

ca|re
costi dell’assistenza e risorse economiche
5|2025
INCONTRI
HIV e infezioni sessualmente
trasmesse: serve una strategia di prevenzione che duri nel tempo
A colloquio con Roberta Siliquini
Università di Torino e Città della Salute e della Scienza, Torino
Nel nuovo Piano nazionale per la prevenzione da Hiv, dalle epatiti virali e dalle infezioni sessualmente trasmesse 20242028 si propone di rafforzare la ‘prevenzione combinata’, che prevede la promozione dell’uso dei preservativi, l’implementazione della PrEP, l’incremento dell’educazione sessuale nelle scuole e la promozione dei test anche in contesti non sanitari. Dal suo
punto di vista, a che punto siamo in Italia su questo tema e quali ostacoli strutturali e culturali ancora impediscono alla strategia di prevenzione combinata di essere applicata efficacemente su scala nazionale?
Le infezioni sessualmente trasmissibili rappresentano oggi un problema di sanità pubblica di primaria importanza e, purtroppo, i dati degli ultimi anni mostrano una crescita preoccupante. L’Hiv in particolare merita grande attenzione: è una patologia che oggi sappiamo affrontare efficacemente dal punto di vista scientifico e tecnologico, ma il vero nodo critico sta nella capacità di comunicare, informare e formare adeguatamente la popolazione su come prevenirla.
In Italia siamo ancora indietro su questo fronte. Manca una diffusa consapevolezza sia dell’importanza della prevenzione, sia degli strumenti concreti a nostra disposizione: dall’uso del preservativo alle soluzioni più innovative come la PrEP (la terapia preventiva) e la PEP (la
CARE offre dal 1999 a medici, amministratori e operatori sanitari un’opportunità in più di riflessione sulle prospettive dell’assistenza al cittadino, nel tentativo di coniugare – entro severi limiti economici ed etici – autonomia decisionale di chi opera in sanità, responsabilità collettiva e dignità della persona.
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DALLA LETTERATURA
Approfondimenti su: Global burden of diseases 2023, obesità, demenza, diagnosi o sovradiagnosi in oncologia, prevenzione dell’infarto miocardico
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DOSSIER
Prevenzione Hiv: un approfondimento con le voci di Paola Crosasso, Daniele Mengato, Giancarlo Orofino e Roberta Siliquini
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CONFRONTI
Educazione sessuale e affettiva a scuola: le ragioni di una scelta di salute pubblica secondo Camillla Alderighi
01 Incontri PREVENZIONE HIV E INFEZIONI SESSUALMENTE TRASMESSE
A colloquio con Roberta Siliquini
14 Dalla letteratura internazionale
10 Dossier
PREVENZIONE HIV: INTEGRAZIONE TRA TRATTAMENTO E PROFILASSI NEL CONTESTO ITALIANO
13 Confronti
EDUCAZIONE SESSUALE E AFFETTIVA A SCUOLA: UNA SCELTA DI SALUTE PUBBLICA
A colloquio con Camilla Alderighi SCIENZA SOTTO ASSEDIO: FIDUCIA PUBBLICA, SANITÀ E L’OMBRA DELLO SHUTDOWN
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CARE Costi dell’assistenza e risorse economiche
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Roberta Siliquini è professoressa ordinaria di Igiene generale e applicata presso il Dipartimento di Scienze della sanità pubblica e pediatriche dell’Università di Torino, dove lavora dal 1995, e dirigente medico presso la Direzione sanitaria dell’Aou Città della Salute e della Scienza di Torino dal 2016. Fa parte del Consiglio universitario nazionale ed è vicepresidente della Società Italiana di Igiene, dopo averne guidato la presidenza nel biennio 2023-2024. Dal 2014 al 2018 ha presieduto il Consiglio superiore di sanità, fornendo supporto tecnico-scientifico alle strategie di tutela della salute pubblica a livello nazionale.
La sua produzione scientifica riguarda principalmente gli ambiti dell’epidemiologia, della prevenzione e dell’organizzazione dei servizi sanitari, nei quali ha coordinato progetti nazionali e internazionali. Siede in numerosi comitati scientifici nazionali, tra cui il Comitato Nazionale per la Biosicurezza e la Rete Oncologica Piemonte-Valle d’Aosta, ed è coinvolta in gruppi di lavoro ministeriali su formazione, governance e accesso ai corsi universitari di area sanitaria.
profilassi post-esposizione, utilizzabile immediatamente dopo un contatto a rischio).
Queste informazioni devono entrare nei programmi educativi fin dai primi anni di scuola. L’educazione affettiva è fondamentale per promuovere la consapevolezza, il rispetto e la responsabilità nelle relazioni, contribuendo anche alla prevenzione di comportamenti a rischio e alla tutela della salute fisica ed emotiva dei giovani.
Inoltre, dobbiamo portare la prevenzione direttamente dove vivono e si incontrano le persone, soprattutto i giovani. Questo significa promuovere test gratuiti e anonimi in contesti non sanitari: davanti alle università, vicino alle scuole, nei luoghi di aggregazione giovanile, persino nei luoghi di lavoro. Solo rendendo accessibili questi servizi sul territorio possiamo davvero intercettare le persone a rischio e rendere efficace la strategia di prevenzione combinata prevista dal Piano nazionale.
Si parla sempre più spesso di ‘popolazioni chiave’ (MSM, persone che usano droghe per via iniettiva, migranti, sex worker, persone trans, detenuti) come target prioritario per la prevenzione dell’Hiv. In termini pratici di politica sanitaria, come si può garantire che queste popolazioni non rimangano ai margini — sia per stigma, sia per barriere all’accesso — e che le risorse (anche a livello europeo) siano allocate in modo da colmare le disuguaglianze nell’accesso alla prevenzione e al test?
È vero che le infezioni sessualmente trasmissibili e l’Hiv possono colpire chiunque, ma è altrettanto evidente che alcune popolazioni – per comportamenti sessuali o per uso di sostanze – sono esposte a un rischio maggiore. Una sanità pubblica efficace deve riconoscere questa realtà e prendere in carico prioritariamente queste categorie. Purtroppo, pur essendo il nostro un sistema universalistico, non riusciamo ancora a garantire una vera equità nell’accesso ai servizi e nei trattamenti.
Il primo grande ostacolo è lo stigma. Dobbiamo far capire a queste persone che esiste un sistema sanitario pronto ad accoglierle senza giudizio, che può prendersi cura di loro in modo riservato e rispettoso. Faccio un esempio concreto: la vaccinazione contro il papillomavirus è offerta anche a ragazzi che non rientrano nelle fasce d’età standard, purché siano a maggior rischio. Ma sul certificato medico non deve essere specificato il motivo e il medico non deve scriverlo. Questo è eliminare lo stigma nella pratica quotidiana.
Il secondo passo è la prossimità territoriale. Non possiamo aspettare che queste popolazioni arrivino spontaneamente nei nostri ambulatori. Dobbiamo andare noi dove loro si trovano: con unità mobili, camper attrezzati, presidi nei luoghi di aggregazione. Ma la presenza deve essere anche digitale: dobbiamo comunicare sui social, raggiungere le persone attraverso i canali che effettivamente utilizzano, far conoscere cosa il servizio sanitario può e deve offrire. L’obiettivo è duplice: proteggere la salute del singolo, ma anche prevenire la trasmissione ad altri. È una responsabilità collettiva che richiede strumenti concreti, non solo buone intenzioni. E richiede risorse dedicate – anche a livello europeo – per colmare davvero il gap nell’accesso alla prevenzione e al test tra popolazione generale e popolazioni chiave.
I fondi europei e nazionali spesso finanziano progetti di prevenzione che però rischiano di restare iniziative temporanee. Come possiamo trasformare queste risorse in investimenti strutturali e duraturi, evitando un approccio a ‘macchia di leopardo’?
Non manca la consapevolezza scientifica: tutti riconosciamo che le infezioni sessualmente trasmissibili sono un problema serio di sanità pubblica. Il punto è un altro: la prevenzione è spesso la Cenerentola del sistema sanitario, soprattutto quando le risorse scarseggiano e si privilegiano gli
“È quindi importante che il nuovo Piano nazionale per la prevenzione Hiv, epatiti virali e infezioni sessualmente trasmesse 2024-2028 definisca con chiarezza le risorse specifiche destinate alla lotta contro l’Hiv, vincolandole a questo obiettivo.”
interventi curativi su quelli preventivi. Oggi gli interventi dipendono dalla volontà e dalle risorse delle singole Regioni, delle Asl, talvolta di realtà ancora più piccole come scuole o fondazioni specializzate. Questo approccio a macchia di leopardo genera inevitabilmente disuguaglianze territoriali profonde: chi vive in una Regione attenta e strutturata ha accesso a servizi di prevenzione efficaci, chi vive in un territorio che per svariate ragioni – tra le quali la stessa carenza di risorse – non può svolgere queste attività di prevenzione, rischia di rimanere scoperto. È quindi importante che il nuovo Piano nazionale per la prevenzione Hiv, epatiti virali e infezioni sessualmente trasmesse 2024-2028 – attualmente in fase di approvazione presso la Conferenza Stato-Regioni – definisca con chiarezza le risorse specifiche destinate alla lotta contro l’Hiv, vincolandole a questo obiettivo. Questo è un aspetto importantissimo. Così come è importante monitorare e controllare che le Regioni spendano veramente queste risorse con questo scopo.
