Brain. Aprile e Maggio 2022

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Anno III | N. 4/5 | Aprile/maggio 2022

L’ANIMA NERA DEL CONFLITTO

Il substrato di primitiva e irrazionale brutalità del cervello umano

Studenti Ucraini in Italia con il progetto di UniCamillus

Proposta di legge per centri destinati al long-Covid

Torna Lucca in Mente. Ospiti da Allevi a Farinetti

Con i contributi di Carrara, Manzi, Marzano, Piccinni, Pietrini, Postiglione, Profita.



EDITORIALE

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Mala tempora currunt

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di Armando Piccinni

i pare che il contenuto del titolo sia appropriato a ciò che sta succedendo nel mondo. Dapprima il Covid ci ha fatto risvegliare da un sonno lungo e dolce in cui tutti i pericoli, quelli provenienti dalla natura e quelli provenienti dagli altri uomini, sembravano risolti e lontani. Con il Covid ci siamo resi conto che la prima affermazione non è vera, e che in realtà la natura può con agenti che non sono neppure esseri viventi sconvolgere tutto: l’organizzazione sociale, le economie mondiali, la salute e la vita. La guerra in Ucraina ci ha fatto capire che anche il pericolo proveniente dagli altri uomini non è scongiurato. Rimaniamo sempre amareggiati dalle notizie che provengono di prevaricazione, di brutalità, di violenza. L’azione di Putin per certi versi è un atto di bullismo estremo in cui migliaia di persone innocenti stanno morendo senza colpa, per abbiette motivazioni di potere e di denaro. Ognuno di noi, a suo modo, ha vissuto la pandemia con il susseguirsi incessante di paura, allar-

me, tristezza; e vive adesso la guerra con un senso di rabbia, di orrore, di rifiuto ed ancora di paura. Sono queste le protagoniste dei nostri pensieri e del nostro sentire. Sono le emozioni che dominano tutta la nostra atmosfera mentale. La razionalità, come dice prof. Pietro Pietrini nell’editoriale di coda (a cui vi rimando per la lettura), è ben poca cosa rispetto alla potenza che sono in grado di esprimere le reazioni emotive. Il nostro mondo interno è sottoposto ormai da più anni ad una pressione sempre più schiacciante e insopportabile. Molti non riescono più a tollerare lo stress e cedono di fronte a una tensione che è diventata per loro inaccettabile. Anche i bambini e gli adolescenti sono sottoposti a questa pressione: un recente studio inglese ha rilevato che i lockdown nel Regno Unito hanno causato la depressione clinica di circa 60mila bambini. La Fondazione BRF per il secondo anno consecutivo ha organizzato il festival “Lucca in Mente” (troverete un articolo con tutti i dettagli del ricco programma all’interno di Brain), una manifestazione dove si può co-

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EDITORIALE

niugare il cervello con la produzione letteraria, musicale, imprenditoriale, culturale. La sezione dedicata alle scuole prevederà elaborati grafici per i più piccoli e brevi componimenti per i più grandi. Il tema su cui dovranno cimentarsi sono le emozioni primarie. Sarà di estremo interesse vedere e sentire come i giovani e i giovanissimi stanno vivendo questo periodo e come, con una modalità espressiva spontanea ed emotiva, rappresenteranno la gioia, la paura, la rabbia, la tristezza. Sarà davvero difficile valutare e classifi-

care gli elaborati: ognuno di essi racchiuderà un piccolo mondo, esprimerà il risultato dell’interazione tra la realtà che li circonda e il proprio mondo emotivo. Bisognerebbe assegnare a tutti il primo premio perché, al di là dell’espressione della razionalità, il nostro patrimonio più prezioso è racchiuso proprio nella nostra immaginazione e nella nostra vita emotiva. Mi viene in mente una frase che Albert Einstein usava per esprimere questo concetto: “La logica vi porterà da A a B. L’immaginazione vi porterà dappertutto”.


Anno III | N. 4/5 | Aprile/maggio 2022

SOMMARIO

L’ANIMA NERA DEL CONFLITTO

Il substrato di primitiva e irrazionale brutalità del cervello umano

EDITORIALE

3 Mala tempora currunt di Armando Piccinni PRIMO PIANO

8 Cosa sta accadendo in Ucraina? La Parola agli esperti di Carmine Gazzanni

12 Il conflitto in ucraina e “l’anima nera”. Contributo del professor Manzi di Giorgio Manzi LA RICERCA

15 Dipendenze comportamentali tra gli studenti. Aiuta la ricerca della fondazione BRF

Studenti Ucraini in Italia con il progetto di UniCamillus

Proposta di legge per centri destinati al long-Covid

Torna Lucca in Mente. Ospiti da Allevi a Farinetti

Con i contributi di Carrara, Manzi, Marzano, Piccinni, Pietrini, Postiglione, Profita.

Brain Anno III | N. 4/5 | Aprile/maggio 2022 Testata registrata al n. 6/2019 del Tribunale di Lucca Diffusione: www.fondazionebrf.org Direttore responsabile: Armando Piccinni Organo della Fondazione BRF Onlus via Berlinghieri, 15 55100 - Lucca


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L’INTERVISTA

16 Stress e ansie: i bambini vittime della guerra “mediatica”

di Chiara Andreotti e Carmine Gazzanni

20 Studenti ucraini in Italia: il proget-

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to di Unicamillus di Carmine Gazzanni

NEUROSCIENZE

40 La correlazione tra genetica e

NEUROSCIENZE E POLITICA

schizofrenia

23 Centri per chi è affetto

di Antonio Acerbis

da long-Covid

di Antonio Acerbis

43 Cefalee, sempre più persone ne soffrono di Alberto Lepri

44 Epatite sconosciuta nei bambini, facciamo il punto di Alessandro Righi

47 Un “metro” per misurare lo sviluppo del cervello di Alessia Vincenti

48 Depressione e Covid aumentati in Italia i casi durante il lockdown

12 L’APPROFONDIMENTO

24 La “rivoluzione” delle interfacce cervello-computer

di Andrea Pesce L’AUTRICE

50 La bellezza? L’ossessione dei nostri tempi

di Valentina Formica

di Flavia Piccinni

CONTRIBUTO

LIBRI

28 Nascita della Neuroetica (quarta parte): le prime società scientifiche relative al cervello umano di Alberto Carrara L’EVENTO

32 Torna “Lucca in mente”. Tutti

gli eventi da Allevi a Farinetti di Chiara Andreotti #PARLIAMONE

36 #Parliamone per abbattere le censure sulla salute mentale

54 Disturbo bipolare. Scrittura e biografia

di Flavia Piccinni

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IL PODCAST

“Gabbia di matti”. Dentro il manicomio di Flavia Piccinni TITOLI DI CODA

56 L’umano agire da emozione e ragione

di Pietro Pietrini


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COSA STA ACCADENDO IN UCRAINA? LA PAROLA AGLI ESPERTI Il punto di vista dell’ammiraglio Marzano e del prof. Postiglione Cause, conseguenze e stress psicologico

di Carmine Gazzanni


PRIMO PIANO

È

ormai passato più di un mese dall’inizio del conflitto in Ucraina, cominciato con l’invasione arbitraria da parte della Russia di Vladimir Putin. Capire dinamiche, ragioni, conseguenze geopolitiche, specie nel mentre di una guerra, non è mai facile. Certo è, però, che un conflitto genera ripercussioni anche da un punto di vista mentale non solo in chi ne è direttamente coinvolto, ma anche in tutti coloro che ne sono spettatori indiretti, soprattutto oggi che siamo calati in un racconto mediatico da cui non possiamo prescindere. Proprio per questa ragione, Brain ha deciso di dedicare un ampio primo piano sul tema. E, nell’intento di diradare le nebbie da un campo certamente non facile, abbiamo deciso di coinvolgere chi conosce meglio di molti altri le dinamiche militari e geopolitiche, come l’ammiraglio Donato Marzano, a lungo Comandante in Capo della Flotta Navale, al servizio non solo del nostro Paese ma anche della Nato. «Una cosa è certa - spiega Marzano a Brain - I sistemi informativi hanno fallito: il conflitto di fatto ha colto tutti impreparati». E questo anche perché, ragiona ancora l’ammiraglio, «nessuno si sarebbe aspettato un comportamento simile da parte della Russia, nonostante una situazione non facile da anni in Donbass». E Marzano può ben dirlo, considerando che a lungo ha collaborato con la Russia stessa: «Dopo la caduta del muro di Berlino, Mosca è diventato partner dell’Italia. C’era d’altronde un nemico comune, che era il terrorismo internazionale». Certo, guerre convenzionali già erano in corso in vari angoli del globo, dallo Yemen fino a quella passata in Si-

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Marzano: «Mosca da sempre è una super-potenza. Lo è stata nella Prima guerra mondiale, e lo è stata ancor di più nella Seconda. È nato senz’altro un grosso problema negli ultimi anni dato che la Russia si è sentita schiacciata da una parte dagli Usa e dall’altra dalla crescita di potere della Cina. Ed ecco allora che Putin si è sentito messo all’angolo e ha reagito».

PRIMO PIANO

ria. «Ma mai ci si sarebbe immaginato che un conflitto con dinamiche così convenzionali potesse scoppiare nel cuore dell’Europa». E allora quali sono le ragioni così “impreviste”? C’è chi ha parlato della follia di Putin, altri ancora di una sua malattia degenerativa. Tutto falso, secondo Marzano: «Non credo alla pazzia dei capi di Stato, specie quando si parla di leader politici e militari dalla lunga esperienza come nel caso di Putin». Ed ecco che Marzano dà una sua personale teoria di cosa probabilmente sia successo: «Mosca da sempre è una super-potenza. Lo è stata nella Prima guerra mondiale, e lo è stata ancor di più nella Seconda. È nato senz’altro un grosso problema negli ultimi anni dato che la Russia si è sentita schiacciata da una parte dagli Usa e dall’altra dalla crescita di potere della Cina. Ed ecco allora che Putin si è sentito messo all’angolo e ha reagito». Con l’invasione in Ucraina. E anche questo non sarebbe casuale. È un fatto oggettivo, spiega ancora l’ammiraglio, che la Nato abbia allargato i suoi territori di controllo in maniera celere, non in modo graduale. «E questo ha spaventato Putin che ha reagito invadendo uno Stato che già aveva strizzato l’occhio sia alla Nato che alla Ue». Una mossa, secondo l’ammiraglio, che mirava ad ottenere due risultati: dare una risposta chiara allo stesso Patto Atlantico e mandare un segnale anche alla sfera ex sovietica su cui «la Russia sperava di avere ancora forte influenza». Una situazione complicata, dunque, nella quale è evidente che siano subentrate tante dinamiche e svariati interessi, col risultato che quello che si era pensato potesse essere un

conflitto di facile soluzione, sta assumendo i contorni di una guerra duratura. Ma c’è una certezza, secondo Marzano: «Gli equilibri geopolitici cambieranno radicalmente e in modo irreversibile». E coinvolgeranno non solo Russia e Usa, ma anche l’Unione europea. «La Nato - spiega l’ammiraglio che ha conosciuto da vicino l’Organizzazione atlantica - ha dimostrato la sua importanza, svolgendo il ruolo di vero e proprio baluardo per l’Occidente. Senza il suo intervento probabilmente l’Ucraina già sarebbe capitolata». Chi invece, specie in campo militare e geopolitico, si è dimostrata piuttosto assente è l’Unione europea: «Non possiamo stare sempre a rimorchio degli Stati Uniti - commenta ancora Marzano - anche perché non sempre gli interessi degli Usa coincidono con quelli dell’Ue. Dobbiamo essere capaci di reagire anche solo


PRIMO PIANO

con le nostre forze, specie in uno scenario che invece di semplificarsi, con la guerra in corso si è estremamente complicato». Non a caso nelle ultime settimane si è tornato a parlare di una Difesa comune europea, con tanto di esercito comunitario, un progetto in realtà di cui si parla da oltre vent’anni, ma mai realmente decollato. Cosa che invece pare stia accadendo proprio sulla scia del conflitto in corso. Resta la possibilità di una risoluzione del conflitto per la via diplomatica, una via accidentata ma profondamente battuta dalle istituzioni internazionali. «Spero, per le tante vite in gioco, per i costi salatissimi per l’Italia, anche solo di queste sanzioni, che si raggiungano risultati - commenta a Brain il professor Alessio Postiglione, politologo ed esperto di politica internazionale della SIOI (Società italiana per l’organizzazione

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internazionale) - Ma non credo che Putin possa ritornare allo status quo ante, a questo punto, ed è chiaro che per l’Ucraina la perdita della Crimea è irricevibile. Dobbiamo capire che Putin è un nemico sistemico dell’Occidente. Mentre vedo in tanti disposti a giustificarlo». Il riferimento è a commenti che col passare del tempo sembrano aumentare piuttosto che diminuire, «come se Putin potesse avere qualche giustificazione, perché gli americani avrebbero fatto lo stesso, come dimostra la crisi missilistica di Cuba. Questo ragionamento è fallace, perché se la maggioranza degli ucraini vuole entrare nella Nato o nella Ue, non è la Russia a decidere per uno Stato sovrano. Gli ucraini vogliono la democrazia. Questo Putin non lo può tollerare perché mette in discussione il pregiudizio, che risale ad Erodoto e Montesquieu, che l’Oriente sia ontologicamente terra di tirannide». Una situazione profondamente complicata, a causa della quale muoiono militari e civili. E tutt’intorno crea stress, disagio, timori e ansie. «Non è piacevole telefonare a familiari di tuoi soldati e dire loro che il figlio, il nipote, il marito è morto. A me è capitato ed è terribile», racconta ancora Marzano. «L’unico modo per resistere allo stress è non farsi coinvolgere, non cedere alle emozioni e concentrarsi sul compito che viene assegnato». Determinante è l’addestramento in questi casi. Ma, come riconosce lo stesso Marzano, «c’è sempre qualcuno che crolla. Lo stress raggiunge livelli inimmaginabili, specie quando il conflitto si protrae nel tempo». Proprio come sta accadendo in Ucraina.

