REM-Anno IX, n. 1 del 1 giugno 2018 (Il futuro di un fiume)

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La Fondazione Banca del Monte di Rovigo è presente nel tessuto polesano attraverso progetti ed interventi a favore della formazione e dell’educazione dei cittadini ed in particolare dei giovani, riservando particolare attenzione al mondo della scuola. In quest’ottica la Fondazione promuove la distribuzione della rivista REM Ricerca Esperienza Memoria presso tutte le biblioteche degli istituti scolastici secondari di primo e di secondo grado del territorio polesano, nella convinzione di offrire uno strumento di approfondimento e di consapevolezza identitaria. Allo stesso tempo, questa opera di diffusione a cura della Fondazione rappresenta un sostegno ad una rivista che valorizza il territorio e mette in luce la vivacità culturale del Polesine affrontando diversi aspetti e caratteristiche. Il pregio della rivista, oltre ai contenuti, va sicuramente riconosciuto anche per lo spazio riservato a molte firme giovani della provincia. Fondazione Banca del Monte di Rovigo

La storia di copertina di questo numero è dedicata allo stato di salute del nostro Grande Fiume. Nell'immagine in queste pagine il Po a Guastalla in una antica mappa (in www.motonavestradivari.it)

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REM

Anno IX, n. 1 del 1 Giugno 2018 Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010

EDITORIALE

Poveracci digitali........................................................................................................................ 7 RUBRICHE

Taccuino futile – Natalino Balasso.................................................................................................. 9 La nottola di riserva – Cristiano Vidali ........................................................................................ 11 STORIA DI COPERTINA

Il futuro di un fiume. Il Po tra incertezze e scelte mancate - Inchiesta di Francesco Casoni......... 12 COLORE

Il Fronte Nuovo delle Arti rivive a Lendinara – Sara Milan....................................................... 23 PAROLE

Gianni Celati. Storie senza inizio nè fine – Vainer Tugnolo ...................................................... 29 LUOGHI

L'Archivio di Stato di Rovigo – Cristina Sartorello....................................................................... 35 SUONI

Quest'estate fai un pieno di libertà – Marta Dolcetto................................................................. 41 PERSONAGGI

Graziano Donà la mia vita da bambino – Cristiana Cobianco ................................................. 49 LUOGHI

Città Giardino e architettura Liberty – Barbara Pregnolato.......................................................... 55 SUONI

The Boylers. La rivincita dei mediocri...................................................................................... 60 LUOGHI

Una linea tratteggiata – Marco e Michele Barbujani.................................................................... 65 SAPORI & SAPERI

Sardele in saore – Mario Bellettato.............................................................................................. 74 LA VIGNETTA di Herschel & Svarion............................................................................................... 78

Direttore responsabile: Sandro Marchioro Editore: Apogeo Editore Pubblicità e marketing: Massimiliano Battiston REM è fatto da: Sandro Marchioro, Monica Scarpari, Paolo Spinello, Francesco Casoni, Cristiana Cobianco, Cristina Sartorello, Nicla Sguotti, Danilo Trombin, Vainer Tugnolo, Sara Milan Stampa: Grafiche Nuova Tipografia - Corbola (RO) Tel. 0426.45900 Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Paolo Spinello Diffusione Editoriale Via Zandonai, 14 - 45011 Adria (RO) Tel. 347 2350644, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03. Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010. Copyright - Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze. REM ringrazia gli autori per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo gratuito per l’inserimento nella rivista. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore. Numero chiuso in redazione il 30/4/18 ISSN 2038-3428 In copertina: foto di Maurizio Spano

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EDITORIALE

POVERACCI DIGITALI poveracci oggi possono avere un aspetto strano: non le pezze al culo ma lo smartphone smanettone, non una nidiata di bambocci ma un cagnetto da portare a passeggio, non una baracca lercia ma la cameretta di babbo e mamma. Eppure i poveracci di oggi hanno vite disfatte come i loro antenati di fine Ottocento e una miseria di altro tipo che gli rimbocca le coperte tutte le sere. Dei molti cambiamenti che le nostre società stanno vivendo la trasformazione del lavoro è di sicuro la più devastante e la più impattante, quella che, più di tutte, sta togliendo dignità alle vite di un numero sempre maggiore di persone. Il progresso tecnologico che riduce l’occupazione e dona forza mai vista allo sfruttamento del lavoro; d’altra parte il profilo dei diritti in quest’ambito si sta sfilacciando e riducendo da tempo. È uno dei fenomeni meno letti e meno indagati, o forse uno di quelli su cui sappiamo meno perché parlarne fa persino paura: di fatto, i mutamenti radicali del mondo del lavoro sono quelli che più stanno incidendo (almeno da vent’anni, ormai) sulle vite dei singoli e sulle speranze delle generazioni più giovani. La politica non sa più dare risposte e quando lo fa sono inutili, quando non pessime. Del resto risposte a livello nazionale non hanno senso, perché i mutamenti stanno avvenendo su scala mondiale e solo a dimensioni continentali, forse, si può pensare di elaborare strategie che contrastino gli effetti mostruosi dei cambiamenti in atto. La sola speranza può venire dalla cultura, dalla sua capacità di analisi e dalla sua potente, inesauribile possibilità di indicare vie nuove da percorrere. Certo, quando ci sono ragazzi di trent’anni che lavorano da precari per 3 euro all’ora può sembrare strano che la soluzione sia studiare di più, eppure non c’è soluzione: solo teste pensanti possono aiutarci a capire cosa sta succedendo e cosa fare per far succedere qualcosa di diverso. La storia cammina in continuazione, quasi mai verso dove vorremmo noi. Se esiste una possibilità di cambiarla, essa si può trovare soltanto concentrando il nostro sapere sui fenomeni in atto smontandone le strutture e provando a costruire scenari diversi e nuovi. Non c’è neanche tanto tempo: le democrazie si stanno sfrangiando su scala planetaria, è un fenomeno ormai evidente e che non si riesce a capire come contrastare. Le palpitazioni sono globali, ormai, ed è in questa stessa globalità, nella possibilità di scambio e di diffusione di cui godono oggi le idee, che oltre ai problemi è possibile far circolare anche le soluzioni, o quantomeno i tentativi di soluzione. La grettissima idea che con la cultura non si mangia nasce, forse, da chi teme sopra ogni altra cosa la stessa cultura come unica e sola realtà che può invertire la rotta, provare a ridurre le ingiustizie, far sognare un mondo diverso. Che sembra un sogno tanto passato di moda, ma invece non lo è.

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RUBRICA

Taccuino futile

Foto di Nicola Boschetti

Nozioni basilari di linguistica campestre (parte seconda) di Natalino Balasso

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l dialetto di mia madre ha suoni più duri del pavano di mio padre; è un dialetto che pur mantenendo caratteristiche venete, sconfina linguisticamente nel ferrarese. Le zone di questa parlata vanno per lo più dalla Sacca di Scardovari fino a Porto Viro. "Al so da c’ gamba c’at va sòto” significa “So da quale gamba zoppichi” e si usa per dire che si conoscono nei dettagli i punti deboli di una persona. Per dire a qualcuno che se insisterà nei suoi propositi picchierà la testa contro la complessità del mondo, si dice: “Ac-sì a t’inpari quant ch’el costa el sale a Ciosa”; la frase risale all’epoca in cui Chioggia era la salina di Venezia. Quando da

bambini si usciva in fretta e furia per giocare si era inseguiti dall’espressione: “No sta ndar fora doscapìn” e si apprendeva la sottile differenza tra “doscalso” cioè scalzo e “doscapìn” cioè senza scarpe ma coi calzini ai piedi. Se una persona è suscettibile si dice “El salta su fa el vero”, letteralmente: “salta via come il vetro”. All’avvio delle partite dei rossoneri del Contarina, sempre dagli spalti si levava un urlo solitario: “Dài, ca i sbublem fa i cachi!” che confidava nel proposito di sventrare gli avversari come fossero cachi.

si la percezione di essere così idiota mi ucciderei a testate contro il muro”. “At dag tante sberle fin c’at ridi” è frase che appartiene a un modello educativo basato sullo shock e vuol dire: “Ti darò un trenino di sberle e smetterò solo quando, ormai incapace di reazioni coerenti, ti metterai a ridere”.

Mia madre riporta sempre l’aneddoto accaduto ad un suo paesano, chiamato a testimoniare a un processo. Quando l’avvocato gli disse: “Voi c’eravate!” rispose piccato: “Ceravate? A mi?! Come se permetelo de vegnire qua a darme del ceravate?!” “At dag tante sberle Quando passa per strada un individuo particofin c’at ridi” larmente originale, si dà è frase che di gomito all’amico più appartiene a un vicino e si dice: “va’ c’ modello educativo bel cao!” Che significa “Guarda che bell’esembasato sullo shock plare”, dove “bello” sta per “bizzarro”.

Nelle fattorie più solitarie la televisione era la “telavision” e la radio aveva l’apostrofo: “l’aradio”, somigliando all’italiano al singolare e tradendo la storpiatura nel plurale: “In do ani a gò canbià tri aradi!” Quando il cibo preparato per un pranzo o una cena era sovrabbondante, si diceva: “A gh’ n’è p’r i beati paoli!”. In Veneto, l’aggettivo “ramingo” diventa una località e invece di dire “Vai ramingo” si dice “Va a Remengo” oppure “Va a Ramengo”. En passant, annoto che sul vocabolario Treccani, alla voce “ramingo” (che deriva da “ramo”) è spiegato: “Di uccello che, ancora incapace di volare, salta di ramo in ramo”, pura poesia. Nel commentare la stupidità di una persona si dice: “s’a so ac-sì a m’copo in tel muro” che letteralmente significa “Se sono così mi ammazzo nel muro” e vorrebbe dire: “Se aves9

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“El gh tien drio” letteralmente significa “lo segue” ma si usa anche in senso metaforico, quando il seguace si dà anima e corpo, soprattutto nel caso di una donna innamorata: “La gh tien drìo a ch’el deficente!”; quando l’innamorata non solo spasima per un idiota ma lo cerca anche dappertutto, si distingue con: “La g’va drio a ch’el desgrasià”. Il suddetto desgrasià, uomo che pratica con varie donne raccattate nei locali, beve, fuma, è pieno di stravissi ed è definito “un tribolòn”.



