Anno III | N. 2 | Febbraio 2022
VIRTUAL GENERATION Giovani e giovanissimi ultraconnessi sulla rete Ma c’è di buono che...
Valerio Rosso “All’università si studino i social”
Allarme suicidi post-Covid e nelle carceri
Profumi ed emozioni. Così “annusa” il cervello
EDITORIALE
Brain Feb 2022
Lavoro e pandemia Il lato oscuro della vita a distanza
L
di Armando Piccinni
a pandemia ha trasformato la nostra vita, e anche il nostro modo di lavorare. Lo smart working nel nostro Paese ha raggiunto dei picchi senza precedenti e, se all’inizio veniva considerato in modo positivo soprattutto per la maggiore flessibilità, negli ultimi mesi sta mostrando il suo lato oscuro. Si è cominciato a parlare per i lavoratori in smart working di “burn out” ovvero di esaurimento emotivo, fisico e mentale. La difficoltà di scindere lavoro e vita privata, un isolamento maggiore, la mancanza del luogo di lavoro, le difficoltà a relazionarsi con colleghi e supervisori con modalità diverse dal consueto hanno creato in molti italiani un terremoto emotivo. Lo smart working ha richiesto per il nostro cervello uno sforzo di adattamento incredibile, che spesso ha prodotto sfinimento, disimpegno e una riduzione delle proprie capacità lavorative. Ci siamo trovati a dover gestire nei medesimi spazi e tempi la vita lavorativa e quella famigliare. Ambiti che sono sempre stati separati, a causa della pandemia
si sono sovrapposti. La casa è diventata l’unico luogo per vivere contemporaneamente tante esperienze e affrontare altrettante esigenze: quelle degli adulti, dei bambini, degli adolescenti e spesso degli anziani. Ritagliarsi degli spazi personali, esercitare il confronto con i colleghi e l’empatia con i propri famigliari sono risorse fondamentali per affrontare l’ennesima sfida che la pandemia ci ha presentato. Oggi, proprio adesso in cui la speranza torna a scandire le nostre giornate, lo smart working si presenta come una terra di nessuno che ha bisogno di regole e di una diversa lettura, anche dal punto di vista psicologico. Dal primo aprile il lavoro agile non sarà infatti più “di emergenza”, ma diventerà strutturale per quattro milioni di lavoratori. Diventerà una sfida riuscire a cambiare il lavoro tradizionale, impostandolo per obiettivi – secondo la tradizione anglosassone – ma anche accompagnare i lavoratori in questo processo di transizione emotivo, fondamentale per la ripresa di tutto il Paese.
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nuovo coronavirus
Consigli sulle terapie in corso Titolo Non trascurare le tue patologie croniche. Continua ad assumere i farmaci che ti sono stati prescritti seguendo sempre le raccomandazioni del tuo medico. Le tue patologie non aspettano la fine della pandemia! Contatta il tuo medico per chiedergli consiglio, se hai qualche dubbio sulla terapia che stai assumendo. Il medico può fornirti telefonicamente il numero della ricetta con il quale ritirare i medicinali di cui hai bisogno presso la farmacia. Informati su quando potrai riprendere i tuoi controlli medici periodici. Non sospendere le terapie in corso senza aver consultato il tuo medico, in caso di positività al COVID-19. Ricordati di riferire al medico se stai assumendo integratori alimentari.
Chiedi conferma degli appuntamenti per le vaccinazioni dei tuoi bambini e cerca di non saltarli. Non esiste solo il COVID-19!
A cura del Gruppo ISS “Comunicazione Nuovo Coronavirus” 13 maggio 2020
Anno III | N. 2 | Febbraio 2022
SOMMARIO
VIRTUAL GENERATION Giovani e giovanissimi ultraconnessi sulla rete Ma c’è di buono che...
EDITORIALE
Valerio Rosso “All’università si studino i social”
Allarme suicidi post-Covid e nelle carceri
Profumi ed emozioni. Così “annusa” il cervello
3 Lavoro e pandemia. Il lato oscuro della vita a distanza di Armando Piccinni PRIMO PIANO
8 Dipendenza da social
e da internet: i giovani vivono sempre più nel virtuale di Carmine Gazzanni L’INTERVISTA
12 Internet? Se lo si usa bene ha una potenza enorme. Anche per gli psichiatri di Carmine Gazzanni
Brain Anno III | N. 2 | Febbraio 2022 Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca Diffusione: www.fondazionebrf.org Direttore responsabile: Armando Piccinni Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca
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SALUTE
40 Profumi ed emozioni: così nel cervello vanno di pari passo di Antonio Acerbis
43 Dal Covid segni patologici simili 35 16 La forza dell’arte per combattere lo stigma contro la psichiatria di Chiara Andreotti
a quelli dell’Alzheimer di Alessia Vincenti
44 Bambini allergici? Nasce tutto nell’intestino
di Francesco carta
20 Gli adolescenti hanno bisogno del nostro aiuto, ma abbiamo pochi psichiatri in Italia di Andrea Zanotto CONTRIBUTO
24 Nascita della neuroetica
(seconda parte): dalla biofisica alle neuroscienze di Alberto Carrara
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27 Depressione resistente: strategie farmacologiche e somatiche AA. VV. L’INCHIESTA
28 Allarme suicidi in carcere anche nel 2022 di Chiara Andreotti FOCUS
30 Suicidi, l’emergenza dimenticata Cristian Romaniello FOCUS BRF
34 Long-Covid, il punto
sui sintomi e sulle persone maggiormente colpite di Valentina Formica IN PARLAMENTO
38 L’Italia è preparata ad affrontare una emergenza “mentale”? di Carmine Gazzanni
L’AUTORE
46 La mia continua rinascita di Flavia Piccinni LIBRI
50 Lo spirito della montagna e l’anima dell’uomo di Flavia Piccinni PODCAST
51 Il dito di Dio
di Flavia Piccinni TITOLI DI CODA
52 Zerocalcare: fra ansie, paure e necessità di evolversi di Chiara Andreotti TITOLI DI CODA
56 L’adolescenza tra pandemia ed epidemia
di Pietro Pietrini
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DIPENDENZA DA SOCIAL E DA INTERNET: I GIOVANI VIVONO SEMPRE PIÙ NEL VIRTUALE La pandemia ha aggravato i “nuovi” disturbi comportamentali. Ma non bisogna condannare tout-court le nuove tecnologie
di Carmine Gazzanni
PRIMO PIANO
L’
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8 febbraio, come ogni anno, si tiene il Safer Internet Day, una giornata particolare specie in questo periodo di pandemia. Restrizioni e lockdown hanno infatti rafforzato una “nuova” dipendenza: quella da internet. Se per alcune attività come la didattica a distanza, avere una connessione era fondamentale per seguire le lezioni, in molte altre situazioni specialmente tra i giovani under 25 anni, essere perennemente collegati ad un pc ad uno smartphone ha generato l’isolamento sociale. Il quadro è profondamente allarmante, come emerge da uno studio condotto dal Moige (Movimento Italiano Genitori) e realizzato dall’Istituto Piepoli sul tema: “Cyber-risk e pandemia”. Il primo dato rilevante emerso dalla ricerca, effettuata sui genitori sugli argomenti dell’utilizzo del digitale da parte dei minori durante il periodo dell’emergenza Covid, è che, da quando è scoppiata l’emergenza pandemica (escluso l’impegno per la Dad) il tempo trascorso davanti ai device tecnologici è aumentato del 67% (+ 48% nel nord ovest; + 71% nel nord est; + 71% al centro; + 74% al sud; + 76% nelle isole). Altro dato significativo emerso è quello delle conseguenze dovute all’aumento del ricorso al digitale sui rapporti sociali tra i bambini e gli adolescenti, l’87% dei genitori ha riscontrato effetti negativi sui loro ragazzi, il 52% ha segnalato la perdita del contatto fisico con gli altri. A livello territoriale i giovani delle isole hanno maggiormente risentito dell’aumento di utilizzo di device, addirittura il 94% degli intervistati ne ha riscontrato gli effetti negativi. Il 77%, però, riconosce che l’uso dei device ha compensato la mancanza di
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Il primo dato rilevante emerso dalla ricerca, effettuata sui genitori sugli argomenti dell’utilizzo del digitale da parte dei minori durante il periodo dell’emergenza Covid, è che, da quando è scoppiata l’emergenza pandemica (escluso l’impegno per la Dad) il tempo trascorso davanti ai device tecnologici è aumentato del 67% (+ 48% nel nord ovest; + 71% nel nord est; + 71% al centro; + 74% al sud; + 76% nelle isole).
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relazioni aiutando i figli ad affrontare la chiusura forzata e mantenere così delle relazioni sociali. In controtendenza un dato positivo: il 40% dei genitori ha evidenziato che ha trascorso tanto tempo insieme ai figli, dialogando molto. Ma questo non è l’unico dato allarmante. Un altro studio condotto e presentato da Kaspersky e commissionato a Educazione Digitale su un campione di 1.833 bambini italiani, tra i 5 e i 10 anni, accende un altro faro non di poco conto. Obiettivo di quest’analisi era “indagare le abitudini della generazione Alpha in merito all’uso dei dispositivi tecnologici e la loro consapevolezza circa i rischi nei quali potrebbero incorrere navigando in rete”. Ebbene, dall’indagine è emerso che il 36% dei bambini fra i 5 e i 10 anni ha ricevuto messaggi da sconosciuti e proposte di giochi e sfide pericolose online. E, in questo quadro, il 55% di questi bambini ha già un dispositivo personale e il 20% lo utilizza più di 2 ore al giorno. Dallo studio emerge inoltre che smartphone e tablet sono risultati una presenza ingombrante anche nei momenti di incontro con gli amici ‘dal vivo’ visto che il 74% dei bambini italiani utilizza sempre questi dispositivi quando è in compagnia degli amici. I bambini di questa età, osservano gli esperti di Kaspersky, “non possiedono una capacità critica che consentirebbe loro di valutare adeguatamente le conseguenze delle loro azioni e di quelle degli altri, infatti, il 40% di loro ha affermato che condividerebbe con ‘amici virtuali’ informazioni quali ‘dove vivi’, ‘dove vai a scuola’ o ‘che lavoro fanno i tuoi genitori’”. I rischi che derivano da questo atteggiamento “non sono solo ipotetici ma purtroppo trovano diversi riscontri
nella realtà: il 36% dei bambini italiani ha dichiarato di aver ricevuto messaggi da sconosciuti su internet o proposte di giochi e sfide pericolose, mentre il 12% ha dichiarato che, anche se non direttamente a loro, era però capitato ad un amico”, aggiungono ancora gli analisti. Insomma, sembra aggravarsi quanto già era emerso ben prima della pandemia da un’indagine pilota - condotta sul territorio di Lucca - dalla Fondazione BRF Onlus, secondo la quale già allora per gli adolescenti diventava sempre più impossibile vivere senza internet chat, social e video online. L’indagine in quel caso era stata effettuata su una popolazione studentesca di 650 ragazzi nella provincia di Lucca. Dall’indagine, ad esempio, era emerso che un ragazzo su quattro (25,89%) ha problemi di dipendenza da Internet. E un altro 40% si sente irritabile se non riesce a collegarsi. Per valutare «la dipendenza da Internet – aveva spiegato Armando Piccinni, docente straordinario di psichiatria alla Saint Camillus University di Roma e presidente della BRF – abbiamo osservato un punteggio medio di dipendenza del 39,54%.