Postiglione: «Spero, per le tante vite in gioco, per i costi salatissimi per l’Italia, anche solo di queste sanzioni, che si raggiungano risultati - commenta a Brain il professor Alessio Postiglione, politologo ed esperto di politica internazionale della SIOI (Società italiana per l’organizzazione internazionale) - Ma non credo che Putin possa ritornare allo status quo ante, a questo punto, ed è chiaro che per l’Ucraina la perdita della Crimea è irricevibile. Dobbiamo capire che Putin è un nemico sistemico dell’Occidente. Mentre vedo in tanti disposti a giustificarlo».

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PRIMO PIANO

IL CONFLITTO IN UCRAINA E “L’ANIMA NERA”. CONTRIBUTO DEL PROFESSOR MANZI Uno dei più grandi antropologi e paleontologi italiani, docente universitario a La Sapienza di Roma, divulgatore scientifico italiano socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei di Giorgio Manzi

“S

ei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo…”. Iniziava così la ben nota lirica di Salvatore Quasimodo, l’ultima che il poeta volle inserire in una raccolta del 1946, scritta con ancora negli occhi gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, ma anche con la speranza – o, meglio, con l’auspicio – di un futuro di pace e di umana fratellanza per le nuove generazioni. L’anima nera di un cervello ancora primordiale si era manifestata nel “secolo breve” con orrori mai visti, espressa da un substrato di primitiva e irrazionale brutalità. Aveva portato distruzione, sangue e una lugubre scia di morte. Potevamo pensare che ci fosse bastato e che, in fondo,

il poeta avesse ragione. Eppure – lo stiamo vedendo – quell’anima nera ancora si esprime, allo stesso modo, nel nuovo millennio. Tutto ciò può richiamare alla mente uno dei miti della paleoantropologia: quello della “scimmia assassina”. A cosa mi riferisco è facile da visualizzare se ci ricordiamo ancora una delle scene iniziali di “2001 Odissea nello spazio”, quando lo scimmione semi-bipede (mai esistito, peraltro) scopre l’efficacia di un osso che si abbatte su un altro osso e, brandendo quell’arma primordiale fra le mani, diventa il capo della sua banda e minaccia così un gruppo rivale nella contesa per l’accesso a una stessa pozza d’acqua. Le cose, però, non stanno così; almeno non credo; certamente non da subito.


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PRIMO PIANO

Io sono un paleoantropologo. Uno di quelli che studiano e cercano di comprendere, con i metodi della scienza, quando e come siamo diventati umani. Mi interessano le storie che precedono le grandi civiltà del passato: quelle della preistoria antica. Ci fu prima la lunghissima fase del Paleolitico – qualcosa come due milioni d’anni di vita da cacciatori-raccoglitori – poi quella del Neolitico, con la formidabile rivoluzione bio-culturale di pochi millenni fa che rappresentò l’inizio della produzione del cibo, attraverso l’agricoltura e l’allevamento, e della sedentarietà. Fu sempre preistoria: nei due milioni di anni del Paleolitico come nei millenni del Neolitico e delle prime età dei metalli. Tanta roba! Studiando l’evoluzione umana mi sono convinto che i grandi cambiamenti della nostra evoluzione biologica e culturale nel tempo profondo siano stati determinati, o quantomeno condizionati, dai numeri della demografia. Penso cioè che la densità di popolazione abbia giocato un ruolo determinante nel passato; e lo giochi (direi) anche nel presente, come fosse un elemento costante della storia umana di sempre. È un fattore che ha avuto vari ordini di grandezza e diversi effetti nel corso del tempo. L’impatto che questo rumore di fondo ha avuto sulle vicende del nostro passato cambia (e di parecchio) in rapporto all’epoca di cui di volta in volta ci occupiamo. Non è proprio la stessa cosa se siamo nella più remota preistoria o se, invece, arriviamo ai tempi che conosciamo attraverso l’archeologia o, infine, parliamo della Storia nel vero senso della parola: quella che gli esseri umani hanno iniziato loro stessi a scrivere.

Giorgio Manzi.

Allora, guardando alla documentazione preistorica, non troviamo chiari segni di violenza interindividuale. Vediamo semmai i segnali, per quanto deboli, di una grande solidarietà fra gli individui, di assistenza reciproca e di cura: come nel vecchio senza denti di Dmanisi (Georgia), un early Homo di quasi due milioni di anni dal presente, in quello di La Chapelle-aux-Saints (Francia) o nel mutilato di Shanidar (Iraq), due Neanderthal di svariate decine di millenni fa, tanto per fare i primi esempi che mi vengono in mente. Necessariamente, devono essere stati assistititi dai membri della loro comunità per poter sopravvivere. In entrambi i casi parliamo di gruppi umani che vivevano di caccia e raccolta, diluiti in spazi vastissimi – esseri viventi fra gli altri esseri viventi, immersi nel contesto naturale – dove ciascuna banda di donne e uomini (poche decine di individui) aveva a disposizione tanto spazio e riceveva, dalla

L’anima nera di un cervello ancora primordiale si era manifestata nel “secolo breve” con orrori mai visti, espressa da un substrato di primitiva e irrazionale brutalità. Aveva portato distruzione, sangue e una lugubre scia di morte. Potevamo pensare che ci fosse bastato e che, in fondo, il poeta avesse ragione. Eppure – lo stiamo vedendo – quell’anima nera ancora si esprime, allo stesso modo, nel nuovo millennio.

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Studiando l’evoluzione umana mi sono convinto che i grandi cambiamenti della nostra evoluzione biologica e culturale nel tempo profondo siano stati determinati, o quantomeno condizionati, dai numeri della demografia. Penso cioè che la densità di popolazione abbia giocato un ruolo determinante nel passato; e lo giochi (direi) anche nel presente, come fosse un elemento costante della storia umana di sempre.

PRIMO PIANO

natura, tutto ciò che gli serviva per sopravvivere. Molto, molto tempo dopo, i numeri della demografia iniziano a crescere troppo, in varie aree del mondo e allora … le cose cambiano. Una brutale violenza di gruppo è stata documentata una prima volta solo dopo la fine del Pleistocene: pochi millenni fa, quasi un attimo prima (potremmo dire) che le società umane divenissero sedentarie e si andasse incontro alla “rivoluzione neolitica”. Ce lo hanno raccontato Marta Mirazón Lahr e colleghi in un articolo scientifico comparso su “Nature” nel gennaio 2016. Vi viene riportato un evidente caso di violenza perpetrato su sulle rive del lago Turkana, quasi al confine tra Kenya ed Etiopia. Dieci dei dodici scheletri che sono stati rinvenuti mostrano le chiare tracce di morti violente. Non vennero sepolti, ma vennero presto coperti dai sedimenti melmosi e sono arrivati fino a noi, con tutte quelle eloquenti tracce

Una scena del fil “2001: odissea nello spazio” di Stanley Kubrick.

di brutale violenza e di accanimento sui corpi, su cui non mi soffermo. Sembra proprio di poter dire che si era arrivati a un punto di saturazione nei numeri delle popolazioni umane, quando i gruppi umani si incontravano più facilmente e arrivavano a contendersi, violentemente, delle risorse che iniziavano a scarseggiare. Sarebbe, allora, proprio il caso di rileggere i contributi – da parte di autori vari, con diverse competenze specialistiche (dalla biologia evoluzionistica, all’etologia animale, all’etnologia) – pubblicati in un numero speciale della rivista internazionale “Science” nel maggio del 2012. Era un inserto del vol. 336 (n. 6083) dedicato ai temi del “conflitto umano”, dove venivano considerate le profonde radici evolutive dell’aggressività e del confronto violento fra gli umani, e non solo fra gli umani. Vi venivano tracciate (pp. 818-819) “le traiettorie della violenza e della guerra nel corso della storia, esplorando il razzismo, i conflitti etnici.” Ma vi veniva anche considerata “la nostra innata capacità di mediare i conflitti e di vivere in pace.” Ci si augurava, infine (un po’ come faceva il nostro poeta nel 1946), che “capire come le società umane hanno superato le difficoltà e sviluppato relazioni pacifiche” ci può aiutare “a tracciare un percorso verso un futuro meno violento.” È quello che il nostro abnorme cervello, sviluppatosi nel corso di due milioni di anni in contesti di straordinaria socialità per il mondo animale, dovrebbe consentirci di fare. Dobbiamo utilizzarlo fino in fondo, e a fin di bene, questo cervello che abbiamo ereditato: ne va della nostra stessa sopravvivenza come specie.


LA RICERCA

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DIPENDENZE COMPORTAMENTALI TRA GLI STUDENTI. AIUTA LA RICERCA DELLA FONDAZIONE BRF Compila il test in forma anonima, inquadrando il QR code

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on il termine “New Addiction”, ci si riferisce alle dipendenze comportamentali, spesso denominate ‘dipendenze senza sostanza’, che includono tra le altre: la dipendenza da shopping, da internet, da gioco d’azzardo, da smartphone. L’oggetto di queste dipendenze non è rappresentato da una sostanza chimica, ma da comportamenti o attività ‘normali’ del quotidiano che assumono un connotato eccessivo tale da diventare patologico in quanto interferente con il funzionamento dell’individuo. La dipendenza è un fenomeno che implica aspetti cognitivi, sociali, culturali e neurobiologici, investendo l’individuo sia dal punto di vista comportamentale che psicologico. Le conseguenze negative derivanti da tale condizione si ripercuotono nel totale funzionamento della vita della persona, causando uno stato di sofferenza generale. Anche se l’oggetto della dipendenza non è una sostanza chimica, la persona che soffre di dipendenze comportamentali manifesta alcune caratteristiche peculiari delle dipendenze da sostanza. La dominanza esercitata dall’attività da svolgere sui pensieri e sull’agire del soggetto; il craving; l’influenza sul tono dell’umore; la

tolleranza; la progressiva sensazione di perdita del controllo sull’esecuzione del comportamento; la sindrome d’astinenza; il conflitto indotto dal comportamento disturbato; la negazione della dipendenza; la persistenza del mettere in atto determinati comportamenti, nonostante le evidenti conseguenze negative sempre più gravi; la ricaduta. I nuovi sviluppi delle scienze neurologiche sostengono una teoria neurobiologica unitaria che considera le dipendenze comportamentali analoghe a quelle da sostanze. Essendo l’adolescenza un periodo delicato caratterizzato dalla presenza di un assetto cognitivo relativamente immaturo durante il quale è elevata l’insorgenza di disturbi psichici, tra i quali proprio le dipendenze comportamentali e chimiche e vista l’influenza negativa dei due anni di pandemia appena trascorsi sul comportamento dei giovani la Fondazione BRF ha sviluppato un questionario volto ad indagare l’incidenza della dipendenza da cibo, dal gioco, dallo smartphone, dai social network e dallo shopping, nonché da internet nella popolazione scolastica e universitaria. Aiuta la ricerca! Inquadra il QR code e compila il test in forma anonima.