RUBRICA

La nottola di riserva

sovrumano di verità: è il punto di vispirito del proprio tempo. Hegel si sta di Dio. È opportuno notare come ritenne il primo ad esser riuscito deuna simile comprensione sia priva di finitivamente in quest’impresa, articoqualsiasi coinvolgimento personale: lando una teoria che dagli Stati naessa si riduce al “puro stare a guarzionali europei si sospingeva fino alla dare” che nulla aggiunge in ciò che storia mondiale, quando non esisteva viene osservato. nessun manuale di storia a documenMa, se tale è lo sguardo della vetare tutto ciò. Se da un lato una simile rità, qual è il suo oggetto? Dove conclusione può apparire presuntuosi posano gli occhi di Dio nel loro sa, potremmo dire che di fatto Hegel apprezzare la verità? Si rivolgono ‘accese una luce’ nella camera oscuforse agli atomi, alle molecole, alle ra della storia, composta da innumesostanze subatomiche che componrevoli eventi apparentemente irrelati; gono le cose materiali? Guardano egli sintetizzò compiutamente il senso essi alla chiacchiera della propria epoca e ci triviale di ogni giorno, consegnò la forma per ad ogni nostro passo poterlo fare con quelle a o indugio, a ciascuna venire Abbiamo forse piccola banalità oppure E purtuttavia, stiamo forse acceso un lumino soltanto alle guerre, alle riuscendo oggi a fare lo nella stanza buia rivoluzioni e in generale stesso? Dinnanzi ai fenodel nostro tempo? agli eventi epocali? meni migratori, alla crisi Secondo Hegel questi ecologica, al capitalismo occhi divini – i quali sovranazionale e globale non sono altro che gli abbiamo noi acquisito occhi dell’essere umano uno sguardo ‘aereo’, una divenuto pienamente autocoscienvisione d’insieme, vera? Abbiamo te – sono gli occhi della Filosofia, forse acceso un lumino nella stanza e l’oggetto fondamentale di cotale buia del nostro tempo o ci muoviamo sguardo è la Storia. Vi è una cein esso brancolando senza orientaleberrima immagine hegeliana a mento alcuno? Queste domande atquesto proposito, la quale ritrae la tendono urgentemente risposta. Ma Filosofia come “la nottola di Minerè evidente che la loro soluzione non va” che “inizia il suo volo soltanto riguarda cosa scriveranno un giorno sul fare del crepuscolo”. La Filosofia, di noi nei libri di storia, bensì concerdunque, sarebbe come la civetta di ne innanzitutto il senso profondo delle Minerva (divinità, tra l’altro, della nostre azioni, dei nostri progetti; in sapienza), che sorvola sui fatti della breve: delle nostre vite. Pare che la Storia una volta che questi si sono civetta del sapere umano – nelle sue già pienamente compiuti e consumacaotiche forme odierne di economia, ti – acquisendone un’immagine non scienza, psicologia, sociologia, etc. – a caso aerea. non abbia ancora sorvolato il nostro Alla Filosofia non compete allora evo. Fino ad allora, non potremo che nessun compito profetico, ma ‘solo’ confidare in una nottola di riserva... quello di comprendere appieno lo

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Filosofia, o il punto di vista di Dio di Cristiano Vidali

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e dovessimo dare un’immagine cinematografica esemplare della nostra concezione di verità, questa sarebbe indubbiamente un’inquadratura aerea. Si tratta del modello più classico di narratore onnisciente, punto di vista esterno per eccellenza e, pertanto, onnicomprensivo. Esso, infatti, può raccogliere una visione d’insieme, una comprensione totale rispetto al prospettivismo degli innumerevoli punti di vista umani, unilaterali e parziali. Questo sguardo apparentemente aprospettico, salvo dall’arbitrio e dall’opinione, è il nostro esempio

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STORIA DI COPERTINA

IL FUTURO DI UN FIUME. Il Po tra incertezze e scelte mancate Inchiesta di Francesco Casoni Foto di Maurizio Spano

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Una ventina di Associazioni hanno chiesto che il Grande Fiume diventi questione nazionale. La mancanza di regole comuni e la sovrapposizione di troppi Enti frenano ogni soluzione ai tanti problemi del Po.

IL "MANIFESTO PER IL PO"

del fiume ed è frutto di molte attività umane, dall’industria ll’agricoltura. Un problema ulteriormente aggravato dal mutamento climatico causato dall’uomo. Tra gli effetti già visibili, la siccità, che nel Delta significa anche risalita del cuneo salino, che “brucia” i terreni agricoli. Ma anche un pericoloso aumento dei fenomeni meteorologici estremi, disastrosi per i territori.

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ual è lo stato di salute del Grande Fiume? Per salvare il più importante corso d’acqua italiano un gruppo di organizzazioni l’anno scorso ha dato vita al “Manifesto per il Po”, dossier sui problemi del fiume, ma anche un invito a credere al potenziale di un territorio ricco di storia, cultura, bellezze da visitare e possibilità per un nuovo modello economico.

Eppure il territorio del Grande Fiume ha grandi potenzialità, che attendono solo di essere valorizzate. Non aiuta, sottolinea il “Manifesto”, la frammentazione della “governance”, divisa tra una miriade di soggetti, in cui manca una cabina di regia, capace di una visione d’insieme dei bisogni e delle risposte per il Grande Fiume.

Il Manifesto è stato firmato da Fai, Italia Nostra, Legambiente, Lipu, Wwf, Touring Club e molti altri (l’elenco è sul sito manifestoperilpo1.wordpress.com).

È da qui che siamo partiti, conversando con chi non solo lo conosce il Po, ma sa immaginarne un futuro.

Con i suoi 650 chilometri, il Po lambisce quattro regioni, in un continuo mutare di scenari e paesaggi. Venti milioni di italiani vivono in quest’area, tra le più popolate d’Europa e, purtroppo, anche tra le più inquinate. L’inquinamento riguarda l’aria, ma anche le stesse acque 13


STORIA DI COPERTINA

CHE COS'È OGGI IL PO? INTERVISTA A GUIDO CONTI

delle sue genti, con i loro destini sempre legati ai benefici e alla furia delle piene. Chiacchieriamo al telefono e partiamo proprio dall’identità. A qualcuno verranno in mente i riti con le ampolle alla sorgente sul Monviso, ma non è questo genere di identità che stiamo cercando.

“Cos’è il Po? È la cartina di tornasole di un problema gigantesco, la storia dell’Italia degli ultimi settant’anni, un modello di sviluppo che non funziona più”.

“Oggi tutti si sono impossessati della sua mitologia - commenta Conti -. Questo è un problema, ma è anche interessante, segnale che c’è un bisogno di identità, in un’epoca in cui la globalizzazione mette a soqquadro tutto”.

Se si vogliono cercare idee per affrontare il declino del Grande Fiume, occorre innanzitutto porsi il problema della sua identità. Cos’è il Po? Non si può non chiederlo a lui, lo scrittore Guido Conti, che nel 2012 ha dato alle stampe il poderoso e sognante libro “Il grande fiume Po” (edito da Mondadori), un vero e proprio viaggio dal Monviso al Delta, che del Grande Fiume ripercorre ed evoca storia, mitologia, letteratura, arte e tradizioni, ma anche le storie

Cos’è il Po, insomma? “Siamo una sedimentazione di storie, che dura da circa tremila anni. Questa è terra di invasioni e noi siamo il frutto di questa stratificazione di popoli”. È nel suo continuo cambiare, l’identità del Grande Fiume: “Il Po non è mai uguale a se stesso. Oggi attra14


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messi peggio di Pechino. Vogliamo dirlo?”

versa quattro regioni, ma già nell’Ottocento ci si poneva il problema di come renderlo unito: attraversava sei o sette regioni”, continua lo scrittore. Oggi, come nel passato, è un luogo cruciale della penisola. “È un grande confine, ma non un confine che separa l’Italia del nord da quella del Sud. Questa è una stupidaggine. È un confine che unisce l’Europa del Nord al Sud”.

Cosa fare, allora? Alla domanda, Conti risponde subito: “Occorrerebbe una rivoluzione culturale”. Ma mica ha in testa Mao Tse Tung, chiariamolo: “Intendo un cambiamento che parta proprio dalla cultura. Dobbiamo recuperare un’idea di cultura, fondamentale per cambiare direzione. Non è solo un discorso politico, ma culturale, perché alla politica di questo non frega niente. Cosa si fa, invece? Una nuova autostrada, una nuova diga”.

Un confine importantissimo fin dall’antichità. “Come mai Fetonte si butta nel Po? Chiediamocelo. Il Po era il confine più settentrionale dei commerci greci, lo testimoniano i reperti dei musei di Adria e di Spina. Sono queste le radici che dobbiamo recuperare”.

Il modello di sviluppo economico che ha dominato l’Italia per decenni sta mostrando i propri limiti, ma anche il proprio impatto devastante, spesso insanabile: “Sai cosa bisognerebbe fare? Cominciare a piantare dei boschi”. Sembra una proposta stravagante, ma nella pianura tra le più inquinate al mondo suona come la strada più sensata da imboccare, se si vuole sopravvivere: “Il modello di sviluppo del cemento e dei capannoni si è esaurito. Lascia le macerie di un periodo

E oggi, cosa resta del mitico fiume che per duemila anni ha ispirato letterati e poeti, da Virgilio a Guareschi? “L’hanno ridotto ad una fogna, lo scolo di quattro o cinque milioni di abitanti. La pianura padana è tra i territori più inquinati del mondo. Siamo

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STORIA DI COPERTINA

tri. Abbiamo visto l’inquinamento delle città lo scorso inverno”.

industriale che finirà alla svelta”. Un modello che ha sconvolto la natura della valle padana. “Quando hanno incanalato il Po, l’hanno distrutto - continua Conti -. La diga di Piacenza ha fermato la migrazione delle anguille. Nelle campagne sono sparite le rondini, che non trovano più dove nidificare. In compenso sono arrivati i gabbiani”.

Conti non ostenta ottimismo. Sarà per quello che vede scorrere lungo il Grande Fiume: “Il degrado morale di questo paese si rispecchia nel fiume. Una volta, pensa, il Po era pieno di cocaina: era quella che scaricavano i cessi di Milano. Dunque, recuperare un equilibrio perduto, significa anche recuperare l’etica di un paese”.

Perché c’è anche questo fenomeno: la natura si sta adattando al cambiamento. “Stanno cambiando le specie di pesci. Nelle nostre terre tornano gli istrici, i tassi, perfino i lupi per l’abbandono del territorio. È saltato l’equilibrio precedente, ma la natura si riadatta”. Noi saremo in grado di fare altrettanto? Per il momento, sembriamo più occupati ad avvelenarci: “Non parlatemi di coltivazioni bio in pianura padana - dice Conti -. In provincia di Pavia bruciano i rifiuti tossici, sotto l’alta velocità ne hanno sepolti al-

Sicuramente non è la politica il soggetto a cui delegare il cambiamento, sempre più urgente, mentre lo smog alle stelle provoca migliaia di morti, altro che la criminalità. “Forse si inizierà a fare qualcosa quando la gente morirà come le cavallette, quando ci sarà un’epidemia vera”. Paradossalmente, l’autore de “Il Grande Fiume” nutre più speranza negli ultimi arrivati. “Si fa grande polemica per l’accoglienza di otto africani in un paese, 16


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visto come qualcosa da fregare, è mancanza di rispetto verso ciò che è di tutti”. Per cambiare, bisogna prima immaginare. Che significa partire da un’immaginario, quello del Po, fatto di secoli di storia, arte, letteratura, cultura. “Senza l’immaginario - ribadisce lo scrittore - non fai nulla. Se vogliamo cambiare, dobbiamo iniziare ad immaginare il Po come un fiume in cui nuotano le trote. Un fiume bellissimo. E a quello rivolgerci”.

