervello. Parliamo, d’altronde, dell’organo che ci rende compatibili con l’ambiente in cui viviamo. Tale incredibile capacità di adattamento prende il nome di «neuroplasticità», intesa come proprietà che consente al cervello di modificare la propria struttura e il proprio funzionamento in risposta all’attività e all’esperienza mentale. Abbiamo provato a capirne di più, cercando di comprendere quali sono i progressi in ambito scientifico, quali sono le ultime scoperte nell’ambito neuro-rigenerativo e, soprattutto, quali sono i consigli per mantenere una vita cerebrale attiva anche con l’avanzare dell’età. Esiste ad esempio una recente teoria che sostiene che il cervello abbia la capacità di riorganizzarsi, di fronte ad un deterioramento cerebrale, creando nuovi circuiti neuronali. Questa teoria, la Scaffolding Theory of Aging and Cognition utilizza proprio la metafora dell’impalcatura per mettere in evidenza il fatto che il cervello ha la capacità di riorganizzarsi. In presenza di particolari condizioni, come ad esempio nuovi apprendimenti o training di potenziamento cognitivo, si costruiscono delle “impalcature” per far fronte ai cambiamenti legati all’età e per sviluppare nuove strutture cerebrali (come la creazione di nuovi circuiti). È stato osservato, attraverso tecniche di neuro imaging che, nelle persone affette ad esempio da demenza, sottoposte, ad un training cognitivo, in cui dovevano risolvere compiti complessi, esse attivavano la corteccia bilaterale pre frontale, preposta alle funzioni esecutive, dimostrando

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PRIMO PIANO

così, la capacità del cervello di auto ripararsi, rafforzarsi e formare nuove connessioni neurali.

Esiste ad esempio una recente teoria che sostiene che il cervello abbia la capacità di riorganizzarsi, di fronte ad un deterioramento cerebrale, creando nuovi circuiti neuronali. Questa teoria, la Scaffolding Theory of Aging and Cognition utilizza proprio la metafora dell’impalcatura per mettere in evidenza il fatto che il cervello ha la capacità di riorganizzarsi.

LA PLASTICITÀ CEREBRALE E LE SINAPSI Partiamo però da principio, parlando di «plasticità cerebrale». Il termine deriva dal greco plastos che significa plasmato/modellato. Tale concetto si riferisce proprio alla incredibile ed intrinseca capacità del sistema nervoso di modificare i propri circuiti, sia dal punto di vista strutturale che funzionale, in funzione dell’esperienza, al fine di apprendere informazioni sull’ambiente oppure, nel caso di danni cerebrali, per ripararli. Eric Kandel, uno dei padri delle neuroscienze moderne, afferma: «Siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo». In altre parole, se il nostro cervello non disponesse di questa speciale proprietà nel corso dello sviluppo, il nostro comportamento sarebbe rigido e stereotipato, non saremmo in grado di apprendere e diventeremmo esseri senza memoria. Tale capacità è una componente chiave nei processi di sviluppo cerebrale durante l’età evolutiva, ma entra anche in gioco in risposta a cambiamenti fisiologici come l’invecchiamento oppure nei casi di patologie neurologiche e/o danni cerebrali (per es. demenze, tumori cerebrali e ictus). I meccanismi principali alla base della plasticità coinvolgono sia modifiche dell’efficienza di trasmissione delle sinapsi (ovvero i collegamenti tra i neuroni) sia la creazione di nuove sinapsi, attraverso un processo che viene definito plasticità sinaptica. L’esperienza esterna genera un cam-

biamento dell’attività elettrica (cioè nervosa) cerebrale che, a sua volta, modifica l’efficacia della trasmissione sinaptica, promuovendone un potenziamento o una riduzione. In quasi ogni struttura cerebrale, una coppia o un gruppo di neuroni possono rafforzare le loro interconnessioni quando sono attivi ripetutamente nello stesso momento, ovvero in maniera sincrona. Questo principio è noto anche come la “legge di Hebb” (1949), uno psicologo canadese che negli anni Quaranta del secolo scorso formulò il primo modello formale dei meccanismi dell’apprendimento. In questo modo si determina, in risposta all’esperienza, la modificazione della funzionalità di un circuito neurale. Alcune modifiche sono rapide, transitorie e reversibili (modifiche a breve termine) e servono per ottimizzare le risposte comportamentali. Si pensi a quando è necessario ricordare un’informazione per svolgere un’attività nell’immediato: per esempio ricordare un numero di telefono implica recuperare l’informazione dal magazzino della memoria e ‘traspor-


PRIMO PIANO

tarla’ per qualche istante nel magazzino della memoria di lavoro, dal quale sparirà appena non sarà più necessaria. Se la modificazione dell’efficacia sinaptica risulta duratura nel tempo (modifiche a lungo termine), ne consegue un cambiamento duraturo a livello anatomico e funzionale dei circuiti stessi. L’INVECCHIAMENTO A questo punto la domanda è d’obbligo: cosa accade con l’invecchiamento? «Innanzitutto c’è da dire che, come ricorda sempre la scuola darwiniana, il grande aggiustamento al nostro ambiente avviene quando siamo piccoli: di cosa avere paura, quali sono i nostri riferimenti, ecc. sono parametri che iniziano anche prima dell’adolescenza. Noi ci diamo una “regolata” su quale sarà il nostro mondo già allora. Poi via via che viviamo le nostre esperienze confrontiamo quanto ci è capitato con la fase iniziale di regolazione. Ovviamente il mondo cambia e l’anziano perde alcune di queste capacità», spiegava tempo fa sul sito della Fondazione BRF

il professor Enrico Alleva, allievo di Rita Levi Montalcini, ex presidente della Società Italiana di Etologia, e presidente della Federazione Italiana delle Scienze Naturali e Ambientali (FISNA), oltreché membro dei consigli scientifici di ANPA, Legambiente, Istituto della Enciclopedia Italiana “Giovanni Treccani”. Sempre in quell’intervista, Alleva spiegava un altro passaggio chiave: «Quello che è sempre stato insegnato, e cioè che la plasticità è massima quando si è molto giovani e si chiude come processo quando si diventa anziani, sostanzialmente non è vero: noi siamo sempre plastici, quello che cambia sono i tempi del «fenomeno plasticità». I tempi con cui “si aggiusta” un anziano sono molto più lunghi dei tempi con cui “si aggiusta” un bambino. Quello che si chiamava “fine del periodo di plasticità”, in realtà non esiste: abbiamo visto, infatti, che il fenomeno della plasticità è sostanzialmente lo stesso, solo molto più lento». Ma c’è anche un altro aspetto: le neuroplasticità, come detto, entra in funzione anche dopo un “infortunio” o una patologia. In questo caso si parla di “plasticità adattiva”. Infatti, in seguito a lesioni cerebrali dovute ad insulti ischemici o tumori caratterizzati da una lenta crescita, anche un soggetto adulto è in grado di compensare una funzione persa oppure di massimizzare una funzione compromessa dalla malattia. Con l’impiego delle tecniche di neuroimmagine, quali la risonanza magnetica funzionale (fMRI), è stata dimostrata, nei soggetti colpiti da ictus, una riorganizzazione funzionale della corteccia motoria primaria, in cui aree motorie dell’emisfero controlaterale

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La plasticità cerebrale si riferisce alla incredibile ed intrinseca capacità del sistema nervoso di modificare i propri circuiti, sia dal punto di vista strutturale che funzionale, in funzione dell’esperienza, al fine di apprendere informazioni sull’ambiente oppure, nel caso di danni cerebrali, per ripararli.


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L’ambiente esterno gioca un ruolo cruciale nell’influenzare la plasticità del cervello in crescita. A lungo, ad esempio, sono stati studiati gli effetti benefici sul cervello dei ratti derivanti dall’arricchimento ambientale.

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o aree motorie secondarie si attivano in modo da compensare la funzione compromessa (Rehme et al 2011). Tale potenzialità può essere sfruttata al meglio per favorire il recupero in seguito a danni cerebrali ed implementare programmi di riabilitazione personalizzati delle funzioni motorie e/o cognitive. Il recupero funzionale delle funzioni danneggiate post-malattia è reso possibile da un semplice fatto: noi non smettiamo mai di apprendere. Nonostante la velocità e l’efficienza di apprendimento diminuiscono nell’età adulta e con l’invecchiamento, il nostro comportamento può essere sempre modificato dalle esperienze che viviamo. Questo fenomeno è noto come “plasticità comportamentale” ed è strettamente connesso all’abilità dell’individuo di essere flessibili ovvero alla capacità cognitiva di modificare strategie attentive, decisionali e comportamentali in un ambiente esterno nuovo o mutevole. L’INFLUENZA DELL’AMBIENTE C’è un altro aspetto, dunque, di cui tenere conto quando parliamo di neuroplasticità. L’ambiente ester-

no gioca un ruolo cruciale nell’influenzare la plasticità del cervello in crescita. A lungo, ad esempio, sono stati studiati gli effetti benefici sul cervello dei ratti derivanti dall’arricchimento ambientale. Qui riassumiamo solo i principali: effetti a livello molecolare (stimolazione dei livelli dei fattori neurotrofici che guidano la crescita neurale nella corteccia visiva, effetti significativi sui sistemi dei neurotrasmettitori che sono le sostanze che veicolano le informazioni tra i neuroni), a livello anatomico (aumento dello spessore corticale) e a livello comportamentale (aumento delle prestazioni di apprendimento e memoria). Adattando lo stesso paradigma sperimentale nell’uomo, si è osservato che il massaggio in neonati nati prematuramente accelera lo sviluppo cerebrale. In particolare, questa semplice azione, apparentemente del tutto insignificante, ha prodotto effetti inaspettati e sorprendenti tra cui una diminuzione del cortisolo, che è l’ormone dello stress, un aumento di peso, un aumento di produzione di fattori neurotrofici, una accelerazione dello sviluppo dell’attività elettrica del cervello, ed infine uno sviluppo precoce della visione.


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INVECCHIARE BENE? SI PUÒ Consigli per allenare la neuroplasticità del cervello

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ome detto nell’articolo precedente dal professor Enrico Alleva, invecchiare non vuol dire perdere la capacità neuroplastica del nostro cervello, quanto invece che procede a un ritmo più lento e blando. Ecco perché alcune pratiche possono tenere in allenamento il nostro cervello. Sappiamo che i fattori principali sono essenzialmente tre: avere una vita con una sua regolarità; avere una vita con una rete affettiva nutrita; avere una regolare e buona alimentazione. Questi sono i tre parametri che la biomedicina contemporanea prescrive, ricordandoci che il picco di probabilità di avere alcune malattie molto invalidanti è intorno agli 85-90, dunque una volta scavallata quell’età la probabilità diminuisce. Il “viaggio” tra i 90 e i 100 è meno complicato rispetto a quello tra gli 85 e i 90. Ma c’è di più. Come scrive la dottoressa Claudia Fabbri sul suo sito, «gli Studi Scientifici in Neuroscienze che si occupano di vari aspetti del cervello e del sistema nervoso, con il contributo di alcune branche della Medicina come la Neurofisiologia, la Biochimica, la Biologia cellulare, la Genetica, la Farmacologia e le Tecniche di Neuroradiologia, sono in grado di indagare a livello molecolare, i processi neurologici e impostare delle ipotesi circa

i comportamenti e la condotta dell’individuo». Grazie al contributo di questi studi, sappiamo oggi con certezza, che è importante attivare delle “strategie cognitive” per mantenere il cervello sempre giovane e attivo. E dunque potrebbe essere molto utile, ad esempio: «imparare una lingua straniera; praticare un nuovo sport; imparare uno strumento musicale; frequentare un ambiente stimolante; coltivare un nuovo hobby; praticare meditazione». Sempre secondo questi studi, tutto ciò dovrebbe essere accompagnato da uno stile di vita sano. La Neuroplasticità dipenderebbe infatti, anche da una serie di fattori come: qualità del sonno, riduzione delle infiammazioni, riduzione dello stress, alimentazione sana. Pertanto, continua la Fabbri, «occorrerebbe ridurre il rischio cardiovascolare, svolgere un’attività fisica in modo costante, essere socialmente attivi, evitare il fumo e l’alcol, mantenere un peso forma stabile nel tempo, e avere pressione, colesterolo e glicemia, entro i parametri di riferimento». Insomma, con l’avanzare dell’età, uno stile di vita sano, che punta sull’attività mentale, fisica e sociale, produce effetti positivi sulle capacità cognitive e protegge dal declino cognitivo e dalla demenza. (C. G.)