PRIMO PIANO
Questo risultato significa che in media i partecipanti tendono ad utilizzare il web come mezzo per sfuggire e anche per far fronte alle proprie emozioni. In base alle domande rivolte al campione è emerso inoltre – aggiunge Piccinni – che il 25,89% dei partecipanti si sente triste se non è in grado di connettersi ad Internet, e tende ad essere ansioso ed irrequieto quando non è online». «Ciò che è interessante notare – prosegue ancora Piccinni – è che il 40,60% vorrebbe ridurre la quantità di tempo trascorsa su Internet, ma gli riesce difficile farlo». Dall’indagine è emerso anche che, ad esempio, alla domanda «Quando pubblichi un post sui social network sei eccitato/a al pensiero dei commenti che riceverai?» quasi il 50% del campione ha risposto «spesso» o «molto spesso». Un uso anomalo di social, internet e web ovviamente finisce con l’influenzare anche e soprattutto il nostro cervello, come spiega Giovanni Biggio, professore ordinario di Neuropsicofarmacologia presso l’Università degli Studi di Cagliari, membro dell’American College of Neuropsychopharmacology, e uno
dei massimi esperti in Italia e in Europa di come le nuove tecnologie stiano influenzando il nostro cervello. «Stiamo vivendo una rivoluzione epocale poiché le interazioni sociali stanno cambiando. Si sta strutturando un cervello diverso, non necessariamente peggiore. Semplicemente diverso. Quella attuale è una generazione di transizione. E gli effetti di questo passaggio saranno visibili tra qualche decennio, quando il nostro cervello sarà diverso e dovrà confrontarsi con un mondo diverso, con interazioni diverse», spiega il professor Biggio. Questo, dunque, significa che l’atteggiamento non dev’essere quello di chiusura totale a social e tecnologie, ma occorre governare il virtuale non diventarne schiavi. Tempo fa, il professor Biggio in un’intervista rilasciata alla Fondazione BRF, osservò che «ci sono ragazzi che usano smartphone o tablet più o meno 24 ore su 24. Lo usano a scuola, lo usano per fare i compiti e se casomai gli togli lo smartphone non riescono più a studiare, perché ormai il loro stile di vita prevede che mentre studiano, ricevono il messaggio e rispondono. E se non hanno questa possibilità, diventano nervosi, si deconcentrano. In altre parole: entrano in crisi di astinenza. Una parte di coloro che lo usano eccessivamente, è geneticamente più vulnerabile e quindi è più debole e corre il pericolo di diventare vittima dei nuovi strumenti. C’è chi, ad esempio, lo usa fino a notte fonda, tanto che negli Stati Uniti ormai a scuola si entra alle 10,00 e non più alle 8,00 perché altrimenti gli alunni si addormentano». Permane, dunque, un rischio patologico, che evidentemente la pandemia ha ampliato. E su cui bisogna intervenire per tutelare e salvaguardare le nuove generazioni.
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Giovanni Biggio, professore ordinario di Neuropsicofarmacologia presso l’Università degli Studi di Cagliari: «Stiamo vivendo una rivoluzione epocale poiché le interazioni sociali stanno cambiando. Si sta strutturando un cervello diverso, non necessariamente peggiore. Semplicemente diverso. Quella attuale è una generazione di transizione. E gli effetti di questo passaggio saranno visibili tra qualche decennio, quando il nostro cervello sarà diverso e dovrà confrontarsi con un mondo diverso, con interazioni diverse».
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L’INTERVISTA
INTERNET? SE LO SI USA BENE HA UNA POTENZA ENORME. ANCHE PER GLI PSICHIATRI Parla Valerio Rosso: “Si introduca nelle università un insegnamento per imparare a comunicare, anche con i social”
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etimologia delle parole aiuta sempre quando bisogna comprendere che peso hanno alcuni termini e, soprattutto, come dovremmo noi per primi approcciarci. La parola “virtuale” deriva da “virtus”, cioè potenza, virtù, valore. Ecco perché il grande insieme che tiene dentro tecnologia, social, web, internet non può essere vittima di mistificazione e denuncia tout-court. È un mezzo, uno strumento, una “potenza” (in senso aristotelico) a nostra disposizione. «Dipende dall’utilizzo che se ne fa. E questo può essere positivo o negativo, può portare benefici o essere dannoso. In ultima istanza, dipende dall’utilizzatore, cioè noi», spiega non a caso lo psichiatra, psicoterapeuta Valerio Rosso. Ma Valerio Rosso, che Brain ha avuto la fortuna di intervistare, è molto di più.
È anche un divulgatore. Cosa non banale perché meglio di molti altri lascia intendere un concetto fondamentale: «Tutto ciò che ruota attorno alla medicina e alla scienza non può più fare a meno della capacità comunicativa. Gli effetti nefasti dell’incapacità a divulgare li abbiamo visti con il grande caos scoppiato attorno alla pandemia e al Covid-19». Rosso, invece, è uno che sa comunicare. E ha compreso la forza dei social e di internet in questo ben prima di tanti altri. Il suo primo blog, psiconauta.org, è nato nel 2011. E oggi la sua community conta oltre 500mila persone. Diciamo così: lei è la persona più adatta per dirimere una questione. I social, internet, il web: sono o non sono dannosi? Bisogna partire riconoscendo a questo mondo una potenza incredibi-
L’INTERVISTA
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Valerio Rosso.
le, specie in termini relazionali e divulgativi. Purtroppo, la psichiatria, e direi la scienza in generale, è arrivata molto tardi a capire la forza dei social media, per esempio. Ricordo quando andavo io all’università, i professori di allora mi dicevano: “Rosso, ma lasci stare: psichiatria e social non avranno mai a che fare l’un l’altro”. Sono passati anni e ancora oggi la psichiatria è in un ritardo pazzesco. E questo è un grosso rischio. Perché? Perché se non siamo noi a governare questi strumenti finiamo col diventarne vittime o schiavi. I social, come dicevo, hanno una potenza incredibile e dunque possono ugualmente danneggiare o, perché no, curare: il punto non è il “cosa”, ma il “come” lo utilizziamo. Ma io non mi meraviglierei: è sempre stato così.
I social sono come i libri: ci sono tanti libri che riteniamo spesso indecenti, ma a nessuno verrebbe da dire che i libri tout-court sono il male. E così accade con i social. Prendo ad esempio il mio blog: negli anni mi sono accorto non solo che gli strumenti digitali possono garantire un’ampia capacità divulgativa, ma hanno anche una forza anti-stigma, che è fondamentale per una disciplina come la psichiatria per anni osteggiata. Io, ad esempio, nei miei post e video parlo anche di Tso o di elettroshock, eppure non ci sono haters o persone che inveiscono. E questo perché nel tempo si è creata una community che si è fidelizzata e dunque ho la possibilità di affrontare anche argomenti per troppo tempo ingiustamente osteggiati. Ed è questo quello che medici e scienziati non hanno capito.
“I problemi psicologici nelle società occidentali sono in aumento da anni. Sono la prima voce di costo per la società per la disabilità che generano. Con la pandemi, l’aumento delle richieste di aiuto è aumentato nell’ultimo anno tra il 40 ed il 50% ma l’80% di questa richiesta trova risposta solo nel privato”.
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“Bisogna partire riconoscendo a questo mondo una potenza incredibile, specie in termini relazionali e divulgativi. Purtroppo, la psichiatria, e direi la scienza in generale, è arrivata molto tardi a capire la forza dei social media, per esempio”.
L’INTERVISTA
Si spieghi meglio. Se di temi psichiatrici non ne parlano gli psichiatri, alla fine ne parlano gli altri. Ne parlano, per dire, santoni, guru e così via che mistificano tutto. Ecco perché la divulgazione acquista un ruolo centrale. Anzi, le dirò di più: oggi, considerando che le notizie viaggiano a una velocità incredibile, diventa prioritario divulgare per i medici. È spesso il primo passo per curare. Io introdurrei nelle università un insegnamento specifico sulla capacità di divulgare. Addirittura? Assolutamente sì. Ma non solo nella medicina. Se ci pensa nei nostri percorsi universitari, nessuno ci insegna come comunicare. È tutto affidato al nostro buon senso. E invece è fondamentale, perché anche i pazienti sarebbero meglio disposti se sono informati. Ma ad informare non possiamo essere che noi, esperti della materia. E questo limite è stato visibile an-
che con la pandemia e con il Covid… Assolutamente sì. Il punto focale è che si è in grado di comunicare efficacemente quando un concetto, una teoria, un argomento lo si è assimilato. Soltanto allora si può semplificare e rendere il tema comprensibile a tutti. Il rischio, quando non si affrontano questi passaggi, è banalizzare. E, attenzione: banalizzare non è semplificare, anzi è il suo esatto opposto. Ed è quello che, specie all’inizio è accaduto con il Covid: invece di semplificare, non conoscendo a fondo l’argomento, troppi hanno banalizzato. E dunque hanno detto cose errate. A tutto questo, poi, si è aggiunto l’aspetto sensazionalistico, e tutto così si è ridotto al meccanismo del “click-bait” per cui molte opinioni hanno alimentato tesi false, suggestive e appunto sensazionalistiche. Se invece ci fosse stato qualcuno che, per così dire, avesse fatto già “palestra” nel mondo della divulgazione, sarebbe probabilmente andata
L’INTERVISTA
diversamente. Ecco perché, a maggior ragione, ritengo fondamentale un insegnamento anche nelle università. Il digitale potrebbe avere però dei riflessi anche propriamente clinici. Che ne pensa della telemedicina? Finalmente se ne comincia a parlare. Io ho cominciato a parlare di psichiatria digitale oltre dieci anni fa, e c’era chi mi prendeva per pazzo. Da due anni circa, invece, c’è chi mi scrive, anche colleghi, chiedendomi opinioni a riguardo. Il punto è che spesso i medici sono convinti di poter controllare i cambiamenti, ma non è così. L’onda di trasformazione c’è a prescindere da noi medici. Dunque, sta a noi capire se vogliamo controllarla o farci travolgere. Faccio un esempio: già si sta andando oltre la canonica telemedicina col video. Ci sono studi che stanno vagliando le possibilità offerte dalla realtà virtuale, senza dimenticare le cosiddette “terapie digitali”, alcune delle quali già funzionano. Ovviamente il percorso resta sempre quello ca-
nonico: bisogna sempre e comunque passare per una validazione scientifica. Le faccio, allora, una domanda che in tanti si fanno: stando così le cose è giusto introdurre un bambino anche piccolo al mondo digitale o no? Guardi, mi fanno spesso questa domanda. E sorrido. Perché in realtà l’approccio deve essere quello uguale a qualsiasi altro oggetto. Penso ai libri: si avvicina un bambino al mondo dei libri gradualmente, con le letture dei genitori, ad esempio. Non si abbandona un bambino in un’edicola perché, tanto per dire, potrebbe prendere in mano riviste non indicate ai minori. La cosa è uguale per il web: bisogna proseguire in maniera graduale, accompagnati dai genitori. È folle dare un cellulare a un bambino piccolo e lì abbandonarlo. Google e qualsiasi altro motore di ricerca è come l’edicola di cui parlavamo prima: un bambino non può essere lasciato solo, ma deve conoscere da subito questo mondo accompagnato dai suoi genitori. (C. G.)
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“Se di temi psichiatrici non ne parlano gli psichiatri, alla fine ne parlano gli altri. Ne parlano, per dire, santoni, guru e così via che mistificano tutto. Ecco perché la divulgazione acquista un ruolo centrale”.
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L’INTERVISTA
LA FORZA DELL’ARTE PER COMBATTERE LO STIGMA CONTRO LA PSICHIATRIA Parla l’illustratrice Valentina Merzi, impegnata nel progetto #Parliamone della Fondazione BRF
di Chiara Andreotti
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olori brillanti e tratto deciso, atmosfera da fiaba: questi sono i segni che distinguono l’arte di Valentina Merzi, illustratrice veneziana che ha aderito alla campagna #Parliamone della Fondazione BRF. «Il disegno ha sempre fatto parte di me, fin da piccola», ci spiega Valentina. «Passavo molte ore a ridisegnare scene dei film Disney mettendo in pausa le videocassette per copiarne le immagini. Crescendo l’ho usato per tenere dei diari visivi e, mentre mi occupavo di altro, è sempre stato un binario parallelo che ho coltivato per me stessa».
E quando hai capito che sarebbe diventato il tuo lavoro? Qualche anno fa, dopo aver lavorato per lungo tempo come fotografa, mi sono resa conto che il disegno era il mio canale comunicativo privilegiato, quello naturale con il quale mi sentivo più libera di esprimermi. Ho cominciato a raccogliere le mie illustrazioni per un calendario pensato per gli amici, da lì hanno cominciato ad arrivare delle richieste di commissioni e ho cominciato a prendere più seriamente quello che fino ad allora avevo vissuto solo come una passione privata. La svolta è arrivata con il
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Valentina Merzi.
primo lockdown nel 2020, ho forzatamente avuto più tempo da dedicare all’illustrazione e ho deciso di investire le mie energie nel farla diventare un lavoro. Oltre ai lavori su commissione, ritratti e calendari, sei arrivata da poco nelle librerie con un libro da te illustrato e scritto da Maria Teresa Milano per Edizioni Sonda: “Le indomabili donne della Bibbia”. Cosa ti va di raccontarci del tuo libro? È un progetto al quale tengo molto perché ho potuto dedicarmi ad una delle parti del mio lavoro che più amo: ritrarre donne. Il libro è composto di 20 capitoli con biografie narrate in prima persona da 25 figure femminili dei testi sacri, alcune poco conosciute o fraintese, raccontate male, nascoste dietro ad una narrazione piena di stereotipi e inesattezze. Il libro contiene
anche degli approfondimenti su alcuni temi poco indagati in relazione alla Bibbia, come la violenza sulle donne, e molti riferimenti all’arte, la letteratura, il cinema, la musica e la cultura pop. Ed è proprio contro la violenza sulle donne l’illustrazione che hai realizzato per il progetto #Parliamone un’illustrazione delicata e potente per ricordare quanto dannosa sia la violenza psicologica. Come ti lasci ispirare dalle emozioni? Ho sempre tenuto un diario, in parte scritto in parte disegnato, e ho sentito più urgente lavorare sulle emozioni apparentemente più negative, forse per capirle meglio, per dare dei contorni a quello che provo. E ti senti stimolata anche da quelle che chiami emozioni negative? Molto: la tristezza, la malinconia,
“Ho sempre tenuto un diario, in parte scritto in parte disegnato, e ho sentito più urgente lavorare sulle emozioni apparentemente più negative, forse per capirle meglio, per dare dei contorni a quello che provo”.
