Forward. Numero 39 - 2025 Prevenzione

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Because it is acted on healthy people, preventive medicine needs even stronger supporting evidence on benefits and harms than therapeutic interventions.

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4

Trasformare la prevenzione in uno stile di vita

MARIA ROSARIA CAMPITIELLO

Visioni e responsabilità Ripensare il concetto di

Le “care” abitudini: dove iniz

7 Prevenzione e preparedness

GIUSEPPE IPPOLITO

4 Quante cose fai senza pensarci?

ANNAMARIA TESTA

9

Cos’è la prevenzione?

RODOLFO SARACCI

12 One health, la prevenzione al centro CARLA ANCONA, LUCIA BISCEGLIA

5 Rinforzi, motivazioni, imitazioni

GUENDALINA GRAFFIGNA

7 Le routine nel cervello PAOLO BARTOLOMEO

Gli stili di vita per la

11 Siamo sicuri di parlare di prevenzione?

MARINA DAVOLI

14

10 I bambini come agenti di cambiamento

La prevenzione in prospettiva LA TIMELINE

12 Quanto incidono le differenze culturali?

Dalla teoria alla pratica,

17

Il futuro della promozione della salute

Osservare senza giudizi e

CLAUDIO TORTONE, ELEONORA TOSCO

19 Un’unica salute per comunità più sane e resilienti

DANIELA DONETTI

20 Quando la prevenzione diventa comunità MASSIMO BRUNETTI

Strategie di salute vicine

29

Cosa dice il medico, cosa

Nessun uomo è un’isola. E nessuna nazione

FILIPPO ANELLI

31

Educazione, tecnologia, visione condivisa

22 Il medico come guida o modello

GUIDO DI DONATO

32, 33

SERGIO CONTI NIBALI, ANGELICA SALVADORI, MASSIMO VOLPE, ELISA ZANARDI

Deprescribing, vaccinazione e screening

26/27

URSULA KIRCHMAYER, DOMENICA LORUSSO

La compliance del paziente, le prescrizioni del medico RENATO LUIGI ROSSI, MIRKO DI MARTINO

Comunicazione, giustizia,

Nuove vecchie abitudini per

38 Strumenti digitali per una prevenzione integrata

REBECCA DE FIORE

40, 42, 43

33 Rompere vecchie abitudini

La sicurezza sul lavoro e sulla strada

MIRJAM AMATI, ADRIANA DEGIORGI, ALAN VALNEGRI

34 Una guida al cambiamento

STANISLAO LORIA, LUCA VALDISERRI, LORENZO PAGLIONE, ANNA ACAMPORA

GIACOMO GALLETTI

ANDREA CALIGNANO

globali

Svegliarsi presto per iniziare con calma la giornata, anticipando poco alla volta l’orario in cui si va a dormire.

iano, dove finiscono

13 L’approccio di genere

GIANLUIGI FERRANTE, ELIANA FERRONI

8 Come nascono le dipendenze

iano, dove finiscono

MANDUCA, MICHELA SERVADIO

8 Come nascono le dipendenze

Piccoli gesti che fanno la differenza

Prima della cura

Abitare le abitudini

Il sogno più ambizioso di una medicina moderna è intervenire prima ancora che la malattia si manifesti. Identificare e agire sui rischi e sui determinanti alla base di ogni problema di salute amplificherebbe comunque l’efficienza della cura.

Abitare le abitudini

salute e il benessere

47 È ora di vietare la parola “prevenzione” RICHARD SMITH

prevenzione nel territorio

Comportamenti appresi

salute e il benessere

tutti

senza pregiudizi

21-26 Hiv/aids: a che punto siamo?

senza pregiudizi

ANTONIO ADDIS, ENRICO GIRARDI, ANDREA ANTINORI, MARZIA MENSURATI

27 Contrasto all’antimicrobico resistenza FABRIZIO GEMMI

alle persone

pensa il paziente

28/30 Come migliorare l’aderenza terapeutica

34, 35 La parità nella ricerca, la violenza domestica

pensa il paziente

ANDREA CALIGNANO, STEFANO CARTESEGNA, MARGHERITA SARACENO

28/30 Come migliorare l’aderenza terapeutica

Il parto cesareo è la normalità?

36 Bambini sani oggi, adulti in salute domani VALENTINA VANZI

PISCICELLI, PAOLA COLAIS

educazione

vita che cambia

36/37 Quel prima e dopo una diagnosi di cancro

41 Educazione affettiva e sessuale nelle scuole ANTONELLA INVERNO

STEFANO MAGNO, FLORI DEGRASSI

36/37 Quel prima e dopo una diagnosi di cancro

Tra le abitudini del gruppo Forward ve ne sono alcune ormai consolidate: non cercare mai le soluzioni semplici, la frase conclusiva, la risposta scontata. Ci siamo fatti convincere che la complessità, per quanto scomoda, possa garantire un maggiore spazio a tutti quelli che lavorano al progetto e consenta di esplorare meglio ogni tematica.

Tra le abitudini del gruppo Forward ve ne sono alcune ormai consolidate: non cercare mai le soluzioni semplici, la frase conclusiva, la risposta scontata. Ci siamo fatti convincere che la complessità, per quanto scomoda, possa garantire un maggiore spazio a tutti quelli che lavorano al progetto e consenta di esplorare meglio ogni tematica.

In questi casi, la medicina si trasforma in politica sociale, promozione di stili di vita sani, economia sanitaria, organizzazione degli interventi, pubblica amministrazione eccetera. In altre parole, il tema della prevenzione non può che ampliare l’orizzonte di tutti gli attori del sistema salute e, proprio per questa ragione, non può essere relegato in fondo alla scala delle priorità. E mai come in questo ambito risulta indispensabile uno sguardo multidisciplinare che integri competenze diverse: discipline che, pur sembrando distanti dalla medicina, rivelano il proprio ruolo cruciale nella promozione della salute.

In questo numero troverete versioni sia positive che negative dei comportamenti ricorrenti. A volte parliamo dei veri e propri nemici del cambiamento; altre volte di ossessioni, deviazioni, ma anche di traguardi che fatichiamo a raggiungere per ottenere una salute migliore.

In questo numero troverete versioni sia positive che negative dei comportamenti ricorrenti. A volte parliamo dei veri e propri nemici del cambiamento; altre volte di ossessioni, deviazioni, ma anche di traguardi che fatichiamo a raggiungere per ottenere una salute migliore. Insomma il tema è un prisma a mille facce che non poteva mancare alla nostra collezione, così come alla nostra voglia di confronto.

Le situazioni in cui ha senso parlare di prevenzione sono così numerose da rendere questa parola difficile da tradurre in azioni concrete, con il rischio di ridurla a raccomandazioni generiche come “fate i buoni se potete”. In questo numero lo sforzo del gruppo Forward è stato particolarmente prezioso, cercando di raccogliere esperienze, criticità e buone pratiche in cui la medicina del futuro trova la propria forza in attività orientate alla cura delle malattie prima ancora che si manifestino.

38 Scivolare nell’abisso GIANCARLO DE CATALDO

45 Prevenzione in 280 caratteri TIZIANO COSTANTINI

Insomma il tema è un prisma a mille facce che non poteva mancare alla nostra collezione, così come alla nostra voglia di confronto.

I numeri possono alle volte aiutarci a seguire e capire le ragioni che stanno dietro gli stili di vita e le attitudini degli operatori sanitari, ma che non sempre combaciano con le migliori prove di efficacia disponibili. Una ragione in più per capire quando e come si forma un comportamento ricorrente.

I numeri possono alle volte aiutarci a seguire e capire le ragioni che stanno dietro gli stili di vita e le attitudini degli operatori sanitari, ma che non sempre combaciano con le migliori prove di efficacia disponibili. Una ragione in più per capire quando e come si forma un comportamento ricorrente.

Per questo serve una medicina capace di programmare con precisione gli interventi di prevenzione, perché il rischio maggiore è quello di coinvolgere inutilmente un’intera popolazione sana, disperdendo risorse preziose e trasformando gli stessi interventi in potenziali fattori di rischio. Allo stesso tempo, è fondamentale che operatori sanitari e ricercatori siano coinvolti direttamente nel dibattito pubblico: come abbiamo sperimentato durante la pandemia, la comunicazione in questo ambito può avere un ruolo centrale. In ogni caso, nel continuo esercizio di Forward di guardare oltre, sarebbe interessante declinare il concetto di “accesso anticipato alle cure” non solo in riferimento ai trattamenti approvati in tempi rapidi, ma anche agli interventi volti a garantire la salute attraverso decisioni strategiche sugli stili di vita e sui determinanti economici e sociali capaci di ridurre il rischio di malattia.

In alcune pagine del numero abbiamo cercato anche di rispolverare un linguaggio che fosse valido non solo per gli addetti ai lavori, traendo spunto da quanto abbiamo in passato sperimentato con Forward for

In alcune pagine del numero abbiamo cercato anche di rispolverare un linguaggio che fosse valido non solo per gli addetti ai lavori, traendo spunto da quanto abbiamo in passato sperimentato con Forward for Kids.

In sintesi, così come “visto da vicino nessuno è normale” anche le abitudini – a seconda di dove e come si collocano nella medicina del futuro – possono rassicurare o spaventare, con tutto quello che ci sta nel mezzo.

In sintesi, così come “visto da vicino nessuno è normale” anche le abitudini – a seconda di dove e come si collocano nella medicina del futuro – possono rassicurare o spaventare, con tutto quello che ci sta nel mezzo.

Antonio Addis Dipartimento di epidemiologia Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma

Antonio Addis

Dipartimento di epidemiologia

Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1

Antonio Addis Dipartimento di epidemiologia Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1

Trasformare IN UNO

Diseguaglianze, vaccini, intelligenza artificiale e il no italiano all’Organizzazione mondiale della sanità. Gli strumenti della cultura e della comunicazione. E, in arrivo, il primo Ecosistema digitale One health che integrerà dati sulla salute umana, animale, ambientale e sociale.

Maria Rosaria Campitiello, capo Dipartimento della prevenzione, della ricerca e delle emergenze sanitarie del Ministero della salute.

“Il senso più profondo della prevenzione è il coraggio di guardare oltre l’orizzonte immediato, di intervenire prima che il problema si manifesti, di investire sul futuro della salute pubblica con la stessa cura con cui si proteggerebbe un bene prezioso. La prevenzione è il farmaco più potente che possediamo per vivere meglio e più a lungo. Significa trasformare le parole in azioni concrete, radicando la cultura della prevenzione nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei Comuni e nelle famiglie. Non è solo screening o controlli medici: il 60 per cento della nostra salute dipende da stili di vita sani, dalla qualità dell’aria e dell’acqua, dalla sicurezza alimentare, dal benessere sociale e ambientale”.

Maria Rosaria Campitiello, responsabile dell’area prevenzione del Ministero della salute oltre che della ricerca e delle emergenze sanitarie, attribuisce fin da subito un significato ampio alla parola “prevenzione”. Nel nostro colloquio ricorrono temi come diseguaglianze, vaccini, innovazione e intelligenza artificiale, senza evitare il discusso passo indietro di Lungotevere Ripa rispetto all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e alle modifiche del Regolamento sanitario internazionale. Per delineare un concetto aggiornato di prevenzione, Campitiello riparte dalla visione One health.

È una visione che intreccia salute umana, animale, ambientale e sociale, e che ci spinge a considerarla non come un costo, ma come il più lungimirante investimento per il benessere e la coesione del Paese. La pandemia da covid-19 ci ha ricordato che senza salute non c’è crescita economica, non c’è scuola, non c’è futuro. Per questo stiamo puntando su una comunicazione di qualità, potenziata dall’intelligenza artificiale, e su una formazione continua rivolta a tutti gli operatori della salute. In definitiva, prevenzione significa offrire a ciascuno la possibilità di attraversare il “portale” della conoscenza e della consapevolezza prima che la malattia arrivi. Non è un obbligo, ma un dono di lucidità e di responsabilità condivisa.

Che ne pensa della crescente diffusione degli screening gratuiti in luoghi pubblici – come piazze, farmacie o centri commerciali? Possono alleggerire la pressione sui servizi sanitari o rischiano di favorire sprechi e sovradiagnosi?

La scelta di portare le attività di screening “fuori dagli ospedali”, nelle piazze, nei centri commerciali, durante eventi pubblici, è una strategia

Cesare Buquicchio a colloquio con Maria Rosaria Campitiello

che può avere un impatto molto positivo, se progettata e gestita con metodo, evidenza scientifica e obiettivi chiari. Avvicinare i servizi ai cittadini significa abbattere barriere di accesso, raggiungere fasce di popolazione che raramente entrano in contatto con il sistema sanitario come ad esempio i giovani, le persone che vivono in aree interne o che per motivi economici, culturali o di tempo rinunciano ai controlli periodici. Queste iniziative possono rappresentare un “gancio” per sensibilizzare, intercettare precocemente situazioni a rischio e facilitare l’inserimento nei percorsi strutturati del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Detto questo, non basta “moltiplicare” gli screening: bisogna farli bene. Servono protocolli chiari per evitare esami inutili, sovradiagnosi e falsi positivi che rischiano di generare ansia o sprechi di risorse.

Non basta “moltiplicare” gli screening: bisogna farli bene. Servono protocolli chiari per evitare esami inutili, sovradiagnosi e falsi positivi.

Il criterio deve essere sempre quello dell’appropriatezza clinica e organizzativa, al di là del luogo fisico in cui i test si svolgono, integrando queste campagne straordinarie ai programmi di prevenzione già attivi e monitorando costantemente i risultati.

A che punto sono i progetti di prevenzione più innovativi a cui state lavorando? Tra questi il “Prevention hub” come procede?

Come Ministero stiamo lavorando su diversi progetti che sono in una fase avanzata e stanno procedendo con una visione chiara: trasformare la prevenzione da slogan a pratica quotidiana, concreta e misurabile. Nello specifico, stiamo lavorando innanzitutto alla stesura del nuovo Piano nazionale della prevenzione, che rappresenta lo strumento strategico per il Ssn, volto a organizzare e potenziare le attività di prevenzione e promozione della salute. Il nuovo Piano mira a investire in interventi di prevenzione basati sull’evidenza scientifica, con l’obiettivo di garantire la sostenibilità del sistema sanitario nel lungo periodo. Il “Prevention hub”, già operativo e di prossima inaugurazione da parte del ministro Orazio Schillaci, rappresenta il primo polo interamente dedicato alla promozione della salute e alla prevenzione delle malattie. Realizzato con un investimento di circa 30 milioni di euro previsti dalla Missione 6 del Pnrr, sarà concepito come un laboratorio nazionale al servizio del Ministero, delle Regioni, delle università, dei centri di ricerca e dei territori. Il progetto del Ministero ha una duplice finalità: da un lato sviluppare progetti sperimentali e innovativi, dall’altro ridurre i divari territoriali e costruire vere e proprie reti di eccellenze multidisciplinari. Inoltre, stiamo lavorando per la realizzazione del primo Ecosistema digitale One health, una piattaforma unica che integrerà i dati sulla salute umana, animale, ambientale e sociale. È una svolta storica perché

la prevenzione STILE DI VITA

ci consentirà di passare dalla semplice “enunciazione teorica” alla programmazione sanitaria basata su analisi epidemiologiche concrete e integrate. Attraverso la raccolta e l’armonizzazione di dati provenienti da ospedali, laboratori veterinari, stazioni meteorologiche, enti ambientali e istituzioni sociali, sarà possibile orientare le decisioni strategiche, pianificare politiche di prevenzione più efficaci, monitorare i risultati in tempo reale e sviluppare modelli predittivi basati sull’intelligenza artificiale.

Citava i dati e le analisi sociali: come state lavorando, a questo proposito, sulle disuguaglianze nell’accesso alla prevenzione tra diversi territori e fasce sociali?

Le disuguaglianze nell’accesso alla prevenzione sono una delle sfide più urgenti e complesse che stiamo affrontando. I dati più recenti dei livelli essenziali di assistenza ci dicono chiaramente che, pur registrando alcuni miglioramenti, restano divari significativi: sei Regioni sono ancora sotto la soglia minima di sufficienza (60 punti), sette si collocano tra 60 e 80, e nessuna Regione del Sud supera gli 80 punti. A queste disparità regionali si sommano differenze tra aree urbane e periferiche, tra grandi città e aree interne, e le difficoltà strutturali delle zone montane.

L’importanza di un approccio integrato contro le disuguaglianze.

Per affrontare queste criticità, abbiamo messo in campo un approccio integrato, che combina innovazione digitale, interventi mirati e collaborazione istituzionale. Una risposta concreta è rappresentata dal Piano oncologico nazionale (Pon) 2023-2027, che mira a rafforzare la prevenzione e il contrasto ai tumori su tutto il territorio nazionale. Tutte le Regioni e le Province autonome hanno attivato programmi dedicati agli screening oncologici, con l’obiettivo di aumentare i livelli di copertura, migliorare l’adesione della popolazione e rafforzare la formazione degli operatori sanitari coinvolti. Per sostenere le azioni previste dal Pon è stato istituito un fondo specifico con una dotazione di 10 milioni di euro dal 2023 al 2027. Tra le misure più rilevanti che il Piano prevede, rientra l’estensione dell’offerta mammografica alle fasce d’età 45-49 anni e 70-74. Stiamo sviluppando, inoltre, una piattaforma digitale aperta e accessibile a tutti i cittadini, pensata per offrire informazioni chiare, campagne di sensibilizzazione e servizi di screening in modo semplice e trasparente, abbattendo le barriere informative e logistiche che spesso ostacolano l’accesso alle cure e alla prevenzione. Parallelamente, interveniamo sui determinanti sociali della salute, affrontando temi cruciali come la dispersione scolastica, la promozione di stili di vita sani, la riduzione dell’inquinamento e il contrasto alla povertà, grazie a una stretta collaborazione con Comuni e realtà del terzo settore, che rappresentano attori fondamentali nella costruzione di comunità più resilienti e inclusive.

La prevenzione come diritto universale.

La nostra bussola è chiara: la prevenzione non deve essere un privilegio geografico o sociale, ma un diritto universale. Ecco perché stiamo trasformando dati, tecnologia e prossimità territoriale in leve concrete per garantire equità di accesso in tutto il Paese.

Che strategie usare per convincere i cittadini ad adottare stili di vita più sani che possano ridurre gli impatti sulla sanità?

Adottare stili di vita sani non è soltanto una scelta personale: è un investimento collettivo che determina il futuro della salute pubblica e la sostenibilità del Ssn. I dati ci dicono che in Italia ancora troppi cittadini non raggiungono i livelli raccomandati di attività fisica, consumano poca frutta e verdura o non riescono a rinunciare al fumo e all’alcol. Questo si traduce in un aumento di malattie croniche e in un aggravio per il sistema sanitario. Per invertire questa tendenza non basta fornire informazioni: serve una vera strategia di comunicazione capace di trasformare la prevenzione in un’abitudine quotidiana. E questo significa parlare a pubblici diversi con linguaggi diversi, sfruttando canali tradizionali e digitali, creando messaggi semplici ma incisivi, basati su evidenze scientifiche e capaci di suscitare coinvolgimento emotivo.

Le nostre linee di azione si sviluppano su più fronti: educazione alla salute fin dall’infanzia, con programmi scolastici che integrano alimentazione sana, movimento e consapevolezza sul benessere psico-fisico, coinvolgendo famiglie e comunità educanti. Poi comunicazione mirata e personalizzata, grazie all’intelligenza artificiale, che ci consente di adattare messaggi e strumenti ai diversi segmenti della popolazione, superando approcci generici e poco efficaci. Un approccio One health, che integra salute umana, ambientale e animale, e valorizza politiche di contrasto all’inquinamento e di promozione di un’alimentazione sostenibile. Il coinvolgimento diretto delle comunità più vulnerabili, con interventi di prossimità realizzati in collaborazione con Comuni, terzo settore e associazioni, per ridurre le disuguaglianze nell’accesso alla prevenzione. E, infine, partnership pubblico-privato sociale, per moltiplicare l’impatto e portare la cultura della prevenzione anche dove i canali istituzionali arrivano con più difficoltà.

Il nostro obiettivo è passare dalla semplice informazione alla trasformazione culturale: creare contesti in cui scegliere di fare attività fisica, mangiare sano o smettere di fumare non sia un atto di volontà straordinaria, ma la scelta più semplice, naturale e socialmente condivisa. Solo così potremo ridurre in maniera strutturale l’incidenza delle malattie croniche, alleggerire il peso sui servizi sanitari e garantire più anni di vita in salute per tutti i cittadini.

Il tema vaccini ha monopolizzato la discussione delle ultime settimane. Senza tornare su quelle polemiche, cosa ne pensa del calo delle coperture che si registra in Italia negli ultimi anni su alcune campagne?

Il calo delle coperture vaccinali registrato in Italia è un campanello d’allarme che ricorda quanto sia necessario rafforzare l’intero sistema della prevenzione, a partire dalla cultura del “prendersi cura”. I dati parlano chiaro: nella stagione 2023-2024 la copertura vaccinale antinfluenzale tra gli over 65 si è fermata al 53,3 per cento, lontano dall’obiettivo minimo del 75 per cento previsto dal Piano nazionale prevenzione vaccinale (Pnpv). Ma non è solo l’influenza a preoccupare: è stata osservata una bassa incidenza di morbillo fino ad agosto 2023 e un successivo aumento graduale del numero di casi segnalati fino a raggiungere 1045 casi nel 2024. Sul fronte del virus del papilloma umano, che rappresenta una straordinaria opportunità di prevenzione di alcuni tumori, le coperture, sia per le femmine che per i maschi, restano molto distanti dal target del 95 per cento: nel 2023 solo il 45,39 per cento delle ragazze nate nel 2011 ha completato il ciclo vaccinale, con marcate differenze regionali. Questi numeri ci dicono una cosa semplice: non possiamo permetterci

di abbassare la guardia. Ma non basta somministrare più dosi: serve una prevenzione integrata, capace di agire su tre fronti fondamentali. Primo, dobbiamo garantire l’accessibilità e l’equità dei servizi vaccinali, rafforzando la rete territoriale e riducendo le disuguaglianze tra Regioni. Secondo, è necessario investire in comunicazione pubblica fondata sulle evidenze scientifiche, capace di contrastare la disinformazione e intercettare le diverse sensibilità culturali e generazionali. Terzo, dobbiamo coinvolgere attivamente tutti gli attori della salute pubblica: medici di base, pediatri, specialisti, farmacisti, ma anche insegnanti, associazioni e comunità locali.

I vaccini come mattoni di un edificio più grande; quello della promozione della salute, della prossimità dei servizi e della fiducia nel Ssn.

Come Ministero della salute, abbiamo risposto a questa sfida con un piano vaccinale ambizioso: il Pnpv, infatti, assicura l’equa accessibilità e disponibilità nel tempo dei vaccini sia come strumento di protezione individuale che di prevenzione collettiva, al fine di garantire alla popolazione, indipendentemente dai determinanti socioeconomici, i pieni benefici derivanti dalla vaccinazione. Voglio ribadire che i vaccini sono importanti, ma fanno parte di un edificio più grande: quello della promozione della salute, dell’educazione, della prossimità dei servizi e della fiducia. Per questo stiamo lavorando per rendere la prevenzione sempre più visibile, integrata e partecipata.

Si parla da anni, ormai, di digitale, telemedicina e intelligenza artificiale: possono dare davvero un contributo?

La digitalizzazione e l’intelligenza artificiale stanno cambiando radicalmente il volto della prevenzione, permettendoci di passare da un approccio reattivo a uno proattivo. Oggi possiamo integrare dati sanitari, sociali e ambientali per leggere i bisogni di salute in modo molto più accurato, anticipare i rischi e pianificare interventi mirati. Grazie a validi strumenti come il Fascicolo sanitario elettronico, la telemedicina e l’ecosistema nazionale dei dati sanitari, possiamo rendere i servizi più accessibili, ridurre i tempi di diagnosi e rafforzare la continuità assisten-

vedi anche

Il Piano nazionale della prevenzione (Pnp) 2020-2025, adottato con l’Intesa Stato-Regioni del 6 agosto 2020, rappresenta lo strumento centrale per programmare gli interventi di prevenzione e promozione della salute. Si configura come una guida strategica che orienta le politiche pubbliche verso maggiore equità ed efficacia, tutelando la salute individuale e collettiva e assicurando la sostenibilità del Servizio sanitario nazionale attraverso un approccio multidisciplinare, intersettoriale e coordinato.

One health, empowerment, benessere Il Piano abbraccia la prospettiva One health, che integra salute umana, animale e ambientale, e si allinea agli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Questa visione pone particolare attenzione all’equilibrio tra dimensioni economiche, sociali e ambientali. Inoltre, il Pnp incorpora l’esperienza della pandemia da covid-19, sottolineando l’importanza di una programmazione flessibile e coordinata, capace di rispondere tempestivamente sia alle emergenze sia ai bisogni ordinari di salute della popolazione.

ziale anche nelle aree più remote. L’intelligenza artificiale ci aiuta a stratificare i bisogni della popolazione, a individuare precocemente i fattori di rischio e a progettare politiche sanitarie che tengano conto anche dei determinanti sociali e ambientali.

Il progetto più innovativo in questo senso è il National health prevention hub, un polo nazionale di eccellenza che sarà operativo entro il 2026 e integrerà in un’unica piattaforma dati sanitari e socioeconomici, fornendo strumenti predittivi e decisionali a sostegno delle politiche regionali e nazionali. Non sarà solo un centro dati, ma un vero portale della prevenzione, capace di orientare strategie, ridurre disuguaglianze territoriali e mettere la persona al centro. Digitalizzazione e intelligenza artificiale hanno un ruolo fondamentale anche nel rafforzare la health literacy: una cittadinanza informata, capace di interpretare correttamente le informazioni sulla salute e di compiere scelte consapevoli, è la prima alleata di un sistema sanitario equo ed efficace. In un’epoca di disinformazione, la tecnologia e la cultura della prevenzione devono camminare insieme: solo così potremo costruire una sanità moderna, inclusiva e sostenibile.

Il ruolo della prevenzione, declinata come preparedness, è decisivo per la risposta alle emergenze sanitarie. Cosa ne pensa della scelta italiana di rifiutare gli emendamenti al Regolamento sanitario internazionale adottati dall’Oms?

La prevenzione è decisiva anche nella preparazione alle emergenze sanitarie, ma deve poggiare su regole giuste, trasparenti e rispettose dei diritti dei cittadini. Il Regolamento sanitario internazionale è lo strumento cardine della cooperazione globale, ma gli emendamenti approvati dall’Oms nel 2024 ci hanno posto davanti a criticità concrete: la possibilità che l’Oms dichiari unilateralmente un’emergenza globale, l’introduzione di un certificato sanitario universale basato su standard e criteri definiti dall’Oms, l’obbligo di condividere brevetti senza accordi e la creazione di un fondo internazionale con contributi obbligatori, oltre a misure per contrastare la disinformazione che rischiano di comprimere la libertà di espressione. L’Italia ha scelto di non accettare formalmente queste modifiche non per isolarsi ma per difendere la sovranità democratica e la proporzionalità delle misure. Cooperiamo pienamente con l’Oms, basti pensare ai nostri contributi economici e ai progetti sanitari internazionali che finanziamo, ma crediamo che la salute globale si costruisca con il dialogo, non con imposizioni che rischiano di allontanare i cittadini dalle istituzioni.

UNA GUIDA NAZIONALE PER LA SALUTE

DI OGGI E DI DOMANI

Al centro del Piano vi sono la persona e la comunità, riconoscendo che la salute non dipende solo da fattori biologici o comportamentali ma anche da determinanti sociali ed economici. In quest’ottica viene promossa l’alfabetizzazione sanitaria, che mira ad accrescere la capacità degli individui di agire per la propria salute e per quella della collettività (empowerment) e a migliorare l’interazione con il sistema sanitario (engagement), quali elementi fondamentali per garantire il raggiungimento degli obiettivi del Pnp. Il documento valorizza inoltre l’approccio life course, orientato al benessere in tutte le fasi della vita e attento alle differenze di genere. Contestualmente, rafforza il ruolo delle azioni centrali come supporto all’integrazione tra i diversi livelli di governo e promuove l’intersettorialità nel contrasto alle disuguaglianze sociali e geografiche. Un aspetto cruciale riguarda il coinvolgimento attivo delle comunità fin dalla fase di pianificazione e il sostegno ai Piani regionali della prevenzione come strumenti di governance delle politiche territoriali. L’efficacia di questa strategia è testimoniata dal fatto che tutte le Regioni e le Province autonome hanno recepito i principi e la

visione del Pnp nei propri piani regionali. Complessivamente sono stati attivati quasi duemila programmi, pianificati e monitorati attraverso una piattaforma digitale nazionale.

Monitoraggio e prospettive future

Il Pnp dedica particolare attenzione al rafforzamento del sistema di programmazione, monitoraggio e valutazione al fine di dare piena attuazione ai livelli essenziali di assistenza di prevenzione collettiva e sanità pubblica. L’obiettivo è consolidare e innovare la rete delle azioni preventive in Italia che concorrono al raggiungimento degli obiettivi di salute.

Guardando al futuro, il nuovo Pnp 2026-2031 si troverà ad operare in un contesto in profonda evoluzione, caratterizzato dall’attuazione della riforma dell’assistenza territoriale, dalle innovazioni digitali e dal consolidamento della visione One health secondo il principio della “salute in tutte le politiche”.

Fonti: EpiCentro - Istituto superiore di sanità, Ministero della salute

PREVENZIONE e preparedness

Una conversazione con Giuseppe Ippolito

Capacità di governance, comunicazione e ricerca: ecco cosa serve davvero per affrontare una pandemia, secondo Giuseppe Ippolito.

Quali criticità sono emerse nella gestione dell’emergenza pandemica in Italia?

La risposta a un evento inatteso come una pandemia causata da un virus assolutamente nuovo deve necessariamente prevedere molte attività. A iniziare dalla disponibilità di farmaci specifici e vaccini, entrambi allora inesistenti, oltre a una capacità diagnostica su un virus fino ad allora sconosciuto e una solida base di ricerca sui coronavirus. Nella prima fase dell’epidemia mancavano adeguati strumenti diagnostici e le Regioni più colpite – come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – hanno resistito solo grazie alla loro organizzazione preesistente.

Le criticità che hanno caratterizzato i mesi e gli anni della pandemia in Italia sono di varia natura. Il primo problema è che il nostro Paese conta venti sistemi sanitari regionali, con venti modelli organizzativi diversi. Questo ha reso molto difficile gestire una reale catena di comando. Durante la pandemia di covid-19 si è cercato di ricostituirla nominando un commissario e affidandosi alla logistica della Protezione civile. Ma la verità è che le Regioni si sono mosse in modo disomogeneo. Un’altra questione riguarda la capacità di produrre farmaci e vaccini. Su questi ultimi, durante la pandemia, l’Italia ha effettuato un importante investimento attraverso l’istituzione del Centro nazionale antipandemico a Siena con un ruolo di ricerca, diverso dalla gestione operativa dell’emergenza che invece è più vicina al modello della Protezione civile.

Cosa ha evidenziato la pandemia sulle disuguaglianze nel Servizio sanitario nazionale?

Giuseppe Ippolito, già direttore generale per la ricerca e l’innovazione in sanità del Ministero della salute. Per più di vent’anni, è stato direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani di Roma e per dodici anni direttore del Centro collaboratore dell’Organizzazione mondiale della sanità per le malattie altamente contagiose.

La pandemia ha mostrato chiaramente che non esiste un’uniformità organizzativa tra le Regioni, ma questo è un fatto storico che il covid ha solo aggravato. Lo dimostra lo spaventoso livello di migrazione sanitaria da Sud a Nord alla ricerca di interventi sanitari. Come non citare un aspetto molto doloroso: un bambino che nasce al Sud – soprattutto se figlio di persone arrivate in Italia da altre nazioni – ha una probabilità di ammalarsi e di morire nel corso dell’infanzia assai più alta rispetto al resto del Paese.

Esistono diverse Italie, con diversi servizi e diritti di cittadinanza.

Sebbene se ne discuta da decenni, soprattutto nelle campagne elettorali, non si è trovata una soluzione. È come se i cittadini vivessero in due Italie con servizi, livelli socioeconomici e diritti diversi. A nulla sono serviti programmi che prevedevano che la gran parte dei finanziamenti andassero al Sud.

L’emergenza ha anche messo in luce carenze strutturali nel sistema ospedaliero?

Sì. Come già nel 2018 affermava l’inascoltato Bill Gates1, “nel mondo reale, tuttavia, l’infrastruttura sanitaria di cui disponiamo in condizioni normali collassa rapidamente durante una epidemia di vaste proporzioni”. Ma anche in Paesi occidentali “la capacità di risposta a una pandemia o a un attacco bioterroristico si rivelerebbe insufficiente”.

Un esempio emblematico è la gestione dei respiratori durante il covid. L’Italia è riuscita, grazie alla gestione commissariale, ad aumentarne rapidamente la disponibilità. Ma ha evidenziato una grande disparità di partenza tra Regioni e strutture. Per esempio in Lombardia, dove quasi la metà dei respiratori si trovava in strutture private, l’assessore alla sanità decise giustamente di utilizzarli tutti a fini pubblici per affrontare l’emergenza.

