REM La Fondazione Banca del Monte di Rovigo è presente nel tessuto polesano attraverso progetti ed interventi a favore della formazione e dell’educazione dei cittadini ed in particolare dei giovani, riservando particolare attenzione al mondo della scuola. In quest’ottica la Fondazione promuove la distribuzione della rivista REM Ricerca Esperienza Memoria presso tutte le biblioteche degli istituti scolastici secondari di primo e di secondo grado del territorio polesano, nella convinzione di offrire uno strumento di approfondimento e di consapevolezza identitaria. Allo stesso tempo, questa opera di diffusione a cura della Fondazione rappresenta un sostegno ad una rivista che valorizza il territorio e mette in luce la vivacità culturale del Polesine affrontando diversi aspetti e caratteristiche. Il pregio della rivista, oltre ai contenuti, va sicuramente riconosciuto anche per lo spazio riservato a molte firme giovani della provincia. Fondazione Banca del Monte di Rovigo
4 Le colline marchigiane in una foto di Barbara Munerato. Nella storia di copertina di questo numero, tra scrittura e immagine, un'intervista di Vainer Tugnolo a Claudio Piersanti, uno dei maggiori scrittori italiani, da tempo residente nelle Marche.
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EDITORIALE
L'Europa a Scardovari.....................................................................................................................................................................7 RUBRICHE
Taccuino futile – Natalino Balasso.................................................................................................................................................9 La nottola di riserva – Cristiano Vidali ........................................................................................................................................ 11 STORIA DI COPERTINA
Claudio Piersanti: "gli scrittori li hanno fatti fuori tutti..." – intervista di Vainer Tugnolo ............................................................12 ATTUALITÀ
PoPlab, tra pratiche digitali, design, produzione industriale e ricerca – Fabio Bozzato ......................................................... 23 IMMAGINI
Il pensiero, l’amore, la fatica e il corpo – Intervista di Danilo Trombin a Elisabetta Sgarbi ................................................ 29 STORIE
Buon compleanno Magnacharta! – Ilaria Gabrieli e Massimiliano Battiston ........................................................................ 35 PAROLE
Guido Conti, il romanzo è ancora necessario – Sandro Marchioro .........................................................................................41 SUONI
Nico Dalla Vecchia. La musica che mi gira in testa – intervista di Alberto Gambato ............................................................ 47 SUONI
Tullio Serafin, una vita musicale nei teatri di tutto il mondo – Nicla Sguotti ............................................................................. 53 PERSONAGGI
“Bruno da Badia” il progetto per Bruno Munari – Sara Milan .............................................................................................. 58 FORME
Maurizio Finotto l'arte mi ha salvato la vita – intervista di Gian Luca Beccari ........................................................................ 63 STORIE
Voci per la Libertà …da vent’anni a fianco della DUDU – Michele Lionello ........................................................................... 68 STORIE
Un nastro adesivo... da Oscar. Riflessioni sulla storia di Leo Cat(t)ozzo – Michele e Marco Barbujani ................................ 73 PALCOSCENICO
Il teatro e la sua città – a cura di Monica Scarpari, interviste di Marta Vigato ....................................................................... 78 COLORE
Mario Ferrarese Pittore autentico – Cristina Sartorello ............................................................................................................. 83 SAPORI & SAPERI
Spagheti coi peoci. Pasta con le cozze – Mario Bellettato ......................................................................................................92 LA VIGNETTA di Herschel & Svarion ......................................................................................................................................... 96
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Anno IX, n. 2/3 del 1 Dicembre 2018 Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010 Direttore responsabile: Sandro Marchioro Editore: Apogeo Editore Pubblicità e marketing: Massimiliano Battiston REM è fatto da: Sandro Marchioro, Monica Scarpari, Paolo Spinello, Francesco Casoni, Cristiana Cobianco, Cristina Sartorello, Nicla Sguotti, Danilo Trombin, Vainer Tugnolo, Sara Milan, Barbara Pregnolato, Cristiano Vidali, Marco Barbujani, Mario Bellettato Stampa: Grafiche Nuova Tipografia − Corbola (RO) Tel. 0426.45900 Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Paolo Spinello Diffusione Editoriale − Via Zandonai, 14 − 45011 Adria (RO) Tel. 347.2350644, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03. Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010. Copyright − Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze. REM ringrazia gli autori per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo gratuito per l’inserimento nella rivista. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore. Numero chiuso in redazione il 10/11/18 ISSN 2038-3428 In copertina: un fotogramma da "L'estate di Davide" di Carlo Mazzacurati, sceneggiato da Claudio Piersanti.
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EDITORIALE
L’EUROPA a Scardovari
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e vi piace la politica, poche stagioni come quella attuale danno spunti di riflessione e motivi per ragionare sul passato, sul presente, sul futuro. Non è, a parer nostro, un momento deprimente, né un momento esaltante: è semplicemente una fase di passaggio nel corso della quale un mondo ne sta figliando un altro e, come molti parti, con un travaglio lungo e piuttosto doloroso. Di fatto, tra qualche decennio, il paesaggio che avremo intorno, sia esso politico, culturale, materiale, sarà completamente diverso. Capita periodicamente: la nostra storia pulsa, ed è segno che ancora c’è. Che il futuro possa essere più brutto o più bello del presente, del tempo in cui i più tra noi sono nati e cresciuti, è questione difficile da prevedere soprattutto perché i filtri ideologici che annebbiano le nostre visioni sono ancora forti, nonostante le ideologie a cui eravamo abituati si siano corrose e stinte. Di fatto, l’unica cosa di cui possiamo essere sicuri è ciò che è accaduto fino a ieri. Possiamo partire da qui. Gli esiti della politica a livello internazionale (non solo nel nostro stretto stivaletto) non nascono più da una conoscenza diretta della realtà: Bismarck, Garibaldi, Lincoln, partivano da un tentativo di conoscenza della realtà e poi agivano per cambiarla. Lo strapotere dei media, nella versione appestante dei social, ha mutato radicalmente questo paradigma; a tal punto che oggi l’obiettivo del politico è primariamente deformare la realtà e poi intervenire su di essa: ma la quantità di energia incanalata per distorcere la visione del reale è enormemente maggiore rispetto a quella impiegata per modificarlo. Detta in maniera più semplice: la maggior parte dei leader politici di oggi prendono i voti raccontando un mondo che non c’è e poi non cambiano in nulla il mondo che c’è. Verificate pure seguendo in maniera approfondita gli svolgimenti delle società americana, russa, francese, italiana, brasiliana. Le figure che si pongono come leader politici, inoltre, nella loro debolezza progettuale non possono far altro che aggrapparsi al risorgere dei molti “ismi” che sembravano essere morti con la metà del Novecento: il sovranismo e il nazionalismo, ad esempio. Un esempio di mortificazione della realtà è quello legato all’idea di Europa: chi l’aveva pensata aveva in testa una storia e da qui partiva per immaginare un futuro. Chi l’ha realizzata aveva in testa un apparato, aveva dimenticato la storia e non sapeva immaginare un futuro. Chi la vuole distruggere ha in mente solo un futuro, ma che assomiglia terribilmente al passato a cui non volevamo tornare. Di fatto, l’Europa s’è fermata appena iniziato il viaggio e non è mai arrivata dove voleva arrivare. Per vivere e prosperare, l’Europa avrebbe dovuto arrivare anche a Scardovari.
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RUBRICA
Taccuino futile
Foto di Nicola Boschetti
Le slepe e l'immortalità di Natalino Balasso
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a piccoli, io e mio fratello, trasponendo dal dialetto all’italiano e viceversa, usavamo categorie e definizioni che abbiamo poi scoperto essere arbitrarie. «Che rassa è il tuo cane?» «È un lessi». «An». Perché mai definissimo Lassie un pastore tedesco quando nel telefilm era un
pastore scozzese rimane un mistero. Fatto sta che per noi il can lupo apparteneva alla razza lessi.
si more senpre di cancaro. Era dunque così facile morire per un’offesa? La cosa ci sollevò perché significava che in teoria un umano potrebbe vivere per sempre.
S’indossava il gàbardin, il giacòn, oppure il paltò. I ragazzi portavano i blu gin e le ragazze cominciavano a osare le cotole curte, che i più avveduti chiamavano minigone. I bambini si divertivano sul spingolo, giocavano a ciaparse, a scondarse, oppure a indiani e cauboi. Tutte queste parole finivano sui nostri quaderni di scuola e immagino il divertimento delle nostre maestre quando leggevano quei temi, prima di prodigarsi in soventi sottolineature. «Iersira gò visto Sarlò in televisione». «Si ma a me mi piace di più OlioeStalio».
C’è stato un periodo storico nel quale la violenza pedagogica era non solo tollerata, ma anche auspicata. La frase “Se te ciapo te copo”, col suo corrispettivo polesano “S’at ciapo at copo” c’induceva a impegnarci a fondo nella fuga per evitare la pena capitale ad opera di un genitore, di un semplice parente o di qualsiasi adulto Una volta una bimba, di passaggio. L’aria rinostra vicina di casa suona ancora di quelle dalla quale, nonostante slepe, di quei s-ciafoni i miei 8 anni, ero erotiimperiosi. camente affascinato, ci rivelò che nissuni “At dago na slepa c’at muore di vechiaia, giro da st’altra parte“. si more senpre di “Vien qua c’at dago“. cancaro.
Mio padre, col suo irredimibile pavano dell’interno, diceva teegiornae e teefim. Quando arrivava la fiera e ci era permesso il consumo di ligorissia, altresì detta gurissia o ciucio moro, oppure il mandolato o il cicolato, mio padre ci prendeva un po’ di caramee. Una volta una bimba, nostra vicina di casa dalla quale, nonostante i miei 8 anni, ero eroticamente affascinato, ci rivelò che nissuni muore di vechiaia, 9
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Perché mai un bambino dovesse andare volontariamente al macello lo sapevano solo quelle madri. “E po’ a casa at dago el resto“. C’era sempre qualche sberla da parte. I bambini sigavano per un po’ e poi dimenticavano, a quanto pare, in fretta.
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RUBRICA
La nottola di riserva
stico, richiamandosi anche allo stesso servavamo da anni. La disgregazione Aristotele. della memoria non è un’eccezione; al Dal racconto di Eco si può trarre contrario, è naturale che nella trasmisun’importante lezione sulla memoria sione culturale vi sia una costante die sulla trasmissione della cultura. Infatspersione di contenuti. Quanti brani non ti, se da un lato si è soliti imputare a furono ricopiati nel passaggio dal vinile quell’incendio la responsabilità della al CD e quanti ancora non lo saranno perdita materiale di centinaia di midall’mp3 a Spotify? gliaia di scritti dell’antichità, dall’altro La reazione a tutto ciò non dev’essere tale versione spiega solo metà della l’ossessione di ricordare tutto e indiscriverità. La ragione per cui molte opere minatamente. Archiviare sulle piattaforsopravvissero alla ciclicità delle catame virtuali sterminate informazioni che strofi è semplicemente che ne esistevanessuno mai consulterà è tanto inutile no molte copie: i testi considerati dequanto ripetere all’infinito libri interi gni venivano ricopiati e distrutti dalla ‘milizia del replicati, mentre le poche fuoco’ come nello scenacopie di quelli ritenuti di rio distopico di Fahrenheit scarso interesse venne451. In questo senso, è ...ciò che trapassa ro facilmente inghiottite tanto schiacciata dal pasdi generazione dalla spirale del tempo. sato la società che non in generazione è La lezione è che nulla può dimenticare, quanto lo anche il risultato garantisce che l’erediè dal futuro quella che non della specifica tà del passato venga sa ricordare. volontà degli esseri spontaneamente traLa vera responsabilità per umani di garantirne ghettata al futuro. Gli usi una comunità è assumersi faticosamente la e i costumi, le leggi ed i ancora e ancora la fatica valori, le pratiche ed i di decidere della propria trasmissione. saperi non sopravvivono tradizione in modo critico in modo inerziale, quasi e consapevole, proprio si trattasse di un organiaffinché essa possa essere smo dotato di vita propria e capace mantenuta in vita. Così, la memoria si di preservare tenacemente la propria rivela non essere affatto un gioco pasesistenza. Al contrario, ciò che trasatista o semplice erudizione; non un passa di generazione in generazione contenitore impolverato, ma il perno del è anche il risultato della specifica voproprio futuro. E non bastano i nodi al lontà degli esseri umani di garantirne fazzoletto, dacché ad ogni incontro si faticosamente la trasmissione; ciò di può sempre scordare perché li avessicui non ci si prende cura attivamente, mo fatti. Il nodo, per così dire, va fatto di semplicemente viene perduto. giorno in giorno, stabilendo in tal modo E la minaccia dell’oblio aleggia cocosa si intende essere – o, il che è lo stantemente su di noi: basta che il stesso, cosa dimenticare. nostro smartphone si bagni o che il computer si rompa per perdere definitivamente appunti, idee, messaggi e immagini che premurosamente con-
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L'incendio della memoria di Cristiano Vidali
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e Il nome della rosa, Umberto Eco racconta della ricerca rocambolesca del famigerato secondo libro della Poetica di Aristotele, la cui unica copia si scopre essere conservata in un’abbazia benedettina sperduta tra i monti dell’Italia settentrionale. Quasi definitivamente distrutta nell’incendio della Biblioteca di Alessandria di oltre un millennio prima, l’opera viene custodita in gran segreto, per il timore che il suo contenuto – un’apologia della risata da parte del filosofo stagirita – risulti blasfemo rispetto alla serietà predicata dall’ordine mona-
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STORIA DI COPERTINA
Claudio Piersanti: "gli scrittori li hanno fatti fuori tutti..." Intervista a uno dei maggiori scrittori italiani che dice: "tutto ciò che propongono gli scrittori viene considerato palloso e letterario, c’è nei loro confronti una diffidenza bestiale. Il genere, il noir, ha vinto ed è diventato letteratura, ma non lo è…" di Vainer Tugnolo
Le colline marchigiane e, nella pagina successiva, una veduta di Ostra, buen retiro di Claudio Piersanti – foto di Barbara Munerato 12
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Claudio Piersanti è uno scrittore che ha sempre amato starsene un po' in disparte, protetto da una solitudine necessaria, quasi inevitabile, per osservare il mondo senza intrusioni. I suoi racconti e i suoi romanzi, da "Luisa e il silenzio" a "Il ritorno a casa di Enrico Metz", solo per citarne alcuni, hanno questo respiro.
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Oggi direi da qualcosa di insensato. L’aspetto principale direi proprio che fosse l’insensatezza della nostra vita: frequentavamo delle facoltà di cui tutt’ora non riesco a comprendere le motivazioni. Penso per esempio al DAMS, e ai tantissimi amici che si erano iscritti. C’erano certamente degli insegnanti meravigliosi, non è questo il punto, ma queste facoltà erano delle fabbriche di disoccupati.
bruzzese di origine, Piersanti vive fra Roma e l’Appennino marchigiano dove trascorre le giornate in piena libertà fra i suoi libri, cercando di conquistare un prezioso e meritato silenzio. Lontano dal rumore delle giornate che si ripetono. E lontano dal chiasso e dal fermento della Bologna di fine anni ’70, dove anche per lui era iniziato un po' tutto. Ero anarchico di origine, ma allora facevo politica con i trotskisti. Ad un certo punto scrissi un documento dove dicevo che nel giro di pochissimi anni ci sarebbe stata una grande ribellione dentro il movimento e nella città: si sentiva, era nell’aria, c’erano troppe coincidenze, prima di tutto umane. In quel periodo tutti venivano a Bologna prima che ci fosse un perché. C’era una comunità giovanile di decine di migliaia di ragazzi che provenivano da posti diversi, e si respirava dappertutto questa voglia movimentista.
Io frequentavo Filosofia ed ero un vero individualista, i trotskisti da questo punto di vista tenevano molto separata la sfera privata dalla vita politica. Al contrario dei maoisti, ad esempio, che avrebbero voluto invadere ogni aspetto della tua esistenza. Per me era impossibile, non ero adatto a questo stile di vita, vivevo per conto mio. Di giorno potevo fare a botte con i Carabinieri ma la sera alle dieci leggevo Proust, senza parlarne con nessuno perché non era molto amato. La letteratura era veramente secondaria, andava di moda un certo tipo di saggistica come l’antipsichiatria e l’anti-Edipo, e quindi Deleuze e Guattari…
Da cosa traeva origine questa inquietudine, di che cosa era figlia, di cosa si nutriva. 13
STORIA DI COPERTINA
Foto di Claudio Piersanti scattata da Carlo Mazzacurati – per gentile concessione di Claudio Piersanti
Insomma è stata un’esplosione di rabbia, di violenza, non c’era alcuna rivendicazione sindacale, avevamo solo bisogno di esprimere l’insensatezza della nostra vita, nel ’77 la disoccupazione era feroce e tutti noi eravamo destinati al nulla...
te per niente, ad esempio l’area dell’autonomia operaia, vicina al terrorismo, per la grande carica ideologica che aveva. In loro riconoscevo l’impronta del marxismo-leninismo più becero. Anche il maoismo mi faceva orrore, le percepivo già allora come delle dittature, non sarei mai andato in Unione Sovietica, sarei finito subito in carcere.
Pensa che quell’esperienza abbia lasciato qualcosa, che abbia contribuito in qualche modo alle trasformazioni della società civile degli anni successivi? Il lascito di quell’esperienza è molto ambiguo e stratificato in tante forme: c’erano delle componenti autentiche e altre che non mi erano piaciu-
La sua formazione culturale è dunque il risultato, sin dall’inizio, di una scelta individuale, quasi solitaria. 14
REM
Ho concluso l’attività politica nel ’77, quando avevo 23 anni, dopo l’uscita dal carcere degli ultimi ragazzi, per i quali mi sentivo responsabile.
stazione mentre fuggivo di casa, e mi ha cambiato l’esistenza. Era comunque una Bologna in cui erano presenti, più o meno protagoniste attive di quella stagione, alcune figure di spicco della cultura italiana. Chi aveva incontrato e con chi si era confrontato, quali sono stati i riferimenti più importanti per la sua formazione?
È stato grazie alle esperienze politiche adolescenziali che avevo letto tantissimo, grazie alle decine, alle centinaia di libri che mi avevano fornito amici trotskisti e anarchici. Oggi è quasi incomprensibile, come invece allora capitò a me, che un ragazzo a 16 anni possa sapere tutto di Trotsky e di Bakunin, e possa aver letto tutto sulla Rivoluzione Russa, sulla Germania, sulla Guerra Civile Spagnola.
Innanzitutto Gianni Scalìa, che ho frequentato molto da ragazzo. Pur non essendolo formalmente, lui è stato uno dei miei ‘professori’ più importanti. Era un uomo che amava circondarsi di studenti talentuosi e mezzi anarchici come lui. Molte cose di arte e filosofia, di estetica, le ho imparate più da lui che da Anceschi, il professore con cui mi sono laureato.