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“Il mio rapporto con la salute mentale? È un tema molto presente nella mia vita, è anche spunto per alcune mie illustrazioni: ultimamente ho cominciato una serie che ho intitolato “I diari della terapia”. Cerco di parlarne con onestà, di condividere la mia esperienza in modo da normalizzare il più possibile il fatto, per esempio, di scegliere un percorso terapeutico o di dare un nome alle difficoltà che attraversiamo, senza vergogna”.
L’INTERVISTA
il senso di inadeguatezza, l’ansia, il dolore sono sempre state propulsive per il mio lavoro, come dicevo, uso il disegno anche per capirle meglio. Com’è il tuo rapporto con la salute mentale? È un tema molto presente nella mia vita, è anche spunto per alcune mie illustrazioni: ultimamente ho cominciato una serie che ho intitolato “I diari della terapia”. Cerco di parlarne con onestà, di condividere la mia esperienza in modo da normalizzare il più possibile il fatto, per esempio, di scegliere un percorso terapeutico o di dare un nome alle difficoltà che attraversiamo, senza vergogna. In questi ultimi anni, per me, la salute mentale è stata la grande assente dal discorso pubblico, non mi pare si sia fatto abbastanza per sostenere le persone in un momento problematico come quello che stiamo attraversando. Mi auguro che si metteranno in campo delle politiche più attente, di sostegno reale (economico e di potenziamento dell’offerta sul territorio) all’accesso alle varie forme di sostegno psicologico e psichiatrico. Al momento la salute mentale sembra un privilegio per pochi, per chi può permettersi di investire in un percorso di cura, mi sembra profondamente ingiusto. E del percorso terapeutico che cosa pensi? Credo che la scelta di cominciare una terapia anni fa sia stata la migliore della mia vita, io non ho fortunatamente mai vissuto lo stigma rispetto ai percorsi terapeutici, che sento purtroppo ancora troppo diffuso nella nostra società: chiedere aiuto è un atto di amore verso se stessi, non ci rende deboli, sbagliati, strani, ma anzi
è fondamentale per prendere in mano la propria vita e smettere di sentirsi destinati alla sofferenza, smettere di credere di non poter cambiare le cose, anche le più difficili. Come percepisci l’influenza della salute mentale sul tuo lavoro? Nel lavoro autonomo può succedere di sentirsi soli o preda delle ansie di non essere all’altezza, di non farcela, di non essere abbastanza bravi. I social come Instagram sono un ottimo canale di promozione e di scambio ma allo stesso tempo possono far cadere in un vortice di confronto con tutte le altre persone che ci sembrano più realizzate, più efficienti, più creative, più brave di noi. Quando sento che succede cerco di ritornare al centro di me, ricordarmi che ogni percorso è unico, che non sono in ritardo, che non sappiamo davvero nulla della vita degli altri, degli sforzi che fanno per apparire così perfetti dall’altra parte dello schermo. Il mio principale scoglio è superare l’ansia di perfezione, ho paura di non aver mai fatto “abbastanza”, di non sentirmi mai interamente soddisfatta dei traguardi che raggiungo... ci sto lavorando!
Illustrazione di Valentina Merzi.
Fumettisti contro lo stigma della malattia mentale
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L’INTERVISTA
GLI ADOLESCENTI HANNO BISOGNO DEL NOSTRO AIUTO, MA ABBIAMO POCHI PSICHIATRI IN ITALIA Intervista a Enrico Zanalda, copresidente della Società Italiana di Psichiatria e direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl TO3
di Andrea Zanotto
G
iuseppe Ondei, presidente della Corte di Appello di Milano, lo scorso 22 gennaio, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario, ha evidenziato come durante la pandemia «i ragazzi in carico ai servizi della giustizia minorile per maltrattamenti contro i familiari nel distretto milanese siano aumentati di oltre il 40% e la loro età media si sia abbassata: la maggior parte ha meno di 15 anni». Ondei non si è però limitato a una presa d’atto. Ha sottolineato come sia «sempre più urgente mettere in campo un’azione
preventiva efficace per intercettare il disagio, accentuato dall’isolamento e dal confinamento imposti dalla pandemia. Manca un piano educativo e sanitario sulla salute mentale, inteso a individuare precocemente i segni di disturbi psichici e comportamentali dei giovani e dei ragazzi, nonostante siano aumentati i gesti di autolesionismo, accentuati dalle sfide online, e siano raddoppiati i tentativi di suicidio e anche i suicidi portati a termine». Un quadro agghiacciante. Ne abbiamo parlato con Enrico Zanalda, direttore del Dipartimento intera-
L’INTERVISTA
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Enrico Zanalda.
ziendale di salute mentale dell’Asl TO3 e dal 2018 copresidente della Società Italiana di Psichiatria. È così drammatica la situazione degli adolescenti? Da un punto di vista psicologico gli adolescenti – cioè chi ha dai 15 ai 22, o anche 25 anni – hanno patito più di tutti le restrizioni: il lockdown, la didattica a distanza, l’impossibilità di fare sport. I neuropsichiatri infantili ci dicono di non avere mai visto una situazione come quello che stiamo vivendo. Purtroppo, le conseguenze di quanto sta accadendo ci accompagneranno per decenni. Agli adolescenti sono rimasti quasi solo i social. Per fortuna ci sono i social! Gli anni dell’adolescenza sono quelli della formazione, dei cambiamenti, delle identità precarie. I social non
sono certo sufficienti, ma hanno contribuito a dare ai ragazzi la possibilità di mantenere relazioni extra familiari e li hanno aiutati a formare quell’identità gregaria che si sviluppa all’interno di gruppi di coetanei. Ha accennato alle conseguenze a lungo termine di questo periodo di pandemia. Sicuramente si riferisce anche al legame tra rendimento scolastico e salute mentale. In Portogallo il 72% di chi abbandona la scuola presenta un disturbo mentale, mentre in Danimarca, dove prevenzione e promozione della salute mentale sono più consolidati, il tasso scende all’8,3%. Sarà difficile colmare il debito formativo accumulato in questi anni, anche all’università. I ragazzi hanno mediamente una preparazione inferiore rispetto a quella che avrebbero
“Da un punto di vista psicologico gli adolescenti – cioè chi ha dai 15 ai 22, o anche 25 anni – hanno patito più di tutti le restrizioni: il lockdown, la didattica a distanza, l’impossibilità di fare sport. I neuropsichiatri infantili ci dicono di non avere mai visto una situazione come quello che stiamo vivendo”.
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“Da noi l’ambito delle cure psichiatriche e psicologiche è prevalentemente privato, un po’ come accade per le cure odontoiatriche. Eppure, in Italia abbiamo un modello abbastanza avanzato: siamo stati l’unico paese, fin dal 1978, a chiudere gli ospedali psichiatrici, ma non abbiamo investito a sufficienza nella rete territoriale dei servizi, lasciando la riforma a metà”.
L’INTERVISTA
potuto avere in una situazione normale. I più meritevoli, appassionati, seguiti dalle famiglie, riescono ad andare avanti, ma c’è tutta una fascia di ragazzi che, se non adeguatamente stimolata, rischia di perdersi. Nei paesi del Nord Europa gli investimenti nella didattica e nella prevenzione e promozione della salute mentale sono da sempre maggiori. Basti pensare all’ambito tecnologico: in quei paesi la telemedicina è molto più sviluppata che da noi. In effetti in Svezia il 10 per cento della spesa sanitaria totale viene speso per la salute mentale, in Italia solo il 3,5%. Credo dipenda da una mancanza di attenzione da parte dei decisori politici. Da noi l’ambito delle cure psichiatriche e psicologiche è prevalentemente privato, un po’ come accade per le cure odontoiatriche. Eppure, in Italia abbiamo un modello abbastanza avanzato: siamo stati l’unico paese, fin dal 1978, a chiudere gli ospedali psichiatrici, ma non abbiamo investito a sufficienza nella rete territoriale dei servizi, lasciando la riforma a metà. Spero che i soldi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza servano a colmare questo vuoto, dando un aiuto concreto ai malati e alle loro famiglie. Se si interviene precocemente le situazioni non peggiorano, non cronicizzano, o perlomeno cronicizzano con minore frequenza. Alla fine l’investimento nella salute mentale fa anche risparmiare. Come dovrebbero essere spesi i finanziamenti? In tecnologia, ma soprattutto nelle persone. In questo momento abbiamo una grossa difficoltà a reperire professionisti. Non mancano
solo in Italia: strutture sanitarie di altri paesi – Svizzera, Francia, Regno Unito – vengono da noi a fare campagna acquisti. Del resto all’estero gli psichiatri vengono pagati di più e non hanno turni e guardie massacranti. Per dare un’idea basti pensare che nel mio servizio mancano ben 13 psichiatri dei 50 previsti dall’organigramma. Nelle zone metropolitane la mancanza si fa meno sentire,
L’INTERVISTA
ma in provincia la mancanza di professionisti mette a rischio i servizi: in Lombardia, ad esempio, Milano e Brescia reggono, ma sono stati chiusi ben quattro SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura). Com’è possibile risolvere questo problema? In primo luogo, aumentando i posti disponibili nelle Scuole di specializzazione. Da dieci anni faceva-
mo notare come il numero dei giovani specializzati non sarebbe bastato a colmare il numero dei pensionati. Finalmente il Miur ha triplicato il numero dei posti a disposizione. In ogni caso dovremmo aspettare almeno tre anni per assistere a un’inversione di tendenza. Nel frattempo? Psicoterapeuti e psicologi non mancano. Si potrebbe pensare di rimodulare alcuni servizi utilizzandoli maggiormente, almeno in ambito ambulatoriale, pur tenendo presente che esistono ambiti ospedalieri e settori presidiabili solo da psichiatri. Un’ultima domanda. C’è qualcosa che si potrebbe fare per convincere chi non vuole vaccinarsi? Uno studio su un campione di 15mila persone, pubblicato recentemente, ha mostrato come le notizie false sui vaccini hanno maggiore presa sulle persone depresse. Curare la depressione, avere buoni servizi territoriali, potrebbe diminuire il numero di chi si lascia convincere a non vaccinarsi. E poi si si dovrebbe smettere di terrorizzare le persone e ridimensionare la paura della malattia, soprattutto adesso che buona parte della popolazione è vaccinata. Bastano e avanzano le conseguenze che avremo negli anni a venire. I disagi che tutti, più o meno, abbiamo subito, spariranno con lo svanire dello stress che li ha determinati. Ma chi ha subito disturbi impattanti sulla vita quotidiana, sulla propria attività lavorativa, dovrà curarsi le ferite. Dipenderà molto dalla resilienza di ogni singolo individuo: qualcuno magari ne uscirà rafforzato, altri indeboliti.
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“Uno studio su un campione di 15mila persone, pubblicato recentemente, ha mostrato come le notizie false sui vaccini hanno maggiore presa sulle persone depresse. Curare la depressione, avere buoni servizi territoriali, potrebbe diminuire il numero di chi si lascia convincere a non vaccinarsi. E poi si si dovrebbe smettere di terrorizzare le persone e ridimensionare la paura della malattia, soprattutto adesso che buona parte della popolazione è vaccinata”.
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CONTRIBUTO
NASCITA DELLA NEUROETICA (SECONDA PARTE): DALLA BIOFISICA ALLE NEUROSCIENZE Intervista a Enrico Zanalda, copresidente della Società Italiana di Psichiatria e direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Asl TO3
di Alberto Carrara Direttore del Gruppo di Neurobioetica (GdN) dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Docente di Neuroetica presso la Facoltà di Psicolofia dell’Università Europea di Roma, Membro della Pontificia Accademia per la Vita, Fellow dell’UNESCO Chair in Bioethics and Human Rights e Presidente dell’Istituto Internazionale di Neurobioetica.
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ell’approfondimento di gennaio abbiamo tratteggiato il “fondatore” delle “neuroscienze”, almeno uno dei più rilevanti: il biofisico Francis Otto Schmitt che, dal 1962, con il suo Neuroscience Research Program ha inaugurato questo contesto interdisciplinare sullo studio dello sviluppo, struttura e funzione del sistema nervoso e del cervello nello specifico. Questo mese consideriamo un tassello in più della narrativa storica sulla neuroetica: l’orizzonte della Bio-Etica.