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STRESS E ANSIE: I BAMBINI VITTIME DELLA GUERRA “MEDIATICA” Parla il presidente del Telefono Azzurro Caffo: nessuno Stato è preparato a questa “emergenza”

di Chiara Andreotti e Carmine Gazzanni


L’INTERVISTA

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rima la pandemia con le relative restrizioni, poi il conflitto in Ucraina. Tutto questo ha inevitabilmente creato nelle fasce più delicate della popolazione - cioè i minori - «fragilità, rilevate anche dall’aumento degli interventi in ambito di salute mentale e questo è un dato che abbiamo visto emergere così come l’aumento di comportamenti suicidari nei ragazzi». A dirlo è il massimo esperto del tema, il professor Ernesto Caffo, neuropsichiatra infantile e presidente del Telefono Azzurro. Professore, partiamo da principio: quali sono le conseguenze immediate sulla salute mentale dei nostri minori? Da una parte c’è stata una concomitanza dei fattori di rischio: nel senso che la pandemia ha sicuramente determinato una grande incertezza su quello che è il tema della salute che per i bambini e gli adolescenti è un tema centrale. Chiaramente il lutto, la perdita di persone, l’aver visto la dimensione della popolazione anziana in grande rischio e anche nelle famiglie è una sensazione di impotenza talvolta anche nei bambini e negli adolescenti. Tutto questo ha creato fragilità diffuse che si sono acuite con il conflitto in corso che ha ulteriormente ampliato la dimensione della fragilità di questi ragazzi. Come viene vissuto tale conflitto? Come qualcosa di fortemente vicina e prossima, perché il fatto che oggi tutti i media che i ragazzi frequentano siano così efficienti anche a dare informazioni in tempo reale di quello che avviene, come atti di battaglia o situazioni che apparentemente sono lontane, dà il senso di vivere questa

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Ernesto Caffo.

“Nulla è irrimediabile nella mente umana, molto dipende dalle strategie che uno attiva. Fondamentale è ad esempio l’anticipazione dei rischi: ciò aiuta molto a creare degli anticorpi per affrontare oggi una perdita sempre più complessa”.

L’INTERVISTA

esperienza come se fosse un grande videogioco in cui loro sono protagonisti o sono vittime. Questo vuol dire per i bambini ritrovarsi in una situazione che possiamo definire di confine tra il reale e il virtuale, in cui spesso sono da soli di nuovo davanti ad elementi della perdita o del lutto, della sicurezza o della sofferenza. Ovviamente a questo si associa il rischio di disturbo post traumatico da stress così come oggi lo intendiamo: il disturbo dello stress tradizionale si allarga a qualcosa di molto più complesso e diffuso che bambini, adolescenti e giovani adulti vivono, cioè una dimensione traumatica non solo vissuta direttamente ma anche percepita o in qualche modo conosciuta attraverso i sistemi mediatici come quelli più immersivi. Crede che questi anni trascorsi abbiano inciso irrimediabilmente sulla salute dei più piccoli? Nulla è irrimediabile nella mente umana, molto dipende dalle strategie che uno attiva. Fondamentale è ad esempio l’anticipazione dei rischi: ciò aiuta molto a creare degli anticorpi per affrontare oggi una perdita sempre più complessa. Quindi ci sono strumenti cognitivi e comportamentali adeguati per limitare i danni e i rischi che i bam-

bini possono in qualche modo avere. La seconda componente invece è quella che riguarda un’altra popolazione che sono i bambini fortemente fragili che hanno già magari associate altre psicopatologie di disturbi da ansia o disturbi dell’umore che ovviamente di fronte a questi fattori di rischio evidenti e pervasivi possono avere un aumento dell’incidenza dei disturbi nell’ambito dello sviluppo. La terza componente è quella che riguarda situazioni particolarmente complesse e che possono esplodere in certe fasi della vita dei ragazzi e che possono poi portare a psicopatologie gravi o anche a disturbi da dipendenze che sono assolutamente da seguire. Quindi cosa vuol dire questo? Che da una parte dobbiamo intercettare i bisogni complessivi dei ragazzi, ma occorre anche sviluppare strategie in cui si concretizzano determinati interventi rispetto ad altri. Secondo quanto risulta al Telefono Azzurro ci sono state più segnalazioni di malessere rispetto al periodo pre-Covid? Difficile dirlo. Le richieste di aiuto provengono da popolazioni che molte volte si presentano in modo anonimo inizialmente. Anche perché c’è un problema di consapevolezza del proprio disturbo che si evidenzia quando i bambini chiamano per paure e disagi vari. Molte volte, essendoci ancor soprattutto in Italia a differenza dei Paesi anglosassoni uno stigma sulle malattie mentali, è chiaro che i bambini chiamano per altri problemi che soltanto in un secondo momento sono attribuibili ad un disturbo mentale. Spesso in altre parole si coglie l’opportunità della richiesta d’aiuto per poi attivare misure più specifiche nel percorso d’aiuto.


L’INTERVISTA

Crede che abbia avuto un effetto più impattante la stagione del lockdown o quella della guerra in corso? È chiaro che nel nostro Paese l’effetto maggiore lo ha avuto il lockdown e la pandemia, questo è indubbio. Il tema della guerra è un tema che viene percepito molto di più ovviamente dove io sono in questo momento, in Polonia, piuttosto che in Biellorussia o nei paesi vicini come l’Ungheria e la Romania. In Italia il tema della guerra si è affrontato anche a scuola in modo adeguato, si è discusso adeguatamente, si vedono anche a casa le immagini televisive estremamente cruente e in qualche modo non attinenti all’informazione, all’emozione che viene generata. È chiaro che è meno presente questo tipo di problema. Lo è per quei bambini molto sensibili per cui ogni situazione di allerta diventa un problema, però in questo caso siamo in presenza già di una psicopatologia che va considerata. L’Italia ha mezzi, strumenti e strutture adeguate per fronteggiare

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una potenziale emergenza neuropsichiatrica infantile? Cosa in ogni caso crede bisognerebbe ancora fare? Io sono qui per questo. Alla fine del mese di maggio organizzeremo un importante convegno sul tema del trauma e dei bambini sul piano psicologico e psichiatrico, coinvolgendo tutte le varie associazioni europee perché nessuno in Europa, direi al mondo, è in grado di affrontare con le dovute competenze questa enorme richiesta di aiuto di salute mentale. Dopodiché il problema è rivedere le categorie professionali coinvolte: sempre più mi rendo conto di come le nostre competenze specifiche vadano sicuramente allargate, vadano integrate con quelle psicologiche, con quelle educative per avere un modello di intervento di salute mentale globale, complessivo, che abbia una grande componente preventiva. Quindi dobbiamo diversificare le risposte, sempre con maggiori competenze specifiche.

“È chiaro che nel nostro Paese l’effetto maggiore lo ha avuto il lockdown e la pandemia, questo è indubbio. Il tema della guerra è un tema che viene percepito molto di più ovviamente dove io sono in questo momento, in Polonia, piuttosto che in Biellorussia o nei paesi vicini come l’Ungheria e la Romania”.

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L’INTERVISTA

STUDENTI UCRAINI IN ITALIA: IL PROGETTO DI UNICAMILLUS Parla il rettore Giovanni Profita: dopo il Covid sarà necessario coniugare lezioni digitali e frontali per una formazione integrata

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o sappiamo da sempre: gli italiani avranno pure tanti difetti, ma in fatto di solidarietà non sono secondi a nessuno. Appena scoppiato il conflitto in Ucraina, enti, associazioni, istituzioni ma anche singoli cittadini hanno dato una mano per aiutare le popolazioni colpite dal conflitto. A percorrere la strada della solidarietà sono stati anche vari atenei. Uno dei più immediati e attivi è stato l’UniCamillus di Roma, ateneo che ha peraltro nel proprio Dna l’apertura a studenti e ricercatori stranieri. «Abbiamo risposto subito all’appello del ministro Messa, mettendoci a disposizione dei giovani che si sono trovati, loro malgrado, in un contesto bellico improvviso, inatteso e anacronistico», spiega in un’intervista esclusiva a Brain il professor Giovanni Profita, rettore dell’UniCamillus. «La mission dell’ateneo, da sempre attento alle esigenze dei Paesi in via di sviluppo, è la formazione di quelle professionalità che possono fare la differenza in

quei luoghi dove l’assistenza medico sanitaria, anche di base, è troppo spesso un lusso non accessibile a tutti. Il nostro impegno, ad esempio, per Haiti o per il Camerun è stato chiaro: un lavoro strutturale e non episodico o meramente assistenzialista. L’Ucraina, per moltissime ragioni, non è una realtà sovrapponibile a quelle poc’anzi citate, ma oggi vive un dramma storico e non possiamo, da esseri umani, prima che da docenti o professionisti, rimanere indifferenti». Da qui il vostro aiuto. Esattamente. Offrire l’opportunità ai giovani ucraini di venire in Italia, formarsi per il test di accesso all’Università, offrire loro un alloggio, supporto psicologico, un corso di studi, è certamente un aiuto concreto a chi, dall’oggi al domani, ha dovuto fare i conti con un assalto che ha messo in ginocchio un’intera nazione. Anche sul Covid l’ateneo non è stato da meno: avete portato avanti ricerca, studi e convegni. A riguardo


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L’INTERVISTA

quali sono i prossimi impegni dell’Ateneo? È impossibile, oggi, parlare di Covid al passato. Lo stato di emergenza, voluto due anni fa dal Governo, non è stato rinnovato. Lentamente ci avviamo a quella dovuta fase di convivenza con un virus che, per quanto ancora possa spaventare per diffusione, capacità di contagio e sviluppo di sintomatologie anche gravi, oggi è sicuramente più gestibile grazie alla straordinaria efficacia dei vaccini. L’importanza del lavoro che è stato fatto nei laboratori di tutto il mondo, a partire dall’INMI Spallanzani di Roma, è un valore aggiunto per l’intera comunità scientifica ed è, quindi, diventato patrimonio comune della comunità accademica. In UniCamillus, peraltro, abbiamo la fortuna di avere molti docenti che lavorano anche allo Spallanzani e che possono portare “in diretta” la loro esperienza sul campo. I tempi ristretti di sviluppo dei vaccini, anche di ultima generazione, rappresentano un importante spunto di riflessione e approfondimento anche per le Università. Oggi l’imperativo è quello di non abbassare l’attenzione su questo coronavirus e sul suo comportamento. UniCamillus certamente continuerà a sostenere l’attività dei suoi ricercatori, interloquendo con esperti per trasferire ai propri studenti il massimo della consapevolezza su un virus che in due anni ha rivoluzionato la vita di tutti. D’altronde l’UniCamillus è un’Università completamente votata allo studio delle scienze mediche: a quali esigenze risponde questa vostra specificità in un periodo come quello che stiamo vivendo? Lo studio delle scienze mediche, delle professioni sanitarie, delle tecni-

Giovanni Profita.

che radiologiche o di laboratorio non risponde a logiche legate al momento, ma alla esigenza e necessità di formare personale competente e consapevole dell’importante compito che è chiamata a svolgere. Per quanto possa apparire retorico, è estremamente vera l’identificazione del lavoro sanitario con una missione umanitaria, ben oltre la semplice professione, da svolgere ovunque, non solo nei Paesi del sud del mondo. D’altronde il Covid ha dimostrato anche proprio questa “missione” di medici e infermieri… Esattamente: quando è stato deciso il lockdown, erano proprio medici ed infermieri ad uscire di casa. Li abbiamo visti affrontare turni massacranti, lontani dai propri affetti per preservarli da potenziali contagi. Questa emergenza sanitaria ha semplicemente evidenziato l’esigenza di avere personale formato e addestrato ai massimi livelli, allo stesso tempo motivato da un forte impegno umanitario, allo

“L’impegno consiste nell’offrire l’opportunità ai giovani ucraini di venire in Italia, formarsi per il test di accesso all’Università, offrire loro un alloggio, supporto psicologico, un corso di studi, è certamente un aiuto concreto a chi, dall’oggi al domani, ha dovuto fare i conti con un assalto che ha messo in ginocchio un’intera nazione”.

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“Abbiamo fatto tutto il possibile, a tempo praticamente zero, per ridurre al minimo l’impatto del disagio per i nostri studenti. Oggi quell’esperienza si sta mostrando utile anche per l’approntamento di programmi di formazione permanente per coloro che sono impegnati sul lavoro e desiderano aggiornarsi o progredire negli studi”.