ma qui nel parmense intanto ci sono ventimila indiani del Punjab. Sono silenziosi, quasi invisibili, vivono nelle campagne, ma i loro figli frequentano le nostre scuole. Loro sono più integrati di noi”. Paradossale, ma non troppo: “Sai perchè sono qui? Perchè vengono da un paesaggio simile al nostro. Si sono più integrati loro, lungo il Po, di noi, che invece abbiamo perduto le nostre radici. Forse è qui la salvezza”. Proviamo a mettere insieme una “ricetta” per cambiare le cose. “La prima cosa da fare è rimettere in moto le idee - elenca Conti -. Basta una scintilla per accendere un fuoco”. Poi: “Andare in cerca di esempi positivi”. I territori sono pieni di iniziative, spesso piccole, in genere dal basso, che vanno nella direzione giusta”. Poi, dice lo scrittore, c’è la responsabilità personale: “Ognuno deve fare il suo. La mancanza di etica si vede anche dalla spazzatura gettata nei fossi. La mancanza di rispetto verso lo Stato,

BIBLIOGRAFIA DI GUIDO CONTI Della pianura e del sangue (Guaraldi, 1995) Sotto la terra il cielo (Guaraldi, 1996) Il coccodrillo sull'altare (Guanda, 1998) Premio Chiara 1998, Premio Montà d'Alba 1998, Premio Selezione Comisso 1998, Premio Stresa 1998, Finalista premio Loria 1998. I cieli di vetro (Guanda, 1999) Premio selezione Campiello 1999, Finalista Premio Alassio 1999, Finalista premio Società dei Lettori 1999. Il taglio della lingua (Guanda, 2000) La piena e altri racconti (Monte Università Parma, 2003) Un medico all'opera (Guanda, 2004), Premio Frignano 2005, Premio Fiesole per la narrativa Under 2005, Premio Settembrini per il racconto 2005. Il tramonto sulla pianura (Guanda, 2005) La palla contro il muro (Guanda, 2007), Premio Dessì, Premio Pisa, Selezione Premio Comisso 2007, Finalista premio Città dei lettori 2007, Finalista Premio Libero Bigiaretti 2008. Le mille bocche della nostra sete (Mondadori, 2010) Il grande fiume Po: una storia da raccontare (Mondadori, 2012) Premio Carlo Levi 2013 Il volo felice della cicogna Nilou (Rizzoli, 2014) Arrigo Sacchi. Calcio totale. La mia vita raccontata a Guido Conti (Mondadori, 2015) Nilou e i giorni meravigliosi dell'Africa (Rizzoli, 2015) Tra la via Emilia e il Po. Geografie letterarie e topografie immaginarie tra il Po e la via Emilia (Libreria Ticinum Editore, 2015) La profezia di Cittastella (Mondadori, 2016) Scrivere con i grandi (Bur Rizzoli, 2016)

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STORIA DI REM COPERTINA

DELTA DEL PO, UN'OCCASIONE MANCATA? INTERVISTA AD ANTONIO NICOLETTI

biente, quello dei Beni culturali o dello sviluppo economico. Dipende dall’indirizzo che si vuole dare, ovviamente”. Il Delta del Po e la sua storia lo dimostrano: non si può pensare allo sviluppo senza la cura del territorio. ”Il problema è che si continua a ragionare per pezzi separati: prima si fanno politiche in ambito produttivo e poi, eventualmente, si considera l’impatto ambientale. Alcuni contesti territoriali, come il Delta, hanno una grande vocazione ambientale. Questo non significa rinunciare allo sviluppo, ma occorre mettersi d’accordo su che tipo di crescita. Se vuoi raccontare una reindustrializzazione del Delta, non vai da nessuna parte. Si può invece puntare su altre forme di economia, ad esempio un tipo diverso di agricoltura”.

Il mancato riconoscimento del Delta del Po come parco nazionale è un’opportunità persa, per Legambiente. Ne parliamo con Antonio Nicoletti, responsabile Aree Protette dell’associazione ambientalista.

Può essere un territorio in cui sperimentare nuovi modelli? ”Il Delta ha una sua unicità, che è data dalla forza prorompente della natura. Qui conservazione e sviluppo locale sostenibile possono stare in equilibrio, ma da parte della politica locale c’è stata spesso una chiusura. Manca la forza di credere in un percorso del genere. Ci si preoccupa di affittare quattro botti ai cacciatori, per una visione miope dello sviluppo. Ci sono modelli virtuosi di riconversione industriale a nuove forme di economia “verde”, da cui si può prendere esempio”.

Partiamo dai problemi legati al Delta... ”Per quanto riguarda il Delta del Po, la finanziaria di quest’anno ha individuato una nuova entità, che unifica i due parchi regionali esistenti, ma di fatto cancella ogni previsione di un parco unitario e nazionale. Così si declassano i due parchi e viene a mancare una governance unica”. Si rischia di vanificare il recente riconoscimento da parte dell’Unesco? ”Il Mab Unesco è un riconoscimento, appunto, un brand. L’effettiva tutela del territorio passa per scelte politiche. Se le scelte vanno in altra direzione, il riconoscimento Unesco non serve a nulla. Il Delta del Po potrebbe essere un parco dal rilievo nazionale o addirittura internazionale. Così, invece, non viene valorizzato, e questo è frutto di una scelta ambigua, che vuole rispondere ad altri interessi. Noi lo ribadiamo: lo strumento per elevare questo territorio è un parco vero e può essere solo un parco nazionale”. Tra le criticità, si legge nel Manifesto per il Po, c’è l’assenza di una cabina di regia. Chi dovrebbe attuarla? ”La cabina di regia è nel patto territoriale, che Legambiente ha proposto: parte dallo Stato, che coordina una programmazione con le regioni, finalizzata ad ottenere obiettivi precisi. Poi a coordinare può essere il Ministero dell’am-

Il Delta rischia di soffrire pesantemente anche i mutamenti climatici in corso. Come si cambia rotta? ”Partiamo da nuovi modelli, ad esempio in agricoltura. A cosa servono produzioni che consumano grandi quantità di acqua ed energia? Troviamo un modello di agricoltura che sia più compatibile con la conservazione delle risorse. Questo cambiamento non va calato dall’alto, ma accompagnandolo in un processo graduale. Sempre ricordando, però, che ridurre le temperature è indispensabile: altrimenti perderemo un quarto delle specie viventi, oltre a subire ondate di calore nelle città”. C’è qualche possibilità di riparlare di parco nazionale? ”Un piano B al momento non c’è. Dipenderà dal nuovo governo”.

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IL TURISMO ”LENTO” E SOSTENIBILE INTERVISTA A MASSIMILIANO VAVASSORI

Il Po attraversa un’infinità di territori molto diversi. Come si può “raccontare” il Grande Fiume nella sua continuità? ”Il Po è una straordinaria, potenziale risorsa turistica per viaggi da compiere senza fretta, in chiave di esperienza e conoscenza, alla ricerca di un contatto più ravvicinato con la natura e la cultura: gli spalti erbosi degli argini sono splendide greenways per camminatori e ciclisti e a piedi si visitano i borghi e nuclei storici delle grandi città. Il fiume si naviga da Cremona e si ‘tallona’ a bordo di piccoli treni da Parma a Codigoro. L’automobile permette di legare le tappe in viaggi: l’ambiente solo apparentemente uniforme della pianura – tra interminabili rettilinei e diversioni tra campi e cascine a seguire, perdere, ritrovare il corso del fiume – la riconsegna alla sua dimensione originaria di mezzo di trasporto versatile e libero.

Tra gli estensori del Manifesto per il Po, anche il Touring Club, che guarda al Grande Fiume come luogo in cui sperimentare nuove forme di turismo “lento” e sostenibile. Ne parliamo con Massimiliano Vavassori, direttore del Centro Studi del Touring.

Sfilano i paesaggi: il breve, ripido corso montano, la successione degli affluenti, le scenografiche sponde torinesi, l’orlo di colline del Monferrato, le risaie, i campi di cereali, la pianura che si distende tra rogge e canali, “immenso deposito di fatiche” per il lombardo Carlo Cattaneo, capace di continue sottili variazioni. Variazioni nelle forme

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rispetto alla media nazionale: solo la provincia di Rovigo si avvicina al dato italiano.

del lavorare e dell’abitare in campagna – grandi cascine lombarde, casali emiliani, casoni nel Delta – e in città – prestigiosi centri d’arte, piccole capitali storiche e paesi sotto l’argine intorno a portici di piazze. È il “grande fiumepadre”, nelle parole di Gianni Brera, a unificare atmosfere e suggestioni nel mutare dei luoghi e degli spunti di visita”.

Per quanto riguarda gli attrattori di interesse turistico-culturale, nell’area del Po si concentrano oltre 2.500 beni, ossia il 10% di quelli in Italia e circa un quarto di quelli del Nord. Il maggior numero di chiese e abbazie è nelle province di Parma, Cuneo e Alessandria. Palazzi e residenze sono 417, principalmente tra Alessandria, Torino, Mantova, Parma e Cuneo. Dei 284 castelli e fortificazioni, la metà sono nelle province di Alessandria e Cuneo. Appena 30 i monumenti dell’antichità, circa il 3% dei 1.100 in Italia. È invece elevato il numero di giardini storici, il 22% del paese: la sola Ferrara ne ha 46 e con Parma fa segnare il 60% di tutta l'area. Torino ha il maggior numero di musei. Quanto alle Bandiere Arancioni – il marchio di qualità del Touring Club per le piccole località dell’entroterra – nelle 13 province del Po sono 24 i paesi certificati (l’11% del totale) ma il loro numero scende a soli 4 se si considerano solo quelli nei pressi del fiume. In questo senso, questa iniziativa potrebbe essere promossa sul territorio e contribuire

L’offerta turistica appare decisamente disomogenea. Che turismo attrae il Po? ”L’area del Po ha circa 9.600 esercizi ricettivi, il 6% del totale nazionale, di cui quasi 2mila alberghieri e 7.700 tra alloggi in affitto, B&B e agriturismi, con 260mila posti letto. L’area del Po registra mediamente oltre 6 milioni di arrivi e 18 milioni di presenze, ossia circa il 5% del totale nazionale: la provincia di Torino pesa per quasi il 40%. La durata media del soggiorno varia molto in base al tipo di turismo: la media è di 3 giorni, ma il balneare fa registrare permanenze anche vicine ai 7 giorni, in particolare nelle province di Ferrara e Rovigo, mentre quello nelle città d’arte, o ancor più quello d’affari, si attesta sui 2 giorni. L’area del Po ha anche un basso grado di internazionalità

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alla valorizzazione del bacino”.

smo 2017-2022 alle iniziative promosse dal Mibact”.

Quali potrebbero essere gli elementi di attrattiva ancora da valorizzare? ”Sono quelli su cui si punta per un rilancio complessivo del Paese e per sfuggire al destino di un’Italia meta di un turismo massificato e disattento. Il rischio altrimenti è quello dell’overtourism, con un “consumo” rapido e devastante di ambiente, paesaggio, patrimonio culturale e tessuto sociale, ma anche con un impoverimento dell’esperienza turistica stessa. Sosteniamo da sempre un turismo consapevole, informato sulle conseguenze ambientali, economiche e sociali del viaggio, e responsabile. L’invito è a “rallentare”. Si sta affermando infatti una domanda di turismo “lento”, che significa riprendersi lo spazio del viaggiare, far rientrare lo spostamento stesso nella vacanza e riappropriarsi del tempo, con una fruizione del territorio non frettolosa, apprezzando la qualità dei luoghi, dei cibi e delle esperienze. Un nuovo orientamento trova riscontro fortunatamente anche nelle politiche pubbliche, dal Piano strategico del Turi-

Potrebbe essere un laboratorio di sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo? ”Il Po può costituire un laboratorio di sperimentazione per una via italiana al turismo del futuro. Ciò impone il ripensamento del racconto del nostro Paese e di questi territori, che oggi rispecchiano solo in minima parte la loro identità e la loro capacità attrattiva. Occorre poi lavorare per aprire i territori al turismo, con un nuovo modello di accoglienza, che significa ospitalità, non solo nel senso di ricettività. Comprende prodotti e servizi specifici, aspetti intangibili quali la cultura e il senso di responsabilità, elementi fondamentali per rendere il Po “accogliente” nel più ampio senso della parola”. Il tema è strettamente correlato anche all’esigenza di un modello di convivenza e valorizzazione della multiculturalità, di cui il turismo può essere fattore propulsivo, poiché mette in connessione cittadinanza e operatori con la comunità di viaggiatori, portatrice di valori, idee e culture anche molto diversi da quelli radicati localmente”.