A cavallo tra il 1970 e il 1971, l’immagine del “ponte” (introdotta dal fisico e letterato inglese Charles Percy Snow con la sua Rede Lecture di Cambridge del 1959 intitolata The Two Cultures and the Scientific Revolution) venne evocata dall’oncologo Van Rensselaer Potter (19112001) per definire la Bio-Etica: quel settore interdisciplinare di riflessione sulle applicazioni della bio-medicina e bio-tecnologia ad ogni fase della vita dell’essere umano. La comparsa di questo neologismo che rese noto e divulgativo il suo impiego risale al 1970 e si deve
CONTRIBUTO
all’articolo Bioethics, The Science of Survival pubblicato su Perspectives in Biology and Medicine (n. 3, 1970). L’articolo e anche il primo capitolo del volume Bioethics. Bridge to the Future, pubblicato nel 1971, furono firmati da Van Rensselaer Potter, professore di oncologia e direttore del Laboratorio McArdle per la Ricerca sul Cancro, della Scuola di Medicina dell’Università del Wisconsin. Bioethics. Bridge to the Future riscontrò immediatamente un grande successo che persiste nelle citazioni in materia sino ad oggi. Esso è una raccolta di tredici articoli, dieci dei quali già pubblicati, tra il 1962 e il 1970, su diverse riviste scientifiche ed economiche statunitensi. Come dichiarato dall’autore nella prefazione, il libro costituisce il frutto della sua esperienza di oncologo e della lettura di alcuni testi essenziali. Per un approfondimento storico suggerisco: B. Chiarelli & E. Gadler (1989) Nota storica. Van Rensselaer Potter e la nascita della Bioetica, Global Bioethics, 2:5, pp. 61-63. L’accostare per integrare una sfera scientifica, il bios, con una umanistica, l’etica, richiamava un certo tentativo di sanare la contrapposizione tra le due culture, scientifica e umanistica, dipinta dallo stesso Snow. La questione fondamentale è l’armonizzazione tra i risultati delle scienze moderne e delle tecnologie emergenti con quei criteri per l’agire umano che l’etica scopre e codifica. Il presupposto del volume di Potter e che vale anche, come vedremo nei prossimi mesi, anche per la Neuro-Etica, “è la considerazione che esiste, nel mondo contemporaneo, una innaturale e pericolosa suddivi-
sione tra due ambiti del sapere, incapaci ormai di comunicare reciprocamente, quello scientifico e quello umanistico. In seguito a questa immotivata e rigida separazione di ruoli e competenze, l’etica è diventata terreno esclusivo della cultura umanistica, privando la scienza di una guida per l’azione che contempli anche i valori morali. Ma i valori etici non possono essere separati dai fatti biologici: la sopravvivenza dell’intero ecosistema dipende, sostiene Potter, dalla creazione di un ponte tra queste due culture. «Bioethics. Bridge to the Future» non intende essere quel ponte, ma solo dare un suggerimento e contribuire allo sforzo di chi sostiene che questo collegamento debba essere creato” (B. Chiarelli & E. Gadler, 1989, p. 61). Un secondo presupposto interessante ai fini di comprendere me-
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La questione fondamentale è l’armonizzazione tra i risultati delle scienze moderne e delle tecnologie emergenti con quei criteri per l’agire umano che l’etica scopre e codifica.
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“La scienza non può più permettersi di essere semplicemente un insieme di nozioni e capacità, ma deve elevarsi al grado di sapere-saggezza non tanto come possesso di conoscenze, ma soprattutto come guida per l’azione”.
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glio la genesi della Neuro-Etica e i suoi sviluppi teoretici ed applicativi, emerge dal pensiero antropologico di Potter stesso e che sarà antitetico rispetto alla visione della “fondatrice” della Neuro-Etica, la neuropsichiatra Pontius (rileggi l’approfondimento di dicembre 2021 su questa rivista). “La scienza non può più permettersi di essere semplicemente un insieme di nozioni e capacità, ma deve elevarsi al grado di sapere-saggezza non tanto come possesso di conoscenze, ma soprattutto come guida per l’azione. Questa fase di crescita e di maturazione è rappresentata dalla bioetica, una scienza nuova, che insegna come usare le conoscenze, soprattutto quelle biologiche, per la sopravvivenza. Suo fine è il miglioramento del livello della vita (miglioramento che deve esse-
re tanto materiale che spirituale) e il bene della specie umana, attuale e futura. Secondo Potter, per realizzare un tale scopo, questa scienza deve creare una realistica immagine dell’uomo e del suo ambiente, il che impone di unire la cultura umanistica e quella scientifica. La bioetica, infatti, si basa sui valori umani e sulle conoscenze biologiche, in particolare quelle ecologiche (indispensabili per l’uomo, essendo questi inevitabilmente inserito in un ambiente naturale), quelle genetiche (studio di tutti i meccanismi ereditari che in parte vincolano, in parte spiegano la natura umana), e quelle fisiologiche (studio di tutte le funzioni individuali)” (B. Chiarelli & E. Gadler, 1989, p. 61-62). Ora, per Potter, però, l’uomo sarebbe paragonabile a una macchina cibernetica che gestisce informazioni e prende decisioni conseguenti. La visione dell’oncologo fondatore della Bio-Etica si avvicina molto alle teorie computazionali alla base del comportamentismo e di altre tendenze riduzionistiche della costituzione dell’essere umano, concetti così tanto superati dalla contemporanea integrazione multi-sistemica dell’intrinseca e mutua dipendenza tra sistemi anatomo-funzionali della corporeità umana: in ambito psichiatrico, dalla postulazione e sviluppo dei cinque principi della psichiatria biologica del Premio Nobel per la Medicina Eric Richard Kandel (1929-), la persona umana è intesa quale organismo dinamico la cui struttura biologica non è accidentale, ma essenziale ad ogni sviluppo patologico e ad ogni processo terapeutico.
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Depressione resistente: strategie farmacologiche e somatiche Gli approcci terapeutici per trattare i pazienti in maniera appropriata di Alessandro Cuomo, Andrea Fagiolini, Claudia Libri, Giovanni Barillà, Pietro Carmellini
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organizzazione Mondiale della Sanità ha certificato che, dal 2017, la depressione è la prima causa medica di invalidità. Il trattamento della depressione può contare oggi su svariati approcci e molti pazienti, se trattati in modo appropriato, recuperano rapidamente il loro benessere e la loro qualità di vita. Tuttavia, circa il 30% dei pazienti con depressione, non risponde in modo ottimale ai trattamenti. Attualmente, si definisce Depressione Resistente al Trattamento la resistenza ad almeno due antidepressivi, a dosaggi, aderenza e durata di trattamento adeguati. I farmaci disponibili vanno dagli Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina e Inibitori della Ricaptazione della Serotonina e Noradrenalina ai triciclici, più vecchi ma utilizzabili se la tollerabilità e la storia clinici lo consentono. Con la strategia di “augmentation” si aggiungono bassi dosaggi di stabilizzanti o antipsicotici per completare l’efficacia dell’antidepressivo. Le strategie farmacologiche più nuove per il trattamento della depressione resistente comprendono la ketamina, un farmaco anestetico dotato anche di potenti proprietà antidepressive che funziona come antagonista del sistema glutammatergi-
co, e l’esketamina, il suo stereoisomero levogiro. Entrambe vengono usate in aggiunta alla terapia farmacologica antidepressiva. La ketamina, non ancora approvata ufficialmente ma usata in modalità ‘off label’, in casi molto selezionati, si somministra in centri specializzati, tramite infusioni endovenose di circa 40 minuti in dosi subanestesiche. Il farmaco ha una rapida azione e la sua somministrazione richiede un monitoraggio specialistico di un anestesista. L’esketamina, da poco approvata in Europa quindi “in label”, viene somministrata per via inalatoria. Dopo la somministrazione, è necessario un periodo di osservazione da parte di un sanitario di circa 2 ore. Altri trattamenti non farmacologici per la depressione, includono la Light Therapy, ossia la “terapia della luce”, somministrata tramite una lampada che eroga un’illuminazione di 10000 lux. La Stimolazione TransMagnetica si effettua in alcuni centri in Italia ben distribuiti sul territorio. Molti trattamenti antidepressivi possono beneficiare anche di una psicoterapia aggiuntiva. Gli obiettivi futuri mirano a una terapia sempre più personalizzata nella accessibilità delle cure.
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L’INCHIESTA
Allarme suicidi in carcere anche nel 2022 Il dato preoccupanete: una vittima ogni tre giorni di Chiara Andreotti
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isuona preoccupante l’allarme che arriva dalle carceri italiane: da inizio anno ci sono stati 8 suicidi tra i detenuti, uno ogni tre
giorni. I numeri segnano una notevole crescita solo nelle prime tre settimane del nuovo anno che, se il trend dovesse rimanere immutato, rischia di fare del 2022 l’anno con più morti per suicidio tra i detenuti. Già al termine dello scorso anno era risultata evidente l’emergenza: con 54 suicidi avvenuti nelle carceri nel 2021 e oltre 500 negli ultimi 10 anni non possiamo fare altro se non interrogarci sulle cause di questo malessere che sembra essere diventato collettivo. Il 2021 presentava più di 54.000 detenuti sul territorio italiano divisi in 189 strutture. Ma sappiamo bene che la pandemia da Covid-19 ha mescolato le carte in tavola, sia per quanto riguarda il benessere mentale che la gestione degli spazi personali. La parola isolamento, che per noi sta diventando un termine lentamente sempre più quotidiano, per i detenuti lo era già da tempo, minando e compromettendo in alcuni casi la salute mentale. Anche le strutture detentive in questi ultimi mesi si stanno adattando al momento storico: per limitare i contatti tra posi-
tivi e non, si è persa la distinzione tra case circondariali e di reclusione e, come spiega coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone “questo fenomeno in cui le persone vengono messe dove capita va avanti da due anni”. Parlare perciò di sovrappopolamento diventa superfluo quando alla mancanza di spazio si aggiunge anche la riduzione del personale dedicato. Come può allora il Covid, che ha stravolto il volto delle carceri, aver portato anche benefici? Dall’inizio della pandemia le carceri sono state fornite di servizi per chiamare e videochiamare i parenti e i cari all’esterno, in modo da far fronte alla necessità di limitare i contatti: da quel momento i detenuti di molte strutture sono in contatto con i familiari quasi quotidianamente e ciò permette loro di vivere la reclusione con uno spirito relativamente più sereno. Sempre con lo scopo di liberare le carceri, l’Italia ha puntato sulla detenzione domiciliare e sul reinserimento al lavoro per tutti coloro che rispondevano ai requisiti: i detenuti possono quindi acquisire una maggiore consapevolezza del loro valore e tornare ad una vita sempre più vicina alla libertà, sia dal Covid che dalla cella.
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Cure palliative in ospedale UN DIRIT TO DI TUT TI
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SUICIDI L’EMERGENZA DIMENTICATA Estratto del libro “Ogni vita conta. Intercettare il rischio suicidario e intervenire con efficacia” (Franco Angeli), a cura di Cristian Romaniello e che ospita all’interno l’opinione di numerosi professionisti della salute mentale, e non solo
di Cristian Romaniello
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el nostro Paese, in tempi “ordinari”, considerando l’assenza di un vero osservatorio dedicato, siamo in grado di stimare circa 4mila suicidi all’anno. Questo elemento non tiene conto del dato sommerso, composto da quei suicidi che non abbiamo facoltà di considerare per assenza di strumenti adeguati, come un sistema di rilevamento specifico o un centro studi in forze ad un servizio di osservazione del fenomeno, e possiamo estendere il ragionametnto ai tentativi di suicidio, alle ideazioni suicidarie ed ai comportamenti di natura autolesiva. Con un dato sottostimato, dunque, ogni anno contiamo più vittime di suicidio che della strada. E mentre consideriamo che questo dato evidenzia un dramma, paragonabile ad una bomba atomica dilazionata in 10 anni, capace di far sparire una città di medie dimensioni, cosa possiamo pensare sapendo che tra noi e una persona che si sia tolta la vita ci sono al massimo 4 intermediari relazionali? La teoria del piccolo mondo (nota anche come “teoria dei sei gradi di separazione”) di Stanley Milgram (1933 - 1984), noto psicologo e professore americano operante nel secolo scorso, che prendeva spunto dal racconto dello scrittore ungherese Frigyes Karinthy (1887 - 1938), intitolato Catene (1929), ci assicura che, all’epoca, tra ogni persona e chiunque altro nel Mondo non vi erano più di 6 intermediari relazionali. Alla fine degli anni ‘60, Milgram condusse un esperimento molto elegante. Scelse alcuni cittadini americani del Midwest, e chiese loro di spedire un pacco a un abitante del Massachussets a loro del tutto estraneo. I partecipanti all’e-
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La storia è in grado di mostrarci, grazie agli sforzi di coloro che hanno approfondito le conoscenze dei tempi passati, che cosa accade durante e in seguito ai periodi di crisi, siano queste crisi di natura agricola, industriale, economica o finanziaria, abbiano esse radici pandemica, bellica o di altra natura. All’aumentare delle violenze, della disoccupazione, del prezzo dei cereali o di beni di prima necessità, così come alla riduz ione dei salari, del potere d’acquisto o della qualità della vita delle famiglie, corrisponde sempre un aumento del tasso di suicidio nella popolazione.