L’INTERVISTA

scopo di dare un contributo decisivo nel momento in cui è necessario fare la differenza. UniCamillus si spende proprio per questo risultato. Durante il periodo più critico della pandemia le Università hanno dovuto rapidamente riorganizzarsi per poter garantire il prosieguo delle attività, con sessioni d’esame a distanza e attività di segreteria online potenziate. Come ha reagito UniCamillus all’emergenza legata al Covid 19? In parte pensando fuori dagli schemi: i protocolli a contrasto della diffusione del virus, molto stringenti, ci hanno imposto di identificare una soluzione che consentisse agli studenti di non perdere mesi e mesi, almeno, del proprio corso di studi. Quindi abbiamo lavorato per creare una piattaforma digitale che consentisse ai discenti di fruire delle lezioni da remoto, attraverso streaming o consultazioni di videolezioni appositamente preparate dai docenti secondo quanto stabilito nei programmi. Allo stesso modo, gli esami sono stati sostenuti attraverso i canali telematici. “Di necessità virtù”, si dice: abbiamo fatto tutto il possibile, a tempo praticamente zero, per ridurre al minimo l’impatto del disagio per i nostri studenti. Oggi quell’esperienza si sta mostrando utile anche per l’approntamento di programmi di formazione permanente per coloro che sono impegnati sul lavoro e desiderano aggiornarsi o progredire negli studi utilizzando, però, dei metodi di apprendimento più elastici rispetto al tradizionale insegnamento in presenza nelle aule. Crede che quello che abbiamo vissuto, dunque, possa cambiare definitivamente il modo di intendere la canonica lezione?

Credo che l’integrazione di sistemi telematici con le lezioni frontali sia uno strumento importante per la didattica: dare allo studente la possibilità di usufruire della lezione anche in altro momento o rivederla, qualora abbia qualche dubbio su un concetto, sia una leva ulteriore e una possibilità di affrontare ancora meglio i propri studi. Dall’altra parte, però, la lezione frontale, l’interazione docente - discente, la capacità di ascolto, di sintesi, l’approfondimento in aula restano comunque la risorsa primaria di un Ateneo che punta all’eccellenza. Si deve trovare il corretto equilibrio. Non dubito sia possibile una convivenza ben bilanciata, utile a garantire al massimo la formazione dello studente Attualmente i vostri corsi di laurea abbracciano i campi della Medicina e Chirurgia, dell’Odontoiatria e Protesi Dentaria, delle Professioni Sanitarie e quello delle Scienze della Nutrizione. Quali sono gli obiettivi del suo Ateneo per il breve e medio termine? L’Ateneo è in costante crescita, così come l’attenzione che ci viene rivolta dagli studenti che desiderano seguire i corsi di laurea, ma anche i Master e la formazione post lauream che UniCamillus offre. Fermarsi non fa parte del nostro DNA: il nostro cammino è iniziato da poco, ma le soddisfazioni che stiamo ottenendo sono il migliore dei presupposti per continuare a lavorare con convinzione, guardando con ottimismo al futuro. Anche gli spazi dell’Università stanno crescendo: dopo l’UniCongress Hall, il centro congressi universitario, siamo al lavoro per la realizzazione di nuovi laboratori e aree adatte ad accogliere i nostri studenti e a rendere la loro esperienza universitaria sempre più appagante. (C. G.)


NEUROSCIENZE E POLITICA

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CENTRI PER CHI È AFFETTO DA LONG-COVID La proposta di legge ARRIVA in Parlamento. A firmarla una decina di senatori del Movimento 5 Stelle di Antonio Acerbis

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na decina di senatori hanno da nerale, sono costituiti da un gruppo di propoco presentato una proposta di fessionisti con competenze specialistiche che legge che potrebbe aprire scenari stabiliscono percorsi di follow-up diagnostiinteressanti e innovativi. Il disegno co-terapeutici dedicati ai pazienti con prenormativo, che porta la prima firma di Raf- gressa infezione da SARS-COV-2». La legge si compone di un solo articolo e faele Mautone, ruota attorno all’istituzione di centri di cura per chi è affetto da Long-Covid. quattro commi. Gli ultimi due i fondamentaL’idea nasce dall’osservazione che la sin- li. Il comma 3 stabilisce che con decreto del ministro della Salute sono drome in questione è «una individuati: «i percorsi di condizione clinica caratterizriabilitazione multidiscizata dal mancato ritorno da plinare basati su una vaparte del paziente affetto da lutazione delle condizioni Covid-19 allo stato di salute della persona e lo sviluppo precedente l’infezione acuta». di piani riabilitativi indiviE da qui l’osservazione dei dualizzati», i professionisti senatori: «La presa in carico coinvolti che comprendadel paziente con tale sindro- Palazzo Madama, sede del Senato. no le seguenti figure: inme dovrebbe essere garantita attraverso un gruppo di professionisti con fettivologo, internista, geriatra, pneumologo, competenze specialistiche che stabiliscono cardiologo, fisiatra, fisioterapista, neurologo percorsi di follow-up diagnostico-terapeutici e psichiatra; e infine «le modalità di gestione dedicati ai pazienti con pregressa infezione da e sorveglianza dei pazienti pediatrici con preSARS-COV-2. Tali percorsi dovrebbero esse- gressa infezione da SARS-COV-2». Infine, il re orientati all’individuazione e al trattamento comma 4 stabilisce la dotazione finanziaria: degli esiti derivanti dall’infezione attraverso un 10 milioni a decorrere dal 2022. Per adesso approccio multidisciplinare e personalizzato». la proposta non è stata ancora calendarizzata, In altre parole, il disegno di legge si pone ma non è detto che questo non possa accal’obiettivo di «istituire, presso le aziende sa- dere, specie alla luce dei tanti studi scientifici nitarie, dei centri post-COVID. I centri, in che testimoniano come il Long-Covid sia una collaborazione con i medici di medicina ge- sindrome tutt’altro che secondaria.


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LA “RIVOLUZIONE” DELLE INTERFACCE CERVELLO-COMPUTER Così gli individui in LIS potrebber tornare a parlare. Studio pubblicato su Nature Communications

di Valentina Formica


L’APPROFONDIMENTO

“C’è tanto da fare. Si può volare nello spazio e nel tempo, partire per la Terra del Fuoco o per la corte di re Mida. Si può fare visita alla donna amata, scivolarle vicino e accarezzarle il viso ancora addormentato. Si possono costruire castelli in Spagna, conquistare il Vello d’oro, scoprire Atlantide, realizzare i sogni di bambino e le speranze di adulto. Fine delle divulgazioni. Bisogna che inizi a comporre i diari di questo viaggio immobile, per essere pronto quando l’inviato del mio editore verrà a raccogliere il mio dettato, lettera per lettera. Nella mente mescolo dieci volte ogni frase, tolgo una parola, aggiungo un aggettivo e imparo il testo a memoria, paragrafo dopo paragrafo”. (Jean-Dominique Bauby, Lo scafandro e la farfalla)

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8 dicembre 1995 un ictus ha sconvolto totalmente la vita di Jean-Dominique Bauby. Una volta risvegliato dal coma, si ritrova in una condizione di perfetta lucidità, ma prigioniero del proprio corpo inerte in quella che la medicina chiama locked-in syndrome (LIS). Bauby non può più muoversi, mangiare, parlare o semplicemente respirare senza aiuto. In quel corpo rigido e incontrollabile come lo scafandro di un palombaro, solo un occhio si muove. Quell’occhio è il suo legame con il mondo, con la vita. Essendo una specie altamente sociale, gli esseri umani si impegnano frequentemente in interazioni complesse per sostenere il funzionamento di quasi ogni aspetto della vita personale, familiare o professionale. Le interazioni sociali implicano lo

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Nel 2016, un team di ricercatori aveva mostrato come, con l’aiuto di un impianto cerebrale che rileva i tentativi di muovere la mano, una donna affetta da SLA era stata in grado di comunicare attraverso frasi complete. La paziente, però, non si trovava in uno stato di completo locked-in; manteneva ancora il controllo parziale dei movimenti degli occhi e della bocca.

L’APPROFONDIMENTO

scambio dinamico di informazioni per raggiungere una comprensione reciproca tra due o più individui, permettendo a ciascuno di regolare le proprie cognizioni e comportamenti. Comunicare con gli altri è una di quelle cose che, in quanto parte della nostra natura, diamo per scontate e, forse, solo provare ad entrare nello scafandro di un corpo ingessato, come ci permette di fare il libro sopra citato, ci fa scoprire la grande valenza di questi comportamenti quotidiani. Dare a coloro che si trovano in queste condizioni gli strumenti per comunicare con gli altri è ormai da anni una sfida delle neuroscienze e sono vari i sistemi che negli anni sono stati ideati. Diverse interfacce cervello-computer (BCI), invasive e non, hanno permesso agli individui in LIS di tornare a ‘parlare’, solitamente usando il controllo dei movimenti oculari. Con la progressione della malattia, però, il paziente può entrare in uno stato di completo locked-in in cui non può più aprire e chiudere gli occhi volontariamente. Fino ad oggi nessuna tecnologia era riuscita a fornire una comunicazione volontaria ai pazienti in quest’ultima condizione. È dello scorso 22 marzo la notizia, pubblicata su Nature Communications, di una nuova interfaccia neurale che ha permesso ad un paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica, senza nessun controllo volontario residuo dei suoi muscoli, di tornare a comunicare. Qualche anno fa, all’uomo era stata diagnosticata la SLA, una devastante malattia neurodegenerativa che porta alla progressiva perdita della funzione muscolare volonta-

ria. I pazienti con la SLA perdono gradualmente la capacità di parlare, mangiare e respirare da soli, ma, anche quando sono completamente paralizzati, molti malati possono ancora vedere, sentire e annusare - capacità su cui i ricercatori fanno affidamento per sviluppare nuovi dispositivi di comunicazione. Nel 2016, un team di ricercatori aveva mostrato come, con l’aiuto di un impianto cerebrale che rileva i tentativi di muovere la mano, una donna affetta da SLA era stata in grado di comunicare attraverso frasi complete. La paziente, però, non si trovava in uno stato di completo locked-in; manteneva ancora il controllo parziale dei movimenti degli occhi e della bocca. Fino a pochi mesi fa, infatti, i ricercatori non sapevano se le persone nello stato di locked-in completo perdessero anche la capacità di generare segnali utili per la comunicazione. Le interfacce cer-


L’APPROFONDIMENTO

vello-computer erano finora state usate con successo solo in pazienti che mantenevano il controllo residuo di alcuni movimenti volontari. Nel 2017, la famiglia del paziente malato di SLA si era rivolta ad un gruppo di ricerca chiedendo se vi fossero alternative sperimentali per mantenere un canale di comunicazione con l’uomo. Il paziente fu sottoposto all’impianto chirurgico in corteccia di due array di microelettrodi di 3,2 millimetri quadrati. In particolare, gli elettrodi vennero posizionati nella corteccia motoria primaria, ovvero la parte del cervello coinvolta nella pianificazione ed esecuzione di movimenti volontari. Dopo l’impianto cerebrale, quando i medici chiesero all’uomo di tentare di muovere le mani, i piedi o le braccia, i segnali neurali che seguivano non erano consistenti e quindi inutilizzabili come codice di comunicazione. Dopo tre mesi di tentati-

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vi infruttuosi, i ricercatori decisero quindi di cambiare approccio e di utilizzare una tecnica che insegna ai pazienti a manipolare la loro attività cerebrale attraverso l’uso di un feedback uditivo in tempo reale per sapere se tale modulazione cerebrale sta avendo successo o meno. Questa tecnica è conosciuta con il nome di neurofeedback uditivo. Al paziente viene presentato un ‘tono target’ e nel corso del tempo gli viene insegnato a modulare la propria attività neurale immaginando azioni specifiche in modo che il tono basato sull’attività cerebrale del paziente, rilevata dagli elettrodi impiantati nella sua corteccia motoria, corrisponda al tono target. Già dopo una settimana di training il paziente era in grado di modificare la sua attività neurale per abbinarla al tono target. Nel corso dell’anno successivo, egli è riuscito ad affinare le abilità di abbinamento del tono fino a generare parole e frasi selezionando le lettere da un programma per computer. Tenendo un tono “alto” o “basso”, l’uomo poteva indicare “sì” o “no” a gruppi di lettere, questo gli ha permesso di comporre intere frasi. Quello appena presentato rappresenta il primo studio a dimostrare l’utilità di un impianto neurale in una condizione di locked-in completo e, anche se ci sono ancora alcuni miglioramenti da apportare (il tessuto cicatriziale formatosi intorno all’impianto sembra influire nel tempo in maniera negativa sulla capacità comunicative del paziente), questa scoperta rappresenta un’importante conquista per la ricerca e una grande speranza per i pazienti e per i loro familiari.

Quello appena presentato rappresenta il primo studio a dimostrare l’utilità di un impianto neurale in una condizione di locked-in completo e, anche se ci sono ancora alcuni miglioramenti da apportare, questa scoperta rappresenta un’importante conquista per la ricerca e una grande speranza per i pazienti e per i loro familiari.