Il mio incontro con la letteratura è stato invece del tutto dominato dal caso perché non ho avuto insegnanti: ho comprato Kafka l’anno in cui ho cercato di iscrivermi al circolo Errico Malatesta di Ancona.
Un’altra figura importante per me è stata senza dubbio Roberto Bergamini, un astrofisico con cui ho avuto una grande amicizia, un vero genio che ha lavorato molto in America. Capace di leggere
Quel libro pieno di kappa che non significavano niente per me (Il processo, ndr) l’ho comprato alla
Alcuni libri di Claudio Piersanti, tra i quali "Stigmate" illustrato da Mattotti 15
STORIA DI COPERTINA
Una copertina di "Linea d'ombra" e Romano Bilenchi
in inglese e in francese, aveva una grandissima cultura letteraria.
blee, che parlava male di Calvino, si alzava e gliene diceva di tutti i colori.
E poi Guido Neri, che allora insegnava al DAMS e si stava occupando molto di Baudelaire. Consulente di Einaudi, Guido era un uomo meraviglioso, probabilmente il più grande conoscitore di letteratura francese contemporanea che c’era allora in Italia. Anche da lui ho imparato tantissimo: tutti gli autori francesi del ‘900, anche i più recenti, me li ha fatti conoscere lui.
Gianni Celati è indubbiamente una figura di intellettuale atipico, uno che a un certo punto si stanca dell’Università italiana, e della sua cultura irrimediabilmente accademica, e se ne va sbattendo la porta. La sua era una ribellione più individualista, salingeriana, non si accettava nel ruolo di professore. Voleva essere uno scrittore. Quando se ne andò io gli manifestai la mia perplessità, anche perché l’Università lo trattava bene. Io credo che abbia commesso un errore: la sua è stata una scelta un po’ ideologica, ma poi ha avuto una vita più difficile.
E ancora Gianni Celati, naturalmente, che fu fra i primi a parlarmi del Delta: lui era uno di noi, era meno professore degli altri. Non partecipava direttamente, non era molto politico, era invece un vero letterato con una grandissima cultura. Ricordo le telefonate interminabili fra lui e Calvino, con Gianni che gli consigliava dei libri. Avevano un rapporto molto profondo, quasi morboso: se Gianni sentiva qualcuno, anche durante le assem-
Molto amato dagli studenti che lo adoravano, da grande insegnante quale è stato, la mia convinzione è che lui si sia ribellato alla sua figura sociale, ma il suo gesto rimane per me incomprensibile. 16
REM
to moltissimi scrittori fra cui Romano Bilenchi. Romano fu colui che mi fece leggere le lettere dei comunisti spediti nei gulag da Togliatti, tra cui Emilio Guarnaschelli. Per me fra Togliatti e Mussolini non c’era molta differenza. Rifiuto totalmente questa tradizione: mio zio, che aveva combattuto anni in montagna con i comunisti, dopo il ’56 si era ritirato in una vigna e non faceva entrare più nessuno in casa. Molte cose si sapevano già allora ma non le si voleva vedere, c’era un conformismo culturale devastante.
Nonostante le complicazioni di quegli anni, anche nelle fasi più incerte, lei si era comunque sempre definito, semplicemente, come un aspirante scrittore. Il mio primo libro, Casa di nessuno, è molto legato a quella stagione: lo dimenticai, copia unica, a casa di Enrico Palandri in via Begatto, dove anche Celati andava. Lo trovò un redattore della Feltrinelli che aveva dormito in quella casa, prese il manoscritto senza nome e senza titolo e ci mise un mese a mezzo a trovarmi. Io l’avevo scritto come esercitazione, come una prova generale. Non ebbi alcun successo, a differenza di Tondelli ad esempio, che avevo conosciuto dopo, nei primi anni ’80.
Bilenchi mi insegnò a non cercare di trasformare la letteratura in un mestiere perché ci vai a perdere, mi spiegava, in libertà. In Italia non è possibile fare lo scrittore libero, non c’è un pubblico, è una scelta che porta alla miseria e alla lamentazione.
E da lì cominciò la discesa? No, i letterati non erano affatto di moda nel movimento. Io lavorai per un certo periodo alla Malipiero in cui imparai la parte tecnica dell’editoria. Poi sono diventato direttore di una rivista di neurobiologia di un’azienda farmaceutica: per dieci anni è stata un’esperienza entusiasmante che mi ha consentito di conoscere persone con uno spessore intellettuale incredibile.
Proprio nel suo ultimo libro, La forza di gravità, il protagonista, il Professore, ad un certo punto afferma: “per chi dovrei scrivere se i grandi lettori sono tutti morti”? La morte di persone come Bilenchi è stata una tragedia per me, in un certo senso scrivevo per loro. Avendo perso questi riferimenti la perdita è stata devastante, è come se non scrivessi per nessuno, in un certo senso. Io odio pubblicare e, una volta stampato, non ho mai riletto un mio libro.
È stato incontrando studiosi come Eric Kandel o Gerald Edelman, premio Nobel e neurobiologo straordinario, che ho avvertito la presenza e la forza di un pensiero. Questa è la filosofia di oggi, mi dicevo, un incrocio fra Leopardi e Bergamini.
Bilenchi mi consigliava di continuare a fare così, scrivendo dei lavori ogni tanto. E sarai libero, mi diceva… proprio come ha fatto lui. Per me era lo scrittore perfetto, ed io ho cercato di seguire i suoi insegnamenti.
È stato macinando decine di libri di autori come loro che sono cresciuto diversamente rispetto agli scrittori miei coetanei che non avevano conosciuto le aziende. L’unico scrittore con una esperienza simile alla mia era Paolo Volponi.
Fino all’incontro con il cinema... Sì, fino all’incontro con il cinema, il mio inganno è stato il cinema.
Dunque non è mai stato uno scrittore e basta, anzi la scrittura è sempre stata per lei un’attività parallela, quasi clandestina.
E con Carlo Mazzacurati.
Sì, è così. Avevo contribuito a fondare una rivista che si chiamava Linea d’ombra e avevo conosciu-
Dopo i miei lavori industriali incontrai Carlo all’inizio degli anni ’80: lui stava preparando Un’al17
REM STORIA DI COPERTINA
tra vita, a mio giudizio il suo film più bello. Conosceva i miei racconti perché un suo vecchio amico psicanalista di Roma, ma romagnolo di origine, li regalava a pazienti e conoscenti. Carlo mi chiese di scrivere la sceneggiatura di qualche suo film, ma con lui si parlava soprattutto di letteratura, il nostro è stato un incontro letterario. Poi si parlava anche di cinema, di Pietrangeli ad esempio, di Huston, di Miyazaki (che per me è il più grande regista vivente), ma sempre con lo sguardo rivolto alla letteratura.
Del Delta me ne aveva parlato Celati, ma con lui non c’ero mai stato, per Gianni era la sua giovinezza, qualcosa di iniziale, di sorgivo. Carlo amava invece la commistione acqua-orizzonte: solo i pittori avevano il suo stesso sguardo, nei suoi occhi c’era tutta la pittura veneziana, fino a Turner… non c’era un sotto e un sopra, non c’era un orizzonte, era tutto orizzonte, come un confine verso il nulla: era una fascinazione di linee, di apertura, qualcosa che lo faceva respirare. Tu lo vedevi parlare con le persone e capivi che ne apprezzava la sapienza antica, come se toccasse un frammento di passato. Era interessato a tutto, alle vicende umane, al cibo, al paesaggio, le foci sono un mondo a parte, lo scenario primario del suo cinema.
D’altronde il cinema ha sempre rubato molto e io non lo considero una grande arte, se non in casi eccezionali, ma anzi un’arte abbastanza parassitaria. La mia è una posizione un po’ aristocratica: l’eccezione è Carlo, l’ultimo vero grande regista della mia generazione.
A proposito di incontri e vicende umane legate dal filo comune della letteratura, lei ha avuto uno speciale rapporto con l’opera di Giorgio Bassani, un grande intellettuale che conosceva bene quella parte di Pianura.
L’esperienza comune più importante è stata L’estate di Davide: un’occasione, come anche lei ha ricordato spesso, per trasformare il grande gioco del cinema in una irripetibile esperienza umana e professionale.
Bassani, oggi quasi dimenticato, ha avuto un ruolo fondante nell’editoria italiana, metà del grande catalogo Feltrinelli di allora era suo. Lui proveniva da Botteghe Oscure, una rivista che aveva avuto un ruolo fondamentale nel panorama culturale italiano, che aveva pubblicato Casa d’altri di Silvio d’Arzo, ad esempio. Purtroppo Bassani non è mai stato studiato, è stato anzi odiato dalla cultura ufficiale italiana. Poi naturalmente tutti si pentirono...
Ci avevano fatto la guerra per quel film, ma forse è stata la nostra fortuna: era una cosa per la tv e abbiamo lavorato in piena libertà. Non abbiamo avuto pressioni di alcun tipo, per la prima ed unica volta, in sostanza non fregava niente a nessuno... Ma è grazie a L’estate di Davide che posso dire di aver fatto il cinema: è stato un grande gioco, con Carlo abbiamo sempre lavorato insieme e sono praticamente sempre rimasto sul set.
Come scrittore ho sempre trovato Bassani un autore aperto, privo di pregiudizi e di barriere, un uomo libero, e un pensatore libero.
La cosa incredibile è che abbiamo dovuto riscrivere il film mentre lo facevamo. I ragazzi che avevamo preso non riuscivano ad esprimersi con i dialoghi su cui avevamo lavorato, e avevano ragione loro, vi erano stati momenti di crisi feroce. Ma secondo me questo è il cinema, è un continuo confronto con la realtà che non puoi sconfiggere.
Riguardo a Bassani, e ad una delle sue opere in particolare, lei ha coltivato per anni quella che potremmo definire una vera e propria ossessione. Spinto proprio dai figli di Bassani feci un incontro con Alberto Rollo alla Casa del Cinema di Roma: la mia idea, la mia piccola ossessione, è vero, era
Grazie a quel film incontra il territorio del Delta e delle foci del Po. 18
REM
quella di portare L’airone sul grande schermo. Il mio agente si preoccupò moltissimo: era certo che non solo una cosa del genere non si sarebbe potuta fare, ma il solo parlarne mi avrebbe, secondo lui, nuociuto tantissimo. Invece la storia ha una sua unità. Carlo Mazzacurati aveva una teoria: il film sta al racconto, non sta al romanzo, il racconto è il respiro del film. E in effetti L’airone è un racconto, ha la misura del film, è naturale perché è nudo, è pronto… ma certamente non si farà mai.
denti, senza talento: Bilenchi diceva che una vocazione sbagliata è la cosa peggiore che ti possa capitare nella vita. Il panorama della cultura italiana che esce dalle sue parole non è fra i più incoraggianti. L’ostracismo nei confronti di Bassani era figlio di questa cultura avanguardista post fascista e post comunista. Le avanguardie italiane purtroppo erano come i futuristi italiani che non avevano nulla a che vedere con i futuristi russi, che erano veri… I nostri erano tutti cialtroni fascisti e accademici.
E fu uno dei capitoli finali per me! Iniziai veramente a pensare che questa storia del cinema fosse una stronzata, e che avrei dovuto darmi alla fuga. Ogni volta che mettevo piede in Rai e parlavo con i produttori mi ripetevo sempre la stessa cosa, che dovevo starmene alla larga…
Tutte le avanguardie italiane nascono nelle Università, sono tutti professori universitari, loro odiavano gli autori, è stato l’inizio dello scontro con la piccola tradizione letteraria italiana. I nostri scrittori, da Manzoni in poi, fino a Svevo,
Nel mondo del cinema ho conosciuto persone straordinarie come Carlo ma anche tante persone sca-
Claudio Piersanti e Carlo Mazzacurati – per gentile concessione di Claudio Piersanti 19
REM STORIA DI COPERTINA
non sono mai piaciuti né agli italiani né ai loro intellettuali, i nostri scrittori non hanno mai avuto un rapporto con un pubblico, è veramente qualcosa di mostruoso.
è stata la mazzata finale. La letteratura italiana è una letteratura di gialli, è un fenomeno tristissimo e noioso, che è parte della crisi della contemporaneità: un fenomeno che dura da quarant’anni ed è ora al suo apice.
Ammesso che ve ne sia stato uno, qual è stato il risultato finale di questo scontro?
Non ci sono più riviste, oggi i direttori di giornali sono culturalmente più opachi, sanno poco di letteratura, mentre nelle redazioni gli scrittori non ci sono più, sono scomparsi.
Il presente di oggi, cioè le case editrici dove non ci sono più gli scrittori! Anzi, credo ce ne sia ancora uno, ma non cambia la sostanza. Ci sono alcuni bravi redattori ma non ci sono scrittori. I libri non si ricevono soltanto, si suscitano, si cercano, si appoggiano… Bassani scrisse i Finzi Contini perché sollecitato ossessivamente da Marguerite Caetani.
Quando morì Romano Bilenchi l’allora direttore del Corriere della Sera, Giovanni Spadolini, all’alba era a casa sua a rendergli omaggio, era uno che aveva letto tutto di Bilenchi nonostante non l’avesse mai incontrato.
Ora è il momento dei finti scrittori, di un narcisismo inaccettabile. L’autore è uno che si inventa le cose, altrimenti non lo è. Invece le avanguardie hanno prodotto come letteratura l’avvento dei gialli, che
Se oggi nelle case editrici non ci sono più scrittori, è perché li hanno fatti fuori tutti, tutto ciò che propongono gli scrittori viene considerato palloso
Giorgio Bassani e la copertina de "L'airone" edito da Feltrinelli
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e letterario, c’è nei loro confronti una diffidenza bestiale. Il genere, il noir, ha vinto ed è diventato letteratura, ma non lo è… E come in letteratura, anche il cinematografaro medio oggi è un dilettante e uno scopiazzatore. Ecco, è questo il grande risultato prodotto dalla cultura italiana degli ultimi decenni: ora, ovunque e dappertutto, è il momento dei dilettanti. E la vittoria è saldamente nelle loro mani.
"La forza di gravità", opera più recente di Piersanti
BIBLIOGRAFIA DI CLAUDIO PIERSANTI Casa di nessuno, Milano, Feltrinelli, 1981 Gli sguardi cattivi della gente, Milano, Feltrinelli, 1992 Cinghiali, Roma, Castelvecchi, 1994 Luisa e il silenzio, Milano, Feltrinelli, 1997 L'amore degli adulti, Milano, Feltrinelli, 1998 Stigmate, Torino, Einaudi, 1999 (Modena, #logosedizioni, 2018), ill. di Lorenzo Mattotti L'appeso, Milano, Feltrinelli, 2000 Charles, Milano, Feltrinelli, 2000 Comandò il padre, Ancona, Pequod, 2003 Il ritorno a casa di Enrico Metz, Milano, Feltrinelli, 2006 I giorni nudi, Milano, Feltrinelli, 2010 Venezia, il filo dell'acqua, Milano, Feltrinelli, 2012 La forza di gravità, Milano, Feltrinelli, 2018
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ATTUALITÀ
PoPlab, tra pratiche digitali, design, produzione industriale e ricerca. di Fabio Bozzato
Enrico Di Munno e Valentina Temporin
Si dispiega in un open-space di 500 mq, all'ultimo piano del vecchio edificio della Società Italiana per l'Industria dello Zucchero, in Viale Porta Adige, un complesso interamente recuperato, battezzato Cen.Ser. (Centro Servizi di Rovigo) che ospita un hub di ricerca e di incubazione di startup. 23
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osa può spingere ad aprire un'impresa ad alto tasso di innovazione a Rovigo? Nel caso di Enrico Di Munno e di Valentina Temporin un mix fra la curiosità di stare
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in un territorio inquieto, una Confindustria che ne ha fiutato il potenziale e la possibilità di far vivere un-ex zuccherificio di primo Novecento. Fatto sta che il loro PoPlab, attivo a Rovigo nel 2015, è uno degli studi di architettura più interessanti a livello nazionale. Forse la stessa definizione di “studio di architettura” dà poco l'idea. Nato come spin-off dell'Università Iuav, PoPlab è insieme un team di progettazione, un fablab, un luogo di formazione e la sede di un master (la scuola Iuav di Design to production partirà qui a novembre), a cavallo tra pratiche digitali, design, produzione industriale e ricerca. PoPlab si dispiega in un open-space di 500 mq, all'ultimo piano del vecchio edificio della Società Italiana per l'Industria dello Zucchero, in Viale Porta Adige, un complesso interamente recuperato, battezzato Cen.Ser. (Centro Servizi di Rovigo) che ospita un hub di ricerca e di incubazione di startup. «Fin da subito l'idea è stata quella di creare uno spazio di lavoro che avvicinasse l'architettura al know-how delle imprese – raccontano i fondatori − Un luogo dove mettere al lavoro in contemporanea digitale e manifattura». Da qui l'interesse di Confindustria locale. «Si parla sempre di innovazione e spesso in modo retorico. Noi ci chiediamo: come può l'architettura usare al meglio software e nuove tecnologie? Quali possibilità progettuali si
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aprono, lavorando su algoritmi e intelligenza delle macchine?». A PoPlab usano al meglio le potenzialità dell'architettura parametrica, capace cioè di trasformare le idee progettuali in una gamma di soluzioni sempre più precise e innovative, di testare prototipi, forme e materiali. Per farlo, non solo qui è un via vai di ricercatori ed esperti di varie discipline, impegnati nelle università di mezza Europa, «ma soprattutto scommettiamo sulla possibilità di coinvolgere dentro al progetto committenti e imprese e tirar fuori tutto il loro potenziale, fin nei loro processi produttivi se sono manifatture o dentro le dinamiche sociali se è un gruppo di abitanti che vivrà la piazza o l'edificio che stiamo progettando». Questo spiega anche perché il team di architetti abbia puntato a stringere rapporti molto intensi con la dimensione locale. Per festeggiare i tre anni di attività, ad esempio, PoPlab ha rinnovato la sua identità visiva e si è appoggiato allo studio rodigino Ida – Identity Atlas, uno dei migliori studi grafici e di «design della comunicazione». Con la Bellelli, che ha sede a Badia Polesine, la collaborazione è nata a seguito dell'acquisizione della fabbrica da parte dei dipendenti e, alla richiesta di una nuova linea di prodotti, PoPlab ha creato una serie di seggiolini estremamente innovativi che hanno avuto un gran successo commerciale. Ora è in produzione una seconda linea, sem-
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ATTUALITÀ
pre disegnata dagli architetti rodigini. Alla recente Venice Design Week è stata invece presentata la partnership con la Zambon Marmi: per l'impresa diretta da Monia Maniezzi, PoPlab ha creato “Cave”, «un mosaico in marmo composto di tessere algoritmiche, personalizzabile nella forma e nel colore: il progetto – spiegano gli architetti – co-
glie due obiettivi: da una parte permette di ridurre lo spreco di materiale, per effetto degli abituali tagli di lastre di marmo, dall'altra dà vita a mosaici per interni con effetti di disegno sorprendenti». È interessante osservare, peraltro, come questa attività progettuale sia stata accompagnata anche da cicli 26
di formazione (utilizzando al meglio i bandi regionali) per far acquisire alle imprese del territorio una cultura del progetto e spingerle verso una dimensione digitale della manifattura. Allo stesso modo, è qui che si è offerta la possibilità di realizzare prototipi di nuova generazione (grazie a tecnologie di simulazione e stampe 3D), come è avvenuto per le imprese del distretto
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della giostra di Bergantino, un settore che necessita una continua innovazione dei suoi macchinari di divertimento. Un lavoro multiforme, insomma, che punta a «espandere il concetto di architettura e a ritrovarne un senso nel contemporaneo». La sorpresa, per molti, è che tutto questo succeda a Rovigo.