FOCUS
sperimento conoscevano il nome del destinatario e lo Stato dove lo stesso viveva, ma non l’indirizzo. Fu quindi chiesto di inviare il pacco alla persona di loro conoscenza che ritenessero avere più probabilità di conoscere il destinatario. Questa persona avrebbe poi a sua volta eseguito lo stesso compito, fino ad arrivare a consegnare il pacco alla persona inizialmente indicata. L’esperimento dimostrò che, per arrivare al destinatario finale, ci vollero mediamente 5,2 passaggi, i gradi di separazione. Si consideri che, con l’avvento dei social network, secondo uno studio dell’Università di Milano, i gradi di separazione si sono ridotti a soli 3,7. Nessuna persona che soffra così tanto da arrivare a togliersi la vita è più distante a noi di così, di questi pochissimi gradi di separazione. L’obiettivo di questo progetto editoriale è stato sin da subito quello di rispondere ad alcune lacune di conoscenza, dal punto di vista tecnico, esperienziale e addirittura legislativo, su un tema troppo trascurato: il suicidio e i fenomeni correlati ad esso. Oltre all’importanza di cosa si scrive al riguardo, è fondamentale sapere a chi ci si rivolge, alla trattazione di un tema che, come abbiamo visto, tocca tutti noi così da vicino, deve poter essere messo a disposizione di tutti, dal lettore esperto al genitore che si sente la necessità di approfondire l’argomento, dal politico che desidera intervenire sul sistema di supporto e intervento a chi non sa come gestire una situazione difficile, e così via. Il periodo di stesura di questo testo è segnato, inoltre, da un evento straordinario, senza precedenti: la pandemia dovuta alla diffusione del coronavirus SARS-CoV2. La storia è in grado di
mostrarci, grazie agli sforzi di coloro che hanno approfondito le conoscenze dei tempi passati, che cosa accade durante e in seguito ai periodi di crisi, siano queste crisi di natura agricola, industriale, economica o finanziaria, abbiano esse radici pandemica, bellica o di altra natura. All’aumentare delle violenze, della disoccupazione, del prezzo dei cereali o di beni di prima necessità, così come alla riduz ione dei salari, del potere d’acquisto o della qualità della vita delle famiglie, corrisponde sempre un aumento del tasso di suicidio nella popolazione. Se, dunque, in periodi ordinari è necessario affrontare il tema in oggetto, in periodi di crisi o prossimi ad essi lo è ancora di più, è urgente. Questo lavoro possiede, nello specifico, il proposito di offrire elementi di conoscenza che possano raggiungere un pubblico vasto, con particolare riguardo per i professionisti di settore che intendano approfondire le proprie competenze in un ambito estremamente particolare. Tentando di offrire una visione ampia del problema, questo testo conserva i contributi di eminenti personalità del mondo della salute mentale, che hanno risposto gentilmente alla richiesta di partecipazione che ho loro posto, in ordine alla ricerca di uno sviluppo il più completo possibile della trattazione. Nel fluire del saggio, il lettore incontrerà anche due capitoli dalla natura inedita per un’opera adatta a questa collana. Un capitolo rappresenterà la testimonianza di chi, più di chiunque altro, ha subito l’impatto col dramma ed è stato costretto a convivere con la disperazione, trovando le motivazioni per fare in modo che quella devastazione emotiva sia più comprensibile
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per coloro che dovranno o vorranno capirla in seguito. Voglio ringraziare, prima di tutti, gli amici Stefania e Domenico per l’importante contributo, che si inserisce nella loro esperienza vissuta, nel dramma che non vorremmo mai trovarci a vivere in prima persona e che essi, con coraggio, hanno dovuto superare e, con generosità, hanno reso disponibile. Un altro capitolo non clinico riguarda la sfera istituzionale e l’importanza di una normativa di settore all’avanguardia, perché il sistema sanitario sia attento e responsivo al tema. Tale capitolo è l’espressione della mia modesta partecipazione al progetto. Intendo ringraziare la Casa editrice, FrancoAngeli, nella persona di Ilaria Angeli, per l’attenzione riservata al tema e il curatore della collana “Pratica Clinica”, professor Camillo Loriedo, il quale non rappresenta solo un (me lo conceda) raffinato compagno di viaggio, ma anche il rappresentante dell’approccio clinico sistemico relazionale, a disposizione del lettore. Ringrazio di cuore gli eminenti autori di ogni capitolo, che hanno accolto l’invito a collaborare per questo progetto: - la professoressa Fulvia Castelli che, assistita dalla dottoressa Claudia Piazzolla, ha redatto l’interessante capitolo di psicologia sociale; - il presidente Matteo Lancini, che ha trattato il tema declinandolo nella difficile età dell’adolescenza, trovandosi nella condizione di rispondere a tanti dubbi che ogni genitore più dover affrontare; - il professor Diego De Leo, tra gli esperti di settore più noti al mondo, che ha gentilmente accettato di produrre il capitolo generale sul tema, insieme alla dottoressa Andrea Viecelli Giannotti;
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- l’amica, dottoressa Chiara Mangiarotti, autrice del capitolo che sviluppa la prospettiva fenomenologica; - i professori nino Carcione e Giuseppe Nicolò, che hanno curato il capitolo relativo all’approccio cognitivo/ comportamentale; - il professor Armando Piccinni, esperto di settore che ha affrontato il tema in oggetto in relazione all’emergenza pandemica; - il professor Mario Francesconi, noto rappresentante della prospettiva psicoanalitica che ne ha sviluppato la visione; - la dottoressa Francesca Ceni, per la puntuale ed esperta, ma piacevole prefazione; - il presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, David Lazzari, per aver espresso il sostegno delle istituzioni di categoria e per aver redatto le conclusioni di questo volume.
“Ogni vita conta. Intercettare il rischio suicidario e intervenire con efficacia” A cura di Cristian Romaniello FrancoAngeli 289 pagine 25 euro
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LONG-COVID IL PUNTO SUI SINTOMI E SULLE PERSONE MAGGIORMENTE COLPITE I risultati degli studi della Fondazione BRF
di Valentina Formica
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ecenti studi mostrano che un numero crescente di persone che ha contratto l’infezione da COVID-19, anche in maniera lieve, sperimenta dopo la guarigione laboratoristica una sintomatologia residua prolungata, il cui profilo e decorso temporale rimangono ad oggi incerti. L’insieme di queste manifestazioni eterogenee prende il nome di ‘long-COVID’, una condizione che secondo le stime dell’OMS interessa circa un quarto delle persone che hanno contratto l’infezione. Quello della long-COVID rappresenta un tema di grande interesse per i ricercatori, molti elementi infatti non sono ad oggi completamente noti e lo studio delle conseguenze a lungo termine dell’infezione è fondamentale per comprendere l’intera storia della malattia, prevedere con precisione l’impatto cumulativo di questa e fornire una migliore assistenza ai pazienti, determinando se sia necessario prendere in considerazione percorsi riabilitativi post-infezione. Definire la long-COVID attraverso una diagnosi non è facile, i sintomi sono numerosi e variano molto a seconda delle persone interessate. La manifestazione generale più comune è la sensazione di una persistente stanchezza (astenia), associata con debolezza, dolori diffusi (sia muscolari sia articolari) e una sensazione di minore efficienza mentale. A seconda degli organi interessati si possono manifestare tosse persistente, difficoltà a respirare correttamente, senso di oppressione al petto, palpitazioni, aritmie e problemi di pressione. Tra i sintomi neurologici il mal di testa è il più ricorrente. La combinazione di uno o più di questi sintomi incide in generale sulla
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Quello della long-COVID rappresenta un tema di grande interesse per i ricercatori, molti elementi infatti non sono ad oggi completamente noti e lo studio delle conseguenze a lungo termine dell’infezione è fondamentale per comprendere l’intera storia della malattia, prevedere con precisione l’impatto cumulativo di questa e fornire una migliore assistenza ai pazienti, determinando se sia necessario prendere in considerazione percorsi riabilitativi post-infezione.
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qualità della vita dei soggetti, spesso con conseguenze sulle condizioni psicologiche. Molti degli interessati segnalano di dormire poco e male, di sperimentare cambi dell’umore e ansia, nonché preoccupazioni date dalla paura di tornare a soffrire di sintomi più gravi e paragonabili a quelli affrontati durante l’infezione. Il sistema respiratorio, i polmoni, indicati come organo bersaglio dell’infezione sono fin dall’inizio della pandemia i sorvegliati speciali. Sappiamo però che l’infezione è multiorgano e che anche il sistema nervoso viene colpito. Sempre più studi indicano che, tramite una serie di meccanismi differenti, l’infezione da SARS-CoV-2 può provocare danni al sistema nervoso. Già ad Agosto 2020 un primo studio in Italia ha descritto le conseguenze di COVID-19 a livello psichiatrico. Nel complesso, i pazienti con una precedente diagnosi psichiatrica mostravano un peggioramento e il 56% dei partecipanti allo studio manifestava almeno un disturbo psicopatologico. I più comuni risultavano essere ansia (42%) e insonnia (40%), seguiti da depressione (31%) e PTSD (28%), accompagnati da una minore performance neuro-cognitiva. Sono infatti ridotte le capacità attentive, di memoria, di coordinamento psicomotorio e di fluenza linguistica che esitano in un generale rallentamento nella velocità di elaborazione cognitiva. Oggi, iniziano ad arrivare anche i primi dati di risonanza magnetica a sostenere il coinvolgimento del cervello nell’infezione. Un recente studio svolto da un gruppo di ricerca dell’ospedale San Raffaele di Milano ha evidenziato che, alla presenza dei sintomi clinici si associa spesso un’alterazione della connettività funzionale, di volume e micro-
struttura della materia grigia e bianca, misurabili tramite tecniche di risonanza magnetica. Per queste motivazioni la Fondazione BRF si sta impegnando nello studio dei sintomi persistenti post-infezione grazie a dei questionari sviluppati ad hoc. Questi indagano la presenza di sintomi sensoriali, somatici, respiratori, gastrointestinali e cardiovascolari nei soggetti guariti laboratoristicamente, prevedendo vari tempi di follow-up, fino a 36 mesi. L’accento è posto sui sintomi mentali-psicologici indagati con l’ausilio di due test standardizzati usati per la valutazione di ansia e depressione. La dipendenza è un fenomeno che implica aspetti cognitivi, sociali, culturali e neurobiologici, investendo l’individuo sia dal punto di vista comportamentale che psicologico. Le conseguenze negative derivanti da tale condizione si ripercuotono nel totale funzionamento della vita della persona, causando uno stato di sofferenza generale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la dipendenza patologica riferendosi unicamente all’uso e abuso di sostanze psicoattive. Oggi, però, la parola dipendenza ha un significato molto più ampio, include al suo interno anche sintomatologie stimolate dallo svolgimento di attività socialmente accettate che non prevedono il consumo di sostanze, le dipendenze comportamentali. Un aspetto peculiare di queste è che coinvolgono e si originano da pulsioni “normali” (come sesso, cibo, amore, denaro), da attività gradevoli del quotidiano, che divengono patologiche nella misura in cui raggiungono un certo livello di eccesso e di pericolosità per la persona. La le-
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gittimità sociale è ciò che rende labile il confine tra attività praticate a scopo ricreazionale e quelle considerate una vera e propria dipendenza. La differenza tra dipendenze di natura fisica o chimica e quelle comportamentali risiede nel fatto che quest’ultime sono incentrate soprattutto su un aspetto psicologico, il soggetto pone in essere comportamenti mirati alla soddisfazione di un bisogno di natura emotiva. I nuovi sviluppi delle scienze neurologiche sostengono una teoria neurobiologica unitaria che considera le dipendenze comportamentali come analoghe a quelle da sostanze. Sono infatti molti i fattori che accomunano le dipendenze comportamentali alle dipendenze da sostanza: la dominanza esercitata dalla sostanza o dall’attività da svolgere sui pensieri e sull’agire del soggetto; il craving; l’influenza sul tono dell’umore; la tolleranza; la progressiva sensazione di perdita del controllo sull’assunzione della sostanza o sull’esecuzione del comportamento; la sindrome d’astinenza; il conflitto indotto dal comportamento disturbato; la negazione della dipendenza; la persistenza dell’uso della sostanza o del mettere in atto determinati comportamenti, nonostante le evidenti conseguenze negative sempre più gravi; la ricaduta. L’adolescenza rappresenta un pe-
riodo fondamentale nello sviluppo di ciascun individuo. La presenza di un assetto cognitivo relativamente immaturo lo rende un momento delicato, durante il quale è elevata l’insorgenza di disturbi psichici, tra i quali proprio le dipendenze comportamentali e chimiche. Per questo motivo, la Fondazione BRF sta conducendo uno studio volto ad indagare l’incidenza della dipendenza da cibo, dal gioco, dallo smartphone, dai social network e dallo shopping, nonché da internet nella popolazione scolastica e universitaria. In questo ambito si sente spesso parlare di polidipendenza e di crossdipendenza e sono noti fattori di rischio quali impulsività e sensation-seeking; perciò, è di cruciale importanza prendere in esame non solo dati relativi alle dipendenze in sé, ma indagare anche i tratti personologici e le caratteristiche psicologiche dei soggetti in studio, così da individuare quelle utili a definire un profilo prototipico degli utenti a rischio di sviluppare dipendenze al fine di sviluppare percorsi di informazione, prevenzione e psico-educazione per i ragazzi e i docenti delle scuole medie e superiori. Visita il sito della Fondazione BRF www.fondazionebrf.org - per effettuare il test sulla long-COVID.