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L’INTERVISTA

COSÌ L’AMBIENTE INFLUENZA LA NEUROPLASTICITÀ DEL CERVELLO Intervista a uno dei massimi esperti del tema il prof. Tommaso Pizzorusso

di Carmine Gazzanni

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osa si intende per neuroplasticità e, soprattutto, cosa possiamo fare per mantenere “dinamico” il nostro cervello? Sono, queste, domande che in tanti ci poniamo. Accanto al lavoro dei ricercatori, infatti, sono tante le curiosità che sorgono anche nel vivere quotidiano. È d’altronde impossibile non restare attratti dalla nostra mente, dalle sue capacità e potenzialità, ma anche dai limiti che inevitabilmente sorgono con l’avanzare dell’età. Brain ne ha parlato con uno dei massimi esperti del tema, il professor Tommaso Pizzorusso. Ordinario di Psicobiologia e psicologia fisiologica, ha ricevuto nel 2003 la medaglia per le Neuroscienze del

Presidente della Repubblica e della rivista Le Scienze. Nel 2013, tra le altre cose, gli è stato assegnato il Premio internazionale Schellenberg dell’Institut for Research in Paraplegia. Partiamo da principio, professore. Cosa intendiamo per neuroplasticità del cervello? Per neuroplasticità si intende la capacità del cervello di modificare i propri circuiti e quindi il comportamento in funzione degli stimoli esterni. Può esserci plasticità anche in risposta a lesioni cerebrali. La plasticità può essere adattiva se permette di migliorare il nostro comportamento in una certa situazione (per esempio, imparare un percorso più breve), o maladattiva


L’INTERVISTA

se altera in modo disfunzionale il nostro comportamento (per esempio, il fenomeno della dipendenza da sostanze). Quali sono le conseguenze con l’avanzamento dell’età per questa capacità di adattamento del cervello e, dunque, dell’essere umano stesso? Con l’età i fenomeni di plasticità si riducono sebbene non scompaiano. I livelli di plasticità possono anche essere influenzati dallo stile di vita e dall’attività fisica e cognitiva. Quanto conta allora nella “vita” del cervello l’ambiente circostante? Il cervello risente della stimolazione ambientale durante tutto l’arco di vita: nello sviluppo durante i periodi critici ci permette l’apprendimento della nostra lingua e l’affinamento delle nostre capacità sensoriali motorie e cognitive. L’influenza degli eventi di vita continua nella vita adulta, come dimostrato dalle conseguenze di traumi su aspetti psicologici e psichiatrici. Nell’anziano lo stile di vita è un fattore che può influenzare il decadimento cognitivo. Se dovesse dare dei consigli utili per un sano processo neuro-rigenerativo cosa direbbe? Questa domanda è più adatta a un clinico. La ricerca ci dice che gli effetti della neurodegenerazione possono essere limitati inizialmente da uno stile di vita ricco di stimoli cognitivi e sensoriali e di attività fisica. Parlando di processo neuro-rigenerativo, negli ultimi anni si è fatto un gran parlare delle cellule staminali. Qual è stato l’effettivo supporto di tali teorie? Gli studi sulle cellule staminali

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Tommaso Pizzorusso.

per le lesioni cerebrali sono ancora a livello di ricerca di base. In questi anni si è accelerato troppo nell’applicazione all’uomo. Rimangono un campo interessante a livello potenziale. Qual è l’impatto delle nuove tecnologie e della vita frenetica che spesso oggi si conduce sulla neuroplasticità? Difficile da dire a livello scientifico. Sicuramente i dati della ricerca di base ci dicono che lo stress prolungato è nemico della neuroplasticità, però come valutare l’impatto di variabili difficilmente quantificabili è tuttora una domanda aperta. Che effetto hanno o possono avere invece i sistemi informatici? Anche in questo caso è difficile dare una risposta. I sistemi informatici possono anche essere utilizzati per training utili anche a scopo terapeutico, però allo stesso tempo è chiaro che un loro uso abnorme può indicare un’anomalia comportamentale.

“Il cervello risente della stimolazione ambientale durante tutto l’arco di vita: nello sviluppo durante i periodi critici ci permette l’apprendimento della nostra lingua e l’affinamento delle nostre capacità sensoriali motorie e cognitive”.


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IN PARLAMENTO

ALLARME SUICIDI TRA LE FORZE DELL’ORDINE MOZIONE ALLA CAMERA I parlamentari impegnano il governo in prevenzione e informazione

È

un tema di cui troppo poco si parla, se non raramente in qualche articolo di giornale. Ma ora qualcosa potrebbe cambiare. Un nutrito numeri di parlamentari, infatti, guidato dal deputato di Forza Italia Roberto Novelli ha presentato una mozione con la quale, se dovesse essere votata a maggioranza dall’Aula, si impegnerà il governo a prendere provvedimenti per monitorare e arginare il drammatico fenomeno dei suicidi in divisa. Nelle premesse i parlamentari ricordano che «il suicidio è un fenomeno complesso, multidimensionale, causato dall’interazione di più fattori: biologici, genetici, psicologici, sociali e ambientali. Tali caratteristiche ne rendono difficile la previsione, pur tuttavia la conoscenza e la gestione dei fattori di rischio, può contribuire comunque a ridurre la probabilità dell’atto suicidario». Si ricorda, però, anche che secondo la letteratura scientifica i principali indicatori e fattori di rischio sono rappre-

sentati, tra gli altri, da: comorbilità con una patologia psichiatrica, impulsività, disperazione, storia familiare, vulnerabilità psicologica, comportamento suicidano, life stressors, accesso ad armi, patologia medica grave, abuso di sostanze, disturbi e tratti di personalità. Pur tuttavia, l’evento suicidario non può mai essere completamente ricondotto a fattori acuti e collegati a un particolare momento, ma ad un’evoluzione del disagio nel tempo. Ma c’è di più. Secondo il Rapporto sui suicidi nel mondo pubblicato il 17 giugno 2021 dall’Organizzazione mondiale della sanità, per attuare strategie di prevenzione del suicidio efficaci sono necessari una migliore sorveglianza e un accurato monitoraggio del suicidio e dei tentativi di suicidio. Ciò include la registrazione del suicidio, i registri ospedalieri dei tentativi di suicidio e le indagini dei rappresentanti nazionali che raccolgono informazioni sui tentativi di suicidio auto-riferiti. Ed ecco il punto: se secondo l’Organizza-


IN PARLAMENTO

zione mondiale della sanità il tasso di suicidio nel mondo si attesta intorno a 9 casi ogni 100.000 mila abitanti, 10,5 in Europa e 4,3 in Italia, collocando il nostro Paese tra le ultime posizioni continentali, «ben più alto, sia a livello mondiale che nazionale è il tasso di suicidi tra gli appartenenti alle Forze dell’ordine e alle Forze armate. In Italia, in particolare, si registra uno tra gli scarti più ampi tra il tasso di suicidi tra la popolazione e tra uomini e donne in divisa. Peccato, però, che il fenomeno di fatto non sia monitorato. L’ultimo report risale al 15 settembre 2016, quando nell’Aula del Senato il Governo rispose a un’interrogazione parlamentare: l’allora Sottosegretario all’interno comunicò che dal 2009 al 2014 gli eventi suicidari tra i componenti dei cinque corpi di Polizia nazionali risultavano essere 254, per una media di 0,8 a settimana, così suddivisi: 62 nella Polizia di Stato, 92 tra i Carabinieri, 45 in Guardia di finanza, 47 in Polizia penitenziaria, 8 nel Corpo forestale.

Secondo l’«Osservatorio suicidi in divisa» nel corso del triennio 20192021 il numero di eventi suicidari tra appartenenti alle Forze di polizia e delle Forze armate sarebbe rispettivamente di 69, 51 e 57, per un totale di 177, con una media superiore a un evento suicidano a settimana. Non solo: nelle prime sei settimane del 2022, secondo il citato Osservatorio, si sono verificati 7 eventi suicidari, confermando la media riportata in precedenza, pari a circa un evento a settimana. Il problema, però, rivelano i parlamentari, è che «secondo altre fonti il numero di eventi suicidari risulterebbe differente da quello indicato dall’Osservatorio, con ciò confermando la difficoltà nella raccolta dati da parte di organismi non istituzionali, anche in ragione delle diverse metodologie e classificazione adottate». Secondo fonti interne e in assenza di approfondimenti specifici, le ipotesi sull’origine dell’alto numero di suicidi tra gli uomini e le donne in divisa sono:

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Secondo fonti interne e in assenza di approfondimenti specifici, le ipotesi sull’origine dell’alto numero di suicidi tra gli uomini e le donne in divisa sono: burnout, stress correlato, mancanza di mezzi, strutture inidonee, carichi di lavoro eccessivi dovuti alla mancanza di organico, stipendi inadeguati, scarsa collaborazione tra colleghi o situazioni di mobbing, oltre a problematiche di natura personale.


18 Brain Mar 2022

I parlamentari, con la mozione, impegnano il governo tra le altre cose a «realizzare un monitoraggio annuale degli eventi suicidari tra le Forze di polizia e le Forze armate, con classificazioni per Corpo di appartenenza, grado, genere, età, modalità, e renderne pubbliche le risultanze». Non solo. Sono previsti ulteriori provvedimento che vanno dalle indagini amministrative alla formulazione di linee guida da seguire in caso di presenza di segnali preoccupanti.

IN PARLAMENTO

burnout, stress correlato, mancanza di mezzi, strutture inidonee, carichi di lavoro eccessivi dovuti alla mancanza di organico, stipendi inadeguati, scarsa collaborazione tra colleghi o situazioni di mobbing, oltre a problematiche di natura personale. C’è da dire che «nel corso degli anni sono state adottate misure di contrasto al fenomeno, tra cui numeri verdi da chiamare in forma anonima o consulenze psicologiche e psichiatriche rese da professionisti interni alle Forze di polizia o Forze armate o convenzionati con essi». Ma a quanto pare manca una strategia strututturale. Nel dicembre 2021 l’Istituto superiore di sanità ha pubblicato un lavoro dal titolo «Il fenomeno suicidario in Italia. Aspetti epidemiologici e fattori di rischio», nel quale si legge che «politiche di prevenzione efficaci devono prevedere un approccio di tipo multisettoriale che tenga conto dei potenziali fattori di rischio a livello di contesto sociale, economico e relazionale del soggetto. Inoltre, una strategia nazionale di prevenzione risulterà essere più efficace se implementata sulla base dell’individuazione dei principali fattori di rischio a livello locale con interventi mirati anche a livello di comunità». Tali suggerimenti sono riferiti agli eventi suicidari in generale, ma possono essere agevolmente trasposti nella sottocategoria degli eventi suicidari «in divisa». Proprio per questa ragione i parlamentari, con la mozione, impegnano il governo tra le altre cose a «realizzare un monitoraggio annuale degli eventi suicidari tra le Forze di polizia e le Forze armate, con classificazioni per Corpo di appartenenza, grado, genere, età, modalità, e renderne

Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio, Roma.

pubbliche le risultanze»; «promuovere indagini amministrative accurate finalizzate ad individuare le cause degli eventi suicidari tra gli appartenenti alle Forze di polizia e alle Forze armate, avvalendosi delle competenze del mondo accademico e delle associazioni attive nell’ambito del fenomeno»; «individuare, con il supporto di esperti e sentite le rappresentanze degli operatori delle Forze dell’ordine e delle Forze armate, adeguate strategie di contrasto e prevenzione del fenomeno, a partire dall’identificazione dei fattori di rischio, dall’intercettazione dei segnali e degli eventi predittivi e dal corretto utilizzo dei servizi di consulenza e supporto»; «definire linee guida pratiche da seguire in presenza dei sopracitati segnali ed eventi predittivi per affrontare la situazione degli ufficiali in stati di crisi suicidarie imminenti o acute»; e infine «adottare iniziative per potenziare i servizi di consulenza psicologica effettuati da personale medico non appartenente alle Forze di polizia e alle Forze armate». (C. G.)