L’idea di Poplab nasce da Enrico Di Munno e Valentina Temporin durante gli anni di insegnamento allo Iuav di Venezia. Scopo prioritario era creare uno spazio di lavoro che avvicinasse progetti di architettura e know-how delle aziende del territorio, dove si potesse lavorare in contemporanea con gli strumenti digitali e quelli della manifattura. Attualmente i soci sono Valentina Temporin, Enrico Di Munno, Nicola Cabria, ai quali si sono uniti Assindustria Servizi Srl – società di servizi di Unindustria Rovigo – e Cube Srl. Le persone che lavorano in PoPlab hanno background molto diversi tra loro. La trasversalità delle competenze e la capacità di operare sia in ambito digitale che costruttivo garantisce ricchezza nell’approccio al progetto e completezza nella gestione del processo di lavoro.
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Il pensiero, l’amore, la fatica e il corpo intervista a
Elisabetta Sgarbi di Danilo Trombin
Ho trovato i volti di molti amici, nei film di Elisabetta Sgarbi. Gente schiva e selvatica, che si annida nelle plaghe più recondite di un territorio che ha il sapore dell’ultima frontiera.
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e luci sono diafane, tagliano sghembe la visuale, circoscrivendo le figure di quel bianco lattiginoso e mai limpido che conosce bene chi qui è di casa. Il tempo non si misura in secondi, minuti, ore, ma in rituali da svolgere quando è il momento, e il momento è elastico, è relativo, eppure incanalato dentro schemi rigidi che non lasciano scampo. È deciso dal sole, dal freddo, dal vento, dalla nebbia, non dalle cifre digitali di uno schermo, nemmeno dai granelli di sabbia di
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una clessidra. La sapienza dell’uomo sta nel cogliere l’impercettibile sfumatura di un niente. Sapere come e quando rendere corpo e materia l’evanescenza del rito. E oggetti sono atti potenziali, sono uno “stare per”, in bilico sul filo di una lama che potrebbe trasformarli in qualcosa di diverso, a seconda della parte verso la quale cadono. Ma rimangono lì, immobili, energia che non si trasforma.
ra. A loro e al loro tempo viene rivolto un tributo d’amore, in questa trilogia. Perché il loro tempo è giunto a un bivio, un bivio che è cesura, dove si vede ancora il passato e si può gettare uno sguardo verso un futuro che inevitabilmente rappresenta uno stacco netto. Non si tratta soltanto di questa specie di saudade che pervade i sentimenti dei selvatici del Delta. Di questo sguardo perennemente perso verso un punto indefinito che sta oltre l’orizzonte. Di questo sorriso ironico che cela e tradisce. Si tratta di un mondo che non potrà mai più essere come prima, e non c’è nulla che si possa fare per evitarlo.
Gabriele sta seduto in silenzio, con la sua faccia da bambino di sessant’anni, il sorriso enigmatico appena accennato, la pelle bionda ustionata da secoli e gli occhi come laghi alpini. Aspetta. Che il caffè salga, che il pesce arrivi al lavoriero, che l’inverno getti finalmente il suo mantello sopra i laghi della valle, tutte cose che forse non si avvereranno mai. È avvolto di quel silenzio cui è avvezzo chi percorre lande di solitudine. Gabriele parla senza dire niente. Nei giorni della convalescenza, quasi per caso, sono inciampato nella trilogia Uomini del Delta, firmata da Elisabetta Sgarbi, dove si parla di Delta, di territorio e delle anime che lo popolano.
Doriano ha una chioma pennata e candida come la neve, che farebbe invidia al più bello degli aironi nella stagione dell’amore. Ha i baffi ingialliti dal fumo, che spiovono sulla bocca e filtrano la voce che è roca e profonda, che il più delle volte viene nascosta nel silenzio. Ma il silenzio di Doriano viene tradito sempre dagli occhi, che sorridono alle altre persone. Il pensiero, l’amore, la fatica e il corpo che diventano unità primaria, inscindibili l’uno dall’altro. Nel fluire delle acque e del tempo. Elisabetta Sgarbi ci porge il suo delicato punto di vista su tutto questo. E per questo dobbiamo ringraziarla. Una donna esile sta seduta di spalle sulla prua della barca da pesca, assieme a una matassa di corde. Il vento le scompiglia i capelli neri nell’aria densa delle ombre sul far della sera. Guarda il Fiume che si apre verso est, dove l’orizzonte scompare e la terra e l’acqua e il cielo convergono, diventando indistinguibili. La donna guarda il Fiume. Il Fiume guarda la donna.
Sono da sempre molto curioso, soprattutto delle voci che parlano del Delta, così, quando calava la sera, inserivo i dischetti nel lettore, per cogliere questo nuovo scorcio visivo su ciò che io chiamo “casa”. È strano capire cosa sia a colpire l’immaginario dei foresti quando visitano il delta: per alcuni sono gli aspetti naturalistici ad avere un maggiore risalto, per altri, invece, le umanità. Nel nostro caso, come si intuisce dal titolo, sono gli uomini del Delta a diventare protagonisti delle storie. Sono uomini in bilico. Fiori di un passato che ha radici lontane, che si schiudono al tepore di un sole che ormai stentano a riconoscere. Traggono linfa da una sapienza antica tramandata oralmente, trasformandola in opera. Il loro lavoro è lo stesso del sacerdote che cura il proprio tempio. L’acqua scorre incessantemente. Precipita e prende forme diverse. Risuona e avvolge di silenzio. È la musica della funzione che si celebra quotidiana. Il rumore dell’acqua si accorda alle note di Battiato come un’unica armonia.
DANILO: Lei vanta un notevole curriculum quanto alla realizzazione di opere cinematografiche, qual è stato il percorso umano e accademico che l’ha portata a dirigere lungometraggi? ELISABETTA SGARBI: Direi che più che di percorso, parlerei di deragliamenti. Sono laureata in farmacia, lavoro da molti anni nella editoria, se sono arrivata al cinema, è stato per una necessità interiore, non certo deducibile dal mio percorso umano. A volte scattano desideri inarginabili.
Ho trovato i volti di molti amici, nei film di Elisabetta Sgarbi. Gente schiva e selvatica, che si annida nelle plaghe più recondite di un territorio che ha il sapore dell’ultima frontie30
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Nelle foto: Alberi in uno scano Doriano nella sua barca Fenicotteri in volo Gabriele Al centro: la copertina del cofanetto di 3 DVD + libro "Uomini del Delta"
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D: Nella trilogia traspaiono un forte legame affettivo e una grande conoscenza del Delta, che spesso non sono qualità comuni nemmeno agli abitanti della zona. Sarei molto curioso di conoscere la manovra di avvicinamento che l’ha portata ad instaurare questo legame, come ha conosciuto questo territorio e come questo le è rimasto, come pare evidente, dentro.
D: Nel libro che accompagna la trilogia, a fare da padre nobile chiama Gianantonio Cibotto, con un’introduzione che si inserisce perfettamente nell’opera, e che in qualche modo sembra anche una dedica al grande scrittore. Dalle sue parole si avverte anche un forte legame affettivo con lo scrittore. Cibotto ha avuto influenza nel suo percorso? Ce ne vorrebbe dipingere un ricordo, magari legato al Delta?
ES: Anzitutto sono cresciuta lungo l’argine del Po, a Ro Ferrarese, con i racconti di mio padre (nato a Badia Polesine), che amava andare a pescare sul Po di Gnocca, a Donzella o Santa Giulia. I suoi racconti si sono poi sovrapposti a quelli del massimo cantore del Delta, Gianantonio Cibotto con cui ho condiviso per anni scorribande e avventure lungo tutto il Delta. Infine, ho iniziato a guardarlo con gli occhi del cinema, non senza pensare a chi mi aveva preceduto: Rossellini, Antonioni, Vancini, Questi.
ES: Gianantonio Cibotto è colui che mi ha avviato all’editoria. Con lui − inviato culturale del Gazzettino − ho girato tutti i teatri del Polesine e di Venezia. È stata una delle persone più importanti della mia vita e uno dei motori della cultura italiana: ha fondato, tra i molti, il Premio Campiello e il Premio Estense. D: I protagonisti dell’opera, che conosco abbastanza bene personalmente, sono tutti personaggi reali che interpretano loro stessi. Ma so anche che sono difficili da “scovare”, proprio perché vivono tra le pieghe più intime e recondite di questa landa. Mi incuriosisce molto sapere come ha fatto a scoprire questi uomini, se ci ha messo molto tempo, e come li ha convinti a partecipare e anche come li ha diretti.
D: Cosa pensa del Delta del Po oggi e che futuro intravvede per questo territorio? ES: Chi vive sull’acqua, sa che l’acqua è più forte della terra ferma, e quindi porta un rispetto sacrale per il fiume e il mare. Certo ci saranno interventi, qualcuno proverà a impossessarsi di quel mondo, ma la paura dell’acqua sarà la misura della vita nel Delta, la sua garanzia di sostanziale immutabilità.
ES: Trovarli non è stato difficile. Difficile è stato entrare nella quotidianità del loro lavoro. Avere la loro fiducia, tanto da rendere invisibile me stessa e la macchina da presa. D: Se Doriano, per esempio, è uno loquace, che porta i turisti a visitare la Sacca di Goro, Gabriele è introvabile, devoto com’è alla sua valle. Questi due, però, e anche gli altri, sono accomunati da tratti umani ben definiti, che pur nelle loro differenze, li rendono identificabili e creano una sorta di stato di appartenenza. Cosa le hanno trasmesso queste persone, perché le ha scelte?
D: Ho colto una notevole sensibilità nel suo tocco, mentre guardavo i film, tanto che ho notato che riesce a cogliere alcuni aspetti che non sono certamente superficiali nel Delta e nell’umanità che lo popola. Che tipo di frequentazione ha con il Grande Fiume e che rapporto conserva? ES: Anzitutto la memoria. Che non è semplicemente un ricordare, ma un costante riaffiorare. Il fiume, il Delta sono dentro di me, e, nonostante viva la mia vita a Milano, li porto con me. Come scrive Rilke nei Quaderni, a proposito della difficoltà di scrivere: non basta ricordare, bisogna anche dimenticare e ricordare ancora. Ecco, qualcosa di simile avviene per il fiume.
ES: La loro appartenenza a un luogo. Il loro lavoro è un atto d’amore per il Delta. D: Nei film, il tempo appare come immoto da millenni, sembra che tutto abbia funzionato nello stesso modo da sempre. Ma si avverte quasi la sensazione di essere giunti ad un “anno zero”, come se da adesso in avanti niente possa essere più come prima, come se le cose dovessero per forza 32
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cambiare. In questo senso sembra di essere alla finestra e di volgere lo sguardo a un passato dove il tempo era indefinito. E in generale che nel Delta il tempo si sia fermato è una delle cose che si dice più spesso. Come percepisce il tempo che corre al cospetto del Delta?
di più in un territorio così piatto e bianco? ES: Il Delta del Po è un paesaggio dell’anima. Guardarlo è come vedersi, si guarda e si è guardati dal Delta.
ES: Su questo punto bisognerebbe essere molto precisi. Il tempo sembra fermarsi, se si percorrono i canali delle grandi sacche, gli scanni, se si sospende − come richiede il luogo − ogni attività e ci si abbandona alla contemplazione pura. Altra cosa direbbero coloro che nel Delta vivono e lavorano: hanno visto e vedono cambiare l’acqua, le temperature, la modalità di pesca. Pensi a Doriano Cazzola, che prima menzionava. Suo padre e suo nonno facevano il suo stesso mestiere, ma lui ha sperimentato una frattura: ha visto crescere una comunità nutrita di pescatori di vongole che hanno cambiato la fisionomia del Delta e hanno determinato un cambiamento antropologico delle comunità. Un esempio, questo, che potrebbe essere ripetuto per la vita in valle: chiediamo a Giorgio Moretti come era la vita in valle quando lui era ragazzo; o chiediamo a Gabriele Levada come è cambiato il suo lavoro e cosa vede nel futuro della sua attività. Gabriele sa che il lavoro nelle nuove forme tenderà a escludere l’uomo ma persevera grazie al suo legame indissolubile con quei luoghi. I miei film sono appunto questo: un atto d’amore mio verso il fiume che si esplica nel fare parlare chi vive più e più approfonditamente di me il Delta.
D: Ha progetti futuri legati ancora al Delta del Po? ES: Parlo del fiume anche non parlandone. È una voce dentro la mia voce.
NOTA BIOGRAFICA
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D: Quale aspetto le è costato più fatica o cosa è stato più difficile da rendere cinematograficamente?
Elisabetta Sgarbi ha fondato e dirige La nave di Teseo editore. Ha ideato, e da 18 anni ne è Direttore artistico, il festival internazionale La Milanesiana. Dal 1999 dirige e produce i suoi lavori cinematografici.
ES: La rappresentazione della vita di questi uomini, voleva essere la più autentica e trasparente possibile. Non volevo sovrappormi. Certamente questo è impossibile (e forse è sbagliato anche volerlo), però questa tensione nei miei film − soprattutto in Per soli uomini − penso si senta.
www.elisabettasgarbi.it www.bettywrong.com
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D: Uno degli aspetti, a mio avviso, più curati dei film è la fotografia. A livello visivo, quali sono gli aspetti che apprezza 33
STORIE
Buon compleanno Magnacharta!
La Sala della Musica gremita per l'incontro con il regista Andrea Segre
di Ilaria Gabrieli e Massimiliano Battiston
L’Associazione Culturale Magnacharta di Porto Tolle ha compiuto 10 anni di attività. Proviamo a ripercorrere nel tempo le tappe più significative che hanno visto questa piccola associazione costantemente impegnata nel condividere con la propria Comunità passioni, stimoli e conoscenze. 35
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utto è iniziato nel 2006 quando, una sera di marzo un gruppo di amici accomunati dalla passione per la lettura, si incontrò per la prima volta attorno al tavolo della cucina di Paola, mossi dallo scopo preciso di conversare di cinema, condividere letture e fantasticare di teatro.
STORIE
Nello stesso periodo alcuni membri del gruppo iniziavano a frequentare il laboratorio di improvvisazione presso il Teatro Nucleo di Pontelagoscuro diretto da Horacio Czertok, regista teatrale argentino e direttore della compagnia, e a seguire i cineforum del venerdì sera presso il TPO di Santa Maria Maddalena dedicati ai film e ai documentari realizzati in Polesine, a cura di Ferdinando De Laurentis. Il primo evento organizzato dall’allora Gruppo Magnacharta, fu nell’estate del 2007 a Porto Tolle, quando Czertok venne invitato per parlare di teatro. Dopo quasi due anni il gruppo maturò la volontà di istituire un’associazione
apolitica senza scopo di lucro e regolata da un proprio statuto, che fosse in grado di organizzare in autonomia incontri, proiezioni ed eventi, avendo come obiettivo quello di promuovere le risorse e i talenti presenti nel territorio. Su questi presupposti, nel febbraio del 2008 nasceva ufficialmente l’Associazione Culturale Magnacharta. Prese avvio nell’autunno dello stesso anno la rassegna cinematografica “Delta d’Autore”, un percorso attraverso la riscoperta di film e documentari girati in Polesine e nel Delta del Po dagli anni ’40 ad oggi. Negli anni la rassegna Delta d’Auto-
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re, sostenuta e patrocinata dal Comune di Porto Tolle, ha proposto film e documentari, ospitato registi, attori, fotografi, sceneggiatori e tecnici del cinema. Il successo della rassegna è stato possibile soprattutto per la qualità dei film proposti, per la presenza dei protagonisti invitati a raccontare il loro approccio con il territorio attraverso la lente del linguaggio filmico, e grazie a un pubblico sempre attento che ha ispirato interessanti riflessioni sul cinema. Nel corso degli anni alcuni temi come: il ruolo del Polesine nella nascita del cinema neorealista, la produzione filmica del primo Antonioni, l’affezione
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di Carlo Mazzacurati per il Delta e le sue atmosfere, sono stati argomenti ricorrenti. Sfogliando le foto dell’archivio di Magnacharta è ancora viva l’emozione al pensiero di quante storie si sono incrociate a quella di una piccola associazione, e del numero impressionante di personaggi che si sono raccontati al pubblico di “Delta d’Autore”. Come Mirna Girardi per esempio, la bambina di Porto Tolle che nel 1957 impersonò un ruolo di primo piano nel film “Il grido” di Antonioni e, che in occasione della proiezione, dilettò la platea raccontando alcuni aneddoti che la riguardarono durante la lavorazione del film.
E, di seguito, le amichevoli conversazioni con i registi bolognesi Michele Mellara e Alessandro Rossi, con i registi Mario Brenta e Andrea Segre, con lo sceneggiatore Marco Pettenello, e con lo scrittore Giancarlo Marinelli, Elisabetta Antonioni, Francesco Liotard, Giacomo Gagliardo, Giovanni Capovilla, Fabio Leli, Michele Angrisani, Nicola Piovesan, Paolo Muran, Michele Vannucci, Paolo Sturla Avogadri. Un ricordo speciale misto a commozione va alla serata che Magnacharta dedicò alla proiezione del film “La giusta distanza”, alla quale partecipò il regista Carlo Mazzacurati in persona.
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Un’altra presenza eccellente fu il regista Giuliano Montaldo accompagnato dalla moglie, che incantò il pubblico con il suo talento di affabulatore in occasione della proiezione del film “L’Agnese va a morire”. Con il passare degli anni l’associazione ha sempre più stretto rapporti di collaborazione con altre realtà associative fuori e dentro i confini comunali, come il Presidio del Libro di Adria, l’Associazione Culturale Città Invisibili, Ca’ Cornera, I Druidi, il Circolo del Cinema di Adria, Terra Crescente, Avis Comunale di Porto Tolle, Luce sul Mare, Polaris, Myamo, Solidarietà Delta.