Certamente anche questo piano, come tutti i piani di prevenzione, funziona se ha un respiro lungo e la certezza di risorse dedicate e assicurate nel lungo termine, cosa che mi auguro.
Anche l’Europa si sta attivando affinché tutti gli stati membri riescano ad assicurare programmi omoge-

nei in grado di offrire a ogni cittadino europeo lo stesso livello di protezione rispetto a una patologia grave, ma assolutamente prevenibile.
Il ministro Schillaci ha più volte sottolineato che parte dei fondi che la nuova manovra finanziaria ha previsto di destinare alla sanità saranno utilizzati per rafforzare le politiche di prevenzione. Se fosse lei a decidere, come li spenderebbe e su cosa dovrebbe puntare il nuovo Piano nazionale per la prevenzione 2026-2030?
Se fossi io a decidere, investirei i fondi sulla prevenzione strutturale e misurabile, puntando su equità, prossimità e dati. Il nuovo Piano nazionale di prevenzione 2026-2030 dovrebbe rafforzare le vaccinazioni lungo tutto l’arco della vita, la prevenzione cardiovascolare e oncologica, la salute mentale e sessuale dei giovani. Fondamentali anche la lotta all’Hiv e all’antimicrobico-resistenza e la tutela delle fasce fragili. Serve una rete territoriale integrata con case di comunità, sistemi digitali interoperabili e indicatori di risultato pubblici. La prevenzione deve tornare a essere il cuore del Servizio sanitario nazionale.
Intervista a cura di Mara Losi
Kenneth J. Rothman, Krista F. Huybrechts, Eleanor J. Murray Epidemiologia
Un’introduzione
Terza Edizione
Edizione italiana a cura di Stefania Boccia, Angelo Maria Pezzullo, Marco Vinceti
Considerato ormai un classico e giunto alla sua terza edizione inglese (significativamente aggiornata e ampliata rispetto alle precedenti), questo manuale offre una panoramica chiara e completa dei concetti fondamentali dell’epidemiologia e della ricerca epidemiologica. Grazie a un impianto concettuale unitario e solido, il volume offre agli studenti e ai lettori una base indispensabile per comprendere i principi e i metodi dell’epidemiologia contemporanea. Negli ultimi cinquant’anni, infatti, l’epidemiologia si è affermata come una disciplina scientifica dinamica, capace di coniugare scienze sociali e biologiche e di spaziare dalla statistica alla filosofia della scienza, con l’obiettivo di comprendere e monitorare l’andamento delle malattie e dei loro determinanti. Il Pensiero Scientifico Editore www.pensiero.it
La nuova mappa della salute globale
GBD 2023 Causes of Death Collaborators
Global burden of 292 causes of death in 204 countries and territories and 660 subnational locations, 1990–2023: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2023
Lancet 2025; 406: 1811-72
Il Global Burden of Disease Study 2023, pubblicato sul Lancet questo ottobre e presentato al World Health Summit di Berlino, offre il quadro più aggiornato e completo sullo stato di salute mondiale. Il lavoro, coordinato dall’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME) dell’Università di Washington con oltre 16.500 ricercatori coinvolti, analizza 375 malattie, 88 fattori di rischio e i dati di 204 paesi dal 1990 al 2023. Il risultato è una fotografia dettagliata delle trasformazioni sanitarie degli ultimi decenni, accelerata e in parte distorta dall’impatto della pandemia.
ASPETTATIVA DI VITA IN CRESCITA, MA CON PROFONDE DISUGUAGLIANZE
Dal 1950 la speranza di vita globale è aumentata di oltre vent’anni, attestandosi nel 2023 a 76,3 anni per le donne e 71,5 per gli uomini, tornando ai livelli pre-covid. L’età media al decesso è salita nel mondo da 46,8 a 63,4 anni tra il 1990 e il 2023. I progressi più rilevanti riguardano la mortalità infantile, drasticamente ridotta grazie alle campagne vaccinali, al miglioramento nutrizionale e a sistemi sanitari più forti, con l’Asia orientale in testa.
Tuttavia persistono forti disparità: l’aspettativa di vita supera gli 83 anni nei paesi ad alto reddito, mentre scende a circa 62 nell’Africa subsahariana, dove la mortalità delle giovani donne è risultata superiore alle stime precedenti a causa di complicanze legate alla maternità, incidenti e violenze.
Nel 2021 il covid-19 è diventato la prima causa di morte standardizzata per età, facendo precipitare la speranza di vita globale. Ma l’effetto, pur devastante, è stato transitorio: nel 2023 il virus è sceso alla ventesima causa di morte, mentre cardiopatia ischemica e ictus sono tornati ai primi posti.

LA TRANSIZIONE EPIDEMIOLOGICA: MENO INFEZIONI, PIÙ CRONICITÀ
Il GBD 2023 conferma una transizione globale dalle malattie infettive alle patologie croniche. La tubercolosi è diminuita del 42% dal 2010, così come le malattie diarroiche, il morbillo e vari tumori legati a infezioni. Parallelamente, crescono il peso di diabete, malattie cardiovascolari e disturbi mentali. Ansia e depressione sono tra le condizioni a più rapido incremento, soprattutto tra donne e giovani: i casi globali hanno registrato un’impennata durante e dopo la pandemia.
GIOVANI
ADULTI PIÙ VULNERABILI: DROGHE, SUICIDI E VIOLENZA
Una delle tendenze più allarmanti riguarda l’aumento dei decessi tra i 15 e i 39 anni in alcune regioni del mondo. In Nord America, suicidi, overdose e consumo di alcol hanno spinto verso l’alto la mortalità giovanile. In Europa orientale, tra il 2011 e il 2023 i decessi tra i 15-19enni sono aumentati del 54%, trainati da Hiv, autolesionismo e violenza. Anche i conflitti hanno contribuito ad aumentare i tassi di mortalità legata a terrorismo e violenze tra i giovani, accetuando anche le differenze di genere. A proposito della Palestina, gli autori scrivono: “La Palestina ha registrato il tasso di mortalità più alto al mondo e probabilità di morire prima dei 70 anni per conflitti e terrorismo. Questi risultati sono in linea con il numero di vittime recentemente riportato nella Striscia di Gaza e con una perdita stimata di 30 anni di aspettativa di vita nei primi 12 mesi di guerra, una stima conservativa che quasi dimezza l’aspettativa di vita prebellica”. Dopo la Palestina, il peso di terrorismo e conflitti è maggiore in Ucraina e Sud Sudan.
IL RUOLO DEI FATTORI DI RISCHIO MODIFICABILI
Quasi metà del carico globale di malattia deriva da fattori evitabili: ipertensione, inquinamento da particolato, fumo, iperglicemia, obesità e colesterolo elevato sono tra i principali. Mentre calano i rischi legati all’ambiente e ai comportamenti storici (inquinamento dell’aria interna da combustibili solidi per cucinare/riscaldare, acqua non potabile e scarsa igiene, fumo di tabacco in diminuzione in molti paesi, malnutrizione infantile), aumentano quelli metabolici: obesità e diabete rappresentano le sfide più complesse per i sistemi sanitari del futuro.
LE IMPLICAZIONI PER LE POLITICHE
SANITARIE
Il GBD 2023 invita a un ripensamento delle priorità globali: se la lotta alle malattie infettive resta un successo storico, ora la maggiore urgenza riguarda la prevenzione delle cronicità, la salute mentale e la protezione degli adolescenti e giovani adulti. Il report sottolinea l’importanza di sistemi sanitari resilienti e di politiche multisettoriali, capaci di agire sui determinanti sociali della salute. In un pianeta che invecchia ma rimane profondamente diseguale, la mappa del GBD 2023 rappresenta uno strumento essenziale per orientare decisioni e investimenti, guidando i paesi verso un futuro più sano e più equo. n
Mara Losi
Obesità: verso una medicina personalizzata anche in Italia
McGowan B, Ciudin A, Baker JL et al
Framework for the pharmacological treatment of obesity and its complications from the European Association for the Study of Obesity (EASO)
Nature Medicine 2025; 31: 3229-3232
L’obesità non è più concepita solo come eccesso ponderale, ma come una malattia cronica, recidivante e multifattoriale, con profonde ripercussioni sistemiche. Questa patologia rappresenta una significativa emergenza sanitaria anche nel contesto italiano. I dati raccolti dal sistema di sorveglianza PASSI per il biennio 2023-2024 stimano infatti che il 43% della popolazione italiana è in eccesso ponderale: il 33% in sovrappeso e il 10% obesa1. Complessivamente, quasi la metà della popolazione adulta presenta problemi di peso. L’impatto economico di questa crisi è notevole, con l’eccesso di peso responsabile di circa il 4% della spesa sanitaria nazionale complessiva2. In risposta a questa urgenza, l’Italia ha compiuto un passo importante in ottobre con l’approvazione della legge Pella (Ddl S. 1074). Questa normativa ha reso l’Italia il primo paese al mondo a dotarsi di una legge specifica che riconosce formalmente l’obesità come una patologia progressiva e cronica. Questo riconoscimento legale è fondamentale per combattere lo stigma e la discriminazione che storicamente hanno accompagnato questa patologia. Sebbene questa legge preveda misure di prevenzione, inclusi uno stanziamento permanente, l’urgenza maggiore risiede nell’attuazione dei percorsi di cura, che devono allinearsi con le più recenti e ambiziose linee guida cliniche europee.