Come si affronta la riforma del Servizio sanitario nazionale in un contesto di crisi?

Tutti pensano di avere la soluzione e magari “in 10 punti”, ma rivedere il Servizio sanitario nazionale è un’impresa non facile. Bisogna partire dai bisogni reali dei cittadini e non da quelli delle organizzazioni e delle corporazioni che, purtroppo, hanno più voce e capacità per presentare e far approvare le istanze di proprio interesse. È necessario riorganizzare e ridare forza all’epidemiologia valutativa: capire dove insorgono le malattie, quali interventi di prevenzione sono attuabili e quali vengono realmente applicati, qual è la tempestività diagnostica e l’accesso ai servizi sanitari, come vengono gestite le malattie, quali sono gli esiti a breve e lungo termine. Purtroppo negli ultimi dieci anni si è investito molto di più in ricerca di base che non in ricerca sanitaria che potrebbe avere un impatto diretto sullo stato di salute della popolazione.

Inoltre, dalla legge 833 del 1978 ad oggi si è assistito a un profondo cambiamento nell’erogazione di prestazioni con una progressiva crescita del privato in sanità e un grave sottofinanziamento del Servizio sanitario nazionale, incapace di far fronte all’incremento dei costi e alla evoluzione di tecnologie diagnostiche e presidi terapeutici.

Quali sono i rischi dell’attuale sistema sanitario misto pubblico-privato?

Il sottofinanziamento del sistema pubblico genera un vantaggio competitivo per il privato, dove spesso sono gli stessi dipendenti pubblici a erogare prestazioni. Il cittadino che ha bisogno di una prestazione si sente dire: “Se vuole aspettare, aspetti; altrimenti, domani può farlo in intramoenia o in una clinica privata”. Questa dinamica rischia di indurre artificiosamente un bisogno, senza che il paziente possa valutare in maniera serena la reale urgenza e la dilazionabilità della prestazione – senza entrare nel merito dell’appropriatezza delle prestazioni sanitarie che comporta implicazioni etiche rilevanti. Il risultato è un sistema che accentua le disuguaglianze di accesso ai servizi sanitari, con gravi ricadute in termini di equità.

Quanto pesa la medicina difensiva?

Pesa moltissimo. C’è un clima di sfiducia generalizzata che indebolisce il rapporto medico-paziente e promuove sistematicamente azioni di rivalsa nei confronti di istituzioni e professionisti. Questo anche perché è cambiata la percezione sociale della malattia: tutto può essere curato ed è possibile fare un accertamento per qualsiasi cosa. D’altronde i media ogni giorno ci propinano, con la complicità di medici e ricercatori con scarso senso critico, notizie di scoperte fantasmagoriche per risolvere qualsiasi problema di salute e per poter essere sani e belli. Il dottor Google ha minato quel rapporto di fiducia tra il medico e il suo paziente. Bisogna tornare a una medicina che parte dall’anamnesi e la visita medica clinica. Non si può delegare tutto agli esami diagnostici. Come trent’anni fa diceva il professor Guzzanti, la medicina moderna è “touch, tech e teach”: toccare il malato, usare le tecnologie in maniera appropriata e insegnare la medicina. Ma soprattutto sono necessari controlli.

Il “MedMal Report 2025” di Marsh Italia, recentemente pubblicato, evidenzia che meno del 40 per cento dei sinistri analizzati è relativo a pratiche concluse con liquidazione di un importo al danneggiato, sul totale degli eventi denunciati. Questo non significa che il problema non esiste, ma che si è sviluppato un mercato delle denunce a medici e strutture sanitarie. Lo dico per esperienza personale: nove anni fa, dopo un incidente, ho ricevuto decine di telefonate da studi legali che si offrivano, senza chiedere alcun compenso, di denunciare a mio nome l’ospedale.

La comunicazione durante le emergenze è stata efficace?

Sicuramente no, in nessun Paese del mondo; e la pandemia lo ha dimostrato. A marzo 2025, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha istituito a Oslo un centro collaboratore per la comunicazione nelle pandemie. Serve un linguaggio istituzionale coerente e unitario, che non contraddica i medici e che non metta in difficoltà il rapporto con i pazienti.

La comunicazione istituzionale dev’essere coerente, unitaria, e non deve mettere in difficoltà la relazione tra il medico e il paziente.

La comunicazione istituzionale è una delle misure più importanti, soprattutto quando si adottano provvedimenti impopolari o restrittivi delle libertà individuali. Chiudere tutto, come l’Italia fece per prima, seguita a ruota da altri Paesi, fu una decisione sicuramente appropriata ma anche coraggiosa proprio perché impopolare.

Si può immaginare una “sanità pubblica personalizzata”?

È una provocazione interessante. La sanità pubblica è finalizzata al benessere della popolazione nel suo complesso e deve essere basata su evidenze scientifiche e sulla possibilità che misure e interventi vengano applicati in maniera tempestiva e sistematica sull’intero territorio nazionale. È evidente che tali misure possono essere declinate in maniera diversa in relazione all’età, alle condizioni morbose preesistenti e al livello di esposizione. Quindi “personalizzata” non significa “fai da te”. Durante la pandemia si è detto che i bambini sono stati penalizzati, che le scuole sono rimaste chiuse troppo a lungo. In aree ad alta densità di popolazione come la bergamasca, dove i nonni vivono con i nipoti, riaprire le scuole avrebbe potuto aumentare i contagi tra le fasce più vulnerabili. Sul tema si è discusso molto: furono istituiti comitati specifici per decidere gli interventi da adottare nelle scuole, come anche per l’ergonomia dei banchi e l’aerazione delle classi. Ma ancora oggi il dibattito è aperto.

Cosa pensa della gestione della pandemia negli Stati Uniti?

All’inizio della pandemia e per diversi mesi il presidente Trump minimizzò la pericolosità del virus, nonostante gli avvertimenti dei Centers for diseases control and prevention e del National institute for allergy and infectious diseases, guidato all’epoca dal dottor Anthony Fauci, che sono le più importanti istituzioni del mondo in tema di sorveglianza, controllo e ricerca sulle infezioni. Fu l’inizio di un clima di sfiducia verso

le competenze dei ricercatori e degli scienziati. Trump smentiva le sue stesse agenzie federali per la salute pubblica: negava l’efficacia delle mascherine, si faceva paladino della riapertura delle scuole, sponsorizzava il superamento del lockdown per contenere i danni economici e confidava nel rapido sviluppo di un vaccino. Questa fiducia assoluta nel vaccino come unica soluzione possibile riportava alla mente la nomina nel 2017 da parte dello stesso Trump di Robert Kennedy Jr, un antivaccinista convinto, come presidente di una commissione sulla sicurezza dei vaccini. Nonostante tutto, le agenzie federali continuarono egregiamente il loro lavoro applicando il principio di massima precauzione, modificando raccomandazioni e linee guida al variare delle conoscenze (come quelle sull’uso delle mascherine), esattamente come era stato fatto per ebola. Ciò dimostrava la complessità di una gestione di una pandemia in assenza di conoscenze consolidate.

Parallelamente, Trump accusava la Cina di essere responsabile dell’epidemia e avviava una crociata contro l’Oms, ma già a febbraio istituiva presso la Casa Bianca un gruppo di risposta al covid-19, composto dai migliori scienziati del settore, a partire da Anthony Fauci.

Conviene però ricordare il contesto temporale in cui gli eventi si svolgevano. Il 26 marzo 2020, gli Stati Uniti erano il Paese con il maggior numero di casi confermati al mondo: oltre 80.000 contagi e più di 1.000 decessi, un numero superiore a quello segnalato in Cina, Italia o qualsiasi altro Paese. Il gruppo di risposta rapida lanciò, con l’approvazione del presidente Trump, l’iniziativa “Operation Warp Speed” per promuovere lo sviluppo e la produzione di milioni di dosi di vaccino entro la fine dell’anno. Il 27 maggio i morti per covid superarono i 100.000, e il 3 agosto i 150.000. Trump sembrava rassegnato al bilancio delle vittime, dichiarando in un’intervista ad Axios diventata famosa: “It is what it is” (È quello che è). All’inizio di ottobre Trump, che nel frattempo ammise con il Washington Post di aver intenzionalmente minimizzato il rischio mortale della pandemia da coronavirus per evitare il panico, contrasse il virus, fu ricoverato all’ospedale militare Walter Reed e ricevette farmaci sperimentali finanziati proprio con il programma Warp Speed.

Nonostante le polemiche, va riconosciuto che l’amministrazione Trump autorizzò investimenti ingenti –oltre 10 miliardi di dollari, una cifra senza precedenti a livello mondiale – per la ricerca e produzione di vaccini entro la fine del 2020. L’obiettivo fu raggiunto con l’approvazione, da parte della Food and drug administration, del primo vaccino a mRna l’11 dicembre 2020.

Qual è oggi la situazione della ricerca negli Stati Uniti?

Gli Stati Uniti hanno una capacità di ricerca in ambito biomedico unica al mondo e un’indiscussa leadership scientifica internazionale. È innegabile che miracoli come quello del vaccino contro il covid abbiano beneficiato delle capacità di ricerca di quel Paese. Se oggi l’Oms Europa può calcolare che la vaccinazione contro il covid ha salvato direttamente oltre 1,6 milioni di vite, tra dicembre 2020 e marzo 2023, in persone di età pari o superiore a 25 anni, dobbiamo anche essere grati agli Stati Uniti.

Oggi, purtroppo, stiamo assistendo a una pericolosa contrazione dei finanziamenti federali: si parte dai progetti su diversità, equità e inclusione, per arrivare ai tagli ai finanziamenti a università ed enti di ricerca per decine di miliardi di dollari, pari a circa un quarto/ un terzo rispetto all’anno precedente e mediamente a oltre la metà di quanto erogato nei dieci anni precedenti. I tagli rischiano di compromettere anche la circolazione internazionale di ricercatori e competenze. L’Italia, dopo Israele, è tra i Paesi che più hanno esportato ricercatori, contribuendo alla crescita complessiva delle conoscenze scientifiche.

Un esempio emblematico è la recente cancellazione di contratti per lo sviluppo di vaccini a mRna che sono promettenti come piattaforma non solo per affrontare future pandemie, ma anche per la realizzazione di vaccini contro il cancro. Tutto questo con l’obiettivo dichiarato di contenere la spesa e quello non dichiarato del desiderio della politica di orientare la ricerca, che per sua natura deve essere libera. Ne sono prova le raccomandazioni della Veterans administration di non pubblicare su riviste scientifiche né di fare presentazioni a congressi senza prima aver ottenuto una preventiva autorizzazione dai rappresentanti all’uopo designati dal presidente.

La ricerca deve diventare più mirata, applicabile, valutata ex-ante per il possibile impatto sulla conoscenza e sulla salute.

Viene affermato che con questo intervento si recupererà “integrità della ricerca”, ma l’integrità si invoca da anni senza che si riescano a mettere in campo interventi efficaci. Un fatto è certo: la ricerca deve diventare più mirata, applicabile, valutata ex-ante per il possibile impatto sulla conoscenza e sulla salute ed expost sul reale raggiungimento degli obiettivi previsti. Dieci anni fa una Lancet Commission già diceva che bisognava fare ricerca calata nella realtà. L’obiettivo è nobile e vale negli Stati Uniti così come da noi.

Qual è la situazione della ricerca in Italia?

L’investimento in ricerca è basso: meno del 2 per cento del prodotto interno lordo tra pubblico e privato, e l’investimento in ricerca biomedica corrisponde al 2,2 per cento della spesa sanitaria.

Negli ultimi cinque anni una grande quantità di risorse pubbliche è stata resa disponibile per la ricerca in ambito biomedico a partire dal Pnrr e dai fondi di coesione, e si è andata ad aggiungere ai flussi di finanziamento ordinariamente gestiti dai singoli ministeri e alla quota per la ricerca biomedica dei programmi europei. Si tratta di un’occasione unica per la ricerca biomedica italiana e non bisogna correre il rischio di sprecarla; è necessario che vengano adottati strumenti idonei per la valutazione dell’impatto della ricerca. Manca un vero coordinamento tra i diversi erogatori dei finanziamenti. In alcuni casi, non così rari, i ricercatori ricevono finanziamenti da organismi diversi, sia pubblici sia privati, dal momento che manca una vera mappatura di progetti, reti e accordi di programma. Soprattutto nei momenti di crisi economica, serve ottimizzare le risorse, evitare gli sprechi e fare in modo che la ricerca risponda subito ai reali bisogni di conoscenza e di salute di milioni di pazienti. Bisogna ridurre la quantità della ricerca che duplica altre ricerche già realizzate o con risultati a priori non utilizzabili.

Ma questo discorso ci porterebbe molto lontano.

A cura della redazione

1. Gates B. The next outbreak? We’re not ready. Ted Talks 2018.

Tutti ne parlano o tornano a parlarne. MA COS’È LA PREVENZIONE?

Il concetto di prevenzione, in questi ultimi cinquant’anni, è almeno in certa misura cambiato. Oggi si parla di prevenzione a proposito di attività e iniziative di politica sanitaria che un tempo non sarebbero state riconosciute come strategie di medicina preventiva. Pensiamo, per esempio, alla diagnosi precoce di alcune malattie.

Sì, in parte è cambiato, ma innanzitutto va tenuto presente che la percezione di questo cambiamento può essere diversa in ambito professionale e nell’ambito dell’informazione che circola tra i cittadini. Una prima ragione che spinge verso l’assimilazione del concetto di prevenzione in quello di diagnosi precoce, e viceversa, è che 50 o 60 anni fa non esistevano alcuni programmi di diagnosi precoce i quali, organizzati come veri e propri programmi di sanità pubblica a livello di popolazione, si sono rivelati benefici prima di tutto in termini di riduzione della mortalità: primo fra tutti il programma di screening per i tumori della mammella. L’insorgenza della malattia non viene prevenuta, il tumore si sviluppa ma viene intercettato a uno stadio precoce e la mortalità – questa sì – viene in buona misura, variabile tra popolazioni, prevenuta. Una seconda ragione, che può sembrare futile ma non lo è, perché le parole circolano e pesano, sta nell’uso consacrato dal tempo, in ambito professionale, di chiamare “prevenzione secondaria” la diagnosi precoce (per distinguerla da altri tipi di prevenzione, in particolare da quella primaria, la “vera prevenzione”, che si indirizza alla rimozione e al controllo dei fattori causali delle malattie).

Una terza ragione, di gran lunga la più rilevante e che ci porta al cuore della questione del separare o fondere diagnostica precoce e prevenzione, è molto ben chiarita da un recente articolo1 dei collaboratori della “Helmholtz task force to strengthen prevention research”, iniziativa della “Helmholtz Health”, una collaborazione di sei grandi centri di ricerca in Germania, dotata di un budget annuale di 5 miliardi di euro. Non c’è di meglio che citare letteralmente gli autori: “La prevenzione e la diagnostica precoce delle malattie sono intrinsecamente legate e si rinforzano a vicenda. Per esempio, per patologie autoimmuni come il diabete di tipo 1 e la celiachia, i programmi nazionali di screening

per stadi precoci permettono l’introduzione di terapie modificatrici e misure preventive”.

Questa impostazione mi richiama quanto leggevo nei libri durante i miei ben lontani anni nella Facoltà di Medicina: in alcuni c’erano, nella descrizione di una malattia, due prime sezioni intitolate rispettivamente “Eziologia” e “Patogenesi”; in altri, ce n’era una sola intitolata “Eziopatogenesi”, a sottolineare, come nell’articolo citato, la continuità del legame tra l’agente patogeno – sia esso interno, come un gene mutato, o esterno, come un batterio o un cancerogeno – e le tappe di sviluppo del processo patologico fino al suo manifestarsi clinicamente.

Può sembrare un antiquato cavillo cercare di tenere separate la prevenzione e la diagnostica precoce. Personalmente, non credo si tratti di un cavillo.

Rodolfo Saracci è stato presidente della International epidemiological association. Ha diretto l’unità di Epidemiologia analitica dell’International agency for research on cancer di Lione.

Di fatto, questa seconda prospettiva vede oggi massivamente impegnati, in ogni paese, un gran numero di ricercatori e risorse, intese non solo ad aumentare le conoscenze sulla patogenesi delle malattie per permettere di modificarla terapeuticamente a qualche stadio, ma anche a identificare stadi e relativi rimedi il più precoci possibile, il più vicini al momento in cui i fattori causali cominciano ad agire.

Ogni giorno, pubblicazioni presentano dati su marcatori biologici di vario tipo e per le malattie più diverse, che appaiono come candidati a divenire, se validati, strumenti per la diagnosi precoce.

Di fronte a questa realtà, che produce – in ogni caso e quali ne siano i risultati ultimi – una enorme espansione delle conoscenze sulle malattie, può sembrare un antiquato cavillo cercare di tenere separate la prevenzione e la diagnostica precoce. Personalmente, non credo si tratti di un cavillo.

Nel settore della prevenzione cardiovascolare, già da molti decenni,

SPESA PER LA PREVENZIONE SANITARIA COME QUOTA DELLA

SPESA CORRENTE PER L’ASSISTENZA SANITARIA, 2022

Nel 2022 la spesa per la prevenzione nell’Unione europea ha rappresentato il 5,5% della spesa sanitaria totale, in calo rispetto al 6,1% del 2021 ma ancora sopra i livelli pre-pandemia (2,9% nel 2019). I valori più alti si registrano in Germania (7,9%), Austria (7,4%) e Finlandia (6,4%), i più bassi a Malta (1,2%), Polonia (1,9%) e Slovacchia (2,0%); l’Italia si colloca leggermente sopra la media europea con il 5,8%. Fonte: Eurostat.

conversazione con Rodolfo Saracci

accanto a patogeni esterni come il fumo di tabacco, si erano identificati marcatori interni di rischio come ipercolesterolemia e ipertensione (in realtà non sono marcatori, ma fattori di rischio), e si è sentita la necessità di distinguere i primi – fumo, dieta, occupazione, ecc. – riservando al loro controllo il termine “prevenzione primordiale”; mentre per i fattori interni si riteneva di usare il termine “prevenzione primaria”, come nel caso delle sindromi coronariche acute. Credo si tratti di una distinzione di portata generale per tutte le patologie, e tutt’altro che cavillosa, perché i mezzi di prevenzione primordiale – operanti su abitudini di vita, comportamenti, condizioni dell’ambiente materiale e sociale –sono fondamentalmente differenti da quelli operanti terapeuticamente nell’organismo, se possibile a stadi precoci. Peraltro, so che non tutti gli epidemiologi condividono questo modo di vedere le cose.

I mezzi di prevenzione primordiale – operanti su abitudini di vita, comportamenti, condizioni dell’ambiente materiale e sociale – sono fondamentalmente differenti da quelli operanti terapeuticamente nell’organismo, se possibile a stadi precoci.

In un piccolo e importante libro – “Etica della salute” –Giovanni Berlinguer sosteneva che fosse molto miope pensare che la prevenzione fosse un modo per risparmiare; fare attività di prevenzione a livello sociosanitario vuol dire incidere anche sul sistema economico, mettere in discussione modelli di sviluppo che non giovano alla salute. Credi che anche oggi, nonostante i costi della sanità siano esplosi rispetto ad alcuni decenni or sono, è ancora miope pensare che la prevenzione possa far risparmiare?

No, credo che non sia diverso da allora. Anzi, penso che l’argomento economico, che nella sua forma generalizzata si sente riecheggiare in dichiarazioni politiche (e di politici) del tipo: “La prevenzione è essenziale per la sostenibilità del sistema sanitario”, sia fasullo.

Per cominciare, occorre vedere come si inquadra il problema dal punto di vista economico e delle assunzioni che si fanno. E poi, non si tratta di un problema unico, perché non esiste LA prevenzione universale di tutte le malattie: esistono i problemi di prevenzione di malattie singole o di aggregati (clusters) più o meno estesi di malattie.

Val la pena di ricordare l’inquadramento paradossale, presentato ironicamente in passato, del problema della prevenzione delle patologie legate al fumo di tabacco: dato che queste si manifestano prevalentemente in età avanzata e spesso – parecchio più in passato che oggi –in forme ad alta mortalità a breve termine, la prevenzione più redditizia per la comunità sarebbe stata quella di uno scenario in cui le abitudini di fumo erano calibrate per dose e durata, così da produrre forte mortalità con brevi decorsi morbosi subito dopo i sessantacinque anni. Si risparmiavano sia le spese ospedaliere, sia anni e anni di pensione.

Fondamentale è il fatto che le misure di prevenzione si situano solo in parte – e spesso non preponderante – all’interno dei servizi sanitari, e richiedono quindi costi a carico di altri settori di intervento: dall’edilizia urbana alla composizione degli alimenti, dalla riduzione degli inquinanti atmosferici alla configurazione degli ambienti di lavoro. Se ci si restringe al settore sanitario, l’unica affermazione generale che mi sembra legittima è che la prevenzione può – ma non è detto – ridurre i costi e favorire la “sostenibilità”. Dipende in primo luogo dalle patologie prevalenti nella popolazione. Ma se nello stesso tempo si sviluppa la formula “prevenzione = diagnostica precoce”, con mezzi sempre più sofisticati di diagnosi il più possibile precoce e individualizzata di ogni singola patologia, è altamente probabile che i costi si dilatino invece che ridursi.

Un discorso serio sulla, chiamiamola così, “economicità” della prevenzione deve considerare l’insieme dei costi e dei benefici, non solo quelli pertinenti alla salute in senso stretto e ai servizi sanitari in senso ancora più stretto. Se l’argomento economico può dare risposte varia-

bili a favore o contro la prevenzione, c’è invece un elemento che gioca sicuramente a suo favore: con le parole di Geoffrey Rose: “Essere sani è meglio che essere malati o morti. Questo è l’inizio e la fine del solo argomento reale per la medicina preventiva. Ed è sufficiente”2-3. Sono completamente d’accordo, e credo che questa affermazione lapidaria di Rose del 1992 chiarisca che andare verso la prevenzione è primariamente una scelta politica, non economica. Se è veramente una priorità, la si fa: si spostano risorse su di essa. Che si possa fare lo vediamo platealmente in questo tempo: d’un colpo, su basi politiche che non entro a discutere, la spesa del settore militare deve passare dall’1,5 per cento del pil al 2 per cento, e poi al 5 per cento, quali che siano le analisi economiche, se sono state fatte.

Andare verso la prevenzione è primariamente una scelta politica, non economica. Se è veramente una priorità, la si fa: si spostano risorse su di essa.

A proposito Geoffrey Rose, è ancora attuale, alla luce di tutta la ricerca che c’è stata negli ultimi trent’anni, la necessità di affrontare i problemi di salute pubblica considerando l’insieme della popolazione e non indirizzando gli interventi di prevenzione solo verso chi è a maggior rischio?

Rose aveva – e ha – ragione sul principio di quello che io chiamo “l’effetto popolazione”: la nostra salute è interdipendente da quella degli altri. Nelle malattie trasmissibili – lo abbiamo visto con la pandemia di covid-19 – questo è del tutto evidente.

Ma anche nelle malattie non comunicabili, se le strategie di medicina preventiva si concentrano solo sulle persone ad alto rischio, non si elimina il problema a livello della popolazione, perché la massa dei casi – ad esempio di infarto del miocardio – proviene da persone a rischio medio o medio-basso. E saranno questi casi, e non quelli delle persone ad alto rischio, a poter fruire in prevalenza dei posti disponibili nelle unità di terapia intensiva (a meno che questi siano in largo eccesso sulla domanda, così da evitare ogni “competizione” per l’accesso).

Detto questo, occorre qualificare la strategia di prevenzione sull’insieme della popolazione tenendo conto di altri due elementi. Primo, intervenire su tutta la popolazione significa, ad esempio, cercare di abbassare la pressione diastolica di 10 mmHg per tutti i componenti della popolazione, spostando uniformemente la media della pressione da 135 mmHg a 125 mmHg, e i valori minimi e massimi rispettivamente da 90 a 80 e da 180 a 170. Occorre però assicurarsi che il cambiamento possa essere uniforme, e che – per effetto non voluto del tipo di intervento (dieta, farmaci, ecc.) o del modo in cui viene realizzato (accettazione da parte delle persone) – non si verifichi un cambiamento nella forma della distribuzione dei valori pressori, ad esempio con un allargamento dell’intervallo tra valori minimi e massimi osservabili nella popolazione. Secondo, la popolazione non è un insieme omogeneo, con l’unica differenza rappresentata dai soggetti ad alto rischio. All’interno della popolazione esistono stratificazioni di vario genere, alcune delle quali – in particolare quelle socioeconomiche – sono caratterizzate da importanti differenze nella frequenza e nell’aggregazione “sindemica” di malattie diverse: questo rende il quadro più complesso del semplice contrasto “alto rischio versus popolazione”.

Permane tuttavia, come guida nell’analisi delle strategie di prevenzione e come parte essenziale dell’eredità di Rose, il principio che la salute di ognuno di noi dipende dalla salute degli altri.

A cura di Laura Tonon

1. Zeggini E, Mons U. Helmholtz task force to strengthen prevention research and its translation globally. Nat Med 2025;31:1386-87.

2. Rose G. The strategy ot preventive medicine. Oxford, New York: Oxford University Press, 1992.

3. Giampaoli S, Vannucchi S. Geoffrey Rose e la strategia della medicina preventiva. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2012.

Intervista a Marina Davoli

Marina Davoli

ha diretto fino

alla fine del 2024 il Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio, Asl Roma

1. Da gennaio del 2025 è presidente dell’Associazione

Alessandro Liberati – Cochrane affiliate centre.

SIAMO SICURI

DI PARLARE DI PREVENZIONE?

Cosa si intende con il termine prevenzione?

La parola prevenzione interessa diversi ambiti, non solo quello sanitario, che non è neppure il più rilevante. La prevenzione si fa nell’urbanistica costruendo città a misura di bambini e bambine; si fa nel lavoro garantendo un impiego a tutti e una condizione sociale minima; si fa nell’istruzione garantendo una buona educazione e facendo cultura. E in ambito sanitario, quindi, con la parola prevenzione si dovrebbe intendere qualsiasi intervento messo in atto per ridurre o evitare l’insorgenza di una malattia. Negli ultimi anni, invece, solo in sanità, alla parola prevenzione è stata aggiunta una serie di aggettivi finendo per parlare di prevenzione primaria, secondaria e terziaria. In questo modo, però, il significato originario di questa parola è stato svuotato. La prevenzione secondaria fa anticipazione diagnostica, presupponendo che a una diagnosi precoce si associ la possibilità di trattare quella determinata condizione migliorando la prognosi in termini di mortalità. La prevenzione terziaria consiste addirittura nel trattamento di una patologia già insorta.

Qual è il rischio di utilizzare il termine prevenzione in modo improprio?

Il rischio è che utilizzando una parola come prevenzione per diagnostica e trattamenti si possa dare automaticamente un valore positivo anche a qualcosa che invece potrebbe avere degli effetti negativi. Qualsiasi intervento può avere effetti positivi o negativi, e per determinarli vanno condotti degli studi. Dobbiamo dimostrare che l’intervento su una persona sana per ridurre l’esposizione a fattori di rischio o per diagnosticare precocemente una malattia produce un risultato positivo per la sua salute. L’epidemiologia fa anche questo: lavora sulla valutazione dell’efficacia e della sicurezza, per esempio dei programmi di screening. Bisogna provare che la mortalità delle persone che accedono ai programmi di screening sia più bassa di quella delle persone che non vi accedono. Occorre anche prestare attenzione a potenziali bias. Il principale bias di tutti i programmi di screening di anticipazione diagnostica è il cosiddetto “lead time bias”: se viene anticipata la diagnosi la sopravvivenza aumenta, ma attenzione perché poi non diminuisce necessariamente la mortalità totale e possono esserci invece effetti negativi, come maggior esposizione ad accertamenti più o meno invasivi o stress legato alla conoscenza di essere malati.

Quanto si investe in ricerca valutativa negli ambiti della prevenzione primaria e di screening rispetto ai farmaci?

Al Dipartimento di epidemiologia abbiamo analizzato quanti studi controllati randomizzati sono stati pubblicati negli ultimi quindici anni, dal 2010 al 2025, su diagnosi precoce, prevenzione e farmaci (ringrazio Suzana Mitrova e Rosella Saulle per questo). I numeri sono impressionanti: solo in ambito oncologico, a fronte di circa 30.000 studi controllati randomizzati sui farmaci, ne sono stati pubblicati circa 3500 sulla diagnosi precoce e 430 sulla prevenzione primaria; analogamente, le revisioni sistematiche sui farmaci sono 4500, contro le 2340 sulla diagnosi precoce e le 230 sulla prevenzione primaria. Due studi in particolare meritano attenzione. Il primo è una systematic mapping review di un gruppo collaborativo inglese, pubblicata su BMC cancer nel 2023, che ha rapportato la proporzione di trial in ambito Sped (screening/prevention/early diagnosis) oncologico dal 2007 al 2020 al burden of disease delle diverse sedi di tumore: il 62 per cento degli studi riguardava tumori della mammella, colon e cervice uterina, il 6,4 per cento tumori del polmone e l’1,8 per cento tumori epatici; gli ultimi due rappresentano il 26,3 per cento della mortalità rispetto al 19,3 per cento dei primi tre, ma gli studi sull’efficacia di queste procedure sono pochi perché sono studi che necessitano di grandi investimenti. Nonostante questo – anche a causa del proliferare di assicurazioni private che forniscono check-up annuali e coperture economiche per indagini cosiddette di prevenzione – continuiamo ad assistere a una grande offerta di interventi di diagnosi precoce anche per condizioni per le quali non esistono prove di efficacia; e questo riguarda non solo l’oncologia ma anche le patologie cardiovascolari e neurodegenerative. Il secondo studio è un’analisi bibliometrica cinese, pubblicata nel 2025 su Oncology Research, che conferma la grossa sproporzione tra studi in ambito farmacologico e quelli di screening e prevenzione. Lo studio evidenzia come negli ultimi anni predominino ricerche su targeted therapy, immunoterapia e sviluppo di nuovi farmaci antitumorali, oltre a trial che coinvolgono l’intelligenza artificiale, con tumori della mammella e del polmone maggiormente rappresentati. Questo conferma, ancora una volta, lo scarso interesse a investire nella ricerca sulla prevenzione.

A cura di Rebecca De Fiore

Tra il 2007 e il 2020 la maggior parte degli studi su screening, prevenzione e diagnosi precoce del cancro si è concentrata su tre tumori con programmi di screening consolidati: colon-retto, mammella e cervice. Il confronto con i dati del “Global cancer observatory 2020” rivela forti squilibri: per esempio, gli studi sul cancro della cervice sono cinque volte superiori alla sua incidenza e mortalità, mentre quelli sul colon-retto sono circa tre volte superiori. Al contrario, tumori ad alta mortalità, come polmone e fegato, risultano gravemente sottorappresentati. Fonte: O’Dowd, et al. BMC Cancer 2023;23:820.

ONE HEALTH la prevenzione al centro

La pandemia di covid-19 e il crescente numero di emergenze sanitarie di origine ambientale e zoonotica hanno messo in luce la stretta interconnessione tra malattie infettive emergenti e diffusione delle patologie croniche non trasmissibili. Il degrado e l’inquinamento ambientale, i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità non sono solo problemi ecologici: rappresentano determinanti diretti e indiretti della salute pubblica. Questo scenario richiama con forza la necessità di un approccio sistemico e integrato, come quello proposto dal paradigma One health, che considera congiuntamente salute umana, salute animale e tutela degli ecosistemi. Un approccio globale e intersettoriale alla prevenzione è la strategia più efficace per contrastare l’impatto di future emergenze sanitarie, ridurre l’incidenza delle malattie croniche e, al contempo, contrastare le disuguaglianze sanitarie, sociali ed economiche.

Quadro nazionale ambiente e salute: a che punto siamo?

Nel luglio 2021 l’Italia ha approvato il Piano nazionale per gli investimenti complementari al Pnrr (Pnc), che si collega all’istituzione del Sistema nazionale per la prevenzione della salute dai rischi ambientali e climatici (Snps) per coordinare e rafforzare le politiche del Servizio sanitario nazionale (Ssn) in materia di prevenzione, controllo e cura delle malattie legate a fattori ambientali e climatici, in sinergia con il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa).

Nello specifico il programma E.1 “Salute, ambiente, biodiversità e clima” del Pnc mira a ridefinire obiettivi, competenze e requisiti tecnico-scientifici delle strutture sanitarie responsabili della valutazione, prevenzione e controllo dei rischi ambientali e climatici. L’obiettivo è rafforzare e rendere più omogenei gli interventi di prevenzione primaria e le risposte ai bisogni di salute, anche in contesti ambientali complessi e critici. Il programma promuove la cooperazione tra settori sanitario, ambientale, veterinario e scientifico secondo l’approccio One health prevedendo il rafforzamento delle strutture Snps e Snpa, lo sviluppo di modelli integrati salute-ambiente-clima nei siti contaminati di interesse nazionale, la formazione continua degli operatori del Ssn, la promozione della ricerca applicata multidisciplinare e la realizzazione di una piattaforma digitale nazionale Snpa-Snps.