STORIE
Magnacharta è stata anche fra quelle associazioni che hanno sostenuto il progetto “Un ponte per…” che ha la sua sede presso la Casa delle Associazioni a Porto Tolle, grazie al quale ha stretto, in particolare, rapporti di collaborazione con AMA Polesine e ACAT, associazioni impegnate nel supporto ai gruppi di auto-mutuo-aiuto per famiglie con problemi legati alle dipendenze. Parallelamente al lavoro sulla ricerca cinematografica Magnacharta, negli anni, ha partecipato anche in veste di partner promotore supportando iniziative di altre associazioni presenti sul territorio comunale.
Non ultima la rassegna di teatro amatoriale “Stasera recito io!”, coordinata dalla compagnia “I Sbregamandati” di Polesine Camerini, giunta quest’anno alla decima edizione, diventata ormai un appuntamento attesissimo. Anche la rassegna estiva “Un Po di Stelle”, nata in collaborazione con il Presidio del Libro di Adria e, in seguito, con l’Associazione Terra Crescente, per quattro edizioni ha proposto la formula musica-letture navigando in notturna sul Po a bordo della motonave Venere. Diverse sono state anche le collaborazioni con la Biblioteca Comunale di
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Porto Tolle, come il ciclo di appuntamenti “Libramente. Incontri e racconti per chi ama leggere”, o come “Muri”, o per gli eventi “La Biblioteca incontra i suoi lettori”, o “La Notte Bianca della Biblioteca” dove Magnacharta ha curato momenti di lettura rivolti sia ad un’utenza di adulti, che ad un pubblico infantile. Nel tempo si è inoltre consolidato un rapporto con le insegnanti della Scuola Primaria di Ca’ Tiepolo che, in occasione della Giornata Mondiale del Libro, hanno permesso di realizzare laboratori creativi con gli alunni all’interno delle classi.
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Dal gennaio del 2017 alle attività di Magnacharta si è aggiunto, ispirato dalle molteplici esperienze maturate negli anni da Aurora, Ilaria e Massimiliano, “Lab in Action”, un laboratorio teatrale incentrato sulla spontaneità dell’improvvisazione e dell’espressione corporea, da cui è nato un gruppo di persone affiatate e fortemente motivate a proseguire un percorso che si sta rivelando generoso di soddisfazioni. Oggi, Magnacharta custodisce un bagaglio preziosissimo accumulato da oltre un decennio di esperienze, di incontri stimolanti, di consolidate amicizie e nuove collaborazioni, che
hanno permesso di crescere, acquisire e maturare competenze, rimanendo comunque una realtà in divenire che prosegue il suo cammino di ricerca e sperimentazione. L’Associazione Magnacharta coglie l’occasione per ringraziare sentitamente tutti coloro che in questi anni l’hanno supportata e seguita, in particolare tutti i soci, gli amici e i simpatizzanti, le associazioni con cui ha collaborato, le istituzioni, gli sponsor e, non ultima, la rivista REM di Apogeo Editore.
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Nelle didascalie di pag. 36-37 in alto i registi: Carlo Mazzacurati, Giuliano Montaldo, Mario Brenta, Andrea Segre, Fabio Leli, Paolo Muran, Giancarlo Marinelli, Michele Vannucci. In basso le locandine di "Delta d'Autore" dal 2008 al 2015. Nelle didascalie di pag. 38-39 in alto due aspetti della Sala della Musica e "Lab in Action". Sotto due foto dall'iniziativa "Un Po di stelle", "Lab in Action" e la "Maratona di lettura 2018". Foto di Barbara Munerato, Ilaria Gabrieli, Biblioteca Comunale di Porto Tolle.
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PAROLE
Guido Conti,
il romanzo è ancora necessario di Sandro Marchioro
Vengo da una lunga ricerca, da lettore, di un libro che semplicemente mi coinvolga, mi emozioni, mi stupisca, mi faccia riflettere, mi commuova: tutte queste cose il nuovo romanzo di Guido Conti me le ha fatte provare. 41
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in dai suoi inizi di narratore Guido Conti è fedele a due aspetti: che scriva romanzi o racconti o biografie il lettore viene prima di ogni altra cosa e quindi bisogna divertirlo, coinvolgerlo, stupirlo; secondo aspetto: l’enorme patrimonio culturale, il grande serbatoio di immaginario che è la terra da cui viene e nella quale è cresciuto costituiscono lo scheletro di
PAROLE
tutto ciò che scrive, e questo regala un calore ed una profondità alla pagina che difficilmente si trovano nella narrativa italiana contemporanea.
nitore narrativo e, soprattutto, inserendo dei momenti fantastici, dei “larghi” poetici, nei punti dove erano necessario, senza strafare e senza creare quegli svolazzamenti imbarazzanti che troppo spesso chi abusa del cosiddetto “realismo magico” produce; a tal punto che la stessa definizione di “realismo magico” a me pare poco centrata e preferirei parlare di umore fantastico, di cui alcune pagine di questo romanzo necessariamente, non per piaggeria narrativa, si impregnano. Del resto, chi ha conosciuto almeno in parte
Anche quest’ultimo romanzo, Quando il cielo era il mare e le nuvole balene (Firenze, Giunti, 2018, pp. 318, euro 17,00) conferma la grande capacità dello scrittore parmense di costruire un romanzo carico di tensione, con molti fili che si intrecciano senza mai perdere di vista il necessario 42
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quel mondo e quella realtà sa perfettamente che lì la vita la si vive e la si vede così. La storia ti prende e non ti molla fino alla fine, dentro ci trovi contenuti densissimi, di quelli grandi e belli che ti scuotono e ti fanno pensare, e tutta una gamma di emozioni accompagna la lettura ad ogni pagina e ad ogni snodo della vicenda del piccolo Bruno, che cresce in una cascina del parmense a ridosso del Po con il nonno, la nonna, un amico tempestoso e tutta una serie di personaggi primari e secon-
dari che, tutti, lasciano il segno. La vicenda parte verso la fine degli anni venti e termina dopo l’alluvione del ’51, e in mezzo c’è il fascismo, la tragedia della guerra, le difficoltà della ricostruzione; e soprattutto un intreccio molto denso di eventi che coinvolgono Bruno, la sua famiglia ed alcuni vicini che vivono in cascina. Non vale la pena svelare di più, perché significherebbe togliere il gusto di attraversare questo testo che si fa leggere 43
PAROLE
Alcuni libri di Guido Conti
con assoluta voracità. Conti è tecnicamente perfetto nel distribuire i fatti di questa storia, nel delineare i personaggi, nel costruire le attese e nello sciogliere le vicende; soprattutto è perfetto nel mettere la carne attorno allo scheletro; perché qui si parla di cose grosse: del bene e del male, della vita e della morte, dell’amicizia, del rapporto tra l’uomo e la natura; cose che se non lavori a bulino il testo e se non ci metti dentro un pensiero forte rischi di far venire fuori una delle tante porcate che infestano le librerie oggi. Però Con-
ti ha una mano sicura ed alle spalle non solo una grande esperienza narrativa, ma, soprattutto, una densa riflessione sugli argomenti che sono il perno “ideologico” di questo romanzo. Ci sono alcuni personaggi davvero indimenticabili che girano attorno al protagonista: ed è incredibile come Conti riesca a farceli entrare nella memoria senza quasi neanche dare loro un nome (il nonno viene chiamato per nome una volta solo credo, la nonna lo stesso; il padre di Bruno viene 44
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chiamato solo l’Americano), come se in questo modo fossimo, noi lettori, più concentrati su quello che fanno, su quello che dicono. Il nonno e la nonna sono due figure meravigliose, il padre lo è altrettanto come personaggio: uno dei “maledetti” più riusciti della narrativa italiana degli ultimi decenni. Certo, il nonno spicca perché si pone come guida spirituale di Bruno (sia di Bruno bambino che di Bruno ragazzo), ma in un certo senso perché diventa la guida spirituale di tutti noi lettori, e forse anche il depositario di idee che stanno particolarmente a cuore a Conti uomo, oltre che a Conti scrittore (“Devi saper prendere il male per il verso giusto! È l’unico modo per difendersi da lui”, pag. 35; le lumache sentono l’arrivo della piena perché “Sentono il fiume, […] sono tutt’uno con il fiume. La natura si parla, la natura è un corpo che sente. I pioppi parlano anche con il più piccolo fiore che sta dall’altra parte della riva. Il mondo della natura è come se avesse un’unica anima. Tutto è collegato, tutto si parla”, pag. 111)
ed a provare un senso di impotenza di fronte ad una melma che mortifica la letteratura italiana contemporanea e la grande tradizione su cui poggia, almeno fino agli anni Ottanta. Ma su questa melma Quando era il cielo… galleggia sicuro, illuminando un panorama letterario buio come una notte. Conti è un romanziere istintivo, oltre che dotato, come dicevamo, di grandi abilità tecniche, e questo romanzo è un dispositivo che funziona e che risponde alle esigenze del lettore, anche del più difficile, semplicemente perché è bello, intenso e scritto bene, in un italiano semplice ma denso e nitido; il che lo fa diventare un romanzo necessario, di cui c’era un gran bisogno: uno di quelli che, arrivati alla fine, ti dispiace sia finito: ma all’ultima pagina è chiaro anche che Bruno, il nonno, la nonna, l’Americano e tutti gli altri ti resteranno dentro e sai che da lì non si muoveranno più.
Lo so, posso sembrare pagato dall’ufficio stampa della Giunti, l’editore del romanzo: cosa che proprio non è. Piuttosto, vengo da una lunga astinenza e da una lunga ricerca, da lettore, di un libro che semplicemente mi coinvolga, mi emozioni, mi stupisca, mi faccia riflettere, mi commuova: tutte queste cose il nuovo romanzo di Guido Conti me le ha fatte provare, quando da anni riuscivo solo ad incazzarmi
Guido Conti è nato a Parma nel 1965, dove vive e lavora. Con la raccolta di racconti Il coccodrillo sull’altare (Guanda) ha vinto il premio Chiara nel 1998, e con Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore (Rizzoli) il premio Hemingway nel 2008. È autore de Il grande fiume Po, di cui abbiamo già parlato su Rem. Ha pubblicato numerosi romanzi e saggi, tra i quali Scrivere con i grandi (Bur Rizzoli, 2016). Della favola di Nilou, la cui protagonista è una giovane cicogna, è autore anche delle illustrazioni. Per il "Corriere della Sera" ha ideato e curato la collana "La scuola del racconto" in 12 volumi.
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Civitella Alfedena, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, è il punto di partenza di uno dei sentieri più suggestivi che conduce verso luoghi incontaminati dove la Natura si presenta in tutta la sua maestosa bellezza. Sono luoghi che custodiscono gelosamente la Memoria di Claudio Miccoli, colui che un tempo si è battuto per proteggere le specie di animali più rare, che ha speso la sua breve vita per difendere: ruscelli, faggete, camosci e gracchi, “per realizzare unità con ciò che ci è intorno”. Ma cosa spinge Livio, protagonista del romanzo, a lasciare la sua Napoli per inerpicarsi, ancora una volta, faticosamente lungo il sentiero che conduce al rifugio di Forca Resuni? Chi è quell’uomo che lo attende mimetizzato tra le pietre dei ghiaioni? Quale segreto nasconde? Dopo la pioggia le foglie sono verdi è un inno alla tolleranza, alla nonviolenza e all’accoglienza; è una passeggiata sospesa nel tempo, ricca di emozioni e colpi di scena, una ricerca interiore che solca la via dei ricordi più intimi, per restituirli alla Storia affinché li renda per sempre immortali.
Salvatore D'Antona DOPO LA PIOGGIA LE FOGLIE SONO VERDI Pagine: 168 Prezzo di copertina: euro 15,00 ISBN: 978-88-99479-36-7 Collana: La grande fuga delle trote inglesi, 9
«Hai capito, Diletta, perché sono qui? Perché dove passiamo c’è sempre qualcosa che resta. Un residuo, uno sguardo gettato via, una parola scartata, un pensiero incompiuto, un respiro affannato».
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Nico Dalla Vecchia
Ho fatto scorpacciate di classica, soprattutto Ravel, Rachmaninov e Debussy. Amo i compositori russi e i francesi anche perché lì dentro ho trovato gli elementi che mi piacevano di più della musica per immagini.
La musica che mi gira in testa
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ico Dalla Vecchia mi ha incuriosito dalla prima volta in cui ho avuto il piacere di incontrarlo. Questo compositore adriese classe 1992, schivo ma non timido, quieto ma non taciturno, dà l’impressione di covare perennemente musica nella sua testa, oltre a quella che scrive e suona per sé ed altri. E a 26 anni è già tanta la musica che ha “tirato fuori” e sparso a livello internazionale. Quando e come è nato l’interesse per la musica?
intervista di Alberto Gambato
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Non ho ricevuto input dalla famiglia: mamma è aiuto cuoca, papà lavora
SUONI
nell’ambito dell’hardware dei computer. Invidiavo un po’ quei bimbi che a 6 anni iniziano a suonare spinti dai genitori e questo gap mi è un po’ pesato quando mi sono iscritto al Conservatorio. A 13 anni volevo suonare la chitarra, ero affascinato dal prog, dal pop e dalla psichedelia, soprattutto inglese e ascoltavo colonne sonore. Viviamo ormai da qualche tempo una fase per cui un po’ tutto a livello musicale si può produrre in camera da letto con un laptop, dove gli outboard analogici sono strumenti più indirizzati alla finalizzazione del prodotto musicale. La mia generazione era quella a cavallo tra vecchio mondo e il nuovo, le nuove schede audio e “cose” casalinghe costavano ancora troppo. Non c’erano ancora tutti questi blog, tutorial e la
vendita online non era ancora così diffusa. Quindi uno zio di Torino mi regalò un suo basso + ampli e così iniziai; facevo la prima superiore e suonavo da autodidatta leggendo le tablature. Coi primi software come Guitar Pro potevo scrivere musica su tablatura e sentirla suonare via MIDI. Poi le DAW (Digital Audio Workstation), ancora poco diffuse, ci permettevano ovviamente di registrare del materiale, ma anche di sfruttare diverse sample libraries, che suonavano decisamente meglio. Lì è nato l’interesse per la fase in studio: con un amico ci vedevamo a casa sua e producevamo a vicenda le canzoni. A inizio 2000 non c’era di certo la moda dei sintetizzatori analogici, che risultavano comunque costosi, quelli come me hanno dovuto ovviamente ri48
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piegare sui VST (Virtual Studio Technology). Quando componevo, utilizzavo varie sample libraries che mettevano a disposizione parecchi strumenti dell’orchestra; io non vedevo il mio in primo piano, ma funzionale all’arrangiamento. Mi affascinavano gli strumenti che non sapevo suonare.
ma a scuola non c’era e mi sentivo un po’ limitato. Finite le superiori, il disegno e la musica viaggiavano su binari paralleli e scelsi Nuove Tecnologie per l’Arte all’Accademia di Belle Arti a Venezia. Purtroppo la tecnologia nei corsi era trascurata e così mi ritirai, studiando da autodidatta solfeggio e armonia per entrare al Conservatorio di Rovigo, dove era partito il corso di Musica d’uso che poi sarebbe diventato Musica applicata alle immagini, con l’avvento di Marco Biscarini. Da autodidatta ero convinto che per fare musica bastasse l’orecchio e la scuola mi ha fatto capire che poteva esserci un’alternativa. Studiando composizione, armonia e
C’era solo la musica nella tua vita di adolescente? C’era il disegno, che coltivavo fin da piccolo. Mi iscrissi al Liceo artistico a Rovigo, dove approfondii le tecniche a kina, acquerello, ecoline e tavola grafica. Cercavo la tecnologia,
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SUONI
Come si è formato il tuo stile di composizione?
contrappunto, il mio approccio però mi ha aiutato, insieme al legame che ho stabilito con “maestri” che provenivano dal mondo del lavoro musicale come Biscarini e Stefano Celeghin.
Ho capito che la musica che amavo (Sylvian, Sakamoto, i Massive Attack, ecc.) faceva anche riferimento alla classicità. La musica da film americana ha legami con quella di ‘800 e primo ‘900, così ho fatto scorpacciate di classica, soprattutto Ravel, Rachmaninov e Debussy. Amo i compositori russi e i francesi anche perché lì dentro ho trovato gli elementi che mi piacevano di più della musica per immagini.
La tua prima folgorazione? A 11 anni, con Alien di Scott. Ero piccolo, ma questa cosa rimase anche quando rividi il film al liceo e compresi il linguaggio estetico di H.R. Giger nel film. Mi colpì Blade Runner e anche il cinema di Nolan, che nel 2008 (avevo 16 anni) aveva diretto il secondo dei suoi tre film su Batman.
Biscarini mi prende in giro, dice che è la nebbia a fare la mia musica. Forse c’è un conforto nella malinconia, nei colori dell’ambiente, nella pioggia, nell’ambiente marino, pensando al territorio e alla città dove sono cresciuto, che architettonicamente ha influssi veneziani. Non riguarda solo la musica, ma anche la cucina tradizionale locale di cui sono appassionato; cose che da adolescente rinnegavo, ma adesso sento vicine. Passando molto tempo a Bologna con Biscarini per lavoro, è uscito questo legame con la mia terra.
Come ha “funzionato” lo studio della musica per immagini? Componevamo una partitura sulla scena di un film, prescindendo dalle scelte fatte dal compositore originario. Il bello stava nei film assegnati. Quando si trattava di opere sulle quali Biscarini aveva realizzato la colonna sonora originale, si considerava il film come parametro per le richieste del regista, i tempi di produzione e la qualità dell’opera, che poteva anche essere scarsa. Musicare una scena “brutta” è sempre una sfida.
Il tuo rapporto con Marco Biscarini. Si è fatto da solo e un po’ ti incoraggia a farlo. Segue tutti gli studenti, ma quando vede qualcuno più deciso, cerca di aiutarlo anche oltre il suo percorso di studi. Si è palesata una sensibilità comune artistica e musicale (Zimmer, Horner, Howard, Goldsmith, Sakamoto, Glass, ecc.); lui è orientato sul cinema d’autore, ma cercando la raffinatezza anche per i prodotti più vendibili.
Sono convinto che lo studio della disposizione armonica possa essere il primo passo per costruire un suono, prima ancora di deciderne il timbro e, quando compongo in un certo modo, uso il pianoforte per il semplice fatto che contiene l’estensione di tutta l’orchestra e mi aiuta ad immaginarla.
Facevamo lunghe passeggiate, parlando pure delle mie
Marco Biscarini, insegnante di Nico Dalla Vecchia al Conservatorio "F.Venezze" di Rovigo 50
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angosce di giovane compositore (ride, ndr), una cosa abbastanza rara. Poi ha visto che in me c’era anche voglia di impegnarmi in produzione e mi ha chiesto di affiancarlo nel suo studio a Bologna, una collaborazione che continua. Così ho potuto anche lavorare alla Fonoprint con Malavasi, che è stato arrangiatore e produttore – tra tanti – per Dalla, Carboni e Morandi, al nuovo disco di Bocelli, uscito in ot-
tobre dopo anni di produzione. In tre mesi di lavoro ho dormito quattro ore a notte. In questa fase, scrivere e produrre sono diventate due facce della stessa medaglia.