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La Fondazione BRF si sta impegnando nello studio dei sintomi persistenti post-infezione grazie a dei questionari sviluppati ad hoc. Questi indagano la presenza di sintomi sensoriali, somatici, respiratori, gastrointestinali e cardiovascolari nei soggetti guariti laboratoristicamente, prevedendo vari tempi di follow-up, fino a 36 mesi. L’accento è posto sui sintomi mentali-psicologici indagati con l’ausilio di due test standardizzati usati per la valutazione di ansia e depressione.
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IN PARLAMENTO
L’ITALIA È PREPARATA AD AFFRONTARE UNA EMERGENZA “MENTALE”? In Parlamento giace una mozione che impegna il Governo sul tema
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rischi di un’emergenza post-pandemica che colpisca giovani e adolescenti, in effetti, sono dietro l’angolo. Pochi giorni fa la Società italiana di Neuropsicofarmacologia (Sinpf) ha lanciato un allarme sui disturbi psichiatrici, specialmente tra gli adolescenti. «Con un aumento del 26% della depressione e un +28% dei disturbi d’ansia, la quinta ondata della pandemia in Italia è già in atto», ha detto Claudio Mencacci, co-presidente Sinpf. La quinta ondata, dunque, è quella che affligge la mente. Mencacci ha chiarito che questa pandemia non affligge solo chi ha contratto il virus «ma della popolazione generale, a partire dalle categorie più fragili, come le donne, gli anziani e i giovani, colpite dai principali fattori di rischio che sono l’impoverimento, la disoccupazione e l’isolamento». Quello dei ragazzi è un problema mondiale. Un
adolescente su quattro presenta i sintomi clinici della depressione e uno su cinque dà segni di un disturbo d’ansia. I casi sono raddoppiati rispetto al periodo pre-Covid. «Il protrarsi dell’epidemia rischia di comportare conseguenze gravi sulla società di domani», hanno spiegato al congresso. «Più dei bambini – ha continuato Mencacci – ci preoccupano gli adolescenti. Ridotte ore di sonno, aumento dell’aggressività, abuso di Internet anche nelle ore notturne, eccesso di videogiochi. Sono comportamenti indotti dal confinamento ma anche sintomi della depressione». Non solo: uno studio pubblicato sul Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry ha dimostrato che la presenza di sintomi persistenti di depressione da giovanissimi si associa a una vita adulta più difficile, in cui è maggiore il rischio di ansia, abuso di sostanze e perfino condotte cri-
IN PARLAMENTO
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Camera dei Deputati, Palazzo Montecitorio, Roma.
minali. È più elevata la probabilità di avere problemi di salute e relazioni sociali complicate così come di non raggiungere gli obiettivi di studio e carriera. Il problema vero, però, è che in Italia «il personale non c’è tanto che registriamo una sorta di arretramento della riforma psichiatrica perché mancano professionisti, nell’ordine del migliaio. Il territorio è scoperto, così come sono scoperti gli ospedali dove sono stati chiusi molti reparti perché non c’era chi li facesse funzionare. Un fatto gravissimo: così è impossibile sia fare prevenzione che curare», spiegano ancora dal Sinpf. «Abbiamo bisogno di un Pnrr che parli chiaramente di salute mentale. Non ho visto grandi righe su questo tema. Servono risorse per interventi multidisciplinari. Servono prevenzione, interventi precoci e trattamenti. Dobbiamo essere in grado di fare scelte basate sulle evidenze,
laiche, dati alla mano, anche nella eventuale somministrazione di farmaci per i sintomi gravi». In altre parole, rischiamo di essere impreparati davanti a un’emergenza “mentale” che potrebbe colpire soprattutto minori e adolescenti. Da un punto di vista istituzionale l’attenzione è alta, sebbene finora poco si sia fatto. In Parlamento giace una mozione, approvata a larghissima maggioranza e presentata dall’ex ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che prevede l’istituzione di un Piano strategico «sulla salute mentale con interventi mirati, da quelli prettamente sanitari, a quelli di potenziamento delle reti sociali specie per i giovani, finanziati con degli stanziamenti ad hoc del fondo sanitario e con degli investimenti sulle regioni, dove peraltro ci sia una misurazione puntuale degli interventi fatti». Vedremo quali saranno (e se ci saranno) i prossimi passi. (C. G.)
Servono risorse per interventi multidisciplinari. Servono prevenzione, interventi precoci e trattamenti. Dobbiamo essere in grado di fare scelte basate sulle evidenze, laiche, dati alla mano, anche nella eventuale somministrazione di farmaci per i sintomi gravi.
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PROFUMI ED EMOZIONI: COSÌ NEL CERVELLO VANNO DI PARI PASSO Il ruolo dell’ippocampo in alcuni studi recenti
di Antonio Acerbis
SALUTE
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robabilmente l’abbiamo sempre saputo: siamo molto più influenzati dall’odore di quanto crediamo, convinti alcuni di essere guidati soprattutto dalla vista, dall’udito e comunque dall’intelletto. Pensiamo che l’olfatto sia animalesco, istintuale, e in qualche modo un po’ è così, visto che come ha spiegato al Corriere poche settimane fa Sara Spinelli del Sensory Lab (DAGRI) dell’Università di Firenze, «l’odorato è molto legato alla sfera emotiva: i profumi suscitano in maniera diretta ricordi ed emozioni molto più di altre sensazioni, come la consistenza o i colori». Centrale in questo quadro è il ruolo svolto dall’ippocampo. Secondo molti ricercatori la vicinanza anatomica nel cervello del sistema olfattivo con le strutture che elaborano le emozioni, come l’amigdala, o la memoria, come l’ippocampo, fa sì che le sensazioni provate mentre annusiamo un odore vengano «archiviate assieme». Un’ipotesi confermata nelle scorse settimane da una ricerca pubblicata su Cerebral Cortex, che ha provato come gli odori, oltre ad accendere il bulbo e la corteccia olfattiva, attivino anche strutture cerebrali coinvolte nell’elaborazione delle emozioni i circuiti della ricompensa: l’insieme di questi effetti fa sì che appena annusiamo qualcosa possiamo «categorizzarlo» come piacevole o meno, creando allo stesso tempo una memoria autobiografica olfattiva che poi verrà recuperata quando sentiremo ancora quello stesso profumo, proprio come accadeva a Proust coi dolcetti. Gli odori poi risvegliano emozioni anche se non lo vogliamo: lo ha dimostrato uno stu-
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Secondo molti ricercatori la vicinanza anatomica nel cervello del sistema olfattivo con le strutture che elaborano le emozioni, come l’amigdala, o la memoria, come l’ippocampo, fa sì che le sensazioni provate mentre annusiamo un odore vengano «archiviate assieme».
SALUTE
dio dell’università olandese di Wageningen secondo cui dopo appena 100 millisecondi da quando siamo esposti a un’essenza manifestiamo ciò che ci provoca con l’espressione del viso, in appena 400 millisecondi cambia pure la frequenza cardiaca. Questo legame ha addirittura incuriosito esperti di marketing. L’obiettivo? Per esempio, invogliare agli acquisti spandendo nei negozi fragranze che nella maggioranza delle persone suscitano sensazioni positive. Lo facciamo anche con il profumo che scegliamo di indossare: uno studio di antropologi dell’università di Praga ha verificato che la fragranza preferita non deve mai coprire il nostro odore corporeo, ma mescolarsi bene a esso creando un nuovo aroma percepito come piacevole. Lo stesso che inconsciamente cerchiamo di ritrovare in un partner: attraverso i «test della maglietta sudata», nei quali a un gruppo di volontari vengono fatte annusare maglie usate da altri, è stato possibile verificare che il naso umano riesce a distinguere chi ha un sistema immunitario più dissimile dal proprio e quindi è più
attraente, perché l’eventuale prole avrà un minor rischio di malattie genetiche e un sistema immunitario più forte, entrambe caratteristiche vantaggiose in termini evolutivi. I test hanno poi dimostrato che le donne preferiscono l’odore di uomini socialmente dominanti o con geni più compatibili coi propri, i maschi dal canto loro sono in grado di individuare a naso le donne che sono nella fase dell’ovulazione. Insomma, anche gli equilibri ormonali si alterano, quando «sniffiamo» certi odori più o meno compatibili con il nostro. Tutte reazioni inconsce, come quella registrata di fronte al profumo di limone di un detergente: basta sentirlo nell’aria per tendere inconsapevolmente a mantenere più pulito il luogo dove ci troviamo. Poche ore dopo un’infezione e la relativa risposta immunitaria l’odore del corpo cambia e siamo in grado di percepirlo: un meccanismo di difesa da propri simili contagiosi e quindi pericolosi che ha anche la specie umana, stando a esperimenti del Karolinska Institutet svedese.
SALUTE
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Dal Covid segni patologici simili a quelli dell’Alzheimer In due studi, la correlazione tra virus e cervello di Alessia Vincenti
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li studi sugli effetti del Covid-19 continuano a tenere banco e a incuriosire e attirare le comunità scientifiche di tutto il mondo. Le ultime ricerche hanno evidenziato un dato non secondario: le persone che muoiono per Covid-19 grave presentano, a livello cerebrale, modifiche simili a quelle causate dalla Malattia di Alzheimer; in particolare mostrano un accumulo della proteina tau nelle cellule del cervello e quantità anomale della proteina beta-amiloide. Questo è quello che hanno evidenziato due studi, di cui uno guidato da Andrew Marks e colleghi della Columbia University, che hanno analizzato il cervello di 10 pazienti affetti da Covid-19, osservando difetti nelle proteine note come recettori della rianodina, che controllano il passaggio del calcio nelle cellule. Il primo studio ha evidenziato come – nei pazienti Covid presi in esame – i recettori della rianodina difettosi siano collegati all’accumulo della proteina tau nei grovigli neurofibrillari, esattamente come si osserva nella Malattia di Alzheimer. Il secondo studio – pubblicato dal sito bioRxiv, in attesa della peer review, e in preprint da The Lancet – ha invece evidenziato livelli di amiloidi anomali nel cervello dei pazienti Covid-19. Ciò che conta, però, è che in entrambi gli studi, i pazienti avevano soffer-
to delle forme più gravi di Covid-19. Secondo Marks, se le stesse evidenze arrivassero da chi soffre della malattia in forma lieve, si potrebbe capire qualcosa in più soprattutto sulla “brain fog” - e dunque sulla nebbia cognitiva - associata al long-Covid. Di fatto gli esperti del College of Physicians and Surgeons della Columbia University sono giunti alla conclusione che il Covid-19 ha un effetto negativo sui recettori rianodinici, responsabili della formazione dei grovigli neurofibrillari (accumuli proteici che si trovano nei cervelli di coloro affetti da morbo di Alzheimer). Secondo gli scienziati, i recettori rianodinici difettosi sono coinvolti in una serie di processi patogeni, dalle malattie cardiache e polmonari alla risposta del cervello allo stress e al morbo di Alzheimer. «Abbiamo trovato questi recettori difettosi non solo nel cuore e nei polmoni dei pazienti morti per COVID-19, ma anche nel cervello», ha affermato il capo del programma, il dottor Andrew Marks. I ricercatori hanno concluso che la risposta immunitaria del corpo, dopo aver subito una forma grave di Covid-19, provoca infiammazione nel cervello, che a sua volta porta alla disfunzione dei recettori rianodinici. Un nuovo fronte di studio e di ricerca che senz’altro verrà ulteriormente approfondito dalla comunità scientifica.