Glossario

Snps (Sistema nazionale di prevenzione della salute) e Snpa (Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente) operano in modo integrato: il primo individua e valuta i rischi ambientali e climatici per la salute, il secondo – tramite Ispra e Arpa regionali – monitora e controlla l’ambiente. Questa integrazione, formalizzata per legge per superare la frammentazione del Ssn, assicura risposte coordinate nella tutela della salute pubblica dai determinanti ambientali e fornisce supporto scientifico alle politiche di prevenzione. I lepta (livelli essenziali delle prestazioni tecniche ambientali) stabiliscono gli standard minimi nazionali per le attività Snpa, in coerenza con i lea (livelli essenziali di assistenza sanitaria).

Governance, integrazione e prospettive future

L’integrazione tra Snps e Snpa richiede un’evoluzione del Ssn verso una collaborazione stabile con le agenzie ambientali, la sanità pubblica e il sistema della ricerca, per rendere pienamente operativo l’approccio One health. Tuttavia, permangono tre nodi critici: 1. l’eterogeneità dei modelli organizzativi regionali in assenza di standard operativi condivisi; 2. la separazione tra attività di prevenzione e assistenza sanitaria, che rischia di marginalizzare la prevenzione nelle priorità di programmazione; 3. la difficoltà del Ssn nell’adottare un approccio autenticamente multidisciplinare e intersettoriale, necessario per valorizzare le sinergie e per integrare in modo efficace le diverse competenze necessarie.

In questo scenario, un punto di partenza concreto è rappresentato dall’epidemiologia ambientale quale ambito che ha già sperimentato con successo reti collaborative, integrazione di competenze e produzione di conoscenze utili alla programmazione e valutazione degli interventi. Più in generale, è dall’integrazione dei sistemi informativi sanitari e ambientali che passa la possibilità di stabilire, attraverso la condivisione dei dati, una comunicazione costante tra operatori e servizi. Anche su questo, però, permangono significative differenze regionali, nella disponibilità di dati e nelle regole di accesso, in parte a causa di interpretazioni restrittive del Regolamento Ue 2016/679 (Gdpr), che in alcune realtà impediscono del tutto lo svolgimento di studi epidemiologici e ricerche integrate. Quando, invece, il trattamento dei dati sanitari a fini epidemiologici è una funzione essenziale del Ssn e in particolare dello Snps per identificare i determinanti ambientali di salute, definire le priorità di intervento, valutarne l’impatto sanitario delle politiche e misurarne gli esiti.

Per garantire un sistema di prevenzione moderno ed equo, è indispensabile una governance chiara, trasparente e condivisa dei dati che rafforzi la collaborazione Snps-Snpa e il coordinamento tra sanità pubblica, ambiente e ricerca. Questo permetterebbe di armonizzare la programmazione garantendo coerenza tra lea e lepta, come previsto dalle norme istitutive del Snps, con l’obiettivo di proteggere la salute dei cittadini dalle sfide ambientali e climatiche attuali e future, promuovendo al contempo uno sviluppo sostenibile, in linea con la transizione verso un’economia verde e la trasformazione digitale. È necessario rafforzare le competenze sanitarie nelle politiche urbanistiche e infrastrutturali, dato l’impatto diretto di pianificazione territoriale, mobilità e localizzazione degli impianti sulla salute pubblica. Gli operatori di sanità pubblica devono poter intervenire con strumenti tecnici e giuridici nella valutazione di impatto sanitario, nella valutazione ambientale strategica e in quella ambientale, per supportare decisioni più informate. In questo quadro, rafforzare la prevenzione primaria e le politiche intersettoriali per ridurre i rischi alla fonte diventa una priorità strategica: monitorare e proteggere gli ecosistemi significa prevenire le malattie prima che si manifestino.

Il rilancio del Ssn richiede una strategia solida, fondata su un’attenta riflessione e sul sostegno congiunto della comunità scientifica e della società civile; tuttavia, come evidenzia l’epidemiologo Rodolfo Saracci1, “non è possibile che la salute sia un obiettivo trasversale in tutte le politiche e nell’approccio One health se per cominciare la prevenzione non è al centro del Ssn”.

1. Saracci R. Prevenzione e Servizio sanitario nazionale: un’integrazione da rifondare nel prossimo decennio. Epidemiol Prev 2021;45:140-1.

Carla Ancona, epidemiologa ambientale, past president dell’Associazione italiana di epidemiologia. Lavora presso il Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio – Asl Roma 1.

Lucia Bisceglia, epidemiologa, direttrice dell’Area epidemiologia e care intelligence dell’Agenzia regionale per la salute e il sociale della Puglia. È coordinatrice del Registro Tumori Puglia.

Salute, ambiente, biodiversità e clima nel Pnrr

L’approccio DI GENERE

Un pilastro fondamentale per politiche sanitarie eque ed efficaci

Gianluigi Ferrante, dirigente medico presso l’Aou Città della salute e della scienza di Torino. Coordinatore del Gruppo di lavoro “Prevenzione e promozione della salute” dell’Associazione italiana di epidemiologia.

Eliana Ferroni, dirigente medico presso il Servizio epidemiologico regionale e registri, Azienda Zero del Veneto, Padova. Si occupa di ricerca epidemiologica sulle malattie croniche, di farmacoepidemiologia, di salute e medicina di genere.

La medicina di genere opera in modo integrato, considerando sia le differenze biologiche (sesso) sia i costrutti sociali (genere) che influenzano salute e malattia. Tale approccio va oltre la cura, estendendosi alla prevenzione, alla promozione della salute e alla riorganizzazione dei servizi, con l’obiettivo di realizzare una sanità più equa e personalizzata.

L’Italia ha compiuto un passo avanti significativo in questo ambito con la legge 3 del gennaio 2018 che, all’articolo 3, promuove l’applicazione e la diffusione della medicina di genere nel Servizio sanitario nazionale (Ssn). Questa normativa ha portato all’istituzione di un Piano per l’applicazione e diffusione della medicina di genere e di un Osservatorio dedicato, con il compito di monitorare l’applicazione del Piano e di promuovere e indirizzare attività volte alla sua diffusione1. Tra gli obiettivi generali del Piano vi è quello di garantire la prevenzione, diagnosi e cura ad ogni persona, con un approccio che tenga conto delle differenze di genere, sottolineando la necessità di realizzare strategie di prevenzione e contrasto a fattori legati agli stili di vita (alimentazione non corretta, sedentarietà, sovrappeso/obesità, dipendenze, ecc.) in un’ottica di genere. Tali principi sono riportati anche nel Piano nazionale di prevenzione (Pnp) 2020-2025 (vedi p. 6), che integra l’approccio di genere come cambiamento culturale fondamentale, rendendo la valutazione delle variabili biologiche, ambientali e sociali una pratica ordinaria. L’obiettivo è duplice: migliorare l’appropriatezza degli interventi preventivi e rafforzare la centralità della persona2

Un aspetto fondamentale per l’implementazione delle politiche sanitarie orientate al genere è la disponibilità di dati aggiornati e disaggregati per sesso. Per questa ragione, oggi le Regioni sono invitate a produrre profili di salute che informino i programmi di prevenzione regionali, raccogliendo dati che permettano di valutare quantitativamente le differenze. L’applicazione concreta dell’approccio di genere nelle politiche sanitarie trova numerosi esempi in diversi ambiti della prevenzione e promozione della salute. L’esempio più emblematico viene dalla prevenzione cardiovascolare: i sintomi di infarto nelle donne sono spesso atipici, con il rischio di diagnosi tardive e trattamenti meno tempestivi; la formazione del personale sanitario e la comunicazione alla popolazione dovrebbero, quindi, tener conto di queste differenze3

L’integrazione sistematica della prospettiva di genere nella pianificazione sanitaria rappresenta un cambiamento culturale fondamentale per migliorare l’efficacia e l’appropriatezza dei servizi.

Anche nel campo degli screening oncologici, sono necessarie strategie di comunicazione e invito mirate. È il caso dei programmi di prevenzione secondaria per il tumore del colon-retto, ai quali gli uomini aderiscono meno, nonostante presentino un rischio maggiore rispetto alle donne4

Sul fronte della promozione di un corretto stile di vita, le evidenze scientifiche riportano come le donne pratichino meno attività fisica, soprattutto in età adulta, mentre gli uomini presentano tassi più elevati di sovrappeso, obesità e consumo di alcol, specie in età giovane. In entrambi i casi, si richiedono interventi su misura: da un lato, programmi che favoriscano l’accesso delle donne a spazi sicuri e orari compatibili con gli impegni familiari; dall’altro, campagne di sensibilizzazione per ridurre il binge drinking e promuovere abitudini alimentari sane tra gli uomini5

Anche la salute mentale beneficia di un approccio di genere: ansia e depressione sono più frequenti nelle donne, a fronte di tassi di suicidio significativamente più elevati negli uomini, spesso meno propensi a chiedere aiuto per ragioni culturali e di stigma. Servizi di supporto e iniziative di prevenzione devono, dunque, essere calibrati tenendo conto di questi pattern6

In tema di vaccinazioni, la copertura contro l’hpv mostra tuttora differenze di genere, con i ragazzi che accedono in misura minore alla vaccinazione rispetto alle ragazze, nonostante questa infezione sia la più frequente tra quelle trasmesse per via sessuale in entrambi i sessi7 L’integrazione sistematica della prospettiva di genere nella pianificazione sanitaria rappresenta un cambiamento culturale fondamentale per migliorare l’efficacia e l’appropriatezza dei servizi. Persistono, tuttavia, lacune informative dovute alla scarsità di dati sensibili al genere nei sistemi sanitari e alle limitate evidenze di efficacia, spesso difficilmente trasferibili tra diverse realtà regionali. Perfezionare la raccolta di informazioni che descrivano la persona nella sua complessità e generare evidenze sull’efficacia degli interventi sono passaggi essenziali per ampliare le conoscenze scientifiche in quest’ambito. La declinazione regionale del Pnp 2020-2025 rappresenta un’importante occasione per implementare programmi di prevenzione orientati al genere, monitorarne i risultati e valutarne l’impatto, creando così nuove evidenze e buone pratiche.

1. Legge 11 gennaio 2018, n. 3 Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute. Gazzetta Ufficiale. 2018;Serie Generale n.25. Disponibile su: https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2018/1/31/18G00019/sg

2. Piano nazionale della prevenzione 2020-2025. Disponibile su: https:// www.salute.gov.it/new/sites/default/files/imported/C_17_pubblicazioni_2955_allegato.pdf

3. Mehta LS, Beckie TM, et al. Acute myocardial infarction in women: a scientific statement from the American Heart Association. Circulation 2016;133:916-47.

4. Organizzazione nazionale screening. Lo screening colorettale. Disponibile su: https://www.osservatorionazionalescreening.it/content/lo-screening-colorettale

5. Progressi delle Aziende sanitarie per la salute in Italia: la sorveglianza Passi. Disponibile su: https://www.epicentro.iss.it/passi/

6. World health organization. Gender and mental health. Disponibile su: https://iris.who.int/bitstream/handle/10665/68884/a85573.pdf

7. Istituto superiore di sanità. Coperture vaccinali hpv. Disponibile su: https:// www.epicentro.iss.it/vaccini/dati_ita#hpv

La prevenzione in prospettiva

1941

Georgios Papanicolaou rende noti i risultati dello studio in cui viene utilizzato per la prima volta il pap test, che da lui prende il nome, per rilevare il cancro alla cervice uterina anche in fasi precoci.

Il 22 aprile si celebra la prima Giornata della Terra, promossa del senatore democratico Gaylord Nelson, dando avvio a un intenso attivismo ecologista. Manifestano 20 milioni di statunitensi.

L’Iss stima che 1,6 milioni di italiani hanno smesso di fumare dopo il divieto di fumo nei luoghi chiusi, con il 26 per cento influenzato direttamente dalla legge.

L’Unione europea autorizza il primo vaccino preventivo contro il papilloma virus, causa necessaria per lo sviluppo del tumore della cervice uterina.

Il vaiolo è dichiarato eradicato, dimostrando l’efficacia delle campagne vaccinali coordinate a livello internazionale.

Lo studio Hptn 052 su coppie sierodiscordanti dimostra che la terapia antiretrovirale previene non solo la malattia, ma anche la trasmissione dell’hiv.

I farmaci per la profilassi preesposizione all’hiv diventano rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale.

Approvata la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa su prevenzione e contrasto alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia due anni dopo.

Iniziano ad operare, nei distretti sanitari modenesi, figure professionali dedicate alla promozione della salute nei territori, integrate nei piani nazionali e regionali di prevenzione.

Lo studio Ipergay conferma l’efficacia e la praticabilità della profilassi pre-esposizione (PrEP) per persone hiv-negative a rischio di infezione.

Gli studi su screening e prevenzione del cancro si concentrano principalmente su colon-retto, mammella e cervice, mentre tumori ad alta mortalità come polmone e fegato sono sottorappresentati.

In Italia, solo il 45 per cento delle ragazze di dodici anni ha completato il ciclo vaccinale per il papilloma virus, con marcate differenze regionali.

Bologna è la prima città in Italia a implementare il modello “Città 30” per ridurre gli incidenti stradali: nel primo anno nessun pedone è stato ucciso.

Il Ministero della salute presenta il National health prevention hub, il primo centro dedicato a potenziare, integrare e sviluppare la prevenzione e la promozione della salute.

In Italia cala la vigilanza sulla sicurezza sul lavoro: le aziende che dichiarano di aver ricevuto un’ispezione nei tre anni precedenti scendono dal 29 per cento del 2019 al 24 per cento del 2024.

Con il tempo la prevenzione ha assunto un significato più ampio del solo ambito sanitario. Non riguarda soltanto vaccinazioni e screening oncologici, ma anche sicurezza stradale e nei luoghi di lavoro, tutela ambientale e contrasto alla violenza di genere. Prevenire significa creare condizioni che riducano i rischi e favoriscano salute, diritti ed equità, intrecciando politiche pubbliche, educazione e qualità degli spazi in cui viviamo. Questa timeline ripercorre alcune delle tappe che hanno reso visibile tale trasformazione.

Approvata la Carta di Ottawa, documento fondativo che definisce per la prima volta la prevenzione come responsabilità condivisa tra sistemi sanitari, governi e società civile.

Nel libro “Etica della salute”, Giovanni Berlinguer sottolinea come la prevenzione sociosanitaria influenzi l’economia e metta in discussione modelli di sviluppo che non giovano alla salute.

L’Assemblea mondiale della sanità lancia la Global polio eradication initiative: da allora, l’incidenza della poliomielite a livello mondiale è stata ridotta di oltre il 99 per cento.

Viene istituzionalizzato lo screening mammografico, al fine di intercettare il tumore al seno nelle fasce di età maggiormente a rischio.

Viene lanciato il progetto europeo MyPeBS (My Personal Breast Screening) per valutare l’efficacia di uno screening personalizzato del cancro al seno per donne tra 40 e 70 anni.

Geoffrey Rose, pioniere dell’epidemiologia e della prevenzione cardiovascolare, scrive: “È meglio essere sani che malati o morti. Ciò esprime dall’inizio alla fine l’unica motivazione reale della medicina preventiva; ed è sufficiente”.

La questura di Milano avvia il Protocollo Zeus, per la riabilitazione degli uomini autori di maltrattamenti o atti persecutori, con il supporto dei servizi psicologici territoriali.

Graz, in Austria, è la prima città in Europa a introdurre il limite di velocità a 30 km/h, portando a un aumento della qualità della vita e della sicurezza.

Viene dimostrato che una persona con hiv in terapia efficace e carica virale non rilevabile non trasmette il virus al partner: nasce lo slogan U = U (Undetectable = Untransmittable).

Il Ministero della salute, attraverso il Programma nazionale equità nella salute, potenzia i servizi di screening oncologico per aumentare l’adesione, soprattutto nel Sud.

Secondo i dati raccolti dal progetto EduForIST del Ministero della salute, l’educazione alla sessualità svolta a scuola non viene fornita in modo sistematico ed equo su tutto il territorio.

Approvata in Italia la legge sul “Codice Rosso”, per rafforzare la tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, con modifiche al Codice di procedura penale.

Robert Kennedy Jr., segretario alla salute negli Stati Uniti, blocca gli investimenti sui vaccini a mRna per circa 500 milioni di dollari e termina 22 contratti federali di ricerca.

La città di Helsinki, per la prima volta, non registra incidenti stradali mortali per un anno intero, grazie ai limiti di velocità molto bassi.

Susan Monarez, direttrice dei Centers for disease control and prevention, viene licenziata perché in contrasto con le posizioni antiscientifiche di Robert Kennedy Jr. In seguito, diversi altri funzionari si dimettono.

La lettura delle pagine precedenti ci ha esposto ai significati di parole diverse: prevenzione – primaria, secondaria, terziaria –, preparedness e, nella riflessione di Rodolfo Saracci, una prevenzione che fa leva su “marcatori biologici di vario tipo e per le malattie più diverse”. Una prevenzione mirata che attualizza la medicina predittiva di cui si iniziava concretamente a discutere all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso soffermandosi soprattutto sulle sue implicazioni etiche1. Saracci introduce anche un’altra espressione: prevenzione primordiale, operante su “abitudini di vita, comportamenti, condizioni dell’ambiente materiale e sociale”. Quasi che riferirsi alla prevenzione primaria non sia più sufficiente. “La prevenzione si fa nell’urbanistica costruendo città a misura di bambini e bambine; si fa nel lavoro garantendo un impiego a tutti e una condizione sociale minima; si fa nell’istruzione garantendo una buona educazione e facendo cultura” ha spiegato Marina Davoli e sembra che diverse esperienze regionali vadano in questa direzione. Lo vedremo nelle pagine seguenti.

1. American medical association, Council on ethical and judicial affairs. Use of genetic testing by employers. JAMA 1991;266:1827-30.

IL FUTURO DELLA PROMOZIONE DELLA SALUTE

Claudio Tortone, responsabile dell’area Assistenza a progetti e piani del Centro DoRS, Asl TO3 Regione Piemonte. Medico orientato all’equità e all’inclusione, si occupa di promozione della salute ed empowerment, con attività di ricerca e formazione sul potere trasformativo del teatro, delle arti e della cultura.

Eleonora Tosco, responsabile dell’area Comunicazione del Centro DoRS, Asl TO3 Regione Piemonte. Si occupa di marketing sociale applicato alla prevenzione e alla promozione della salute. Svolge attività di ricerca, progettazione e formazione sui temi della comunicazione per la salute. Fa parte dell’EuroHealthNet Communication Network.

Il primo uso storico e riconosciuto universalmente del termine “prevenzione” risale al 1598, in un testo scritto dal medico Girolamo Mercuriale. La prevenzione viene descritta come l’insieme di azioni volte a preservare la salute e a prevenire le malattie, attraverso l’assunzione di corretti stili di vita: una sana alimentazione, un’attività fisica regolare, un’adeguata igiene personale e un’attenzione alla cura dell’ambiente circostante. Mercuriale riprendeva così le prescrizioni salutari di Ippocrate (V secolo a.C.) indicate nei quattro libri de “Il regime”, che il fondatore della medicina moderna considerava parte integrante della cura dell’uomo in relazione con l’ambiente, prima ancora della malattia.

Quasi 400 anni prima della Carta di Ottawa, approvata nel corso della prima Conferenza internazionale per la promozione della salute del 1986 promossa dall’Organizzazione mondiale della sanità, il termine “prevenzione” è già interpretato in un’ottica proattiva e di promozione di stili di vita salutari. Ed è già posto in relazione con la cura dell’ambiente, naturale e costruito, in cui le persone “vivono, lavorano, giocano, si amano” e con gli effetti delle politiche settoriali che condizionano scelte, comportamenti e ambienti. Con questa visione socioecologica, la cura del ben-essere, della salute e della malattia diventa un processo salutogenico che contribuisce non solo a modulare l’evoluzione bio-medica delle malattie ma anche a contrastare i determinanti di salute che generano disuguaglianze sociali ed economiche. È proprio questo approccio salutogenico e basato sulle risorse e sullo sviluppo delle competenze delle persone il fulcro attorno a cui ruotano le diverse attività di DoRS, il nostro centro regionale di documentazione per la promozione della salute (www.dors.it).

In che modo DoRS sostiene questa visione?

Abbiamo adottato l’approccio metodologico del trasferimento e scambio delle conoscenze (knowledge transfer and exchange) per rendere fertile il ciclo della conoscenza tra professionisti sanitari, decisori e funzionari, ricercatori e portatori di interesse impegnati nel far generare ben-essere e salute con lo sguardo proiettato oltre i confini sanitari verso lo sviluppo di comunità. Queste dinamiche di bench-marking e bench-learning attivano un’intelligenza collettiva che permette di condividere una visione multi-disciplinare e trans-settoriale nell’analizzare i fenomeni e nel condurre azioni multi-livello appropriate, costruendo al contempo alleanze e reti di collaborazione. Se vogliamo essere efficaci e sostenibili nel pre-venire, dobbiamo pro-muovere conoscenze, competenze e risorse (individuali, collettive, ambientali e politiche) per motivare, abilitare e rinforzare – in una parola facilitare – la capacità delle persone, delle organizzazioni e della comunità locale nel fare scelte per la propria salute, come descritto nella Carta di Ginevra esito della decima edizione della Conferenza mondiale sulla promozione della salute del 2021. Nelle diverse situazioni: quando si è in buona salute, nella malattia, in condizione di fragilità e vulnerabilità, a partire dalle persone e dai territori che hanno meno risorse e literacy. Queste capacità sono le premesse per co-programmare politiche e co-progettare interventi equi, sostenibili

ed efficaci. Prevenzione e promozione della salute sono quindi due concetti e approcci inter-connessi, complementari e sinergici come evidenziato nel “Glossario dell’Oms dei termini di promozione della salute del 2021”. Le conoscenze sono la base per avviare il cambiamento. Il commento e la traduzione di documentazione autorevole e aggiornata su evidenze, raccomandazioni, buone pratiche rispetto all’efficacia di politiche e interventi in salute pubblica sono accessibili sui siti www.dors.it e www.disuguaglianzedisalute.it. Progetti ed esperienze, buone pratiche trasferibili, strumenti, materiali di comunicazione e schede tecniche tratte dalla letteratura e dalle buone prassi sono catalogate secondo criteri di equità, comunicazione, trasferibilità e sostenibilità e organizzate in banche dati consultabili in open access.

CARE

Un catalogo di esperienze di prevenzione e promozione della salute caratterizzate da un’esplicita attenzione al contrasto delle disuguaglianze finanziato dal Ccm.

Comunicazione&Salute

Un repository organizzato in 17 aree tematiche che cataloga materiali di comunicazione (digitali, web, audio e video) sui temi della prevenzione e promozione della salute.

ProSa

Banca dati e sistema informativo che cataloga e documenta progetti e interventi di prevenzione e promozione della salute con una sezione dedicata alle Buone Pratiche Trasferibili.

MATline

Banca dati sul rischio cancerogeno in ambienti di lavoro. Fornisce informazioni sull’origine delle patologie neoplastiche e facilita la programmazione e la gestione di interventi di sorveglianza e di vigilanza in ambito occupazionale.

Il motore del cambiamento è la motivazione. Le conoscenze sono messe a disposizione all’interno di dispositivi laboratoriali che valorizzano le esperienze dei professionisti e dei decisori, potenziandone le competenze e la capacità di lavorare in rete. Da questi dispositivi nascono progettualità, nuovi bisogni conoscitivi e nuove conoscenze, mettendo in circolo saperi ed esperienze. Il valore ottenuto può avere forme diverse. Sviluppiamo un progetto dalla fase di ideazione, alla realizzazione, alla valutazione di impatto fino alla sua diffusione (come nel caso di “Muovinsieme”) o fino alla sua valorizzazione come buona

Muovinsieme

Progetto intersettoriale, finanziato dal Ccm, con l’obiettivo di sostenere dirigenti e insegnanti della scuola primaria nel condurre un intervento di buona pratica sull’attività fisica e la didattica all’aperto, prevedendo la riorganizzazione degli ambienti interni e circostanti l’edificio scolastico.

pratica trasferibile. Forniamo sostegno e assistenza alla programmazione, come nel caso del Piano regionale della prevenzione, attraverso gruppi di coordinamento e progettazione sia a livello regionale che locale. Realizziamo percorsi di formazione che favoriscano lo scambio e la condivisione di conoscenze ed esperienze tra pari, sostenendo la creazione di comunità di pratica, come stiamo facendo con il progetto “Storie di infortunio. Raccontare per prevenire”, o attraverso la cre-

Storie di infortunio

Una raccolta di inchieste tradotte in altrettante “storie” narrate dagli operatori che hanno svolto l’indagine.

azione di nuove figure professionali ibride in collaborazione con reti di partner, come nel caso del Master Cultura & Salute del Cultural welfare center

Master Cultura & Salute

Il master del Cultural welfare center forma professionisti di cultura, sanità e sociale per sviluppare competenze sul welfare culturale e promuovere collaborazioni tra persone, istituzioni e reti a livello locale, nazionale ed europeo.

Infine, coltiviamo alcuni temi di ricerca e innovazione da trasferire nella prassi: alfabetizzazione sanitaria (health literacy), empowerment, equità, marketing sociale e welfare culturale.

Come sta oggi la prevenzione?

In un periodo storico di derive e incertezza, provocate dalla polarizzazione, digitalizzazione, delegittimazione non solo delle scienze e delle istituzioni, ma anche della fiducia reciproca tra le persone e le comunità e del diritto universale alla salute incrementando le disuguaglianze, la prevenzione rimane ancora una funzione debole e fragile nel Servizio sanitario nazionale. Nel Nuovo sistema di garanzia del 2023 di valutazione dell’erogazione dei lea, i livelli essenziali di assistenza, nell’area della prevenzione (promozione della salute, screening, vaccinazioni, controllo e sicurezza alimentare) solo un terzo delle Regioni si avvicina allo standard richiesto.

Esiste quindi un ampio margine di miglioramento, che richiede investimenti organizzativi, professionali, formativi, di ricerca e innovazione che ci auguriamo siano presenti nel nuovo Piano della prevenzione 2026-2031. La letteratura ha reso ormai evidenti i risparmi economici e sociali della prevenzione anche a breve termine (per esempio, liste di attesa, spesa farmaceutica, ecc.) che consentono di liberare risorse per una relazione di cura delle persone e delle comunità locali più equa, umana e sostenibile, tutelando e promuovendo, anche per questa via, il diritto universale alla salute.

Quale sguardo per il futuro?

Abbiamo cercato delle possibili piste per il futuro, ancora una volta insieme, invitando nell’ottobre del 2024 un centinaio di portatori di interesse, provenienti da tutta Italia e da differenti settori, a Connessioni,

Connessioni

Un laboratorio creativo dedicato a esplorare azioni intersettoriali e connessioni tra mondi, linguaggi e saperi diversi, per contrastare le disuguaglianze e orientare il presente e il futuro della promozione della salute.

un laboratorio di visioning attraverso le arti performative per celebrare i 25 anni di attività di DoRS. L’attenzione è stata posta sulla relazione tra salute globale e inclusione letta attraverso alcune lenti di criticità e opportunità: ambiente, cultura e linguaggi. Linguaggio accessibile e comprensibile, superamento delle barriere che escludono, approccio inter-settoriale e flessibile, collaborazione e co-progettazione a partire dai luoghi di prossimità e dalle reti sociali. Questo, in sintesi, è lo sguardo emerso: dritto e aperto nel futuro.

UN’UNICA SALUTE per comunità PIÙ SANE E RESILIENTI

One health come chiave strategica della

Regione

Umbria

Daniela Donetti, direttrice di Salute e welfare della Regione Umbria. Economista, ha ricoperto in precedenza l’incarico di direttrice generale dell’Asl di Viterbo e, successivamente, dell’Aou Sant’Andrea di Roma.

La Regione Umbria, nella costruzione del nuovo Piano sociosanitario 2025-2030 (Pssr), ha assunto l’approccio One health come elemento strategico per un cambio di paradigma: dalla cura reattiva alla prevenzione proattiva, incentrata sul benessere fisico, mentale e sociale delle comunità.

In questo quadro, presso la Direzione regionale Salute e welfare, è stato istituito il Servizio salute umana, animale e dell’ecosistema (One health), per integrare politiche e interventi lungo l’intero continuum salute-ambiente-società. Gli assi operativi, già definiti nel Pssr One health, valorizzano sicurezza nei luoghi di lavoro, screening oncologici, prevenzione vaccinale e gestione delle malattie infettive, con particolare attenzione alla partecipazione dei cittadini attraverso lo “Sportello della prevenzione” in ogni casa di comunità: un presidio di orientamento ai percorsi preventivi e di presa in carico precoce delle cronicità, che consente anche una sorveglianza attiva sugli stili di vita e interventi mirati su criticità regionali come fumo di tabacco e obesità infantile.

Una governance integrata

La governance separa con chiarezza “cosa e perché” (programmazione, indirizzo e monitoraggio in capo alla Regione) da “come” (attuazione nel Dipartimento di prevenzione), garantendo visione unitaria e flessibilità territoriale: il Dipartimento si conferma pilastro del Pssr e nodo strategico per processi, competenze e coordinamenti trasversali, in sinergia con i piani nazionale e regionale della prevenzione. La Regione Umbria punta in maniera particolare sull’integrazione dei diversi assessorati nella programmazione e sull’integrazione socio sanitaria per l’utilizzo delle case della comunità, non limitato solamente allo “Sportello della prevenzione” ma anche alle attività di prevenzione secondaria e terziaria.

Sul versante delle malattie infettive, la Regione sostiene strategie di recupero nelle aree a bassa copertura, la qualità dei processi vaccinali (anagrafe, reclutamento, gestione eventi avversi), l’adozione di strategie anche extra-lea secondo l’epidemiologia (per esempio, il virus respiratorio sinciziale per fragili, il meningococco B in adolescenza), il rafforzamento della sorveglianza Premal per la segnalazione delle malattie infettive e l’attivazione di protocolli dedicati per tbc e hiv. È inoltre potenziata la sorveglianza genomica in collaborazione con l’Università di Perugia, a supporto del piano strategico di preparazione e risposta a pandemie da patogeni respiratori.

Clima, ambiente, salute

L’approccio integra sistematicamente i determinanti ambientali di salute: con Arpa e Protezione civile si sviluppa il Sistema regionale prevenzione salute dai rischi ambientali e climatici, l’Osservatorio “Clima e Salute”, piani di adattamento, strumenti di allerta precoce e programmi formativi per gli operatori; si rafforzano sorveglianza epidemiologica e comunicazione del rischio, così come la capacità di risposta dei servizi in occasione di ondate di calore, alluvioni o inquinamenti.

Parallelamente, si attuano azioni di tutela di acqua, aria e suolo: controllo e bonifiche delle aree contaminate, monitoraggi con Arpa e strategie di riduzione delle emissioni, studi epidemiologici e campagne di informazione rivolte ai cittadini, in un’ottica di forte collaborazione interistituzionale tra Regione, Arpa, asl e Comuni. La sanità pubblica veterinaria e la sicurezza alimentare rafforzano la dimensione One health: riorganizzazione del Servizio veterinario regionale in sezioni speculari a quelle territoriali; promozione della corretta convivenza uomo-animale e diffusione degli interventi assistiti con animali; gestione fauna selvatica e zoonosi; salvaguardia e sostenibilità della zootecnia con alleanze formative; contrasto all’antimicrobico-resistenza; lotta allo spreco alimentare e garanzia di sicurezza lungo tutta la filiera. Tali linee di lavoro coinvolgono dipartimenti di prevenzione, servizi veterinari, università, Istituto zooprofilattico sperimentale dell’Umbria e delle Marche, Arpa e amministrazioni locali.

Le politiche della Regione traducono l’impegno in un modello preventivo integrato, capace di connettere salute umana, animale ed ecosistemica.

Scuola, innovazione, digitalizzazione

La promozione della salute nei setting educativi si consolida con la Rete delle scuole che promuovono salute (circa 71 istituti), il catalogo formativo e la campagna “Vince l’Amore – educare alle emozioni”; sono previste integrazioni su nutrizione e benessere psicologico e il coordinamento con i servizi territoriali per prevenire tabagismo e favorire alimentazione equilibrata e attività fisica fin dall’età scolare. In chiave di salute urbana, il Piano propone di “ridisegnare le nostre città” per sostenere invecchiamento attivo e protagonismo giovanile, con ambienti accessibili, spazi per la socialità e l’esercizio fisico, educazione ambientale e iniziative intergenerazionali finalizzate a rafforzare il legame ambiente-salute.

Innovazione e digitalizzazione abilitano l’equità d’accesso e l’efficacia degli interventi: l’integrazione dei programmi di screening con fascicolo sanitario elettronico, intelligenza artificiale e canali di messaggistica rientra tra gli obiettivi del cronoprogramma 2025-2030, insieme a indicatori target e percorsi di formazione continua del personale.