Nico Dalla Vecchia è nato e risiede ad Adria, è compositore e producer musicale. Nel 2017 lavora con il compositore Marco Biscarini come programmatore e produttore per Cracco Confidential, docufilm prodotto da Discovery Italia su Carlo Cracco. Con Modulab Recording Studio di Bologna ha realizzato lo spot 2017 di Enciclopedia Treccani, diretto da Giorgio Diritti e si è occupato di programming e score editing di Sì, il nuovo album di Andrea Bocelli. Approccia anche il cinema muto, collaborando con la Cineteca Nazionale di Bologna. Nel 2018 produce le musiche per la cerimonia di apertura del Dubai Cycling Tour 2018, con una live performance a Dubai Marina. Si diploma nel 2016 e nel 2018 in Musica Applicata alle Immagini al Conservatorio “F. Venezze” di Rovigo, sotto la guida di Marco Biscarini. “Arte della fuga”, produzione del Conservatorio “F.Venezze” di Rovigo con Nico Dalla Vecchia, basso elettrico, Paolo Falasca, chitarra elettrica, Luca Leprotti, live electronics, Eugenio Mininni, live electronics, foto Charlotte Wuillai
É finalista e vincitore del premio "Ricerca e Contaminazione Musicale" al Premio Nazionale delle Arti 2018. Spazia dalla scrittura e produzione musicale per il cinema e l’audiovisuale alla produzione per la canzone e la discografia.
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Non ci sono alternative morali all’abolizione del carcere perché la crudeltà della condanna al carcere è un fatto innegabile. Un altro fatto innegabile è che non si può trovare la verità sulla prigione nelle relazioni governative e nelle promesse elettorali. La verità sulle prigioni sta nella conoscenza della carcerazione vissuta in tutto il mondo, dall’esperienza della stragrande maggioranza dei più di dieci milioni di carcerati del pianeta, costretti in spazi angusti, con gabinetti sporchi e pasti scadenti, in condizioni che alimentano la cattiveria, le malattie e la paura costante. Di fronte a questa situazione di esperienze di vita vissuta il no verso questo luogo di vendetta e odio è totale, tutto il resto sono solo pubbliche relazioni per un business a danno dei poveri, propaganda, negazione, ingenuità o soltanto finzione.
Livio Ferrari Massimo Pavarini BASTA DOLORE E ODIO NO PRISON Pagine: 356 Prezzo di copertina: euro 15,00 ISBN: 978-88-99479-37-4 Collana: èstra varia
Il libro contiene il manifesto “No Prison” scritto da Livio Ferrari e Massimo Pavarini e capitoli scritti da: Stefano Anastasia, Deborah H. Drake, Johannes Feest, Livio Ferrari, Ricardo Genelhu, Hedda Giertsen, Thomas Mathiesen, Giuseppe Mosconi, Massimo Pavarini, Gwenola Ricordeau, Vincenzo Ruggiero, Simone Santorso, Sebastian Scheerer, David Scott.
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Tullio Serafin, una vita musicale nei teatri di tutto il mondo Per oltre sessant’anni sul podio, fu chiamato a dirigere nei più prestigiosi teatri e si trovò a collaborare con generazioni di registi, cantanti, maestranze e sovrintendenti con i quali cercava sempre un confronto costruttivo, ponendosi come obiettivo primario la buona riuscita delle stagioni liriche a lui affidate. 53
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di Nicla Sguotti
n questo anno, ormai avviatosi sul viale del tramonto, ovunque nel mondo si sono ripercorse le principali tappe dell’intensa vita artistica di Tullio Serafin, insigne musicista del quale si sono da poco celebrati i cinquant’anni dalla morte – 3 febbraio 1968 – ed i 140 dalla nascita, avvenuta a Rottanova di Cavarzere il 1° settembre 1878. Un’esistenza condotta al servizio dell’arte
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musicale quella di Serafin, che riuscì a toccare le più alte vette della direzione musicale e artistica, viaggiando da un continente all’altro e mettendo insieme ovunque significativi successi. Risulta difficile tracciare una sintesi della lunga carriera di questo grande maestro, egli si dedicò a progetti che solo la sua tenacia, unita alla naturale predisposizione per le grandi imprese, gli permise di portare a termine. Per oltre sessant’anni sul podio, fu chiamato a dirigere nei più prestigiosi teatri e si trovò a collaborare con generazioni di registi, cantanti, maestranze e sovrintendenti con i quali cercava sempre un confronto costruttivo, ponendosi come obiettivo primario la buona riuscita delle stagioni liriche a lui affidate. Il debutto, sotto le mentite spoglie di Alfio Sulterni, lo fece a Milano nella “Sala Follia” dirigendo Don Pasquale e L’elisir d’amore di Donizetti. Era il 1898 e di lì a poco il nome di Tullio Serafin sarebbe stato associato a quelli dei più illustri compositori ma anche a eventi che hanno cambiato la storia mondiale del melodramma. L’esordio ufficiale avvenne al Teatro Reinach di Parma con l’Elisir d’amore nel 1902, seguito all’esperienza di maestro sostituto di Toscanini, che Serafin aveva vissuto negli anni precedenti alla Scala. In questo prestigioso teatro il maestro veneto tornerà a partire dal 1910, con il doppio incarico di direttore principale e artistico.
A pag. 53: Nave Argentina, 1949. Da sinistra Mario Filippeschi, Nicola Rossi Lemeni, il comandante, Maria Callas, Donatella Sabetta (nipote del M° Serafin), Tullio Serafin, Mario Del Monaco Qui sopra: Teatro La Fenice, "I puritani", 1949 − Maria Callas e Tullio Serafin 54
La sua terra, all’estremo sud del Veneziano, con la campagna dominata dall’Adige, Serafin non la dimenticò mai. Aveva lasciato Rottanova a undici anni partendo per Milano, dove si diplomò in viola e in composizione, un
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luogo artisticamente stimolante che gli permise di frequentare musicisti, poeti e librettisti. Serafin tornava spesso nella terra natia dov’erano rimasti, insieme alla famiglia, gli amici d’infanzia. Non era raro trovare qualcuno di essi alle serate di gala che il maestro dirigeva nei teatri veneti o all’Arena di Verona, da lui tenuta musicalmente a battesimo nel 1913 per la storica Aida. Pur essendo un cittadino del mondo, abituato a spostarsi da un continente all’altro, Serafin tornava sempre con piacere in Veneto per dirigere. Visse la prima esperienza da direttore nella sua regione al Teatro “La Fenice”, tra la fine del 1906 e l’inizio dell’anno successivo, con La damnation de Faust di Berlioz, Adriana Lecouvreur di Cilea, la prima esecuzione assoluta di Il pane altrui di Orefice, Carmen di Bizet e Jana di Virgilio. Trascorse poi qualche decennio – diviso tra Sudamerica, Stati Uniti e Italia – prima di tornare alla Fenice, che lo riaccolse nel ’30 per un concerto sinfonico con musiche di Milhaud, Tansman, Alfano, Lualdi e Hindemith. Il pubblico veneziano dovette aspettare poi fino al Secondo dopoguerra per rivedere Serafin alla Fenice, fu un’attesa ripagata con esecuzioni passate alla storia, che videro il consolidarsi della fama di un’interprete da lui condotta per mano al successo: Maria Callas. Proprio alla Fenice, con la direzione di Serafin, si concretizzò una delle principali tappe dell’ascesa del mito Callas quando, nel gennaio del ’49, il soprano greco fu, ad una decina di giorni di distanza, protagonista della Walchiria di Wagner e poi dei Puritani di Bellini, incarnando così la rivoluzionaria figura del “soprano drammatico di agilità”.
Teatro Metropolitan, "La Campana Sommersa", 1928 Tullio Serafin con Ottorino Respighi
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Giuseppe Di Stefano, Maria Callas, Rolando Panerai, Tito Gobbi, Nicola Monti, Tullio Serafin − incisione de "I Pagliacci", 1954
Anche negli anni Cinquanta Serafin regalò eventi memorabili al pubblico della Fenice, tra essi la prima esecuzione di Vergilii Aeneis di Gian Francesco Malipiero, autore che più volte gli affidò le première di sue opere. Tra le città venete, Vicenza fu quella in cui Serafin lavorò meno, solo un’unica volta si trovò a dirigervi: nel 1909 al Teatro “Eretenio” per La walkiria di Wagner. Simil cosa si può affermare per Padova, dove il maestro fu nel ‘22 per sette recite di Mefistofele di Boito al Teatro “Verdi”. Al Comunale di Treviso andò in due occasioni, a cinquant’anni di distanza l’una dall’altra, per dirigervi due produzioni pucciniane: nel 1911 La fanciulla del West e nel ‘61 Turandot. Più significativa appare senza dubbio la collaborazione di Serafin con i teatri
del Polesine. Le direzioni al Teatro Sociale di Rovigo si concentrano tutte nei primi anni della carriera del maestro: la prima nel 1910 per Mefistofele di Boito, poi nel ’12 per La fanciulla del West di Puccini e Il segreto di Susanna di Wolf Ferrari e, infine, La Gioconda di Ponchielli nel ’14, produzione che vide il debutto sul palcoscenico di un giovanissimo Beniamino Gigli. Anche il Teatro Comunale di Adria è legato alla figura di Tullio Serafin, presente nel ‘35 per la sua inaugurazione con Mefistofele di Boito. Al Teatro Filarmonico di Verona il maestro di Rottanova diresse una sola volta: nel 1919 per Francesca da Rimini di Zandonai, produzione in cui la moglie Elena Rakowska era protagonista. Ben maggiore approfondimento 56
meriterebbe il felice connubio tra Serafin e l’Arena di Verona ma per una più dettagliata analisi rimandiamo al saggio Tullio Serafin e la prima Aida in Arena di Nicola Guerini, contenuto nella seconda edizione di Tullio Serafin, il custode del bel canto (Armelin Musica Padova, 2018). Tullio Serafin seppe far tesoro delle sue origini, giunto alle più alte vette artistiche e ottenuto l’unanime riconoscimento del gran mondo, riuscì a non farsi corrompere dalle lusinghe della fama, mantenendo chiaro il proprio punto focale, che poggiava sulle solide basi dell’umiltà e dell’autenticità nei rapporti umani. A conclusione del cammino della sua vita, egli volle che l’ultima tappa del suo peregrinare per il mondo si con-
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cludesse proprio laddove tutto era iniziato: si spense a Roma ai primi di febbraio del ‘68, dopo aver lasciato come ultima volontà quella di tornare nel suo Veneto, nella sua Rottanova, e così avvenne.
Adria, 1935 - Locandina dell'inaugurazione del Teatro Comunale del Littorio con il "Mefistofele" di Boito diretto da Tullio Serafin
Teatro dell'Opera di Roma, incisione di "Otello" di Giuseppe Verdi, 1960 Tullio Serafin e Richard Mohr della casa discografica RCA
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Nicla Sguotti
Tullio Serafin il custode del bel canto
Prefazione di Giovanni Gavazzeni Con scritti inediti di Maria Callas, Gabriele D’Annunzio, Richard Strauss e Pietro Mascagni
La copertina della seconda edizione del libro di Nicla Sguotti Tullio Serafin, il custode del bel canto (Armelin Musica Padova, 2018) Tutte le immagini in questo articolo sono pubblicate per gentile concessione del Circolo Tullio Serafin
Armelin Musica - Padova
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PERSONAGGI
Bruno Munari in uno dei suoi laboratori dedicati ai bambini
“Bruno da Badia” il progetto per Bruno Munari di Sara Milan
Quello che molti generalmente non sanno è che Bruno Munari ha trascorso l'intera infanzia a Badia Polesine e che questo periodo ha considerevolmente influenzato la sua creatività e il suo genio.
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runo Munari è stato un genio dell'arte, del design e della grafica del XX secolo. Conosciuto in tutto il mondo, le sue opere sono esposte anche al MoMA e al Metropolitan Museum di New York, è considerato una figura leonardesca del Novecento proprio per essere stato in grado di declinare le sue ricerche sul movimento delle forme e la luce, in diversi
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Con i genitori
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settori: dalla pittura al disegno industriale, dalla didattica alla poesia. I più lo conoscono per il Metodo Bruno Munari: metodologia didattica brevettata per lo sviluppo del pensiero creativo dei bambini, attraverso il gioco e il “fare per capire”; ma anche per le sue creazioni eclettiche, che hanno riscosso un enorme successo fin dagli esordi con le Macchine inutili degli anni '30, antesignane dell'Arte Cinetica.
vita rurale e a Badia Polesine. La più preziosa, che a mio avviso fa emergere sia il sentimento di attaccamento per la terra natale, sia le tematiche della sua ricerca artistica, è tratta da “Le macchine della mia infanzia” (1924): “E la nostra Macchina era là, galleggiante sull'acqua … : un vecchio mulino di legno che sembrava costruito da Robinson Crusoe. … La Grande Ruota era uno spettacolo continuamente variato: con una calcolata lentezza estraeva dal fiume meravigliose alghe ed erbe acquatiche verdi come di vetro morbido, le faceva brillare al sole, le alzava fin che poteva e poi le abbassava lentamente, immergendole di nuovo in uno scintillio di gocce con rumore di pioggia rada e continua che faceva come da fondo agli altri rumori del mulino. Ogni tanto si sentiva odore di farina e di alghe, di acqua e di terra, di legno secco e di muschio. … E mentre i miei amici correvano in tutti gli angoli praticabili del mulino, cercavano di scassinare la porta della capanna, tiravano sassi agli uccelli acquatici; io ero là, vicino alla Grande Ruota con l'ac-
Quello che molti generalmente non sanno è che Bruno Munari ha trascorso l'intera infanzia a Badia Polesine e che questo periodo ha considerevolmente influenzato la sua creatività e il suo genio. La dottoressa Elisa Poli ha dimostrato questo stretto rapporto tra l'artista e il Polesine, nella sua tesi di laurea in Design presso il Politecnico di Milano, intitolata appunto “Bruno da Badia”. Già dal primo capitolo, infatti, si raccolgono i disegni, le citazioni e gli estratti dei testi dove Munari fa riferimento alla 59
PERSONAGGI
Elaborazione grafica su un ritratto di Bruno Munari (in www.dar.unibo.it)
qua del fiume che passava continuamente sotto le assi sulle quali ero appoggiato, come sospeso per aria, ad ammirare lo spettacolo continuo dei colori e della luce, dei movimenti della Grande Ruota”.
non appartengono, quindi, all'opera munariana. L'ironia: come nella Sedia per visite brevissime (1945), dove il sedile è così inclinato da non poter far sedere comodamente l'ospite. Le sue creazioni fanno sorridere e allo stesso tempo riflettere. Il limite: da valicare, per scoprire e conoscere; sia quello fisico, sia quello delle convenzioni sociali e delle consuetudini linguistiche. La semplicità: quella apparente delle cose davvero intelligenti. Declinata anche in umiltà: quella ereditata dal padre Enrico, proprietario dell'albergo Sant'Antonio a Badia, e quella propria dell'artista che cerca di rispondere alle esigenze della società in cui vive. Il rigore del metodo creativo di chi ha fatto dell'arte un mezzo e non uno scopo. Su questo punto è bene sottolineare
Al fine di comprendere appieno l'opera munariana, la dottoressa Poli ne descrive le sei “costanti rappresentative”, che caratterizzano anche progetti molto diversi tra loro. La leggerezza: intesa fisicamente, come nelle Macchine inutili, dove cartoncini colorati, appesi con fili di seta, ruotano lentamente nell'aria; ma anche in senso lato come spensieratezza nell'approccio educativo. L'essenzialità. Per Munari, infatti, il lusso è sinonimo di stupidità, di superflua decorazione, di arrogante ostentazione. Materiali inutilmente costosi e decorazioni accessorie 60
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Al Mulino San Varese nel parco del Ticino
che, per Munari, la regola era il punto di partenza da verificare, da mettere in discussione; come per Cartesio, che come primo punto del suo metodo scrive: “non accogliere mai nulla come vero; evitare la precipitazione e la prevenzione”. A sua volta, in Verbale scritto, Munari scrive: “La regola dà sicurezza,/ la geometria ci aiuta a conoscere le strutture/ o a costruire un mondo nel quale/ ci possiamo muovere senza paure. … La regola da sola è monotona/ il caso da solo rende inquieti./ … / La combinazione tra regola e caso è la vita, è l'arte/ è fantasia, è equilibrio”. Ed infine, lo spirito fanciullesco, perché “conservare lo spirito dell'infanzia/ dentro di sé per tutta la vita/ vuol dire conservare/ la curiosità di conoscere/ il piacere di capire/ la voglia di comunicare” (da Codice Ovvio).
La tesi espone poi, in dettaglio, due progetti, molto interessanti, “Linguaggi in festa” e “Come Munari”, per la valorizzazione del parco pubblico Bruno Munari di Badia Polesine. Le proposte sono strutturate con un approccio spensierato, giocoso e ironico. Al pubblico è chiesto di rivivere attivamente i ricordi dell'artista e sperimentare, come aveva fatto lui durante l'infanzia, la natura: come la versatilità del bambù, la ritmicità del gocciolio dell'acqua o l'eterogeneità dei sassi. Alla base della progettazione c'è la massima munariana: "chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara." Il pubblico potrebbe, quindi, vivere attivamente l'esperienza creativa dell'artista, così da coglierne l'essenza e il significato profondo. I due progetti si differenziano: mentre il primo nasce come evento, cioè laboratori temporanei, da ripetersi annualmente, sempre diversi nei contenuti; il 61
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Bruno Munari, "Macchina-Inutile. 1956" − Photo credit Pierangelo Parimbelli
secondo è invece un monumento esperienziale, che vede l'istallazione di vere e proprie “isole sensoriali” all'interno del parco, che possano diventare “elementi di memoria” permanenti e concreti.
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Per ripercorrere i settant'anni di produzione artistica di Bruno Munari non basterebbe l'intera rivista, pertanto, per un soddisfacente approfondimento, si rimanda ai seguenti riferimenti bibliografici e sitografici:
A vent'anni dalla scomparsa di Bruno Munari, che si spegne nel 1998 a Milano, non si vuole solo ricordarne il genio, ma anche dare uno sguardo alle potenzialità del Polesine. “Bruno da Badia”, di Elisa Poli, ci insegna infatti a rivalutare la quotidianità che a volte ci appare banale e monotona, e a riscoprirla piena di dettagli e curiose singolarità.