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SALUTE
BAMBINI ALLERGICI? NASCE TUTTO NELL’INTESTINO Il ruolo del microbioma intestinale in uno studio dell’Azienda Ospedaliera Universitaria e della Federico II
di Francesco Carta
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e allergie? Incredibile a dirsi, ma nascono nell’intestino. Gli immunonutrizionisti del CEINGE, centro di eccellenza dell’Azienda Ospedaliera Universitaria e della Federico II, insieme ai ricercatori della Task Force di Ateneo per gli Studi sul Microbioma, hanno identificato alterazioni del microbioma intestinale nei piccoli pazienti affetti dalla principale patologia cronica dell’età pediatrica in Italia. Si tratta del primo studio sul metagenoma intestinale di bambini affetti da allergie. Una svolta che gli studiosi considerano decisiva per la prevenzione e la cura di una delle patologie pediatriche più comuni. Da tempo il gruppo di ricerca guidato da Roberto Berni Canani, responsabile del Programma di Allergologia Pediatrica del Dipartimento di Scienze Mediche Traslazionali dell’Università
“Federico II” di Napoli e Direttore del Laboratorio di Immunonutrizione del CEINGE, lavora sull’ipotesi che fattori ambientali, attinenti prevalentemente a dieta e stile di vita, siano in grado di determinare un’influenza negativa sul microbioma intestinale (i miliardi di microrganismi che colonizzano il nostro intestino) e sullo sviluppo e funzioni del sistema immunitario, facilitando così lo sviluppo delle patologie allergiche. E proprio di recente, in collaborazione con il team di Danilo Ercolini, Direttore del Dipartimento di Agraria e Responsabile della Task Force dell’Ateneo Federiciano per gli studi sul microbioma, aveva individuato alcune specie batteriche in grado di favorire la comparsa delle allergie, ma erano necessarie ulteriori evidenze sul ruolo di questi microorganismi nell’indurre la malattia. Così, per
SALUTE
risolvere l’enigma dell’origine delle allergie gli studiosi hanno utilizzato tecnologie di avanguardia per la prima volta impiegate nello studio di queste patologie. «Sono molto soddisfatto per i risultati ottenuti e ringrazio di cuore il professor Ercolini e tutti i nostri collaboratori per il grande lavoro svolto in questi anni – afferma il professor Berni Canani -. Abbiamo identificato alterazioni della struttura e delle funzioni del microbioma intestinale in grado di determinare non solo la comparsa di allergie respiratorie o alimentari, ma anche di influenzarne il decorso clinico. Finalmente sarà possibile poter allestire strategie innovative in grado di predire la comparsa ed il decorso delle patologie allergiche, favorire la diagnosi precoce ed aprire la strada ad interventi di prevenzione e terapia più efficaci». Le varie forme di allergia possono essere considerate una delle epidemie del XXI secolo: colpiscono circa il 30% della popolazione pediatrica mondiale. In Italia le allergie sono tra le principali patologie croniche dell’infanzia, ne soffrono almeno 25 bambi-
ni su 100 e il fenomeno è in costante crescita. «La percentuale di bambini allergici in Italia negli ultimi 20 anni è più che triplicata – spiega l’esperto –, passando dal 7 al 25%. In Campania la prevalenza delle allergie alimentari in età pediatrica è aumentata di oltre il 40% nell’ultimo decennio. Nello stesso periodo il numero di bambini che hanno richiesto un accesso in Pronto Soccorso per gravi reazioni allergiche è aumentato del 500%». «I dati ottenuti nel nostro studio rappresentano un tassello importante verso la conoscenza dell’origine delle patologie allergiche che, nonostante decenni di ricerca scientifica, rimane in gran parte sconosciuta, e permettono di evidenziare l’importanza di fattori ambientali (in primis le abitudini alimentari e lo stile di vita) che agendo negativamente sul microbioma intestinale e sul sistema immune del bambino sono alla base dei drammatici cambiamenti epidemiologici», conclude Berni Canani. I risultati delle ricerche sono stati pubblicati sull’ultimo numero della prestigiosa rivista scientifica Nature Communications.
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“La percentuale di bambini allergici in Italia negli ultimi 20 anni è più che triplicata – spiega l’esperto –, passando dal 7 al 25%. In Campania la prevalenza delle allergie alimentari in età pediatrica è aumentata di oltre il 40% nell’ultimo decennio. ”.
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L’AUTORE
LA MIA CONTINUA RINASCITA Intervista a Nino D’Angelo, fra dischi e depressione, libri e successo, storia di uno scugnizzo che non smetterà mai di essere tale
di Flavia Piccinni
“È
stupida la gente che resta in silenzio. Chi ha avuto la depressione può aiutare gli altri. Io ne sono uscito grazie alle cure psichiatriche e all’amore per la mia famiglia”. Mi spiega così, con quella sua voce gentile e riconoscibile, Nino D’Angelo. Re indiscusso di Napoli, romano d’adozione da trent’anni, oggi non ha più il caschetto biondo ma imbiancato, il garbo di chi ha scelto la strada delle buone maniere e di comprendere se stessi. A cominciare dai lati oscuri, quelli che spesso vengono messi da parte e ancora di più taciuti. Oggi D’Angelo ha quasi 65 anni, due figli e quattro nipoti. Nella sua carriera ha venduto oltre 25milioni di album, collezionando dischi di Platino e di Diamante, David di Donatello, Ciak d’oro e Nastri d’Argento. Nelle ultime settimane è impegnato con “Il Poeta che non sa parlare”, progetto che mette insieme con il medesimo battesimo un
album di inediti, un ambizioso tour live e il nuovo libro, appena pubblicato da Baldini+Castoldi. Nella sua biografia, racconta la sua storia di “ragazzo - per citare la prefazione di Nicola Lagioia - che trascorre il tempo tra piccole avventure quotidiane, angosciose paure, gioie esplosive e spaventi improvvisi”. Tanti i momenti toccanti, dal papà che lo ammoniva guardando le biciclette che non ne avrebbe mai avuta una, all’incontro con padre Raffaello che ne intuì giovanissimo il potenziale, passando per le canzoni di malavita e quelle d’amore. «Prima di iniziare la nostra chiacchierata», scherza «le devo però dire una cosa: ogni volta che esce un progetto nuovo si parla di me, e del fatto che vengo sdoganato. E ogni volta mi faccio la stessa domanda». Quale? Mi chiedo da cosa devo essere sdoganato esattamente. La mia carriera è iniziata 44 anni fa. Ho fatto tanti film, tanti mutamenti, non so
L’AUTORE
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Nino D’Angelo.
quanti artisti siano cambiati come me, ma ogni volta si grida alla rinascita. O alla nascita. Effettivamente il primo a parlare di sdoganamento fu Goffredo Fofi. Affermò che lei non era solo un cantante, ma la voce del sottoproletariato napoletano. Era il 1993. Come se lo spiega? Non me lo spiego. Forse perché sono un cantante napoletano, o forse perché quello che faccio è unico. E non lo dico con presunzione. In questi anni sono molto cambiato perché, crescere, equivale a una continua trasformazione. Vivere è cambiare. Ha scritto due autobiografie. Una appena pubblicata, e una uscita vent’anni fa per Mondadori con il titolo “L’ignorante intelligente”. Quante esistenze sente di aver vissuto? Io sono sempre il solito ragazzo di San Pietro a Patierno, la periferia di Napoli, un posto dove vai solo se lo stai cercando. La mia esistenza è cambiata con il tempo, ed è stata trasformata dal talento, dal sacrificio
e dalla fortuna. Per andare avanti in una carriera ci vuole intelligenza, altrimenti si resta meteore. Adoro chi dura tanto perché vuol dire che ha saputo costruirsi con il lavoro. In alcuni casi il pericolo non è forse quello di non sapere quando smettere? Nel mio caso il lavoro è anche la mia passione. Io ho paura di ritritarmi. Se mi togli la musica, se mi porti via l’arte, mi togli mezza vita. Anzi, forse non mi resta niente. Eppure, ci sono momenti, come accaduto durante la pandemia, in cui tutto si ferma. Anche la musica. Il lockdown per me è stato un periodo impossibile. Una valanga di paura è finita su tutti quanti, e ho rischiato di restare sommerso. È difficile raccontare la vita con la morte vicino. Adesso è uscito il suo nuovo disco. Tante partecipazioni, fra cui quella di Toni Servillo che ha registrato l’introduzione parlata Pane e canzone.
“Mi chiedo da cosa devo essere sdoganato esattamente. La mia carriera è iniziata 44 anni fa. Ho fatto tanti film, tanti mutamenti, non so quanti artisti siano cambiati come me, ma ogni volta si grida alla rinascita. O alla nascita”.
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“Io vengo dalla povertà, dalla sopravvivenza, perché più che vivere la mia famiglia ha sopravvissuto. Ho iniziato a lavorare a tredici anni, subito dopo la terza media, perché in casa con il solo stipendio di mio padre non riuscivamo ad arrivare a fine mese. Eravamo in otto, e io sono venuto su come figlio di tutte le persone del mio palazzo. Ho vissuto la ricchezza vera: quella dell’affetto”.
L’AUTORE
Provavo imbarazzo a chiedergli to crescere nel mondo, fra italiani e di collaborare, poi un giorno mi sono stranieri, cercando di cavarmela. deciso a telefonargli. Lui mi ha detChe scuola è stata quella della to che avrebbe voluto leggere quello stazione di Napoli Centrale? che avevo scritto. Gliel’ho mandato Una scuola di vita e di fratellanza. e subito mi ha chiamato. Mi ha det- Se io non riuscivo a vendere i gelati, to: come faccio a dirti di no davanti perché il tempo era poco e rischiavaa una cosa così bella? no di squagliarsi, chi aveva magari il Se lo aspettava? banchetto delle sigarette mi veniva in Non mi aspetto mai niente. An- soccorso. Poi, siccome d’inverno i geche il successo del libro è una sor- lati non si vendevano, ci siamo invenpresa. Io non sono uno scrittore, ma tati i caffè sul treno. Io facevo la tratta un cantautore che ha utilizzato la pa- Formia-Napoli. Il film Caffè Espresso rola scritta e cantata per esprimersi. di Nanni Loy si è ispirato a noi. Pensa di non aspettarIntanto coltivava un sosi niente perché è partito gno, quello di fare il canda zero? tante. Forse. Ma io ho coUn’ambizione che pareminciato la mia strada da va irrealizzabile. Mio padre sottozero. non voleva, diceva che serPerò è arrivato. viva la raccomandazione. Ne avevo voglia e biChi non ha niente, crede sogno. Io vengo dalla popoco al talento. È convinto vertà, dalla sopravvivenza, che, siccome uno è debole, perché più che vivere la “Il poeta che non non conta. mia famiglia ha sopravvis- sa parlare” Cosa la spingeva ad ansuto. Ho iniziato a lavo- Nino D’Angelo dare avanti? Baldini+Castoldi rare a tredici anni, subito 256 pagine La disperazione. Invece dopo la terza media, per- 18 euro adesso impera il menefreché in casa con il solo stighismo. Noi ci aiutavamo pendio di mio padre non riuscivamo sempre. Quando qualcuno stava ad arrivare a fine mese. Eravamo in male, la famiglia si stringeva in un otto, e io sono venuto su come figlio abbraccio. Perché l’amore è questo: di tutte le persone del mio palazzo. l’amore è dare. Ho vissuto la ricchezza vera: quella D’Annunzio diceva: io ho quel dell’affetto. che ho donato. Lei ha donato molto. Nel suo libro racconta i tanti laNon mi piace parlarne. Sono stavori che ha fatto. to fortunato, e ho messo questa mia Ho lavorato a Buffet Stazione, fortuna a disposizione. Se vedo uno ho cantato ai tavoli dei ristoranti che ha bisogno, e posso aiutarlo, lo con il piattino, poi sono passato ai faccio. E lo faccio per dormire la matrimoni. Ho vissuto alla stazione notte, perché sono convinto che uno vendendo gelati d’estate, e trovando che sta meglio, deve alzare gli altri. Il l’aiuto di chi era nelle mie condizio- mondo di oggi però questo pensiero ni. Frequentare la stazione mi ha fat- non ce l’ha. I ricchi sono sempre più
L’AUTORE
ricchi, e i poveri sempre più poveri. Ma questo non va bene. Adesso torna in scena con un progetto ambizioso dal titolo emblematico: “Il poeta che non sa parlare”. Come racconta nel libro, questa frase arriva dalla sua infanzia, quando ai tempi della scuola una maestra le disse “Tu sei un poeta che non sa parlare, arrivi al cuore anche quando ti esprimi male”. Perché sapevo esprimere dei bei concetti ma sbagliavo le parole, i congiuntivi, la forma. Da sempre a Napoli la gente mi chiama il poeta. Una parola grossa, che mi fa piacere. Tutto quello che dico, lo penso. L’ha più incontrata quella maestra? No, poi è morta. All’inizio, ero appena diventato Nino D’Angelo, ci vedemmo in Chiesa ed era felicissima. Ricordo ancora che dopo la terza media disse ai miei genitori che mi avrebbe pagato lei la retta, per non farmi lasciare gli studi. Mio padre però aveva bisogno di me. Vorrei incontrarla oggi, e dirle che alla fine le parole sono arrivate con le canzoni. Chi è Nino D’Angelo adesso? Un nonno felice, che nella vita ha avuto molto successo. Tutto è cominciato con “’Nu jeans e ’na maglietta”. Poi, anche senza volerlo, ho cambiato la canzone napoletana che negli anni Settanta parlava solo di malavita riportando l’amore nel pop. Adesso sono trent’anni che provo a liberarmi dei cliché che mi hanno appiccicato addosso, insieme al pregiudizio nei miei confronti. A cosa dà la colpa? Magari i miei film non piacevano a tutti. In parte, e per molto tempo, ho represso quello che sapevo fare. Ma la verità è che il caschetto bion-
do ha avuto un successo esagerato, e le persone si concentravano più sul taglio di capelli rispetto a quello che c’era sotto. A fine anni Ottanta ha trasformato il suo look. È cambiato qualcosa? Sono cambiato io. Con la scomparsa di mia madre ho avuto un crollo. Credevo che non morisse mai, per l’amore che avevo, invece, a 58 anni mi ha lasciato. Ero nel periodo più bello della mia carriera, non ero abituato più al dolore. Improvvisamente, avevo perso interesse nella vita. Mi ero ammalato di depressione. Lei è uno dei pochi personaggi pubblici che non ha mai nascosto il suo periodo più difficile. Raccontando anche il percorso, psicologico e psichiatrico, che l’hanno portata a guarire. Cosa è successo quando è stato meglio? Avevo bisogno di trasformarmi. Non volevo più fare musica per le ragazzine che mi amavano, ma volevo scrivere canzoni con pensieri più adulti, per provare a cambiare le teste. Ci è riuscito? Di sicuro ci ho provato. E ho provato a regalare tutte le mie emozioni. Io so vivere anche se non ho niente, perché sono nato senza avere nulla e sono abituato al sacrificio, ma in tutti questi anni ho imparato una cosa. Quale? Che anche quando smetto di essere Nino, e ritorno Gaetano, non posso esistere senza la mia famiglia, senza mia moglie con la quale fra poco festeggio 42 anni di matrimonio, senza i miei amici. Non mi ha cambiato la ricchezza, non mi ha forgiato la povertà. Io, a essere sinceri, l’unica cosa di cui non posso fare a meno è l’amore.