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Biennale di Venezia 1948 Rossetti Gian, Cartolina originale Amilcare Pizzi, Milano

Il Fronte Nuovo delle Arti rivive a Lendinara

di Sara Milan

Numerose le iniziative in programma per l’intero 2018: incontri, conferenze, tavoli di studio e, naturalmente, mostre d’arte. 23

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icorre quest’anno il settantesimo anniversario dall’inaugurazione della XXIV Biennale d’Arte di Venezia, che vide il diretto coinvolgimento di Giuseppe Mar-


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chiori, noto critico d’arte lendinarese. La biblioteca “F. Baccari” di Lendinara, in qualità di custode del suo archivio, intende quindi cogliere l’opportunità di parlare di questo illustre personaggio, al fine di promuoverne la figura e celebrarne la memoria. Numerose le iniziative in programma per l’intero 2018: incontri, conferenze, tavoli di studio e, naturalmente, mostre d’arte. In autunno, in collaborazione con la prestigiosa Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, si potrà infatti ammirare la collezione privata dei dipinti e dei cataloghi, che hanno reso Giuseppe Marchiori tra i critici d’arte più conosciuti in Italia. A coronare le celebrazioni, un prodotto editoriale indispensabile sia per documentare la ricorrenza, sia per approfondire lo studio del personaggio e del contesto storico-artistico del secondo dopoguerra. La XXIV Biennale di Venezia, maggiormente nota come la Biennale del ‘48, è considerata un’edizione epocale, in primis per la sua valenza simbolica: la rinascita culturale dopo gli anni bui della seconda guerra mondiale. Quella del ‘48, infatti, fu la prima Biennale dopo l’interruzione dovuta al conflitto, ed ebbe la responsabilità di mandare al mondo un chiaro segnale di ripresa; di infondere energia e slancio per il futuro. L’allestimento di padiglioni nazionali, Sopra: Catalogo illustrato della Ventiquattresima esposizione internazionale d'arte della città di Venezia, MCMXLVIII Nella foto sotto: la sala del Fronte Nuovo con Marchiori seduto di profilo (Archivio Comune di Lendinara) 24


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come quello della Cecoslovacchia ad esempio, che da poco era tornata indipendente dalla Germania, ebbe evidenti implicazioni politiche. Simbolicamente, Venezia rispose con l’Arte e con la Cultura all’impellente, internazionale esigenza di stabilire un dialogo pacifico tra i popoli, nata nel secondo dopoguerra e concettochiave della nostra Europa moderna. La Biennale del ‘48 fu inimitabile anche per la caratura intellettuale della direzione, delle giurie e dei commissari: i più grandi storici dell’arte del XX secolo, che sono tuttora studiati, ammirati, citati, si ritrovarono infatti a collaborare fianco a fianco. Come una sorta di Olimpo dell’arte, basti citare: Rodolfo Pallucchini, Roberto Longhi, Lionello Venturi e Umbro Apollonio. Tra questi, Giuseppe Marchiori, che divenne curatore: non più solo puntuale osservatore come giornalista d’arte, ma anche protagonista attivo nell’organizzazione e nell’allestimento. Curò la personale di Mario Mafai, le retrospettive su Arturo Martini, Gino Rossi e Scipione; collaborò per la mostra “Tre pittori italiani dal 1910 al 1920” dedicata a Carlo Carrà, Giorgio De Chirico e Giorgio Morandi. Sicuramente l’intervento più importante fu, tuttavia, quello nelle sale 39 e 40, dedicate al Fronte Nuovo delle Arti.

Manifesto della Biennale di Venezia del 1948 25


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Dino Jarach (1914-2000), Peggy Guggenheim con un dipinto di Pegeen alla Biennale di Venezia, 1948, Stampa a posteriori, Stampa alla gelatina d’argento. Courtesy of Peggy Guggenheim Collection Archives, Venice Solomon R. Guggenheim Foundation Photo Archivio Cameraphoto Epoche Gift, Cassa di Risparmio di Venezia, 2005

Renato Birolli, Antonio Corpora, Nino Franchina, Renato Guttuso, Leoncillo Leonardi, Ennio Morlotti, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Emilio Vedova, Alberto Viani furono gli artisti militanti nel Fronte, esposti alla Biennale del ‘48. Artisti emergenti, uniti insieme non dalla scelta stilistica ma dall’intento di dare spazio al rinnovamento dell’arte che prendeva già corpo in Europa. Il

Fronte Nuovo delle Arti non fu solo il gruppo artistico italiano più conosciuto e discusso del dopoguerra, ma un vero e proprio movimento, fondato nel 1946 a Venezia inizialmente con il nome di Nuova Secessione Artistica Italiana dallo stesso Giuseppe Marchiori. Fu proprio Marchiori, infatti, a scriverne il manifesto e a tessere diplomaticamente i rapporti, tra Venezia, Roma e Milano, con artisti e gallerie. 26

Ideologicamente, si guardava a Picasso e alla sua opera Guernica, come i riferimenti dai quali sviluppare una nuova avanguardia. Tuttavia, le anime artistiche che composero il movimento furono così eterogenee da diventare discordanti e il Fronte Nuovo delle Arti si sciolse nel 1950. Ognuno con le proprie peculiarità stilistiche, figure come quelle di Vedova


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e Guttuso riuscirono comunque ad imporsi sul panorama artistico internazionale e a rinnovare effettivamente l’arte degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento. Celebrare il settantesimo anniversario dalla Biennale del ‘48 è pertanto una preziosa opportunità per indagare sul ruolo che Giuseppe Marchiori giocò nella storia dell’arte del Novecento.

Nella foto, da sinistra: Pizzinato, Santomaso, Vedova e Marchiori al ristorante "All’Angelo" a Venezia nel 1950 la sera dello scioglimento del gruppo del Fronte Nuovo delle Arti (Archivio Comune di Lendinara)

Bibliografia essenziale dei contributi più significativi per approfondire la figura di Giuseppe Marchiori: Giuseppe Marchiori e il suo tempo. Mezzo secolo di cultura artistica e letteraria europea visto da un critico d'arte. A cura di Sileno Salvagnini. Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, 1993. Da Rossi a Morandi, da Viani a Arp. Giuseppe Marchiori critico d'arte. A cura di Sileno Salvagnini. Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, 2002. L'Anonimo del Novecento. Giuseppe Marchiori dagli esordi all'affermazione nella critica d'arte. Nicola Gasparetto. Apogeo Editore, 2017.

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Gianni Celati Storie senza inizio né fine di Vainer Tugnolo

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...il suo vagare attraverso la Pianura Padana e la sua propaggine estrema, il Delta, un territorio percorso di frequente in cammino, lungo gli scoli di campagna e sopra gli argini dei fiumi, con l’ausilio di un taccuino consunto su cui annota frammenti di pensieri e di sogni, mescolandoli alla leggerezza di uno sguardo circolare.

ggi sembra che i docenti universitari siano costretti da un boia superiore a fare i boia dei testi letterari estraendo qualcosa che si dovrebbe chiamare il significato di un racconto.

Se c’è un’affermazione di Gianni Celati che spiega bene il suo modo di vedere e di attribuire alla letteratura uno scopo possibile, per nulla scontato, è quella appena citata: in pochi, nel panorama culturale italiano, si sono scagliati contro le abitudini consolidate di un certo modo di fare critica, di studiare e di interpretare i racconti, di spiegare i testi e gli autori, di scavare nel significato delle parole e nelle intenzioni del narratore: un vortice potentissimo, una volontà instancabile, vorace, di ridurre tutto a una stringa, a un’equazione con un’unica, accettabile, illuminata soluzione.

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Sui docenti universitari Celati aveva le idee chiare: “la maggior parte tengono alla loro materia come un territorio in cui gli estranei non possono metter piede. C’è uno scrupolo di spiegare: una delle grosse colpe dei professori seri è il volere il dato di fatto, l’asserzione, la spiegazione, questo blocca l’immaginazione, la fantasia”. È l’inizio di un allontanamento progressivo, dopo gli anni di insegnamento al DAMS di Bologna a partire dalla seconda metà degli anni ’70, dai modi di fare e di imporre una certa didattica, dentro e fuori gli atenei italiani, tanto da indurlo a fuggirne il prima possibile. Troppo lontani dai meccanismi del sistema culturale, dalla scuola all’editoria, il ruolo e il significato che Celati attribuiva alla narrazione nel suo complesso, troppo diverse le origini e la funzione che la dimensione del racconto aveva sempre ricoperto, secondo lo scrittore emiliano, ma nato a Sondrio, nella cifra delle relazioni umane. Le storie non hanno un inizio e una fine, ma c’è un flusso che scorre per sempre, il vero gioco del narrare deve in qualche modo illudere che i fatti siano collegati l’uno all’altro, che sorga evidente, dagli intrecci fra le parole e le visioni che richiamano, la costante presenza di un prima e di un dopo. “Una cosa che non si può insegnare ai bambini, che si apprende dai processi familiari e quotidiani. Conta veramente solo l’aspettativa di ciò che deve accadere, l’unica vera giustificazione del raccontare, e anche dello scrivere”. Una visione che Celati traduce molto bene anche negli scritti prodotti durante il suo vagare attraverso la Pianura Padana e la sua propaggine estrema, il Delta, un territorio percorso di frequente in cammino, lungo gli scoli di campagna e sopra gli argini dei fiumi, con l’ausilio di un taccuino consunto su cui annota frammenti di pensieri e di sogni, mescolandoli alla leggerezza di uno sguardo circolare. Il retroterra mentale, fatto di incontri, progetti e riflessioni, che porta a libri come Narratori delle pianure e Verso la foce, è costituito innanzitutto dall’incontro con il fotografo Luigi Ghirri, nel 1981, che gli propone di partecipare a un grande progetto di descrizione del paesaggio italiano. Nell’ambito di questo lavoro, che vede la partecipazione anche di nomi che diventeranno a breve figure importanti nel panorama italiano della fotografia (Guido Guidi, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri ed altri, circa una ventina), a Celati viene affidato il compito di scrivere sul paesaggio