L’ALGORITMO EASO: CRITERI CLINICI PER TERAPIE
SU MISURA
Un aiuto in questo senso viene dall’European Association for the Study of Obesity (EASO), che ha recentemente proposto un nuovo framework per il trattamento farmacologico dell’obesità e delle sue complicanze. Pubblicato su Nature Medicine, il documento mira a superare un approccio centrato esclusivamente sulla perdita di peso, favorendo una medicina personalizzata e integrata. La vera innovazione è rappresentata da un algoritmo clinico decisionale, costruito su una metanalisi rigorosa di studi randomizzati controllati. Questo strumento distingue tra pazienti con o senza complicanze associate e propone farmaci in base all’efficacia su perdita di peso, sicurezza e impatto sulle specifiche comorbilità. Farmaci come tirzepatide e semaglutide emergono come opzioni prioritarie, con riduzioni di peso superiori al 10% rispetto al placebo. Tuttavia, l’algoritmo invita alla cautela: l’evidenza è ancora limitata per alcune categorie di pazienti, in particolare quelli con BMI <27 o >40 kg/m².
COMPLICANZE: OLTRE IL PESO
Il framework distingue tra due grandi insiemi di complicanze: le fat mass diseases, come l’apnea ostruttiva del sonno e l’artrosi del ginocchio, legate al carico meccanico del tessuto adiposo, e le sick fat diseases, come diabete di tipo 2, insufficienza cardiaca e steatoepatite

metabolica, dovute alla disfunzione metabolica e infiammatoria del tessuto adiposo. In presenza di tali condizioni, la scelta farmacologica deve privilegiare l’efficacia sulla specifica complicanza più che sulla sola riduzione del peso. Ad esempio, tirzepatide si è dimostrato efficace nella remissione dell’apnea ostruttiva e della steatoepatite metabolica, mentre semaglutide ha mostrato benefici cardiovascolari significativi nei pazienti con eventi pregressi..
CONSIDERAZIONI ECONOMICHE E PROSPETTIVE FUTURE
L’efficacia dei nuovi farmaci si scontra con barriere economiche non trascurabili. Nonostante analisi costo-efficacia suggeriscano risparmi sanitari a lungo termine, i costi elevati di questi farmaci ne limitano l’accesso non solo in Italia. Il documento sottolinea l’urgenza di politiche che bilancino il costo del trattamento con quello, ben più alto, della mancata cura delle complicanze. In prospettiva sarà fondamentale aggiornare regolarmente l’algoritmo EASO alla luce delle nuove evidenze, per supportare scelte terapeutiche sempre più precise, inclusive e sostenibili.
Per quanto riguarda il nostro paese, come abbiamo già detto la legge Pella riconosce formalmente l’obesità come malattia cronica non trasmissibile. Si tratta di un primo passo importante al quale deve seguire l’inserimento dell’obesità nei livelli essenziali di assistenza (Lea) per garantire l’accesso rimborsato ai farmaci anti-obesità, ai percorsi terapeutici multidisciplinari e a una presa in carico strutturata e continuativa della persona obesa. È prevista inoltre la creazione di registri clinici nazionali per il monitoraggio degli esiti terapeutici, insieme a campagne istituzionali per contrastare stigma e disinformazione. L’approvazione della legge segna un cambio di paradigma nella gestione dell’obesità. Resta ora la sfida attuativa: implementare pienamente i contenuti della legge nei contesti regionali e clinici, affinché la cura dell’obesità diventi realmente accessibile, equa e integrata. n
Mara Losi
BIBLIOGRAFIA
1. https://www.epicentro.iss.it/passi/dati/sovrappeso#dati
2. Obesità in Italia. Percezioni, costi e sfide per il futuro. https://www.i-com.it/wpcontent/uploads/2024/05/Policy-paper-Lilly_Obesita-in-Italia.pdf
La risposta italiana alla demenza: un modello di sanità pubblica tra progressi e sfide
Ancidoni A, Salemme S, Marconi D et al Advancing dementia care: a review of Italy’s public health response within the WHO Global Action Plan and European strategies
BMJ Public Health 2025; 3: e002250
L’Italia si confronta con una delle sfide sanitarie più complesse del XXI secolo: l’invecchiamento demografico e il conseguente incremento dei casi di demenza.
Con il 24% della popolazione over 65, il paese si colloca al terzo posto nel mondo per invecchiamento, stimando circa 2 milioni di persone con demenza o deterioramento cognitivo lieve. La pubblicazione su BMJ Public Health dell’analisi delle attività del Fondo italiano per la malattia di Alzheimer e le demenze (Fimad) per il triennio 2021-2023 offre una valutazione sistematica degli interventi implementati secondo il framework del Global action plan dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
L’articolo di Ancidoni e colleghi rappresenta la prima sintesi integrata delle attività Fimad, fornendo un’analisi critica dell’approccio italiano alla demenza attraverso le sette aree d’azione definite dall’Oms. Lo studio documenta come l’investimento di 15 milioni di euro abbia prodotto risultati concreti nella mappatura dei servizi, nello sviluppo di linee guida nazionali e nella formazione degli operatori sanitari.
DISUGUAGLIANZE E NUOVE LINEE GUIDA
I dati emersi dallo studio evidenziano un panorama caratterizzato da luci e ombre. Il risultato più significativo riguarda la stima dei fattori di rischio modificabili: il 39,5% dei casi di demenza in Italia risulta attribuibile a condizioni prevenibili, con variazioni regionali sostanziali che oscillano dal 30,5% nel Nord al 47,4% nel Sud. Questa variabilità geografica si riflette anche nell’analisi dei servizi di cura, dove emergono disparità evidenti nell’offerta assistenziale. L’indagine sui Centri per i disturbi cognitivi e le demenze (Cdcd) ha raggiunto un tasso di risposta del 96% su 534 strutture, rivelando che la demenza rappresenta il 59% delle diagnosi, seguita dal deterioramento cognitivo lieve (21%). Tuttavia, meno di un terzo dei centri opera cinque giorni alla settimana e meno della metà offre servizi di telemedicina, evidenziando gap organizzativi significativi.
La mappatura delle strutture residenziali e semiresidenziali ha coinvolto rispettivamente 3.607 case di riposo (46,8% di tasso di risposta) e 1.084 centri diurni (45,6% di tasso di risposta). Solo l’1,1% delle strutture residenziali risulta esclusivamente dedicato alle persone con demenza, e solo il 25% dispone di nuclei Alzheimer specializzati. Questi dati suggeriscono la necessità di potenziare l’offerta specialistica, soprattutto considerando che il 94,7% delle strutture opera attraverso convenzioni con il Servizio sanitario nazionale.
Lo studio ha inoltre documentato il percorso di sviluppo delle linee guida nazionali per la diagnosi e il trattamento della demenza e del deterioramento cognitivo lieve, utilizzando la metodologia GRADEADOLOPMENT. Il documento finale comprende 167 raccomandazioni
cliniche e 39 raccomandazioni per la ricerca, fornendo uno strumento standardizzato per l’uniformità delle cure a livello nazionale.
DALLA PREVENZIONE AI PUNTI CRITICI
Le implicazioni dei risultati Fimad si estendono su molteplici livelli del sistema sanitario. Sul versante epidemiologico, la stima del 39,5% di casi prevenibili conferma l’importanza delle strategie di prevenzione primaria, suggerendo che una riduzione del 20% nei fattori di rischio modificabili potrebbe prevenire fino a 67.000 casi di demenza a livello nazionale. Tuttavia, l’analisi dei Piani regionali di prevenzione rivela approcci disomogenei: mentre l’inattività fisica è affrontata da 20 delle 21 regioni, altre condizioni come la perdita dell’udito, il basso livello di istruzione e la depressione non sono incluse in nessun piano. Le disparità regionali nell’offerta dei servizi rappresentano una criticità sistemica che compromette l’equità nell’accesso alle cure. La distribuzione geografica delle comunità attente alle persone con demenza (77,2% nel Nord, 14% nel Sud e Isole, 8,8% nel Centro) riflette questa disomogeneità, evidenziando la necessità di interventi mirati per le aree meno servite.
L’indagine sui caregiver ha documentato tempi mediani di 12 mesi tra l’insorgenza dei sintomi e la diagnosi, con costi diretti che variano da 1.200 a 1.800 euro mensili. Il 43% dei caregiver esprime una valutazione negativa dei servizi per la demenza, mentre il 54,7% non ha contatti con associazioni locali di familiari, suggerendo gap significativi nel supporto alle famiglie.
Sul piano organizzativo, l’analisi dei 39 Percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (Pdta) ha rivelato che il 60% delle Regioni e Province autonome ha sviluppato un percorso integrato, ma solo il 27% delle Aziende sanitarie locali dispone di documenti specifici. La carenza di indicatori di monitoraggio e audit limita la capacità di valutazione dell’efficacia degli interventi.