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GUERRA IN UCRAINA COME STA REAGENDO LA NOSTRA PSICHE? Così la paura “ci aiuta” a trovare soluzioni

di Valentina Formica


FOCUS

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e guerre, così come le epidemie e le catastrofi ambientali, hanno sempre portato conseguenze a livello geografico, politico, sociale, ma anche psicologico. Paura, impotenza, rabbia, questi vissuti dopo due anni di pandemia si riaccendono ora di fronte all’invasione russa dell’Ucraina. Di fronte alle immagini di guerra la paura è la prima emozione che ci assale e si va ad aggiungere a quella già ampiamente sperimentata durante la pandemia cambiando l’atmosfera della nostra mente. Feste, musica, viaggi, tutto ciò che prima rappresentava un momento di allegria, di svago, spesso oggi quasi ci infastidisce. Il rischio “burnout” è concreto, a causa della stanchezza emotiva accumulata in due anni di tensioni e privazioni. Più volte durante questi due anni di pandemia sono stati suggeriti da parte dei professionisti della salute mentale dei piccoli accorgimenti per tenere sotto controllo il fiume di emozioni provocato dalla situazione pandemica, dal cercare di evitare il controllo compulsivo di numeri ed eventi, a piccoli esercizi per placare l’escalation dell’ansia e degli attacchi di panico. Ad oggi, sono molte le persone che stanno sperimentando un forte rialzo dell’ansia, sentimenti di impotenza, grande paura per il conflitto tra Russia e Ucraina, che ci ha avvicinati ad una realtà di guerra fino a pochi giorni fa lontana dalla nostra idea di Europa. Avevamo eliminato la guerra dal nostro modo di pensare, la consideravamo una calamità lontana, una possibilità remota, quasi priva di significato reale. Questo conflitto ha rotto questa nostra interiorizzazione della guerra


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Di fronte alle immagini di guerra la paura è la prima emozione che ci assale e si va ad aggiungere a quella già ampiamente sperimentata durante la pandemia cambiando l’atmosfera della nostra mente. Feste, musica, viaggi, tutto ciò che prima rappresentava un momento di allegria, di svago, spesso oggi quasi ci infastidisce. Il rischio “burnout” è concreto, a causa della stanchezza emotiva accumulata in due anni di tensioni e privazioni.

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che si è creata nel corso di decenni. Nel famoso libro Perché la guerra?, raccolta di lettere tra Sigmund Freud e Albert Einstein, il padre della psicanalisi si chiede perché ci indigniamo contro la guerra. La risposta che fornisce è: “perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre, la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti”. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. Continua Freud: “la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo non farlo. Siamo pacifisti perché lo dobbiamo essere per ragioni organiche. Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo di civilizzazione. Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e una buona parte di ciò di cui soffriamo”. Il vivere civile è qualcosa di superiore rispetto all’assecondare i propri istinti più naturali, i quali non permettono costruzione e sviluppo alcuno. La vita civile richiede la sublimazione degli impulsi, ovvero la deviazione dell’obiettivo di una pulsione – per esempio di distruzione – verso un qualcosa che contribuisce in modo positivo allo

sviluppo dell’umanità o della propria persona senza contraddire le norme sociali. Questi comportamenti acquisiti producono nell’uomo modificazioni fisiche e psichiche. Sensazioni che per i nostri antenati erano cariche di piacere sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili. É questo che intende Freud per “siamo pacifisti perché lo dobbiamo essere per ragioni organiche”. Dice Freud “la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, così che dobbiamo ribellarci contro di essa, non la sopportiamo più, non è soltanto un rifiuto intellettuale e affettivo, è un’intolleranza costituzionale, il massimo dell’idiosincrasia”. E di fronte a questa idiosincrasia, a questo evento traumatico sono vari i funzionamenti reattivi sperimentati dall’uomo. La sintomatologia che si registra riporta momenti ansiosi, depressivi, difficoltà di concentrazione, astenia, pensieri


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intrusivi, somatizzazioni, disturbi del sonno. Sono stati d’animo generali, che tutti quanti proviamo, anche se in misura differente, quelli di paura, sofferenza, senso di impotenza, rabbia e terrore, che in interazione con i nostri schemi personali, la nostra storia di vita producono effetti diversi su ognuno di noi. Queste emozioni non sono sbagliate, sono assolutamente fisiologiche, diventano maladattive quando non si riesce a trovare un equilibrio, quando la loro frequenza e intensità oltrepassa certi limiti e non ci permette di portare avanti le nostre attività quotidiane. In molti ad oggi riportano incubi legati alla guerra, di sognare esplosioni, rifugiati nei bunker, morte e distruzione. Molte le persone che faticano ad addormentarsi e che durante il giorno sperimentano un bisogno compulsivo di controllare le notizie, i social. Alcuni si svegliano di soprassalto convinti che gli sia scoppiata una bomba sotto casa per poi

rendersi conto che si trattava soltanto del passaggio di un tram, quello che da anni passa sotto la loro finestra, ma che ora ha assunto un significato diverso. Oggi il rapido accesso alle notizie ci permette di essere sempre aggiornati in tempo reale, allo stesso tempo l’alta frequenza e disponibilità di contenuti legati al conflitto in atto può dare via alla costruzione mentale di scenari catastrofici, far sì che le nostre paure prendano forma. L’uomo collega elementi della propria vita a quelli dell’informazione a cui assiste, associa e connette le proprie esperienze con dettagli che hanno fatto breccia nella sua mente. Il carico emotivo di questo periodo è forte e anche in questa situazione valgono quegli accorgimenti per placare l’ansia di cui parlavamo prima. Vale sentire di aver bisogno di tempo, di luce, di svago, di supporto, ascoltarci, ascoltare le nostre emozioni. La paura, infatti, in quanto emozione rappresenta un insieme di risposte fisiologiche che si manifestano in modo più o meno cosciente quando il nostro cervello rileva un particolare tipo di stimoli nel nostro ambiente. È un’emozione particolarmente interessante per gli studiosi, perché molto importante per la nostra sopravvivenza, quando ben gestita ci mantiene al sicuro, inoltre può rappresentare la spinta necessaria per generare un cambiamento. La paura ha permesso di generazione in generazione la sopravvivenza umana. Non potendo eliminare totalmente i rischi, il nostro organismo ci permette attraverso l’ascolto delle nostre emozioni, come la paura, di mettere in atto risposte adattive, aiutandoci a prendere decisioni e trovare soluzioni.

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Freud: “la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo non farlo. Siamo pacifisti perché lo dobbiamo essere per ragioni organiche. Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo di civilizzazione. Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e una buona parte di ciò di cui soffriamo”.


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CONTRIBUTO

NASCITA DELLA NEUROETICA (TERZA PARTE): DAL DNA AL NEURONE Premesse alla cornice di riferimento che dalla biofisica e dalle neuroscienze era giunta alla bio-etica

di Alberto Carrara Direttore del Gruppo di Neurobioetica (GdN) dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Docente di Neuroetica presso la Facoltà di Psicolofia dell’Università Europea di Roma, Membro della Pontificia Accademia per la Vita, Fellow dell’UNESCO Chair in Bioethics and Human Rights e Presidente dell’Istituto Internazionale di Neurobioetica.

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uesto è il mese della cosiddetta “Settimana Mondiale del Cervello” stabilita nel 1995 dalla DANA Foundation quale Brain Awareness Week. Questa iniziativa si caratterizza per essere una vera e propria campagna globale che ha il fine di sensibilizzare l’opinione pubblica circa le ricerche relative all’organo più misterioso della nostra corporeità, o per dirla nei termini di Steven Rose, l’organo più enigmatico dell’Universo: il cervello umano. Quest’anno le date stabilite vanno dal 14 al 20 marzo. Il Gruppo di ricerca in Neurobioetica (GdN) e l’Istituto Internazionale de Neurobioetica (IINBE) organizzeranno una settimana di eventi che spazieranno

dal Neuro-Covid alla robo-etica, dal Neuro-Sport agli aspetti neuropsichiatrici infantili. In questo terzo contributo che sta delineando la nascita della neuro-etica, traiamo ulteriori premesse all’ampia cornice di riferimento che dalla biofisica e dalle neuroscienze era giunta alla bio-etica. Nell’ultimo ventennio si è diffuso, tanto nella divulgazione, come nella letteratura scientifica, il neologismo neuro-etica. Tale termine si compone di due ambiti di conoscenza: da una parte, le neuroscienze; dall’altra, l’etica, cioè quella dimensione umanistica del pensiero umano che si rifà alla filosofia. Il termine neuroetica contiene perciò in sé stesso le due direzioni


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complementari di analisi della realtà delle neuroscienze che mettono in luce una comprensione di tipo duale. Per un verso, sulla scia della bioetica, la neuroetica considera le questioni di natura etica, cioè riflette su ciò che è buono/cattivo in merito agli sviluppi ed applicazioni all’essere umano delle neuroscienze e neurotecnologie. D’altro canto, essa prende in considerazione come la visione d’insieme sullo sviluppo, struttura e funzione del sistema nervoso umano, ed in particolare del cervello, possa contribuire ad approfondire gli aspetti della nostra umanità e a chiarire ulteriormente dimensioni quali la coscienza, la volontà libera, l’affettività, le emozioni, l’intersoggettività, eccetera. Lungo il trascorrere del secolo XX la primazia della ricerca sul DNA si è spostata verso quella relativa al neurone. In effetti, il professor Francis Collins, uno dei promotori del Progetto Genoma Umano (PGU), utilizzò l’analogia con questa colossale rivoluzione dell’umanità, traslandola alla ricerca neuroscientifica: allo stesso modo in cui i grandi colossi pubblici e privati ci avvicinarono sempre più al grande mistero della vita (il genoma umano) e, ciò che prima veniva considerato un enigma, ora è un qualcosa di accessibile, così gli sviluppi tecnologici nell’ambito delle immagini di risonanza magnetica funzionale ci stanno approssimando sempre più al grande rompicapo della mente umana (F. S. Collins, ¿Cómo habla Dios?: la evidencia científica de la fe, Temas de Hoy, Madrid 2007). Dagli studi di elettrostimolazione della corteccia cerebrale degli anni Venti, alle sperimentazioni naziste, sino all’introduzione della clorpro-

macina negli anni Cinquanta, il panorama neuroscientifico iniziò a presentare un volto ambiguo: da una parte, la ricerca contribuiva alla scoperta di nuove informazioni e conoscenze relative alla struttura e al funzionamento del sistema nervoso centrale; dall’altra, emergevano inquietanti interrogativi etici relativi alla possibilità di manipolare il cervello e, tramite esso, di alterare la mente umana. Non è casuale il fatto che la Society for Neuroscience, nata nel 1969, abbia integrato, sin dal 1972, alle questioni prettamente tecnico-scientifiche, quelle di natura etica e sociale riguardanti le sperimentazioni e le applicazioni neuroscientifiche. Dagli antichi egizi ai nostri giorni, uno dei dati significativi che emerge dalla storia delle neuroscienze è che il cervello risulta strettamente associato al comportamento tanto che danni ce-

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Il termine neuroetica contiene perciò in sé stesso le due direzioni complementari di analisi della realtà delle neuroscienze che mettono in luce una comprensione di tipo duale.


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Dagli antichi egizi ai nostri giorni, uno dei dati significativi che emerge dalla storia delle neuroscienze è che il cervello risulta strettamente associato al comportamento tanto che danni cerebrali vengono correlati ad alterazioni di specifiche attività psichiche e viceversa. Alterare il cervello equivale ad alterare la persona umana in uno dei suoi nuclei più significativi e costitutivi.

CONTRIBUTO

rebrali vengono correlati ad alterazioni di specifiche attività psichiche e viceversa. Alterare il cervello equivale ad alterare la persona umana in uno dei suoi nuclei più significativi e costitutivi. Le neuroscienze risultano possedere uno statuto epistemologico duale definito con il termine neuropsicologico, proprio per lo studio di correlazioni causali tra attivazioni cerebrali ed eventi psichici. Il loro settore di indagine sono i fenomeni psicosomatici, cioè lo studio degli eventi mentali nel loro statuto neurale (J. J. Sanguineti, Neuroscienza e filosofia dell’uomo, EDUSC, Roma 2014, 24-25). Oggigiorno le principali patologie neurodegenerative, Alzheimer e morbo di Parkinson, non hanno una soluzione terapeutica risolutiva. Al fine di comprendere la struttura e le funzioni cerebrali e poter trovare possibili strategie terapeutiche, furono varati a livello mondiale: la Decade del Cervello (1990-2000), quella della Mente (2001-2011), dal 2013 il progetto europeo The Human Brain Project e quello statunitense The BRAIN Initiative. Negli ultimi anni, altri paesi, tra i quali Canada, Cina, Giappone, Corea del sud e Australia, hanno stabilito linee di ricerca prioritarie riguardanti le neuroscienze. A livello globale, si stima che i finanziamenti per gli studi sul cervello ammontino ad oltre sette miliardi di dollari (Global Neuroethics Summit Delegates - K. S. Rommelfanger - S. J. Jeong - A. Ema - T. Fukushi - K. Kasai - K. M. Ramos - A. Salles - I. Singh, «Neuroethics Questions to Guide Ethical Research in the International Brain Initiatives», Neuron 100(2018), 19-36). Concluso il 2014 – l’Anno Euro-

peo del Cervello – è importante sottolineare un dato sempre più emergente: «il cervello è il convitato di qualunque umanesimo» (S. M. Aglioti - G. Berlucchi, Neurofobia. Chi ha paura del cervello?, Prefazione, Raffaello Cortina, Milano 2013, 11), come scrivono nella prefazione al loro intrigante volume Neurofobia. Chi ha paura del cervello? il neuroscienziato cognitivo Salvatore Maria Aglioti e il fisiologo Giovanni Berlucchi, libro pubblicato dalla Collana diretta da Giulio Giorello Scienza e Idee dalla Raffaello Cortina Editore (Milano 2013). Gli autori di Neurofobia precisano la loro lapidaria affermazione che potrebbe suscitare allarmanti visioni neuro-essenzialiste in questi termini: «Non ci possono essere dubbi sul fatto che i nostri comportamenti, sia consci sia inconsci, e le nostre interazioni con l’ambiente animato e inanimato dipendano dal funzionamento del cervello. Tuttavia, la tesi secondo cui l’impatto delle neuroscienze contemporanee avrebbe indotto un’esagerata “neurologizzazione” della condizione umana sta suscitando accese discussioni nella comunità scientifica e nel dibattito culturale contemporaneo. Il pericolo della (neuro)mania sarebbe testimoniato dall’indebito uso del prefisso “neuro” per designare qualsiasi attività umana. Per i censori dei presunti neuromaniaci tale atteggiamento rischia non solo di sottrarre lo studio della mente alla psicologia, ma anche di far sì che il cervello, supposta quintessenza del riduzionismo e del determinismo della scienza, si candidi arrogantemente a spiegare chi siamo» (S. M. Aglioti - G. Berlucchi, Neurofobia. Chi ha paura del cervello?, Prefazione, Raffaello Cortina, Milano 2013, 11).