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“Un nonno felice, che nella vita ha avuto molto successo. Tutto è cominciato con “’Nu jeans e ’na maglietta”. Poi, anche senza volerlo, ho cambiato la canzone napoletana che negli anni Settanta parlava solo di malavita riportando l’amore nel pop. Adesso sono trent’anni che provo a liberarmi dei cliché che mi hanno appiccicato addosso, insieme al pregiudizio nei miei confronti”.
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LIBRI
Lo spirito della montagna e l’anima dell’uomo Il nuovo libro di Massimiliano Ossini alla scoperta delle Alpi
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na volta il poeta inglese William Blake scrisse: “Quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono”. Mi viene in mente questa frase leggendo l’entusiasmante libro di Massimiliano Ossini, conduttore e divulgatore televisivo, amato volto di “Linea Bianca” (Rai1). Si tratta di “Giganti di ghiaccio e di pietra. Viaggio alla scoperta delle Alpi” (edizione illustrata), un cammino denso di curiosità, pensieri e riflessioni sulla montagna e sulle bellezze naturalistiche italiane. Tutto il testo è permeato dal motto del conduttore, Kalipè. Si tratta di un termine in uso nelle zone himalayane che viene rivolto a chi si avvia “Giganti di ghiaccio e verso le montagne, un augudi pietra. Viaggio alla rio il cui significato è quello scoperta delle Alpi” di poter “camminare sempre Massimiliano Ossini a passo corto e lento”. Un Rizzoli invito che Ossini ha adottato 224 pagine come mantra. Questo è infat24,90 euro ti il titolo di numerosi testi dell’autore, e così è stato battezzato il suo bel programma su Rai2, in onda il mercoledì sera in prima serata. Si tratta di un invito a prendersi il proprio tempo per andare nelle bellezze della natura e dello spirito, mettendo da parte la fretta, la concitazione,
Massimiliano Ossini.
il dover procedere tralasciando il percorso dell’anima. In questo cammino accompagnato da scatti mozzafiato, e da consigli di viaggio utilissimi, Massimiliano Ossini invita il lettore a recuperare l’umiltà e la devozione alla natura, suggerendo la strada per un equilibrio psicofisico che i tempi presenti ci fanno avvertire sempre più smarrito. Come giustamente nota, “la bellezza delle montagne sta nella bellezza che siamo in grado di vedere e di sentire: loro in fondo sono solo lo specchio di ciò che noi siamo o saremo capaci di essere”. Ed è così che l’autore si mette in cammino seguendo i giganti delle Alpi - dal Monte Bianco al Cervino, dal Gran Paradiso al Monte Rosa – attraversando anche vette, valli e ghiacciai, per restituire al lettore non solo un racconto di viaggio, ma anche un toccante e coinvolgente invito alla scoperta. (F. P.)
PODCAST
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Il dito di Dio La storia della Concordia e della fragilità umana
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i sono eventi che si incastrano nella memoria collettiva, e producono un ricordo condiviso. Una scheggia che, in alcuni rarissimi casi, può definirsi un frammento di storia contemporanea. È questo il caso del naufragio della Costa Concordia, avvenuto il 13 gennaio 2012 nel Mar Tirreno, incastonato nel lessico collettivo – indimenticabile l’invito del Capitano De Falco a tornare a bordo dell’imbarcazione al Comandante Schettino – e divenuto adesso strumento di riflessione nella magmatica ultima opera di Pablo Trincia, giornalista e autore, già noto per il suo straordinario “Veleno” (podcast cult e dunque libro omonimo pubblicato da Einaudi, nonché serie televisiva per Amazon Prime), indagine su un caso di cronaca di vent’anni fa, quando in provincia di Modena sedici bambini tra i comuni di Massa Finalese e Mirandola furono allontanati per sempre dalle loro famiglie, accusate di far parte di una setta di satanisti pedofili. Adesso Trincia nel suo nuovo podcast “Il dito di Dio” – disponibile da qualche settima-
na gratuitamente su Spotify – accompagna il lettore a bordo dell’imbarcazione che dieci anni fa naufragò in prossimità dell’Isola del Giglio, trascinando con sé 32 vite umane. La narrazione è – come sempre accade nelle opere dell’autore, che ha dato lustro e diffusione a un genere prima poco frequentato nel nostro Paese, quello del podcast – una pallina che rimbalza fra le maglie del tempo, intersecando la storia del personale di bordo, a cominciare dal capitano Schettino, a quella dei naufraghi che si mostrano nella loro fragilità, in un trauma non ancora pienamente rielaborato, disperati nel rammentare i momenti prima del salvataggio e nel rievocare l’orrore prodotto dalla paura (come giustamente nota il medico di bordo), che spinge molti a comportarsi come bestie, infischiandosene delle regole – prima i bambini e le donne – per mettersi in salvo. Il documentario, lungo quasi otto ore, è intenso e ben curato. L’ascolto lascia la certezza di trovarsi di fronte a una tragedia evitabile, e sigla una fotografia impietosa dell’animo brutale, egoista e crudele dell’uomo. (F. P.)
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TV
Zerocalcare: fra ansie paure e necessità di evolversi Su Netflix la narrazione di cui i millennials avevano bisogno di Chiara Andreotti
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trappare lungo i bordi” – la nuova serie a fumetti su Netflix - era la narrazione di cui avevamo bisogno. O meglio, di cui la generazione dei millennials aveva bisogno. Divertente, irriverente e fuori dagli schemi. Una fotografia a colori vividi dell’esistenza di oggi firmata da quel Michele Rech, in arte Zerocalcare, che ha venduto milioni di fumetti in tutta Italia ed è recentemente approdato in televisione con i suoi corti “Rebibbia Quarantine”, questa volta per raccontare con il consueto sarcasmo – ormai un vero e proprio marchio di fabbrica - la vita ai tempi del lockdown. Questa volta, con l’acclamata “Strappare lungo i bordi”, l’autore decide di superare quanto già fatto firmando un flusso di coscienza che svela ansie e paure personali, che permettono però al telespettatore di immedesimarsi poiché vivono sfiorano temi universali. Con ritmo incalzante e i dialoghi frenetici, rigorosamente in gergo romano, si parte ricordando l’infanzia di Zerocalcare, piccolo e
insicuro, che sente il peso del mondo intero sulle sue spalle finché l’amica Sarah non lo riporta alla realtà: “sei solo un filo d’erba in un prato” dice, annientando tutte le (megalomani e frequenti) convinzioni di Zero. A punteggiare la narrazione numerosi aneddoti divertenti, che stimolano l’immedesimazione. In fondo, tutti siamo dovuti andare (fra mille paure) in un bagno pubblico, o ci siamo trovati davanti alla casa in disordine. Solo nelle ultime puntate il tono della narrazione cambia, e si fa strada una consapevolezza pressante: quel viaggio non è certo una vacanza. Ed è così che si fa strada il tema del disagio mentale – trattato con attenzione e cura durante i vari episodi – e il telespettatore si trova non solo a confrontarsi con gli alti e bassi del protagonista, ma anche con una storia personale dolorosa e toccante, inaspettata, che spinge Zero ad abbandonare il suo egocentrismo e il telespettatore a comprenderne l’invito ad ascoltare gli altri, e a non restare mai prigionieri degli schemi mentali (propri e altrui).
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TITOLI DI CODA
L’adolescenza tra pandemia ed epidemia di Pietro Pietrini Professore Ordinario, Direttore Scuola IMT Alti Studi Lucca
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n questi ormai due anni dal suo esordio, la pandemia da Sars-COV-2 ha messo a dura prova l’equilibrio psichico di tutti, in modo ancor più incisivo degli anziani come pure di bambini e adolescenti. La deprivazione protratta e pressoché completa delle abituali frequentazioni affettive e amicali per gli uni, il venir meno della vita scolastica e delle relazioni sociali per gli altri, ancor oggi in balia di un’incertezza singhiozzante con regole mutevoli da una settimana all’altra, ha avuto e continua ad avere effetti deleteri. Siamo tutti sotto la stessa tempesta, ma non siamo tutti sulla stessa barca, per dirla con l’efficace immagine di Monsignor Paglia. E tra tutte le barche, la più fragile è senza dubbio quella degli adolescenti, non avendo essi né le spalle rinforzate dalle traversie superate nel lungo cammino di vita dell’anziano, né l’inconsapevolezza e la fugace memoria del bambino. Al contrario, l’adolescenza è per definizione quella parte dell’esistenza attraversata dal dubbio, dalla quotidiana incertezza. I giovani si trovano attanagliati tra l’impulso fisiologico al dare vita ad una propria identità ed indipendenza e il mettere costantemente in discussione ogni loro scelta, finanche il senso stesso dell’esistenza.
Il nostro cervello in questa parte della vita va incontro ad un complesso rimodellamento che scolpisce, sinapsi dopo sinapsi, la meravigliosa architettura funzionale che porterà, ben oltre il compimento della maggiore età, all’organizzazione del cervello adulto. Un processo che continuerà, seppur più pacatamente, fino al nostro ultimo respiro. Allo stesso tempo, il raggiungimento della maturità ormonale si accompagna nel giovane a pulsioni e turbamenti che ancor più si acuiscono nel caso in cui si abbia la consapevolezza che il proprio orientamento sessuale si discosta da quello di norma atteso. Non sorprende dunque che l’adolescenza, periodo critico per tutti e per alcuni ancor di più, possa essere anche l’età di esordio di patologie psichiatriche. Disturbi d’ansia, dell’umore, abuso di sostanze, infatti, fanno spesso la loro comparsa in questa fase della vita e purtroppo rimangono molto spesso e a lungo confusi o derubricati a manifestazioni del malessere tipico dell’età. Ci si dovrebbe invece chiedere che ruolo giochi la sofferenza psichica nelle difficoltà scolastiche, o addirittura nell’abbandono degli studi, che, stando a recenti statistiche, riguardano uno studente su quattro. Una vera epidemia.
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