LE PROSPETTIVE FUTURE
L’esperienza Fimad 2021-2023 dimostra come un approccio nazionale coordinato possa produrre risultati misurabili nella gestione della demenza, nonostante le limitazioni di budget rispetto ad altri paesi del G7. Il prolungamento del fondo fino al 2026 con un budget di 35 milioni di euro rappresenta un’opportunità per consolidare i progressi e affrontare i punti critici emersi.
Le priorità identificate per il prossimo triennio includono la disseminazione delle linee guida nazionali, l’aggiornamento del Piano nazionale demenze, lo sviluppo di una strategia formativa integrata e la definizione di indicatori nazionali per i servizi. L’approccio life-course proposto dal framework Oms richiede inoltre l’integrazione delle strategie per la demenza con quelle per le malattie croniche non trasmissibili, massimizzando l’efficacia degli interventi preventivi.
Questo studio rappresenta un punto di riferimento scientifico non solo per i decisori politici in Italia, ma anche per altri paesi che affrontano sfide demografiche simili, sottolineando come la lotta alla demenza richieda un impegno costante per superare le disparità geografiche e garantire un accesso uniforme alle cure su tutto il territorio nazionale. La sfida futura consisterà nel trasformare i risultati della ricerca in politiche sanitarie efficaci, che pongano l’equità al centro di ogni azione. n
Federica Ciavoni
Epidemia di cancro o epidemia
diagnostica?
Berrington de Gonzalez A, Brayley M, Frost R et al
Trends in cancer incidence in younger and older adults: an international comparative analysis
Ann Intern Med 2025 Oct 21. doi: 10.7326/
ANNALS-24-02718
Patel VR, Adamson AS, Welch HG
The rise in early-onset cancer in the US population: more apparent than real
JAMA Intern Med 2025; 185 (11): 1370-1374
Richman IB, Gross CP
Overdiagnosis of cancer: not only associated with aging.
JAMA Intern Med 2025; 185 (11): 1375
Negli ultimi anni, i tumori in età giovane-adulta sono diventati un tema che ha richiamato molta attenzione pubblica e mediatica. Diagnosi che riguardano personaggi noti, campagne social e un crescente senso di vulnerabilità hanno alimentato la percezione di una ‘nuova epidemia’ oncologica sotto i 50 anni. Parallelamente, istituzioni e società scientifiche stanno anticipando l’età di avvio degli screening e investendo risorse per identificare possibili cause biologiche e ambientali.
Un recente studio internazionale, coordinato da Berrington de González dell’Institute of Cancer Research di Londra e pubblicato sugli Annals of Internal Medicine mette però in discussione questa ipotesi. Lo stesso fanno una clinical review e un editoriale di commento pubbli-
cati sul Jama Internal Medicine, che hanno invece analizzato i trend di mortalità per cancro basati sulla popolazione con l’incidenza a esordio precoce in più rapido aumento durante gli ultimi 30 anni negli Stati Uniti.
LO STUDIO INTERNAZIONALE
L’obiettivo della ricerca è stato quello di analizzare i trend di incidenza di 13 tipi di tumore considerati in aumento nella popolazione giovane in 42 paesi dal 2003 al 2017 utilizzando i dati del database GLOBOCAN dell’International Agency for Research on Cancer. Lo studio ha confrontato la classe dei giovani adulti (20-49 anni) con quella degli adulti over 50. I risultati mostrano aumenti in 6 dei 13 tipi di tumore presi in esame – tiroide, mammella, colon-retto, rene, endometrio e leucemia – ma questi aumenti non sono esclusivi dei giovani. In realtà, gli autori dello studio osservano tendenze simili anche negli adulti più anziani, con la sola eccezione del carcinoma colorettale, che mostra un aumento percentuale medio più marcato nei giovani nel 69% dei paesi presi in esame. Per il cancro al fegato, orale, esofageo e dello stomaco, i tassi sono invece diminuiti nei giovani adulti in più della metà dei paesi presi in esame.
Sulla base di questi risultati, gli autori tengono a ribadire l’importanza di non focalizzare l’attenzione solo sull’aumento dei tumori nei giovani, perché c’è il rischio che in questo modo le risorse per la ricerca e gli interventi vengano allocate in modo errato. Le statistiche continuano a mostrare che il cancro è una malattia che colpisce prevalentemente gli anziani. E sottolineano che una possibile spiegazione dell’aumento dei tumori del colon-retto nei giovani possa risiedere nel successo degli screening intestinali di routine offerti agli adulti più anziani. Lo screening non solo aiuta a individuare il cancro in stadi più precoci, ma previene anche il tumore attraverso la rimozione di lesioni pre-ma-
Diagnosi Decessi
N. diagnosi di cancro in eccesso e decessi

ligne. Questo potrebbe spiegare perché i casi sembrano aumentare più velocemente nei giovani: sta migliorando la prevenzione negli adulti più anziani. È quindi importante includere tutte le età, non solo i giovani adulti, nello sviluppo di nuove linee guida e strategie di ricerca per affrontare l’aumento dell’incidenza del cancro.
LO STUDIO STATUNITENSE
Anche l’analisi di Vishal Patel e dei sui collaboratori del Brigham and Women’s Hospital di Boston invita a una lettura più cauta e articolata dei dati in questione.
Dal 1992, gli otto tumori a più rapida crescita di incidenza tra gli under 50 (tiroide, ano, rene, intestino tenue, colon-retto, endometrio, pancreas e mieloma) negli Stati Uniti hanno visto raddoppiare le diagnosi, mentre la mortalità complessiva è rimasta stabile. Solo colon-retto ed endometrio mostrano un lieve aumento dei decessi: negli altri casi, l’aumento dei casi intercettati non si traduce in un aumento dei decessi. È un pattern che rimanda a un fenomeno noto: l’“epidemia di diagnosi”. In altre parole, la tecnologia diagnostica più sensibile, l’uso diffuso dell’imaging e l’abbassamento delle soglie di intervento portano alla scoperta di tumori che, in molti casi, sarebbero rimasti silenti e innocui per tutta la vita. Il carcinoma tiroideo è l’esempio più citato: casistica in crescita, mortalità immutata. Questo non significa negare che esistano sedi – come colon-retto ed endometrio – dove una parte dell’aumento riflette fattori di rischio reali, dall’obesità ai cambiamenti ormonali. Ma la fotografia complessiva suggerisce che, per molti tumori, oggi scopriamo più casi perché cerchiamo di più, non perché ne stiano comparendo di più.
L’editoriale che accompagna lo studio, firmato da Ilana Richman e Cary Gross, aggiunge un tassello concettuale importante. Storicamente, l’overdiagnosi è stata considerata un fenomeno legato all’età, emerso originariamente dagli studi autoptici che rivelavano tumori mai diventati clinicamente rilevanti negli anziani, come accade per il carcinoma prostatico rilevato in oltre la metà degli uomini molto anziani. Da questa osservazione è derivata una parte della filosofia degli screening: più alta è la probabilità di morire per altre cause prima che un tumore indolente evolva, maggiore è il rischio di diagnosticare qualcosa che
non avrebbe mai creato problemi. La novità dell’analisi pubblicata su JAMA è la sua applicazione ai giovani: la possibilità che, anche in età più precoce, una quota non trascurabile di tumori sia destinata a rimanere occulta e che l’intensificazione diagnostica stia portando alla loro identificazione senza reale beneficio clinico. Questo implica che l’overdiagnosi non è solo un effetto collaterale dell’invecchiamento, ma può riguardare tumori biologicamente indolenti presenti anche in adulti giovani.
Richman e Gross sottolineano inoltre che l’overdiagnosi non è uniforme: varia molto per tipo tumorale, risultando più probabile in neoplasie come tiroide e rene e meno in sedi potenzialmente più aggressive come colon-retto ed endometrio. Questa eterogeneità richiama a una maggiore finezza nelle strategie di prevenzione e screening: l’obiettivo non è trovare più tumori, ma ridurre morbilità e mortalità. Per questo, la mortalità resta l’indicatore più affidabile per orientare decisioni cliniche, priorità di ricerca e politiche sanitarie.