post-industriale del nostro Paese: questa la ragione per la quale inizierà a girare per le campagne della Penisola, con Ghirri e da solo, a piedi e in autobus. Con i quattro diari di viaggio di Verso la foce, resoconto anche dei passaggi sul Delta, fra il 1983 e il 1986, Celati registra il flusso di luoghi dove non accade nulla di eclatante e il quotidiano scorre lento: sembra quasi coglierne il respiro, comprese le apparenze, ma senza quello che potremmo definire il senso, e senza manifestare alcun distacco, né disprezzo. Un incontro importante, quello con Ghirri e gli altri fotografi, verso i quali Celati dimostrerà ammirazione e vicinanza: nel loro lavoro ritroverà infatti la sua visione, quello sguardo capace di rompere le catene del realismo ad ogni costo e di introdurre gli elementi fondamentali, e così strettamente indispensabili, per la lettura del mondo: il sogno, l’aria, il fantastico. “È il modo di lavorare dei fotografi che mi ha conquistato, mi è sembrato più onesto, più pulito, più artigianale e soprattutto più esposto all’esterno e quindi senza questi giochi dell’interiorità, dell’interiorizzazione, che tutti i letterati tirano avanti per tutta la vita”. Per certi aspetti completamente nuovo, e nello stesso tempo coinvolgente quanto necessario, il progetto di Viaggio in Italia ha avuto lo stesso ruolo che hanno saputo ricoprire i registi del neorealismo italiano nell’immediato dopoguerra. La capacità di guardare alla realtà che Celati riconosce ai fotografi è la stessa che aveva infatti colto in registi come Rossellini e Antonioni, e prima ancora nella dirompente novità di Visconti quando, in Ossessione, il protagonista cammina sulla strada sospesa, perduta in uno sconosciuto paesaggio polesano, che conduce alla Dogana di Polesella. È una realtà nuova, che quasi si confonde con l’apparenza. In questo senso Il neorealismo, liberando i film dalle icone e dagli eroi, ha fatto un passo indietro portandoci di nuovo a osservare “per singole entità empiriche, cosa per cosa”, togliendo la generalizzazione che caratterizza il modo adulto di ragionare e “diventando istruttivo sull’ordine del mondo”. È la cifra che Celati, dopo averla cercata e trovata nelle opere di scrittori che non compaiono fra i nomi più noti della letteratura ufficiale come Alberto Vigevani, Rocco Brindisi e Anna Maria Ortese, inserirà anche nei documentari, se così possiamo ancora definirli alla luce della peculiare natu30


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Foto Luciano Cappelli, courtesy Gianni Celati e Paola Lenarduzzi 31


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invece, ci affidava questa riflessione: “Per noi è l’incrocio fra la natura e la cultura, quindi, in un certo senso, il luogo della distruzione”, comunque qualcosa che “non è delimitabile, una circolarità della visione che non finisce mai”. Ermanno Cavazzoni ci ricorda, con le parole di oggi, quale era stata allora l’idea di fondo che Celati aveva più o meno tenuta nascosta dietro la genesi di questo bizzarro pellegrinaggio attraverso lembi dispersi di pianura, quella di pensare, in definitiva, al breve cammino di Strada provinciale delle anime come a una metafora della vita: si nasce, si incontrano delle persone, si percorrono insieme dei tratti di strada e poi a un certo punto tutto finisce. È l’incontro con le signore che passano in bicicletta, le coppie anziane che camminano, i ragazzi che si affacciano alla finestra, secondo Cavazzoni, che ci riporta alle istantanee del quotidiano: come passando in treno, verso sera, vicino alle case e rubare piccoli frammenti di vita domestica catturati dalle finestre, fotogrammi di altre vite che avrebbero potuto essere le nostre.

ra del suo sguardo, che girerà a partire dagli anni novanta. Angelo Guglielmi gli chiederà di realizzare per Rai Tre un film ispirato a Verso la Foce: ne uscirà Strada provinciale delle anime, nel 1991, uno strano viaggio a cui partecipa un gruppo di amici e parenti di Celati, circa una trentina di persone, che attraverseranno in autobus, per una settimana, il Delta del Po. Un percorso condotto lungo le pieghe di un paesaggio che raggiunge l’affetto, il sentimento, che normalmente suscita l’apparizione dei luoghi. Della comitiva fanno parte alcuni fra coloro che hanno accompagnato Celati in diverse iniziative editoriali e che hanno trovato con lui le ragioni di una rinnovata affinità intellettuale: Ermanno Cavazzoni (dal suo Poema dei lunatici Federico Fellini aveva tratto il suo ultimo film, La voce della luna), Alberto Sironi (attuale regista del Montalbano televisivo) e naturalmente Luigi Ghirri. È il fotografo di Scandiano che durante il viaggio, ogni volta che scattava una foto di gruppo ai gitanti, urlava “fate finta di essere voi stessi!”. A proposito del paesaggio

Gianni Celati marzo 1983, foto di Luigi Ghirri 32


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Gianni Celati, insomma, il traduttore di Céline, Swift, Melville, Joyce e Stendhal, difenderà sempre fino alla fine l’idea che il racconto non sia mai qualcosa di originale, ma sempre un ambito di singolarità, figlio di un particolare momento della vita. Scrittori e registi saranno sempre per lui coloro che, invece di penetrare all’interno dell’altro, cercheranno solamente di leggerne i comportamenti, raccontando la realtà grazie all’abbandono della veduta “retinica”, basata sul documento, e guardando invece all’interno, con uno sguardo permeato da un respiro più intenso, e mescolato con la memoria, la fantasia e l’immaginazione. La dimensione più preziosa del racconto è quella che ne viene in un certo senso esclusa, che si muove all’esterno, proprio come Ghirri spiegava a proposito della fotografia: ciò che ne rimane fuori è la cosa più importante e la foto ne è il più preciso metro di misura. Il professore che se ne è andato dall’Università sbattendo la porta, che dando le dimissioni ha superato la “disgrazia” rappresentata dai colleghi, che non sopportava gli esami perché “qualsiasi parola detta ad un esame universitario è falsa ed è un omaggio alla burocrazia ministeriale”, ci ha riportato dunque ad una letteratura intesa come divagare della mente, dove la fantasticanza è la parola più giusta perché è “una fase distensiva del corpo, un rilassamento che permette di fantasticare di più...” Accadde anche a Mozart, in un esempio molto caro a Celati, mentre suonava, durante un concerto, davanti ad un Principe. “Una melodia molto bella – disse il Principe – ma cosa significa?” “Cosa significa? – rispose Mozart – “Ora glielo spiego”. E si rimise a suonarla daccapo.

BIBLIOGRAFIA DI GIANNI CELATI

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Comiche, Torino: Einaudi, 1971; Macerata: Quodlibet 2012 (a cura di Nunzia Palmieri) Le avventure di Guizzardi, Torino: Einaudi 1972; Milano: Feltrinelli 1989 e 1994 La banda dei sospiri, Torino: Einaudi 1976; Milano: Feltrinelli 1989 e 1998; Macerata: Quodlibet 2015 Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Torino: Einaudi 1975, 1986 e 2001 Lunario del paradiso, Torino: Einaudi 1978; Milano: Feltrinelli 1989 e 1996 Alice disambientata, Milano: L'erba voglio 1978; Firenze: Le lettere 2007 Narratori delle pianure, Milano: Feltrinelli 1985 e 1988 Quattro novelle sulle apparenze, Milano: Feltrinelli 1987 e 1996 La farsa dei tre clandestini. Un adattamento dai Marx Brothers, Bologna: Baskerville, 1987 Verso la foce, Milano: Feltrinelli 1988 e 1992 Parlamenti buffi, Milano: Feltrinelli 1989 L'Orlando innamorato raccontato in prosa, Torino: Einaudi 1994 Recita dell'attore Attilio Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto, Milano: Feltrinelli 1996 Avventure in Africa, Milano: Feltrinelli 1998 e 2000 Cinema naturale, Milano: Feltrinelli 2001 e 2003 Fata Morgana, Milano: Feltrinelli 2005 Vite di pascolanti, Roma: Nottetempo 2006 Costumi degli italiani 1: Un eroe moderno, Macerata: Quodlibet 2008 Costumi degli italiani 2: Il benessere arriva in casa Pucci, Macerata: Quodlibet 2008 Ma come dicono di vivere così, Viadana: FUOCOfuochino 2009 Sonetti del Badalucco nell'Italia odierna, Milano: Feltrinelli 2010 Cinema all'aperto, Roma: Fandango Libri, 2011 (con i DVD di Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri e Case sparse) Conversazioni del vento volatore, Macerata: Quodlibet 2011 Passar la vita a Diol Kadd. Diari 2003-2006, Milano: Feltrinelli 2011 (con il DVD del film Diol Kadd); 2012 (nuova ed. rivista dall'autore, senza DVD) Selve d'amore, Macerata: Quodlibet 2013 Romanzi, cronache e racconti, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, Milano: I Meridiani Mondadori, 2016 Studi d'affezione per amici e altri, Macerata: Quodlibet 2016 Un eroe moderno, Macerata: Quodlibet 2017

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L'Archivio di Stato di Rovigo Un Ente di tutela, conservazione, valorizzazione, formazione e ricerca

di Cristina Sartorello foto di Gabriele Trevisan

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Archivio di Stato di Rovigo, istituito nel 1964, è ospitato fin dalla sua apertura, nel 1967, nell’ex sede del Seminario vescovile in via Sichirollo 9, un complesso prestigioso progettato dall’architetto vicentino Domenico Cerato, intorno al 1777. Assai ristrutturato all’in-

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terno per far posto ai depositi dell’Archivio, tranne le due bellissime sale dell’antica Biblioteca e del Teatro, l’edificio ospita oggi circa 8.000 metri lineari di documentazione archivistica per un complesso di oltre 40.000 unità archivistiche, a dimostrazione di quanto prodotto in sette secoli da magistrature e istituzioni pubbliche e private del territorio polesano. L'Archivio di Stato di Rovigo è organo periferico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo e conserva la documentazione prodotta dalle amministrazioni periferiche preunitarie e dagli uffici statali della provincia anteriore all'ultimo quarantennio; gli archivi degli enti ecclesia-

stici e delle corporazioni religiose soppresse; gli atti dei notai di Rovigo e provincia rogati a partire dal XIV secolo e fino alla fine dell'Ottocento; gli archivi storici di enti pubblici non statali depositati volontariamente; gli archivi privati di interesse provinciale. Inoltre garantisce la conservazione e la consultazione dei documenti custoditi; garantisce la fruibilità del proprio patrimonio documentario anche mediante l'implementazione e l'informatizzazione degli strumenti di consultazione; promuove la valorizzazione del patrimonio documentario conservato per mezzo di mostre e altre attività scientifiche (conferenze, seminari, convegni, pubblicazioni e partecipazione ad eventi culturali in 36

collaborazione con altri enti e istituzioni), nonché attraverso la formazione e laboratori di ricerca storica. L'Archivio svolge anche il servizio di tutela degli archivi statali e di consulenza per le amministrazioni pubbliche della Provincia e su incarico della competente Soprintendenza Archivistica per il Veneto svolge ispezioni presso uffici pubblici non statali e archivi privati. Il fondo Catasti Storici dell'Archivio di Stato di Rovigo comprende la documentazione cartografica, con le relative descrizioni ad uso fiscale, dei Comuni della Provincia versata dall'Ufficio Tecnico Erariale di Rovigo nel 1971. Il fondo comprende 72 mappe e 34 registri del periodo