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CONTRIBUTO

NASCITA DELLA NEUROETICA (QUARTA PARTE): LE PRIME SOCIETÀ SCIENTIFICHE RELATIVE AL CERVELLO UMANO Premesse alla cornice di riferimento che dalla biofisica e dalle neuroscienze era giunta alla bio-etica

di Alberto Carrara Direttore del Gruppo di Neurobioetica (GdN) dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Docente di Neuroetica presso la Facoltà di Psicolofia dell’Università Europea di Roma, Membro della Pontificia Accademia per la Vita, Fellow dell’UNESCO Chair in Bioethics and Human Rights e Presidente dell’Istituto Internazionale di Neurobioetica.

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er arrivare a definire la neuroetica, è utile formulare, come suggerisce all’inizio del suo libro Neuroética práctica. Una ética desde el cerebro il filosofo morale dell’Università di Salamanca in Spagna Enrique Bonete Perales, alcune domande del tipo: che cos’è il cervello? come funziona? qual è il ruolo che svolge nell’esistenza umana?» (E. Bonete Perales, Neuroética práctica. Una ética desde el cerebro, Desclée, Bilbao 2010, 15-16). Il nucleo del discorso neuroetico emerge dalle seguenti domande che trovano il vertice in quest’ultima: è possibile organizzare le società alla

luce dei progressi neuroscientifici?... sono “io” qualcosa di più del mio proprio cervello? È questa “la domanda sintetica”, il nocciolo duro di gran parte del dibattito culturale, scientifico e mediatico relativo ai recenti sviluppi e applicazioni delle neuroscienze all’umano. Come del resto hanno sottolineato il neuroscienziato José Manuel Giménez-Amaya e il filosofo Sergio Sánchez-Migallón nell’introduzione al loro lavoro De la Neurociencia a la Neuroética. Narrativa científica y reflexión filosófica del 2010: vi sono alcune domande considerate “radicali” per comprendere la scienza con-


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Michael S. Gazzaniga.

temporanea e il senso dell’umano in generale: chi siamo?, esiste qualcosa come la cosiddetta libertà?, cos’è ciò che ci rende propriamente umani?, c’è qualche forma di conoscenza oltre a quella scientifico-sperimentale?, e se è così, come si inquadra in questo contesto multidisciplinare l’esperienza e la conoscenza religiose? (J. M. Giménez Amaya - S. Sánchez-Migallón, De la Neurociencia a la Neuroética. Narrativa científica y reflexión filosófica, EUNSA, Navarra 2010, 16) Queste domande richiamano il sottotitolo e lo sviluppo che il “padre” delle neuroscienze cognitive Michael S. Gazzaniga apporta nel suo volume di ben 490 pagine intitolato nella versione italiana: Human. Quel che ci rende unici.

Diverse risposte fornite dalle neuroscienze a queste domande e ad altre similari, anche se tuttavia ancora parziali e, il più delle volte troppo categoriche e dogmatiche, stanno plasmando, poco a poco, concetti classici relativi al nostro modo di intendere la vita morale, psichica e sociale dell’essere umano. Termini tradizionali dell’etica, della psicologia, psichiatria e della filosofia vengono passati al vaglio dei più sofisticati studi sulle basi neuroscientifiche del pensiero e dell’agire umani. In quasi tutti i contesti socioculturali, il suffisso “neuro” sta riscontrando così largo impiego e successo per le finalità più svariate: dal vendere al convincere. Si parla già di neuro-mania, neuro-fobia e di neuro-filia. Le immagini di risonanza magnetica fanno già parte della

In quasi tutti i contesti socioculturali, il suffisso “neuro” sta riscontrando così largo impiego e successo per le finalità più svariate: dal vendere al convincere. Si parla già di neuro-mania, neuro-fobia e di neuro-filia.

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Le immagini di risonanza magnetica fanno già parte della cultura d’ogni giorno: termini come PET (tomografia ad emissione di positroni) o risonanza magnetica funzionale (fRMN) sono parte integrante della nostra memoria, li abbiamo uditi ed ascoltati ripetutamente per radio, in televisione, li abbiamo letti su Internet e in migliaia di reti sociali nelle circostanze più disparate.

CONTRIBUTO

cultura d’ogni giorno: termini come PET (tomografia ad emissione di positroni) o risonanza magnetica funzionale (fRMN) sono parte integrante della nostra memoria, li abbiamo uditi ed ascoltati ripetutamente per radio, in televisione, li abbiamo letti su Internet e in migliaia di reti sociali nelle circostanze più disparate. In questo contesto di applicazione all’uomo delle tecnologie neuroscientifiche, come già dal 1970 con l’oncologo Potter si era costituita la bio-etica, così è sorta in questi ultimi anni la neuro-etica o neuro-bioetica. La narrativa storica di questa disciplina affonda le sue origini sin dagli anni Quaranta del secolo scorso. Bisogna ricordare, infatti che le società scientifiche che si occupano del cervello umano si costituirono proprio a partire dalla Federation of EEG and Clinical Neurophysiology, evento celebrato a Londra nel 1947, dall’omologo evento celebrato a Mosca nel 1958, dalla fondazione del International Brain Research Organization (IBRO) nel 1961, auspicata e voluta dall’UNESCO e dalla nascita della Society for Neuroscience nel 1969. Queste società si focalizzarono inizialmente sulla promozione scientifica della ricerca sul cervello, riservando un’attenzione marginale alle implicazioni etiche e/o sociali di tali ricerche e applicazioni. Solo a partire dal 1972 la Society for Neuroscience istituì un Comitato di Responsabilità Sociale, il Commitee on Social Responsability, che poi divenne il Social Issues Commitee, con lo scopo di informare tutti i membri della società scientifica e l’opinione pubblica sulle implicazioni

sociali degli studi relativi al sistema nervoso. Questo consiglio risultò di capitale importanza nello stabilire le diverse regolamentazioni etiche sull’impiego di animali da esperimento, nello specifico, primati e non primati. Nel 1983 questo stesso comitato iniziò una serie di tavole rotonde annuali su tematiche sociali, successivamente si iniziarono a trattare temi come: il miglioramento cognitivo, la morte cerebrale, la neurotossicità, etc. Lo scienziato spagnolo José Manuel Rodríguez Delgado (19152011), grazie ai suoi studi di neuro-elettrostimolazione, ottenne le prime pagine del New York Times il 17 maggio 1965. Delgado aveva infatti impiantato un elettrodo nel cervello di un toro da corrida, sulla scia remota delle torpedini del medico romano Scribonio Largo del primo secolo della nostra era. Lo stimolo elettrico prodotto e controllato dal ricercatore spagnolo dimostrò, per la prima volta in modo rigoroso e scientifico, che modificazioni a livello elettrico cerebrale potevano modificare la condotta animale. Il toro, infatti, veniva manipolato nella sua corsa giungendo fino a retrocedere davanti al famoso drappo rosso. Questi risultati, insieme alle sperimentazioni con LSD (dietilammina dell’acido lisergico) su elefanti (sempre degli anni Sessanta) ad opera del ricercatore statunitense Louis West, segnarono i primi tentativi seri e scientifici di valutare, dalla prospettiva etica, i progressi e le scoperte neuroscientifiche. In questo modo nacque, ancora in forma implicita, la neuro-etica.


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Cure palliative in ospedale UN DIRIT TO DI TUT TI


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TORNA “LUCCA IN MENTE” TUTTI GLI EVENTI DA ALLEVI A FARINETTI Dall’11 al 15 maggio torna il festival dedicato al benessere psicofisico

di Chiara Andreotti


L’EVENTO

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etteratura, musica e arte si riuniscono per abbattere lo stigma che pesa sulle malattie della mente. Con la primavera che avanza, infatti, la Fondazione BRF Onlus si prepara ad accogliere di nuovo “Lucca in mente”, il festival dedicato al benessere psicofisico che quest’anno arriva alla seconda edizione. Lo scorso anno, nonostante la pandemia, la Fondazione aveva avviato il festival con successo, portando a Lucca grandi ospiti come Giulio Cavalli, Nada Malanima e Andrea Crisanti per un dialogo all’insegna della comprensione e dell’ascolto. Quest’anno dall’11 al 15 maggio per la seconda volta Lucca ospiterà grandi nomi della letteratura, della musica e della cultura italiana. Una location d’eccezione quella che ospiterà questa seconda edizione del festival letterario: completamente restaurato il complesso monumentale del baluardo di san Salvatore, anche conosciuto come ex Casa del boia, con il suo baluardo sotterraneo delle mura offre un’atmosfera suggestiva e raccolta per essere cullati da storie e racconti. I numerosi ospiti, conosciuti a livello nazionale e internazionale, porteranno il focus del dialogo sul benessere della mente grazie ad esperienze, opere e racconti. Ad inaugurare questa edizione sarà lo scrittore Alessandro Zaccuri che, in collaborazione con il premio organizzato dalla Società Lucchese dei lettori, presenterà “Poco a me stesso” (Marsilio), un viaggio introspettivo nella Milano dell’Ottocento. Grande giorno quello di giovedì 12 maggio: “Lucca in mente” avrà il piacere e l’onore di ospitare il mae-

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Ad inaugurare questa edizione sarà lo scrittore Alessandro Zaccuri che, in collaborazione con il premio organizzato dalla Società Lucchese dei lettori, presenterà “Poco a me stesso” (Marsilio), un viaggio introspettivo nella Milano dell’Ottocento.

L’EVENTO

stro Giovanni Allevi. Il maestro si unirà alla Fondazione per approfondire, partendo dal suo libro “Le regole del pianoforte. 33 note di musica e filosofia per una vita fuori dall’ordinario” (Solferino), il suo rapporto con il benessere mentale. Seguirà poi Maura Gancitano, scrittrice e filosofa, con “Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza” (Einaudi) per raccontare come i canoni della bellezza siano diventati in questi tempi una prigione dorata. Insieme a lei l’illustratrice Valentina Merzi: già nel team della Fondazione BRF con la campagna #Parliamone, Valentina illustrerà dal vivo, dando vita alle parole della scrittrice. Stessa impostazione per la presentazione di Fiorenza Sarzanini con “Affamati d’amore” (Solferino) che, insieme all’illustratrice Federica Laino, spiegherà i disturbi alimentari e

Lucca in Mente, immagine di repertorio.

le loro conseguenze sul corpo e sulla mente. Imperdibile anche l’appuntamento di sabato 14 maggio con Oscar Farinetti, scrittore, imprenditore e fondatore di Eataly, che porterà la sua storia con la biografia “Never Quiet. La mia storia autorizzata malvolentieri” (Rizzoli). Per un pubblico più interessato all’aspetto scientifico del cervello, seguirà una tavola rotonda impostata maggiormente sull’aspetto medico delle patologie che lo riguardano: il Presidente della Fondazione BRF Armando Piccinni, insieme al professor Pietro Pietrini e la dottoressa Donatella Marazziti spiegheranno l’impatto che gli eventi di questi anni, dalla pandemia alla guerra, stanno avendo sulla psiche. La giornata si concluderà con la consueta premiazione del concorso dedicato alle scuole della Provincia di Lucca: un’occasione emozionante per aprire le porte alle generazioni future, di modo da sensibilizzare anche i più giovani alla cura e al benessere mentale. Il festival si concluderà con Chiara Gamberale per discutere del suo romanzo “Il grembo paterno” (Feltrinelli) attraverso il quale esplora il rapporto con il padre che dopo tanti anni imparerà a conoscere di nuovo. Insomma, quello che si delinea è un programma denso di incontri immancabili che la Fondazione BRF offre a tutta la popolazione toscana e non solo, con l’obiettivo di far nascere nel cuore di Lucca un appuntamento annuale con la cultura e il benessere della nostra mente, perché è sempre necessario ricordare che una buona salute passa anche dal cervello.


L’INCHIESTA

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#PARLIAMONE PER ABBATTERE LE CENSURE SULLA SALUTE MENTALE Continua la campagna di BRF per far comprendere, senza preconcetti, i disturbi mentali. Intervista all’illustratrice Giulia Pex

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a sempre l’arte in tutte le sue sfaccettature cerca di rappresentare il disagio, di dare una forma alle fragilità dell’uomo e di creare una connessione con i propri sentimenti. La Fondazione BRF ha lanciato #Parliamone: un progetto che nasce per abbattere i muri e le censure che spesso costruiti in materia di salute mentale. È un progetto che coinvolge artisti, illustratori e fumettisti con l’obiettivo di rappresentare la malattia mentale dal loro punto di vista e creare una conoscenza collettiva che faccia meno paura e sia più comprensibile e avvicinabile per tutti. Abbiamo deciso di parlarne con Giulia Pex, illustratrice milanese: Giulia nasce come fotografa ma decide di unire al suo talento anche la passione per il disegno, andando a combinare due forme espressive per crearne una nuova.