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Cure palliative in ospedale UN DIRIT TO DI TUT TI


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AMMALARSI IN OSPEDALE Così le infezioni popolano le corsie degli reparti

di Andrea Zanotto


L’INCHIESTA

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Nell’Unione Europea una persona su venti – secondo le stime dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) – contrae un’infezione all’interno di una struttura sanitaria. Sono 4,1 milioni di pazienti all’anno: 37mila di loro non sopravvivono. Uno studio pubblicato da Plos Medicine può darci un utile termine di confronto: l’impatto di sei delle più tipiche infezioni correlate all’assistenza è superiore a quello di malattie infettive come l’influenza, l’Hiv/Aids e la tubercolosi. Non è poi da sottovalutare l’impatto economico: le infezioni correlate all’assistenza (ICA) obbligano a prolungare le degenze, sono causa di disabilità: aggravano pazienti, famiglie e sistemi sanitari di cifre che l’organizzazione Mondiale della Sanità quantifica in 7 miliardi di euro in Europa e tra i 28 e 45 miliardi di dollari negli Stati Uniti. Inevitabile pensare a Ignác Fülöp Semmelweis, il medico ungherese la cui triste storia è stata raccontata – nella tesi di laurea – da Louis-Ferdinand Céline. Semmelweis aveva notato come la febbre puerperale – causa della morte di circa il 40% delle donne che partorivano in ospedale – colpisse le donne visitate da medici provenienti da una sala operatoria dove avevano eseguito un’autopsia senza protezione e senza lavarsi oppure che avevano prima visitato una donna infetta. La scoperta non venne riconosciuta dalla comunità scientifica e Semmelweis, internato in manicomio, morì nel 1865. Il contesto, ovviamente, è del tutto diverso ma è singolare come tutti, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, siano convinti che l’au-


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Uno studio pubblicato da Plos Medicine può darci un utile termine di confronto: l’impatto di sei delle più tipiche infezioni correlate all’assistenza è superiore a quello di malattie infettive come l’influenza, l’Hiv/Aids e la tubercolosi. Non è poi da sottovalutare l’impatto economico: le infezioni correlate all’assistenza (ICA) obbligano a prolungare le degenze.

L’INCHIESTA

mento delle infezioni all’interno degli ospedali si possa arginare anche convincendo tutti gli operatori sanitari della necessità di accurati e frequenti lavaggi delle mani. Altro fattore causa delle infezioni correlate all’assistenza è la diffusione di microrganismi resistenti agli antibiotici (AMR). Il fenomeno può riguardare tutti i tipi di farmaci antimicrobici: antibiotici, antifungini, antivirali, antiparassitari. Nonostante non si disponga di stime precise e molti degli sforzi siano indirizzati proprio all’implementazione di strumenti che permettano un costante e uniforme monitoraggio internazionale del fenomeno, uno studio promosso dal governo britannico ha calcolato che l’AMR sia causa di circa 50mila decessi l’anno in Europa e negli Stati Uniti. È stato inoltre stimato che, in assenza di interventi efficaci, il numero di infezioni complicate da AMR potrebbero arrivare, nel 2050, a essere la causa di morte, ogni anno, per 10 milioni di persone. In Italia è lo stesso Istituto Superiore di Sanità a sottolineare come la resistenza agli antibiotici sia tra le più elevate d’Europa, quasi sempre al di sopra della media. In uno studio di prevalenza condotto negli ospedali italiani per acuti si è osservato come le infezioni maggiormente riscontrate siano: respiratorie (22,8%), batteriemie (18,3%), urinarie (18%), del sito chirurgico (14,4%). Per quanto riguarda i microrganismi coinvolti, su 67 tipologie di patogeni identificati, Escherichia coli (13%), Klebsiella pneumoniae (10,4%), Pseudomonas aeruginosa (8,1%), Staphylococcus aureus (8,9%) e Staphylococcus epidermidis

(6,3%) rappresentano più del 45% di tutti gli isolamenti, spesso identificati come multi-resistenti. I dati raccolti dal Ministero della Salute mostrano come in Italia il fenomeno della resistenza agli antibiotici, soprattutto nella specie batterica Klebsiella pneumoniae, sia diventato una seria minaccia per la salute pubblica, tanto da rappresentare una buona parte dei circa 10mila morti l’anno causati dall’AMR. Un fenomeno purtroppo in aumento, come evidenziato nel rapporto di sorveglianza “Bloodstream infections due to carbapenemase-producing Enterobacteriaceae in Italy: results from nationwide surveillance, 2014 to 2017”, pubblicato nel 2019 su Eurosurveillance (Europe’s journal on infectious disease surveillance, epidemiology, prevention and control). I casi segnalati di batteriemie da Klebsiella pneumoniae e Escherichia coli sono passati dai circa 1400 casi nel 2014 a più di 2000 nel 2017, con un tasso di incidenza che nel 2017 ha raggiunto 3,6 casi su 100mila residenti. Principalmente si tratta di uomini ultrasessantenni (71%), ospedalizzati (87,2%) e ricoverati nei reparti ad


L’INCHIESTA

alta intensità di cura: terapia intensiva (38%), medicina generale (13,8%), chirurgia (11,3%). Nel 9,9% dei casi i sintomi si sono invece manifestati a casa o in una residenza sanitaria assistenziale (2,9%). Per contrastare l’aumento delle infezioni correlate all’assistenza si dovrebbe passare da una forma di sorveglianza “passiva” (il medico è obbligato a segnalare i casi riscontrati) sostanzialmente basata sull’attesa dell’evento a una forma di sorveglianza “attiva”, condotta nei reparti di degenza, ma anche in altri ambiti assistenziali, da personale specializzato nel controllo delle infezioni. Ciò permetterebbe di raccogliere i dati in modo continuo e sistematico, permettendo di limitare e contrastare la diffusione di una malattia. Nonostante ciò sia ormai chiaro, non tutti i Paesi si sono allineati: nel 2020 solo quarantadue Paesi ad alto reddito (30,4%) e sette a reddito medio-alto (12,5%) avevano implementato un sistema di sorveglianza nazionale per le ICA.

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ICA Le Infezioni Correlate all’Assistenza (ICA) sono dovute a batteri, funghi, virus o altri agenti patogeni meno comuni, contratte durante l’assistenza sanitaria in qualsiasi contesto assistenziale (ospedali, ambulatori di chirurgia, centri di dialisi, lungodegenze, assistenza domiciliare, strutture residenziali territoriali) e che al momento dell’ingresso nella struttura o prima dell’erogazione dell’assistenza non erano manifeste clinicamente, né erano in incubazione.

Trasmissione delle infezioni La trasmissione delle infezioni correlate all’assistenza possono avvenire in diversi modi: contatto diretto tra una persona sana e una infetta, soprattutto tramite le mani degli operatori; via droplet, contatto tramite le goccioline emesse con tosse e starnuti da una persona infetta; via aerea, attraverso microrganismi di piccole dimensioni che rimangono sospesi nell’aria per lunghi periodi di tempo; contatto indiretto attraverso un veicolo contaminato (per esempio endoscopi o strumenti chirurgici); trasmissione dell’infezione a più persone attraverso un veicolo comune contaminato (cibo, liquidi di infusione, ecc).

In uno studio di prevalenza condotto negli ospedali italiani per acuti si è osservato come le infezioni maggiormente riscontrate siano: respiratorie (22,8%), batteriemie (18,3%), urinarie (18%), del sito chirurgico (14,4%). Per quanto riguarda i microrganismi coinvolti, su 67 tipologie di patogeni identificati, Escherichia coli (13%), Klebsiella pneumoniae (10,4%), Pseudomonas aeruginosa (8,1%), Staphylococcus aureus (8,9%) e Staphylococcus epidermidis (6,3%) rappresentano più del 45% di tutti gli isolamenti, spesso identificati come multi-resistenti.


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FOCUS BRF - L’INTERVISTA

«COSÌ HO COMINCIATO A DISEGNARE I DISTURBI DELL’ALIMENTAZIONE» Parla la vignettista Federica Laino: «Ecco il mio intimo rapporto con la salute mentale»

di Chiara Andreotti

«I

l disegno è per me un modo di esorcizzare alcune emozioni, di dare loro voce, di fare pace con loro e condividerle». Parliamo di una delle forme più pure di espressione: permette a tutti di mettere nero su bianco una sensazione, un’emozione, un ricordo. Per i bambini questo è il primo approccio nella manifestazione dei loro pensieri. Anche Federica Laino, illustratrice e grafica, racconta di aver iniziato proprio così: «Disegno da quando ne ho memoria. Nella visione poetica - e al contempo buffa - della mia vita, penso di aver lanciato il primo vagito per chiedere un foglio e una matita». Federica, solare ed energica, creativa e ironica, con mille passioni e

interessi è riuscita a trasformare la passione per il disegno nel suo lavoro. «È stato un passaggio tanto naturale quanto inconsapevole - racconta a Brain - Ho sempre amato disegnare, ed ogni occasione era sempre buona per farlo: dai biglietti fatti a mano per le ricorrenze, alle caricature e altre creazioni personalizzate. Mi è sempre piaciuto creare, in generale, oltre a disegnare, e fin da piccola mi son portata al petto la spilletta di ‘quella brava a disegnare’. Non credo di aver mai realmente riconosciuto e valorizzato questo talento: era parte di me, un mio modo di esprimermi e di donare agli altri qualcosa di unico e personale. Sono stati gli altri ad avermi riportata, ciclicamente, a valorizzare questo mio dono: il lavoro è venuto


FOCUS BRF - L’INTERVISTA

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Federica Laino.

a cercarmi. All’inizio affiancavo sporadiche commissioni al mio lavoro principale nella Comunicazione; poi, qualche anno fa, ho capito che avrei dovuto dare più spazio a questa parte di me, anche professionalmente, e quindi ho deciso di espormi e di farne ufficialmente un lavoro». Cosa contraddistingue il tuo stile? Uso le parole di un amico: ‘sono illustrazioni che fanno bene all’anima, la fanno sentire leggera’. Amo questa visione ed è in questa direzione che mi proietto quando creo. Che si tratti di illustrazioni o vignette divertenti, l’intento è sempre quello di far sorridere. Il mio stile è contraddistinto da linee semplici e delicate, con un tratto a volte infantile. Uso principalmente il bianco e il nero, sia

in digitale che su carta, a cui spesso affianco uno o due colori. Quali sono le emozioni da cui ti lasci ispirare? Le mie illustrazioni sono ispirate da tutte le emozioni che vivo, indistintamente: dalla gioia, dal senso di meraviglia e di unione che provo quando sono in natura, da tutto quello che emerge con l’introspezione, dal senso di euforia che provo quando mi metto in viaggio verso una nuova meta. Sono molto affascinata dall’ignoto, da ciò che sento e che non conosco, dalle domande che portano ad altre domande. Mi ascolto molto, e negli anni mi sono costruita una cassetta degli attrezzi fatta principalmente di Yoga, meditazione, cammino e movimento, di viaggi

“Le mie illustrazioni sono ispirate da tutte le emozioni che vivo, indistintamente: dalla gioia, dal senso di meraviglia e di unione che provo quando sono in natura, da tutto quello che emerge con l’introspezione, dal senso di euforia che provo quando mi metto in viaggio verso una nuova meta”.