Nel loro insieme, queste politiche traducono l’impegno della Regione in un modello preventivo integrato, basato su evidenze e misurabile, capace di connettere salute umana, animale ed ecosistemica e di rispondere alle sfide demografiche, ambientali ed epidemiologiche. One health diventa così il linguaggio comune della prevenzione umbra: sportelli di prossimità e reti interistituzionali per orientare i cittadini, sistemi di sorveglianza avanzati e protocolli condivisi per anticipare i rischi, città e scuole come luoghi di salute per ridurre disuguaglianze, migliorare gli esiti e rendere il sistema più resiliente nel tempo.

QUANDO LA PREVENZIONE DIVENTA COMUNITÀ

A Modena le promotrici della salute intrecciano

storie, scuole e associazioni: non eventi isolati, ma percorsi condivisi che trasformano emozioni, stili di vita e spazi comuni in benessere collettivo.

Massimo Brunetti, laureato in Economia e commercio lavora nel settore sanitario dal 1993. È direttore del Distretto di Pavullo nel Frignano dell’Ausl di Modena.

Fare prevenzione significa confrontarsi quotidianamente con il senso delle professioni sanitarie e del sistema sanitario e sociale più in generale. Partendo dalla constatazione che più dell’80 per cento del benessere delle persone è legato a fattori esterni al sistema sanitario, i cosiddetti determinanti di salute. Determinanti di salute che sono dentro la comunità dei singoli territori e quindi essa stessa deve diventare protagonista dell’azione di prevenzione e promozione della salute.

A partire da questa consapevolezza a Modena da più di vent’anni esistono figure professionali dedicate che si occupano di promozione della salute nei singoli distretti sanitari. Questa figura fu introdotta con una particolare attenzione al tema della educazione alla salute, che poi nel tempo si è trasformata verso la promozione della salute a 360 gradi. Queste professioniste hanno il compito di rendere concreti nei singoli territori il Piano nazionale e regionale della prevenzione e, in Emilia-Romagna, quello che prevede la legge 19 del 2018 che integra il piano della prevenzione con fondi annuali dedicati alle aziende sanitarie solo per fare attività di prevenzione e promozione della salute. Prevenzione che diventa agire politico, inteso come prendersi cura del benessere della comunità ed elemento costitutivo dei singoli percorsi diagnostico terapeutici.

Prevenzione come agire politico

Cosa fanno in concreto le promotrici della salute? Sono un ponte fra le direzioni dei distretti e i vari servizi e dipartimenti che agiscono le varie progettualità sul territorio. Intese non tanto nel produrre singoli eventi e iniziative, ma nel creare le condizioni affinché i progetti con i diversi interlocutori diventino stabili nel tempo. Sono quindi degli agenti per il cambiamento dei comportamenti dei singoli e delle comunità. In concreto le azioni sono quelle che tutti conosciamo, che abbiamo suddiviso in quattro aree. La prima degli stili di vita, la seconda della prevenzione sanitaria, la terza dell’ambiente e la quarta della sicurezza.

Stili di vita intesi come movimento, alimentazione, gestione delle emozioni e quindi delle dipendenze, i programmi sui primi mille giorni di vita e sull’invecchiamento attivo.

Movimento nelle sue diverse accezioni. Dai gruppi di cammino che si incontrano almeno una volta alla settimana e a cui è possibile partecipare gratuitamente con walking leader formati, ai progetti di movimento attivo nelle scuole e nelle aziende. Al tema dell’alimentazione, con azioni sulle scuole e sulla comunità nel suo insieme.

Fino al tema fondamentale, rappresentato dalla gestione delle emozioni, che porta con sé l’ambito delle dipendenze patologiche, non viste come elemento singolo da combattere (l’alcol e il fumo ad esempio), ma come risposta a un vuoto che tutti noi possiamo decidere come riempire. In questo la prevenzione inizia con progetti dalla scuola dell’infanzia mirati a rendere consapevoli insegnanti e famiglie sull’importanza delle emozioni nello sviluppo e nella crescita dei giovani. Segnalo due iniziative che portiamo avanti con il provveditorato scolastico con cui c’è un

rapporto molto stretto, legate fra loro. La prima è la “Scuola delle emozioni” e la seconda un progetto portato in Italia dalla Svezia per la prima volta a Modena: il progetto “Chiacchiere importanti per la vita”, un libretto di istruzioni molto semplice e bello per le famiglie su come dialogare in modo efficace con i ragazzi.

Rapporto con le scuole che diventa strategico perché possono nascere iniziative per tutta la comunità. Dove nelle scuole secondarie diventa centrale l’utilizzo dei peer educator in progetti ad esempio sui temi dell’affettività o della gestione delle emozioni e della scelta. O progetti che stanno nascendo proprio in questi mesi sul tema del gioco di comunità, dove si passa da una logica di solo contrasto alle ludopatie, a una proattività nel far giocare la comunità, proponendo con il coinvolgimento delle tante associazioni che si occupano di gioco di comunità la creazione di ludoteche a fianco delle biblioteche: questo sia nelle scuole sia nella comunità in generale.

L’importanza degli spazi per il benessere

Questa iniziativa si porta dietro il tema degli spazi che la comunità mette a disposizione per il benessere. Tema sentito in particolare dai giovani che sentono la necessità di avere loro spazi in cui fare esperienze. Che non possono essere spazi gestiti da adulti, ma piuttosto luoghi in cui i ragazzi stessi possano esercitare la propria responsabilità. In questa logica le scuole, ove possibile, possono anche vedere una loro apertura pomeridiana.

In tutte queste progettualità le promotrici della salute sono protagoniste del cambiamento e quindi sono agenti relazionali che partono dai problemi per trasformarli in opportunità. Faccio un esempio molto concreto. Uno dei problemi che viviamo tutti i giorni è la non conoscenza dei servizi esistenti da parte delle persone. In questa logica abbiamo sviluppato una rete con i parrucchieri e le estetiste sul tema del benessere di comunità. Avendo ben presente che queste/i professioniste/i godono della fiducia delle persone e quindi possono anche dare consigli rispetto a quali servizi contattare (pensiamo al tema della violenza di genere o dei disturbi del comportamento alimentare solo per citarne due) o a consigli di salute (si pensi al tema del fumo). Con loro quindi si fanno attività formative e di conoscenza della rete dei servizi.

Altre progettualità in cui queste figure sono coinvolte sono i progetti sull’invecchiamento attivo, che per Modena significa parlare delle 55 palestre della memoria attive sul territorio che coinvolgono 400 volontari e 1600 anziani che ogni settimana si incontrano per due ore. Dove l’Azienda sanitaria svolge solo un ruolo di formazione e supervisione, lasciando il protagonismo ai volontari, dal momento che loro stessi vivono questa esperienza come momento di proprio benessere.

Le promotrici della salute svolgono un ruolo importante anche nei progetti sui temi ambientali. Come in quello degli ambulatori verdi dove gli stessi professionisti hanno sentito l’esigenza di avere una maggiore attenzione al tema ambientale, sia durante le loro attività sia come condivisione di queste tematiche con i loro pazienti. Altra progettualità riguarda la collaborazione con l’Ente parchi Emilia centrale, con una serie di attività per spingere le persone a vivere il più possibile le aree verdi del nostro territorio.

Le promotrici della salute non sono gli unici agenti relazionali della nostra organizzazione. Un’altra figura che sta assumendo sempre più un ruolo importante è quella degli psicologi di comunità. Figure che hanno il compito di migliorare il benessere della comunità anche attraverso interventi dedicati. Voglio citare un’esperienza che è stata molto apprezzata: quella di creare una rete per il benessere dei docenti delle scuole. Favorendo il consolidamento di una rete con gli psicologi presenti nelle scuole e con l’idea di far star bene gli insegnanti per fare stare bene i ragazzi. Un’altra figura di relazione è quella degli infermieri di comunità; anche in questo caso questi professionisti hanno uno sguardo più ampio sul benessere del singolo e del nucleo familiare che va al di là della prestazione assistenziale.

Crediamo fortemente in questo modello delle promotrici della salute perché consente a tutti di mantenere alta l’attenzione sul tema della prevenzione e della promozione della salute, tema che rischia di passare in secondo piano quando si seguono solo le emergenze organizzative.

Con la PREVENZIONE bisogna fare i CONTI

Vi è un filo rosso che unisce i tre diversi contributi che seguono sul tema della prevenzione dell’hiv/aids: in tutti i casi l’autrice e gli autori, pur riconoscendo i progressi compiuti negli ultimi anni, grazie alla disponibilità di interventi farmacologici e diagnostici utili alla prevenzione, sottolineano l’esigenza di individuare il target preciso su cui puntare.

L’intervento di prevenzione ideale riguarda un soggetto ancora libero dalla patologia che si vuole evitare.

In effetti, quando si tratta di evitare gli esiti di una qualsiasi malattia, che si tratti di un nuovo vaccino, farmaco o nuova raccomandazione sugli stili di vita, l’efficacia e sicurezza non bastano se non capiamo in modo dettagliato quale sia la popolazione esatta con cui intervenire. L’intervento di prevenzione ideale riguarda un soggetto ancora libero dalla patologia che si vuole evitare.

Non è realistico pensare di trattare tutti i soggetti sani. Serve la figura dell’epidemiologo per definire scenari e tracciare la mappa dei possibili interventi.

Allo stesso tempo, considerazioni metodologiche, etiche ed economiche suggeri-

scono che non è realistico pensare di trattare tutti i soggetti sani. In tale contesto, è soprattutto la figura dell’epidemiologo che dovrebbe far sentire la sua voce e aiutare a definire scenari tracciando la mappa per i possibili interventi. Conoscere i determinanti di una patologia e i fattori di rischio diviene quindi cruciale.

Almeno una quota delle risorse previste per le nuove soluzioni terapeutiche preventive dovrebbe essere destinata a individuare scenari e popolazioni prioritarie per la prevenzione.

Nonostante ciò, non mancano gli esempi in cui gli interventi terapeutici arrivano sul tavolo del decisore senza che sia chiaro lo scenario ideale su cui adoperarli. A ciò si aggiunge che in alcuni casi manca il coordinamento tra i diversi attori coinvolti o la scelta dei tempi di intervento non è studiata in modo adeguato1. L’auspicio è che, in maniera sistematica, almeno una quota delle risorse previste per coprire la spesa delle nuove soluzioni terapeutiche preventive venga destinata a studiare, a livello nazionale, quali sono gli scenari e le popolazioni più adeguate su cui fare prevenzione.

1. Belleudi V, Addis A. Nuove terapie per vecchi virus: quando tutti sbagliano qualcosa. Epidemiol Prev 2025;49:220-3.

Antonio Addis, direttore dell’Uosd Epidemiologia del farmaco del Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio, Asl Roma 1.

La rivoluzione SILENZIOSA della prevenzione dell’HIV

Enrico Girardi, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” Irccs di Roma, uno dei maggiori centri clinici in Europa per la diagnosi e cura dell’infezione da hiv/ aids.

Per comprendere dove ci troviamo oggi nella prevenzione dell’hiv/aids, è utile ripercorrere le tappe fondamentali che ne hanno segnato l’evoluzione. Un percorso che inizia quando, nella prima metà degli anni ’80 del Ventesimo secolo, è stata identificata la sindrome dall’immunodeficienza acquisita e ne è stato individuato l’agente causale, il virus dell’immunodeficienza umana, e sono state definite le modalità di trasmissione di questo virus. Inizialmente l’approccio dominante è stato quello comportamentale: promuovere pratiche sessuali sicure, incentivare l’uso del profilattico, contrastare l’uso promiscuo di siringhe per assumere droghe erano i capisaldi della prevenzione a livello globale, attraverso campagne di informazione rivolte in primo luogo a persone con comportamenti che aumentavano il rischio di contrarre l’infezione da hiv.

Alla fine del secolo scorso si è aperta una nuova prospettiva con la prima dimostrazione dell’efficacia di un intervento farmacologico preventivo: la possibilità di bloccare la trasmissione del virus da madre a figlio attraverso la somministrazione di farmaci antiretrovirali alla donna durante la gravidanza e al neonato nelle prime settimane di vita. Una svolta che, nonostante possa apparire limitata dalla prospettiva di un Paese come l’Italia dove la trasmissione verticale è sempre stata piuttosto contenuta, ha un impatto enorme sia a livello individuale sia a livello globale. Per la prima volta si mostrava concretamente che era possibile prevenire l’infezione non solo agendo sui comportamenti, ma anche con l’uso mirato dei farmaci.

Diagnosticare precocemente e trattare immediatamente l’infezione permette di migliorare la salute della persona e, allo stesso tempo, interrompere la catena del contagio.

Un’ulteriore trasformazione si è avuta con la disponibilità di terapie antiretrovirali sempre più efficaci. Non solo miglioravano drasticamente la prognosi delle persone con hiv, ma riducevano progressivamente – fino ad annullarla del tutto – la contagiosità. Alla Conferenza internazionale sull’aids di Toronto del 2006, il medico canadese Julio Montaner ha lanciato un concetto destinato a rivoluzionare la prevenzione di hiv: “treatment as prevention”, ovvero il trattamento come prevenzione. L’idea è semplice ma potente: diagnosticare precocemente e trattare immediatamente l’infezione permette di migliorare la salute della persona e, allo stesso tempo, interrompere la catena del contagio.

Questo approccio ha avuto un impatto concreto e misurabile, tanto da diventare una strategia cardine delle politiche sanitarie globali. In Italia, come in altri Paesi ad altro reddito, le linee guida condizionavano l’inizio del trattamento dell’infezione da hiv al progredire dell’immunodepressione. Ma a partire dal 2016 è stato raccomandato di trattare tutte le persone con hiv e l’effetto sulla diffusione dell’infezione è stato molto netto: alla crescita del numero di persone in trattamento è corrisposta una riduzione delle nuove diagnosi. Dopo anni di sostanziale stabilità, finalmente anche in Italia l’epidemia ha iniziato a rallentare.

Il rallentamento degli ultimi anni e le sfide attuali

Negli ultimi anni – a partire dal 2020 – si è però osservato un rallentamento di questa tendenza positiva. Il numero delle nuove diagnosi, in Italia come in altri Paesi, è prima sceso bruscamente, complice la ridotta accessibilità ai servizi durante la pandemia covid-19, ma poi è tornato lievemente a salire. L’effetto propulsivo del trattamento come prevenzione sembra essersi attenuato. Le ragioni sono molteplici: la persistenza di un numero significativo di persone che vivono con l’hiv senza saperlo, le difficoltà nel mantenere nel tempo l’aderenza alla terapia, la frammentazione nell’accesso ai servizi. L’accesso al test e la continuità delle cure restano quindi due sfide centrali. In questo contesto si è inserita una nuova strategia di prevenzione farmacologica: la PrEP, ovvero la profilassi pre-esposizione. Si tratta di una forma di prevenzione pensata per le persone che non hanno contratto l’hiv ma che sono a rischio di esposizione al virus. Anche qui l’efficacia è ben documentata. I primi regimi prevedevano l’assunzione orale quotidiana o on demand, cioè in prossimità di situazioni a rischio. Più recentemente sono stati sviluppati farmaci iniettabili a lunga durata d’azione, con somministrazioni ogni due o sei mesi, capaci di offrire una protezione prolungata e una migliore aderenza, specialmente per chi ha difficoltà con l’assunzione quotidiana delle pillole.

I dati sono promettenti: alcune sperimentazioni condotte in Africa subsahariana dimostrano un’efficacia vicina al 100 per cento per i regimi iniettabili. Ma resta aperta una questione cruciale: come garantire l’accesso equo alla PrEP? In Italia, la rimborsabilità del Servizio sanitario nazionale riguarda solo la forma orale. I farmaci iniettabili, più recenti e potenzialmente molto utili per chi fatica ad aderire a una profilassi quotidiana, non sono ancora disponibili gratuitamente. Il rischio concreto è che proprio le persone più vulnerabili – spesso culturalmente o socialmente marginalizzate – non riescano a beneficiare di questa innovazione.

I servizi non sono sempre capillari né facilmente accessibili, e manca ancora una pianificazione nazionale capace di valorizzare in modo organico il contributo del terzo settore. Le organizzazioni della società civile svolgono infatti un ruolo decisivo nel raggiungere quelle fasce di popolazione che difficilmente si rivolgerebbero spontaneamente agli ambulatori. È però necessario che il loro contributo sia riconosciuto, sostenuto e inserito all’interno di una strategia sanitaria strutturata e coordinata che deve rimanere sotto la responsabilità del servizio pubblico.

Per raggiungere l’obiettivo zero infezioni occorre affrontare il tema dell’accesso in modo sistematico e strutturato, integrando strategie comportamentali e farmacologiche.

Verso un approccio sistemico e integrato

Alla conclusione di questo breve excursus sull’evoluzione della prevenzione dell’hiv, appare evidente che per raggiungere l’“obiettivo zero infezioni” occorre affrontare il tema dell’accesso in modo sistematico e strutturato. Adottare le nuove soluzioni farmacologiche non significa abbandonare le strategie

comportamentali: è importante ricordare che non esiste uno strumento unico in grado di risolvere tutto. Ogni strategia – dalla promozione del profilattico alla terapia antiretrovirale, dalla PrEP alla formazione del personale sanitario, dall’educazione alla salute sessuale al coinvolgimento delle comunità – aggiunge un tassello essenziale.

L’obiettivo è costruire un sistema di prevenzione flessibile e realistico, capace di adattarsi agli stili di vita e ai bisogni diversificati delle persone. Inoltre, serve un cambio di passo anche culturale: molti medici ad esempio esitano ancora a proporre il test per hiv, quasi fosse qualcosa di eccezionale, mentre dovrebbe essere considerato al pari di qualunque altro esame diagnostico, ovviamente con il consenso informato del paziente.

Solo attraverso un approccio così integrato potremo avvicinarci davvero a quel traguardo che oggi appare ambizioso ma tecnicamente possibi-

le: zero nuove infezioni da hiv. La strada è ancora lunga, ma gli strumenti ci sono. Ora si tratta di renderli accessibili a tutti coloro che ne hanno bisogno, attraverso una pianificazione organica a livello nazionale e internazionale che coordini e formi tutti gli attori coinvolti del sistema sanitario e sociale.

La strada è ancora lunga, ma gli strumenti ci sono: ora si tratta di renderli accessibili a tutti attraverso una pianificazione organica e coordinata.

OMS E HIV: 40 ANNI DI PROGRESSI

All’Institut Pasteur di Parigi, nel laboratorio di Luc Montagnier, per la prima volta viene identificato al microscopio il potenziale virus responsabile dell’aids. Sei mesi dopo i Cdc statunitensi confermano l’ipotesi del virus francese quale agente patogeno dell’aids e Robert Gallo annuncia di averlo isolato da pazienti con aids.

L’Oms stima che 13-14 milioni di persone vivono con l’hiv, con una proiezione di 30–40 milioni entro il 2000.

Ad Atlanta la prima Conferenza internazionale sull’aids, sponsorizzata dall’Oms, con circa duemila ricercatori provenienti da trenta Paesi.

Viene introdotta Haart, la terapia antiretrovirale combinata ad alta efficacia che determina l’immediato crollo delle diagnosi di aids e della mortalità. Nasce Unaids, il programma congiunto delle nazioni unite sull’aids.

Il numero di Paesi con programmi nazionali contro l’aids passa da 7 a 130 in un solo anno.

Un comitato internazionale stabilisce il nome del virus dell’aids: hiv, ovvero virus dell’immunodeficienza umana.

Tra gli obiettivi per il nuovo millennio fissati dall’Oms: bloccare la propagazione dell’hiv/aids entro il 2015 e garantire a tutti l’accesso universale alle cure contro l’hiv/aids entro il 2010.

Il 75% delle persone con hiv si sottopone al test e il 60% è in terapia, ma restano forti disuguaglianze nell’accesso ai servizi. Metà delle persone con hiv non ha soppressione virale e 1,8 milioni si infettano ogni anno.

L’Oms raccomanda il trattamento per tutte le persone con hiv, sia per prevenzione sia per migliorare gli esiti clinici. Raccomanda inoltre due importanti innovazioni: la PrEP (profilassi pre-esposizione) e l’autotest.

Pubblicate le prime linee guida dell’Oms sulla gestione clinica dell’infezione da hiv con stadiazione della malattia.

La Giornata mondiale contro l’aids pone al centro le donne e il loro ruolo nella risposta globale e nella prevenzione della trasmissione madre-figlio.

In Africa hanno accesso alle cure solo 35mila dei 28,5 milioni di persone con l’hiv.

L’Oms pubblica le prime linee guida complete sul trattamento dell’hiv.

L’1 dicembre si celebra la prima Giornata mondiale contro l’aids istituita dall’Oms per mobilitare e sensibilizzare la società civile.

Raggiunto con 9 mesi di anticipo l’obiettivo del millennio fissato di 15 milioni di persone in terapia antiretrovirale nei Paesi in via di sviluppo. Grazie alla risposta globale all’hiv, a partire dal 2000, sono state evitate 30 milioni di nuove infezioni e quasi 8 milioni di decessi per aids.

L’Oms lancia l’iniziativa globale “3 by 5”, per fornire cure a 3 milioni di persone nei Paesi in via di sviluppo entro il 2005.

Solo il 10 per cento delle persone con hiv conosce la propria condizione: l’Oms raccomanda il test hiv e la consulenza come strategia prioritaria.

Durante la pandemia di covid-19, l’Oms monitora l’impatto del virus sulla popolazione con hiv, sull’interruzione dei servizi sanitari e sull’accesso alle terapie antiretrovirali.

L’86% delle persone con hiv è consapevole del proprio stato, il 76% è in trattamento e il 71% ha una carica virale soppressa. Le strategie sanitarie si orientano sempre più verso un approccio più integrato, l’assistenza sanitaria di base e la copertura sanitaria universale.

Le persone con hiv che, grazie a una terapia antiretrovirale costante, raggiungono un livello di virus non rilevabile e non trasmettono l’hiv ai loro partner sessuali. Alla fine del 2022, su 39 milioni di persone con hiv, 29,8 milioni erano in terapia antiretrovirale e, di queste, tre su quattro avevano una carica virale soppressa.

Raggiungere il traguardo ambizioso prefissato dall’Onu e dall’Oms: HIV Zero, zero nuove infezioni da hiv, zero nuove morti legate all’aids e zero stigma e discriminazione.

Viene introdotto il primo farmaco antiretrovirale, la zidovudina (Azt).

La CURA della PREVENZIONE dell’HIV/AIDS

Dall’innovazione terapeutica alle buone pratiche

Per molto tempo la prevenzione dell’hiv è stata associata quasi esclusivamente al cambiamento dei comportamenti sessuali e all’uso del preservativo. Poi, a un certo punto, la ricerca clinica ha introdotto una vera e propria rivoluzione: la possibilità che i farmaci antiretrovirali, oltre a curare l’infezione, potessero anche prevenirne la trasmissione. Quali sono stati gli studi che hanno segnato questa svolta?

Due sono le pietre miliari che a mio avviso hanno determinato un cambio di paradigma nella prevenzione di hiv. La prima con lo studio Hptn 052, nel 2010, condotto su coppie sierodiscordanti per valutare se il trattamento precoce del partner positivo proteggesse quello negativo. I risultati furono sorprendenti: oltre il 90 per cento di riduzione del rischio di trasmissione nei casi trattati subito. Per la prima volta si dimostrava che la terapia non serviva solo a controllare la malattia, ma anche a impedirne la diffusione, con un beneficio collettivo oltre che individuale. Un segnale importante era già arrivato dagli studi sulla trasmissione materno-infantile: la terapia somministrata alla madre riduceva fino ad azzerare il rischio di contagio al nascituro. È stato questo, di fatto, il primo modello di utilizzo dei farmaci a scopo preventivo. La conferma scientifica definitiva del principio “treatment as prevention” è arrivata con gli studi Partner 1 e Partner 2, che hanno dimostrato in maniera inequivocabile che una persona con hiv in terapia efficace e carica virale non rilevabile non trasmette il virus al partner, anche in rapporti non protetti di qualsiasi tipo. Lo studio conclusivo, pubblicato nel 2019, ha consacrato il principio secondo cui trattare il partner positivo significa proteggere anche quello negativo. Da queste evidenze è nato lo slogan U = U (Undetectable = Untransmittable), entrato nel dibattito scientifico e sociale come messaggio chiaro e destigmatizzante: una persona con hiv che ha una viremia soppressa non è contagiosa. Le implicazioni sono epidemiologiche, ma anche fortemente sociali, perché cambiano la percezione della malattia e la vita delle persone che ne sono affette.

Una persona con hiv che ha una viremia soppressa non è contagiosa. Trattare il partner positivo significa proteggere anche quello negativo.

Dopo aver visto che il trattamento dei positivi riduce la trasmissione, è emersa la possibilità che anche chi è sieronegativo possa proteggersi con la profilassi farmacologica. Quali evidenze cliniche hanno confermato questa svolta nella prevenzione?

I primi studi sulla profilassi pre-esposizione (PrEP) risalgono al 2010, ma il passaggio cruciale è stato rappresentato dallo studio Ipergay del 2015, che ha dimostrato in modo accurato l’efficacia della PrEP: una combinazione di due

I NUMERI DELL’HIV E DELL’AIDS IN ITALIA NEL 2023

140 730

il numero stimato di persone con hiv (0,2% della popolazione)

132 098

le persone con diagnosi di hiv (93%)

2349

Andrea Antinori, direttore sanitario dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” Irccs di Roma, e direttore del Dipartimento clinico e di ricerca delle malattie infettive del medesimo istituto.

farmaci assunta da persone hiv negative ma a rischio di infezione. Nello studio, randomizzato placebo-controllato sulla PrEP con la combinazione tenofovir disoproxil/ emtricitabina (Tdf/Ftc), condotto su uomini che hanno rapporti con uomini, la riduzione del rischio superava il 95 per cento. Pur essendo preceduto da altri trial come iPrEx, Proud e studi condotti in Sudafrica e negli Stati Uniti, Ipergay ha sancito a livello globale la praticabilità e l’efficacia della PrEP, segnando l’inizio di una “seconda era” nella prevenzione farmacologica dell’hiv. Questo per due motivi. Il primo è che, per la prima volta, nell’Ipergay veniva dimostrato che non solo la schedula quotidiana di Tdf/Ftc era efficace, ma che il farmaco risultava protettivo anche con una somministrazione “personalizzata”, a cavallo del rapporto a rischio (on-demand). Il secondo è che alla fase randomizzata dello studio seguì, da protocollo, una fase open-label, in cui anche chi era nel braccio placebo passò al farmaco, trasformando il trial in un grande studio osservazionale di popolazione, e in questo secondo studio venne confermata l’efficacia real-life della PrEP orale, con una protezione anche superiore. Oggi la ricerca continua a esplorare nuove modalità, dalle formulazioni iniettabili a farmaci con meccanismi d’azione innovativi, con l’obiettivo di rendere la profilassi sempre più semplice, efficace e accessibile.

Oggi, quindi, accanto al profilattico, disponiamo di strumenti farmacologici di comprovata efficacia in grado di ridurre drasticamente il rischio di trasmissione dell’hiv. Eppure, il controllo dell’epidemia resta complesso. Quali sono le principali sfide da affrontare?

Le difficoltà si concentrano su due fronti strettamente connessi. Il primo riguarda l’identificazione precoce delle persone hiv positive non diagnosticate. In Italia si stima che siano circa 9000 le persone che ignorano la propria condizione: non solo rischiano di ammalarsi perché l’infezione non trattata progredisce, ma possono anche trasmettere il virus ad altri. Individuarle e trattarle precocemente secondo il principio del “treatment as prevention” significa proteggere la loro salute e, allo stesso tempo, interrompere la catena del contagio. L’“emersione del sommerso” è un obiettivo cruciale nel continuum di cura dell’hiv: ridurre il più possibile il tempo che intercorre tra infezione, diagnosi e inizio della terapia. Purtroppo, più del 50 per cento delle nuove diagnosi – circa il 60 per cento negli ultimi anni – riguarda persone asintomatiche che convivono con il virus da anni o che presentano già un’immunodeficienza significativa, talvolta con manifestazioni di aids. Il secondo fronte riguarda la diffusione della PrEP tra le persone a rischio, in combinazione con il profilattico. Assunta correttamente,

le nuove diagnosi (pari a 4,0 nuovi casi ogni 100mila residenti)

123 359

30-39 anni

la fascia di età più colpita

le persone con diagnosi di hiv in terapia antiretrovirale (93%) di cui 113 430 con carica virale soppressa (92%)

76%

delle nuove diagnosi riguarda uomini

Una conversazione con Andrea Antinori

la PrEP riduce quasi del 100 per cento il rischio di infezione, soprattutto con le nuove formulazioni iniettabili. Oggi milioni di persone nel mondo – tra 3,5 e 8 milioni secondo le stime – ne fanno uso, ma siamo ancora lontani dall’obiettivo globale di 20 milioni previsto per il 2025. La diffusione rimane molto disomogenea tra Paesi e continenti, ma la PrEP resta lo strumento su cui la comunità scientifica internazionale punta di più per il controllo dell’hiv.

Assunta correttamente, la PrEP riduce quasi del 100 per cento il rischio di infezione, soprattutto con le nuove formulazioni iniettabili.

Quali sono le principali barriere che ostacolano l’identificazione precoce di queste persone e che rendono ancora così difficile la diagnosi tempestiva?

Ci sono resistenze legate alla paura di stigmatizzazione, resistenze dovute alla scarsa consapevolezza e anche barriere di competenza che riguardano la classe medica. L’infezione da hiv, quando è avanzata, può cominciare a dare delle avvisaglie e ci sono una serie di patologie che chiamiamo “malattie indicatrici”, spie di una possibile infezione sottostante. Il problema è enorme: una persona ha una malattia dermatologica, un determinato tipo di tumore, una piastrinopenia, una diagnosi di infezione sessualmente trasmissibile o di epatite B o C. In tutti questi casi, il test hiv dovrebbe essere proposto dal medico curante – che può essere il medico di medicina generale, l’ematologo, il ginecologo o qualsiasi altro specialista – ma purtroppo spesso non è così. Quella persona perde un’occasione preziosa di diagnosi (“missed opportunity”) che magari arriva due anni dopo, a uno stadio più avanzato e difficile da trattare. Un programma efficace potrebbe consistere nel sensibilizzare i medici di medicina generale e altri specialisti a offrire il test hiv più spesso quando vedono malattie di questo tipo. Il test stesso è spesso stigmatizzato: molti lo evitano per paura di essere associati alla malattia. Eppure è di libero accesso, anche senza impegnativa, in condizioni di anonimato e in modo gratuito. Esistono inoltre strategie alternative: centri della comunità, check point gestiti dalle associazioni, test rapidi forniti da operatori non sanitari formati, autotest in farmacia. L’importante è che, in caso di positività, la persona venga immediatamente inserita in un percorso di cura.

La diagnosi precoce è essenziale ma, come sottolineava, da sola non basta: serve intercettare chi può beneficiare della profilassi preventiva. Quali passi vanno fatti per raggiungere queste persone e garantire loro un accesso efficace alla PrEP?

Tutto questo va affrontato senza reticenze, in maniera comunicativa, non stigmatizzante. Uno dei grandi problemi è quanto possa essere stigmatizzante l’approccio stesso dei medici e degli operatori sanitari: identificare l’utente PrEP come una persona giudicabile per i propri comportamenti allontana dal percorso di prevenzione. In Italia ci sono circa 12.000 persone in PrEP stabile e 16.000 che l’hanno utilizzata almeno una volta, ma il target dovrebbe essere molto più ampio. Inoltre, la PrEP è oggi appannaggio quasi esclusivo della popolazione di msm, cioè di maschi che fanno sesso con maschi (95-98 per cento degli utilizzatori), mentre dovremmo raggiungere anche uomini eterosessuali, donne, persone transgender, che restano oggi ancora del tutto fuori dal bacino di utilizzo. Per aumentare l’efficacia dobbiamo uscire dai centri di malattie infettive e coinvolgere il territorio: medici di medicina generale, Dipartimenti di prevenzione delle asl, consultori per le donne, ambulatori per migranti, centri di prima accoglienza. Serve un sistema capillare che non passi solo per l’ospedale.

60%

delle diagnosi avviene a malattia avanzata

86,3%

dei nuovi contagi è per trasmissione sessuale

Il sistema sanitario non può da solo farsi carico dell’intera strategia di prevenzione. In diversi contesti, le associazioni e i centri della comunità hanno un ruolo chiave. In pratica, come vi state muovendo per costruire una rete capillare ed efficace sul territorio?