“Mi piacciono molto le case di provincia” racconta Giulia “tuttavia i dettagli sono la cosa che preferisco ritrarre (occhi, mani, porzioni di volti) oltre ad animali ed elementi naturali. L’importante per me è comunicare una sensazione ben precisa, evocare qualcosa di specifico al quale potersi relazionare da spettatore”. Come è nata la passione per il disegno? Credo di aver cominciato a disegnare subito fin da piccola, ho un sacco di quaderni pieni di animali e personaggi dei cartoni animati che pazientemente mi mettevo a ricopiare da libri e tv. Da lì non ho mai smesso, fino a capire di volermi specializzare e far sì che disegnare potesse diventare il mio lavoro. Per cosa si distingue il tuo stile? Mi piace lavorare con matita e acquerelli la maggior parte delle volte, di solito su carta riciclata. Penso che questi tre elementi combinati contri-


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Giulia Pex.

Illustrazione di Giulia Pex.

buiscano a dare alle mie illustrazioni quell’atmosfera pacifica e allo stesso tempo malinconica che ricerco anche utilizzando soprattutto i toni del blu e del grigio. E il tuo processo creativo invece? Non ho un processo creativo lineare e dopo anni ho capito che forse la cosa che mi riesce meglio è pensare senza pensarci troppo, anzi a volte proprio facendo tutt’altro, e lasciando che la mia testa si avvolga attorno alle idee processando una soluzione. Ovviamente non sempre è la tecnica vincente e spesso mi ritrovo a fare molta ricerca online per lasciarmi ispirare. Ascoltare musica e leggere sono altre due grandi risorse. Quali sono le emozioni da cui ti lasci ispirare? Ti senti stimolata

anche dalle emozioni comunemente negative? La malinconia e la nostalgia mi ispirano molto, anche se disegno meglio quando sono serena e ho la mente più libera. Credo che molte emozioni ritenute comunemente “negative” vadano comunque accolte e analizzate, per poterle poi lasciar andare (magari anche sul foglio). Qual è il tuo rapporto con la salute mentale? Quest’anno in particolare non è stato facile per me e ho iniziato un percorso di terapia durante l’estate, che sto proseguendo tuttora e mi sta facendo molto bene. Consiglierei a chiunque ne abbia la possibilità di provare a chiedere aiuto, pur sapendo per esperienza che è sicuramente

“L’importante per me è comunicare una sensazione ben precisa, evocare qualcosa di specifico al quale potersi relazionare da spettatore”.

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“Se è un periodo particolarmente difficile a livello mentale purtroppo divento un po’ disfunzionale e faccio fatica a concentrarmi sul processo creativo”.

la parte più difficile del processo, perché è un po’ come ammettere di non potercela fare da soli e di essere arrivati a un punto in cui non si sa più bene come muoversi. E come influisce sul tuo lavoro? Se è un periodo particolarmente difficile a livello mentale purtroppo divento un po’ disfunzionale e faccio fatica a concentrarmi sul processo creativo. Quando capita cerco di non affannarmi a voler fare a tutti i costi, e faccio attenzione a cosa mi fa stare meglio per poi ritornare con più calma al lavoro in un secondo momento.

Illustrazione di Giulia Pex.

Così si presenta Giulia, con il suo tratto delicato e deciso, i colori tenui e la mente aperta: con le sue parole ci ricorda la necessità di sdoganare una volta per tutte l’importanza del percorso di terapia e quella di accogliere tutte le emozioni che sentiamo per imparare a conoscerci. Vuoi sostenere la campagna #Parliamone? Vai sul sito www. fondazionebrf.org e scopri chi sono i vignettisti che hanno regalato le proprie opere alla battaglia della Fondazione BRF. E scopri anche i tanti gadget che puoi acquistare!


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LA CORRELAZIONE TRA GENETICA E SCHIZOFRENIA Lo studio pubblicato su Nature coordinato dallo Psychiatric Genomics Consortium

di Antonio Acerbis


NEUROSCIENZE

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econdo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la schizofrenia colpisce circa una persona su 300 in tutto il mondo. E ora, però, sorgono importanti novità grazie a uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Nature che mostra come potrebbero esserci correlazioni determinanti tra genetica e schizofrenia. La ricerca, infatti, mirava a conoscere le basi genetiche del disturbo mentale. Il progetto è stato coordinato dallo Psychiatric Genomics Consortium, un consorzio internazionale che ha coinvolto più di 100 istituzioni di 45 nazioni, tra queste anche l’IRCCS San Raffaele. «Parliamo del più grande studio genetico mai condotto sulla schizofrenia», spiega Stefano Bonassi, Direttore del Servizio di Epidemiologia Clinica e Molecolare dell’Istituto San Raffaele e Professore di Igiene e Medicina Preventiva presso l’Università San Raffaele Roma: «è stato analizzato il DNA di oltre 77.000 persone affette da schizofrenia e di circa 243.000 persone sane, utilizzate con gruppo di controllo. Questo sforzo enorme ha permesso di identificare un gran numero di geni specifici che potrebbero assumere ruoli importanti nell’eziologia della malattia». In particolare, lo studio dei genomi dei soggetti coinvolti ha permesso di individuare associazioni tra varianti geniche e sviluppo della schizofrenia in ben 287 loci genetici distinti. Sebbene il numero di varianti genetiche coinvolte nella schizofrenia sia elevato, è stato ora dimostrato come queste interessino in prevalenza i geni espressi nei neuro-

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Lo studio dei genomi dei soggetti coinvolti ha permesso di individuare associazioni tra varianti geniche e sviluppo della schizofrenia in ben 287 loci genetici distinti.

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ni, indicando queste cellule come il sito più importante della patologia. «Ricerche precedenti hanno mostrato associazioni tra schizofrenia e molte sequenze di DNA, ma raramente è stato possibile collegare i risultati a geni specifici», afferma il co-autore principale, il professor Michael O’Donovan, della Divisione di medicina psicologica e neuroscienze cliniche dell’Università di Cardiff. «Il presente studio non solo ha aumentato notevolmente il numero di tali associazioni, ma ora siamo stati in grado di collegare molte di esse a geni spe-

cifici, un passo necessario in quello che rimane un difficile viaggio verso la comprensione delle cause di questo disturbo e l’identificazione di nuovi trattamenti», conclude O’Donovan. «Il fatto di avere contribuito a tale ricerca con pazienti assistiti nelle strutture del Gruppo San Raffaele», sottolinea Bonassi, «è motivo di orgoglio e ha un valore intrinseco anche per i nostri assistiti e per le loro famiglie, consapevoli di poter contribuire fattivamente alla ricerca più avanzata sulla patologia che li riguarda così da vicino».


NEUROSCIENZE

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CEFALEE, SEMPRE PIÙ PERSONE NE SOFFRONO Nel mondo ne è affetta una persona su due di Alberto Lepri

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dati sono impressionanti: il 52% della popolazione mondiale è affetta da un disturbo di cefalea ogni anno, con il 14% che riporta emicranie. I dati emergono dall’ultima revisione delle evidenze scientifiche, pubblicate su The Journal of Headache and Pain. Gli autori della Norwegian University of Science and Technology hanno esaminato 357 pubblicazioni tra il 1961 e la fine del 2020 per stimare la prevalenza globale delle cefalee e hanno stimato che il 52% della popolazione mondiale ha sperimentato un disturbo di cefalea in un anno, con il 14% che riferisce un’emicrania, il 26% che riferisce una cefalea di tipo tensivo e il 4,6% che riferisce una cefalea cronica per 15 o più giorni al mese. Tutti i tipi di mal di testa erano più comuni nelle femmine che nei maschi, più marcatamente per le emicranie (17% nelle femmine rispetto all’8,6% nei maschi) ed anche nelle forme croniche (6% nelle femmine rispetto al 2,9% nei maschi). La maggior parte delle pubblicazioni prese in considerazione si riferiva ad adulti tra i 20 e i 65 anni, ma alcune includevano anche adolescenti e bambini fino a 5 anni, e persone anziane sopra i 65 anni. Basandosi su un precedente rapporto del 2007, Lars Jacob Stovner, autore

principale, e i suoi colleghi, hanno anche misurato le differenze di metodo tra gli studi esaminati. La maggior parte degli studi ha riportato la prevalenza della cefalea nell’ultimo anno. Tuttavia, alcuni studi hanno riportato la prevalenza della cefalea nel corso dell’intera vita e altri per periodi molto più brevi, compresi i casi di cefalea nell’ultimo giorno. Secondo Lars Jacob Stovner, dalla revisione emerge che «la prevalenza dei disturbi della cefalea rimane alta in tutto il mondo e il peso dei diversi tipi di cefalea può avere un impatto devastante». Da qui anche le basi per migliorare metodi di interventi e trattamento dell’attacco acuto anche se, riconoscono gli autori, la maggior parte delle pubblicazioni esaminate proveniva da paesi ad alto reddito con buoni sistemi sanitari, quindi, questo potrebbe non riflettere tutti i paesi. «Rispetto al nostro rapporto precedente del 2007 e alle stime globali, i dati suggeriscono che i tassi di mal di testa ed emicrania potrebbero essere in aumento. Tuttavia, dato che potremmo spiegare solo il 30% o meno della variazione nelle stime delle cefalee con le misure che abbiamo esaminato, sarebbe prematuro concludere che le cefalee sono definitivamente in aumento», afferma Stovner.


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NEUROSCIENZE

EPATITE SCONOSCIUTA NEI BAMBINI, FACCIAMO IL PUNTO Tutto quello che sappiamo fino su origine ed evidenze scientifiche

di Alessandro Righi

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allerta per le epatiti di origine sconosciuta (ovvero non provocate dai virus A, B, C, D o E) è alta, ma al momento in totale nel mondo sono stati segnalati, ad oggi, circa 190 casi di epatite grave nei bambini. La direttrice del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc), Andrea Ammon, in un briefing virtuale, ha spiegato che l’insorgenza della malattia è stata segnalata per la prima volta nel Regno Unito all’inizio aprile (dove almeno 8 bambini sono stati sottoposti a trapianto di fegato) e da allora è stata identificata in almeno 12 paesi a livello globale. Sono inclusi 40 casi nell’Unione europea/ Spazio economico europeo. L’Ecdc sta indagando sui casi di epatite grave nei bambini insieme alle autorità


NEUROSCIENZE

nazionali e all’Organizzazione mondiale della sanità. LE IPOTESI Quel che è certo al momento è che non c’è alcun legame con il vaccino antiCovid, e anche la possibile origine da adenovirus è “improbabile”, con le varie ipotesi formulate ancora senza riscontri scientifici. Sulle epatiti pediatriche acute registrate prima in Gran Bretagna e nei giorni successivi anche in altri Paesi europei, tra cui l’Italia (4 i casi al 20 aprile) l’Istituto Superiore di Sanità ha messo a punto un focus, pubblicato sul suo sito, per fare chiarezza sulle cose che sappiamo finora e sulle ipotesi al vaglio, compreso un possibile collegamento con il Covid. Al momento, dunque, nessuna delle teorie formulate sull’origine ha

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avuto un riscontro attraverso evidenze scientifiche. Inoltre, ogni anno in Italia, come negli altri paesi, si verifica un certo numero di epatiti con causa sconosciuta, e sono in corso analisi per stabilire se ci sia effettivamente un eccesso. Le ipotesi iniziali del team di indagine nel Regno Unito proponevano una eziologia infettiva o possibile esposizione a sostanze tossiche. Informazioni dettagliate raccolte attraverso un questionario relativo a cibi, bevande, abitudini personali dei casi non hanno evidenziato esposizioni comuni. Le indagini tossicologiche sono in corso, ma una eziologia infettiva sembra essere più probabile in base al quadro epidemiologico e clinico. Le indagini microbiologiche, come detto, hanno escluso virus dell’epatite A, B, C, D ed E in tutti i casi. Tra 13 casi notificati dalla Scozia, per cui sono disponibili informazioni di dettaglio sul testing, tre avevano una infezione confermata da SARSCoV-, 5 erano negativi e 2 avevano avuto una infezione da SARS-CoV-2 tre mesi prima. Cinque casi avevano un test positivo per adenovirus tra gli 11 dei 13 casi per cui erano disponibili dati su questo tipo di test. L’EVOLUZIONE Il 5 aprile 2022, il Regno Unito ha notificato un aumento nel numero di casi di epatite di in bambini precedentemente sani sotto i 10 anni. Il 12 aprile, il Regno Unito ha riportato che, oltre ai casi riportati in Scozia, erano stati identificati circa 61 casi sotto indagine in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord, la maggior parte di età compresa tra 2 e 5 anni. Il 14 aprile, la Scozia ha riportato 13 casi

Riguardo alle ipotesi, quel che è certo al momento è che non c’è alcun legame con il vaccino antiCovid, e anche la possibile origine da adenovirus è “improbabile”, con le varie ipotesi formulate ancora senza riscontri scientifici.