• E.Poli, “Bruno da Badia. Progetto di costruzione di memoria per il parco di Badia Polesine a partire dai ricordi d'infanzia di Bruno Munari”, tesi di laurea in Design del Prodotto per l'innovazione, A.A. 2012-2013, Politecnico di Milano, Facoltà del Design • B. Munari, “Da cosa nasce cosa”, Edizioni Laterza • B. Munari, “Arte come mestiere”, Universale Laterza • “Bruno Munari”, Edizioni Electa
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Maurizio Finotto con Enzo Cucchi
Maurizio Finotto l'arte mi ha salvato la vita intervista di Gian Luca Beccari
“Ho puntato tutto ed ho agito con la mia parte inconscia, con l'istinto; nella vita c'è anche qualche cosa di inevitabile dove non puoi fare nient'altro che quello”
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aurizio Finotto è nato a Cavarzere nel 1968, da quindici anni insegna “Linguaggio e tecniche dell’audiovisivo” all'Accademia di Belle Arti di Bologna, dove ha studiato pittura. Possiamo definirlo, senza timore di essere smentiti, un artista affermato nel panorama nazionale, il suo lavoro è conosciuto da galleristi, critici d'arte e direttori di musei. Non lo vedrete
mai con addosso un altro colore che non sia il nero, nemmeno in spiaggia. La prima volta che ci siamo incontrati è stato verso la fine degli anni Novanta, mi trovavo a Bologna ed uscivo da un palazzo del centro in via Righi, mentre lui stava entrando con un passeggino. Lo riconobbi subito e mentre attraversavo l'uscio mormorai perentorio: “Gunther...”, lui si voltò di 63
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Maurizio Finotto con Luigi Ontani "Manutenzione dei Sogni" (Omaggio a Fellini) Cucchi a "passo uno" e il set di "Disincantoiconico"
scatto e con il volto sorpreso mi chiese: “Chi sei...?”. Lo fissai per un solo istante e risposi: “Argilla”, poi il portone del vecchio palazzo si chiuse pesante e pose fine all'incontro. In quel periodo Finotto stava lavorando ad un personaggio inesistente chiamato Gunther Solo, era il racconto delle gesta straordinarie e dei successi di un giovane artista, narrato attraverso falsi articoli di giornale e fotografie. Tutto questo mentre io ero alle prese con un progetto a cui avevo dato il titolo Argilla, raccontava di un personaggio che poteva essere interpretato da chiunque, come un mito classico, diffondevo video delle sue apparizioni nei luoghi più improbabili, ed organizzavo dei proto-flash mob. Erano gli anni di Luther Blissett e delle identità multiple, il momento storico in cui, oltre all'opera, si stava perdendo anche l'artista come figura romantica, puff... dissolto fra i flutti della comunicazione di massa. Bologna era effervescente.
Come prima cosa gli chiedo quali sono i tre lavori che più rappresentano il suo percorso professionale, capisco che non vuol rispondere ma solo per non far torto a nessuno, dice che in fondo quello che più ama del suo lavoro è conoscere le persone e condividere con loro dei momenti intimi, personali. Abbiamo lavorato insieme in passato, lo conosco abbastanza bene e lo incalzo per farlo sbilanciare, infatti mi parla dello spettacolo multimediale Manutenzione dei Sogni (Omaggio a Fellini) che ha realizzato con Ermanno Cavazzoni, di Enzo Cucchi e del video che hanno realizzato a passo uno, infine di Disincantoiconico, un lavoro che ha visto coinvolto Luigi Ontani. Tutte opere a cui hanno partecipato attivamente anche i suoi studenti dell'Accademia, ho ragione di credere sia stata per tutti loro una importante esperienza di vita. 64
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Anche io sono d'accordo sul fatto che il dialogo ed il confronto sono occasione di crescita continua, e mentre parliamo Maurizio si sofferma molto su quanto sia importante frequentarsi, andare in giro in macchina, andare al bar, stare insieme, condividere. Il rapporto personale genera una sinergia a cui tengo molto − mi dice mentre per l'ennesima volta si aggiusta i lunghi capelli ormai canuti − mi aiuta nella vita di tutti i giorni. Io il progetto Gunther Solo lo trovo geniale, ovviamente, come l'ermeneutica impone, va letto nel contesto storico della fine del millennio, non è un esercizio semplice ma che vi invito a fare. Gli chiedo della genesi dell'opera, Maurizio racconta che attorno al 1997, dopo aver fatto già diverse mostre di quadri, inizia a collaborare con una agenzia di comunicazione, lo studio Ago: “Il mondo dell'arte mi sembrava stretto e pensai ad un progetto trasversale, con cui poter comunicare a più persone. In quel periodo c'era nell'aria a Bologna quell'idea di creare un cortocircuito nella comunicazione, che potesse andare oltre il mondo delle gallerie. Gunther Solo nasce in un momento in cui quello che era sui giornali era sicuramente vero, nessuno sapeva cosa fossero le fake news e nessuno controllava. Si tratta in fondo di un classico mocumentary (falso documentario nda), all'epoca quasi non esisteva come forma di espressione artistica, ma Achille Bonito Oliva ne comprese il valore e presentò l'autore come l'erede di Andy Warhol”. Il concetto del verosimile lo ha poi ripreso quando ha scritto La Fondazione, una serie televisiva in onda su Tele+ basata sulla critica paranoica del cinema che, gli fece notare Marco Senaldi, ricordava il metodo di Salvador Dalì. Maurizio è artista, regista, autore, il suo è un lavoro trasversale. Anche io ne so qualche cosa della multidisciplinarietà e gli chiedo quale sia secondo lui, oggi, lo spazio per gli artisti: la comunicazione di massa oppure la galleria d'arte? “Credo che l'artista abbia a disposizione tanti linguaggi per esprimersi. Ci sono opere che hanno una vita nella comunicazione ma poi dialogano con diversi mezzi, lo stesso lavoro può essere proposto in più spazi come in televisione, al cinema o in una galleria”. Una risposta forse un poco dorotea, ma anch'io sono d'accordo. "Gunther Solo", foto di Armin Linke
Vita, Morte e Miracoli è il titolo della sua ultima fatica, una installazione presentata nel 2017 al Mambo, il museo 65
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di arte moderna di Bologna. Maurizio è molto legato alla narrazione, racconta le sue storie, questa è un'opera complessa, fatta di piccoli disegni ed oggetti, dei veri e propri ex voto che ricordano varie tappe della sua vita, oltre ad un documentario dove la madre e la nonna raccontano di lui. Un lavoro autobiografico ma anche archetipo, che parla di tutti, dove dentro trovi, fra le altre cose, la tragedia del figlio che parte. Sono citati personaggi celebri di Cavarzere come il direttore d'orchestra Tullio Serafin e il pilota di rally Sandro Munari, che nell'immaginario collettivo paesano rappresentano coloro che sono andati via e hanno avuto successo. "Vita, Morte e Miracoli, in qualche modo, è un ringraziamento per essere riuscito a seguire il mio istinto, perché questo mi ha salvato la vita”, confessa l'autore. Cavarzere è un paese di provincia e dalle sue parole si evince chiaramente che Maurizio è legato a doppio filo a
quella terra greve, da una parte la soffre dall'altra la ama. Spleen interiore sprigionato dalle umide serate invernali polesane, ma anche affetto per il luogo che lo ha cullato, dove ritorna sempre per poi fuggire fra le accoglienti braccia dei portici bolognesi. “Ci tengo a mantenere un rapporto con la mia terra, la buona volontà in questo senso c'è sempre, anche se spesso mi sento fuori posto, ho bisogno di molti stimoli per continuare a sentirmi libero. Per me l'arte e la cultura sono importanti per sopravvivere, l'arte mi ha salvato la vita, salva la vita a chi la fa e a chi la fruisce. Quando cerchi di definire un confine per l'arte ti accorgi che è indefinibile, per quanto venga considerata un inutile surplus rispetto alla scienza o alla medicina, in realtà è sopra a tutte, all'apice della piramide. L'arte è un grande bacino di creatività e filosofia dove tutti attingono gratuitamente”.
"Vita, Morte e Miracoli"
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Ex voto: "Non dipingere più" e "Grazie di tutto"
Chiudiamo l'intervista scambiandoci le memorie di quando eravamo adolescenti nei rispettivi paesi nel Delta del Po, quei nebbiosi giorni alla ricerca di un significato, di una vita oltre l'orizzonte visivo. Con affetto ricordiamo un amico comune che ci ha lasciati troppo presto, una persona che ha segnato una svolta fondamentale nella sua vita. Maurizio faceva l'odontotecnico e non aveva mai pensato che l'arte potesse diventare il suo lavoro, poi incontrò un ragazzo di Adria di nome Elia (Alessandro Greggio). Iniziarono a frequentarsi regolarmente, un giorno il ragazzo con i capelli biondi si aggancia ai suoi occhi, lo immagino con il capo leggermente chino mentre gli chiede: “Perché non ti iscrivi all'Accademia di Belle Arti?”. Da quel momento la sua vita non è stata più la stessa, in quel preciso istante si rese conto che non stava facendo quello che voleva, che non era felice, che quella non era la sua vita. “Ho puntato tutto ed ho agito con la mia parte inconscia, con l'istinto; nella vita c'è anche qualche cosa di inevitabile dove non puoi fare nient'altro che quello”. Signore e signori, passare attraverso a quel misto di incoscienza e spirito di sopravvivenza è per tutti, ma non è da tutti.
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STORIE
Voci per la Libertà ...da vent'anni a fianco della
DUDU
di Michele Lionello
Un nuovo progetto per la promozione dei diritti umani di "Arte per la Libertà", nato da "Voci per la Libertà" e "DeltArte". Il libro "In arte DUDU" esce a settant'anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, un documento firmato a Parigi il 10 dicembre 1948, la cui redazione fu promossa dalle Nazioni Unite perché avesse applicazione in tutti gli Stati membri.
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el 1998, in occasione del 50° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, nasce il festival “Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty”,
con lo scopo di diffondere e promuovere il rispetto dei diritti umani attraverso la musica. Per noi dell’associazione culturale “Voci per la libertà” la Dichiarazione è una sorta di Costituzione, è il documen68
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Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
to che ci ispira e dal quale traiamo l’ispirazione per tutte le nostre iniziative, che a partire dalla musica si sono via via allargate a tutte le forme d’arte, quali il cinema, il teatro, l’arte
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contemporanea, la fotografia e molto altro. Contemporaneamente, in una sorta di ideale dualismo, consideriamo la Dichiarazione una nostra amica e affettuosamente la chiamiamo DUDU, quasi fosse una compagna di vita a cui abbiamo assegnato questo soprannome, proprio come si fa con gli amici veri, quelli con cui abbiamo un rapporto di amicizia e di stima profonda e che sappiamo non ci deluderanno mai. In questi due decenni abbiamo impegnato tutte le nostre energie per promuovere i diritti umani attraverso la musica e tutta l’arte a 360°. Al tradizionale concorso musicale “Voci per la libertà – Una Canzone per Amnesty” si è affiancato il festival di arte contemporanea “Deltarte – il delta della creatività”. Più recentemente è nato “Arte per la libertà”, evento unico nel panorama italiano, il festival della creatività per i diritti umani, un “superfestival” che si svolge in territorio polesano (ma non solo) con appuntamenti nel corso dell’intero anno e che coniuga mirabilmente tutte le forme di espressione che conosciamo. Tra le tante produzioni di questi anni, vogliamo ricordare le opere di arte contempora69
nea realizzate grazie a DeltArte, la produzione del film “Presi a caso” sull’eccidio di Villadose e Ceregnano dell’aprile 1945, l’organizzazione del Premio Amnesty Italia dedicato agli emergenti e ai big della musica italiana, la realizzazione di “Inalie-
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1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. 2) Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
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STORIE
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.
do migliaia di studenti ogni anno. E il soprannome che ci siamo inventati, amichevole e immediato, ci è spesso servito per avvicinare chi potrebbe rimanere intimorito o, peggio, annoiarsi, alla sola proposta di parlare della Dichiarazione universale dei diritti umani.
nabile”, il progetto multimediale di musica e diritti umani e infine la pubblicazione del libro sui vent’anni di festival.
Da questo acronimo viene anche il titolo della pubblicazione – “In arte DUDU” −, un modo nuovo di riscoprire i nostri diritti fondamentali così come sono stati dichiarati dalle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948.
Uno speciale riguardo, in tutte queste iniziative, lo merita l’attività che realizziamo nelle scuole, incontran-
Il libro nasce anche per “guardarli” da un altro punto di vista, quello di giovani artisti italiani che la illustrano con uno sguardo contemporaneo: ci si accorge che dopo settant’anni la Dichiarazione non ha perso nulla della sua importanza, attualità, forza e idealità. In questo insieme di espressione artistica e dichiarazioni di intenti, la prima si fa strumento per le altre affinché non rimangano solo parole ma diventino anche azioni. In questa contemporaneità, dove sembrano definitivamente perduti alcuni fondamentali punti di riferimento, sfogliare queste pagine può diventare un aiuto per riconoscere fari luminosi in un mare di indifferenza. Anche per questa nostra più 70
recente iniziativa non poteva mancare l’apporto, fondamentale e decisivo, della sezione italiana di Amnesty International, nostra partner da quando siamo nati e con cui condividiamo le campagne e le iniziative più significative.
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Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.
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gli artisti che, rispondendo al nostro appello, come tantissime altre volte è successo in tutti questi anni, ci hanno donato i loro lavori, dimostrando ancora una volta come il legame tra arte e diritti umani sia profondo. Gli artisti posseggono una sensibilità particolare nei confronti dei diritti e delle libertà delle persone e quando vengono chiamati in causa per azioni cosi significative non deludono mai. Da parte nostra questo libro vuole rappresentare un piccolo contributo per la fondamentale battaglia per i diritti universali, che come tali appartengono a tutti, nessuno escluso. Nel libro, oltre agli interventi di Michele Lionello e Melania Ruggini, troverete quelli del portavoce di Amnesty Riccardo Noury e del presidente Antonio Marchesi. Un ringraziamento speciale va a tutti
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Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crudeli, inumane o degradanti.
Così facendo, aggiungiamo la nostra voce a quella di molti illustri predecessori, tra i quali ci piace ricordare, per affinità, proprio Amnesty Italia che alcuni fa ha prodotto la meravigliosa mostra “Armati di matita”, che annoverava le tavole dei migliori disegnatori italiani. È quindi con orgoglio e con tanta emozione che vi presentiamo il nostro libro “In arte DUDU”. Portatelo con voi, guardatelo, leggetelo, scarabocchiatelo, copiatene i disegni, regalatelo a chi vi sta a cuore, perché questi disegni parlano di noi, della nostra vita, dei nostri sogni e delle nostre paure, 71
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Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.
di quello che siamo e di quello che vorremmo essere, parlano di esseri umani che, come recita il primo articolo della DUDU, “nascono liberi e uguali in dignità e diritti”. Non dimentichiamolo mai.
STORIE
prevenire violazioni dei diritti umani e tutelare l’integrità fisica e mentale, la libertà di coscienza e di espressione e la dignità di ogni essere umano. Amnesty International è un’organizzazione non governativa, indipendente e autofinanziata, fondata nel 1961 per proteggere e promuovere i diritti proclamati, nel 1948, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Premio Nobel per la pace 1977, conta oltre sette milioni di soci e sostenitori in quasi tutti i Paesi del mondo. In Italia è stata fondata nel 1975 e ha oltre 77.000 soci.
Per promuovere concretamente i diritti umani, organizza attività educative, campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di pressione sui governi e sulle organizzazioni internazionali. Amnesty International vive grazie al sostegno economico dei propri sostenitori. Per rimanere indipendente e imparziale, infatti, non accetta fondi dai governi per le campagne e le attività di ricerca.
Nei riquadri azzurri i primi sei articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Alcune delle illustrazioni che compaiono nel libro "In arte DUDU": a pag. 68 in alto a sinistra ALESSIO-B, in basso a destra ANITA BARGHIGIANI. A pag. 69 in alto a destra CENTOCANESIO, in basso a sinistra ELIANA ALBERTINI. A pag. 70 in alto a destra FEDERICA CARIOLI, in basso a sinistra ZENTEQUERENTE. A pag. 71 in alto a sinistra ALESSANDRA CARLONI, in basso a destra MARCO MEI.
Amnesty International svolge costantemente ricerche e azioni per
IN ARTE DUDU La Dichiarazione universale dei diritti umani illustrata da giovani artisti italiani Un progetto dell’Associazione “Voci per la Libertà” a cura di Melania Ruggini e Michele Lionello − Peruzzo Editoriale Progetto grafico Andrea “Artax” Artosi Testi di: Riccardo Noury, Michele Lionello, Melania Ruggini, Antonio Marchesi I 30 articoli sono illustrati da: 1 ALESSIO-B, 2 ALESSIO BOLOGNESI, 3 TONY GALLO, 4 PSYCO, 5 MARCO MEI, 6 FEDERICA CARIOLI, 7 GIUSY GUERRIERO, 8 ALESSANDRA CARLONI, 9 BROME, 10 ZENTEQUERENTE, 11 ARTAX, 12 ELIANA ALBERTINI, 13 MARCO MEI, 14 PHOBOS, 15 ANITA BARGHIGIANI, 16 ZENTEQUERENTE, 17 CENTOCANESIO, 18 RICCARDO BUONAFEDE, 19 FEDERICA MANFREDI, 20 STEFANO REOLON, 21 CRISTINA CHIAPPINELLI, 22 FLAVIA FANARA, 23 GIULIA QUAGLI, 24 ALBERTO CRISTINI, 25 VIOLETTA CARPINO, 26 ALESSANDRA CARLONI, 27 HERSCHEL & SVARION, 28 IVANO PETRUCCI, 29 CAMILLA GAROFANO, 30 MIRIAM SERAFIN
Realizzato all’interno del progetto ARTE PER LA LIBERTÀ con il sostegno del MiBAC e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura” 72
REM STORIE
Un nastro adesivo... da Oscar Riflessioni sulla storia di Leo Cat(t)ozzo La caricatura di Leo Catozzo realizzata da Federico Fellini
di Michele e Marco Barbujani
Ci ha colpito il fatto che Catozzo abbia lasciato la terra di origine, e l’abbiamo trovato di grande attualità. Ci siamo chiesti, ad esempio, se egli sia stato un “cervello in fuga”, se lo siano tutti i giovani che vanno via da qui o se ci sia anche altro dietro una partenza. Cos’è stato Leo?
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ilano, università IULM, dicembre dell’anno scorso. A lezione di Montaggio video il professore non ricorda la provenienza dell’inventore della “giuntatrice Catozzo” e, solo dopo una ricerca in rete, scopre che si tratta di Adria. Come molti altri centri del Polesine, anche la città etrusca è ricca di storie e personaggi celebri, chi più chi meno ricordato. Sebbene le notizie dei polesani famosi (e dei personaggi famosi giunti in Polesine) qui si tramandino più spesso a voce come delle fòle, alcune volte vengono anche messe in risalto – si veda l’evento del “Genesis Day”, di sei anni fa, per ricordare il primo concerto
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REM STORIE
Leo Catozzo ne "Le notti di Cabiria" (1942) interpreta un misterioso personaggio (“l’uomo col sacco”), in una breve sequenza con Giulietta Masina
italiano della band inglese. Insomma, in molti casi le storie sono vere e ne abbiamo la certezza.
ticolo su Leo Catozzo, polesano celebre nel mondo, sarebbe già servito.