Un primo passo è la demedicalizzazione della PrEP, affidandone la gestione anche ai centri di comunità: strutture non necessariamente sanitarie, spesso gestite dal terzo settore, che svolgono attività di prevenzione. In Italia, ad esempio, la PrEP viene proposta anche nei check point gestiti da associazioni di volontariato per la lotta contro l’hiv o da associazioni Lgbt, in collaborazione con i centri di malattie infettive. A Roma siamo in contatto con due realtà di questo tipo – il Circolo Mario Mieli e PLUS Roma – e seguiamo insieme a loro circa 250-300 utilizzatori fuori dall’ospedale, in contesti più accoglienti e “friendly”, capaci di coinvolgere persone che difficilmente si rivolgerebbero a una struttura ospedaliera. La vera sfida resta raggiungere comunità più vulnerabili e difficili da intercettare – sex worker, donne eterosessuali a rischio, migranti, persone transgender – spesso diffidenti, stigmatizzate o addirittura criminalizzate. Qui serve un lavoro “sociale” mirato. I consultori, ad esempio, potrebbero offrire un counseling integrato su contraccezione e prevenzione di hiv e delle infezioni sessualmente trasmissibili; i dipartimenti di prevenzione e i centri di test e counseling delle asl potrebbero associare al test hiv anche la proposta della PrEP. Un ruolo centrale è anche la formazione degli operatori territoriali. In questa prospettiva, nell’ambito dell’edizione 2025 della Settimana della scienza e della Notte europea dei ricercatori e delle ricercatrici. Il Centro di riferimento regionale aids dell’Istituto Spallanzani, insieme alla Direzione salute della Regione Lazio, ha organizzato un evento ecm rivolto proprio a rafforzare competenze e collaborazioni nella prevenzione di hiv e infezioni sessualmente trasmissibili a livello territoriale e in particolare nella rete dei consultori regionali, con particolare attenzione al testing, alla profilassi pre- e post-esposizione, alla promozione della salute nei giovani e a modelli di governance integrata tra istituzioni, servizi sanitari e territorio.

Intervenire a scuola significa non solo trasmettere conoscenze corrette, ma anche creare consapevolezza e combattere lo stigma fin dall’adolescenza.

Infine, ma non certo per importanza, quanto è strategico per le istituzioni investire in programmi di informazione e educazione sull’hiv e contro l’aids a partire dalle scuole?

È un aspetto cruciale. L’età del primo rapporto sessuale si è notevolmente abbassata, e questo rende prioritario proteggere le fasce giovanili che, troppo spesso, non hanno informazioni adeguate sulla prevenzione. Le survey effettuate tra giovani e adolescenti mostrano gravi lacune di conoscenza sulle infezioni sessualmente trasmesse e una forte confusione tra contraccezione e prevenzione. In questo senso, il programma “Scuole che promuovono salute” rappresenta un modello virtuoso: attraverso un progetto educazionale dedicato all’hiv e alle infezioni sessualmente trasmissibili, abbiamo potuto lavorare direttamente con studenti e insegnanti grazie alla collaborazione tra Regione, asl e uffici scolastici. Non va dimenticato che esiste “un mondo parallelo”, fatto di tabù e disinformazione, che rischia di condizionare i giovani. Intervenire a scuola significa non solo trasmettere conoscenze corrette, ma anche creare consapevolezza e combattere lo stigma fin dall’adolescenza.

A cura di Laura Tonon

73 150 i casi di aids registrati dal 1982 532 le nuove diagnosi di aids (0,9 nuovi casi per 100mila residenti) + 20% rispetto al 2022

77,2%

delle persone con aids non ha ricevuto la terapia antiretrovirale prima della diagnosi di aids

Dati aggiornati al 31.12.2023

Fonti: Notiziario Centro operativo aids - Istituto superiore di sanità, novembre 2024 | Ecdc Special report. Continuum of HIV care. Monitoring implementation of the Dublin Declaration on partnership to fight hiv/aids in Europe and Central Asia: 2023 progress report.

PrEP e stile di VITA

Intervista a Marzia Mensurati

La profilassi pre-esposizione (PrEP) è gratuita in Italia dal 2023. Qual è lo stato della sua implementazione e quali sono i principali vantaggi?

La PrEP è correttamente utilizzata come forma di prevenzione dell’hiv. In Regione Lazio è ben diffusa grazie all’Istituto nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”, centro di riferimento per il trattamento della patologia con ambulatori dedicati. Questo modello organizzativo si riverbera positivamente su tutti i contesti che seguono questi pazienti, garantendo un’implementazione capillare sul territorio regionale. Tuttavia, la PrEP richiede un’aderenza terapeutica rigorosa per garantire l’efficacia. Il successo dipende dalla corretta assunzione cronica del farmaco, il che comporta la necessità di responsabilizzare il paziente sui propri percorsi di prevenzione. Considerando la tipologia di pazienti a cui si rivolge, questo aspetto può presentare delle criticità. Ritengo che esistano disparità regionali, ma ogni regione ha dei centri di riferimento che fungono da driver formativi. Complessivamente, la PrEP risulta accessibile su tutto il territorio nazionale attraverso protocolli garantiti all’interno di percorsi di cura strutturati. La PrEP è uno strumento efficace, supportato da evidenze scientifiche che dimostrano la riduzione della contrazione della malattia nei pazienti a rischio. Tuttavia, come per ogni patologia, il corretto stile di vita rimane fondamentale per il successo di una terapia preventiva. L’efficacia si riduce significativamente se applicata a soggetti che non hanno una cognizione generale della prevenzione e non assumono correttamente la terapia.

La vera prevenzione dovrebbe basarsi su corretti stili di vita e sull’empowerment del paziente.

Come valuta l’evoluzione verso l’uso crescente di farmaci per prevenire patologie come ipercolesterolemia o obesità dal punto di vista della programmazione sanitaria?

La prevenzione farmacologica presenta alcune contraddizioni concettuali. La vera prevenzione dovrebbe basarsi su corretti stili di vita e sull’em-

NUMERO DI PERSONE CHE HANNO RICEVUTO

Nel 2023, più di 3,5 milioni di persone hanno ricevuto la PrEP almeno una volta. Oltre il 75% di queste (2,6 milioni) si trovava nella regione africana.

Sebbene il numero di persone che hanno ricevuto la PrEP sia aumentato del 35% tra il 2022 e il 2023, questi valori restano ancora al di sotto dell’obiettivo di 10 milioni di persone che utilizzano la PrEP entro il 2025.

Fonte: The Urgency of Now: UNAIDS 2024 Global AIDS Report

AFRO: Regione Africana

AMRO: Regione delle Americhe

EURO: Regione Europea

SEARO: Regione del Sudest asiatico

WPRO: Regione del Pacifico occidentale

La Regione del Mediterraneo orientale non è rappresentata a causa della sua quota minima.

Efficacia e sostenibilità. Etica e responsabilità

Marzia Mensurati, dirigente dell’Area Farmaci e dispositivi della Direzione regionale Salute e integrazione sociosanitaria, Regione Lazio.

powerment del paziente. Quando si ricorre alla prevenzione farmacologica significa che ci si confronta con soggetti che non hanno adottato comportamenti preventivi. Le malattie cardiovascolari, ad esempio, insorgono spesso in pazienti che avrebbero potuto gestire diversamente i fattori di rischio attraverso alimentazione e stili di vita corretti. La prevenzione farmacologica diventa quindi un’arma spuntata se non si inserisce in un contesto più ampio di prevenzione non farmacologica. Per quanto riguarda la PrEP, abbiamo ora anche formulazioni long-acting che sollevano questioni di sostenibilità economica. Queste forme trimestrali dimostrano la stessa efficacia (riduzione del 90 per cento dell’incidenza), ma a costi superiori. La domanda è: quanto siamo disposti a pagare per la comodità? Questo è particolarmente rilevante considerando che i soggetti target spesso hanno stili di vita complessi, rendendo proprio per loro la forma long-acting più vantaggiosa in termini di outcome preventivi. La questione diventa etica oltre che economica: come parametrare il costo dell’aderenza terapeutica con la capacità delle persone di comprendere l’importanza della prevenzione e di adottare stili di vita salutari? Ogni terapia farmacologica comporta effetti collaterali e, quando si fa prevenzione farmacologica, in realtà si sta già curando una condizione che poteva essere prevenuta diversamente. Nel Lazio disponiamo di un istituto completamente dedicato che non solo fornisce cure dirette ma sviluppa anche una cultura nella gestione della patologia, garantendo assistenza capillare. Il corretto stile di vita rimane un valore irrinunciabile per la prevenzione delle malattie, mentre la prevenzione farmacologica, pur efficace, dovrebbe essere considerata come ultima risorsa in un approccio preventivo più ampio.

La prevenzione farmacologica dovrebbe essere l’ultima risorsa in un approccio preventivo più ampio.

A cura di Giada Savini
AFRO AMRO EURO SEARO WPRO

Prevenire le infezioni con una visione integrata

Abitiamo un solo pianeta e condividiamo atmosfera, acqua e suolo con animali, piante e microrganismi. Gli incontri tra specie sono continui: tutti cercano una nicchia ecologica e molti instaurano rapporti parassitari. I microrganismi possono moltiplicarsi in un organismo e adottare strategie sofisticate: dalla produzione di molecole difensive alle batteriocine contro altri batteri, fino agli enzimi di restrizione contro i virus. Nei primi stadi della scala evolutiva compaiono cellule fagocitarie, e nei vertebrati si afferma il sistema immunitario adattativo. Le infezioni nascono proprio dalla ricerca di un ambiente facile in cui prosperare e dalla difesa della propria esistenza o della propria specie1

Le infezioni in medicina e l’antimicrobicoresistenza

In medicina le malattie infettive hanno un ruolo centrale: la sepsi colpisce ogni anno da 1,3 a 1,9 milioni di persone in Europa (120-190 mila in Italia). Nel 2021 le infezioni da germi resistenti agli antibiotici hanno causato quasi 6 milioni di decessi nel mondo e, secondo le stime, diventeranno la prima causa di morte entro il 2050, con 10 milioni di morti l’anno2,3

La popolazione che, per periodi più o meno lunghi, vive in ospedale o in altre strutture sanitarie e nelle residenze sociosanitarie costituisce un sottoinsieme dinamico della comunità. Questa popolazione comprende utenti e professionisti. Le occasioni di contatto sono infinite. Le infezioni in comunità e quelle correlate all’assistenza sanitaria sono strettamente interconnesse: si tratta spesso degli stessi patogeni che trovano condizioni favorevoli in contesti diversi. Fattori come età e fragilità immunitaria aumentano i rischi in entrambi gli ambienti. Gli obiettivi principali restano la riduzione delle infezioni e la tutela dell’efficacia degli antibiotici.

L’antimicrobico-resistenza (Amr) ha origine genetica e consente ai microrganismi (batteri, funghi, virus e protozoi) di sopravvivere all’azione di antimicrobici. L’Amr si diffonde orizzontalmente, con scambio di materiale genetico tra batteri, per via diretta o dall’ambiente in cui vivono, o verticalmente come mutazione. L’uso di antibiotici, sia appropriato che inappropriato, è il più importante determinante dell’aumento dell’Amr, anche se il fenomeno riconosce molte concause di natura ambientale e sociale, come i cambiamenti climatici, gli spostamenti delle persone, l’impiego di questi farmaci in zootecnia e in agricoltura4. Se l’uso inappropriato di antibiotici nella clinica è la componente prioritaria da contrastare, bisogna ricordare che le infezioni da organismi resistenti sono prima di tutto infezioni e quindi ogni manovra di contenimento del rischio infettivo costituisce di per sé un presidio di contrasto all’Amr. La stretta convivenza di individui e la loro esposizione a superfici e strumenti di lavoro, come quelli riscontrabili in ambito ospedaliero, facilitano la diffusione di ceppi di microrganismi resistenti

e attraverso il contagio si possono generare veri e propri focolai epidemici.

Cosa fare a livello locale, nazionale e sovranazionale?

Nessuna campagna di prevenzione funziona se non si raggiunge una diffusa consapevolezza del problema e dell’esistenza di modi per contrastarlo; nel caso delle infezioni è necessario un livello di attenzione costante. Al giorno d’oggi le persone si meravigliano se un’infezione ha esito infausto o ricadute gravi sui malati, a differenza di quello che accade per altri tipi di patologie gravi, come quelle vascolari e quelle oncologiche. Si deve diffondere il concetto che le infezioni possono in gran parte essere prevenute, anche quelle gravi come la sepsi, e che gli antibiotici sono una risorsa preziosa da utilizzare solo su indicazione medica. Dal canto loro, tutti i professionisti sanitari devono dare l’esempio, attuando comportamenti corretti come l’attenzione all’igiene delle mani; medici e farmacisti devono mantenere autorevole coerenza nella prescrizione e dispensazione degli antibiotici. Se vogliamo abbattere le infezioni correlate all’assistenza, dobbiamo tornare all’educazione igienica comportamentale dell’era preantibiotica. Ogni area geografica e ogni ospedale ha le proprie peculiarità e si trova a fronteggiare minacce microbiologiche differenti con pazienti differenti. Basta vedere, per esempio la differente distribuzione dei meccanismi molecolari di resistenza ai carbapenemi nelle Enterobacteriaceae, la presenza di infezioni da Candida auris e la diffusione di focolai di Acinetobacter baumannii e Serratia marcescens. È necessario che la sorveglianza microbiologica sia attiva in ogni ospedale, e che i dati vengano raccolti e analizzati tempestivamente a livello regionale e poi nazionale. Purtroppo la completezza delle informazioni sui tassi di infezione e di Amr conferite dalle Regioni all’Istituto superiore di sanità non è omogenea e in alcuni casi è insufficiente5

Sorveglianza e reporting sono tra i principi cardine dei programmi di prevenzione e controllo delle infezioni. Questi sono fondamentali per salvaguardare pazienti e professionisti, in particolare proteggendo gli individui vulnerabili e il personale sanitario da infezioni evitabili. Inoltre contribuiscono a contrastare l’Amr e innalzare la qualità dell’assistenza sanitaria riducendo le complicanze, la durata dei ricoveri ospedalieri e i decessi legati alle infezioni correlate all’assistenza. Ogni ospedale dovrebbe poter contare su un team multispecialistico che disponga di informazioni diagnostiche e sistemi di sorveglianza per attuare le misure di contenimento. È necessario che tra i professionisti si sviluppi la cultura della prevenzione di precisione, che non può prescindere dall’accessibilità di servizi di microbiologia clinica che dispongano di tecnologie aggiornate per fornire assistenza specialistica tempestiva 24 ore al giorno e 7 giorni alla settimana6

Ocse e Ecdc stimano che un approccio composito, che includa prevenzione e controllo delle infezioni, antimicrobial stewardship, strategie di comunicazione e uso di test diagnostici rapidi, salverebbe 27mila vite ogni anno nell’Ue/ Eea, ripagandosi con un risparmio di 1,4 miliardi di euro all’anno7 .

Fabrizio Gemmi, coordinatore dell’Osservato per la qualità e l’equità  dell’Agenzia regionale di sanità della Toscana.

Le politiche di contrasto all’Amr sono sviluppate soprattutto a livello nazionale e internazionale, con scarso coinvolgimento dei gruppi regionali e locali, in particolare in Europa8. Eppure proprio questi gruppi, forti dell’esperienza diretta nella gestione dei problemi, sarebbero cruciali per sviluppare politiche più efficaci. È quindi necessario cambiare questa situazione e garantire che tali esperienze vengano valorizzate, così da tradursi in iniziative realmente incisive. In Germania, Paesi Bassi, Italia e altri Paesi, le articolazioni regionali per le politiche di prevenzione dell’Amr sono istituite sulla base dei modelli di trasferimento dei pazienti, individuando le aree a maggiore necessità di intervento. Questa strategia tiene conto del fatto che i sistemi sanitari sono soggetti a cambiamenti quali concentrazione della casistica, differenziazione specialistica, fusioni e modifiche contrattuali. Tutti questi fattori influenzano il funzionamento delle reti assistenziali e il rischio di Amr. È importante notare che l’efficacia degli interventi preventivi può variare da un network all’altro e che alcuni ospedali, all’interno di queste reti, occupano posizioni centrali: si tratta degli hub, più inclini a creare e sostenere strutture di rete efficaci e spesso determinanti nell’identificazione e nel contrasto dell’Amr.

1. Whitmee S, et al. Lancet 2015;386:1973-2028.

2. Rudd Ke, et al. The Lancet 2020;395:200-11.

3. Gbd 2021 Antimicrobial resistance collaborators. Lancet 2024; 404:1199-1226.

4. Maugeri A, et al. Global Health 2023;19:12.

5. Iacchini S, et al. Rapporti Iss Sorveglianza. RIS 5/2024. 6. Lotta alla sepsi > call to action. Documento di indirizzo Gruppo tecnico programma regionale di lotta alla sepsi regione Toscana, 2019. Disponibile su: www.ars.toscana. it/lotta-alla-sepsi/lottaAllaSepsi_callToAction

7. Oecd, Ecdc. Antimicrobial resistance tackling the burden in the European Union. Paris, 2019.

8. Pantano D, Friedrich AW. Int J Med Microbiol 2024;314:151605.

Il testo è stato adattato dalla redazione per ragioni di spazio. La versione integrale è disponibile online su https://forward.recentiprogressi.it/it/rivista/numero-39prevenzione/

“Promuovere la salute significa oggi, più che mai, intercettare precocemente i bisogni, educare alla prevenzione, guidare le persone in scelte consapevoli”. Così Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, nell’intervista alla pagina seguente. Eppure, anche un principio in apparenza scontato come “prevenire è meglio che curare” dovrebbe essere oggetto di riflessione. Servono circa mille esami di screening colorettale per evitare un solo decesso1, mentre politiche fiscali sul tabacco salvano dieci volte più vite dello screening polmonare2. È davvero frustrante, ma anche i colloqui tra medico e paziente per aumentare l’esercizio fisico hanno un impatto molto modesto sugli esiti clinici3. La medicina generale (e non solo) è sopraffatta dalla gestione dei pazienti con patologie croniche e di un’utenza spesso asintomatica che diventa oggetto di terapie “preventive”. Nelle pagine che seguono abbiamo scelto di considerare solo alcune delle sfide che si presentano quotidianamente a medici e infermieri, troppo spesso chiamati a surrogare l’assenza di strategie pubbliche e nazionali di prevenzione primaria. Questa espansione del territorio medico, talvolta in mancanza di benefici commisurati e in presenza di un impossibile aumento del tempo a disposizione dei professionisti, è uno dei principali fattori che contribuiscono alla crisi dell’assistenza primaria in molti paesi ad alto reddito4.

1. Johansson M. The questionable value of colorectal cancer screening. BMJ 2023;380:200.

2. Holford TR, Meza R, Warner KE, et al. Tobacco control and the reduction in smoking-related premature deaths in the United States, 1964-2012. JAMA 2014;311:164-71.

3. Chastin S, Gardiner PA, Harvey JA, et al. Interventions for reducing sedentary behaviour in community‐dwelling older adults. Cochrane Database Syst Rev 2021;6:CD012784.

4. Martin SA, Johansson M, Heath I, et al. Sacrificing patient care for prevention: distortion of the role of general practice. BMJ 2025;388:e080811.

Nessun uomo È UN’ISOLA.

E NESSUNA NAZIONE

Serve una sanità che riparta dal territorio, protegga i medici e i cittadini e pazienti più fragili,

Intervista a Filippo Anelli

Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo).

che parli il linguaggio della cooperazione globale per affrontare sfide vecchie e nuove.

Presentando la “Carta di Roma” nel luglio scorso, lei ha sottolineato come la “tutela della salute [sia] un presidio di protezione, un investimento strategico per il futuro e per lo sviluppo dei Paesi europei e deve poter contare su una strategia condivisa e su risorse adeguate”. Allo stesso tempo, in diverse occasioni, lei ha messo in primo piano il ruolo del medico come alleato del cittadinopaziente nella promozione della salute: quanto è importante la Medicina generale nell’ambito delle strategie di medicina preventiva?

La Medicina generale rappresenta uno dei pilastri fondamentali della sanità pubblica. È un punto di riferimento essenziale per i cittadini, soprattutto nell’ambito della prevenzione. Quando, lo scorso luglio, abbiamo presentato la “Carta di Roma”, abbiamo voluto sottolineare con forza che la salute non è solo un bene individuale, ma un vero presidio di protezione collettiva, un elemento cardine per la coesione sociale e per lo sviluppo sostenibile dell’Europa.

In questo contesto, la Medicina generale assume un ruolo strategico. Secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal Open, la continuità di cura nella frequentazione del proprio medico è associata ad una riduzione della mortalità, tanto che “Il tuo medico ti allunga la vita” è diventato lo slogan di una campagna dell’Ordine dei medici di Bari, poi riproposta anche dalla Fnomceo. Il medico di Medicina generale è, infatti, il primo interlocutore del cittadino-paziente, la figura che meglio conosce il suo contesto familiare, sociale, lavorativo, e quindi anche i fattori di rischio che possono incidere sul suo stato di salute. È proprio in questo rapporto fiduciario che si crea il terreno più fertile per una medicina preventiva efficace e personalizzata. Nel dettaglio, il medico di Medicina generale può indirizzare il cittadino agli screening più appropriati per le sue condizioni, partecipa attivamente alle campagne vaccinali, promuovendo le vaccinazioni e somministrandole. Consiglia stili di vita sani, risponde alle domande del cittadino sulla propria salute. Se opportunamente supportato con personale e con strumenti diagnostici, come già previsto con la manovra 2020, potrebbe utilmente svolgere esami diagnostici di primo livello, come ad esempio ecografie, spirometrie, elettrocardiogrammi.

Promuovere la salute è guidare la persona a scelte consapevoli.

Promuovere la salute significa oggi, più che mai, intercettare precocemente i bisogni, educare alla prevenzione, guidare le persone in scelte consapevoli. Ed è qui che la Medicina generale può fare la differenza. Ma perché possa svolgere pienamente questo ruolo, è necessario che venga messa nelle condizioni di farlo: servono investimenti strutturali, risorse umane e tecnologiche, formazione continua, e soprattutto il riconoscimento del valore sociale e professionale dei medici che ogni giorno operano sul territorio. In definitiva, se vogliamo costruire una sanità moderna, equa e sostenibile, dobbiamo ripartire dalla Medicina generale, valorizzandola come snodo centrale delle strategie di prevenzione e promozione della salute a livello nazionale ed europeo.

La Medicina preventiva si è sviluppata in Italia anche grazie alla crescita della consapevolezza dell’importanza della sicurezza sul lavoro. Oggi, gli infortuni sul lavoro non diminuiscono (quasi 600mila denunce nel 2024) e aumentano quelli con esito mortale (1189 nello stesso anno). In modo crescente, anche i medici sono vittime di violenza sui luoghi di lavoro: come prevenire le aggressioni negli ambulatori e negli ospedali?

Una recente ricerca Fnomceo-Censis ha indagato proprio le cause della violenza nei confronti dei medici e degli altri operatori sanitari. Per quanto riguarda la percezione dei cittadini, i dati mostrano un gap tra aspettative ed esperienze concrete, il cui esito inevitabile è un’incrinatura nel rapporto medico-paziente. In concreto, tale rapporto è sempre più schiacciato dai tempi ristretti che gli operatori sanitari possono dedicare all’interazione con pazienti, familiari o caregiver. E origine importante è la carenza di personale, tanto che il 66,4 per cento dei cittadini ha verificato la forte carenza di medici e infermieri, con punte del 71,9 per cento nel Sud e Isole.

Un rapporto incrinato anche dalle esperienze negative vissute dai cittadini nei luoghi essenziali della sanità. Al 52,2 per cento dei cittadini (al 60,5 per cento al Sud e Isole) è capitato di avere, per sé o per un parente, una brutta esperienza in un Pronto soccorso (lunghissime attese, carenza di informazioni, ecc.). In generale, nelle esperienze avute negli anni, il 72,3 per cento dei cittadini ha verificato un peggioramento nel servizio sanitario nel tempo.

In effetti, in venti anni si registra un incremento del carico medio teorico per punto di Pronto soccorso di 7923 unità annue pari a +23 per cento. Anche sul territorio, si registra una diminuzione del numero dei medici di Medicina generale, con conseguente aumento del numero degli assistiti e dei carichi di lavoro.  Gli attuali 37.983 medici di Medi-

cina generale sono in numero inferiore di oltre 9 mila unità rispetto a 20 anni fa e di oltre 7 mila rispetto a 10 anni fa.

Come fronteggiare quindi questo disagio profondo che accomuna medici e cittadini all’interno del Servizio sanitario nazionale? Sicuramente investendo sul servizio sanitario pubblico, aumentando il personale, elevando i livelli di sicurezza delle strutture ed enfatizzando l’importanza della comunicazione come cruciale fattore di prevenzione. In tutti i Pronto soccorso dell’Asl di Bari, dopo una sperimentazione di due anni condotta al Policlinico, è presente l’infermiere di accoglienza e di processo, che agisce da “mediatore” in un’area compresa tra la sala d’attesa e le postazioni di triage, aggiornando i familiari dell’utente in Pronto soccorso riguardo l’iter clinico-diagnostico-terapeutico intrapreso, con informazioni puntuali e costanti, e rispondendo alle richieste provenienti anche dallo stesso paziente in attesa.

Grazie a questa nuova figura professionale è possibile rendere più efficiente la presa in cura del paziente e dei suoi familiari, dal triage alla dimissione e/o ricovero, e creare una rete di collegamento tra i diversi professionisti della salute con l’obiettivo di ottimizzare i tempi d’attesa, ridurre le eventuali tensioni e migliorare così la gestione del processo in ogni singolo passaggio.

Il tempo che i medici dedicano all’ascolto dei pazienti è tempo di cura: lo dice la legge, mutuando il principio dal nostro Codice deontologico. E il tempo è un valore che non viene quantificato dal Servizio sanitario nazionale, eppure è una variabile importante nella dimensione della violenza. Ma oggi i medici hanno sempre meno tempo per parlare con i cittadini. È necessaria una rivoluzione culturale, che porti a considerare anche nei fatti il tempo della comunicazione come tempo di cura e la parola come vero antidoto alla violenza.

Il dialogo col paziente previene la violenza sui professionisti.

Tra gli altri interventi necessari, prioritario investire sui professionisti, come dicevamo: aumentandone il numero e tutelando il loro ruolo professionale. Concludere l’aggiornamento della Raccomandazione ministeriale n. 8 del 2007 per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari. Rafforzare poi i sistemi di gestione del rischio clinico e risk management, implementando le misure che consentono la riduzione dei fattori di rischio anche strutturali, tecnologici ed organizzativi. Migliorare il “pacchetto sicurezza”, con telecamere, dispositivi di sicurezza (uomo a terra con geolocalizzazione) e di allarme rapido, introducendo un coordinamento con le questure per l’intervento delle forze dell’ordine, prevedendo la presenza di personale di vigilanza nei Pronto soccorso e nei luoghi ad alto rischio. Riorganizzare l’accesso nelle strutture sa-

nitarie attraverso misure organizzative e tecnologiche quali ad esempio il telecontrollo dei visitatori.  Rendere sicuri i presidi sanitari ad alto rischio, come le guardie mediche isolate, monitorando l’applicazione delle prescrizioni previste dal documento di valutazione del rischio per la prevenzione della violenza. Ancora, fornire il supporto psicologico e legale agli operatori vittima di violenza. Predisporre percorsi di formazione per il personale al fine di migliorare la comunicazione e gestire gli episodi di violenza. Promuovere campagne di sensibilizzazione pubblica periodiche nazionali e locali, anche in collaborazione con le associazioni dei cittadini. Adottare i regolamenti per l’attuazione della normativa sulla procedibilità d’ufficio prevista dalla legge 113/2020. Istituire infine un fondo speciale dedicato al contenimento del fenomeno.

Sempre in tema di violenza sulla persona, il medico può svolgere un ruolo importante nella vigilanza e nella dissuasione della violenza domestica, anche perché oltre il 70 per cento delle vittime non denuncia all’autorità per timore di vendetta. Come può “muoversi” un medico in un ambito così delicato ma importante?

Proprio facendo leva su quel rapporto di fiducia di cui parlavamo all’inizio, che è alla base della relazione di cura. È importante perciò che i medici, soprattutto quelli che meglio conoscono la paziente o che in ogni caso per primi vengono a contatto con la vittima, medici di Medicina generale, pediatri di libera scelta, medici di continuità assistenziale, medici del Servizio di Emergenza-urgenza territoriale 118 ma anche del Pronto soccorso, odontoiatri e in generale tutti i colleghi, siano opportunamente formati per riconoscere i segni della violenza e per offrire un supporto concreto. Abbiamo apprezzato molto l’impegno dei colleghi dell’associazione Vìola Dauna che hanno elaborato uno strumento elettronico che permette di individuare le situazioni più a rischio, che potrebbe essere esteso a tutti i medici. All’interno della Fnomceo nella scorsa legislatura abbiamo istituito una commissione dedicata a questa tematica che ci tocca molto da vicino e che risponde al dovere deontologico di tutelare in maniera particolare i pazienti fragili, e progettato anche un percorso formativo aperto a tutti i medici italiani.

Le attività di prevenzione traggono vantaggio dalla cooperazione internazionale e da un approccio globale alla preparedness che può proteggere da possibili futuri eventi pandemici: qual è la posizione della Fnomceo su queste tematiche?

Proprio recentemente il Comitato centrale della Fnomceo si è espresso su queste tematiche, ribadendo in una mozione l’importanza di un approccio glo-

bale nella gestione e nella prevenzione degli eventi pandemici. Il piano pandemico è uno strumento essenziale per il contenimento e la gestione delle pandemie. Un patto tra gli Stati ne rafforza l’efficacia, attivando una rete di sinergie che, in un mondo globalizzato, consente di porre in essere azioni coerenti e mirate, finalizzate al miglior contenimento delle malattie trasmissibili a carattere pandemico. Come ripeteva Papa Francesco, nessuno si salva da solo e il Piano-Patto pandemico coinvolge in un’azione coordinata tutti gli Stati nell’affrontare una eventuale pandemia.

La promozione della salute chiede un approccio globale.

In un mondo che ha la necessità di azioni coordinate in tema di salute, l’Organizzazione mondiale della sanità rappresenta un’istituzione che realizza la cooperazione tra gli Stati e che, in tutti questi anni, ha consentito ai Paesi più fragili di fronteggiare situazioni di emergenza sanitaria, attraverso il sostegno e il contributo della comunità internazionale.

In un pianeta sempre più globalizzato la salute merita un approccio globale: tanto che si parla di One health, non solo nel senso di interconnessione tra salute dell’uomo, degli animali e dell’ecosistema, ma anche della stretta interdipendenza tra le popolazioni, dove la vulnerabilità di alcuni diventa vulnerabilità di tutti. Quando si parla di salute, nessun uomo è un’isola, nessun Paese è un’isola. La salute è patrimonio di tutti e va costruita tutti insieme: non solo per affrontare le minacce pandemiche, vicine o lontane che siano, perché è vero che virus e batteri non conoscono confini, ma è ancora più vero che proprio sulla mancanza di comunicazione e di cooperazione giocano per diffondersi con più velocità e forza. Ma anche e soprattutto per elaborare strategie di prevenzione delle malattie non trasmissibili e aumentare il grado di salute e di benessere di tutte le popolazioni del mondo, in un circolo virtuoso dove la salute del mio vicino è fonte della mia salute.

Oggi più che mai è dunque irrinunciabile l’adesione a un organismo sovranazionale, che lanci in tempo reale gli alert necessari e che coordini strategie globali di prevenzione e di risposta a eventuali minacce. Che, soprattutto, metta in moto un meccanismo di solidarietà che, aiutando le popolazioni più fragili, aumenti la salute del pianeta.

A cura della redazione

EDUCAZIONE, TECNOLOGIA, VISIONE CONDIVISA

Le basi per un nuovo modello di salute preventiva

Intervista a Guido di Donato

Nell’intervista pubblicata su questo numero di Forward (vedi pp. 29-30), il presidente Fnomceo, Filippo Anelli, sottolinea l’importanza delle cure primarie come spazio elettivo per la promozione della salute. È una convinzione condivisa anche da un’azienda farmaceutica?

Certamente. Le cure primarie rappresentano il primo punto di contatto dei cittadini con il Sistema sanitario e hanno un ruolo cruciale nella promozione della salute e nella prevenzione delle malattie. La loro importanza si fonda su quattro ambiti principali.

1. Accessibilità e prossimità: garantire assistenza capillare sul territorio, intercettando precocemente i bisogni di salute.

2. Prevenzione e diagnosi precoce: è possibile ridurre il carico di malattie croniche e infettive attraverso screening, vaccinazioni e counseling.

3. Gestione della cronicità: assicurare continuità assistenziale e aderenza terapeutica, riducendo complicanze e ospedalizzazioni.

4. Educazione sanitaria: promuovere stili di vita sani, rafforzando la responsabilità individuale verso la propria salute.

In questo quadro anche le aziende farmaceutiche possono contribuire in modo significativo a rafforzare le cure primarie, sia per il loro ruolo fondamentale, ovvero portare innovazione terapeutica e vaccinale, sia grazie al fatto che un’azienda farmaceutica non si limita al solo sviluppo e produzione di farmaci, ma partecipa attivamente a iniziative di educazione sanitaria, prevenzione e sensibilizzazione contribuendo alla salute pubblica in modo proattivo.

Pfizer in questo collabora con strutture sanitarie, enti locali, associazioni di pazienti e organizzazioni non profit. Un esempio importante di collaborazione con gli enti locali è sicuramente il progetto di prevenzione “Nontiscordardimé 2025” attivo nei quartieri delle Asl Roma 1, Roma 2 e Roma 3, con un focus sugli over 65 che spesso rimangono esclusi dai percorsi sanitari tradizionali. L’attività prevede screening gratuiti per la prevenzione delle malattie cardiovascolari e polmonari, effettuati su unità mobili sanitarie con personale medico e infermieristico specializzato.