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napoleonico (a partire dal 1810) e 4090 mappe, 1141 registri e 1108 buste di documenti dei periodi austriaco e italiano fino al 1927. Il nuovo direttore, dott. Emanuele Grigolato, mi racconta il suo percorso scolastico: dopo la formazione classica universitaria, con laurea in lettere e tesi in biblioteconomia, è diventato bibliotecario e collaboratore nella Biblioteca del Seminario con annessa Tipografia, poi è passato alla Biblioteca Marciana di Venezia e poi all’Archivio di Stato di Rovigo. Il direttore mi illustra il ruolo dell’archivista, che è quello di conservare non solo i documenti, di comprenderli e di permettere l’utilizzo ai cultori di storia,

tutto in una documentazione analogica non digitale. Nell’archivio sono presenti atti notarili dal XIII secolo in poi, conservati in contenitori appositi che costituiscono le unità archivistiche; sono buste di cartone aperte o chiuse, per non accumulare polvere, che contengono documenti cartacei, solo carte perché gli archivi non sono digitali, i documenti digitali vengono prodotti ora e arriveranno nei prossimi anni. Il materiale archivistico che entra diventa parte dell’Archivio di Stato ed equivale a Demanio dello Stato, cioè patrimonio della cultura statale ed arriva già selezionato dai vari enti, ad esempio dalla Questura o Prefet37

tura, Intendenza di Finanza ed altri uffici statali, sempre con la consulenza degli archivisti, quindi da archivio corrente dopo un anno diventa archivio di deposito e dopo circa 40 anni diventa archivio storico e può essere versato all’Archivio di Stato. Fino a qualche tempo fa c’erano documenti riservati per motivi politici, ora il tempo è trascorso e rimane l’unica riserva per i dati super sensibili, per i quali sono necessari almeno 70 anni prima della libera consultazione, come le cartelle dell’ospedale psichiatrico soggette a consultazione regolamentata. Gli archivi militari non arrivano ne-


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gli archivi di stato, ma recentemente sono arrivate dal Distretto Militare di Padova le Liste di Leva fino alla classe 1945 e i Fogli Matricolari dei soldati che hanno partecipato alle guerre mondiali, mentre gli archivi della Questura ed il Casellario Politico entrano in Archivio dopo 50 anni e, comprendendo anche informazioni riservate come quelle sulle epurazioni per le leggi razziali, sono sottoposte alla legge sulla privacy e al Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi storici. L’archivio catastale storico arriva fino a 50 anni fa ed i geometri per le mappe e gli avvocati per problemi

ereditari di usucapione si rivolgevano al catasto, mentre ora è tutto è online, ma gli archivi conservano comunque il loro valore amministrativo e storico. Molto spesso si svolgono attività didattiche con le scuole medie e con le scuole superiori per l’alternanza scuola-lavoro; gli studenti universitari svolgono tirocini formativi di paleografia, storia, diplomatica ed archivistica ed in questo fanno ed imparano a fare ricerca. Nell’archivio ci sono otto km di documentazione, che richiederebbe più personale, ma l’ultimo concorso prevedeva la laurea, la specializzazione in archivistica ed un master, perché prima di essere in grado di svolgere questa professione serve lo studio della documentazione, poi la 38

pratica con i registri ed ora l’inserimento dei dati nel sito costantemente aggiornato. Molti brasiliani si rivolgono all’archivio per avere notizie dei loro parenti, in quanto 65mila polesani sono emigrati dal 1875 al 1900 in Brasile ed Argentina ed allora rappresentavano un terzo della popolazione della provincia e chiedendo l’applicazione dello “Iure sanguinis” possono avere la cittadinanza italiana, poiché dimostrano di essere discendenti di un italiano. Questo è un vantaggio per una motivazione culturale e previdenziale e per poter girare liberamente in Europa come cittadini europei, mentre coloro che in Brasile sono professioni-


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sti affermati lo fanno per la motivazione culturale che sentono molto forte. Si è trattato di una emigrazione di massa e il Veneto è stata la prima regione per numero di migranti e dal 1875, in un secolo, sono partiti tre milioni e mezzo di Veneti, perché il paese era povero dopo le guerre ed il Socialismo è nato qui proprio perché la gente viveva in condizioni precarie; nel 1884 il regno del Brasile aveva abolito la schiavitù nelle fazende e gli schiavi erano stati sostituiti con i contadini ed i braccianti. La professione dell’archivista (dopo gli studi di archivistica, biblioteconomia, paleografica e diplomatica), non

trasforma in un topo da biblioteca, il lavoro consiste nell’aggiornamento degli inventari e delle schede descrittive dei fondi archivistici conservati negli Archivi di Stato, che ora sono disponibili anche in internet, inoltre si occupa dei progetti di tutela, conservazione, valorizzazione, formazione e ricerca, oltre alla pubblicazione di testi inerenti la materia specifica. L’Archivio di Stato è ora collocato in uno stabile non demaniale, insufficiente per conservare tutto il materiale, compreso quello del Tribunale che ancora deve arrivare, quindi la speranza del dottor Emanuele Grigolato, in continuità con il dott. Luigi Contegiacomo, precedente direttore, 39

è che l’archivio si trasferisca nella ex caserma Silvestri, insieme ad altre amministrazioni pubbliche, per diventare la cittadella degli uffici pubblici, ma questo non è ancora nella fase operativa e ci vorranno alcuni anni. Quando si visita un archivio di Stato si entra davvero in un altro mondo, basta non essere allergici alla polvere!



SUONI

Quest’estate fai un pieno di libertà “Arte per la libertà”, il festival della creatività per i diritti umani

di Marta Dolcetto

Proseguendo il percorso iniziato lo scorso anno, l’obiettivo è quello di creare una maggiore coscienza sul tema dei diritti umani attraverso tutte le espressioni d’arte. 41

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ono ancora i diritti umani i protagonisti delle iniziative culturali che riempiranno l’estate delle province di Rovigo, Padova e Ferrara grazie alla rinnovata collaborazione tra “Voci per la Libertà - Una Canzone per Amnesty” e “DeltArte - Il delta della creatività”.


SUONI

I due festival, nuovamente insieme, continuano la loro proposta artistica in “Arte per la Libertà”. La formula, rafforzata dalla precedente edizione che si è rivelata vincente, sostiene anche quest’anno i diritti umani attraverso tutta l’arte e, a conferma del successo ottenuto, l’orizzonte territoriale si estende, non fermandosi alla sola provincia di Rovigo. Proseguendo il percorso iniziato lo scorso anno, l’obiettivo

è quello di creare una maggiore coscienza sul tema dei diritti umani attraverso tutte le espressioni d’arte. Gli eventi spaziano, infatti, dall’arte contemporanea, alla musica, dal teatro al cinema, dalla fotografia alla danza, nella convinzione che tali forme artistiche siano il mezzo per eccellenza, una lingua universale per generare e mantenere una cultura dei diritti umani, sostenendo così le iniziative 42


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poste in essere da Amnesty International, a cui il festival è legato. L’offerta, ricca altà, si è resa numerosi enti, sposizione da

“Sillumina - Copia privata per i giovani, per la cultura” e Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo attraverso il bando "CulturalMente Impresa". Dando uno sguardo al programma, il calendario si è aperto con i laboratori dedicati alle scuole: bambini e ragazzi sono stati i protagonisti di un’azione creativa fatta di musica, cinema e murales nei mesi di aprile e maggio. Gli studenti

e coerente con le anime di entrambe le repossibile attraverso la collaborazione con associazioni partner e i fondi messi a diMiBACT, SIAE, nell’ambito dell’iniziativa

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SUONI

sono diventati nuove voci al fianco di chi sostiene e lotta quotidianamente per il rispetto dei diritti umani nel mondo.

Taglio di Po a Lendinara, da Villadose a Costa di Rovigo il nostro territorio si sta caratterizzando sempre di più come un museo a cielo aperto. Particolarissime poi le due cacce alla street art a Loreo e a Comacchio. Grazie al documentario “Presi a caso” di Alberto Gambato e Laura Fasolin e prodotto dall'Associazione “Voci per la Libertà”, gli spettatori polesani e patavini hanno

Le anteprime sono state dedicate alla street art, al cinema e ai libri. Dal frutto di alcuni laboratori didattici “Arte per i diritti umani” hanno preso vita dei murales nati dal coinvolgimento di artisti di DeltArte e studenti delle scuole. Da

L'UOMO NERO Hai notato che l’uomo nero / spesso ha un debole per i cani Pubblica foto coi suoi bambini / vestito in abiti militari Hai notato che spesso dice / che noi siamo troppo buoni e che a esser tolleranti poi / si passa per coglioni Hai notato che gli argomenti / sono sempre più o meno quelli: rubano, sporcano, puzzano e allora / olio di ricino e manganelli Hai notato che parla ancora / di razza pura, di razza ariana ma poi spesso è un po’ meno ortodosso / quando si tratta di una puttana E tu, tu che pensavi che fosse tutta acqua passata / che questa tragica, misera storia non si sarebbe più ripetuta / Tu che credevi nel progresso e nei sorrisi di Mandela, tu che pensavi che dopo l’inverno sarebbe arrivata la primavera e invece no e invece no. Hai notato che l’uomo nero / spesso ha un debole per la casa A casa nostra, a casa loro, / tutta una vita casa e lavoro Ed è un maniaco della famiglia / soprattutto quella cristiana per cui ama il prossimo suo / solo se è carne di razza italiana Ed hai notato che l’uomo nero / si annida anche nel mio cervello quando piuttosto che aprire la porta / la chiudo a chiave col chiavistello Quando ho temuto per la mia vita / seduto su un autobus di Milano solo perché un ragazzino arabo / si è messo a pregare leggendo il Corano E tu, tu che pensavi che fosse tutta acqua passata / che questa tragica, lurida storia non si sarebbe più ripetuta / Tu che credevi nel progresso e nei sorrisi di Mandela, tu che pensavi che dopo l’inverno / sarebbe arrivata la primavera e invece no e invece no. E io, io che pensavo che fosse tutta / una passeggiata E che bastasse cantare canzoni / per dare al mondo una sistemata Io che sorseggio l’ennesimo amaro / seduto a un tavolo sui navigli pensando: “in fondo va tutto bene, mi basta solo non fare figli” E invece no, e invece no.

tratto dall’album A CASA TUTTO BENE di BRUNORI SAS 44


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avuto la possibilità di vedere il documentario sull'eccidio di Villadose, premiato nel 2016 con una Menzione Speciale al Premio “Filmare la Storia” di Torino. Cinque appuntamenti in 11 giorni, dal 16 al 27 aprile, inseriti come anteprime di “Arte per la Libertà”. Dopo il cinema, spazio al libro legato ai vent’anni del festi-

val musicale. Il volume, intitolato “Voci per la Libertà - Una Canzone per Amnesty”, curato da Michele Lionello e pubblicato da Apogeo Editore, racchiude in 176 pagine di foto, colori e testi i ricordi di tutti coloro che in questi anni sono passati per il festival iniziato a Villadose nel 1998. Hanno voluto dare un contributo molti dei protagonisti di 45