L’inventore della giuntatrice (o pressa) Catozzo è stato, appunto, Leo Catozzo (nato Cattozzo con due T; 1912-1997). Potremmo presentare qui uno dei tanti episodi di un polesano che è partito per fare le proprie esperienze altrove e che poi ha avuto fortuna – in effetti è andata così. Ma anche la storia della pressa è interessante: Leo non può usare l’acetone per montare le pellicole cinematografiche (è allergico), così alla fine degli anni ’50 fabbrica una specie di pinzatrice che applica del nastro adesivo ai due pezzi da unire. La macchinetta rende il montaggio veloce, e soprattutto consente di staccare facilmente i pezzi se per caso si cambia idea sulle sequenze del film, senza perdere fotogrammi: perciò tutti la vogliono. L’idea è così rivoluzionaria che gli vale addirittura un premio Oscar “tecnico” nel 1990. Ecco quindi che un ar-
Invece no: essendo a nostra volta degli emigranti polesani, ci ha colpito piuttosto il fatto che Catozzo abbia lasciato la terra di origine, e l’abbiamo trovato di grande attualità. Ci siamo chiesti, ad esempio, se egli sia stato un “cervello in fuga”, se lo siano tutti i giovani che vanno via da qui o se ci sia anche altro dietro una partenza. Cos’è stato Leo? Forse la risposta dipende da chi ascolta la sua storia, se è un ragazzo che aspira ad imparare un’arte sempre più di nicchia, oppure un normale cittadino a cui sta a cuore il nome del proprio paese. Leo Catozzo è stato di certo uno spirito che ha voluto uscire dal cancello di casa per intraprendere una professione che nel nostro territorio viene visto solo dal punto di vista dello spettatore (salvo produzioni coraggio74
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La copertina di una recente edizione in dvd de Le notti di Cabiria di Federico Fellini. Proprio mentre lavorava al montaggio di questo film, nel 1957, Leo Catozzo ha costruito la sua prima pressa
se). Verrebbe da pensare che, essendosi occupato di cinema, forse inizialmente la sua scelta sia stata ‘obbligata’, ma sono cose che non si riescono a misurare con una bilancia, soprattutto senza conoscere a fondo le storie delle singole persone. Tanto che Catozzo potrebbe essere un esempio per chi vuole partire e fare carriera in una realtà più grande, ma allo stesso tempo anche ispirare chi vuole vivere nella propria città e portare grandi innovazioni lì. E, in fondo, nessuna delle due scelte è un errore! Siamo padroni delle nostre aspirazioni fin da quando pensiamo e camminiamo.
tenuto anche nel libro Ricercare altrove (Il Mulino, 2017). Lo studio è certamente ‘limitato’ a chi opera nella ricerca, quindi soltanto una fetta di mondo, ma ci ha dato ugualmente degli spunti significativi. Per riassumerne solo uno, e semplificando, sembra che oggi lo spostamento dei giovani ricercatori all’estero inizi come una tappa ‘volontaria’, una scelta libera (e normale!), e che sia solo in seguito che le persone preferiscano non tornare. Il motivo è (ovviamente) che i ricercatori si rendono conto di essere apprezzati di più altrove che qui – dove il loro lavoro è ancora considerato (e retribuito) come un hobby. Ma, ecco, l’indagine suggerisce un’ulteriore prospettiva delle partenze: sembra esserci quindi anche una migrazione che non inizia come una ‘fuga’, ma che piuttosto ha i tratti di una ‘circolazione’ che si blocca.
Certo, questo non vuol dire che le persone non abbiano motivi per fuggire: ad esempio, oggi l’Italia non sta valorizzando i suoi giovani, sebbene queste siano cose difficili da pesare con i numeri. A cercare di fare un po’ di luce su questo fenomeno c’è l’équipe guidata dalla sociologa Chantal Saint-Blancat dell’Università di Padova, con uno studio con-
Nella sua gravità questo risultato sembra confermare quello che già avevamo in mente: e cioè che da un lato i casi 75
STORIE
Nella stagione degli Oscar del 1990 Leo Catozzo ha ricevuto il Technical Achievement Award, il premio per l’innovazione tecnologica nel cinema
sono tanti, gli spostamenti hanno molte ragioni (e modi) di accadere, che quindi c’è una “multifattorialità”; dall’altro, che la nostra specie migra, l’ha sempre fatto e lo sta facendo anche oggi: le persone si muovono, per tanti motivi. Migrare è un diritto, ma lo deve essere anche poter restare. Il problema nasce quando anche una sola di queste due possibilità non viene concessa, cosa che invece succede.
– ma anche dal lato pratico, con l’invenzione della giuntatrice. Grazie alla sua idea Leo Catozzo ha portato un grande contributo al mondo del cinema, ha lasciato la sua stellina nella lunga storia della settima arte. Questo perché, a prescindere dall’essere ‘in fuga’ o meno, ha potuto esprimere il proprio potenziale. Quello di cui ciascuno di noi ha bisogno, insomma, è la possibilità di scegliere e coltivare le proprie ambizioni, di andare o restare ovunque preferisca, di sviluppare la propria creatività. Che a quanto pare può scatenarsi anche per una semplice allergia.
C’è però un altro elemento chiave che forse emerge dalla vicenda di Catozzo, ed è la possibilità che egli ha avuto di far funzionare la fantasia. Non solo nel suo lavoro di montatore – in cui vengono create relazioni tra immagini diverse 76
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NOTA BIOGRAFICA
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Un’allergia all’acetone, un ambiente particolare e tanta fantasia per poter lavorare: questi gli ingredienti per immergerci nella vita di un grande nome della cinematografia: Leo Catozzo (Adria, 1912-Santa Severa, 1997). Laureato in giurisprudenza e (seguendo le orme del padre Nino) diplomatosi in violoncello a Venezia, sceglie la strada per la settima arte, trasferendosi a Roma per conseguire il diploma in sceneggiatura e regia. Cominciando a lavorare con i grandi nomi del cinema come sceneggiatore, passa successivamente al ruolo di montatore di film firmati da importanti figure come Lattuada, Soldati, Vidor e di un altro piccolo nome... Fellini. Era l’epoca del montaggio in pellicola, dove per unire scene diverse veniva usato l’acetone. Ed erano lontani i tempi dei software per il montaggio come Avid o Adobe Premiere.
Uno dei modelli della pressa Catozzo. Una volta allineate le due estremità di pellicola da unire, queste venivano incollate con il nastro adesivo. Abbassando la leva, infine, alcune punte foravano e toglievano il nastro in eccesso, il tutto in pochi secondi
" Nota: le immagini alle pagg. 73 e 76 sono tratte dalla rivista "Note di tecnica cinematografica" (trimestrale dell’ATIC), n. 3/1997, scaricabile integralmente all’indirizzo www.atic-ntc.org/Downloaddocument/266-Rivista-completa.html Questo documento, a sua volta, è indicato nel Quaderno n. 47 dell’Accademia del tartufo del Delta del Po, a cura di Sergio Garbato e Antonio Dimer Manzolli, che invitiamo a leggere per saperne di più sulla vita di Leo Catozzo (qui solamente accennata). L’indirizzo del Quaderno è http://www.accademiadeltartufo.org/wp-content/ uploads/2018/02/Quaderno-n.47.pdf
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PALCOSCENICO
Il Teatro e la sua città Il teatro “Contardo Ferrini” di Adria, pur di piccole dimensioni, ha una sua dignità. Di forma rettangolare, con una loggia che corre su tre lati e sostenuta da colonne in ghisa, è decorato con motivi tardo eclettici e liberty. Due interviste ai responsabili del suo rilancio e al Sindaco di Adria sulle politiche culturali della nuova Amministrazione Comunale. a cura di Monica Scarpari interviste di Marta Vigato
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n questo periodo di generale difficoltà per le iniziative culturali, il Teatro “Beato Contardo Ferrini” dimostra una sorprendente vivacità di iniziative e meraviglia il suo rinnovato successo. Per le sue ridotte dimensioni viene considerato da tutti come un “teatro minore” della città di Adria. In realtà, in questo periodo, in carenza di altri spazi, svolge un'importante funzione. Abbiamo incontrato il responsabile del “Ferrini” e poi dia-
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Luci accese al "Ferrini" per la presentazione di un libro
logato con il neo Sindaco di Adria sulle iniziative della sua Amministrazione in ambito culturale.
musicisti, alcuni di fama mondiale, che vi hanno suonato in quest’ultimo anno, come il chitarrista polacco Marcin Dylla nel corso del Festival Chitarristico.
Marco Doati è responsabile incaricato del Teatro “Beato Contardo Ferrini”, gli abbiamo rivolto alcune domande.
Il primo fondamentale passo è stato quindi riprendere i contatti con le principali realtà culturali e associative della nostra città, quali il Conservatorio di Musica, l’Associazione Società Concerti “A. Buzzolla”, la Pro Loco, per stringere con loro rapporti di fattiva collaborazione. Ho riscontrato una condivisione di intenti, tra persone appassionate alla cultura e alla bellezza è possibile trovare accordi a partire dal comune desiderio di realizzare insieme qualcosa di bello.
Marco, cosa ha caratterizzato l’attività del Teatro “Ferrini” negli ultimi anni? Posso riferirmi in particolare all’ultimo anno, che mi ha visto coinvolto nelle responsabilità gestionali del teatro e nel tentativo di rilanciarne l’attività. L’intento è quello di valorizzare le potenzialità di questo spazio, che pur essendo relativamente piccolo (con una capienza massima di 150 persone) è duttile, agile e adatto soprattutto a eventi che richiedono un ambiente raccolto, come ad esempio i concerti di musica classica. Sotto questo aspetto il “Ferrini” presenta un’ottima l’acustica. È un vanto che ci viene riconosciuto da numerosi
Quali progetti ha il Teatro “Ferrini” per il prossimo futuro? I progetti futuri sono rivolti a proseguire nella direzione intrapresa, dando impulso a iniziative che arricchiscano cul79
PALCOSCENICO
Volantino del 1928 per lo spettacolo della Filodrammatica
Una vecchia foto dell'interno del "Ferrini"
turalmente tutta la città. Il “Ferrini” è un contenitore ideale dell’espressione artistica teatrale degli adriesi. Fin dai tempi del Cieco Groto e della sua Accademia degli Illustrati l’arte della drammaturgia ha trovato fertile sede ad Adria. Inoltre, come testimonia l’attività delle filodrammatiche che hanno calcato queste scene per tanti anni, questo scopo era già compreso all’atto della fondazione della sala stessa. L’obiettivo, pertanto, per avvicinare soprattutto i giovani a questa nobile arte, è quello di avviare una Scuola di Teatro in collaborazione con la FITA e le Compagnie amatoriali già presenti sul territorio. A tale proposito stiamo preparando una proposta di convenzione con il Comune per promuovere gli spettacoli delle stesse compagnie locali, con un programma a loro dedicato.
stiamo mettendo a punto collaborazioni per manifestazioni concertistiche del Conservatorio di Musica “A. Buzzolla” e della Società Concerti di Adria, come già accaduto in passato, ma anche altri importanti Enti, come il Conservatorio “Pollini” e nuove realtà musicali come l’Associazione “Bartolomeo Cristofori” di Padova. Siamo infine sempre aperti a valutare qualsiasi iniziativa culturale si presenti (sempre che i contenuti siano moralmente rispettosi dei locali parrocchiali). Omar Barbierato è da qualche mese il Sindaco di Adria, abbiamo pensato di rivolgergli qualche domanda sui temi che più interessano la cultura. Sindaco Barbierato, la nuova Amministrazione Comunale ha un progetto complessivo per la gestione degli spazi di pubblico spettacolo per la città?
Vorremmo inoltre cooperare per ospitare iniziative culturali, ricreative, sociali, come convegni, conferenze, promozioni di mostre, presentazioni di libri ecc. Sul versante musicale 80
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Contardo Ferrini, santo professore di Pavia, lasciò moltissime opere di diritto e scritti religiosi
L'attuale platea e loggia del "Ferrini"
Gli spazi di pubblico spettacolo per la Città di Adria meritano sicuramente un progetto complessivo, ragionando a partire dalla capienza degli spazi e dal tipo di spettacolo che si intende portare. Serve mettersi attorno a un tavolo con i soggetti proprietari delle strutture per condividere una visione artistica Comunale ma non solo.
cuparsi di organizzare il “famoso” Cartellone Unico degli Eventi che abbiamo sperimentato con successo alcuni anni fa. Allo stesso tempo l’Amministrazione deve studiare, tramite una regolarizzazione dei propri spazi che ad oggi manca e forme di contribuzione trasparenti, la possibilità di creare eventi di più ampio respiro insieme alle Associazioni e agli Enti che producono Cultura nel nostro territorio.
In quale misura le risorse della città possono essere coordinate e incentivate da un’azione politica dall’alto?
Possiamo sognare che non sia ancora definitiva la sorte del Cinema Teatro Politeama? In che misura possono esistere delle idee o dei progetti per una possibile riapertura, magari grazie a un utilizzo più vario e non solo come sala cinematografica?
Il ruolo dell’Amministrazione è fondamentale nel coordinare e incentivare le tante risorse della Città. Adria e le sue Associazioni sono sempre state delle vere e proprie fucine di eventi e di spunti culturali diversi ed originali in Polesine. Il ruolo culturale della Città di Adria è sempre stato e sarà un faro per il territorio della provincia di Rovigo. Penso che il Comune, insieme alla Pro Loco, debba preoc-
Sono convinto che il Cinema Teatro Politeama possa rinascere grazie ad un uso culturale della Sala che vada al di 81
PALCOSCENICO
Alcuni aspetti della recente ristrutturazione del Teatro Comunale di Adria in piazza Cavour. La "galleria degli artisti", un fregio con la data 1924, un aspetto del ridotto. Dal sito www.andreabarasciutti.com
là della proiezione dei film. È fondamentale trovare un percorso privato o pubblico che porti in tempi brevi a definire una soluzione che assicuri innanzitutto la riapertura, indispensabile per il nostro tessuto Sociale e Culturale, e contemporaneamente sappia coinvolgere più attori attorno ad un progetto comune di promozione culturale, proprio come ha saputo fare in questi anni il Teatro “Ferrini”, che è riuscito ad aprirsi a più proposte diversificate.
va la Cittadella della Cultura degli Adriesi, il cuore pulsante della Cultura per Adria ed il Polesine. Serve un lavoro di rete e una visione di Territorio più ampia. C’è molto lavoro da fare, non solo per l’Amministrazione, ma per tutti coloro che fanno della Cultura e dell’Arte la loro Passione e Vita.
C’è una possibilità di rilanciare l’attività del Teatro Comunale coordinandola con le altre strutture teatrali della città ed eventualmente del Basso Polesine?
Le notizie sul Teatro "Ferrini" sono in parte tratte da A. Rondina, "Adria. Una Città, le sue vie, la sua storia" (Apogeo Ed., 2009). Le immagini di pagina 80 sono in "Numero Unico 2008" della Pro Loco di Adria, a cura di A. Ceccotto, pagg. 26 e 30 (Apogeo Ed., 2008).
Il futuro del Teatro Comunale è indissolubilmente legato ad uno sguardo complessivo della Città e del Territorio, e dei suoi spazi culturali. Il nostro sogno e progetto è che possa diventare in prospetti82
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di Cristina Sartorello
Mario Ferrarese Pittore autentico A Lendinara, nei primi anni Cinquanta, un gruppo di ragazzi accomunati dalla passione pittorica scoprono l’astrattismo concreto e l’informale di Santomaso, Vedova, Afro, Scialoja, Burri e poi Pollock, De Kooning, Rothko, Kline, Rauschenberg. Di ritorno dalle Biennali del 1952 e 1954, carichi di entusiasmo, andavano a casa di Giuseppe Marchiori a riferire le loro impressioni, in un cenacolo che per Mario costituirà la base del suo futuro progetto artistico. 83
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o conosciuto Mario Ferrarese molti anni fa, quando andavo ai concerti della Associazione Musicale “Francesco Venezze” a Rovigo e poi al “Pollini” a Padova; il tragitto in pullman era il contesto adeguato per conversazioni di astronomia, musica e musicisti, con l’ironia e lo spirito arguto che ha sempre caratterizzato Mario.