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Federica, solare ed energica, creativa e ironica, con mille passioni e interessi è riuscita a trasformare la passione per il disegno nel suo lavoro. “È stato un passaggio tanto naturale quanto inconsapevole racconta a Brain - Ho sempre amato disegnare, ed ogni occasione era sempre buona per farlo: dai biglietti fatti a mano per le ricorrenze, alle caricature e altre creazioni personalizzate”.

FOCUS BRF - L’INTERVISTA

in culture lontane, che mi accompagnano in questo viaggio di auto-conoscenza, e che rendono sempre più aperta la mia mente, stimolando allo stesso tempo la mia creatività. Amo stare da sola, anche quando le emozioni sono pesanti e scomode, perché credo che per stare davvero bene con noi stessi, e di conseguenza con gli altri, è anche nell’ombra che dobbiamo imparare a stare, perché non c’è luce senza ombra. Il disegno è per me un modo di esorcizzare alcune emozioni, di dare loro voce, di pacificare con loro e condividerle. Dall’altro lato, il disegno è anche un modo per vedere con ironia ciò che di diversamente piacevole mi accade, e che spesso trasformo in piccoli fumetti. Non sono per la positività tossica né per la superficialità, ma - laddove posso - faccio del mio meglio per vivere in modo positivo e leggero, inteso non nell’accezione superficiale del termine. Ti senti stimolata anche da quelle che sono comunemente ritenute emozioni negative? Decisamente si. Quello che ho notato negli ultimi anni è che, nei momenti di sofferenza c’è sempre una prima fase in cui non riesco neppure a prendere in mano la matita, in cui devo soltanto stare con me, con quello che c’è in quel momento, come se tutte le forze e le attenzioni dovessero rivolgersi in un’unica direzione, per evitare di disperdere energie preziose. Poi arriva una seconda fase, in cui all’improvviso sento il bisogno di esternare, di canalizzare quello che ho provato, vissuto, sentito, compreso, o quello che ancora è rimasto sospeso: il disegno trasforma la rabbia e le emozioni negative. È

come una meditazione attiva. Come giudichi il tuo rapporto con la salute mentale? Intimo. Un rapporto che definirei intimo. In adolescenza sono stata vittima di bullismo, e questo mi ha portata ad incontrare il supporto psicologico molto presto. Ritengo sia stato fondamentale nella mia crescita - o meglio, per crescere serenamente perché quando non si hanno gli strumenti per capire che il tuo carnefice è molto spesso la vittima, il rischio di vivere nell’eterna ombra, nel vittimismo, sentendoti sempre sbagliato e non all’altezza sarebbe troppo alto. Nonostante all’epoca di percorsi di psicoterapia se ne parlasse meno apertamente, almeno nella mia realtà, non mi sono mai vergognata per aver sentito il bisogno di chiedere aiuto. Per alcuni anni ho interrotto, fino a quando non ho capito che qualcosa non andava; questa volta, però, il carnefice era al mio interno. L’ansia, il respiro mozzato, la depressione sono stati le grida del mio corpo per comunicarmi che ci fosse qualcosa su cui dovevo portare l’attenzione. Ho sempre avuto disturbi d’attenzione e difficoltà nella propriocezione. Dopo il bullismo, però, li ho affrontati in silenzio: studiavo di più, sacrificavo più tempo, mascheravo come potevo, laddove potevo. Fino a quando non sono entrata nel mondo del lavoro: i metodi che mi ero costruita per eccellere nello studio non reggevano più; lo stress e il dover essere super performante, la presa di coscienza che qualcosa stesse disturbando la mia salute mentale, mi hanno fatto tornare a chiedere aiuto, a cercare delle risposte a livello clinico. Risposte che ho trovato dopo un tortuoso


FOCUS BRF - L’INTERVISTA

percorso di ricerca e visite specialistiche, e che sono sfociate nella diagnosi della Sindrome di IRLEN. Tutto ha iniziato ad avere un senso, e allo stesso tempo tutto è crollato: avevo dato un nome a ciò che forse da sempre mi aveva accompagnata, ma poi? Quale valore aggiunto dà un’etichetta? Quando un disturbo ti colpisce a livello cognitivo, ma tu hai imparato a nasconderlo con tutte le tue forze, non puoi fermarti: agli occhi degli altri stai bene, sei capace, sei brillante; gli occhi degli altri non vedono, soprattutto se a non voler vedere sei proprio tu. E con il cibo? Con il cibo ho sempre creduto di aver un rapporto normale, qualunque cosa questo aggettivo possa significare. Vengo da una famiglia del sud, dove il cibo è un collante molto forte. Non è semplice convivialità. È sinonimo di affetto, di apprezzamento. Non è mai soltanto cibo. Come nei DCA, è enciclopedia di tantissime emozioni, di messaggi che a parole non si riescono ad esprimere. Ho sempre mangiato serenamente, senza nessun tipo di privazione o eccesso. Questo fino a quando non ho iniziato a lavorare, e nello stesso momento ho ricevuto la diagnosi della IRLEN. L’inizio del lavoro, dopo il master, è coinciso con le ricerche di un terapeuta, di un neurologo, di un logopedista, non ricordo neppure più gli specialisti a cui, senza dir nulla a nessuno, mi sono rivolta cercando delle spiegazioni a quei vuoti in cui la mia mente mi catapultava. Vuoti che in pochissimo tempo il cibo ha saputo riempire tutti. All’inizio non lo percepisci come un problema: è fame nervosa, ti dici, ti dicono. Poi gli epi-

sodi aumentano, il modo di mangiare cambia: non mangi più soltanto per fame o per gola, mangi per fare silenzio, per sentire calore, per annientare quel dolore di cui non conosci l’origine, perché in fondo, se non ti manca nulla non hai il diritto di soffrire. E allora ti senti ulteriormente in colpa, e ti punisci. Così in un attimo diventa un loop da cui sembra impossibile

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“Quello che ho notato negli ultimi anni è che, nei momenti di sofferenza c’è sempre una prima fase in cui non riesco neppure a prendere in mano la matita”.

FOCUS BRF - L’INTERVISTA

uscire. Così impari a conviverci, perché all’inizio credi di averne il controllo, di poter gestire tutto da sola, perché tanto dall’esterno non si vede, perché agli occhi degli altri stai bene e hai una vita piena. Poi i ruoli si invertono, e il cibo inizia a mangiarti lentamente: ti toglie le forze, la lucidità, gli affetti, le passioni, prova a toglierti anche la vita. Non ci ho messo molto a capire che la situazione non avrei potuto gestirla da sola, così mi sono informata, ho cercato un nuovo terapeuta e poi un centro per DCA: non è stata un’esperienza piacevole, perché non ero né troppo magra né

sovrappeso, perché ho trovato degli specialisti che operavano da manuale, senza empatia, sentire i bisogni di chi sta dall’altra parte. Sapevo che il disturbo alimentare fosse la conseguenza di qualcos’altro, ma erano risposte che non potevo trovare da sola. Così, nella ricerca dello specialista giusto, delle cause, del giusto percorso di cura, con la bulimia nervosa ho imparato a conviverci. Perché la mia vita non poteva fermarsi. Come affronti i disturbi? È stato un percorso lungo, fatto di psicoterapia, per un breve periodo anche di farmaci, e di grande lavoro


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su me stessa. È difficile abbattere certi schemi e sostituire l’autopunizione con la compassione verso sé stessi. Se oggi ne sono uscita è grazie alla terapia psicologica, alla medicina orientale, allo Yoga e alla meditazione: il lavoro sul respiro, con tecniche di grounding e di mindfulness sono stati vitali. Insieme a questi il movimento e lo stare in mezzo alla natura mi hanno aiutata moltissimo, così come cambiare lavoro e stile di vita. Ho imparato ad ascoltarmi, a dire no a quelle situazioni che so potrebbero scatenare emozioni negative o smuoverne di troppo forti. Con il DCA è venuta fuori quella parte di me più sensibile, che forse chiedeva semplicemente di essere vista e ascoltata. Ci sono voluti dieci anni, non è stato un percorso semplice né lineare; ancora oggi alcuni vecchi schemi provano a riproporsi, alcune ombre riemergono, ma ho strumenti nuovi e nuova consapevolezza, ed un amore per la vita che è la mia vera forza. Come credi che questi disturbi influiscano sul tuo rapporto con le altre persone? I DCA iniziano mangiandoti la vita a piccoli bocconi, fino ad arrivare a divorarla. Il cibo sembra darti tutto quello di cui hai bisogno: diventa compensazione e si fa modulatore di ogni tipo di emozione, dalla gioia alla tristezza. Pian piano si prende tutto: così inizi a rinunciare ad una cena, ad un cinema, ad un pranzo in famiglia, ad un evento importante, ad un appuntamento. Rinunci agli affetti, alla gioia. Tutto diventa una minaccia, perché non ne avresti il controllo, e tu, allora, ti rifugi nell’unica cosa che pensi di poter controllare: il cibo. Più mangi, però, più ti punisci con la pri-

vazione della socialità, di quello che la vita vorrebbe offrirti. E più ti punisci privandoti della condivisione, più ti senti in colpa per la sofferenza che rechi agli altri, più mangi per punirti. Un tremendo circolo vizioso. Per anni mi sono privata di relazioni, di esperienze, di opportunità, o le ho interrotte quando le emozioni erano troppo forti. Sono riuscita a parlarne con poche persone, perché il senso di vergogna era troppo, e anche quando ne parlavo sminuivo il tutto, dando l’idea che avessi tutto sotto controllo, forse perché lo credevo anch’io, forse perché quando dall’esterno non stai male, tu stesso arrivi a credere che in fondo non sei davvero malato. Nel mio percorso di vita ho avuto la fortuna di avere accanto persone che hanno saputo starmi vicino nonostante i miei silenzi, che mi hanno dato affetto e sostegno senza chiedere nulla. Ed è anche questo senso di gratitudine che mi ha sempre spinta a cercare la luce, anche quando l’ombra del DCA aveva coperto come un mantello pesante la mia vita. Senti che la salute mentale in generale abbia delle ripercussioni sul tuo lavoro? Credo che socialità e lavoro siano strettamente interconnessi. Come ti ruba pian piano pezzetti di vita, il DCA ti toglie anche nel lavoro. Arrivi a spegnerti: il cibo ha la priorità su tutto, sulle ambizioni, sulla carriera, sulla motivazione, influisce sulla concentrazione, sulle relazioni. Influisce su tutti i piani: emotivo, mentale, fisiologico, fisico. Ma lo fa in modo discontinuo: quando sprofondi tira tutto giù con sé, quando riesci ad avere tutto sotto controllo, tutto sembra normale. Il punto è che non sai

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“I DCA iniziano mangiandoti la vita a piccoli bocconi, fino ad arrivare a divorarla. Il cibo sembra darti tutto quello di cui hai bisogno: diventa compensazione e si fa modulatore di ogni tipo di emozione, dalla gioia alla tristezza. Pian piano si prende tutto: così inizi a rinunciare ad una cena, ad un cinema, ad un pranzo in famiglia, ad un evento importante, ad un appuntamento. Rinunci agli affetti, alla gioia”.


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“Al di là dei tanti e più svariati ostacoli che si possono incontrare, penso che ci siano situazioni in cui il percorso di terapia sia necessario”.

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quanto durerà il baratro né la fase di “normalità”. Se all’inizio li vivi come episodi isolati, con un inizio ed una fine, con addirittura una cadenza, basta poco per renderti conto che non è così. Così emergono l’ansia, la paura di essere “scoperti”, il timore di risultare incostante, poco affidabile e disconnesso. Ritieni importante quindi iniziare un percorso di terapia? Credo che la terapia sia uno strumento di cui chiunque dovrebbe avere il diritto di avvalersi. Non è semplice trovare un buon terapeuta, e questo porta spesso ad abbandonare ancor prima di iniziare. A questo si

aggiungono l’inaccessibilità economica al servizio, il tempo che il dedicarsi a sé stessi richiede, i tabù che ancora gravitano attorno ai percorsi di terapia, e tutte quelle ombre spiacevoli che la malattia fa emergere. Al di là dei tanti e più svariati ostacoli che si possono incontrare, penso che ci siano situazioni in cui il percorso di terapia sia necessario, perché per quanto possiamo trovare le forze per farcela da soli, serve qualcuno che da fuori ci aiuti a portare lo sguardo oltre quella nebbia che dentro di noi si è creata. Accanto al percorso di terapia, anche il lavoro su sé stessi è fondamentale: richiedono entrambi un enorme impegno, ma la vita ha un valore troppo grande per lasciare che qualcosa che non ne fa parte la sgretoli. E così Federica si apre con noi e ci racconta della sua passione e del suo lavoro, ma anche - ed è altrettanto importante - del suo rapporto con il cibo e con la salute mentale. Ci racconta come sia riuscita a trovare un equilibrio, prima precario, poi sempre più stabile, per affrontare i disturbi e superarli. In occasione della Giornata del Fiocchetto Lilla, dedicata ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, Federica Laino, entra a far parte della campagna #Parliamone con le sue illustrazioni delicate e avvolgenti per aiutare la Fondazione BRF ad abbattere lo stigma sulle patologie della mente. Vuoi sostenere la campagna #Parliamone? Vai sul sito www.fondazionebrf.org e scopri chi sono i vignettisti che hanno regalato le proprie opere alla battaglia della Fondazione BRF. E scopri anche i tanti gadget che puoi acquistare!