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questi due decenni, da Ivano Fossati a Daniele Silvestri, Carmen Consoli, Mannarino, Paola Turci, Simone Cristicchi, dal presidente di Amnesty International Italia Antonio Marchesi al portavoce Riccardo Noury; tanti i giovani artisti emergenti che raccontano il “loro� festival, le emozioni e gli aneddoti vissuti; sino ad alcuni dei volontari che rendono possibile ogni anno la manifestazione a Rosolina

Mare. Le presentazioni, in un mix di parole e musica, stanno diventando un biglietto da visita davvero importante per il festival, da Faenza a Villorba, da Rovigo a Monselice e ad Adria tanti appuntamenti legati al rapporto tra musica e diritti umani. Confermati come l’anno scorso gli eventi legati alle esibi46


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per il premio ad una canzone che non vuole cadere nella retorica scontata, ma tracciare la condizione di un uomo che si chiede cosa sia giusto fare di fronte al ritorno di vecchie forme d’odio che si pensavano scomparse.

zioni di fine anno di alcune scuole superiori di Adria e Badia Polesine e allo spettacolo “Il carcere in piazza”. Forte il legame con il territorio anche grazie agli eventi turistici come le crociere sul Delta del Po e le feste in spiaggia. Le proposte teatrali si sono ampliate con tre diverse rappresentazioni a Villanova Marchesana, San Bellino e Polesella. Tra le novità di questa seconda edizione di “Arte per la Libertà” la presenza della danza, con uno stage di balli e percussioni africani e alcune performance di danza contemporanea inserite negli eventi turistici e nel programma di “Voci per la Libertà”. E proprio il concorso è il cuore pulsante del festival, che dopo un compleanno importante è pronto per la ventunesima edizione che si terrà a Rosolina Mare dal 19 al 22 luglio. Come di consueto, cantanti e gruppi emergenti si alterneranno sul palco per far sentire la voce di chi non ha voce, con brani che si ispirano alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani per aggiudicarsi il premio Amnesty Italia Emergenti. Mentre è ormai noto il vincitore del Premio Amnesty Italia 2018, ossia Brunori Sas, con il brano “L’Uomo nero”, che riceverà il riconoscimento domenica 22. Ha ringraziato di cuore Amnesty Italia e “Voci per la Libertà”

Alle pag. 41 e 44: Dario Brunori in due foto di FM Photographers. A pag. 42: Cantieni Culturali Creativi (foto di Daniele Mantovani). A pag. 43: Murales di Riccardo Buonafede a Taglio di Po. A pag. 45: Una serata del Festival a Rosolina Mare (foto di Silva Rotelli). A pag. 46: Compagnia Teatro Nexus in "Donne Perdute" (foto di Angelo De Poli).

I numeri dell'edizione 2018: 26 comuni, 10 laboratori didattici, 5 proiezioni, 6 opere di street art, 3 rappresentazioni teatrali, 4 presentazioni del libro, 2 spettacoli di studenti, 1 stage, 2 eventi turistici, 24 concerti, oltre 200 artisti. Tutto il programma dettagliato su: www.arteperlaliberta.com www.vociperlaliberta.it www.deltarte.com

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A bordo delle motonavi e delle piccole imbarcazioni della famiglia Cacciatori potrete ammirare da un punto di vista privilegiato un insieme di ecosistemi ricchi di fascino, colori ed emozioni. Per scoprire a pieno il Parco sono indispensabili il birdwatching sul Po di Maistra e l'escursione tra le lagune ed i canneti che circondano Scano Boa, l'isola dove risiede il genius loci del Delta, mentre l'apogeo della visitazione slow è il bike&boat, l'escursione piĂš completa per vivere un territorio privo di un conďŹ ne tra terra e acqua.

Per info e prenotazioni:

Navigazione Marino Cacciatori Tel. +390426380314 +39 3347035765 www.marinocacciatori.it


PERSONAGGI

Graziano DonĂ la mia vita da bambino di Cristiana Cobianco

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Foto di William Guerrieri

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uesta volta comincio il racconto dalla fine. "Invecchiando si torna bambini... ma sa, io bambino lo sono sempre rimasto".

Questa frase in chiusura del mio incontro con Graziano Donà è stata la chiave per capire tutto il fascino che le storie appena ascoltate avevano


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avuto su di me. Graziano Donà è un uomo di settantacinque anni che pur se nato e vissuto a Rosolina profuma di esotico. Quando ho scoperto che il papà dell'amico Tobia Donà, curatore di mostre che ho molto apprezzato, è stato scenografo a Cinecittà e per il teatro, non ho potuto resistere alla tentazione di andare a farmi raccontare un po’ di vita d'artista. Nel mentre il figlio Tobia mi mandava foto delle continue creazioni di Graziano, a cui basta una camminata in campagna o in spiaggia per raccogliere, trasformare e produrre arte. Arrivo nella casa museo di Rosolina e mi accoglie un signore elegantissimo, leggermente stupito del mio interessamento nei suoi confronti e che, con leggerezza e spontaneità, mi racconta il suo vissuto scorrendo dagli anni Sessanta in poi pillole di storia. Ed è proprio la conferma di come siano le piccole storie a farci comprendere meglio una grande storia. Graziano passa l'infanzia in un luogo epico ora scomparso, il villaggio di Pozzatini nella valle di fronte a Porto Levante sulla via di Albarella. Mi racconta che dalle ampie vetrate della tipica costruzione abitativa polesana, tutto l’ispirava al disegno: le barche, gli uccelli, i tramonti, l'acqua. Il padre, che lavorava in valle allevando anguille, lo asseconda nella sua passione e gli permette di iscriversi ad architettura all'istituto d'arte di Padova che lui raggiungeva tutti i giorni in motorino da Rosolina, lungo gli argini. Poi grazie al consiglio di un bidello dell'Accademia di Belle Arti di Bologna, tra gli indirizzi Pittura e Scenografia, decide per il secondo "Per50


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ché a detta dell'autorevole bidello chi sceglieva pittura era destinato a far la fame". A quel tempo Scenografia era la via d'accesso alla professione che oggi chiamiamo Architetto d'interni ed è stato proprio questo il principale mestiere di Graziano Donà. Ma andiamo con ordine perché nel '67 Graziano, appena diplomato, è reclutato dal Teatro Comunale di Bologna per l'allestimento del "Vascello Fantasma", esperienza che tra il '68/'69 è il suo passaporto per Roma dove lavora per la Dear Film a Cinecittà come aiuto scenografo. Mi racconta divertito di quel mondo e degli incontri ravvicinati con importanti attori. Purtroppo l'esperienza s’interrompe velocemente per il servizio militare e per l'impossibilità di frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia, requisito necessario per restare a lavorare a Cinecittà. Ed è una volta assolto l'obbligo di leva a Casarsa in Friuli (paese di formazione di Pier Paolo Pasolini), che comincia il suo lavoro di architetto d'interni, che lo porta ad arredare case da sogno in Italia e all'estero. Particolarmente impegnativa la reggia di 5000 mq dei Mercegaglia a Gazzoldo degli Ippoliti. Ma è l'Africa degli anni Ottanta l'esperienza che attrae maggiormente la sottoscritta. In Congo, Gabon e Benin, è reclutato per disegnare e arredare le residenze di ministri e capi di stato delle colonie francesi. È qui che la piccola storia individuale aiuta a capire la grande storia. Chiedo a Graziano ricordi di questa esperienza e i suoi aneddoti mi stimolano ad approfondi51


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re alcune questioni geopolitiche. Mi racconta che sono stati anni di visioni surreali, di clima a cinquanta gradi in case super climatizzate, per accendere un caminetto di charme. La Francia sovvenzionava e forse sovvenziona ancora le follie dei suoi viceré. Inebriati dallo stile occidentale, le loro case erano arredate alla francese e le mogli dei padroni di casa (più di una), ogni fine settimana si recavano in aereo a Parigi per la messa in piega. Follie da colonialismo... che però Graziano controbilanciava facendo amicizia con la servitù. Solo così è ri-

uscito a visitare i villaggi africani e a sua volta a ricambiare la generosità di quel popolo ospitale, accogliendo a sua volta a Rosolina i suoi amici africani. Storie che andrebbero raccontate nelle scuole per capire se è veramente il caso di aiutarli a casa loro, visto il tipo di aiuto che l'Occidente ha dato finora. Queste conclusioni sono mie, Graziano è persona per niente polemica, anche quando mi racconta di come molte siano le persone che conosceva bene che in quegli anni morirono in Africa per quella malattia sconosciuta, che poi

abbiamo chiamato AIDS. Ma l'artista Graziano Donà esce quando comincio a guardarmi in giro nel suo studio e a chiedere di schizzi (foto) e oggetti. Non c'è in lui un tratto distintivo, se non quello di lasciare andare la sua fantasia. Nei quadri, nei ritratti... va a memoria. Mi racconta di come persone incontrate casualmente in treno, diventano i protagonisti dei suoi ritratti. Oggetti trovati per strada sono completati, come il piatto ricostruito da pochi frammenti, o la corteccia che diventa una maschera, il legno che si trasforma in un pesce o in una testa di cavallo. I ricordi d'infanzia sono disegnati nelle piastrelle del bagno. Graziano Donà ha realizzato sculture di arte pubblica a Rosolina e Porto Viro e nuovi progetti sono in cantiere, ma io personalmente sono rimasta affascinata dalle piccole opere spontanee, dal vedere oltre il materiale grezzo. Mi parla di come un bel giorno a Venezia, i suoi occhiali fanno un tuffo in canale. Tornato a casa immaginandone il ritrovamento dopo anni, si confeziona occhiali colonizzati da molluschi e conchiglie. Damien Hirst

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ci ha costruito un evento milionario, ma per far passare l'idea di tempo, finzione e trasformazione a Graziano sono bastati occhiali vecchi e minuscole conchiglie. Mi racconta del suo amico, l'artista Giorgio Mazzon, recentemente scomparso, del quale è stato maestro e con grande affetto nel corso della conversazione cita bidelli, insegnanti, compagni di accademia, in una sorta di gratitudine verso gli incontri fortunati della sua vita. Ed è proprio il senso di un destino buono che mi lascia il gusto di questo racconto. Graziano Donà è agli antipodi dell'Homo Polesano tipico, nessun lamento, nessuna invidia né alcun rimprovero verso chicchessia. Nel narrarmi che nel 2014 ha subito un brutto incidente dice: "Dopo aver girato per ospedali, aver visto il dolore, ho capito che se avessi lasciato questo mondo al momento dell'incidente, la mia vita sarebbe stata perfetta, spensierata, movimentata e incosciente - e continua -, ora ho conosciuto i due lati della medaglia ma ancora sono curioso come un bambino e mi entusiasmo con tutto".