Oggi il concetto di “obbligatorietà” entra in conflitto con quello di “promozione” della salute che è alla base di qualsiasi efficace azione preventiva. È giusto che alcuni vaccini siano obbligatori o bisognerebbe investire maggiormente in azioni formative e culturali?

“Non c’è vero diritto senza il corrispettivo dovere”, diceva Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica “Centesimus annus”. Se la salute è un diritto garantito dalla Costituzione, inevitabilmente devono esserci doveri a contrappeso, in particolare quando si parla di igiene e salute pubblica. Che poi questo dovere rimanga morale o divenga un obbligo di legge è materia per il legislatore. La storia recente degli obblighi vaccinali è ben conosciuta e continua a infiammare il dibattito non scientifico. Le aziende continuano a stimolare il dibattito sul modo migliore di proteggere la salute individuale e collettiva e garantire equità nell’accesso alle cure, ai farmaci e ai vaccini; ma investono anche in progetti educativi nelle scuole e nelle università con l’obiettivo di promuovere l’alfabetizzazione scientifica, combattere la disinformazione e rafforzare la fiducia nel Servizio sanitario nazionale. L’obiettivo primario è creare consenso promuovendo la cultura medico-scientifica in un momento storico in cui il rischio di disinformazione e fake news in ambito salute è altissimo. Anche in questo caso ho piacere a citare un nostro progetto: con “A dire il vero” siamo andati in diverse scuole superiori di Roma e all’università, formando oltre 500 studenti con il metodo learning-by-doing

Pfizer, da sempre, è in prima linea per produrre vaccini efficienti e lo ha mostrato anche durante la pandemia di covid-19. Come si sta muovendo la ricerca in ambito vaccinale?

La ricerca sui vaccini sta vivendo un’epoca di straordinaria innovazione, spinta anche dal successo dei vaccini a mRna contro il covid-19. Questa tecnologia sta aprendo scenari impensabili fino a pochi anni fa, andando oltre la prevenzione delle sole malattie infettive. Pfizer è tra i protagonisti di questa rivoluzione e sta esplorando attivamente nuove applicazioni dell’mRna in ambiti diversi. In oncologia i cosiddetti “vaccini anticancro”, che addestrano il sistema immunitario a riconoscere e colpire le cellule cancerose. La piattaforma mRna apre strade promettenti anche per le malattie autoimmuni e per alcune patologie genetiche rare, dove può fornire alle cellule le istruzioni per produrre proteine mancanti o corrette. L’obiettivo che ha Pfizer è – e sarà sempre – aprire la strada a nuove terapie e strategie di prevenzione, con l’obiettivo di migliorare la vita dei pazienti in un modo rivoluzionario.

Negli ultimi mesi il Governo italiano ha adottato una posizione di prudenza, scegliendo di non aderire pienamente alle direttive dell’Organizzazione mondiale della sanità sulla preparedness alle prossime pandemie. Dal punto di vista di un’Azienda che si muove costantemente a livello globale, come valuta questo approccio? Ritiene che possa avere implicazioni rilevanti per il settore farmaceutico e per il sistema Paese?

Il Governo italiano ha il diritto di fare le scelte in linea con il proprio programma politico. L’auspicio da cittadino è sempre quello che in un mondo interconnesso si riesca a trovare un “minimo comune multiplo sanitario” tra i Paesi in modo da creare un’infrastruttura e degli standard comuni. È quello che l’Europa sta cercando di fare attraverso l’Eu Joint clinical assessment, una valutazione clinica congiunta che ciascun Paese userà poi per le proprie decisioni di accesso e rimborso. Il rischio per una multinazionale, infatti, è trovarsi a gestire regole frammentate tra Paesi, complicando i tempi di sviluppo, commercializzazione ma anche di logistica e distribuzione di farmaci e vaccini.

A cura di Rebecca De Fiore

Guido di Donato, Primary Care Lead Italy di Pfizer, guida le attività finalizzate a rafforzare il ruolo delle cure primarie e della prevenzione nella sanità pubblica.

A VOLTE, MENO È MEGLIO

La prevenzione bidirezionale: prescrivere e deprescrivere

Nell’immaginario comune, il ruolo dei farmaci a scopi preventivi è chiaro e monodirezionale: l’assunzione di farmaci riduce il rischio di malattia. Un tipico esempio riguarda le statine, che vengono prescritte sia in prevenzione primaria, per abbassare i livelli di colesterolo e prevenire i rischi associati all’ipercolesterolemia sia in prevenzione secondaria, per esempio a seguito di eventi acuti cardio/cerebrovascolari.

Per decenni, l’impostazione di aggiungere farmaci a scopi preventivi ha favorito, nella pratica, la prescrizione di politerapia farmacologica per molti pazienti, e in particolare nella fascia più anziana della popolazione.

Un cambio di paradigma: la riconciliazione terapeutica

Negli ultimi anni, nell’ambito della prevenzione si sta al contrario sempre più diffondendo un paradigma diverso, che potremmo definire “bidirezionale”: le terapie farmacologiche croniche possono essere prescritte ma anche rimodulate o interrotte (de-prescribing), sempre in un’ottica di prevenzione. Tale approccio deriva dalla consapevolezza che l’accumulo nell’organismo di molti farmaci comporta una serie di rischi, come: reazioni avverse, interazioni tra farmaci, ridotta aderenza da parte del paziente per la difficoltà di comprendere e seguire correttamente le molteplici prescrizioni; nei casi più gravi la compromissione dello stato funzionale e l’aumento delle cadute. Un rimedio spesso utilizzato per contrastare tali eventi è stata la prescrizione di ulteriori farmaci, alimentando così il circolo vizioso che incrementa i rischi associati alla politerapia. Non da ultimo, in questa logica vengono generati costi sanitari associati alla politerapia e ai relativi rischi, che sarebbero in parte evitabili.

Le terapie farmacologiche croniche possono essere prescritte ma anche rimodulate o interrotte, sempre in un’ottica di prevenzione.

Di fronte a questa consapevolezza, la riconciliazione terapeutica sta guadagnando sempre più importanza. Si tratta di un esercizio di revisione delle terapie croniche in atto, per decidere se il rapporto beneficio-rischio delle diverse terapie giustifica l’assunzione di ogni singolo farmaco. Questa valutazione può portare quindi alla sospensione di uno o più farmaci, una modifica del dosaggio oppure a uno switch terapeutico verso un farmaco alternativo.

Mentre in alcuni Paesi, quali per esempio i Paesi Bassi, il Canada e l’Australia, i programmi di medication review sono già parte integrante del servizio sanitario, in Italia siamo ancora agli inizi, ad eccezione di alcune rilevanti iniziative sparse sul territorio nazionale. Un primo passo importante è stato la redazione di un documento intersocietario sul tema, che pone le basi teoriche per l’implementazione di servizi di medication review e de-prescribing nei vari setting assistenziali. Gli esempi di implementazione variano da modelli basati su ambulatori ospedalieri, dove con l’aiuto di farmacologi clinici, farmacisti ospedalieri e/o clinici vengono rivalutate le terapie di singoli pazienti durante il ricovero o alla dimissione, a iniziative rivolte direttamente alla medicina generale.

Un modello territoriale per i medici di famiglia

Un approccio diverso e diretto ai medici di medicina generale, è proposto dal progetto pilota Ri-Medi (servizio di medication review e de-prescribing nella medicina territoriale nella Asl Roma 1). L’idea è stata quella di scegliere, insieme a un panel di esperti, specifici focus terapeutici potenzialmente oggetto di de-prescribing, come per esempio le statine, al fine di offrire ai medici materiale aggiornato alle più recenti evidenze scientifiche, evidenziando potenziali aree di inappropriatezza prescrittiva. Nel caso delle statine, per esempio, non sussistono evidenze di beneficio se prescritte in prevenzione primaria a pazienti di 80 anni o più; in questi casi vale la pena valutare l’interruzione della terapia in atto e non introdurre un ulteriore farmaco ex novo L’iniziativa, realizzata con un team multidisciplinare che coinvolge figure professionali come medici, farmacisti, farmacologi, epidemiologi, infermieri e manager sanitari, prevede inoltre l’identificazione di un paziente “tipo”, ovvero un profilo di assistito potenzialmente candidabile all’intervento di medication review/de-prescribing, specificamente per ogni area terapeutica in questione. Questo elemento, insieme alla figura di un facilitatore non-medico, che affianca i medici di medicina generale attraverso le cosiddette educational outreach visits, mira ad alleggerire il carico lavorativo per il singolo medico. Questo modello intende sensibilizzare i medici di medicina generale su determinati farmaci o gruppi di farmaci a maggiore rischio di inappropriatezza prescrittiva, fornendo loro gli strumenti da applicare ai loro assistiti e a partire da casistiche realmente presenti tra i pazienti in carico ai singoli medici di medicina generale.

Il modello territoriale proposto in Ri-Medi risulta compatibile ma non sovrapponibile ad altri approcci, come quello basato su un ambulatorio ospedaliero. La loro adozione su larga scala potrebbe, da prospettive complementari, contribuire a prevenire eventi avversi – quali accessi al pronto soccorso o ospedalizzazioni – e, indirettamente, a ridurre i costi sanitari legati sia a tali eventi sia alla prescrizione di farmaci in assenza di un comprovato beneficio clinico.

La riconciliazione terapeutica è un esercizio di revisione delle terapie croniche in atto, per decidere se il rapporto beneficio-rischio delle diverse terapie giustifica l’assunzione di ogni singolo farmaco.

Documento intersocietario sull’implementazione del servizio di medication review e de-prescribing nei vari setting assistenziali

Carollo M, Cocchi C, Crisafulli S, et al. Osservatorio Macroscopio. Aderenza, deprescribing e Pdta. Roma: Il Pensiero Scientifico, 2023.

Ursula Kirchmayer, lavora come epidemiologa al Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio - Asl Roma 1, in ambito di epidemiologia valutativa con particolare focus sulla farmacoepidemiologia. È presidente della International society for pharmacoepidemiology.

Grazie ai programmi di vaccinazione e screening

ERADICARE IL TUMORE DELLA CERVICE UTERINA è possibile

Professoressa Lorusso, come si sono evolute le strategie di prevenzione per il tumore della cervice uterina?

Il tumore della cervice uterina rappresenta uno dei pochi tumori in oncologia per cui esiste una prevenzione primaria, cioè una strategia per evitare completamente l’insorgenza della malattia. Questo è possibile perché se ne conosce la causa: nel 90 per cento dei casi infatti il tumore è legato all’infezione da papilloma virus, trasmesso prevalentemente per via sessuale. Questa conoscenza eziologica ci ha permesso di sviluppare strategie preventive estremamente efficaci su due fronti. Per quanto riguarda la prevenzione primaria, disponiamo di un vaccino sicuro ed efficace che contiene nove ceppi virali e protegge anche verso genotipi correlati grazie alla protezione crociata tra famiglie virali. L’efficacia del vaccino è inversamente proporzionale all’esposizione pregressa al virus: raggiunge il 100 per cento in assenza di contatto precedente, mentre si riduce in caso di esposizione pregressa pur mantenendo comunque livelli di protezione significativi. La protezione è massima nelle età più giovani, per questo il vaccino è offerto gratuitamente fino a 26 anni in tutte le regioni, anche nei maschi. Tuttavia, disponiamo di evidenze di protezione fino a 54 anni e non esistono ragioni scientifiche per ritenere che l’efficacia diminuisca oltre questa età.

La cervice uterina offre anche una seconda importante opportunità preventiva attraverso la prevenzione secondaria. Prima che si sviluppi il tumore vero e proprio, si verificano una serie di lesioni precancerose che rappresentano la trasformazione iniziale del tessuto cervicale causata dall’infezione virale. Queste trasformazioni progrediscono molto lentamente, nell’arco di anni, il che ci offre una finestra temporale preziosa per intercettarle attraverso test di screening. Disponiamo di due metodiche principali: il pap test, che si effettua ogni tre anni nella fascia di età 25-29 anni, e l’hpv test, utilizzato ogni cinque anni dai 30 ai 65 anni. L’implementazione di questi programmi ha determinato una riduzione significativa dell’incidenza della malattia e potremmo ottenere risultati ancora migliori favorendo l’adesione ai programmi vaccinali e di screening.

Dobbiamo investire molto di più sulla prevenzione perché questo tumore potrebbe scomparire, oggi abbiamo gli strumenti per farlo.

Secondo i dati del Ministero della salute, in Italia la copertura vaccinale è in crescita, ma non raggiunge ancora gli standard europei, così come l’adesione ai programmi di screening. Come mai?

Il problema principale risiede nell’approccio comunicativo adottato all’inizio della campagna vaccinale. Quando abbiamo iniziato a proporre la vaccinazione, abbiamo commesso un errore strategico presentandola come prevenzione di infezioni sessualmente trasmissibili rivolta a bambine di dodici anni o anche più piccole. In realtà ci stavamo rivolgendo ai genitori, e risulta comprensibilmente difficile per un genitore accettare

LO SCREENING PER IL TUMORE DEL COLLO DELL'UTERO IN ITALIA

Secondo il Rapporto “I numeri del cancro in Italia” del 2024, si sono stimate circa 2400 nuove diagnosi di tumore della cervice uterina. La maggior parte di questi casi è attribuibile all’infezione da parte del papilloma virus umano. Nel 2024 i programmi di screening per il tumore della cervice hanno raggiunto una copertura del 51%. Si tratta di risultati positivi, dato che il valore minimo per l’efficacia dell’intervento è del 50%. Tuttavia, restano marcate le differenze territoriali, con uno scarto tra Nord e Sud-Isole di 27,5 punti percentuali.

l’idea che la propria figlia dodicenne possa avere la necessità di prevenire una malattia sessualmente trasmessa in futuro. Se avessimo comunicato fin dall’inizio che si trattava di un vaccino anticancro – che è esattamente quello che è – probabilmente avremmo ottenuto un successo molto maggiore in termini di adesione. Oggi è fondamentale lavorare su questa consapevolezza: non stiamo prevenendo infezioni comuni come la candida o la sifilide, ma uno dei tumori femminili più aggressivi, caratterizzato da una sintomatologia severa che compromette gravemente la qualità di vita delle pazienti.

Su questo aspetto dovremmo intensificare l’informazione e la sensibilizzazione. Tuttavia, sono moderatamente ottimista grazie all’allargamento dell’età vaccinale: pur essendo vero che il vaccino risulta meno efficace dopo una probabile esposizione pregressa al virus, è anche vero che oggi si rivolge non più solo alle bambine, ma alle donne adulte, più consapevoli della propria vita sessuale e delle implicazioni per la salute. I dati mostrano già segnali incoraggianti: dopo il calo registrato durante la pandemia, i tassi di adesione vaccinale stanno progressivamente migliorando.

Quali sono ad oggi le terapie per questo tipo di tumore?

Per tumori sotto i 4 centimetri si ricorre alla chirurgia, che non deve essere fatta in laparoscopia perché le tecniche mini invasive, secondo i dati a disposizione, aumentano il rischio di recidiva, forse per una manipolazione del collo dell’utero durante l’intervento. Quindi si procede con un intervento classico in laparotomia e con l’asportazione del linfonodo sentinella, il primo linfonodo che drena la malattia, se è negativo siamo ragionevolmente convinti che tutti gli altri saranno negativi. Per tumori un po’ più avanzati, si utilizza la radio-chemioterapia concomitante, oggi potenziata dalle tecniche conformazionali, più efficaci e che riducono maggiormente gli effetti collaterali. Negli stadi localmente avanzati ad alto rischio, l’aggiunta dell’immunoterapia ha dimostrato di ridurre del 30-50 per cento il rischio di morte. Questo rappresenta un progresso considerevole nel trattamento delle forme localmente avanzate dove aumentare la sopravvivenza vuol dire guarire una quota maggiore di pazienti.

Qual è l’importanza dei centri di riferimento?

La presa in carico nei centri specializzati è fondamentale. I tumori della cervice non devono recidivare perché nello scenario migliore la paziente ha solo due anni di sopravvivenza con un tumore altamente doloroso e sintomatico. Il primo trattamento è cruciale e richiede un team multidisciplinare composto da chirurgo, radioterapista oncologo, ginecologo oncologo, medico oncologo e tante altre figure importanti nel percorso. La paziente deve essere inquadrata a 360 gradi per definire il miglior programma di trattamento. Per concludere, l’immunoterapia ha rappresentato un progresso significativo nella malattia localmente avanzata, ma dobbiamo investire molto di più sulla prevenzione perché questo tumore potrebbe scomparire, oggi abbiamo gli strumenti per farlo.

A cura di Giada Savini

Domenica Lorusso, professore ordinario presso l’Humanitas university di Rozzano e direttore dell’Unità operativa di Ginecologia oncologica, presso l’Humanitas San Pio X di Milano. Si occupa dello sviluppo del trattamento delle neoplasie ginecologiche e dell’attività di ricerca clinica, strutturando un servizio multidisciplinare che accompagna le pazienti nell’intero percorso di cura.

Prevenzione al MASCHILE

Dietro ai casi di cronaca delle morti cardiache improvvise

Gran parte dei casi di morte cardiaca improvvisa nello sport riguardano uomini: calciatori, pallavolisti, ciclisti. Discipline diverse, un denominatore comune: il sesso maschile. Ma perché? Questi eventi colpiscono davvero di più gli atleti uomini o semplicemente i riflettori restano meno puntati sullo sport femminile? Una parte della risposta può dipendere anche dal clamore mediatico che in questi casi si crea attorno agli sport e ai personaggi più seguiti. Come osserva Stefano Bordignon, elettrofisiologo del Cardioangiologisches Centrum Bethanien di Francoforte sul Meno1, gli atleti sono da sempre percepiti come simboli di salute e quando vanno incontro a problemi cardiaci la reazione dei media e della società genera clamore, spesso a scapito di un’informazione accurata e fondata sulle evidenze.

Ricordate Davide Astori, Christian Eriksen, Edoardo Bove? Forse l’ordine con cui i loro nomi affiorano alla memoria dipende dall’età di chi risponde, qualcuno potrebbe pensare ad altri, magari a Piermario Morosini, ma sicuramente per gli appassionati di pallone non bisogna aggiungere altro. Cosa li accomuna? Sono atleti professionisti, che hanno sofferto di un arresto cardiaco improvviso. E sono tutti uomini. Quando storie del genere finiscono al centro delle cronache si fa fatica a credere che atleti giovani, controllati e apparentemente sani possano rischiare problemi cardiovascolari così gravi. Ma questi eventi sembrano accadere – se non spesso – comunque con una certa regolarità, e sempre ad atleti uomini. Ma davvero il sesso biologico influisce?

Prima ancora di entrare nel merito delle differenze di genere vale la pena soffermarsi sull’aspetto metodologico, per capire se le attuali tecniche di screening garantiscano davvero risultati soddisfacenti. “Purtroppo, le prove scientifiche sull’efficacia dello screening medico-sportivo nel ridurre il rischio di eventi cardiaci gravi o di morte improvvisa non risultano univoche nei risultati e quindi non possono essere considerate solide” ha commentato Camilla Alderighi, cardiologa al Poliambulatorio della Misericordia di Sesto Fiorentino. “Gli studi svolti finora, infatti, hanno dato risultati contrastanti sulla reale capacità dello screening di identificare atleti e atlete effettivamente a rischio di morte improvvisa”.

Circa vent’anni fa sono stati pubblicati dati italiani molto favorevoli: in Veneto, dove è stato condotto lo studio, la riduzione della mortalità da sport è di circa il 90 per cento3. Secondo Alderighi, tali risultati non sono stati confermati nella stessa entità in studi svolti in altri Paesi e questa incertezza della letteratura scientifica si riflette nella mancanza di un consenso internazionale su un protocollo univoco di screening.

Per affrontare ora la questione di genere, una revisione sistematica recente ha evidenziato come gli atleti abbiano un rischio di morte improvvisa durante l’attività sportiva circa cinque volte superiore rispetto alle atlete4.  Secondo Raffaele Rasoini, anche lui cardiologo del Misericordia di Firenze, dato che anche gli studi più recenti confermano lo stesso divario, questa differenza può essere attribuita solo in parte alla storica minore partecipazione femminile allo sport.

“Un altro elemento da tenere in considerazione sono le cause di morte improvvisa: nelle donne infatti prevalgono anomalie congenite coronariche, negli uomini la cardiomiopatia ipertrofica” ha aggiunto Rasoini. “Fattori biologici e ormonali potrebbero contribuire a queste differenze, ma una comprensione più approfondita aiuterebbe certamente a indirizzare meglio le valutazioni medico-sportive”.

Quindi la risposta non è univoca. D’altra parte, sempre a proposito di differenze di genere, dall’analisi di registri sugli arresti cardiaci testimoniati sul territorio – quindi non necessariamente durante attività sportiva – è stato osservato che le manovre di rianimazione sulle donne risultano meno efficaci che sugli uomini, anche a parità di tempo di intervento.

“Altre motivazioni possibili includono l’età più avanzata delle donne e una maggiore frequenza di ritmi cardiaci non defibrillabili alla presentazione, ma sono state descritte anche una sottostima iniziale della gravità, l’esitazione dei soccorritori a rimuovere i vestiti e la scarsa rappresentazione del corpo femminile nei materiali formativi della rianimazione cardio-polmonare”, ha continuato Rasoini. Insomma, la lista è lunga.

Il testo è stato adattato dalla redazione per ragioni di spazio. La versione integrale è disponibile online su https://forward. recentiprogressi.it/it/ rivista/numero-39prevenzione/

Facciamo un passo indietro. Lo screening per l’attività sportiva, introdotto in Italia più di quarant’anni fa, è lo strumento chiave per prevenire la morte improvvisa di atleti e atlete, e individua precocemente problemi cardiaci che potrebbero aumentare il rischio di complicazioni durante l’esercizio fisico. In Italia la definizione di idoneità o non idoneità all’attività sportiva si fonda su due pilastri: sul piano normativo il decreto ministeriale 18/2/1982 (e successive integrazioni); sul piano metodologico le linee guida Cocis, che traducono la normativa in linee guida per la valutazione medico sportiva di atleti e atlete2. Un atleta ritenuto non idoneo all’attività agonistica non può partecipare a competizioni sportive: temporaneamente, se la condizione diagnosticata è curabile, o in modo permanente.

Con l’aumento significativo degli ultimi decenni della partecipazione femminile allo sport, sia in Italia che a livello internazionale, sarà fondamentale prestare attenzione a questi aspetti nei criteri di inclusione dei trial. C’è da dire che questo non è un tema che appartiene solo al mondo sportivo, ma alla cardiologia in generale: di recente, è stato valutato il rapporto donne/ uomini arruolati negli studi rispetto alla prevalenza della malattia nella popolazione. Nella review non sono stati analizzati nello specifico paper sulla morte cardiaca improvvisa, ma le conclusioni hanno sottolineato una sottorappresentazione persistente delle donne nel caso di trial sulle cardiopatie coronariche – proprio la causa prevalente di morte cardiaca improvvisa nelle donne – nelle sindromi coronariche acute e nelle aritmie. L’arruolamento è maggiore in studi su obesità e ipertensione polmonare5

Finora il privilegio maschile ha segnato profondamente il disegno dei trial e la ricerca. In attesa di studi più attenti alle differenze di genere, quando i media racconteranno casi come quelli di Astori, Eriksen e Bove, il loro compito sarà ricordare che la strada verso la parità è ancora lunga.

Andrea Calignano Il Pensiero Scientifico Editore - Think2it

1. Bordignon S. Presentazione dell’edizione italiana. In: Case C, Mandrola J, Zinn L. Il cuore fuori controllo. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2018.

2. Cocis - Protocolli cardiologici per il giudizio di idoneità allo sport agonistico. Società italiana di cardiologia sportiva e Federazione medico sportiva italiana, 2023.

3. Corrado D, Basso C, Pavei A, et al. Trends in sudden cardiovascular death in young competitive athletes after implementation of a preparticipation screening program. JAMA 2006;296:1593-601.

4. Li L, Le Douairon Lahaye S, Ding, S, et al. Sex differences in the incidence of sudden cardiac arrest/ death in competitive athletes: a systematic review and meta-analysis. Sports Med 2025;55:697-712.

5. Rivera FB, Magalong JV, Bantayan NRB, et al. Participation of women in cardiovascular trials From 2017 to 2023: a systematic review. JAMA Netw Open 2025;8:e2529104.

SI PUÒ PREVENIRE

LA VIOLENZA DOMESTICA?

Il ruolo del territorio come sentinella

possono intercettare episodi di violenza precocemente perché hanno molteplici contatti approfonditi con le vittime, perché talvolta entrano nelle loro case e hanno con loro rapporti professionali di fiducia e spesso di lunga durata. Le procedure dotano i medici di uno strumento semplice e sintetico (alcuni moduli e una serie di istruzioni) per segnalare ai nodi della Rete episodi di violenza sospetti o acclarati, riducendo, inoltre, il senso di isolamento e frustrazione che vivono i professionisti nei loro ambulatori.

Formazione e collaborazione

Come si evince dai dati della Polizia criminale relativi alle vittime di omicidio in ambito familiare, una donna viene uccisa dal proprio partner o ex-partner almeno ogni tre giorni (123 nel 2021, 130 nel 2022, 120 nel 2023, 113 nel 2024)1. Mentre politiche di prevenzione dei reati di genere sembrano aver ridotto il numero di omicidi con vittime maschi, negli anni, in Italia, il numero di omicidi con vittime femmine si mantiene stabile.

Aguardare questi dati – insieme a quelli del Ministero degli interni relativi ai reati spia per violenza di genere (maltrattamenti contro familiari, atti persecutori, violenza sessuale e altri reati introdotti con il Codice rosso) e ai dati del Ministero della salute relativi a ricoveri e accessi ai Pronto soccorso per violenza – sembra che la prevenzione della violenza fisica, psicologica ed economica contro le donne, in particolare quella agita nelle relazioni intime e in ambito domestico, sia difficilmente arginabile.

Prevenzione primaria e secondaria

Ma si può prevenire la violenza contro donne e minori agita in ambito familiare? Certamente occorre una riflessione complessa, dove prevenzione primaria e secondaria si integrino in politiche efficaci, non ideologiche e, possibilmente, evidence-based.

Rispetto ai quattro pilastri per il contrasto alla violenza prospettati dalla Convenzione di Istanbul, la risposta istituzionale, ad oggi, è

stata principalmente orientata a rendere più cogenti e severi i procedimenti contro il colpevole e cercare di favorire la protezione delle vittime. Complessivamente sembrano esigui i risultati in termini di prevenzione e politiche integrate.

La prevenzione primaria della violenza domestica è indispensabile, ma difficile da attuare. Questo tipo di prevenzione non può che passare attraverso politiche educative e sociali di lungo periodo, che portino al dissolversi progressivo degli stereotipi di genere e favoriscano il sostegno dei nuclei familiari affinché le dinamiche di potere all’interno del nucleo siano fisiologiche e sufficientemente equilibrate. Trovano ancora troppo poco spazio realtà volte a educare al rispetto di sé e dell’altro. Solo investendo su programmi educativi orientati al rispetto e alla parità di genere rivolte a un’ampia popolazione di giovanissimi e giovani, la prevenzione primaria della violenza domestica e di genere potrà trovare un certo grado di attuazione.

La prevenzione secondaria può invece svilupparsi ampiamente incardinandosi su presidi diffusi e accessibili, le cosiddette “sentinelle” capaci – perché formate a tale scopo – di identificare e far emergere la violenza ai primi stadi, prima che l’escalation che la caratterizza porti le vittime a subire conseguenze di lungo periodo severissime o addirittura fatali, e orienti vittime (e auspicabilmente i perpetratori) verso percorsi di uscita dalla violenza.

Un esempio di buone pratiche utili nella prevenzione secondaria della violenza domestica è rappresentato dalle “Procedure per il riconoscimento e la presa in carico della donna e del minore vittime di violenza domestica” rivolto ai medici del territorio, adottate dalla Rete interistituzionale antiviolenza di Pavia2 Il principio alla base di tali procedure è che medici di medicina generale, pediatri di libera scelta e medici di continuità assistenziale

Nel 2023, l’adozione delle procedure da parte della Rete è stata accompagnata da una formazione aperta a tutti i circa 500 medici della provincia pavese e agli studenti dell’ultimo anno di Medicina dell’Università di Pavia. Nell’anno successivo gli invii di donne ai centri antiviolenza della Rete eseguiti dai medici del territorio sono aumentati dell’800 per cento, un impatto evidente in termini di emersione e presa in carico da parte dei servizi preposti. Nel corso del biennio 2025/2026 sono previste formazioni rivolte ai medici del territorio a piccoli gruppi, secondo il nuovo modello organizzativo di Regione Lombardia, al fine di raggiungere capillarmente i professionisti sanitari. La consapevolezza che l’impegno di tutti gli operatori – se adeguatamente formati e guidati da semplici protocolli – può far emergere racconti di violenza vissuti dalle vittime e favorirne l’invio e la presa in carico da parte dei centri antiviolenza è nodale in un’ottica di prevenzione secondaria. Parimenti, è importante riconoscere la necessità del lavoro in rete per far sentire le vittime accolte e protette e gli operatori stessi adeguatamente supportati nella loro attività di presidio. In questi contesti di estrema fragilità, infatti, è essenziale evitare personalismi e giudizi da parte degli operatori che, attraverso procedure condivise, possono invece garantire un’assistenza sociosanitaria di elevata qualità.

Oggi, la formazione di soggetti che possano presidiare il territorio contro la violenza domestica e svolgere quindi prevenzione secondaria si rivolge a forze dell’ordine, medici di pronto soccorso, assistenti sociali, avvocati e psicologi. Questo principio di dotare specifiche figure professionali, capillarmente presenti nel territorio, di strumenti agili e facili per l’identificazione e l’accompagnamento delle vittime ai servizi preposti può essere adattato nei modi più opportuni e sostenibili. In futuro, potrebbero svolgere un ruolo importante anche farmacie, centri estetici e sportelli bancari: esistono già progetti di formazione in tal senso che sarà interessante monitorare.

Stefano Cartesegna, medico di medicina generale dell’Azienda sociosanitaria territoriale di Pavia. È coordinatore dell’Osservatorio antiviolenza dell’Ordine dei medici di Pavia.

Margherita Saraceno, professoressa di economia pubblica del Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Pavia. Fa parte dell’Osservatorio antiviolenza dell’Ordine dei medici di Pavia.

1. Ministero degli interni. Direzione centrale Polizia criminale. Servizio analisi criminale. Omicidi volontari consumati in Italia. Roma, febbraio 2025 2. Cartesegna S, Saraceno M. La violenza domestica e il ruolo dei medici del territorio. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2024.

Omicidi volontari consumati in Italia Anni 2015- 2024

Bambini sani OGGI, adulti in salute DOMANI

Le basi della salute si costruiscono

nei primi anni di vita: il

contributo dell’infermieristica pediatrica

Valentina Vanzi, infermiera pediatrica, fa parte del Centro di eccellenza per la cultura e la ricerca infermieristica dell’Ordine delle professioni infermieristiche (Opi) di Roma. È presidente della Commissione Albo infermieri pediatrici dell’Opi di Roma e della Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche.

L’infanzia e l’adolescenza rappresentano una fase delicata e cruciale dello sviluppo umano, in cui si pongono le basi per la salute futura degli individui e delle comunità. Il contributo dell’infermieristica pediatrica in questo contesto può ridefinire e plasmare un nuovo concetto di prevenzione, attuale e orientato alla società moderna.

In Italia, secondo i dati Istat, bambini e adolescenti (fascia d’età 0-18 anni) costituiscono circa il 16 per cento della popolazione, pari a oltre 9 milioni di persone. Il contesto in cui questi bambini nascono, crescono e diventano adulti è segnato da un profondo mutamento del paradigma della sociologia pediatrica, caratterizzata dalla denatalità e dall’inverno demografico, dall’aumento delle patologie croniche in età evolutiva1, dalla diffusione del disagio psicosociale e dei disturbi neuropsichiatrici2, ma anche dall’alta frequenza di stili di vita nocivi3 e della riduzione delle coperture vaccinali4 che minano l’integrità fisica e mentale.

Tutti questi fattori influenzano i processi di sviluppo e di crescita, ma soprattutto i bisogni socioassistenziali che ne derivano. In un mondo dove non è più possibile limitarsi a essere osservatori dell’infanzia, è necessario considerare la proattività come la vera terapia, che non si esaurisce nella cura ma si estende alla prevenzione delle condizioni morbose.

In un mondo dove non è più possibile limitarsi a essere osservatori dell’infanzia, è necessario considerare la proattività come la vera terapia, che non si esaurisce nella cura ma si estende alla prevenzione.

In questo scenario complesso, l’infermiere pediatrico assume un ruolo centrale, definito dal proprio profilo professionale (dm 70/1997), che ne sancisce la funzione preventiva, curativa, palliativa e riabilitativa, di natura tecnica, relazionale ed educativa.