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NEW ADDICTION. DIPENDENZE COMPORTAMENTALI DEGLI STUDENTI Aiuta la ricerca della Fondazione BRF di Valentina Formica

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on il termine “New Addiction”, ci si la tolleranza; la progressiva sensazione di perriferisce alle dipendenze comporta- dita del controllo sull’esecuzione del compormentali, spesso denominate ‘dipen- tamento; la sindrome d’astinenza; il conflitto denze senza sostanza’, che includo- indotto dal comportamento disturbato; la neno tra le altre: la dipendenza da shopping, da gazione della dipendenza; la persistenza del internet, da gioco d’azzardo, da smartphone. mettere in atto determinati comportamenti, L’oggetto di queste dipendenze non è rappre- nonostante le evidenti conseguenze negative sentato da una sostanza chimica, ma da com- sempre più gravi; la ricaduta. I nuovi sviluppi delle scienze neurologiche, portamenti o attività ‘normali’ pertanto, sostengono una del quotidiano che assumono teoria neurobiologica uniun connotato eccessivo tale taria che considera le dida diventare patologico in pendenze comportamentali quanto interferente con il funcome analoghe a quelle da zionamento dell’individuo. sostanze. La dipendenza è un feEssendo l’adolescenza nomeno che implica aspetti un periodo delicato caratcognitivi, sociali, culturali e terizzato dalla presenza di neurobiologici, investendo un assetto cognitivo relatil’individuo sia dal punto di vamente immaturo duvista comportamentale che Aiuta la ricerca! rante il quale è elevata psicologico. Le conseguenze Inquadra il QR code e compila l’insorgenza di disturnegative derivanti da tale conil test in forma anonima bi psichici, tra i quali dizione si ripercuotono nel totale funzionamento della vita della persona, proprio le dipendenze comportamentali e causando uno stato di sofferenza generale. chimiche e vista l’influenza negativa dei due Anche se l’oggetto della dipendenza non è una anni di pandemia appena trascorsi sul comsostanza chimica, la persona che soffre di di- portamento dei giovani la Fondazione BRF pendenze comportamentali manifesta alcune ha sviluppato un questionario volto ad indacaratteristiche peculiari delle dipendenze da gare l’incidenza della dipendenza da cibo, dal sostanza. La dominanza esercitata dall’attività gioco, dallo smartphone, dai social network e da svolgere sui pensieri e sull’agire del sogget- dallo shopping, nonché da internet nella poto; il craving; l’influenza sul tono dell’umore; polazione scolastica e universitaria.


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PILLOLE DI IODIO CONTRO IL RISCHIO NUCLEARE TUTTO QUELLO CHE C’È DA SAPERE Ecco perché la caccia alle pillole al momento non ha alcun senso

di Alessia Righi


SALUTE

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e n’è tornato a parlare in maniera insistente con lo scoppio della guerra in Ucraina: secondo la semplificazione giornalista in caso di crisi nucleare, la soluzione sarebbe lo iodio. Ma è davvero così? Eppure, per il panico da fantomatici effetti nucleari nelle farmacie è corsa all’accaparramento di medicinali a base di iodio. Le autorità sanitarie regionali e centrali provano a disinnescare l’allarme. Nella situazione attuale la corsa a questi farmaci è scientificamente inopportuna. «L’acquisto compulsivo di integratori e pillole di iodio, a seguito della invasione che sta avendo luogo in Ucraina, rappresenta un atteggiamento privo di giustificazione. Solo nel caso di un comprovato incidente nucleare vi è indicazione all’assunzione preventiva di ioduro di potassio (le abituali dosi contenute negli integratori alimentari non sono in grado di bloccare la tiroide) e le misure profilattiche devono essere prese esclusivamente a livello di sanità nazionale», ha spiegato qualche giorno fa a Il Sole 24 Ore il professor Enrico Papini, uno dei più eminenti esperti di scienze endocrinologiche nel mondo. Con la premessa di sopra, «assumere di propria iniziativa iodio in compresse senza una reale motivazione, e senza la prescrizione medica, non solo è sbagliato ma può essere dannoso per la salute». Del resto, come chiarito dall’Istituto superiore di sanità insieme a varie società scientifiche, «solo in caso di una reale emergenza nucleare, al momento inesistente nel nostro Paese, sarà la Protezione Civile a dare precise indicazioni su modalità e tempi di attuazione di un eventuale intervento di


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«L’acquisto compulsivo di integratori e pillole di iodio, a seguito della invasione che sta avendo luogo in Ucraina, rappresenta un atteggiamento privo di giustificazione. Solo nel caso di un comprovato incidente nucleare vi è indicazione all’assunzione preventiva di ioduro di potassio (le abituali dosi contenute negli integratori alimentari non sono in grado di bloccare la tiroide) e le misure profilattiche devono essere prese esclusivamente a livello di sanità nazionale», ha spiegato qualche giorno fa a Il Sole 24 Ore il professor Enrico Papini, uno dei più eminenti esperti di scienze endocrinologiche nel mondo.

SALUTE

profilassi iodica su base farmacologica per l’intera popolazione». L’unica raccomandazione generale riguarda l’uso di sale iodato. Ma a questo punto la domanda: quali sono i rischi da contatto con sostanze radioattive? Dipendono dall’intensità e dal tipo delle radiazioni assorbite. «Le sostanze più importanti rilasciate in seguito a un incidente nucleare sono: lo iodio-131 (131I), lo stronzio-90, assorbito dall’osso, che può causare tumori ossei e leucemia; il cesio-137 che si accumula prevalentemente nei muscoli; il plutonio che può causare tumori del polmone. Nelle persone che si trovano nelle immediate vicinanze (alcuni km) della fuga di un materiale che emette radiazioni ad elevata intensità i danni maggiori e più precoci sono al midollo osseo e all’intestino. Si sviluppano così anemia grave, elevata suscettibilità alle infezioni, emorragie pluridistrettuali e gravi turbe della alimentazione», ha spiegato ancora Papini. Questa sindrome acuta da radiazioni si verifica solo per livelli di radioattività molto elevati e non riguarda la popolazione generale ma solo il personale che si trova all’interno o in stretta prossimità del reattore al momento dell’incidente. Per la popolazione che vive nelle zone limitrofe, o che mangia alimenti contaminati, invece, il rischio è dovuto alla ingestione con il cibo, o alla inalazione con l’aria, di sostanze disperse in seguito all’incidente. Basti pensare a Chernobyl: la vera tragedia è stata conseguenza del latte radioattivo, a sua volta conseguenza dell’erba contaminata mangiata dalle mucche in prossimità della centrale. C’è da dire, però, che ci possono essere situazioni in cui l’assunzione

di iodio potrebbe essere utile. «Bambini di età minore di 10 anni, per la marcata sensibilità della tiroide alle radiazioni in età pediatrica, e donne in stato di gravidanza, perché il feto è particolarmente sensibile agli effetti nocivi delle radiazioni: nel primo trimestre, durante la formazione degli organi, possono verificarsi malformazioni a vari organi; a partire dal secondo trimestre, quando la tiroide è già formata e funzionante, lo iodio radioattivo assorbito dalla madre, si accumula anche nella tiroide del feto. Questo può ridurre la capacità della tiroide di produrre ormoni e determinare un quadro di ipotiroidismo congenito», ha detto ancora Papini. Un’altra categoria a rischio aumentato sono i pazienti affetti da insufficienze renale in terapia con dialisi, a causa di una ridotta capacità di eliminare le sostanze radioattive contaminanti. C’è però un lato positivo in tutto questo: fortunatamente l’Italia sta uscendo dalla condizione di carenza endemica di iodio grazie alla profilassi iodica ormai ampiamente in atto. Questo rende la nostra popolazione, come accaduto nel caso di quella Giapponese dopo l’incidente di Fukushima, meno vulnerabile nei confronti della esposizione a basse dosi di radiazioni.


SALUTE

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LONG-COVID, ESERCIZIO FISICO CONTRO LA DEPRESSIONE Le evidenze degli ultimi studi condotti negli Usa di Francesco Carta

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on esiste alcun trattamento riconosciuto dal punto di vista medico per il Long Covid, ma l’esercizio fisico può aiutare a interrompere il circolo vizioso dell’infiammazione che può portare allo sviluppo di diabete e depressione mesi dopo che una persona si è ripresa dal virus. A formulare questa ipotesi sono gli studiosi del Pennington Biomedical Research Center, negli Usa, sulla rivista Exercise and Sport Sciences Reviews. «Sappiamo che Long Covid può provocare depressione specifica Candida Rebello, una delle autrici della ricerca - e sappiamo che può aumentare i livelli di glucosio nel sangue al punto che alcune persone sviluppano chetoacidosi diabetica, una condizione potenzialmente pericolosa per la vita comune tra le persone con diabete di tipo 1. L’esercizio può aiutare. Ci si prende così cura dell’infiammazione che porta a livelli elevati di glucosio nel sangue e allo sviluppo e alla progressione del diabete e della depressione clinica». Il Long Covid provoca ciò che i Centers for Disease Control descrivono come «una costellazione di altri sintomi debilitanti» tra cui nebbia cerebrale, dolore muscolare e affaticamento che possono durare per mesi dopo che una persona si è ripresa dall’infezione iniziale. «Ad esempio - sottolinea Rebello - una persona potrebbe non ammalarsi in modo grave di

COVID-19, ma sei mesi dopo, molto tempo dopo che la tosse o la febbre sono scomparse, sviluppare il diabete». Una soluzione è appunto l’esercizio fisico. «Non è necessario correre per chilometri o camminare per tutta la durata a ritmo sostenuto, - conclude l’esperta - anche camminare lentamente è esercizio. Idealmente, si dovrebbe fare una sessione di esercizio di 30 minuti. Ma se se ne possono fare solo 15 minuti alla volta, si può provare a farne due sessioni. Se si può camminare solo 15 minuti una volta al giorno, meglio farlo. L’importante è provare. Non importa da dove si inizia. Si può gradualmente raggiungere il livello di esercizio raccomandato».


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SALUTE

PASSI IN AVANTI SULLO STUDIO DELL’ORIGINE DELLA SCHIZOFRENIA A Napoli importante ricerca con l’intelligenza artificiale

di Antonio Acerbis

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a schizofrenia è una patologia psichiatrica grave, che coinvolge approssimativamente l’1% della popolazione mondiale. Negli ultimi cinquant’anni sono state effettuate numerosissime ricerche e sono state formulate altrettante ipotesi per trovare una spiegazione. Una recente arriva da Napoli, dal Laboratorio di Neuroscienze traslazionali del CEINGE-Biotecnologie avanzate. Qui si è studiato il ruolo del glutammato, cioè il sale di sodio dell’acido glutammico, uno dei 23 amminoacidi naturali che costituiscono le proteine e uno degli amminoacidi più abbondanti in natura. In particolare, i ricercatori del laboratorio diretto da Alessandro Usiello, professore di Biochimica e Biologia molecolare clinica

dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli e principal investigator del Centro di ricerca napoletano, hanno analizzato i tessuti cerebrali post-mortem di individui sani e di pazienti affetti dalla malattia, e hanno scoperto l’esistenza di alterazioni biochimiche diffuse nella complessa rete di connessioni neuronali tra le sinapsi della corteccia, che utilizzano come principale trasmettitore appunto il glutammato. Bisogna specificare che una delle ipotesi più attestate sulla schizofrenia è la cosiddetta dopaminergica. In pratica si riteneva che la schizofrenia fosse il prodotto di una libera disregolazione del neurotrasmettitore dopamina. Recentemente si è affrontato un altro tema perché si è visto che in realtà esistono tanti


SALUTE

altri neurotrasmettitori e neuromodulatori come appunto la glicina ma soprattutto il glutammato che sembra avere un effetto importante nella progressione della patologia schizofrenica perché regola in qualche maniera il rilascio anche della dopamina. E qui entrano in campo i ricercatori di Napoli, che hanno condotto esperimenti tramite tecniche avanzate basate sul “machine learning”, una branca dell’intelligenza artificiale. Tale metodologia ha permesso di individuare nei soggetti con schizofrenia variazioni non di singole molecole, ma di gruppi di molecole, che potrebbero agire come “complessi disfunzionali” di una struttura biologica fondamentale del cervello, nota come sinapsi glutamatergica. In altre parole, dunque, è emerso che se molecole prese singolarmente sembra funzionino regolarmente, la disarmonia - e dunque la patologia - è nel gruppo di molecole, che potrebbe tradursi in un disordinato funzionamento della sinapsi glutamatergica in alcune aree cerebrali

implicate nel disturbo, quali la corteccia prefrontale. Questo ovviamente potrebbe aprire a nuovi scenari di ricerca perché avere come target dei trattamenti farmacologici non i singoli elementi della sinapsi, ma l’armonico funzionamento di gruppi di questi, può permettere la messa a punto di nuovi agenti farmacologici capaci di funzionare come “buoni direttori d’orchestra” più che come “silenziatori” o “amplificatori” di singoli strumenti. Ovviamente se la tecnica apre tali nuove frontiere di ricerca, altrettanto delicato è il tema della schizofrenia. Il glutammato può effettivamente avere a che fare con la patologia schizofrenica; si può pensare di proporre anche questo come sistema diagnostico, nel caso lo studio dovesse trovare delle conferme nel tempo. In sintesi, questo studio è rigorosissimo, di grande interesse dal punto di vista speculativo però non è ancora maturo per produrre una modifica delle procedure diagnostiche e cliniche della schizofrenia. Ma le basi e i nuovi orizzonti ci sono.