Il caso del carcinoma della mammella contribuisce a rendere il quadro ancora più sfumato: tumore più frequente prima dei 50 anni, incidenza in moderato aumento ma mortalità quasi dimezzata negli ultimi trent’anni grazie ai progressi terapeutici e a una migliore organizzazione delle cure. Anche qui, l’incremento diagnostico riguarda prevalentemente stadi precoci, senza un parallelo aumento delle forme avanzate. La lezione che emerge è duplice. Da un lato, una quota reale di tumori precoci sta aumentando e merita attenzione, soprattutto in aree dove i fattori di rischio sono modificabili. Dall’altro, la narrazione di un’“emergenza oncologica giovanile” rischia di produrre effetti indesiderati: ansia, medicalizzazione, trattamenti non necessari, distorsione delle priorità di salute pubblica in una fascia d’età dove suicidi, incidenti e dipendenza da sostanze rappresentano oggi minacce molto più frequenti della malattia oncologica. In una fase in cui l’innovazione diagnostica accelera, la sfida per clinici e comunicatori è proteggere i giovani sia dal ritardo diagnostico sia dall’eccesso diagnostico, ricordando che la tempestività è utile solo quando incontra appropriatezza. La prudenza, anche nell’entusiasmo della diagnosi precoce, è parte integrante della buona cura. n
Mara Losi
Infarto miocardico senza preavviso: un’emergenza sottotraccia
Nurmohamed NS, Ngo-Metzger Q, Taub PR et al
First myocardial infarction: risk factors, symptoms, and medical therapy
Eur Heart J 2025; 46(38): 3762 3772
Ogni anno oltre 20 milioni di persone nel mondo muoiono per malattie cardiovascolari. La causa di questi decessi è rappresentata per una quota significativa dal primo infarto miocardico acuto (IMA), evento spesso improvviso che può manifestarsi senza segnali premonitori evidenti. Uno studio recente pubblicato sull’European Heart Journal nel 2025 — probabilmente il più ampio del suo genere — ha analizzato oltre 4,6 milioni di casi di primo infarto negli Stati Uniti tra il 2017 e il 2022, evidenziando l’insuccesso dei meccanismi di prevenzione statunitensi messi a punto in questo campo. La ricerca, basata sulla piattaforma Clarivate Real-World Data, che aggrega cartelle cliniche elettroniche, rimborsi medici e prescrizioni farmaceutiche, ha incluso soggetti di età pari o superiore a 18 anni, identificando il primo infarto attraverso i codici ICD-10.
UN INFARTO SU DUE ARRIVA SENZA SINTOMI
I dati che emergono dall’indagine sono preoccupanti: nel 50,5% dei casi, l’infarto si è verificato senza sintomi documentati nei sei mesi precedenti. Inoltre, quasi un paziente su cinque (18%) non aveva alcun fattore di rischio cardiovascolare standard registrato, i cosiddetti SMuRFs (Standard Modifiable Risk Factors) — come ipertensione, dislipidemia, diabete, fumo o obesità. Anche tra coloro che avevano sintomi o fattori di rischio noti, il 63,4% non era in terapia preventiva. L’analisi stratificata per età e genere rivela alcune criticità: gli uomini e i pazienti sotto i 60 anni sono i più sottodiagnosticati e meno seguiti. Questi gruppi mostrano meno sintomi premonitori, minore frequenza di visite mediche e ricevono meno prescrizioni di farmaci preven-
CARENZE NELLA PREVENZIONE
DEL PRIMO INFARTO MIOCARDICO (DATI USA 2017-2022)
tivi rispetto alle donne e agli over 60. Al contrario, le donne tendono a essere più anziane al momento dell’infarto, mostrano una maggiore incidenza di sintomi e usufruiscono con più frequenza di visite con il medico di base.
LA PREVENZIONE BASATA SUI FATTORI DI RISCHIO È INSUFFICIENTE
I tradizionali strumenti di valutazione del rischio cardiovascolare — come il Framingham Risk Score o lo SCORE2 — basano le loro stime su fattori consolidati ma non riescono a discriminare con precisione chi è realmente a rischio imminente. Lo studio suggerisce che questi algoritmi, validi a livello di popolazione, falliscono nel catturare l’individualità del rischio clinico, soprattutto tra gli asintomatici e nei soggetti apparentemente ‘sani’. La ricerca sottolinea l’urgenza di passare da un approccio reattivo, basato sui sintomi, a uno predittivo e personalizzato. L’uso di strumenti innovativi — come l’imaging cardiaco avanzato (angiografia Tc coronarica), i biomarcatori emergenti e i polygenic risk scores (punteggi di rischio poligenico) — potrebbe colmare le lacune degli attuali modelli predittivi.
CONCLUSIONI
Se da un lato la tecnologia offre nuove soluzioni, dall’altro rimangono alcune barriere strutturali da superare: limitata accessibilità ai servizi di prevenzione, scarsa aderenza ai trattamenti, frammentazione delle cure e disparità socioeconomiche. Perché il primo infarto non sia più visto come un evento improvviso e inevitabile, sarà quindi necessario ripensare i modelli organizzativi della medicina territoriale, potenziare la sanità digitale e promuovere percorsi di prevenzione integrata che coinvolgano attivamente i cittadini.
È anche fondamentale che tali approcci basati sullo screening proattivo siano rigorosamente testati in studi clinici randomizzati prospettici per dimostrarne l’efficacia in termini di riduzione degli eventi e la sostenibilità economica in termini di costo-efficacia.n
Mara Losi
Senza sintomi prima dell’infarto
Senza fattori di rischio noti (SMuRFs)
Nessuna visita medica prima dell’evento
Nessuna terapia preventiva prescritta
“L’Hiv si affianca ad altre patologie croniche che accompagnano le persone per tutta la vita, dunque diventa fondamentale sviluppare una formazione sempre più approfondita anche per i farmacisti ospedalieri e i farmacisti clinici”
Prevenzione Hiv: integrazione tra trattamento e profilassi nel contesto italiano
La gestione dell’infezione da Hiv in Italia presenta ancora punti critici nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella continuità delle cure, nonostante i risultati significativi sul piano terapeutico. Il sistema italiano di contrasto all’Hiv si basa sulla legge 135/1990, che ha istituito un sistema di sorveglianza dell’Aids garantendo la gratuità dei test diagnostici e delle terapie antiretrovirali attraverso il Servizio sanitario nazionale.
Se ne è discusso durante una sessione dedicata all’infettivologia al congresso nazionale SIFaCT 2025, tenutosi a Torino dal 9 all’11 ottobre. Gli esperti hanno analizzato lo stato attuale della presa in carico delle persone che vivono con Hiv, sottolineando come l’integrazione tra trattamento, profilassi e vaccinazioni rappresenti oggi una strategia vincente per la gestione delle cronicità.
IL MODELLO ITALIANO: TRA SUCCESSI
E PUNTI CRITICI PERSISTENTI
L’Italia si colloca tra le nazioni più avanzate dell’obiettivo UNAIDS 95-95-95, per raggiungere il quale il 95% delle persone con Hiv deve conoscere il proprio stato sierologico, il 95% di queste deve essere in trattamento antiretrovirale e il 95% di chi è in trattamento deve avere una carica virale non rilevabile. Secondo Giancarlo Orofino, dirigente medico presso l’ospedale Amedeo di Savoia, i dati dell’European Center for Disease Prevention and Control confermano che “l’Italia è molto vicina a questo obiettivo”. Il risultato deriva da un modello organizzativo che presenta distintivi punti di forza. Il ritiro delle terapie avviene in Italia in modo centralizzato nell’ospedale o nella sede territoriale, con costante attenzione all’aderenza e all’interazione farmacologica. Tra gli elementi innovativi figura la scheda di terapia informatizzata, uno “strumento pionieristico” secondo Daniela Piccioni, dirigente farmacista presso la Asl Città di Torino, che da oltre 15 anni consente la comunicazione diretta tra medici e farmacisti. La stessa Asl Città di Torino rappresenta un modello territoriale basato su tre pilastri: il linkage to care (aggancio delle persone al momento della diagnosi), l’engagement in care (coinvolgimento attivo del paziente nel proprio percorso terapeutico) e la retention in care (mantenimento in cura a lungo termine), come ha illustrato Piccioni. Il sistema prevede inoltre che al momento del ritiro dei farmaci il farmacista effettui un controllo com-
pleto della terapia concomitante, verificando eventuali interazioni negative e segnalandole tempestivamente al clinico.
L’approccio multidisciplinare si è rivelato efficace: il tasso di aderenza alla terapia antiretrovirale in Italia supera il 90%, un dato significativamente superiore rispetto ad altre patologie croniche.
Permangono tuttavia nodi critici rilevanti. Orofino ha evidenziato che “il nostro problema principale è che assistiamo ancora al 60% di persone che arrivano con la diagnosi tardiva, cioè già affette da Aids, il che vuol dire che avevano l’Hiv almeno da otto-dieci anni e che nel corso della vita possono aver contagiato altre persone”. Lo stesso esperto ha posto l’accento su un aspetto linguistico tutt’altro che marginale: “C’è uno sforzo a livello nazionale e internazionale di usare terminologie che aiutino ad abbassare lo stigma nei confronti delle persone con Hiv. Lo stigma allontana le persone dalla diagnosi e dalla cura”. Per questo la comunità scientifica ha adottato l’acronimo “PLWH” (People Living With Hiv) al posto di termini che possano avere un’accezione negativa.