La risposta ai bisogni socioassistenziali di una popolazione tanto vulnerabile si ritrova proprio nelle righe che delineano la natura stessa della professione infermieristica pediatrica. Tra le funzioni principali, una dimensione fondamentale e insostituibile è rappresentata dall’assistenza ai malati e ai disabili in età evolutiva e alle loro famiglie. Tuttavia, oggi più che mai, è necessario ribilanciare questa attività con un impegno concreto nella prevenzione.

Molti determinanti della salute futura si stabiliscono proprio durante l’infanzia e l’adolescenza. Intervenire oggi per prevenire domani significa abbracciare la convinzione, scientificamente e culturalmente fondata, che i bambini sani di oggi saranno adulti in salute domani. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel suo Global health observatory report, evidenzia come le malattie cardiovascolari restino, da decenni, tra le principali cause di morte a livello globale. I fattori di rischio, quali ipertensione, fumo, ipercolesterolemia, diabete, sovrappeso/obesità, sedentarietà e dieta non sana, sono ampiamente documentati dalla letteratura scientifica5. I costi umani e sociali sono elevatissimi: ma quando inizia davvero la prevenzione? Chi se ne deve occupare? In quale setting?

Nel tempo, la ricerca scientifica ha dimostrato come la salute e lo sviluppo di neonati e bambini non siano determinati unicamente dal patrimonio genetico ma anche dai comportamenti adottati nei cosiddetti “primi mille giorni di vita”6, dal periodo preconcepimento fino ai primi due anni di vita, periodo cruciale, durante il quale l’ambiente può influenzare l’espressione dei geni, come dimostra l’epigenetica. Il sovrappeso e l’obesità, fin dalle prime fasi della vita, rappresentano fattori di rischio significativi: oltre il 60 per cento dei bambini in sovrappeso in età prepuberale mantiene l’eccesso ponderale anche in età adulta7. L’esposizione prolungata all’eccesso di adiposità è associata a fattori di rischio cardiometabolici e allo sviluppo di patologie come ipertensione, dislipidemia, diabete di tipo 2 e steatosi epatica non alcolica, tutte condizioni che aumentano la mortalità generale. Inoltre, nei giovani con obesità grave sono frequenti deficit funzionali, limitazioni motorie e disagio psicosociale, che possono portare a una vera e propria disabilità8

L’educazione sanitaria assume un ruolo strategico, da attuarsi nel contesto familiare e comunitario. Non può restare confinata alle mura ospedaliere.

In questa prospettiva, l’educazione sanitaria assume un ruolo strategico, da attuarsi nel contesto familiare e comunitario, in un’ottica multiprofessionale e multidisciplinare di promozione della salute e prevenzione delle malattie e degli incidenti. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità9, proprio gli incidenti domestici rappresentano una delle principali cause di trauma mortale nei bambini: in Italia, sono la seconda causa di morte dopo i tumori. Il rischio è più

elevato nelle famiglie con basso reddito, basso livello di istruzione o che vivono in condizioni abitative precarie. Per questo motivo, l’educazione sanitaria, così fortemente ribadita nel profilo professionale dell’infermiere pediatrico, non può restare confinata alle mura ospedaliere. Il territorio, con la sua capacità di intercettare un vasto numero di bambini e famiglie, rappresenta uno spazio di condivisione, incontro e supporto, dove l’articolo 4 del nostro Codice deontologico, appena aggiornato dalla Fnopi, la Federazione nazionale delle professioni infermieristiche, che enuncia come “il tempo di cura è tempo di relazione”, trova piena attuazione. Uno spazio di prossimità che non può essere improvvisato e casuale ma deve rispecchiare una visione, basarsi su un’organizzazione e dei modelli ben definiti e poter disporre di risorse adeguate. L’assistenza territoriale, ambulatoriale, domiciliare e nell’ambito scolastico 10 costituisce un’opportunità imprescindibile per promuovere la salute e tutelare l’infanzia. In questo senso, è fondamentale rafforzare la consapevolezza culturale e professionale degli infermieri.

Non possiamo esimerci dal metterci in discussione, riflettere e accettare nuove sfide, anche attraverso percorsi innovativi.

Alla luce di queste considerazioni, non possiamo esimerci dal metterci in discussione, riflettere e accettare nuove sfide, anche attraverso percorsi innovativi. In un contesto in cui le patologie croniche in età evolutiva assumono un peso crescente e il compimento della maggiore età segna uno spartiacque tra assistenza pediatrica e assistenza per adulti, l’assistenza pediatrica deve diventare un continuum e non una brusca interruzione della relazione di cura.

Il percorso di laurea magistrale in Infermieristica pediatrica e le altre iniziative formative promosse da Fnopi rappresentano in tal senso, una scelta attuale, strutturata e condivisa, in grado di rispondere alle nuove esigenze dell’assistenza nell’età evolutiva e, soprattutto, di promuovere il concetto più ampio e profondo di prevenzione, tute-

lando i cittadini di qualunque età, partendo dall’epoca neonatale e, in questo modo, garantendo il diritto alla salute per tutti.

L’assistenza pediatrica deve diventare un continuum e non una brusca interruzione della relazione di cura.

1. Wisk LE, Sharma N. Prevalence and trends in pediatric-onset chronic conditions in the United States, 1999-2018. Acad Pediatr 2025;25:102810.

2. Vicari S, Di Vincenzo C, Bellantoni D, Pontillo M. Psychiatric disorders in children and adolescents: clinical issue and strategies for intervention. Psychiatr Danub 2023;35(Suppl 3):77-80.

3. Zozaya N, Oliva-Moreno J, Vallejo-Torres L. Association between maternal and paternal employment and their children’s weight status and unhealthy behaviours: does it matter who the working parent is? BMC Public Health 2022;22:1331.

4. D’Ambrosio F, Lanza TE, Messina R, et al. Influenza vaccination coverage in pediatric population in Italy: an analysis of recent trends. Ital J Pediatr 2022;48:77.

5. Global cardiovascular risk consortium. Global effect of cardiovascular risk factors on lifetime estimates. N Engl J Med 2025;393:125-38.

6. Ministero della salute. Investire precocemente in salute: azioni e strategie nei primi mille giorni di vita. Istituito presso la Direzione generale della prevenzione sanitaria con il dd del 26 luglio 2016 e prorogato con il dd 20 luglio 2017.

7. Valerio G, Di Bonito P, Calcaterra V, et al. Cardiometabolic risk in children and adolescents with obesity: a position paper of the Italian Society for pediatric endocrinology and diabetology. Ital J Pediatr 2024;50:205.

8. Singh AS, Mulder C, Twisk JWR, et al. Tracking of childhood overweight into adulthood: a systematic review of the literature. Obes Rev 2008;9:474-88.

9, Child and adolescent health in Europe: report on progress to 2021. Copenhagen: Who Regional office for Europe, 2024.

10. Fnopi. Position statement Infermieristica e Scuola, 2024. Disponibile su: http://bit.ly/4nHfveN

vedi anche UN PROGETTO NAZIONALE SU AMBIENTE E PRIMI

Per conoscere meglio le relazioni tra ambiente e salute, e per mettere in atto interventi di prevenzione e riduzione del rischio di esposizione a inquinanti ambientali durante la gravidanza e nei primi mille giorni di vita.

Il progetto “Ambiente e primi 1000 giorni. Conoscere per agire” è un’iniziativa nazionale volta a comprendere l’impatto dell’esposizione ambientale nei momenti più delicati dello sviluppo umano. Realizzato con il supporto tecnico e finanziario del Ministero della salute – Piano nazionale cronicità e coordinato dall’Irccs materno infantile Burlo Garofolo di Trieste, il progetto traduce le evidenze scientifiche sugli effetti delle esposizioni precoci in azioni concrete per orientare le politiche sanitarie. Coinvolge cinque Regioni italiane – Friuli Venezia-Giulia, Lazio, Piemonte, Sicilia, Toscana – con l’obiettivo di quantificare il carico di esposizione ambientale di donne in gravidanza e bambini nei primi due anni di vita. Il periodo dal concepimento ai primi due anni è cruciale per la salute futura: l’esposizione precoce a inquinanti e fattori ambientali come traffico, attività industriali o eventi climatici estremi può compromettere lo sviluppo del bambino e aumentare il rischio di malattie. Il progetto valuta l’esposizione a inquinanti indoor e outdoor e a fattori legati ai cambiamenti climatici, con particolare attenzione alle aree contaminate, dove la presenza di molteplici stress ambientali rappresenta un rischio per la salute e l’ecosistema.

1000 GIORNI

Mettere in rete diverse competenze. Il progetto mette in rete ospedali pediatrici, centri di epidemiologia, università, laboratori, agenzie ambientali ed esperti di comunicazione per raccogliere e diffondere conoscenze sulle esposizioni ambientali. La creazione di una rete di coorti di nascita è stata la prima azione del progetto: i dati così raccolti, nei periodi preconcezionale, di gravidanza e nei primi anni di vita, permettono di costruire un quadro delle esposizioni e dei loro effetti su donne, bambine e bambini, per favorire strategie di prevenzione mirate.

Il progetto ha sviluppato strumenti di comunicazione rivolti a famiglie e decisori, tra cui il sito Millegiorni.info che raccoglie dati, studi e materiali informativi per promuovere scelte consapevoli e politiche basate su evidenze. Offre approfondimenti sui rischi ambientali precoci e strategie di prevenzione, con sezioni dedicate a operatori e genitori. Schede, video e consigli pratici aiutano a migliorare la qualità dell’aria, ridurre l’esposizione domestica e comprendere gli effetti dell’inquinamento urbano.

Dalla ricerca alla prevenzione . Il progetto mira a fornire evidenze concrete sul carico di esposizione ambientale precoce in aree fortemente antropizzate, promuovendo azioni efficaci per tutelare la salute nei primi 1000 giorni di vita e lungo l’intero arco della vita. Sono pre -

viste anche iniziative formative per operatori sanitari – corsi fad, borse e dottorati di ricerca – dedicate ai rapporti tra ambiente, clima e salute.

Unità operative coinvolte. Irccs materno infantile Burlo Garofolo, Trieste | Università degli studi di Torino, CPO-Piemonte | Aou Meyer, Ospedale pediatrico, Firenze | Dipartimento di epidemiologia, Ssr Lazio, Asl Roma 1 | Istituto superiore di sanità | Fondazione Policlinico universitario “Agostino Gemelli” Irccs, Roma | Arpa - Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente della Sicilia, Palermo |Istituto zooprofilattico sperimentale della Sicilia, Palermo | Cnr, Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica, Palermo | Università degli studi di Catania - Dipartimento di scienze mediche, chirurgiche e tecnologie avanzate “GF Ingrassia”.

Società scientifiche e associazioni. Associazione culturale pediatri | Società italiana di pediatria

www.millegiorni.info millegiorni.info

Un progetto curato da Il Pensiero Scientifico Editore & Think2it

STRUMENTI DIGITALI PER UNA PREVENZIONE INTEGRATA: IL RUOLO DEI

POINT-OF-CARE

TOOLS

La prevenzione delle malattie, tradizionalmente affrontata nei corsi di Igiene, Epidemiologia e Malattie infettive, è oggi sempre più trasversale e richiede competenze cliniche, farmacologiche e sociali integrate. L’approccio preventivo non si limita alla riduzione dei fattori di rischio ambientali e comportamentali, ma mira a promuovere meccanismi difensivi dell’organismo attraverso stili di vita salutari, vaccinazioni, screening e interventi farmacologici mirati. In questo contesto, gli strumenti digitali di supporto alle decisioni cliniche (clinical decision support), nati per assistere il singolo medico al letto del paziente, stanno acquisendo un ruolo strategico nella pianificazione di politiche sanitarie e attività di prevenzione comunitaria.

Gli strumenti digitali di supporto alle decisioni cliniche stanno acquisendo un ruolo strategico nella pianificazione di politiche sanitarie e attività di prevenzione comunitaria.

UpToDate, piattaforma di riferimento sviluppata da Wolters Kluwer, rappresenta uno dei modelli più avanzati di clinical decision support. Utilizzata da oltre tre milioni di utenti in tutto il mondo, offre contenuti evidencebased aggiornati in tempo reale e integrati nei flussi di lavoro clinici. La disponibilità capillare di informazioni affidabili consente di ridurre la variabilità delle cure e di fornire dati utili non solo alla pratica clinica quotidiana, ma anche alla programmazione sanitaria. Esperienze internazionali dimostrano come la raccolta e l’analisi dei dati di utilizzo possano trasformare questi strumenti in veri e propri sensori per la salute pubblica.

In Spagna, ad esempio, il Ministero della sanità ha reso UpToDate accessibile in tutti gli oltre 400 ospedali pubblici e nei servizi di medicina generale. Questa scelta ha permesso non solo di supportare decisioni cliniche più accurate, ma anche di monitorare l’andamento delle patologie e le differenze territoriali. Durante le inondazioni del 2024, i dati di consultazione della piattaforma sono stati analizzati per identificare precocemente potenziali focolai di leptospirosi, consentendo una risposta rapida e mirata. L’esperienza spagnola dimostra come i clinical decision support possano evolvere da strumenti di aggiornamento clinico a sistemi predittivi per la gestione di emergenze e la pianificazione delle risorse.

Anche in contesti caratterizzati da carenze infrastrutturali, come le aree rurali delle Filippine, l’adozione universale di UpToDate nelle strutture di assistenza prima-

ria ha contribuito a ridurre le disuguaglianze sanitarie. Garantire ai professionisti informazioni aggiornate in tempo reale, anche in assenza di specialisti o di accesso a formazione continua, ha rafforzato la rete territoriale e ridotto il senso di isolamento degli operatori. Esperienze simili si registrano in Singapore, dove l’integrazione della piattaforma nella cartella clinica elettronica nazionale ha favorito l’adozione di pratiche preventive, ridotto gli errori di prescrizione e migliorato l’efficienza dei percorsi assistenziali.

Queste applicazioni dimostrano che i point-of-care tools non sono più semplicemente risorse per il singolo clinico, ma sono diventati infrastrutture digitali strategiche. La raccolta di dati aggregati sull’utilizzo permette di mappare la variabilità clinica e di individuare aree prioritarie di intervento. Inoltre, la standardizzazione delle raccomandazioni basate su evidenze riduce il rischio di trattamenti inappropriati e favorisce l’equità nell’accesso alle cure, obiettivo centrale di programmi come “Vision 2030” dell’Arabia Saudita, che punta a una rete sanitaria preventiva e capillare.

I point-of-care tools rappresentano un ponte tra pratica clinica e programmazione sanitaria, favorendo modelli di prevenzione più equi, proattivi e sostenibili.

Per i decisori politici, integrare i clinical decision support nei sistemi sanitari significa disporre di una base informativa dinamica, utile a pianificare campagne vaccinali, interventi di screening e allocazione delle risorse. In scenari di crisi, come pandemie o calamità naturali, questi strumenti consentono di rilevare segnali precoci e di coordinare risposte mirate, riducendo costi e tempi di intervento.

La digitalizzazione della prevenzione richiede, tuttavia, un impegno costante nella formazione dei professionisti e nella promozione della fiducia nelle piattaforme. L’esperienza internazionale evidenzia come la combinazione di contenuti di alta qualità, accessibilità universale e integrazione nei sistemi clinici sia essenziale per trasformare le decisioni al punto di cura in strategie di salute pubblica. I point-of-care tools rappresentano così un ponte tra pratica clinica e programmazione sanitaria, favorendo modelli di prevenzione più equi, proattivi e sostenibili.

De Fiore

Riprendendo in mano un piccolo e prezioso libro di Gianfranco Domenighetti1, torniamo a confrontarci con un dato che – per quanto possa essere oggi cambiato – resta perturbante: il sistema di cura, il cui contributo alla riduzione della mortalità è valutato all’11 per cento, consuma il 90 per cento delle risorse finanziarie. Invece l’assegnazione di mezzi finanziari a programmi e iniziative tendenti a ridurre i fattori di rischio è di circa l’1,5 per cento, per quanto il concorso potenziale dei cambiamenti di stile di vita alla riduzione di mortalità sia valutato a circa il 43 per cento. Come scriveva Giovanni Berlinguer2, “si può dire, riferendosi alla mitologia greca, che Igea, la dea preposta alla preservazione della salute, è divenuta la sorella povera di Panacea, la dea che promette un rimedio per ogni male”. Ebbene, sarebbe bello se Igea tornasse a camminare nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle strade delle nostre città magari liberate dai camper adattati a presidi sanitari per lo screening indiscriminato di qualsiasi patologia. Se anche la comunicazione – tradizionale o digitale – fosse più sobria e meno enfatica.

1. Domenighetti G. Il mercato della salute. Ignoranza o adeguatezza? Roma: CIC Edizioni, 1994.

2. Berlinguer G. Etica della salute. Milano: Il Saggiatore, 1994.

LA PREVENZIONE ATTRAVERSO

l’ascolto del lavoratore

Bernardino Ramazzini, osservando il lavoro dei “vuotatori delle fogne”, si persuase a scrivere “De morbis artificum diatriba”, il primo trattato sulle malattie dei lavoratori. Era il 1700. Colpito dalla sveltezza con cui l’addetto eseguiva il lavoro in quell’antro infernale, lo interrogò: il lavoratore spiegò che lavorava con rapidità per ridurre il tempo di esposizione alle esalazioni che gli provocavano dolorose irritazioni agli occhi, rispetto alle quali provava sollievo solo tornando a casa per chiudersi in una stanza buia e lavandosi gli occhi con acqua tiepida. In seguito, Ramazzini accertò che molti dei lavoratori che avevano svolto quel mestiere, diventati ciechi o quasi, per effetto delle alte concentrazioni ambientali degli acidi, erano ridotti all’elemosina per le strade; raccolse una casistica. In tal modo aveva delineato un metodo di indagine: partendo dalla descrizione del ciclo produttivo e delle procedure di lavoro, aveva individuato sia i danni alla salute (la cecità) che le sostanze nocive causali (gli aerosol acidi). Ma la vera potenza del metodo era il fatto che il medico apprende dal lavoratore e, successivamente, dai lavoratori che avevano svolto la mansione, le notizie necessarie per arrivare alla conoscenza, comprese le misure di prevenzione necessarie (la riduzione del tempo di esposizione) e i rimedi curativi.

La voce del lavoratore diventa movimento operaio, e sviluppa scienza, democrazia e prevenzione

Negli anni Sessanta si verificarono alcuni eventi sfavorevoli ai lavoratori; il boom economico provocò un forte aumento di infortuni e malattie professionali: era la dimostrazione che l’intensificarsi della produzione è un amplificatore di tutti i rischi lavorativi. Di fronte alle proteste dei lavoratori, la soluzione proposta dal padronato fu la monetizzazione del rischio: indennità ai lavoratori perché accettassero quelle condizioni di lavoro; così non si fermava la produzione, si risparmiava sulle modifiche strutturali e impiantistiche e sulle bonifiche dei luoghi di lavoro e dell’ambiente, invece individuati dai lavoratori come capisaldi della prevenzione primaria.

Erano le premesse per la nascita di un movimento operaio volto a costruire una diversa cultura del lavoro, in cui il “sapere operaio” sulla nocività del lavoro fosse valorizzato e organizzato come categoria scientifica, per utilizzarlo ai fini dello studio e dello sviluppo di metodi, conoscenze e applicazioni finalizzati alla prevenzione. I principi di questa cultura erano l’auto tutela e l’auto organizzazione, intesi anche come pratica democratica. In questo percorso furono decisive le intuizioni di Giulio Maccacaro, Ivar Oddone e Giovani Berlinguer. Si trattava di sostenere una politica, non solo salariale e normativa, che liberasse il lavoro dallo sfruttamento e dall’alienazione, per proporlo come un modello di sviluppo alternativo, basato sulla inclusione e sulla partecipazione. Una visione ampia e prospettica che andava oltre la fabbrica per investire l’intera società.

La normativa accoglie il “sapere operaio”

Tutta questa esperienza fu inizialmente accolta nell’articolo 9 della legge 300/70 - Statuto dei lavoratori (i lavoratori, mediante loro rapStanislao Loria, medico del lavoro e docente presso il dipartimento di Sanità pubblica dell’Università Federico II di Napoli.

presentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica) e, successivamente, nell’articolo 20 della legge 833/78, significativamente intitolato “Attività di Prevenzione”.

Ed ha ispirato sia il legislatore europeo nella emanazione della direttiva quadro in tema di salute e sicurezza del lavoro che il legislatore nazionale nella stesura del d.lgs 81/08.

E così, la valutazione del rischio, basata sulla identificazione e quantificazione sistematica e continua di tutti i rischi presenti in azienda, per verificarne il progressivo abbattimento dei valori con l’applicazione delle misure di prevenzione, non è altro che il risultato della combinazione del “registro dei dati bio statistici (assenze per infortuni e malattie) e ambientali (misure dei rischi chimici e fisici)” con il principio del “RISCHIO ZERO” (azzeramento dei valori massimi ammissibili). E, con l’aggiunta del “libretto personale del lavoratore”, è l’unità periferica del futuro sistema informativo globale.

Tra le procedure di valutazione dei rischi, particolarmente quelli psicosociali, lo stress e la fatica, viene affermata l’importanza del cosiddetto “Gruppo operaio omogeneo”, cioè del giudizio espresso in forma collettiva dai lavoratori esposti, proposto anche come base per la formazione alla sicurezza attraverso il confronto dei lavoratori con i tecnici della salute per l’aggiornamento delle conoscenze. La previsione del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, e l’obbligo del datore di lavoro di consultarlo in merito ai diversi adempimenti di legge, assolve all’applicazione del principio di “validazione consensuale”, Infine, la possibilità di impugnare presso l’asl il giudizio espresso dal medico competente aziendale in merito alla idoneità alla mansione del lavoratore e di chiamare in causa gli operatori del servizio territoriale pubblico, sono espressioni operative del “rifiuto della delega” ai tecnici aziendali.

La prevenzione del lavoro povero

Attenti alle cause prossimali degli infortuni e delle malattie professionali, non riusciamo ancora a incidere sulle cause a monte, i determinanti socioeconomici, da cui origina il disagio del vivere oltre il lavoro, fattore sinergico con i rischi lavorativi. La precarietà contrattuale è anche sociale; mancano politiche per la casa, l’accoglienza, la sanità, la previdenza, il trasporto pubblico, l’istruzione e la famiglia: sulle lavoratrici grava anche l’assistenza all’infanzia e agli anziani. Emerge la realtà di un lavoro che, poco remunerato rispetto al contesto di vita, si impoverisce ulteriormente per accedere ai servizi che, ormai privatizzati, in mancanza di quelli pubblici, più economici o gratuiti, erodono ulteriormente il salario. Come afferma l’epidemiologo Sir Michael Marmot: “La povertà non dipende dai soldi che hai ma da quello che puoi fare con quei soldi”.

La situazione oggi

All’aumento di infortuni e malattie professionali corrisponde un indebolimento del sistema preventivo e, la vigilanza, da sempre contrappeso alle violazioni normative e alle condotte illegali nei rapporti di lavoro, gravata dalla debolezza del ruolo pubblico, è ridotta alla depenalizzazione. “Esener 2024”, l’indagine europea Eu–Osha sulle imprese, condotta attraverso la somministrazione di un questionario, rivela la debolezza del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (in Italia solo il 70 per cento sono eletti dai lavoratori e circa il 25 per cento sono designati) sia la riduzione dei controlli (le aziende italiane che dichiarano di aver ricevuto una ispezione nei tre anni precedenti l’indagine è scesa dal 29 per cento del 2019 al 24 per cento del 2024).

EDUCAZIONE affettiva e sessuale NELLE SCUOLE

Antonella

Inverno, giurista con specializzazione nella tutela internazionale dei diritti umani e nei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Si occupa da anni di lotta allo sfruttamento minorile e di migrazioni presso diverse organizzazioni. Oggi è responsabile Ricerca e analisi dati di Save the Children.

Perché oggi è importante parlare di educazione affettiva e sessuale nelle scuole come strumento di prevenzione della violenza di genere?

La cronaca quotidiana ci restituisce episodi di violenza di genere e di violenza tra pari a età sempre più precoci. È essenziale fermarsi e riflettere su quanto poco i giovani vengano educati e accompagnati nel loro percorso di crescita: nel riconoscimento e nella gestione delle proprie emozioni, nella conoscenza del proprio corpo e dei suoi confini, così come di quelli altrui. Questa necessità diventa ancora più urgente di fronte al crescente numero di casi di violenza in età giovanissima, spesso anche gratuita.

Dal dossier “L’educazione affettiva e sessuale in adolescenza: a che punto siamo?” emerge che molti adolescenti faticano a riconoscere comportamenti violenti o discriminatori, arrivando talvolta a giustificarli. Cosa rivelano questi segnali sulla cultura relazionale che stanno interiorizzando?

L’educazione affettiva e sessuale in adolescenza: a che punto siamo?

I dati evidenziano che i modelli ispirati al patriarcato sono ancora profondamente radicati nel nostro Paese, con una presenza particolarmente marcata tra i giovani. Il confronto con i dati Istat sugli stessi pregiudizi negli adulti mostra infatti che i giovani sono ancora più radicali in queste posizioni. Persistono forti pregiudizi di genere su chi sia più emotivo, chi sappia gestire meglio le relazioni o chi si sacrifichi di più per la coppia. Dal nostro punto di vista, questi stereotipi ingabbiano non solo le ragazze, ma anche i ragazzi in ruoli di genere che impediscono loro di esprimere, accettare e gestire le proprie emozioni. Ancora più inquietante è la normalizzazione della violenza all’interno delle relazioni adolescenziali. Molti ritengono che sia normale uno schiaffo ogni tanto, che sia accettabile geolocalizzare il partner per controllarne i movimenti, che la gelosia sia un segno d’amore o che condividere le password sia una prova della solidità del rapporto. Tutto questo rivela una percezione distorta della coppia e di ciò che costituisce un legame solido: la fiducia, prima di tutto. Questi dati ci impongono una riflessione sui modelli che noi adulti stiamo trasmettendo e su quanto facciamo – ma soprattutto non facciamo – in termini di educazione ai sentimenti.

È possibile pensare a un’educazione sessuale e affettiva che parta dalla scuola dell’infanzia, iniziando a parlare del proprio corpo e delle emozioni con bambini e bambine.

Nel dossier avete analizzato il progetto EduForIST del Ministero della salute, volto a creare linee guida e strumenti didattici per l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Quali insegnamenti possiamo trarne per rendere l’educazione sessuale strutturale e accessibile?

La nostra ricerca ha rilevato che solo la metà dei ragazzi ha partecipato a percorsi di educazione alla sessualità e all’affettività. Di questi, pochissimi hanno seguito percorsi completi condotti da personale esterno specializzato e svolti durante tutto l’anno scolastico. Spesso le scuole classificano come percorsi di educazione sessuale e affettiva anche incontri di un’ora che, evidentemente, non possono risolvere la situazione. La sperimentazione del Ministero della salute dimostra invece che è possibile pensare a un’educazione sessuale e affettiva che parta dalla scuola dell’infanzia, iniziando a parlare del proprio corpo e delle emozioni con bambini e bambine, per arrivare gradualmente a introdurre il tema della sessualità nelle età successive. Questo approccio eviterebbe di lasciare il primato educativo ai contenuti pornografici online. La ricerca evidenzia infatti che, in assenza di alternative valide, i giovani cercano informazioni online. Anche in famiglia se ne parla, certo, ma limitandosi agli aspetti preventivi – malattie sessualmente trasmissibili e gravidanze indesiderate – senza affrontare emozioni e pratiche sessuali.

Le ricerche internazionali dimostrano gli effetti benefici di programmi strutturati: innalzamento dell’età del primo rapporto sessuale, che indica una maggiore consapevolezza delle implicazioni emotive oltre a quelle fisiche, e riduzione dei comportamenti a rischio. Nella nostra ricerca abbiamo rilevato comportamenti preoccupanti come le abbuffate di alcol seguite da rapporti con persone anche sconosciute, o il ricorso sempre più frequente alle piattaforme online per adulti per vendere materiale intimo da parte delle adolescenti.

Questi elementi ci devono preoccupare e indicare la necessità di maggiore attenzione a questi temi, anche a scuola.

È fondamentale adottare in famiglia pratiche di educazione non violenta e rimanere aperti all’ascolto e al dialogo.

Cosa possono fare concretamente gli adulti – genitori, insegnanti, operatori sociosanitari – per contribuire a un cambiamento culturale che renda centrale l’educazione alla non violenza?

Innanzitutto dare il buon esempio. I comportamenti violenti, soprattutto da parte di partner maschi nei confronti delle donne, sono all’ordine del giorno e rappresentano sicuramente un pessimo messaggio per i giovani. È fondamentale adottare in famiglia pratiche di educazione non violenta e rimanere aperti all’ascolto e al dialogo. Questi ragazzi spesso si sentono invisibili e soli e hanno meno opportunità rispetto al passato di confrontarsi con fratelli o sorelle su questi argomenti, considerando l’aumento delle famiglie con figli unici in Italia.

Oggi i genitori hanno accorciato le distanze rispetto alle generazioni passate, molti ragazzi segnalano un dialogo più aperto in famiglia, dovrebbero quindi essere più pronti a parlare di ciò che sessualità e affettività comportano in termini di gestione sana delle proprie emozioni.

A cura di Giada Savini

Intervista a Antonella Inverno

SICUREZZA STRADALE.  RESPONSABILITÀ, NON FATALITÀ

“Il mio impegno per la sicurezza stradale nasce da una tragedia: l’omicidio stradale di mio figlio Francesco, che aveva 18 anni. A ottobre saranno passati tre anni. Perdere un figlio è il dolore più grande e insopportabile.

Da allora, insieme a mia moglie Paola e a mia figlia

Daria, abbiamo deciso di dedicare le nostre energie all’educazione stradale, coinvolgendo i ragazzi in modo diretto, rendendoli protagonisti del cambiamento.”

Luca Valdiserri, giornalista e papà di Francesco, morto investito da una giovane che – con tasso alcolemico tre volte superiore al consentito e ad alta velocità - era alla guida di un’automobile.

Valdiserri ha ricevuto il Premio Fiab Italia 2024, per il suo impegno educativo nel contrasto della violenza stradale.

Prevenzione significa anticipare i problemi per impedirli. In ambito stradale, su cosa dovremmo concentrarci per prevenire gli incidenti? Come tradurre concretamente il principio della prevenzione nella sicurezza stradale?

In Italia muoiono sulle strade oltre 3000 persone l’anno, più migliaia di feriti e danni economici enormi: gli incidenti costano 18 miliardi di euro, circa l’1 per cento del pil. Però queste cifre vengono considerate come un “prezzo da pagare” alla modernità e alla velocità. Come le morti sul lavoro, anche quelle per violenza stradale sono morti di serie B. Nel caso di Francesco si è detto che era “nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Non è vero: era sul marciapiede e tornava a casa dopo essere stato al cinema con gli amici. La ragazza alla guida, semmai, era nel posto sbagliato, visto che in quelle condizioni non doveva essere al volante. La sentenza è stata chiara: tutto fu causato da comportamenti sbagliati di chi guidava. Attribuire la responsabilità al caso alimenta quel fatalismo che continua a uccidere sulle strade. La prevenzione richiede prima di tutto un cambiamento culturale: acquisire una reale percezione del rischio e sentirci responsabili in prima persona. Per questo una delle prime battaglie riguarda il linguaggio: non parliamo di “incidenti”, ma di “scontri” o “omicidi stradali”. “Incidente” fa pensare a qualcosa di casuale: se rovesci un bicchiere di vino sulla tavola pulita, quello è un incidente. Ma investire una persona implica sempre una responsabilità precisa. L’idea di fatalità attenua la colpa individuale.

Attribuire la responsabilità al caso alimenta quel fatalismo che continua a uccidere sulle strade.

Perché secondo lei c’è così poca percezione del rischio stradale?

Perché ne abbiamo una percezione distorta. Se qualcuno dice di aver visto uno squalo, nessuno entra in mare. Eppure, nel mondo muoiono quattro o cinque persone

all’anno per attacchi di squalo. Invece non abbiamo paura dell’auto, che causa migliaia di feriti e morti. Al volante siamo convinti di controllare tutto. Uno studio della Sapienza ha chiesto agli intervistati di darsi un voto alla guida: la maggioranza si attribuisce 8/8,5, mentre agli altri dà 4/4,5. Pensiamo sempre che sia colpa degli altri e diciamo: “so guidare benissimo”, “a me non succede”, “ho bevuto ma devo fare solo un chilometro”. Così le stragi continueranno.

Come sensibilizzare i giovani alla guida sicura? L’educazione stradale non dovrebbe partire dalla scuola?

Sì, ma introdurre l’educazione stradale nei programmi didattici richiede scelte e investimenti costosi per formare gli insegnanti. Non si fa dall’oggi al domani. E poi conta come si educa. Dopo la morte di Francesco, in famiglia abbiamo deciso di organizzare incontri nelle scuole. Ci siamo però accorti che i tempi di attenzione dei ragazzi sono brevi: una lezione frontale rischia di essere poco efficace, mentre il coinvolgimento attivo può fare la differenza. Francesco suonava in una band e studiava cinema: da questa sua passione è nata l’idea di lanciare concorsi cinematografici per under 25 e concerti, per rendere i ragazzi protagonisti del cambiamento. Il messaggio è: “La vita è una: usate bene il tempo facendo cose belle. Divertitevi, uscite, ballate, andate ai concerti, ma senza mettere in pericolo la vita vostra e altrui”.