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I ricercatori hanno analizzato i tessuti cerebrali post-mortem di individui sani e di pazienti affetti dalla malattia, e hanno scoperto l’esistenza di alterazioni biochimiche diffuse nella complessa rete di connessioni neuronali tra le sinapsi della corteccia, che utilizzano come principale trasmettitore appunto il glutammato.


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SALUTE

IN 5 ANNI 12MILA INFORTUNI A SANITARI PER AGGRESSIONI Ma secondo l’Ordine dei Medici il dato è sottostimato

di Alberto Lepri

I

n 5 anni, dal 2016 al 2020, sono stati 12mila gli infortuni sul lavoro per il personale sanitario legati a violenze, aggressioni e minacce, con una media di circa 2.500 l’anno. La rilevazione arriva dall’Inail, in vista della prima Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari, che si si è celebrata il 12 marzo. I più colpiti sono gli infermieri e gli operatori sanitari. I medici rappresentano invece il 5% sul totale dei casi ma questo dato, osserva il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) Filippo Anelli, «va analizzato ed è sicuramente sottostimato». Il 46% di tali infortuni, spiega l’Inail, è concentrato nel settore

«assistenza sanitaria», che include ospedali, case di cura, istituti, cliniche e policlinici universitari; il 28% è stato riscontrato nei «servizi di assistenza sociale residenziale» (case di riposo, centri di accoglienza), mentre il restante 26% ricade nel comparto «assistenza sociale non residenziale». Riguardo al genere, gli infortunati sono per quasi tre quarti donne. Infermieri ed educatori professionali - normalmente impegnati in servizi educativi e riabilitativi con minori, tossicodipendenti, alcolisti, carcerati, disabili, pazienti psichiatrici e anziani all’interno di strutture sanitarie o socio-educative - sono le categorie più colpite, con più di un terzo del totale dei casi. Più distaccata, con il 5% dei casi di aggressione in sanità, è appunto la categoria


SALUTE

dei medici, che non include però nell’obbligo assicurativo Inail i sanitari generici di base e i liberi professionisti. Il dato, afferma Anelli, è però «sicuramente sottostimato, sia perché si riferisce solo alla tipologia di aggressioni più gravi sia perché è relativo ai soli medici ospedalieri. Va infatti considerato che una parte importante delle aggressioni avviene sul territorio, ovvero proprio tra i medici di Guardia medica che non vengono inclusi nella rilevazione dell’Inail». Inoltre, precisa, «un’alta percentuale di aggressioni non viene denunciata dai medici, perché si tratta di aggressioni di minore entità per le quali in molti casi il medico decide di non denunciare e non mettersi in malattia». Proprio per questo, «abbiamo chiesto e ottenuto che nella attuale legge contro la violenza ai sanitari si prevedesse la procedibilità d’ufficio». Questo, commenta Anelli, «consentirà di avere dati più atten-

dibili rispetto alla reale dimensione del fenomeno». La Giornata nazionale è stata istituita dalla legge n.113 del 14 agosto 2020 «Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni». La legge prevede l’inasprimento delle pene fino a 16 anni di carcere, sanzioni amministrative fino a 5mila euro, la previsione della procedibilità d’ufficio senza la necessità che vi sia querela da parte della persona offesa. Ed ancora: un Osservatorio ad Hoc e l’istituzione, appunto, della Giornata nazionale che, nella sua prima edizione, ha visto tra le iniziative un convegno promosso dall’Ordine dei medici di Bari. «Celebrare a Bari questa manifestazione - ha detto Anelli in quell’occasione - ha un particolare significato, perche’ ricorda il sacrificio di Paola Labriola, la psichiatra barbaramente uccisa nel suo ambulatorio da un suo paziente».

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Il 46% di tali infortuni, spiega l’Inail, è concentrato nel settore «assistenza sanitaria», che include ospedali, case di cura, istituti, cliniche e policlinici universitari; il 28% è stato riscontrato nei «servizi di assistenza sociale residenziale» (case di riposo, centri di accoglienza), mentre il restante 26% ricade nel comparto «assistenza sociale non residenziale».


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SALUTE

AUTISMO, ANCHE PESTICIDI E PLASTICHE TRA LE CAUSE Cosa ci dicono gli ultimi studi condotti in Gran Bretagna e in Europa

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er carità: bisogna assolutamente precisare che l’autismo è un disturbo molto complesso (non per niente si parla di “spettro autistico”) con molte varianti, caratteristiche diverse e difficile da definire. Sembra sempre più evidente che la sua origine sia genetica, legata alla fase di sviluppo embrionale ma sembra esserci anche una piccola componente ambientale. Ed è per questo che bisogna precisare che, specie quando si parla di scienze, correlazione non è casualità. E così, molto probabilmente, accade tra inquinamento e l’autismo stesso. Un primo indizio arriva da uno studio di alcuni anni fa pubblicato sul British Medical Journal. Si tratta di un classico “studio osservazionale”, i ricercatori cioè, hanno preso dei dati, li hanno studiati e collegati, ottenendo dei risultati e si sono fermati a questi. Gli autori, americani, hanno analizzato i registri, che negli Stati Uniti sono obbligatori, sull’uso di diserbanti e pesticidi in una precisa regione agricola. Hanno studiato 2961

persone con diagnosi di autismo, (445 delle quali con disabilità intellettiva) e 35.370 controlli (cioè persone in salute dello stesso sesso ed età). Hanno calcolato, con una stima, l’esposizione di queste persone ai pesticidi: tramite i registri si stimavano le quantità di pesticida usate nei due chilometri di superficie attorno a ciascun individuo e quindi si poteva risalire a quanto pesticida era stato esposto ognuno di essi prima della nascita. Sono stati testati 11 pesticidi (i più usati, tra i quali glifosato, chlorpyrifos, avermectin e diazinone). I ri-


SALUTE

sultati finali hanno mostrato come le persone esposte prima della nascita (quindi le cui madri, in gravidanza, abitavano vicino ai campi trattati) a questi pesticidi mostravano un rischio di autismo più alto delle persone che invece non ne erano state esposte. Questo rischio era (in generale) minore nel periodo del concepimento e un anno dopo la nascita. La correlazione più forte è stata quindi quella durante la gravidanza, in particolare per glifosato e avermectin. Questi dati, ovviamente, non ci dicono che l’autismo sia collegato in maniera certa all’esposizione ai pesticidi ma fa suonare un campanello di allarme che inizia a essere forte. Mai però trarre conclusioni da una semplice correlazione, sarebbe ingenuo. Ciononostante, negli ultimi mesi altri studi hanno posto rilievo a correlazioni simili. Uno di questi è una ricerca europea EDC-MixRisk, guidato per l’Italia da Giuseppe Testa, professore di biologia molecolare all’Università degli Studi di Milano, direttore del Centro di Neurogenomica dello Human Technopole e

group leader presso l’Istituto Europeo di Oncologia. Parliamo di bisfenoli che possiamo ritrovare nelle bottiglie di succo di frutta, nei contenitori in cui conserviamo gli avanzi, negli scontrini, nelle lattine che contengono la passata di pomodoro o i legumi, nei flaconi di bagnoschiuma. Molto diffusi sono anche gli ftalati, quelle sostanze che rendono la plastica morbida, in particolare il Pvc. Li possiamo trovare nelle pellicole in cui avvolgiamo il cibo, negli imballaggi dei piatti pronti, nelle confezioni blister, nei tappi a corona. Ci sono poi i Pfas, che includono diverse sostanze dette «perfluoro alchiliche» che possiamo trovare in alcuni tessuti, nella moquette, nei mobili, nei detersivi per la pulizia di casa. La lista degli interferenti endocrini è lunghissima. Lo studio europeo, pubblicato su Science, ha dimostrato che i figli delle donne maggiormente esposte al mix di sostanze chimiche analizzate possono riportare problemi nel neurosviluppo. Secondo i dati, il 54% dei neonati studiati è entrato in contatto, attraverso la placenta della madre, con concentrazioni pericolose di interferenti endocrini. Questo ci indica per fortuna che l’esposizione in gravidanza a questa miscela di sostanze chimiche non comporta necessariamente la nascita di un bambino con un deficit neurologico, ma mostra chiaramente che molti bambini vengono esposti a livelli pericolosi di interferenti endocrini già prima di nascere. Insomma, questa potrebbe essere considerata una concausa del ritardo dello sviluppo cognitivo e quindi anche una concausa dell’autismo. (F. C.)

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Sono stati testati 11 pesticidi (i più usati, tra i quali glifosato, chlorpyrifos, avermectin e diazinone). I risultati finali hanno mostrato come le persone esposte prima della nascita (quindi le cui madri, in gravidanza, abitavano vicino ai campi trattati) a questi pesticidi mostravano un rischio di autismo più alto delle persone che invece non ne erano state esposte.


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IL BRANO

QUANDO LA MALATTIA DIVENTA L’UNICA VERA CURA Una storia toccante sull’Alzheimer che ci obbliga a fare i conti con noi stessi

di Giovanni Gazzanni

Riportiamo un estratto del libro “Una mattina qualunque” (Avagliano Editore), in cui l’autore Giovanni Gazzanni racconta la malattia, la speranza, il tempo che passa, il coraggio di vivere. Di fatto l’esistenza umana più profonda, filtrata attraverso una toccante storia sul tema dell’Alzheimer con due indimenticabili protagonisti maschili: un padre e un figlio alla resa dei conti

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i sono decisa a scrivere tutto quello che ricordo. Spero possa servire. Era una di quelle notti senza tempo, senza spazio. Faceva caldo. Era estate ma sarebbe dovuto essere inverno. Perché gli addii hanno bisogno del freddo e della pioggia, magari della nebbia che nasconde le cose. Il mio letto era più stretto del solito e le lenzuola mi si appiccicavano addosso. Provavo a scansarle.

Strani pensieri che da un po’ di tempo mi accompagnavano, non avevano un inizio preciso e non trovavano una fine, mi perseguitavano presentandosi sulla soglia della mia coscienza. Mi facevano paura e nonostante io facessi di tutto per allontanarli, non sempre ci riuscivo e così ero condannata a guardarmi dentro. Mi sforzavo di ridere, ma avevo solo voglia di urlare. Parlavo tanto con tutti ma non avevo il coraggio di parlare con me stessa. Riuscivo a esserci per tutti ma ero troppo poco presente per me. Avevo solo voglia di restare a casa, prigioniera di un letto. È difficile scrivere tutto questo, adesso. Fa male, ancora. Faceva caldo e così mi sono alzata dal letto per andare in cucina. Ho bevuto per cercare ristoro. L’acqua mi calma, entra in bocca fresca e la


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Giovanni Gazzanni.

senti scendere in gola e poi più giù a rinfrescare tutto. Beneficio che non passa per la testa. Ho aperto il balcone per far entrare un po’ di fresco. Non si sentiva nulla. Solo il vento. Un fruscio piacevole. Il rumore delle foglie. Quanto avrei voluto fare mio quel vento, quanto avrei voluto che fosse riuscito a spazzare via i miei strani pensieri. Ricordo tutto. Ho preso la sedia e l’ho portata sul balcone. Mi sarebbe bastato zittire i miei pensieri. Palazzi con le luci spente, tutti dormivano e io no. Tutti a perdersi nei sogni e io a perdermi nella mia testa. Dall’alto guardavo il giardino in cui giocavo da bambina… Ormai Michele non può farne a meno. Passa sempre più spesso le notti a leggere e rileggere queste righe, fin quando non riesce poi ad addormentarsi. All’inizio sapeva perché lo faceva,

adesso non più. Prima cercava risposte. Adesso si limita a leggere parole che ormai ha imparato a memoria. Le avrà lette centinaia di volte. Tra quelle righe cerca una soluzione, una risposta a una domanda che non conosce. Alla lettura alterna dei lunghissimi momenti in cui contempla il muro davanti a sé perdersi nel buio della notte. A volte riesce anche a pensare, e questa gli sembra una conquista perché nella sua mente si susseguono lunghi istanti di nulla e troppi ricordi. Ma quando le immagini del passato diventano difficili da sopportare, tanto reali da non riuscire più a guardarle, non gli resta altro che rituffarsi nella lettura. Con la speranza che sopraggiunga il sonno il più velocemente possibile. Questo giardino stava diventando una giungla, proprio come la mia mente. Gli spazi che custodivano i miei ricordi tranquilli erano coperti da rami, grovigli, erba. Caos che non mi permetteva più di vedere.