IL RUOLO STRATEGICO DEL FARMACISTA OSPEDALIERO
Paola Crosasso, direttrice SC Farmacie ospedaliere dell’Asl Città di Torino, sottolinea la centralità del farmacista ospedaliero e della sua formazione nel modello di presa in carico. “L’Hiv si affianca ad altre patologie croniche che accompagnano le persone per tutta la vita, dunque diventa fondamentale sviluppare una formazione sempre più approfondita anche per i farmacisti ospedalieri e i farmacisti clinici”. Crosasso evidenzia l’importanza dello sviluppo di nuovi modelli organizzativi insieme alla sostenibilità delle strategie terapeutiche delle farmacie ospedaliere. In questo quadro diventa sempre più importante che i farmacisti clinici entrino nell’alleanza interprofessionale anche nell’ambito dell’Hiv, insieme a infettivologi, medici internisti e soprattutto ai medici di medicina generale. Crosasso ha illustrato un progetto pilota dell’Asl Città di Torino per migliorare l’accesso alle terapie croniche come quelle per l’Hiv, soprattutto per le persone con residenza fuori città o fuori regione, costrette a recarsi con una certa frequenza all’ospedale Amedeo di Savoia di Torino. La condivisione con le associazioni di pazienti ha dimostrato la disponibilità
“Le persone con Hiv rappresentano una popolazione fragile che beneficia particolarmente delle vaccinazioni sia per la maggiore suscettibilità alle infezioni sia per il rischio di complicanze”
ad accettare la possibilità di ritirare la terapia presso la Asl di residenza. Il progetto conferma la necessità della formazione dei farmacisti clinici sull’Hiv e sui relativi punti critici come l’interazione con i farmaci, anche per comprendere dal punto di vista gestionale ed economico le differenti strategie terapeutiche disponibili sul mercato.
Daniele Mengato (Farmacia ospedaliera, Azienda Ospedale Università Padova) sostiene che la formazione del farmacista ospedaliero debba modificarsi in due ambiti: quello dei contenuti, per approfondire la conoscenza dei problemi e della situazione assistenziale della persona affetta da Hiv, e quello della comunicazione e dell’empatia necessaria con una tipologia di pazienti diversa dagli altri, a causa dello stigma che può manifestarsi nei loro confronti.
L’EVOLUZIONE TERAPEUTICA E LA QUALITÀ DI VITA
L’evoluzione dei trattamenti farmacologici ha contribuito in modo determinante al miglioramento della qualità di vita delle persone con Hiv. Piccioni ha ricordato che “siamo partiti con schemi terapeutici molto complicati con un numero di compresse giornaliere estremamente elevato” per arrivare a regimi che riducono il burden giornaliero di pillole. L’introduzione delle terapie long-acting rappresenta l’ultima frontiera. Si tratta di formulazioni iniettabili che, come ha spiegato Piccioni, “comportano una certa organizzazione ambulatoriale, poiché la somministrazione viene fatta da un operatore sanitario, e cambia anche il concetto di aderenza, che passa dall’essere gestita dalla persona a un’aderenza al follow-up per la somministrazione”.
Questa semplificazione terapeutica si inserisce in un contesto normativo che, come indicato dalle linee guida regionali, prevede specifici percorsi di continuità assistenziale ospedale-territorio per garantire la prosecuzione delle cure anche in ambito domiciliare o presso strutture residenziali.
PrEP E PEP: GLI STRUMENTI
DELLA PREVENZIONE PRIMARIA
“L’impegno è notevole” fa notare Piccioni “i numeri di persone in PrEP presso i centri infettivologici sono molto elevati: la quasi totalità è composta da uomini, con un’altissima percentuale di somministrazioni on demand”.
Accanto alla terapia delle persone con Hiv, la prevenzione primaria rappresenta un ambito in forte espansione. La profilassi pre-esposizione (PrEP) è stata resa disponibile in Italia dall’Aifa circa due anni fa con criteri di eleggibilità specifici. La relatrice ha sottolineato come questa gestione abbia richiesto “uno sforzo elevato perché è un farmaco che
ha avuto anche grossissime difficoltà gestionali dal punto di vista della disponibilità”.
Mengato considera il miglioramento dell’accessibilità alla PrEP la chiave vincente. “Come avviene in altri paesi europei, bisogna trovare soluzioni per individuare le persone potenzialmente candidabili a questa terapia, in qualsiasi contesto, per riceverla il prima possibile. In questo senso, la figura del farmacista specializzato nella prossimità territoriale diventa fondamentale”.
Anche la profilassi post-esposizione (PEP) continua a rappresentare un importante strumento preventivo. I dati degli ultimi sei anni mostrano che il numero di trattamenti PEP è rimasto sostanzialmente stabile, “fortunatamente decisamente inferiore” rispetto alla PrEP, ma “questi trattamenti non sono diminuiti nonostante sia stata introdotta la PrEP”. Il dato suggerisce che le due strategie preventive rispondono a bisogni diversi e complementari della popolazione.
Il quadro normativo italiano prevede che entrambe le profilassi siano garantite gratuitamente attraverso il Ssn presso i centri clinici autorizzati, con percorsi dedicati di counseling e follow-up.
L’INTEGRAZIONE CON LE STRATEGIE VACCINALI
“Uno degli obiettivi del Piano nazionale prevenzione vaccinale 2023-2025 è promuovere interventi vaccinali nei gruppi di popolazione ad alto rischio per patologia, favorendo un approccio centrato sulle esigenze del cittadino-paziente”, ha affermato Roberta Siliquini (Università di Torino e Città della Salute e della Scienza, Torino) durante la sessione.
Le persone con Hiv rappresentano infatti una popolazione fragile che beneficia particolarmente delle vaccinazioni sia per la maggiore suscettibilità alle infezioni sia per il rischio di complicanze. Orofino ha descritto come, sulla base dell’esperienza maturata nella gestione dell’Hiv, anche le vaccinazioni siano state integrate nel modello di cura: “Abbiamo tra gli obiettivi il trattamento come forma di prevenzione. L’engagement in care abbraccia un ombrello di concetti: non è soltanto l’aderenza alla terapia e la continuità della terapia che dura per tutta la vita, ma è considerare la persona che afferisce a noi insieme al suo contesto sociale, economico e con tutto ciò che può influenzare anche il successo della terapia”. In questo contesto si colloca il progetto di integrazione vaccinale presentato da Orofino e Piccioni. Presso l’Asl Città di Torino, che segue circa 4.500 persone con Hiv, è stata istituzionalizzata una finestra vaccinale dedicata. Il 61% delle persone ha aderito alla vaccinazione anti-herpes zoster e il 90% di queste ha completato il ciclo vaccinale. Grazie a
“L’esperienza italiana nella gestione dell’Hiv dimostra che l’integrazione tra trattamento, profilassi e prevenzione secondaria attraverso le vaccinazioni rappresenta un modello efficace di gestione della cronicità”
una survey è stato superato il problema della convenience, inviando le persone ai centri vaccinali di pertinenza, poiché la scarsa aderenza ai percorsi vaccinali è dovuta anche alle difficoltà di accesso. Nonostante una buona risposta, per chi mostra esitazione è stata istituita una giornata dedicata. Questo modello di integrazione, che utilizza il momento del ritiro farmaci come opportunità per verificare e completare le coperture vaccinali, si è dimostrato efficace: circa il 48% delle persone seguite ha aderito alla vaccinazione anti-pneumococcica.
Siliquini ha concluso: “è necessario l’inserimento del farmacista clinico nei team vaccinali ospedalieri interdisciplinari, poiché consentirebbe una gestione efficiente e razionale delle scorte, piani vaccinali personalizzati di cui abbiamo molto bisogno e procedure logistiche che rendano a tutti i professionisti sanitari e ai pazienti più facile avvicinarsi alla vaccinazione”.
LE CRITICITÀ DA AFFRONTARE
La mobilità interregionale dei pazienti rappresenta una sfida organizzativa. La frammentazione dei sistemi informativi regionali impedisce un monitoraggio efficace dei pazienti che si spostano per il ciclo di terapia in strutture fuori regione o fuori Asl per un problema di privacy.
Secondo Orofino, è fondamentale per l’aderenza un approccio proattivo da parte delle strutture sanitarie considerando che “una buona percentuale dei nuovi casi di infezione da Hiv è dovuta alle persone
che sanno di avere l’Hiv ma non si curano per qualche motivo o hanno interrotto le cure”.
Nonostante la normativa italiana preveda protocolli specifici per la continuità assistenziale e la tutela della privacy dei pazienti, lo stigma rappresenta una barriera sia alla diagnosi precoce sia alla continuità delle cure, e il suo superamento richiede uno sforzo culturale e comunicativo che coinvolge tutti gli operatori sanitari.
UN MODELLO DI GESTIONE DELLA CRONICITÀ
L’esperienza italiana nella gestione dell’Hiv dimostra che l’integrazione tra trattamento, profilassi e prevenzione secondaria attraverso le vaccinazioni rappresenta un modello efficace di gestione della cronicità. I dati presentati evidenziano tassi di aderenza terapeutica superiori al 90%, il raggiungimento dell’obiettivo 95-95-95 dell’UNAIDS e l’implementazione di strategie innovative come le terapie long-acting e l’integrazione vaccinale.
Il ruolo del farmacista ospedaliero si conferma centrale in questo modello, non solo nella gestione della distribuzione dei farmaci e nel monitoraggio delle interazioni, ma anche come figura chiave nell’educazione del paziente e nella promozione delle vaccinazioni.
Siliquini ha sottolineato che “le enormi competenze del farmacista ospedaliero in farmacovigilanza e gestione del rischio possono dare una mano importante non solo alla scelta delle vaccinazioni nei pazienti fragili, ma anche alla scelta del momento giusto per vaccinare quello specifico paziente”. Il quadro normativo italiano, fondato sulla legge 135/1990 e implementato attraverso linee guida nazionali e regionali, garantisce l’accesso universale e gratuito alle terapie antiretrovirali e alle strategie preventive. Tuttavia, i nodi critici evidenziati – diagnosi tardive, frammentazione dei sistemi informativi regionali, limitazioni nella chiamata attiva – richiedono interventi specifici.