Le cose cambiano quando un comportamento diventa socialmente inaccettabile.

La prevenzione spesso incontra le resistenze al cambiamento: cittadini che protestano contro i limiti di velocità, commercianti contrari alle zone pedonali. Ma la politica può anteporre la sicurezza al consenso?

Serve coraggio politico. A Bologna il sindaco Matteo Lepore ha avviato il progetto “Città 30”. C’è chi lo avvertiva: “Rischi di perdere voti”. Ma lui ha risposto: “Pazienza!”. I risultati già si vedono: i morti sono calati del 41 per cento. Molti ancora protestano: “a 30 all’ora si va troppo piano”. Ma i calcoli dicono che a 50 all’ora, in una giornata di traffico normale, si guadagnano appena due minuti. Due minuti contro una vita. La sicurezza stradale richiede un’evoluzione culturale. Le cose cambiano quando un comportamento diventa socialmente inaccettabile. Una volta si fumava nei cinema, sui treni, sugli aerei. Oggi è impensabile. Negli anni Settanta, nei Paesi Bassi, le proteste per la morte di molti giovani ciclisti rivoluzionarono la mobilità urbana. Oggi in Olanda le città a due ruote sono la normalità. In Inghilterra, il Taylor act pose fine alla violenza hooligans negli stadi dopo i massacri dell’Heysel e di Hillsborough. Le leggi sono necessarie, ma per un cambiamento duraturo serve investire sulla consapevolezza sociale: è un dovere di cittadinanza far notare comportamenti pericolosi come guidare ubriachi o a velocità folli. Dobbiamo investire in educazione, infrastrutture, controlli e cambiare mentalità. La sicurezza stradale non è un costo, è un diritto di tutti.

A cura di Laura Tonon

Intervista a Luca Valdiserri

Prevenire gli incidenti stradali: SPAZIO PUBBLICO, SALUTE E GIUSTIZIA URBANA

La sicurezza stradale è un tema centrale delle politiche di prevenzione in sanità pubblica, non solo per la drammaticità degli eventi che comporta ma per la loro sistematicità, prevedibilità e in larga parte evitabilità. In tal senso gli interventi sono spesso stati declinati con un approccio legato se vogliamo agli “stili di vita” individuali, in termini ad esempio di uso o abuso di sostanze, o aderenza alle indicazioni di sicurezza. Il Piano nazionale della prevenzione 2020–2025, che per la prima volta esplicita un approccio legato ai determinanti di salute, anche attraverso l’esplicitazione dell’approccio di “salute urbana” (o urban health), attraverso il Programma 05 “Sicurezza negli ambienti di vita”, colloca la prevenzione dell’incidentalità stradale in questo più ampio contesto, riconoscendo la necessità di affrontare le cause di rischio nella loro dimensione ambientale, sociale e infrastrutturale, dando mandato al Servizio Sanitario di agire proprio su tali determinanti.

Gli incidenti stradali, infatti, non sono il frutto di fatalità o comportamenti individuali, ma l’esito strutturale di un modello urbano e sociale che ha prodotto, in determinati contesti urbani, una dipendenza collettiva dall’automobile. Una dipendenza costruita nel tempo attraverso politiche urbanistiche di separazione delle funzioni, di incentivazione della dispersione insediativa (e del consumo di suolo), di marginalizzazione di altre forme di mobilità anche attraverso profonde cesure, e che consegnano lo spazio pubblico alla logica del traffico veicolare, con enormi ripercussioni sulla

GLI INCIDENTI STRADALI IN ITALIA: I NUMERI DEL 2024

173.364

vivibilità e la salute. I numeri lo confermano: il costo sociale degli incidenti stradali con lesioni alle persone – calcolato con parametri aggiornati da Istat e Aci nel 2023 – ammonta a poco più di 18 miliardi di euro, considerando spese sanitarie, invalidità permanenti, giornate lavorative perse, costi legali e assicurativi.

Ridisegnare lo spazio per prevenire il rischio

Di fronte a questo scenario, ripensare lo spazio pubblico in chiave preventiva diventa una priorità di salute pubblica. Le evidenze scientifiche sono sempre più solide: interventi di urban design mirati a ridurre la velocità, separare e canalizzare i flussi, in particolare di automobili, migliorare la visibilità e creare discontinuità strutturali (come chicane, attraversamenti rialzati, restringimenti di carreggiata) possono ridurre drasticamente il numero e la gravità degli incidenti. Ma non si tratta solo di tecnica, si tratta di giustizia spaziale. Le città “30”, che stanno progressivamente affermandosi in molte realtà europee e italiane, non sono solo un’operazione di regolamentazione del traffico, ma una trasformazione culturale: pongono al centro la sicurezza dell’utente più fragile, e ridefiniscono la gerarchia tra le diverse forme di mobilità.

Politiche pubbliche, pratiche urbane

walkability, ovvero la camminabilità dello spazio pubblico, ponendo al centro del discorso l’importanza del ribadire la mobilità pedonale come una forma parigrado di mobilità, che necessita pertanto di infrastrutture dedicate, studi trasportistici, dotazioni specifiche e manutenzione al pari delle altre. Con inoltre grandissimi benefici in termini di salute collettiva.

Verso città One health: togliere auto, guadagnare salute

Ma ridurre il traffico veicolare non serve solo a prevenire incidenti: genera co-benefici trasversali in linea con l’approccio One health.

Lorenzo Paglione, medico di sanità pubblica della Uoc Servizio di igiene e sanità pubblica della Asl Roma 1, dottorato di ricerca in Ingegneria dell’architettura e dell’urbanistica presso Sapienza – Università di Roma.

incidenti stradali con lesioni a persone

+0,7% rispetto al 2019

3.030 le vittime

L’Italia è al 19esimo posto nella graduatoria europea per mortalità stradale

-4,5% rispetto al 2019

233.853  i feriti

-3,1% rispetto al 2019

37,8%

degli incidenti è causato da distrazione, mancato rispetto della precedenza e velocità eccessiva Fonte: Report Aci-Istat 2024.

A fianco delle politiche istituzionali, si moltiplicano le pratiche dal basso, anche favorite da politiche pubbliche lungimiranti, che sempre più prendono piede: strade scolastiche, urbanistica tattica, interventi di placemaking che, con mezzi leggeri e partecipativi, reinterpretano lo spazio urbano come luogo di incontro, gioco, attraversamento sicuro. Pratiche urbane sono anche quelle che favoriscono forme di mobilità attiva (a loro volta motore di pratiche trasformative) come il Piedibus, inserito come attività all’interno del Piano regionale della prevenzione della Regione Lazio, con linee di indirizzo ben precise ed evidence-based, volte a costituire, attraverso il coinvolgimento attivo della comunità scolastica, spostamenti sicuri e salutogenici nei percorsi casa-scuola.

Le pratiche di accessibilità dello spazio pubblico, lette in chiave intersezionale, aprono a un approccio alla prevenzione che considera l’equità non come aggiunta, ma come fondamento. In questo senso, ad esempio, il genere diventa una lente utile per leggere i divari di esposizione al rischio, di percezione dell’insicurezza e di accesso alle opportunità spaziali, ed in generale alla piena fruizione dello spazio pubblico.

Anche grazie a questi stimoli si moltiplicano, in termini di evidenze e pubblicazioni, approfondimenti legati alla misurazione dei fattori favorenti la

Meno automobili in circolazione significa meno inquinamento atmosferico, meno rumore, più spazio per la mobilità attiva, migliore qualità della vita, più socialità. Significa liberare spazio e ridurre l’impatto del gigantismo delle automobili, il cosiddetto carspreading, spazio recuperabile per luoghi di incontro, ma anche per aree verdi e blu di qualità e capillarmente diffuse sul territorio, con l’obiettivo di sviluppare reti ecologiche e corridoi verdi fondamentali per la tutela della biodiversità urbana e la resilienza agli eventi climatici estremi.

Anna Acampora, medico di sanità pubblica ed epidemiologa, con dottorato in scienze biomediche di base e sanità pubblica. Dirigente medico presso la Uoc Epidemiologia dello stato di salute della popolazione del Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio, Asl Roma 1.

La sanità pubblica può e deve giocare un ruolo centrale in questo processo: non solo nei procedimenti ambientali di valutazione di piani o progetti di mobilità o di urbanizzazione, ma anche come voce autorevole nei processi di trasformazione urbana. Ridefinire il proprio perimetro d’azione significa considerare il design dello spazio urbano come strumento di prevenzione primaria, e la città come ambiente che può, o meno, generare salute. Prevenire gli incidenti stradali, in questa prospettiva, non è solo una questione di sicurezza: è un atto politico di cura collettiva, di giustizia urbana, e di immaginazione civica, ed in ultima analisi, quindi, di salute. È tempo di tornare a pensare le città come luoghi in cui tutti e tutte possono muoversi senza paura. E vivere meglio.

Il testo è stato adattato dalla redazione per ragioni di spazio. La versione integrale completa di bibliografia è disponibile online su https://forward.recentiprogressi.it/it/ rivista/numero-39-prevenzione/

Il

della prevenzione

Il business della prevenzione cresce tra screening inutili e marketing del benessere. Slow Medicine richiama il valore di stili di vita sani e di una cultura critica della salute.

“La medicina ha fatto così tanti progressi che ormai più nessuno può considerarsi sano”, scriveva – più di cinquant’anni fa – Aldous Huxley, l’eminente biologo e scrittore britannico, famoso per i suoi romanzi distopici. In effetti, curare le persone sane sembra essere diventato l’obiettivo non dichiarato del mercato della salute, dato che curare i sani, anziché i malati, è più redditizio e meno rischioso.

Il concetto che prevenire è meglio che curare viene oggi utilizzato impropriamente per consigliare un’ampia gamma d’interventi: checkup, pacchetti preventivi, screening, test di autodiagnosi, dispositivi indossabili, diete di ogni tipo, assunzione di vitamine e integratori, incongrue prescrizioni di farmaci, e potremmo continuare. Un mondo da cui sembra esclusa però la prevenzione primaria, cioè gli interventi che riguardano l’ambiente fisico e sociale e l’adozione di stili di vita salutari. Basta sottoporsi a qualche test per vivere nell’illusione di aver fatto tutto il possibile per la propria salute, pur continuando a deteriorare l’ambiente, fumare, mangiare cibi ultra-processati, seguire diete sbilanciate, bere alcolici e non svolgere attività fisica.

Che fine ha fatto la prevenzione primaria?

Tre potenti fattori alimentano questo fenomeno: gli straordinari progressi della tecnologia medica che consentono, tra l’altro, di individuare piccole anomalie di scarso valore clinico, la tendenza ad abbassare le soglie dei parametri biologici entro cui si definisce la normalità (pressione, glicemia, lipidi, colesterolo, densità ossea, vitamina D, ecc.) e non ultimo, il bisogno di sicurezza e la paura di essere malati senza saperlo.

Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, lo aveva capito fin dal 2002, osservando che la percezione del proprio stato di salute è inversamente proporzionale alla spesa sostenuta in campo sanitario. In altre parole, paradossalmente, quanto più si spende per la sanità tanto più la gente si sente malata1. Attenzione, però. Ciò non significa che per stare meglio basta tagliare i finanziamenti destinati ai servizi sanitari!

Risposte semplici a problemi complessi

Un fatto, comunque, è certo. Si sta espandendo in tutto il mondo il mercato basato sul presupposto sbagliato che trovare una malattia in fase precoce sia sempre utile. Sta aumentando il numero di laboratori, farmacie, cliniche private che invitano le persone a sottoporsi a svariate batterie di test diagnostici con finalità preventive e numerosi siti internet vendono kit diagnostici “fai da te” in grado di dosare vari biomarcatori (ormoni tiroidei, albuminuria, vitamina D, ferro, ecc.). Tutto senza prescrizione medica: basta chiedere e pagare. Come se la misura di un parametro biologico, avulso dalla storia clinica personale, dalla concomitante presenza di altri fattori di rischio e dallo stile di vita, possa di per sé individuare una patologia e giustificarne il trattamento.

L’offerta di risposte semplici a problemi complessi induce a credere che l’interazione tra l’organismo e le malattie si possa ricondurre a un insieme di parametri biologici e di conseguenza che per assicurare la salute basti normalizzare i vari parametri statisticamente alterati.

Certo, in alcuni casi, come per gli screening raccomandati da linee guida internazionali, la diagnosi precoce può salvare la vita, ma in generale i check-up non riducono l’incidenza di malattie gravi né il rischio

di morte2. E che il mondo dei test di autodiagnosi sia ingannevole e che si tratti sostanzialmente di operazioni di marketing ce lo conferma un articolo pubblicato recentemente sul BMJ. Gli autori della ricerca, infatti, sulla base delle informazioni allegate a trenta test di autodiagnosi relativi a biomarcatori per diverse condizioni cliniche, concludono che molte indicazioni non sono coerenti con le linee guida cliniche basate su prove scientifiche e molte raccomandazioni non sono sufficienti per garantire un uso appropriato dei test3

Informazioni ingannevoli e assenza di regolamentazione

In tutti questi casi “benessere” è la parola chiave utilizzata per indirizzare i consumatori verso interventi sanitari poveri di prove di efficacia, ma accompagnati da eccellenti campagne promozionali, ricche di aggettivi accattivanti e di seducenti immagini di persone felici e in perfetta forma fisica. Così, la propaganda e la carenza di alfabetizzazione sanitaria vengono opportunamente sfruttate a fini commerciali, tanto che secondo l’organizzazione no-profit Global wellness institute l’industria del benessere vale ormai quattro volte l’industria farmaceutica4. Big wellness si mangia Big pharma, oltretutto con piena soddisfazione dei consumatori.

Le iniziative che si propongono di aiutare le persone a prendersi cura della propria salute in modo autonomo e responsabile sono certamente importanti. Tuttavia, fare affidamento sui vari pacchetti diagnostici e sui test di autodiagnosi non sembra dare le risposte sperate5 Anzi, questa strada potrebbe trasformarsi in un’ulteriore fonte di stress e di trattamenti diagnostici e terapeutici inutili6

Serve maggiore vigilanza delle istituzioni sulle informazioni ingannevoli

Al fine di proteggere le persone dal rischio di adottare decisioni potenzialmente dannose, le istituzioni pubbliche dovrebbero vigilare e vietare la diffusione di informazioni ingannevoli. Inoltre i vari test diagnostici eseguiti con finalità preventive in soggetti in buona salute, prima di essere commercializzati, dovrebbero dar prova della loro efficacia e i consumatori dovrebbero essere adeguatamente informati sul modo di utilizzarli e sulle azioni da intraprendere in base ai risultati ottenuti.

1. Sen A. Health: perception versus observation. BMJ 2002;324:860-1.

2. Krogsbøll LT, Jørgensen KJ, Gøtzsche PC. General health checks in adults for reducing morbidity and mortality from disease. Cochrane Database Syst Rev 2019;1:CD009009.

3. Davenport C, Richter A, Hillier B, et al. Direct-to-consumer self-tests sold in the UK in 2023: cross sectional review of information on intended use, instructions for use, and post-test decision making. BMJ 2025;390:e085546.

4. PR Newswire. The global wellness economy reaches a new peak of $6.3 trillion and is forecast to hit $9 trillion by 2028. 5 novembre 2024. Disponibile su: https://bit.ly/3KMiN1S

5. Slow Medicine. Vera e finta prevenzione. Fare più̀ check-up non significa ridurre il rischio di ammalarsi, luglio 2025. Disponibile su: https://bit. ly/3L5C12v

6. Ganguli I, Lupo C, Mainor AJ. Prevalence and cost of care cascades after low-value preoperative electrocardiogram for cataract surgery in fee-for service Medicare beneficiaries. JAMA Intern Med 2019;179:1211-19.

Antonio Bonaldi, past president di Slow Medicine ETS, membro del comitato scientifico dell’Associazione medici per l’ambiente –Isde Italia.

Marco Bobbio, presidente di Slow Medicine ETS, già direttore della Cardiologia dell’Ospedale di Cuneo.

Sfida

possibile

o illusione digitale?

PREVENZIONE IN 280 CARATTERI

Nel flusso rapido e incessante dei social network, anche la prevenzione ha cercato uno spazio. Dapprima in punta di piedi, poi con campagne sempre più colorate, hashtag incisivi, testimonial rassicuranti. Un tempo erano le locandine nelle sale d’attesa, i pieghevoli nei centri vaccinali, le giornate dedicate con medici e infermieri in piazza. Oggi, un post, un reel, una storia da visualizzare in silenzio. Ma bastano 280 caratteri – o 30 secondi di video – per accendere una scintilla di consapevolezza?

Ogni mese ha la sua causa: ottobre è rosa, novembre si fa crescere i baffi, marzo punta i riflettori sulla prevenzione del tumore al colon-retto. La strategia è chiara: cavalcare la visibilità, sfruttare il potere virale dei social, farsi trovare dove le persone stanno già guardando. È una comunicazione rapida, pensata per adattarsi agli algoritmi e alle abitudini digitali. Ma a forza di rincorrere il “formato social”, la prevenzione rischia di perdere spessore: diventare più gesto che scelta, più presenza che impatto. Una storia per ricordare lo screening, una frase motivazionale per incoraggiare a smettere di fumare, un carosello di dati con font accattivanti. Utile, ma spesso troppo fragile per produrre un vero cambiamento.

Secondo Luigi Pinnarelli, dirigente medico del Dipartimento di epidemiologia del Ssr del Lazio, Asl Roma 1 (DepLazio), “la comunicazione attraverso i social privilegia i messaggi brevi e accattivanti, ma informare in modo corretto sulla prevenzione richiede spiegazioni articolate. La scelta dei social può portare a semplificazioni che distorcono il messaggio scientifico e generano disinformazione”.

Il nuovo paradosso della prevenzione: più si parla di una malattia, meno sembra grave.

Le metriche sembrano rassicuranti: migliaia di visualizzazioni, commenti positivi, condivisioni. Ma quante di queste interazioni si traducono in azioni concrete? Quanti, dopo aver messo un like a un post sulla prevenzione cardiovascolare, prenotano davvero un controllo dal medico? La consapevolezza digitale è spesso emotiva, transitoria, incapace di generare trasformazioni concrete. Come se l’aver visto fosse sufficiente. Come se bastasse sapere che esiste, per aver fatto qualcosa. È il paradosso della prevenzione social: più se ne parla, meno sembra grave. Il messaggio si normalizza, perde il suo potere di urgenza.

Rischio e linguaggio: una relazione difficile

Parlare di prevenzione significa, in fondo, parlare di rischio. E il rischio non è mai un concetto semplice da maneggiare. Implica un futuro possibile, una minaccia probabile, un’azione presente. Ma i social, per loro natura, vivono nell’istante, ed è difficile comunicare complessità in un ambiente che premia semplicità, immediatezza e intrattenimento. Così, la comunicazione preventiva online si trasforma: si edulcora, si riduce, si rende “instagrammabile”. Eppure la salute non è un’estetica: è carne, tempo, fatica, decisioni che costano. Arianna Pacchiarotti, responsabile della Uoc di Procreazione medicalmente assistita del San Filippo Neri e del Sant’Anna, ha affrontato spesso il tema in prima persona. “Nel mio ambito – infertilità e gravidanza – bisogna contrastare i falsi messaggi che alcuni personaggi famosi fanno passare, come quello di aver concepito spontaneamente dopo i 50 anni. Mi è capitato di dover smontare illusioni pericolose: donne convinte che bastasse avere il ciclo per essere fertili o che fosse possibile congelare ovociti

in menopausa. È una verità difficile da comunicare senza traumi”. La dottoressa aggiunge: “Ciò che penso è che tanto più l’informazione è semplice e diretta, tanto più raggiunge l’obiettivo. La differenza tra campagne che funzionano e quelle che non funzionano sta nell’empatia che genera il messaggio”.

Ma come rendere empatico e allo stesso tempo credibile un messaggio complesso, senza scadere nel paternalismo o nella banalizzazione? Secondo Antonio Giulio De Belvis, direttore della Uoc Percorsi clinici e valutazione degli outcome prestazioni del Policlinico Agostino Gemelli di Roma, “la tutela della propria credibilità e l’integrità scientifica, soprattutto nell’ambito della prevenzione, sono due aspetti centrali da preservare. Il messaggio non parla solo al singolo, ma a una comunità: la deontologia deve guidare anche la comunicazione digitale”.

Anche Roberta Mochi, dirigente dell’Ufficio stampa e comunicazione della Asl Roma 1, sottolinea l’importanza del linguaggio: “La prevenzione è un obiettivo centrale della sanità pubblica, ma difficile da comprendere per un cittadino sano. La comunicazione può fare da volano, purché sia chiara, empatica e basata sull’ascolto. L’esperienza della Asl Roma 1 sui social media mostra che una comunicazione semplice ma non banale rende il messaggio più pervasivo e genera coinvolgimento. La miglior strategia resta prendersi cura delle persone”.

Non si tratta di rinunciare ai social, né di rimpiangere tempi più lenti e profondi. La prevenzione digitale può funzionare – e in certi casi funziona davvero. Lo si vede quando i contenuti sono costruiti con cura, con un linguaggio comprensibile ma non semplicistico, quando i volti sono autentici, le storie vere, i dati spiegati e non solo mostrati. Come osserva Angelo Nardi, dirigente medico del DepLazio, “i social possono raggiungere quella parte di popolazione sana che ha pochi contatti con il sistema sanitario. Ma per farlo servono contenuti ben costruiti, realizzati con la collaborazione tra professionisti sanitari e della comunicazione, per evitare ambiguità o contraddizioni”.

Non solo like

Diviene allora fondamentale evitare l’ansia da visibilità e pensare i contenuti come ponti, non come slogan. “Dovremmo essere protagonisti, non solo validatori di messaggi veicolati da terzi”, afferma ancora Luigi Pinnarelli. “Abbiamo il dovere di tradurre le evidenze scientifiche in messaggi comprensibili, contrastando le fake news con autorevolezza”. E conclude con una nota operativa: “Un buon messaggio deve avere tre ingredienti: linguaggio chiaro e corretto, fonti verificabili e indicazioni concrete su cosa fare”.

La prevenzione non può essere ridotta a un gesto estetico, ma può essere restituita alla sua natura più profonda: un’educazione alla possibilità. A volte bastano poche parole, un video giusto o una storia onesta per cambiare uno sguardo, aprire un dubbio, avvicinare una scelta. Non è l’algoritmo a decidere. È il modo in cui lo usiamo. E lì, in quello spazio sottile tra tecnologia e intenzione, si gioca una partita che vale la pena giocare.

Tiziano Costantini Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio, Asl Roma 1

Siamo arrivati alle ultime pagine di questa –inevitabilmente incompleta – riflessione sulla prevenzione, una parola a cui è possibile assegnare significati differenti, come abbiamo visto nelle testimonianze dei molti interlocutori ascoltati da Forward. Talvolta, l’ultima curva riserva sorprese e, dato che mettere un punto alla discussione non è nello stile di questo progetto, per stupirci abbiamo chiesto aiuto a Richard Smith che da tempo invita a mettere al bando il termine prevenzione. Addirittura. Perseguire, attraverso la prevenzione e la promozione della salute, uno stato di assenza di malattia è miope e perfino ridicolo, secondo Smith. E aggiunge: “Morire è sano; vivere per sempre sarebbe malsano”. D’accordo, fare prevenzione favorisce l’uguaglianza tra i cittadini e sostiene un diritto fondamentale individuale e di comunità: quello alla salute. Però, si può andare oltre e de-medicalizzare le strategie di medicina preventiva, interpretandole come strumenti per promuovere la capacità e la responsabilità personale e collettiva di agire nella società a vantaggio di tutti. Mettendo le persone nelle condizioni di adattarsi ai cambiamenti inevitabili nel ciclo della vita e di saper affrontare le difficoltà di fronte alle quali pone la malattia. Facendo nostra un’ottica One health, “dovremmo smettere di pensare alla salute come a qualcosa che riguarda gli individui e riconoscere che è qualcosa di più ampio.”

È ora di VIETARE la parola “prevenzione”

E se smettessimo di parlare di “prevenzione”? È una parola, tanto amata, che ha il difetto di ridurre la salute all’assenza di malattia. Secondo Richard Smith – per anni direttore del BMJ – serve invece un linguaggio nuovo che includa la capacità di resilienza, quella di stabilire relazioni e di agire nella comunità, per ripensare radicalmente cosa significhi essere sani.

Richard Smith, membro della UK Health Alliance on Climate Change e presidente della Point of Care Foundation. Ha lavorato come medico in ospedali in Scozia e Nuova Zelanda, prima di entrare a far parte del British Medical Journal che ha diretto dal 1991 al 2004.

Poche frasi sono più note di “prevenire è meglio che curare” e il suo messaggio sembra inconfutabile. La prevenzione è la risposta preferita ai crescenti problemi del National health service (Nhs): se le persone non si ammalano, i costi del Nhs smetteranno di aumentare, anche se nessuno si chiede cosa ne sarà di tutti quegli ospedali con più di un milione di dipendenti. Nonostante la sua popolarità universale, vorrei mettere al bando la parola “prevenzione”. Come posso essere convincente? Qualche anno fa, il mio amico Prit, uno di quei radicali e istintivi iconoclasti che si incontrano nella vita, mi ha parlato del “modello di deficit della salute”. All’inizio non capivo il suo punto di vista, ma pian piano ho cominciato a capirlo. Cosa si previene? La malattia, ovviamente. La prevenzione porta alla salute, che è “l’assenza di malattia”. La salute è definita come una mancanza, l’assenza di malattia. E chi determina se una persona è malata? I medici. Se ci atteniamo alla “prevenzione”, saranno i medici a determinare chi è malato e chi è “sano” perché non è malato. Questa definizione de facto di salute è in contrasto con quella dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattie o infermità”. La definizione è ridicola, divisiva, gerarchica e in gran parte ignorata.

È ridicola perché raggiungere il “completo benessere fisico, mentale e sociale” non è umano. La vita è difficile, piena di problemi e costantemente minacciata. Inoltre, suggerisco, si può essere coperti di foruncoli e prossimi alla morte, ma comunque “sani”. Morire è sano; vivere per sempre sarebbe malsano. La definizione è divisiva perché suggerisce che il benessere fisico, mentale e sociale siano distinti e ordinati in modo gerarchico, poiché pone il benessere fisico al di sopra del benessere mentale e il benessere mentale al di sopra del benessere sociale. (C’è stata una proposta per includere il “benessere spirituale” come quarto nella gerarchia, ma è stata respinta). I sistemi sanitari seguono questa gerarchia, mettendo il trattamento delle malattie fisiche davanti a quello delle malattie mentali, prestando poca attenzione al benessere sociale e ignorando del tutto il benessere spirituale. La definizione è in gran parte ignorata perché i sistemi sanitari sono sistemi centrati sulla malattia e definiscono le persone sane solo perché non hanno malattie rilevabili e, man mano che le soglie di malattia si ampliano (si pensi all’ipertensione o alla depressione), sempre meno di noi non sono malati (e quindi “sani”).

Abbiamo bisogno di una definizione più audace e ampia di salute, qualcosa che abbia a che fare con la resilienza, l’adattabilità, la capacità di affrontare le difficoltà, l’interdipendenza e le relazioni con gli altri, la nostra comunità, il pianeta e la natura. Probabilmente dovremmo smettere di pensare alla salute come a qualcosa che riguarda gli individui e riconoscere che è qualcosa di più ampio.

I medici e gli altri professionisti della salute non sono le persone adatte a definire la salute. È necessaria una discussione molto più ampia e l’eliminazione della parola “prevenzione”, con la sua definizione che tiene in così modesta considerazione la salute, potrebbe stimolare la discussione, perché le persone sarebbero sorprese dal fatto che una parola così amata venga abbandonata. Sarebbe quasi come vietare la parola “amore”, cosa che non propongo, anche perché l’amore è sicuramente parte della salute.

Chi è “l’amico Prit” citato da Richard Smith? Pritpal S. Tamber sviluppa il suo pensiero partendo da un percorso iniziato nel 2013, quando ha cominciato a esplorare il legame tra salute e comunità. La sua riflessione nasce dalla constatazione dell’insostenibilità dei sistemi sanitari, della scarsa attenzione alle priorità reali delle persone da parte delle innovazioni in sanità e delle evidenze sul ruolo del capitale sociale nella salute.

Attraverso progetti internazionali (Wellthcare) e la creazione del Creating health collaborative nel 2015, Tamber ha elaborato e analizzato degli approcci che mettessero al centro le priorità delle comunità, individuando principi comuni orientati a promuovere senso di coerenza (come descritto da Aaron Antonovsky nella teoria della salutogenesi), controllo e agency (vedi il lavoro di S. Leonard Syme sui determinanti sociali della salute) come fattori determinanti per la salute. Questo lavoro ha portato alla formulazione dei 12 principi del lavoro orientato alla comunità (2017) e a iniziative per la loro diffusione.

Dal 2017 Tamber ha approfondito il legame tra salute e strutture sociali, politiche e normative che modellano le condizioni di vita, ponendo attenzione al tema del potere della comunità come leva per trasformare contesti iniqui. Negli ultimi anni ha esteso la sua riflessione al ruolo dei governi, in particolare nel Regno Unito, e alle politiche di co-governance per condividere il potere decisionale con le comunità.

In sintesi, Tamber sostiene che:

• la salute non è sempre la priorità delle persone, ma ciò che le sostiene è il significato dato alla vita,

• il controllo individuale migliora la salute, mentre il potere comunitario è essenziale per cambiare le condizioni sociali,

• la costruzione di salute richiede innovazioni radicate nel contesto, capaci di sviluppare capitale sociale, agency e politiche eque

COSA RENDE LE PERSONE SANE?

Il modello salutogenico di Aaron Antonovsky si concentra sui fattori che promuovono la salute e il benessere piuttosto che sulle cause della malattia, studiando le risorse che ci permettono di rimanere in salute anche in condizioni avverse e di stress.

La situazione di vita

• cultura

• forze sociali

• posizione sociale

• genere

• etnia

• età

• orientamenti

• predisposizioni

• genetica

• fortuna

• scelte

- lavoro/gioco

- associazioni

- assunzione di rischi

- ecc.

Esposizione allo stress nel corso della vita

• acuta

• cronica

Risorse generali di resistenza

• supporto

• competenze

• resilienza, ecc.

Esperienze di vita

• grado di coerenza

• equilibrio tra sovraccarico

e sottocarico

• partecipazione

Senso di coerenza

• Comprensibilità componente cognitiva

• Gestibilità componente comportamentale

• Significatività componente motivazionale Movimento della persona verso la salute

Questo articolo è stato pubblicato su Richard Smith's non-medical blogs con il titolo "Time to ban the word prevention". È stato tradotto e pubblicato su Forward grazie a un accordo con l’autore, che ringraziamo per la sua disponibilità.

PREVENZIONE

s. f. [dal lat. tardo praeventio -onis; nel sign. 2, dal fr. prévention].

1 Adozione di una serie di provvedimenti per cautelarsi da un male futuro, e quindi l’azione o il complesso di azioni intese a raggiungere questo scopo. Genericam., ogni attività diretta a impedire pericoli e mali sociali di varia natura (in medicina, è sinon. meno specifico di profilassi): p. delle malattie a trasmissione sessuale, dell’alcolismo; p. delle malattie professionali, degli infortunî sul lavoro; provvedimenti per la p. della disoccupazione, della delinquenza minorile, della criminalità, della droga. In diritto penale, misure di p., misure di difesa sociale ante delictum (prima cioè che il delitto sia commesso), che possono essere adottate nei confronti delle persone considerate socialmente pericolose (v. misura, n. 5 e). Istituti di p. e di pena, denominazione generica (coniata nel 1928, originariamente in sostituzione del termine riformatorio) degli stabilimenti carcerarî nei quali sono poste in atto misure di sicurezza detentive e di rieducazione. 2.

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2 Presupposizione, idea precostituita, opinione formulata prima di una verifica della realtà: l’intelletto di chi legge è offuscato da prevenzioni di scuola (Mazzini); per lo più in senso sfavorevole, giudizio avverso e preconcetto, pregiudizio: temo che abbia qualche p. nei nostri riguardi; non ho prevenzioni contro il vostro progetto; com. soprattutto nell’espressione senza prevenzioni, obiettivamente, spassionatamente: giudicare, esaminare senza prevenzioni; più raram. in senso favorevole: vi ringrazio della favorevole p. che di me avete (Goldoni).

3 Nel linguaggio giur. (con riferimento al sign. lat. di praevenire «arrivare prima»), criterio in base al quale, se nel caso di una litispendenza la stessa lite sia portata avanti a due giudici diversi, è competente a giudicare il giudice adito per primo. Analogam., principio della p., il principio per il quale, in caso di conflitto di diritti, si dà la preferenza a quello sorto per primo.

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