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Quando lui non è più stato presidente della Associazione “Venezze” ci siamo un po’ persi di vista per ritrovarci nel dicembre 2016 al Museo dei Grandi Fiumi nella esposizione di tre artisti: cinque gioielli, installazioni di Miranda Greggio, cinque tappeti di Paolo Sartori e cinque grandi tele di Mario Ferrarese, in un bellissimo evento presentato da Sergio Garbato. Mi ricordo che allora chiesi a Mario con gran stupore cosa ci facesse lì ed ebbi così modo di scoprire la sua brillante e audace vena pittorica, di cui non sapevo nulla e della quale lui, da persona riservata e umile com’è, non mi aveva mai parlato. Ora si presenta finalmente l’occasione di incontrare questo pittore autentico, autore di 1387 opere, compresa la grande tela Im Abendrot del luglio 2014, e di altre non pubblicate nel ricco catalogo pubblicato nel 2015 che raccoglie i suoi quadri dal 1950 al 2014. La passione di Mario nasce ancora giovane a Lendinara, sua città natale, dove frequenta la Biblioteca Comunale da poco aperta, gestita da Cesare Magon, attore di prosa autodidatta che aveva lavorato con Cesco Baseggio e frequentava il critico d’arte Giuseppe Marchiori. Ragazzi accomunati dalla passione pittorica, che scoprono l’astrattismo concreto e l’informale di Santomaso, Vedova, Afro, Scialoja, Burri e poi Pollock, De Kooning, Rothko, Kline, Rauschenberg e che di ritorno dalle Biennali del 1952 e 1954, carichi di entusiasmo, andavano a casa di Giuseppe Marchiori a riferire le loro impressioni, in un cenacolo che 84
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per Mario costituirà la base del suo futuro progetto artistico. Questa arte viene genericamente definita con il termine “informale”, perché non appartiene ad un movimento vero e proprio − anche perché non esiste alcuna base teorica comune − ed esprime un insieme di esperienze artistiche quali l’action painting, lo spazialismo, la pittura segnica, l’informale materico ed astratto e un minimalismo figurativo spesso provocatorio. Mario Ferrarese non ama molto mettersi in mostra, curare esposizioni personali, andare dai galleristi a vendere i suoi quadri (che ha sempre regalato): da persona riservata quale egli è assicura alla sua pittura un contesto privato, dipinge in un garage vicino alla sua abitazione, per essere più libero di essere e donare se stesso con potenza e passione, alternando momenti di intensa produzione pittorica − in cui è prevalso l’aspetto astratto, senza una traccia, dipingendo anche un lavoro sull’altro nella stessa tela, creando una stratificazione materica − ad altri periodi di riposo dove ama dedicarsi al figurativo, con piccoli paesaggi, disegni a china, carboncino o matita su carta, molti dei quali senza titolo. Nell’arco della sua vita Ferrarese ha partecipato finora a otto collettive: due a Lendinara nel 1954 e 1955, i due anni successivi a Badia Polesine, nel 1981 a Lendinara (vincendo una coppa), nel 1982 a Padova nel palazzo del Monte dei Pegni con due grandi opere senza titolo esposte in una collettiva di pittura di dipendenti della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, dove ha lavorato per molti anni. 85
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Infine, dopo trent’anni, la mostra di Lendinara nel 2012 e un anno dopo a Rovigo nella collettiva “Incontro d’arte di cinque Lendinaresi” con Carlo Tintore scultore, Giuseppe Rigolin fotografo, Daniele Caleffi ceramista e Sergio Magon, pittura rizomatica. Arriva il momento della pubblicazione dell’elegante catalogo comprendente in allegato due DVD, con la presentazione critica del dott. Antonio Romagnolo e del prof. Sergio Magon, che si possono fruire anche online in https://marioferrarese.art.blog/ e che spiegano in modo esaustivo il percorso creativo del pittore, artista poliedrico e proteiforme. Se penso alla chiusura mentale e alla rigidità di alcuni bancari che ho conosciuto, con i quali era possibile avviare un qualunque discorso che non riguardasse la loro professione e le
confronto con il sorriso, l’approccio gioioso alla vita, l’apertura e la curiosità artistica di Mario Ferrarese, allora penso che davvero il pennello sia stato per lui il mezzo per dare voce a una espressività informale, ricca di pregnanza materica, di colore tonale vivo, che si è richiamata nel tempo specialmente alla pittura non figurativa di Afro, studiando con cura il gesto dei grandi maestri. La spinta interiore, l’urgenza del segno dà vita in Mario Ferrarese a grandi tele dai colori caldi e poi più scuri, fino ad arrivare a larghe pennellate nere di forte impatto che conducono a Kline, con gesti fisici di particolare energia vitale che scaricano nella tela l’angoscia interiore dell’uomo, la sua domanda sul senso della vita e della morte, che sembrano uscire da altre mani rispetto a quelle che hanno dipinto tranquilli paesaggi montani re-
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alizzati con colori ad olio o pastelli a cera. L’uso di grandi tele di sacco o di lino diventano nei periodi più recenti un’ulteriore ricerca di sperimentazione nell’avanguardia, alternando i senza titolo a composizioni che sono già poesia, per come sono intitolate oppure di senso musicale per il rimando immediato ai lieder di Strauss. Una sua serigrafia, della serie dedicata ad alcuni luoghi della sua città, è apparsa recentemente sulla copertina di un libro dell’Accademia dei Concordi pubblicato da Apogeo Editore. Rimango affascinata dalla forza, dalla potenza del colore, nel gioco dei pieni e dei vuoti di una persona non più giovane, che mantiene una grande vitalità e conserva una gioiosità sempre celata, centellinata nel tocco sapiente del gesto pittorico, portatrice di uno
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spirito nomade, che porta Mario Ferrarese ad una alternanza di stili mai sfrenata, sempre con una possibilità di ritorno e di passaggio, dall’informale al figurativo, al concettuale, al simbolico, al minimalista, al ritratto appassionato delle donne della sua famiglia oppure alla natura morta. E l’emozione si trasforma in stupore, in una energia creativa che ti rapisce, facendoti diventare essenza e parte dell’opera stessa, in un viaggio a tre dimensioni dove entri in un vortice astratto e ti lasci volentieri travolgere da un’onda pulsionale che ti carica e ti appaga, donandoti un senso di benessere estatico pacificante. Per me l’arte pittorica e tutte le altre espressioni artistiche quali musica, scultura, letteratura, poesia, fotografia, cinema e teatro, dovrebbero raggiungere questo obiettivo. Mario Ferrarese ci è riuscito pienamente, portandomi dentro la sua arte. Grazie!
A pag. 83 e qui sopra due foto di Mario Ferrarese. A pag. 84, dall'alto: "Im Abendrot", 2014, cm 91x145, acrilico su tela, "Chiarastella", 2012, cm 50x70, acrilico su tela, "Primavera d'intorno brilla nell'aria e per li campi esulta", 1992, cm 160x240, acrilico su tela. A pag. 85, dall'alto: "Tra la terra e il cielo nevoso", 1988, cm 50x90, acrilico su tela, "Nei confini bui dove brancola lo spirito", cm 50x70, 1985, olio su tela. A pag. 86: "Sul margine della foresta", 2011, cm 80x200, acrilico su tela.
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MESSAGGIO REDAZIONALE
LA FONDAZIONE BANCA DEL MONTE DI ROVIGO
Rovigo, città delle rose e del violoncello a cura della Fondazione Banca del Monte di Rovigo
Sopra: la locandina de "I suoni del Po". Qui a lato e a pag. 91 due immagini della manifestazione
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a Fondazione Banca del Monte di Rovigo, nell’ambito della propria attività istituzionale, ha sostenuto la realizzazione di due diversi progetti − ascrivibili alle aree di intervento che riguardano le attività culturali e la formazione −, e che hanno il violoncello e i giovani come comune denominatore. Entrambi i progetti, al momento dell’uscita di questo numero della rivista, si sono conclusi nel 2018. La Fondazione, mantenendo lo storico radicamento al territorio di appartenenza, esplica la propria mission oltre che con progetti propri anche ponendosi a fianco di enti, istituzioni e realtà associative selezionati per scopi statutari e attività perseguite. Con questi condivide, tra le altre, alcune finalità, privilegiando quelle che riguardano i giovani e la formazione. In particolare, la Fondazione Banca del Monte di Rovigo ha valutato di dare il proprio contributo ai progetti Rovigo Cello City e I suoni del Po in quanto, afferenti al mondo della musica, consentono ai giovani di fare esperienze formative e professionalizzanti accanto a rinomati maestri; contemporaneamente, offrono concerti di qualità di cui può godere tutta la cittadinanza. Il tutto, nello specifico, riferito allo strumento del violoncello. Rovigo Cello City e I suoni del Po sono promossi, rispettivamente, dall’Associazione musicale “Venezze”, presieduta da Luigi Puxeddu, direttore artistico del progetto e docente del Conservatorio “Ve-
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nezze”, e dall’Associazione “Eroica Giovane Orchestra”, diretta da Luca Paccagnella, già direttore del Conservatorio rodigino per diversi anni e fondatore di diverse orchestre giovanili. Rovigo Cello City, presentato per la prima volta nel 2013 e trovando fin dagli esordi il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Rovigo, propone una straordinaria settimana, tutta rodigina, per “appassionare ed emozionare il pubblico con i nostri giovani violoncellisti” − dove, per “nostri”, si intendono gli studenti del Conservatorio – “affiancandoli a chi suona tutti i giorni nei teatri più importanti del mondo”, a dirla con le parole del prof.
Puxeddu. Protagonisti sono, quindi, gli allievi che hanno una possibilità unica di avere a fianco dei maestri di fama internazionale. Alcuni nomi dell’edizione 2018: Cristopher Coin, grande violoncellista barocco, Giovanni Sollima, artista di fama internazionale, Alfredo Persichilli, primo violoncello del Teatro alla Scala, insieme ad altri valenti violoncellisti come Luca Simoncini, lo stesso Puxeddu, e musicisti non violoncellisti come il fagottista Sergio 89
Azzolini, la soprano rodigina Marina Di Liso, Federico Guglielmo docente di violino del “Venezze”, tutti rodigini, e ancora Maurizio Leoni, Francesco Manara, Vladimir Mendelssohn. La possibilità di confrontarsi con grandi professionisti e artisti, apprendere tecniche di esecuzione e “segreti” dell’interpretazione, affrontare il timore dell’esibizione, sentirsi alla pari di giganti dei teatri internazionali, rappresentano eccezionali opportunità formative che fanno acquisire sicurezza e dimestichezza ma anche prove che fanno emergere e rafforzano talento e personalità, momenti di percorsi di studio che qualificano e che avviano più fiduciosi verso una futura carriera musicale. Non è dissimile il principio ispiratore, contemporaneamente anche obiettivo, dell’articolata rassegna I suoni del Po: far vivere a ragazzi l’esperienza musicale come un’esperienza costruttiva completa. Ritenuta un viaggio culturale, l’iniziativa, diretta dal m° Paccagnella, considera la “Giovane Orchestra” un “efficace strumento di integrazione culturale e sociale e come modalità per lo sviluppo delle intelligenze dell’essere umano, nata dalla forte convinzione che intraprendere un percorso di musica d’insieme, oltre ad essere gratificante, è nel frattempo altamente formativo”. La rassegna porta in tutto il Polesine l’Eroica Cello Ensemble, composta da 25 ragazzi di età compresa tra i 5 e i 19 anni, molti dei quali vincitori di concorsi internazionali. Qui i giovani musicisti sono considerati eroi del futuro, in quanto
MESSAGGIO REDAZIONALE
Sopra: la locandina di "Rovigo Cello City" firmata da Fabio Vettori. Qui sopra e a pag. 89 due immagini della manifestazione
protagonisti della promozione dell’arte mentre la vivono e si preparano al futuro come “persone vere, cultori della musica e del bello, aperti al confronto” perché, attraverso l’esperienza dell’orchestra come modello di vita e di condivisione, i giovani saranno più formati ad essere parte di un organismo sociale, così come nella compagine musicale. Il progetto musicale è anche un progetto di promozione del territorio, non solo dal punto di vista turistico; viene infatti rappresentato in svariati luoghi della nostra provincia (ben 27) tra
chiese e palazzi, piazze e ville, musei e monumenti, dall’Alto al Basso Polesine, mettendo in risalto il notevole patrimonio storico-architettonico-artistico dei siti più significativi, apprezzati per la loro “geometria sonora”, cioè per quelle particolari caratteristiche che generano una migliore distribuzione del suono. I Suoni del Po, inoltre, in una particolare sezione della manifestazione, rappresenta opportunità di lettura storica attraverso le vicende che hanno inserito il nostro territorio nella Grande Guerra di cui, nel 2018, si ricorda il 90
centenario, eseguendo musiche composte nel periodo bellico. Un’occasione in più per tutti per riflettere su tematiche importanti e valori imprescindibili come la pace e la pacifica convivenza tra popoli. Entrambe le iniziative culturali presentano un repertorio vario e coinvolgente, spaziando dalla musica classica ai compositori moderni fino ai nostri giorni, toccando diversi generi con cui tutti i musicisti si sono messi alla prova. Per entrambi i progetti la Fondazione ha espresso il proprio sostegno valu-
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tandoli attività culturali di pregio, affidate a mani esperte e di valore che ne assicurano la guida e il successo di realizzazione. Nell’uno, per interi giorni, la città di Rovigo è divenuta il centro di attrazione culturale, dove, per l’occasione, sono state aperte le porte di molti siti altrimenti poco conosciuti agli stessi rodigini, come il castello librario dell’Accademia dei Concordi, il Palazzo Torelli-Minadois o la Chiesetta del Cristo. Nell’altra iniziativa la divulgazione della musica e il modello di orchestra giovanile hanno costituito il motivo unitario delle molteplici sfaccettature di luoghi e di storie di tutto il
territorio provinciale. Le attività di tutti e due i progetti sono raccordate dal suono del violoncello e, usando le parole del m° Paccagnella, si propongono di far suscitare il desiderio di far conoscere Rovigo come “città delle rose e del violoncello”. Va inoltre riconosciuta la capacità di elaborare idee nuove per attirare crescente interesse verso il mondo della musica anche con attività come quella, collaterale, proposta dal m° Puxeddu oramai da diverse edizioni, della simpatica mostra di fumetti del noto disegnatore Fabio Vettori.
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Insomma, iniziative di qualità non mancano nella nostra terra, come non mancano realtà e figure che sanno coltivarle e farle crescere. Al loro fianco si pone, riconoscendole, la Fondazione Banca del Monte di Rovigo che dello sviluppo del territorio ne fa lo scopo istituzionale. La musica è una delle arti che rende sicuramente l’uomo migliore e arricchisce l’intera comunità. Investire in progetti culturali di cui tutto il territorio beneficia è il convincimento della Fondazione Banca del Monte di Rovigo che, in particolare, riserva attenzione ai giovani e alle opportunità per il loro futuro.
SAPORI & SAPERI
Spagheti coi peoci Pasta con le cozze
di Mario Bellettato
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e cozze sono da sempre presenti nella gastronomia polesana: originariamente si trattava dei mitili che crescevano spontaneamente in molte aree del delta, in seguito la disponibilità aumentò grazie allo sviluppo delle coltivazioni nella sacca di Scardovari e nella laguna di Venezia. Senza nulla togliere all’eccellente qualità dei crostacei di allevamento, è comunque possibile anche oggi raccogliere peòci selvadeghi in diverse zone, la taglia è generalmente modesta, ma il sapore è straordinario. Personalmente prediligo le cozze che si possono raccogliere a Pellestrina, versante mare, che crescono in un habitat sostanzialmente privo di scarichi urbani con un notevole ricambio d’acqua proveniente dal mare aperto.
nota come peòci in casopipa: già la denominazione sembra evocare in modo esplicito questa virtù, nomen est omen. In ogni caso utilizzate molluschi di provenienza certa, freschissimi, che non abbiano subito interruzioni nella catena del freddo. Eliminate comunque quelli che non si aprono in cottura e rammentate che devono emanare un gradevole profumo “di mare”: scartate l’intera partita se anche solo un po' di molluschi hanno odore sgradevole, i rischi sono piuttosto seri. In genere le preparazioni offerte dai ristoranti e dalle trattorie risentono dell’influenza delle ricette di origine meridionale, senza dubbio sapide e gradevoli, ma in qualche modo diverse dal piatto che si preparava nelle nostre zone. Le differenze fondamentali consistono nella tendenza a risultare piccanti, tipica delle preparazioni meridionali, nell’abitudine a ultimare la cottura in padella (contaminazione che approvo per il miglior risultato finale), nella presenza dei mitili completi di conchiglia e nell’abitudine a cuocere la pasta nell’acqua salata e non nel brodo di pesce (più o meno concentrato) che invece è prassi comune per le preparazioni venete a base di pesce. Anche per quanto concerne la pasta il sud tende a proporre spaghetti grossi, anche bucatini o tonnarelli e comunque pasta di qualità elevata, che
Da ragazzi si raccoglievano direttamente dagli scogli, con l’unica precauzione che la profondità fosse tale da assicurare che i mitili rimanessero comunque sommersi anche con le basse maree. Francamente non so se le normative e le regolamentazioni attuali ne consentano la raccolta anche oggi, quindi se siete tentati dall’avventura informatevi. Per evitare sorprese (o per favorirle) sappiate che nella mia esperienza le cozze di Pellestrina hanno notevoli proprietà afrodisiache, specie nella preparazione tradizionalmente 92
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personalmente preferisco: va detto che da noi la qualità della pasta fino agli anni ’80 era mediamente inferiore a quella che si usava al sud, spesso ulteriormente peggiorata dalle cotture prolungate con cui le massaie nostrane torturavano penne e spaghetti.
bollire, il formato ideale è pasta lunga, i classici spaghetti grossi, vermicelli o bucatini vanno benissimo. Scolate la pasta ben al dente e mettetela nella padella, aggiungete i molluschi, 200 g di burro di malga, una macinata di pepe nero e una manciata generosa di prezzemolo tritato.
Per 4 persone servono circa 2/2,5 kg di cozze, 400 g di spaghetti, olio EVO, burro di malga, brodo di pesce, 4 grossi pomodori maturi, aglio, prezzemolo, sale, pepe, vino bianco secco. Pulite grossolanamente le cozze, fatele aprire a fuoco vivace in una padella MOLTO larga, con tre cucchiai d’olio dove avrete fatto imbiondire quattro spicchi d’aglio in camicia per evitare che brucino. Rimestate spesso per far sì che tutte le cozze si aprano, a volte il peso dei molluschi che stanno sopra impedisce che quelli sotto “sboccino”, specie se la padella non è grande a sufficienza.
Non appena il burro sarà ben amalgamato togliete dal fuoco continuando a mescolare. Aspettate che il burro inizi a far addensare leggermente il sugo (indice che la temperatura è scesa un po’) e servite. I piatti bianchi di terraglia pesante, quelli delle trattorie economiche, sono perfetti: sposano l’origine popolare del piatto ed esaltano i colori solari delle cozze, del pomodoro e del prezzemolo. Servite con fette di pane abbrustolito (le “sbreghe” usate dai pescatori, perfette per la scarpetta) o pane biscotto senza grassi, vanno bene i “bossolaeti” chioggiotti o anche le “roscane” polesane.
Nel frattempo mettete a bollire il liquido per la pasta, dico liquido perché se disponete di un brodo di pesce non troppo concentrato lo potete usare al posto della semplice acqua salata per conferire al piatto una maggiore rotondità. Calcolate in modo prudente la salatura, spesso le cozze, in particolare quelle selvagge, contribuiscono alla sapidità finale della preparazione. Le cozze di allevamento, specie se hanno subito una lunga stabulazione, tendono a risultare meno saporite in tutti i sensi. La tradizione nostrana prevede che le cozze vengano utilizzate prive del guscio, soluzione meno scenografica ma per molti aspetti più comoda, di conseguenza non appena le cozze si sono aperte vanno tolte dal fuoco e si procede ad estrarre il mollusco dalla conchiglia, cercando di conservarlo intero, una volta completata l’operazione riponete i molluschi in una terrina e raccogliete il fondo della cottura, filtratelo per eliminare possibili frammenti di conchiglia o tracce di sabbia, entrambi sgradevoli.
Accompagnare con un vino bianco secco, preferibilmente un Tocai (oggi Friulano – ahimè grazie all’Unione Europea ed alla proverbiale combattività dei nostri politici) robusto, vecchio stile, di quelli con quel meraviglioso retrogusto leggermente amaro. Assolutamente NO all’abbinamento con il Prosecco che non regge un piatto così deciso. Obbligatoria la grappa bianca a fine pasto, per “resentare” la bocca.
Rammentate come regola generale che le cozze non vanno cotte troppo a lungo, induriscono e perdono sapore. Tagliate i pomodori a pezzi di media grandezza (in mancanza di pomodori MOLTO maturi potete usare anche 5/6 pelati di qualità) e metteteli a cuocere nel fondo già filtrato, facendoli appassire a fuoco vivo finché saranno addensati, sfumate con un bicchiere di vino bianco secco e assaggiate per regolare il sale. Mettete a cuocere la pasta nel liquido che avrà preso a 93
AUTUNNO-INVERNO 2018/19
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