La prospettiva futura punta alla territorializzazione delle cure, all’estensione dei modelli di presa in carico integrata e al rafforzamento dell’alleanza interdisciplinare. n
A cura di Federica Ciavoni
Si ringrazia Gilead per il supporto non condizionante alla realizzazione di questo contenuto.
Per saperne di più, scansiona il QRcode con il tuo dispositivo e guarda le interviste a Roberta Siliquini (Università di Torino), Paola Crosasso (Asl Città di Torino), Giancarlo Orofino (Ospedale Amedeo di Savoia, Torino) e Daniele Mengato (Azienda Ospedale Università di Padova)
Roberta Siliquini
Paola Crosasso
Giancarlo Orofino
Daniele Mengato
Educazione sessuale e affettiva a scuola: una scelta di salute pubblica
A colloquio con Camilla Alderighi
Cardiologa e membro del consiglio direttivo dell’Associazione Alessandro Liberati – Cochrane Affiliate Centre
L’emendamento al disegno di legge sul consenso informato, che intendeva estendere il divieto di svolgere attività didattiche sui temi della sessualità anche alle scuole secondarie di primo grado, limitandone quindi la possibilità alle sole scuole secondarie di secondo grado e condizionandone l’attuazione al consenso esclusivo dei genitori è stato ritirato il 10 novembre.
L’Associazione Alessandro Liberati aveva preso posizione contro questo emendamento, pubblicando un appello per chiedere con urgenza al Parlamento che venisse ritirato e che si garantisse il mantenimento dei percorsi di educazione sessuale comprensiva (CSE) – ossia di interventi didattici strutturati e continuativi che affrontino gli aspetti cognitivi, emotivi, fisici e sociali della sessualità – nei curricula nazionali, in linea con le evidenze scientifiche e le indicazioni delle principali organizzazioni internazionali impegnate nella tutela della salute e dei diritti di bambine, bambini e adolescenti1.
Considerata l’importanza di un tema che incide sul benessere psicologico e sociale delle nuove generazioni, abbiamo approfondito l’argomento con Camilla Alderighi, cardiologa e membro del consiglio direttivo dell’Associazione Alessandro Liberati – Cochrane Affiliate Centre, nonché co-responsabile per l’Italia della traduzione, contestualizzazione e diffusione delle risorse didattiche del progetto Informed Health Choices2, alla quale abbiamo rivolto queste domande.
Perché l’educazione sessuale comprensiva è raccomandata come strumento di salute pubblica dall’Oms e come mezzo per l’uguaglianza di genere dall’Unesco?
Come associazione medico-scientifica vicina alla cittadinanza, abbiamo preso posizione contro questo emendamento perché riguarda di fatto un intervento di sanità pubblica e, come ogni intervento sanitario, non può essere giudicato in base alle opinioni personali, ma in base alle prove scientifiche che ne hanno valutato l’efficacia. L’educazione sessuale comprensiva (Comprehensive Sexuality Education, CSE), secondo l’International Technical Guidance on Sexuality Education (Oms, Unicef)3, è supportata da solide evidenze: oltre 70 studi e 22 revisioni sistematiche mostrano che programmi scolastici strutturati fin dalla scuola primaria migliorano conoscenze e competenze sulla salute sessuale e riducono comportamenti a rischio. I programmi che affrontano anche le questioni di genere sono i più efficaci, perché promuovono tra i giovani atteggiamenti più equi e rispettosi. Nonostante l’educazione affettiva e sessuale rientri pienamente nel diritto alla salute oltre che tra i diritti umani, l’Italia rimane tra gli ultimi paesi Ue dove non è ancora obbligatoria a scuola. Con questo
emendamento che vieterebbe la CSE oltre che nella scuola primaria anche nella secondaria di primo grado (la scuola media), faremmo un ulteriore passo indietro rispetto alle evidenze e ai diritti della popolazione più giovane.
Quali conseguenze rischia di affrontare l’Italia mantenendo una lacuna educativa così significativa?
L’insegnamento dell’educazione sessuale comprensiva non può aspettare il diploma: pensare di rimandarla alle superiori e solo col permesso dei genitori significa considerarla un rischio, non un diritto. Invece, come ogni genitore sa bene, i rischi sono altri: bambine e bambini sono esposti molto precocemente a immagini, parole e modelli inappropriati, sia in rete che di persona. L’indagine “Violenza Onlife” di Save the Children4, condotta in una popolazione dai 14 ai 18 anni ha ben evidenziato come a questa età gli stereotipi di genere siano già consolidati e ci siano già equivoci sui concetti di responsabilità, consenso e potere nelle relazioni tra pari. Scegliere di lasciare le persone più giovani nell’ignoranza come policy sanitaria pubblica è una scelta non scientifica e anacronistica, se non ipocri-
“La scienza sui determinanti della salute ci insegna che la salute non è solo questione di ospedali o farmaci, ma è intrecciata ai modelli culturali e comportamentali che apprendiamo fin da bambini”
ta, rispetto ai tempi e rispetto ai bisogni reali delle giovani generazioni.
Ci sono dati, anche da altri paesi con sistemi educativi limitati in tal senso, che mostrano l’aumento di fenomeni come la disinformazione sulla salute riproduttiva, gli stereotipi di genere o i tassi di infezioni sessualmente trasmissibili in assenza di programmi CSE strutturati?
Sì, le revisioni della letteratura sul tema hanno evidenziato che, quando si toglie alle persone più giovani la possibilità di conoscere meglio il proprio corpo, i modelli di relazione e il consenso, non si protegge la loro innocenza, si espone la loro ignoranza e la loro vulnerabilità. La cronaca quotidiana purtroppo non fa che confermare ciò che l’evidenza scientifica mostra: senza un’adeguata educazione affettiva e sessuale le persone sono più esposte a subire e agire in relazioni non rispettose e violente. Alcune evidenze iniziali mostrano inoltre che discutere in classe pratiche relazionali negative o norme sociali dannose aumenta la consapevolezza e la tutela dei gruppi marginalizzati, come persone LGBTQIA+ o con disabilità. L’educazione sessuale non toglie nulla, ma restituisce strumenti — linguistici, emotivi, scientifici — di salute collettiva, per scegliere, capire, difendersi. Vietarla significa dire ai giovani “non ci fidiamo di voi” o, peggio, “non fidatevi di voi stessi”.
Lei sostiene l’importanza di introdurre il pensiero critico fin dalla prima infanzia. Come valuta la coerenza di un sistema educativo che da un lato promuove queste competenze nella scuola primaria, ma dall’altro tenta di limitarne l’applicazione ai temi affettivi e sessuali nelle fasi successive di sviluppo?
L’associazione Liberati ha un’esperienza concreta in questo senso: nel 2019 abbiamo portato in Italia il curriculum IHC (Informed Health Choices)5, un programma strutturato di efficacia dimostrata che insegna ai bambini della scuola primaria a distinguere se un’affermazione su temi di salute è fondata e cosa significhi prendere una decisione medica informata. Le esperienze italiane di diffusione di questo curriculum hanno confermato i risultati degli studi internazionali: già a 9-10 anni, bambine e bambini sono in grado di capire se un’affermazione scientifica ha basi solide e quanto sia affidabile6 Di fronte a questo, sorprende e disorienta leggere nelle più recenti Indicazioni nazionali per il primo ciclo di istruzione — riferite all’ambito Storia, ma chiaramente con intento più generale — l’invito a lasciar cadere “l’obiettivo del tutto irrealistico di formare ragazzi (o persino bambini!) capaci di leggere
e interpretare le fonti per poi valutarle criticamente […]”. È una contraddizione evidente: la scienza dimostra che si può insegnare ai bambini a pensare con la propria testa – e la CSE serve proprio a formare senso critico e consapevolezza di sé e degli altri –, eppure le indicazioni ufficiali sembrano dubitarne, senza tuttavia fornire prove a sostegno di questi dubbi.
Come possiamo far comprendere, a livello politico e sociale, che l’educazione sessuale è soprattutto un investimento culturale e di prevenzione a lungo termine?
Investire nella CSE oggi significa proteggere le cittadine e i cittadini di domani. La scienza sui determinanti della salute ci insegna che la salute non è solo questione di ospedali o farmaci, ma è intrecciata ai modelli culturali e comportamentali che apprendiamo fin da bambini. Per questo è cruciale che l’educazione sessuale e affettiva sia rappresentata a scuola. Per esempio, persone con orientamenti affettivi diversi possono finalmente specchiarsi e sentirsi legittimate quando il loro mondo viene nominato e riconosciuto a scuola. Chi subisce violenza può comprendere di essere vittima di un’ingiustizia e trovare il coraggio di denunciarla. Serve una collaborazione concreta tra Ministero dell’istruzione e Ministero della salute: non possiamo separare la scuola dalla salute dei giovani, perché prevenire significa insegnare prima ancora di curare. Ogni programma di educazione sessuale strutturato, inclusivo e basato sui diritti non è solo un contenitore di nozioni anatomiche: è un seme nella società di domani, che cresce proteggendo i più vulnerabili, combattendo stereotipi e relazioni diseguali, e formando cittadine cittadini capaci di pensare con la propria testa. n
Intervista a cura di Mara Losi
BIBLIOGRAFIA
1. https://associali.it/tutelare-leducazione-sessualecomprensiva-nelle-scuole-lappello-di-associali/ 2. https://www.informedhealthchoices.org/
3. https://cdn.who.int/media/docs/default-source/reproductivehealth/sexual-health/international-technical-guidance-onsexuality-education.pdf?sfvrsn=10113efc_29&download=true
4. https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/ violenza-onlife-indagine-ipsos-e-save-children
5. Rasoini R, De Fiore R, Ambrosino F, Celani MG, Formoso G, Alderighi C. Children are not invisible: contextualizing the Informed Health Choices critical skills curriculum in Italian schools. Recenti Prog Med 2023;114(9):515-516.