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La maggior parte dei paesi riporta un numero di casi limitato. Fa eccezione il Regno Unito che, al 21 aprile 2022, aveva identificato oltre 100 bambini di età inferiore a 10 anni con epatite acuta di n.d.d. in totale 8 bambini hanno ricevuto un trapianto di fegato.

NEUROSCIENZE

sotto indagine di cui due coppie con link epidemiologici. La presentazione clinica dei casi nel Regno Unito era di epatite acuta grave con aumento delle transaminasi (AST/ALT) superiore a 500 IU/L e in molti casi ittero. Nelle settimane precedenti, alcuni casi avevano presentato sintomi gastro-intestinali tra cui dolore addominale, diarrea e vomito. La maggior parte dei casi non ha presentato febbre. Alcuni casi hanno usufruito di cure specialistiche in unità epatologiche pediatriche e alcuni di questi hanno ricevuto un trapianto di fegato. Al 21 aprile 2022, casi di epatite acute di n.d.d. in bambini sono stati riportati in Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Olanda, Romania, Spagna, potenzialmente in Svezia, il 19 aprile in Israele (12 casi) e il 20 aprile in Italia (4 casi). La maggior parte dei paesi riporta un numero di casi limitato. Fa eccezione il Regno Unito che, al 21 aprile 2022, aveva identificato oltre 100 bambini di età inferiore a 10 anni con epatite acuta di n.d.d. in totale 8 bambini hanno ricevuto un trapianto di fegato. Al di fuori dell’Unione Europea,

al 15 aprile 9 casi di epatite acuta di n.d.d. tra bambini di età compresa tra 1 - 6 anni con test positivo per adenovirus sono stati riportati dalle autorità sanitarie dello stato americano dell’Alabama, alcuni di questi presentavano una infezione da adenovirus sierotipo 41. “Al momento - riporta l’Ecdc nell’ultimo bollettino aggiornato al 23 aprile - non c’è una chiara correlazione tra i casi riportati. Nessun chiaro fattore di rischio epidemiologico è emerso tra i casi, cosi’ come nessuna associazione con i viaggi”. IL COVID NON C’ENTRA Al momento non ci sono elementi che suggeriscano una connessione tra la malattia e la vaccinazione, e anzi diverse considerazioni porterebbero ad escluderla. nella quasi totalità dei casi in cui si è a conoscenza dello status i bambini colpiti non erano stati vaccinati l’ipotesi che sia un adenovirus a causare le epatiti, avanzata da qualche ricercatore, è di per sè improbabile, in quanto questo tipo di virus normalmente non è associato a malattie epatiche. In ogni caso l’adenovirus contenuto nei vaccini a vettore adenovirale anti Sars-Cov-2 utilizzati in alcuni Paesi (in Italia AstraZeneca e Janssen), è geneticamente modificato in modo da non replicare nelle cellule del nostro organismo. Allo stato attuale delle conoscenze, quindi, non sembrano biologicamente possibili i fenomeni di ricombinazione tra Adenovirus circolanti e ceppo vaccinale. Questi, infatti, presuppongono il rimescolamento di geni tra virus mentre questi si moltiplicano, ma questo non è possibile per il vettore utilizzato per la vaccinazione.


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UN “METRO” PER MISURARE LO SVILUPPO DEL CERVELLO Possibile valutare cambiamenti da 0 a 100 anni. Ecco come di Alessia Vincenti

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alla crescita esplosiva dell’infanzia fino al lento declino della vecchiaia, ogni cambiamento del nostro cervello può essere finalmente misurato e valutato rispetto a degli standard di riferimento. A renderlo possibile, come raccontato dall’Ansa, è BrainChart, uno strumento interattivo fatto di curve che descrivono gli standard di crescita e invecchiamento del cervello umano da 0 a 100 anni. Il risultato, pubblicato su Nature da un team guidato dalle università di Cambridge e della Pennsylvania, si è già rivelato prezioso per la ricerca nel campo delle neuroscienze e in futuro potrebbe esserlo anche nella diagnosi di malattie psichiatriche e neurodegenerative BrainChart potrebbe rappresentare una svolta per la medicina, simile a quella impressa oltre 200 anni fa dall’introduzione delle curve di crescita per la valutazione di peso e altezza in neonati e bambini. Finora nessuno era riuscito a sviluppare simili strumenti per monitorare l’evoluzione del cervello. I ricercatori hanno analizzato 124.000 risonanze magnetiche cerebrali di oltre 100.000 individui di ogni età, dai 115 giorni dopo il concepimento fino ai 100 anni. Mettendo insieme i dati di imaging provenienti da 10 studi condotti in tutto il mondo, è stato possibile mappare i cambiamenti del cervello umano nel corso della vita definendo diverse curve di crescita.

Grazie a BrainChart (disponibile sulla piattaforma brainchart.io) sono già state identificate alcune tappe fondamentali dello sviluppo cerebrale che finora erano sfuggite. In particolare, si è osservato che il volume della materia grigia aumenta rapidamente a partire da metà della gestazione, raggiunge il picco appena prima dei sei anni e poi inizia lentamente a diminuire. Anche il volume della sostanza bianca aumenta rapidamente da metà gestazione fino alla prima infanzia e raggiunge il picco appena prima dei 29 anni, mentre il calo accelera dopo i 50 anni. Il volume della materia grigia sottocorticale (che controlla funzioni corporee e comportamenti basilari) raggiunge il culmine nell’adolescenza, esattamente a 14 anni e mezzo. «Con i nostri grafici per il cervello siamo ancora agli inizi: abbiamo dimostrato che è possibile creare questi strumenti mettendo insieme grandi quantità di dati», afferma Richard Bethlehem, del dipartimento di psichiatria dell’Università di Cambridge. «I grafici stanno cominciando a fornire informazioni interessanti sullo sviluppo cerebrale e la nostra ambizione per il futuro, man mano che integriamo nuovi set di dati e affiniamo le curve, è che possano diventare parte della routine clinica. Potrebbero essere usate per valutare pazienti negli screening per l’Alzheimer, permettendo di individuare i segni della neurodegenerazione confrontando quanto velocemente il volume del cervello è cambiato rispetto ai loro coetanei».


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NEUROSCIENZE

DEPRESSIONE E COVID AUMENTATI IN ITALIA I CASI DURANTE IL LOCKDOWN I risultati del primo studio realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità

di Andrea Pesce

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taliani più depressi durante le fasi di lockdown a causa della pandemia Covid-19, colpiti anche i giovani tra i 18 e i 34 anni. È questo il risultato di uno studio realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità, basato sul sistema di sorveglianza Passi (strumento interno al sistema sanitario nazionale, in quanto condotto dai Dipartimenti di Prevenzione delle ASL, coordinate dalle Regioni che si avvalgono del supporto tecnico-scientifico dell’Istituto Superiore di Sanità, ndr) e pubblicato sulla rivista Journal of Affective Disorders. È di fatto il primo studio italiano che abbia esaminato l’andamento temporale dei sintomi depressivi durante la pandemia in campioni rappresentativi della popolazione generale adulta, ed uno dei pochi studi nel mondo che abbia

esaminato un arco temporale lungo. Sono stati infatti utilizzati i dati derivati da oltre 55.000 interviste effettuate dal 2018 al 2020. I risultati hanno mostrato un incremento dei sintomi depressivi nel bimestre marzo-aprile 2020 con una prevalenza del 7,1% rispetto al 6,1% del 201819, seguito da un decremento (4,4%) nel bimestre maggio-giugno, dopo la revoca del lockdown, e poi da un nuovo e più cospicuo incremento in luglio-agosto (8,2%). Infine è stato rilevato un ritorno graduale, entro la fine del 2020, ai livelli registrati nel biennio prima della pandemia: 7,5% nei mesi di settembre-ottobre e 5,9% a novembre-dicembre. Questi risultati sono in linea con quelli dei più rigorosi studi longitudinali condotti sulla popolazione generale in altre nazioni e molto si-


NEUROSCIENZE

mili a quelli dello studio Household Pulse Survey statunitense che ha evidenziato una fluttuazione dei sintomi depressivi tra aprile e dicembre 2020, con due picchi in luglio e in novembre. Mentre in media la risposta della popolazione italiana depone per una buona resilienza di fronte allo stress generato dalla pandemia, un più severo peggioramento, rispetto agli anni precedenti, è stato osservato in alcune categorie demografiche, ed in particolare nei giovani (18-34 anni). Per la prima volta nella storia del sistema di sorveglianza Passi i dati hanno evidenziato un rischio aumentato di sintomatologia depressiva nei giovani, che in passato risultavano essere tipicamente un gruppo protetto a minor rischio. Inoltre, rispetto a prima della pandemia, è aumentato il rischio legato all’essere donne o all’avere difficoltà economiche. «La pandemia ha comportato dunque molte sfide - commenta Antonella Gigantesco del reparto Ricer-

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ca clinico-epidemiologica in salute mentale e comportamentale dell’ISS - in particolare per i giovani preoccupati per il loro futuro, le donne e i lavoratori i cui mezzi di sussistenza sono stati minacciati. Sarà importante, nel breve e lungo periodo, promuovere azioni e interventi specifici e innovativi rispetto a nuovi bisogni di salute mentale emergenti come il potenziamento dei servizi per la salute mentale e politiche che coinvolgano anche i luoghi di lavoro e le scuole». La stessa World Health Assembly, nel maggio 2021, ha riconosciuto, all’interno del piano d’azione globale per la salute mentale 20132030, la necessità di potenziare i servizi di salute mentale, e l’OCSE nel suo documento sull’impatto della pandemia sulla popolazione, ha raccomandato l’adozione di un approccio integrato che dovrebbe anche prevedere programmi di promozione della salute mentale non solo nel settore sanitario.

I risultati hanno mostrato un incremento dei sintomi depressivi nel bimestre marzo-aprile 2020 con una prevalenza del 7,1% rispetto al 6,1% del 2018-19, seguito da un decremento (4,4%) nel bimestre maggio-giugno, dopo la revoca del lockdown, e poi da un nuovo e più cospicuo incremento in luglio-agosto (8,2%).

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L’AUTRICE

LA BELLEZZA? L’OSSESSIONE DEI NOSTRI TEMPI La parola alla filosofa e scrittrice Maura Gancitano

di Flavia Piccinni

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gni volta che ci guardiamo allo specchio, e notiamo qualcosa che non è come dovrebbe essere, ci convinciamo di avere peccato. La pubblicità e i social ci ricordano costantemente le nostre mancanze, ma suggeriscono anche una strada che può portare a redimersi: il tentativo di diventare belli”. Parla così Maura Gancitano, filosofa e scrittrice, siciliana classe 1985, gli ultimi vent’anni divisi fra Roma e Milano. Adesso la bellezza - con la storia inscindibile dall’essere umano, gli intrinsechi sensi di colpa, l’innato trasformismo - è al centro del suo ultimo saggio “Specchio delle mie brame” (Einaudi, pp. 180), in libreria dalla prossima settimana. “Oggi - prosegue Gancitano, con gli occhi scuri che sono spilli e i capelli castani legati in uno chignon morbido - è qualcosa che possiamo identificare facilmente. Corrisponde

a un certo modo di vestire, di mangiare, di parlare e perfino di camminare. È una gabbia dorata dentro cui tutti abitiamo, quasi mai felicemente. La vera sfida è recuperare un altro senso di bellezza, evitando di demonizzarla, ma piuttosto riuscendo a riempirla di un nuovo significato, sottraendola alle ansie, alle paure e alla vergogna con il quale spesso la avviciniamo”. Un processo non semplice. Considerando che, dall’antichità, è stata al centro del dibattito. Dai tempi di Platone in poi abbiamo avuto l’ossessione di descrivere la bellezza come un’ideale, e di capire come poterla prevedere. In questo è mancato lo sguardo delle donne, ma anche il senso di potersi lasciare sorprendere e stupire. Oggi non riusciamo a sfuggire dal desiderio di aderire alla norma, e ci ritroviamo vittime del mito della bellezza. Non a caso, la bellezza spesso viene identificata con il valore personale.


L’AUTRICE

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Maura Gancitano.