Gli addii hanno bisogno del freddo e della pioggia, magari della nebbia che nasconde le cose. Il mio letto era più stretto del solito e le lenzuola mi si appiccicavano addosso. Provavo a scansarle.


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Aiutandomi con la sedia provai a sedermi sulla ringhiera, fu tutto più facile del previsto. Non ho mai avuto paura dell’altezza e nemmeno quella volta.

IL BRANO

Guardandolo, un po’ mi sentivo compresa. Al mio giardino stava capitando esattamente quello che stava succedendo a me, nella mia testa. Guardavo di sotto con la speranza di guardarmi dentro. Continuava a fare caldo e stare in piedi sul balcone non mi bastava più. Decisi di andare oltre. In questo preciso punto, ogni volta anche Michele rivive la sensazione della scelta. Interrompere o andare avanti? Non scappa come ha fatto altre volte, non smette di leggere. Decide di andare oltre: resiste e conti-

nua a leggere. Intanto la speranza del sonno, così come la stanchezza, si fanno sempre più vive, non tanto nel corpo ma tra i suoi pensieri. Nell’attesa, va avanti. Aiutandomi con la sedia provai a sedermi sulla ringhiera, fu tutto più facile del previsto. Non ho mai avuto paura dell’altezza e nemmeno quella volta. Quando si sta seduti con le gambe penzoloni si avverte quella strana sensazione ai polpacci e ai talloni. Una sorta di formicolio. Io non avvertivo nulla. Ero al quarto piano del mio palazzo, sul balcone, seduta sulla ringhiera.


LIBRI

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NESSUNO È MAI QUEL CHE SEMBRA Ognuno di noi attende la sua mattina qualunque di Antonio Acerbis

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ue uomini dividono la stessa ricordi di Carolina, la sua ex compagna, casa. Si chiamano Michele e lo ossessionano, assieme ai sensi di colpa Antonio. Il più giovane, Miche- per non averla saputa aiutare e per averla le, si prende cura del più vec- abbandonata in un periodo difficile. Ed è chio che è sempre alle prese con catastrofi- così, in un fiume silenzioso e conosciuto, ci vuoti di memoria, teorie molto strambe che scorre anche quella ennesima mattina. e una serie di irrinunciabili maUna mattina qualunque, in appanie. Da qui parte il racconto renza, ma che si rivelerà straortoccante, malinconico, violento dinaria. e profondo al tempo stesso - di Perché tutti noi attendiamo, “Una mattina qualunque” (Avapiù o meno consapevolmente, gliano Editore), primo romanuna mattina che solo apparentezo dell’attore teatrale Giovanni mente sia “qualunque” ma che Gazzanni. possa sbatterci in faccia la verità E proprio il suo lavoro prodella nostra esistenza, stracciare babilmente aiuta a comprendere il velo di Maya della nostra ipol’andamento di questo racconto crisia, svelarci ciò che siamo, ciò nel quale il lettore dolcemente “Una manattia che siamo diventati, ciò che è la qualunque” sprofonda, vivendo e vedendo Giovanni Gazzanni realtà in cui ci muoviamo. Una davanti a sé i due protagonisti, Avagliano Editore mattina che possa, insomma, scolpiti magnificamente dall’au- 144 pagine sbatterci in faccia ciò che siamo tore, quasi fossero reali. I due 16 euro realmente. sembrano vivere una situazione A innescare il cambiamento simile, fatta di solitudine e di stanchezza. nel romanzo è Antonio: in un attimo di Le loro esistenze scorrono tra momenti di lucidità, riconoscerà Michele, capirà che disperazione e altri, invece, comici. An- quel ragazzo che gli sta sempre intorno è tonio, appena può, si rifugia nel sogno e suo figlio, ricorderà purtroppo anche la quando è sveglio non fa altro che aspet- morte dell’amata moglie. Tra padre e figlio tare il rientro di Margherita, sua moglie. nasce un confronto tenero, serrato, violenMichele si concentra sulle esigenze del to che avrà esiti dirompenti per entrambi. vecchio, solo perché in questo modo può Michele può così guardare in faccia la reallontanare il suo dolore: una lettera e i altà. E il lettore con lui.


54 Brain Mar 2022

CINEMA

OSCAR, TUTTE LE VOLTE CHE LA STATUETTA È ANDATA A FILM DEDICATI AL CERVELLO UMANO Da “A Beautiful mind” fino a “Qualcuno volò sul nido del cuculo”

di Chiara Andreotti

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opo mesi che sembravano non finire mai, finalmente i cinema stanno vivendo una vera e propria rinascita e gli Oscar 2022 promettono di portare nuovamente il pubblico a vivere luoghi, tempi e vite così distanti ma che sentiamo talmente vicine da affascinarci. Così, in attesa di scoprire chi tra gli illustri nomi dei candidati si fregerà del titolo di migliore dell’anno, diamo uno sguardo al passato e scopriamo tutte le volte in cui l’organizzazione degli Academy ha premiato le pellicole che hanno parlato di salute mentale. La psicologia e la mente umana sono state spesso il perno intorno a cui si dipanano storie intriganti e angoscianti. E quale migliore scenario, se non il manicomio, una realtà così

lontana da noi, per raccontare storie fuori dal tempo e dallo spazio? È il 1975 quando Miloš Forman dirige Jack Nicholson in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”: come un intruso, il criminale McMurphy si intrufola tra le mura di un manicomio fino a rivelare le dure e soffocanti regole. E, ancora, “Ragazze interrotte”, che nel 1999 ha portato sulla scena Angelina Jolie. Il film narra una storia tutta al femminile in cui ragazze diverse si trovano costrette a convivere tra loro e con i loro disturbi mentali. Più vicino a noi, non possiamo non menzionare un’altra grande opera: Todd Phillips scrive il suo “Joker” cucendo addosso a Joaquin Phoenix i panni di un uomo fragile e mentalmente distrutto per il quale


CINEMA

il manicomio diventa quasi una via d’uscita per liberarsi delle sofferenze causate da una società insofferente. Ambiente certamente più conosciuto e apparentemente sicuro è quello del teatro, che racchiude in sé il rischio dell’ossessione per la perfezione che diventa allucinazione e infine follia. “Birdman – L’imprevedibile virtù dell’ignoranza” e “Il cigno nero” raccontano proprio di artisti che, dopo aver vestito i panni dei loro personaggi sul palco, non riescono più a liberarsene. Nel primo caso, Alejandro González Iñárritu crea un vortice visivo, all’interno del quale Micheal Keaton e gli altri personaggi del cast raccontano la frenesia del palco. Nel secondo, invece, Darren Aronofsky dipinge la paranoia e la ricerca della perfezione nel mondo del balletto: Natalie Portman è contemporaneamente il cigno bianco e quello nero, come se dirigesse una lotta infinita tra bene e male, fino alla pazzia. Storie decisamente più vicine e familiari quelle che raccontano le malattie degenerative. Julianne Moore veste i panni di Alice in “Still Alice”, un film che ci parla di una donna che intorno ai cinquant’anni scopre di soffrire precocemente del morbo di Alzheimer: una vita che viene stravolta e che ritorna sui binari quando lei smette di identificarsi nella sua malattia. Altro capolavoro è quello di Florian Zeller che dirige Anthony Hopkins in “The father”: un coinvolgente racconto della demenza senile, che per la prima volta porta gli spettatori a vivere sulla propria pelle la malattia, fino a confonderci e turbarci irrimediabilmente. Indimenticabili poi i grandi clas-

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Jack Nicholson in una scena del film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.

sici che sono entrati nell’immaginario comune: le menti straordinarie di John Nash in “A beautiful mind” e di Raymond Babbitt in “Rain man” sono diventate parte integrante della storia del cinema. Anche la commedia ha contribuito alla narrazione della salute mentale sul grande schermo: come dimenticare “Qualcosa è cambiato”, di nuovo con protagonisti Jack Nicholson ed Helen Hunt, e “Il lato positivo” con Bradley Cooper e Jennifer Lawrence. Per i più piccoli, invece, sempre attuale il capolavoro di animazione dello studio Pixar “Inside out”: un divertente viaggio con le emozioni all’interno della mente. Insomma, mentre attendiamo ancora qualche settimana prima di conoscere i film che entreranno a far parte della storia del cinema, possiamo tuffarci in capolavori - specie se qualcuno di questi ci è sfuggito o non l’abbiamo mai visto - per affrontare in modo diverso l’intrigante mondo del cervello umano.

La psicologia e la mente umana sono state spesso il perno intorno a cui si dipanano storie intriganti e angoscianti.


56 Brain Mar 2022

TITOLI DI CODA

Il cervello al centro del mondo di Pietro Pietrini Professore Ordinario, Direttore Scuola IMT Alti Studi Lucca

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asce in America, ormai un quarto di secolo fa, la Brain Awareness Week (BAW), letteralmente, la Settimana della Consapevolezza del Cervello, iniziativa ideata e promossa dalla Dana Foundation per mettere insieme neuroscienziati, psichiatri, neurologi, associazioni di pazienti, enti governativi e il cittadino comune con l’intento di far conoscere lo stato dell’arte della comprensione del nostro cervello. Da quella prima edizione, nel lontano 1996, che vide la partecipazione di poco più di un centinaio di gruppi e organizzazioni senza uscire dai confini degli Stati Uniti, anno dopo anno la terza settimana di marzo è diventata un appuntamento ricorrente per l’intero pianeta, dando vita a quella che a buon diritto è chiamata la Settimana Mondiale del Cervello. Oggi, la Settimana Mondiale del Cervello vede il coinvolgimento di oltre settemila organizzazioni da centoventi Paesi. Anche Lucca, con le iniziative promosse dalla Scuola IMT Alti Studi in collaborazione con la Brain Research Foundation, è partner attivo da sette anni, con eventi per tutti, compresi i bambini delle scuole primarie che scoprono le meraviglie del cervello con il disegno a fumetti. Il successo che riscuote la Settimana del Cervello mostra l’interesse che gravita intorno al cervello e alle sue funzioni, alle patologie neurologiche e psichiatriche, alle prospettive terapeutiche, così come il ruolo che le neuroscienze rivestono trasversalmente in ambiti diversi della vita sociale, dall’economia alla giurisprudenza,

dall’etica alla filosofia. Ancora oggi la Psichiatria soffre uno scollamento rispetto alle altre branche della medicina. Questo si riflette prima di tutto nello stigma che persiste nei confronti della malattia mentale, nel pregiudizio verso le persone che soffrono di un disturbo psichico, nel senso di vergogna che provano frequentemente i nostri pazienti, nell’ignoranza che porta a negare la patologia, con conseguenze tanto drammatiche quanto prevenibili. L’impatto che la sofferenza mentale ha sul singolo individuo, sulle famiglie e sulla società è enorme. Le malattie mentali sono altamente contagiose, non nel senso in cui abbiamo imparato a conoscere il contagio in questi due ultimi anni, ma in modo ancor più subdolo e pervicace. Sappiamo quale ruolo complesso biologia e ambiente - il nature e nurture degli anglosassoni - giochino nello sviluppo di ciascuno di noi. Dagli studi di esplorazione morfologica e funzionale del cervello abbiamo imparato che se già la sola carezza è in grado di stimolare la crescita sinaptica del cervello del neonato, per contro condizioni di sofferenza psichica nell’infanzia arrivano a condizionare l’armonico sviluppo della corteccia cerebrale nell’età adulta. Si è già scritto in queste pagine di quanto incida il disagio psichico nell’adolescenza sul tasso di abbandono precoce degli studi, particolarmente elevato nel nostro Paese. L’adolescenza è, tra le altre cose, quell’età della vita in cui fanno il loro esordio le principali patologie mentali. La conoscenza e la lotta allo stigma sono la prima cura.



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