6. Rasoini R, Alderighi C, Celani MG, De Fiore R, Ambrosino F, Formoso G, Rosenbaum SE. Feasibility of teaching critical thinking about health in Italian schools to 9-13-year-olds: a mixed-methods study across three regions. Recenti Prog Med 2025;116(7-8):442-457.
Scienza sotto assedio: fiducia pubblica, sanità e l’ombra dello shutdown
Negli Stati Uniti il rapporto tra scienza e potere politico è entrato in una fase di conflitto strutturale. La nuova stagione di dichiarazioni dei nuovi vertici della sanità statunitense e di interventi sulle policy di sanità pubblica ha reso la produzione di evidenze e il richiamo alle prove disponibili dalla migliore ricerca parte del confronto identitario: prendere la parola per difendere procedure e standard assistenziali può essere percepito come volontà di schierarsi, mentre il silenzio è difficile da interpretare. Undark ha descritto questa condizione come ‘resilienza incerta’ della fiducia: tenuta complessiva nonostante la polarizzazione, ma con fratture profonde tra segmenti di popolazione e lungo le linee ideologiche. Il punto critico non è soltanto quanta fiducia permane, ma come si distribuisce e con quali conseguenze sull’adesione alle politiche di salute pubblica1.
Si è apertamente scritto di una ‘istituzionalizzazione’ della politicizzazione: la riorganizzazione della burocrazia tecnico-scientifica e le pressioni sui processi di finanziamento rischiano di trasformare la discrezionalità tecnica in campo di contesa permanente, con effetti prevedibilmente peggiorativi sugli esiti dei servizi pubblici2. L’allarme riguarda la
permeabilità dei meccanismi di nomina e la ridefinizione dei criteri per l’allocazione dei fondi, elementi che incrociano direttamente la capacità delle agenzie di produrre linee guida affidabili. L’impatto sanitario è immediato. Un’inchiesta di Le Monde aveva documentato già tempo fa congelamenti e tagli ai grant federali (10-20% in diverse linee), ridimensionamenti di personale dei National institutes of health (Nih) e dei Centers for disease control and prevention (Cdc), vincoli stringenti sulla comunicazione esterna e accesso ai dati, fino allo smantellamento di comitati consultivi3. Il risultato è un clima di incertezza che rallenta trial, sorveglianza epidemiologica e capacità regolatoria: un danno reputazionale e operativo che tocca la leadership biomedica statunitense e le collaborazioni internazionali.
A questa traiettoria si è aggiunto, dall’1 ottobre 2025, lo shutdown federale, con effetti diretti su finanziamenti e personale. Testimonianze e analisi indicano sospensioni di attività in numerosi laboratori, notifiche di licenziamento al personale dei Cdc e ritardi nell’erogazione dei grant, mentre le agenzie riorientano risorse per garantire solo le funzioni ‘essenziali’, come nel caso di Pubmed che ha sospeso

“La letteratura recente mostra che la credibilità della scienza dipende dal mantenimento di una distinzione chiara tra decisione tecnica e indirizzo politico: quando i cittadini percepiscono che i fondi, le priorità di ricerca o la comunicazione scientifica seguono logiche di appartenenza, l’adesione alle raccomandazioni cala e il consenso a misure di sanità pubblica si polarizza”
l’attività di valutazione di nuovi periodici candidati a essere inclusi nella banca dati bibliografica. Alcuni provvedimenti di licenziamento sono stati inviati per errore e, in parte, revocati; tuttavia la contrazione della forza lavoro e dei servizi ha già compromesso programmi di salute mentale, risposta ai focolai e capacità di preparedness
Alcuni tribunali federali hanno temporaneamente bloccato i licenziamenti di migliaia di dipendenti durante lo shutdown, rilevando profili di illegittimità nelle procedure; la Casa Bianca, però, ha ipotizzato riduzioni di “oltre le 10.000 unità”, segno che il margine di incertezza resta elevato e che l’instabilità organizzativa può protrarsi con ricadute su Cdc, Nih e altre agenzie sanitarie. Per i servizi pubblici questo si traduce in interruzioni operative, accumulo di arretrati e perdita di competenze chiave4.
Oltre l’emergenza, emerge un problema di governance della fiducia. La letteratura recente mostra che la credibilità della scienza dipende dal mantenimento di una distinzione chiara tra decisione tecnica e indirizzo politico: quando i cittadini percepiscono che i fondi, le priorità di ricerca o la comunicazione scientifica seguono logiche di appartenenza, l’adesione alle raccomandazioni cala e il consenso a misure di sanità pubblica si polarizza. In questa prospettiva, l’erosione di procedure di peer review, o la subordinazione delle agenzie a uno spoil system radicalmente condizionato dall’ideologia, non sono più solo aspetti della gestione amministrativa ma diventano veri e propri determinanti di salute per i cittadini.
La qualità delle politiche vaccinali, della risposta alle emergenze e della ricerca traslazionale dipende da infrastrutture istituzionali che conservino una ragionevole stabilità nel medio periodo. Tagli, blocchi e turn-over forzati nelle agenzie sanitarie pregiudicano la continuità dei programmi (sorveglianza epidemiologica, lavoro in rete, conduzione degli studi), mentre l’incertezza sui grant scoraggia l’ingresso dei giovani ricercatori e indebolisce i partenariati pubblico-privati. Nello scenario attuale, il rischio è che la competizione globale per talenti e investimenti si giochi anche sulla prevedibilità regolatoria e sul grado di immunità della scienza dalle oscillazioni politiche. Negli ultimi mesi lo European Research Council (Erc) ha registrato un fenomeno inedito: un numero crescente di ricercatori statunitensi sta valutando il trasferimento in Europa per proseguire le proprie attività di ricerca5. In un recente bando, le domande provenienti dagli Stati Uniti sono aumentate di cinque volte rispetto all’anno precedente, passando da
23 a 114. A spingere questo interesse non è solo la qualità dei programmi europei, ma anche la nuova politica dell’Erc, che ha raddoppiato i fondi destinati a chi si sposta da un altro continente, offrendo fino a 2 milioni di euro aggiuntivi e portando il finanziamento complessivo a 4,5 milioni in cinque anni. Dietro questo movimento si intravedono motivazioni profonde. Come abbiamo detto, negli Stati Uniti molti ricercatori avvertono un clima sempre più difficile che spinge a cercare contesti più stabili e accoglienti. L’Europa, al contrario, viene percepita come un ambiente favorevole alla libertà accademica e alla ricerca di base, con istituzioni disposte a investire su progetti ad alto rischio ma ad alto potenziale.
Diversi paesi europei, inoltre, stanno cogliendo l’occasione per rafforzare la propria attrattività: oltre 70 programmi nazionali e regionali offrono incentivi, infrastrutture e percorsi di integrazione per chi decide di trasferirsi. L’obiettivo è duplice — attrarre talenti dall’estero e invertire la tradizionale fuga di cervelli verso gli Stati Uniti — consolidando l’autonomia scientifica e tecnologica europea. Resta però da vedere se l’Europa saprà mantenere questa spinta nel tempo. Le differenze negli stipendi, la burocrazia e le difficoltà logistiche dei trasferimenti possono rappresentare ostacoli concreti. La sfida sarà quindi trasformare l’attuale momento favorevole in una strategia strutturale, capace di rendere il continente una vera destinazione di riferimento per la ricerca mondiale.
La stagione in corso impone dunque un atteggiamento inedito: quello di leggere i dossier sanitari con una lente doppia. Da una parte, attenzione ai dati clinici e, dall’altra, agli indicatori istituzionali che li rendono possibili (finanziamenti, personale, trasparenza). Solo preservando la distinzione di ruoli e ricostruendo fiducia informata tra cittadini, agenzie e comunità scientifica sarà possibile mantenere l’efficacia delle politiche di salute pubblica in un ambiente politico instabile. n
Luca De Fiore
BIBLIOGRAFIA
1. https://undark.org/2025/02/17/resiliency-public-trust-science/
2. https://www.science.org/doi/10.1126/science.ady6128
3. https://www.lemonde.fr/en/science/article/2025/03/16/thethreats-to-public-health-in-trump-s-us_6739218_10.html y6128
4. https://www.washingtonpost.com/politics/2025/10/15/ trump-administration-shutdown-layoffs/
5. https://www.politico.eu/article/european-research-councilfunding-us-researchers-relocation-europe/