Con il valore personale, e con il desiderio di procurare invidia. È come se nella società di massa si fossero estese delle dinamiche che un tempo accadevano solo fra nobili. Abbiamo massificato il processo di vetrinizzazione attraverso il desiderio di esporci, e di mostrarci anche come non siamo. Così siamo diventate delle persone più infelici e insoddisfatte. Ormai il nostro tempo è sempre più colonizzato da pensieri che prima non c’erano. Come si disinnesca questo meccanismo? A livello personale facendo delle scelte, ed ammettendo di vivere, con noi stessi e con gli altri, stati emotivi anche negativi. Spesso vediamo le altre persone molto meglio, molto più felici, di quelle che sono. Un cambiamento, però, può passare solo dalla collettività. Non dobbiamo dimenticare che ci vengono dati costantemente dei modelli, ma forse

dovremmo esercitarci nell’entrare in relazione con noi stessi e con gli altri senza dover pensare se quella cosa risponde a un canone oppure no. A proposito di canoni, un ruolo centrale gioca la chirurgia estetica. Ma in pochi sanno che i primi a servirsene furono gli uomini. I primi interventi di rinoplastica risalgono al Cinquecento, e venivano praticati da medici-barbieri. A sistematizzare e migliorare le tecniche fu però la società borghese, che si servì di plastica al labbro leporino, blefaroplastica, addominoplastica e otoplastica. Non sempre le cose andavano per il verso giusto. Una liposuzione, nel 1926, costò una gamba a una donna francese: il medico, invece di rimuovere il grasso, le tagliò una parte muscolare del polpaccio. Con i secoli, il confine fra necessità e vanità è divenuto sempre più labile. Rossella Ghigi notava come la

“La pubblicità e i social ci ricordano costantemente le nostre mancanze, ma suggeriscono anche una strada che può portare a redimersi: il tentativo di diventare belli”.

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“Dai tempi di Platone in poi abbiamo avuto l’ossessione di descrivere la bellezza come un’ideale, e di capire come poterla prevedere. In questo è mancato lo sguardo delle donne, ma anche il senso di potersi lasciare sorprendere e stupire”.

L’AUTRICE

bruttezza nel corso dei secoli sia stata in qualche modo patologizzata dalla classe medica. Oggi la storia della chirurgia plastica è connaturata all’idea di poter cancellare tratti potenzialmente stigmatizzanti. Emblematico è il caso della conduttrice televisiva Julie Chen: per fare carriera le venne raccomandato di sottoporsi a un’operazione per ottenere la doppia palpebra. Nel nostro Paese, in perfetta tendenza con l’intero pianeta, il ricorso alla chirurgia estetica è in aumento. Nel 2021 le richieste sono aumentate del 130% rispetto all’anno precedente. La bellezza, per dirla come le parole di un noto professionista napoletano, è “diventata un bene primario legato alla qualità della vita”. Ma naturalmente si aggiorna rispetto alle richieste di videocall e ai social network.

Qual è il ruolo giocato dalla moda in questa partita? Fondamentale. Ma bisogna partire da lontano. Nel Duecento nacque la distinzione fra abiti maschili e femminili, ma fino all’Ottocento non era rigida: i nobili usavano trucchi, parrucche, tacchi e colori. Con l’avvento della borghesia cambiò tutto. Come cambiò tutto con la nascita delle taglie. Vennero battezzate grazie alla diffusione della moda pre-confezionata. Se all’inizio per le donne erano proposte numerose taglie, fino a sessanta, quando ci si rese conto che le alterazioni rappresentavano un enorme costo di produzione, e moltiplicavano il rischio di rimanere con merce invenuta, si decise di creare un range ristretto di misure. In questo modo andò a battesimo una prima standardizzazione dei corpi.


L’AUTRICE

E il vanity sizing, che consiste nel modificare le taglie degli abiti per solleticare la vanità dei clienti. In altre parole, la taglia dei vestiti diventa progressivamente più grande nel corso dei decenni: se negli anni Ottanta un girovita di 70 centimetri corrispondeva a una taglia 44, oggi corrisponde a una 42. Questa manipolazione nasce dal fatto che l’industria della moda sa bene cosa ci accade in camerino quando ci sentiamo anormali e grasse, dunque corre ai ripari non cercando di normalizzare tutti i corpi, ma solleticando la nostra vanità. Il rischio è chiaro. Dal vanity sizing rimangono fuori moltissimi corpi, sulla base di fisicità, grasso o disabilità, ma la spinta delle taglie al ribasso intende nascondere il mito della bellezza. Se entro in una taglia normale mi sentirò una persona normale, e non mi importerà più di distruggere gli standard. Ecco ritornare il concetto di magrezza come elemento centrale per la bellezza. Eppure non è sempre stato così. Oggi escono continuamente libri sul-

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le diete, programmi televisivi in cui le persone grasse fanno a gara a chi perde più chili, si parla ogni anno di prova costume. I nostri cervelli sono continuamente sollecitati da informazioni del genere, e così diamo sempre più importanza alle dimensioni e alle misure. Questo, però, è inversamente proporzionale a ciò che accade davvero ai nostri corpi. Ovvero? Nonostante tutto, o forse in ragione di questa ossessione normativa, le misure e il peso medio delle persone nel pianeta continuano a crescere. Ma è importante sapere da dove ha origine qualcosa che cambia quotidianamente l’umore di milioni di persone nel mondo. Ovvero da una convenzione: quello dei canoni fisici, e non spirituali. Che cosa è oggi per lei la bellezza? Esattamente il contrario del suo mito. Per me è uno stato di leggerezza e di liberazione dagli stereotipi. Qualcosa che non necessariamente deve rientrare nei canoni, ma che è sempre capace di stupire.

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LIBRI

DISTURBO BIPOLARE SCRITTURA E BIOGRAFIA Storia di Gaia Raynieri e della sua guarigione

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ivere il dolore, e poi supe- personalità”. Ed è così che inizia una rarlo. Salire sulle montagne salita per “stare meno peggio”, cercare russe e ugualmente riuscire a una soluzione transitoria che possa plasopravvivere a quella infinita care la tristezza e far passare il tempo. sequenza di alti e bassi che è l’esistenza Almeno fino a quando la consapevodi chi soffre di un disturbo psichiatrico. lezza muta, e il tentativo si fa quello di Altalene della vita che per cercare un proprio confine fra Gaia Raynieri - torinese classanità e normalità, accettandose 1986, divenuta celebre nel si e provando a comprendere le 2009 per l’esordio “Pulce non proprie ferite. c’è” pubblicato da Einaudi, In fondo, come nota l’autrinel quale raccontava la convice: “chi soffre di depressione venza con l’autismo e un clao ha esperienze di difficoltà moroso errore giudiziario che d’umore sa quanto sia difficile, aveva coinvolto la sua famiglia soprattutto a certe latitu¬dini, - si sono dimostrati ostacoli sì, non avere una “ricaduta” in ma superabili. Ed è in questa alcuni momenti dell’anno. Gli perfettibilità della quotidiani- “Un libro alberi perdono le foglie, e neldi Guarigione” tà, alla ricerca della felicità, Gaia Rayneri la terra non ci sono più i frutti che si annida lo sguardo e la Harper Collins della stagione precedente né penna dell’autrice con il ro- 350 pagine ancora i semi per la stagione manzo appena pubblicato da 18,50 euro successiva: è l’“estate di San Harper Collins “Un libro di Martino”, quel mo¬mento in guarigione” (pp. 350, € 18.50). cui alcuni dicono che il velo che separa La storia è struggente, ancora di più la vita dalla morte sia più sottile”. perché è esplicitamente autobiografica Un momento di consapevolezza e racconta di quando l’autrice, 24enne, che in questo libro si fa approccio improvvisamente va in pezzi. Un’om- sincretico all’esistenza, ma ancora di bra ammanta le sue giornate, annullan- più traccia di speranza nel buio della do la routine fra amici e lavoro, fino malattia e nella solitudine che spesso all’incontro con uno psichiatra che le tocca, ancora oggi, il paziente psichiadiagnostica un “disturbo borderline di trico. (F. P.)


IL PODCAST

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“LA GABBIA DI MATTI” DENTRO IL MANICOMIO La narrazione in sei puntate dello scrittore Gabriele Cruciata

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Roma, dove un tempo non c’era la periferia ma solo la campagna, esisteva il manicomio più grande d’Europa. Si chiamava Santa Maria della Pietà. Accoglieva tutti quelli che non volevano nelle case, e neppure nei quartieracci: reietti neanche considerati persone, costretti a vivere spesso come bestie. È questo il cuore pulsante della bella narrazione in sei puntate proposta dalla piattaforma Storytel, “La gabbia di matti”, firmata dal giornalista specializzato in podcast Gabriele Cruciata, già vincitore di prestigiosi riconoscimenti come il Premio Morrone con il podcast “Buco nero”. Adesso Cruciata accompagna l’ascoltatore fuori dalla Capitale, in una zona dove i tram passano e non passano, e dove le storie hanno il sapore dei sopravvissuti: sono quelli che hanno trascorso porzioni di vita al Santa Maria della Pietà, o quelli che lui sapientemente rievoca attraverso le memorie dell’ospedale perché scomparsi da decenni. La storia di questo manicomio in atti-

vità dal 1913 al 1999 - del quale sembra di avvertire, ascoltando, le urla dei pazienti, le fatiche degli infermieri, ma anche le battaglie degli psichiatri - si intreccia alle tappe fondamentali della psichiatria italiana, attraverso i grandi protagonisti che ne hanno scandito l’epopea. Su tutti naturalmente trionfa la personalità di Franco Basaglia, e la sua straordinaria vicenda intima e professionale, quella di un uomo che ha lottato perché dei diritti oggi considerati acquisiti venissero riconosciuti a chi, all’epoca, non era equiparato neppure a un essere umano. Ed è così che ci si trova folgorati nell’ascolto tra orrori e mostruosità inaudite come quando si scopre che, per accedere al manicomio, veniva somministrato quasi di default l’elettroshock -, travolti dalle storie di reclusione e quelle di tortura, spaesati da Gorizia a Reggio Calabria. In qualche modo prigionieri di un ergastolo bianco, come quello cui spesso erano condannati i pazienti psichiatrici soltanto fino a pochi decenni fa. (F. P.)


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TITOLI DI CODA

L’umano agire tra emozione e ragione di Pietro Pietrini

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Professore Ordinario, Direttore Scuola IMT Alti Studi Lucca

i perde nella notte dei tempi la discus-

sione su quanto l’agire umano sia guidato dalla ragione o invece da emozioni e istinto. “Conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore” scriveva nel diciassettesimo secolo il filosofo francese Blaise Pascal, superando il dualismo che tracciava una separazione netta tra emozioni e ragione. Addirittura, secondo Pascal, è proprio il cuore ad avere il primato sulla ragione, in quanto “senza l’apporto intuitivo del sentimento la ragione non può neppure cominciare la sua “attività discorsiva”. Dobbiamo riconoscere che le scoperte ottenute dalla psicologia sperimentale e dalle neuroscienze cognitive a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso sembrano confermare quanto intuito dal filosofo francese. Le nostre decisioni non sono certo frutto di pura disamina razionale, neppure in ambiti come l’economia, dove il concetto di Homo Economicus - un individuo che compie scelte puramente razionali volte alla massimizzazione del guadagno - è stato un dogma per decenni. Con le ricerche che lo porteranno nel 2002 a diventare il secondo psicologo a vincere il Premio Nobel in Economia, Daniel Kahneman dimostra che in realtà le nostre scelte non sono esclusivamente razionali e lo sono ancor meno in condizioni di incertezza. Perché mai, infatti,

dovremmo rifiutare un’offerta non equa, come accade nel ben noto Ultimatum Game, nel quale il rifiuto da parte del secondo giocatore porta alla perdita di soldi per entrambi i giocatori, considerato che qualsiasi somma di denaro è migliore che nessuna? Quello che potrebbe sembrare un mero divertissement ha in realtà vaste applicazioni allo studio del funzionamento della società. Si è visto, ad esempio, che di fronte ad una proposta di suddivisione iniqua (dividiamo 10 euro uno a te e nove a me) nel cervello del ricevente si attivano i circuiti neurali che sono deputati alla valutazione morale, alla distinzione tra il bene e il male. Il rifiuto, dunque, scaturisce dalla percezione della violazione di una norma morale che, come tale, non può essere tollerata. Tendiamo per natura a sacrificare il nostro piccolo bene concreto per un bene astratto universale. Perché mai? Spiegano gli evoluzionisti che lo sviluppo di un senso morale ha permesso la nascita di una società complessa, che da esso dipende. Le sanzioni internazionali messe in atto nei confronti della Russia in queste settimane, pur a rischio di conseguenze per ciascun Paese, ben riflettono questo principio. Nel suo pensée probabilmente più noto - seppure per le ragioni sbagliate - Pascal afferma che “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. La sfida delle neuroscienze è comprenderle.



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