A pag. 49: Graziano Donà nella sua casa di Rosolina. A pag. 50, sopra: testa di cavallo, legno di salice trovato in spiaggia, primi anni ’80. Sotto: dopo gli studi a Padova con il mascheraio Amleto Sartori nei primi anni ’60; maschera che si rifà alla tragedia greca, corteccia con buco, volto di Cristo in legno. A pag. 51, sculture in radica di legno, primi anni ’80. Sotto: pesce 1955, scheggia di legno trovata in spiaggia. A pag. 52: ricordi d’infanzia, smalto su ceramica: la casa natale, e Valle Veniera. Sotto: occhiali conchiglie e smalti, anni 2000. Qui sopra: autoritratto, matita su carta, 1959. 53


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LUOGHI

Città Giardino e architettura Liberty Le arti e la cultura di inizio ‘900 in Italia e in Europa

di Barbara Pregnolato

ll restauro di Villa Adria quale occasione per portare luce su una parte della città e della sua storia

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el mese di settembre 2017 è stato inaugurato il restauro del giardino di Villa Adria e dell’involucro esterno dell’edificio, oggi sede del Liceo Scientifico “BocchiGalilei” della città di Adria. L’evento, celebrato con una elegante serata di gala, ha visto succedersi momenti culturali legati alla villa (restauro a cura dell’architetto Marina Paparella) e al suo

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LUOGHI

Villa stile Liberty nei pressi della stazione ferroviaria di Adria

L’interesse architettonico dell’edificio è dato, oltre che dai tanti dettagli di stucchi, porte e ringhiere di artigiani rinomati della zona piuttosto che di Padova, dall’insieme del contesto di viale Umberto Maddalena in cui è inserito. Qui infatti ritroviamo i più bei esempi di ville ed edifici del periodo Liberty della città, diversi dei quali progettati dall’architetto Scarpari, fra questi villa Mecenati, oggi sede del Conservatorio “Antonio Buzzolla”, ma anche, di altro autore, la fabbrica del ghiaccio davanti alla stazione, oggi in stato di abbandono, e poco prima un altro edificio commerciale. Non lontano si trovava una delle prime fabbriche italiane per la zincatura a caldo dei metalli, fondata nel 1913 e attualmente utilizzata come spazio di vendita per un outlet monomarca.

progettista, l’architetto Giambattista Scarpari (18841962), oltre che momenti musicali e artistici realizzati dall’Istituto grazie ad un progetto sostenuto dal MiBact. Cosa quasi unica in un contesto per non addetti ai lavori, si è verificata quindi la bella occasione parlare di architettura e personalmente mi sono occupata di tratteggiare un quadro sul contesto internazionale del movimento dell’architettura Liberty e delle teorie sulla Città Giardino. L’elegante villa, infatti, presenta uno stile di impronta tardo neoclassica con cenni di Liberty, in particolare quest’ultimo tratto stilistico è rilevabile nella bella recinzione esterna. L’edificio venne realizzato nel 1928 dall’architetto adriese per l’onorevole Salvagnini a partire da una costruzione più modesta, anche se assunse l’aspetto attuale con l’aggiunta dell’ultimo piano nel 1968, quando era già passato di proprietà e divenne Casa di cura, per essere poi acquistato dalla Provincia e venire convertito definitivamente in liceo dal 1974.

Quest’area, in origine, rappresentava la periferia della città verso la campagna, potremmo dire la prima zona di espansione di Adria dal suo nucleo antico, il cui avvio fu dato dalla realizzazione della ferrovia Rovigo-Chioggia 56


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Fabbricato ad uso commerciale in viale Maddalena ad Adria

so le grandi utopie sociali e politiche diedero impulso al dibattito sulle città ideali. Ebenezer Howard (1850-1928) fu colui che concepì la “Città giardino” (1898) come alternativa alla città invasa dalle fabbriche e dall’inquinamento, ritenendo giusto dare una casa, servizi e spazi verdi, sia pubblici che privati, a tutti indistintamente, realizzando in campagna città di dimensioni ridotte con l’obiettivo di salvare quest’ultima dall’abbandono e creare condizioni di vita sociale dignitose e salutari.

(completata nel 1887) e la costruzione della stazione col suo bel viale alberato, accompagnato da una lottizzazione di ville signorili. Oggi, nell’era post bolla immobiliare, non si parla più di nuove lottizzazioni ma di “legge sul consumo di suolo” e di rigenerazione urbana, mentre agli inizi del ‘900 le lottizzazioni non erano assolutamente un fatto consueto, tutt’altro, erano un fenomeno innovativo che traeva origine dalle prime teorie sull’urbanistica e l’espansione delle città, ovvero dalla nascita del concetto di pianificazione dello sviluppo del territorio. Già Leonardo da Vinci, nel periodo rinascimentale, aveva parlato e progettato una città ideale, poi nel Settecento illuminista si realizzarono i primi tentativi di nuove città utopiche legate a personaggi di spicco, come ad esempio le Saline reali di Le Chaux (1771) di Claude-Nicolas Ledoux, mai completate per lo scoppio della Rivoluzione Francese. Ma fu solo nel corso dell’Ottocento, con la rivoluzione industriale, che si presentarono condizioni tali da rendere necessario pensare allo sviluppo delle città; in questo sen-

Da qui agli inizi del XX secolo, in tutta Europa, cominciarono a nascere quelli che poi diventarono dei quartieri giardino di villini, snaturando quindi l’idea iniziale; a questa tipologia di insediamenti appartiene quindi nel suo piccolo anche viale Maddalena di Adria, piuttosto che viale Trieste e viale Regina Margherita a Rovigo. E qui dunque dobbiamo fare un passo indietro tornando a villa Adria, come architettura del proprio tempo calata nel contesto polesano. 57


LUOGHI

Il teatro Zago a Loreo

“Pietre di Venezia”, dove contrappose l’arte e l’architettura gotica alla disumanizzazione del lavoro industriale e sosteneva che etica e natura dovessero sempre essere alla base della vita dell’uomo. Questa chiave di lettura dell’arte di inizio Novecento, mediata dal pensiero di Ruskin, ci permette quindi di vedere l’architettura Liberty come una sorta di reazione alle produzioni industriali in serie, asettiche e viste già allora come alienanti fra il lavoro e l’uomo. Questo movimento si diffuse in tutta Europa assumendo nomi e peculiarità diverse, ma molto simili; in Spagna venne denominato Modernismo, uno dei massimi esponenti fu Antoni Gaudì: il famoso parco Guell di Barcellona, da lui progettato, nacque in origine come quartiere giardino.

Il periodo storico fra fine Ottocento e inizio Novecento ha visto infatti in tutta Europa la nascita di movimenti artistici e filosofici, conseguenti alla Rivoluzione industriale. La mostra da poco conclusa a Palazzo Roverella a Rovigo sulle Secessioni, ci ha presentato il movimento sviluppatosi in particolare a Vienna nello stesso periodo. Parallelamente alla pittura e alla scultura, in architettura si è avuto uno stesso sviluppo di correnti e stili che in Italia venne denominato stile Liberty, dal nome dei magazzini londinesi Liberty & Co presentati con grande successo durante l’Esposizione Universale di Torino del 1902. Mentre fra Francia e Belgio questo stile venne denominato Art Nouveau, in questo caso prendendo il nome da un negozio simbolico parigino fondato nel 1895 per la vendita di mobili, tappeti e oggetti d’arte provenienti da tutta Europa ed anche da Oriente. Precursore di questo gusto per la decorazione e la mescolanza di stilemi, piuttosto che da elementi naturali floreali applicato sia agli edifici che ai mobili, che agli oggetti personali, è stato il movimento delle Arts and Crafts londinese, che ebbe fra i suoi fondatori John Ruskin. Critico d’arte, poeta, scrittore e pittore, nel 1851 scrisse il libro

In questo periodo si formò il concetto di architetto progettista d’interni e di designer, in quanto per la prima volta era egli stesso ad occuparsi di disegnare arredi e complementi degli edifici, come lampade e lampadari, non delegando questo momento creativo agli artigiani. Anche l’architetto Scarpari disegnò alcuni elementi di arredo di ville da lui progettate. 58


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Dello stesso autore ricordiamo inoltre il bel teatro comunale di Adria, in origine denominato Teatro del Littorio, costruito nel 1935; pur essendo un progetto di epoca poco distante temporalmente da quello di Villa Adria, presenta uno stile più contemporaneo, connotato già dai tratti dell’Art Decò, grazie all’introduzione di decorazioni geometriche stilizzate. Contrapposto a questo edificio, da ricordare invece in area delta il piccolo teatro Zago di Loreo, costruito nel 1919, uno dei più bei esempi rimasti in Polesine di architettura puramente Liberty, fra l’altro recentemente restaurato.

L'edificio sede della ex "fabbrica del ghiaccio" ad Adria

Il Teatro Comunale di Adria, foto di Andrea Fantinati 59


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The Boylers

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Testo THE BOYLERS punk ‘n’ roll circus since 2010

La rivincita dei mediocri

Foto di Valentina Ruzza

S Mai i Ragazzibollitori si sono fatti portavoce di pensieri profondi, mai hanno dato prova di tecniche virtuose, mai hanno dimostrato di essere superiori in qualcosa rispetto ad altri. E mai lo faranno. Si sono sempre solo dati un sacco da fare... 61

ono le due di notte. Una trentina di musicisti si stringono ammassati dietro ad un microfono in trepidante attesa. Un colosso sudaticcio vestito di bianco, col suo ciuffo alla “the King” e il suo fare da bravo adepto del rock ‘n’ roll li separa da genitori stanchi, vecchi parenti illusi e amici alticci, stanchi dai chilometri, dalle ore e dai bicchieri. Alessandro sta parlando, crea suspense, come se gli animi non fossero già caldi, come l’aria fumosa del locale di quella lunga, lenta e logorante sfida fra poveri malati di musica. Alessandro sta spiegando che cosa sarebbe successo, dopo quella notte, a un piccolo pugno di fortunati; Alessandro sta dicendo che la vita di qualcuno sarebbe potuta cambiare in qualche modo a partire da quella sera. Alessandro sta dicendo al mondo intero (150, forse 200 persone) che se tu credevi di essere l’ultimo sputo sulla faccia della terra, quella sera avresti potuto ricrederti. In tutto quel ciarlare, in quel forzato divagare, parlando del nulla, perché “bisogna rispettare i tempi di scena”, Fabio sta appoggiato a bordo palco,


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Nichil, pancia in fuori e sguardo in dentro, quel 4 luglio aveva fame, sì, ma di riscatto. Lui, che forse fu il primo ad aver davvero odiato quell’improbabile quintetto, fra notti insonni e scelte discutibili, aveva rivisto la propria posizione per una sola volta nella sua vita. Pensava che delle canzoni buone in fondo c’erano, che la gente tutto sommato ballava, che ogni tanto qualcuno si divertiva, che forse un disco si poteva pure pensare di fare. Capitan Bellini, pancia in dentro e sguardo in fuori, non ci dava peso. Sempre coi piedi per terra, lui, sapeva che sarebbe stato difficile riuscire nell’impresa. Certo, l’idea di poter dare una svolta a quella routine sonora, fatta di paesini sperduti e locali semivuoti, lo stuzzicava non poco, e come gli sarebbe piaciuto elevarsi su una cassa spia, e dirigere le caotiche danze di un corpo di ballo che di sovietico aveva solo l’alito.

Marco e Mattia giocano con ciò che rimane di una batteria accordata male e si fanno riconoscere da tutti come ogni volta; dall’altra parte Diego, in compagnia di Mirco, che, a momenti, se ne va. Il Benetti, sguardo fiero e petto in fuori, con ancora il retrogusto in bocca di sarde e vino bianco, vuole andare a Milano. Sì, lui ci crede. Lui sa che le vibrazioni erano quelle giuste, lui sa che le sue bacchette quella sera dovevano essere le briglie del cavallo vincente. Il timore dato dall’insicurezza che, in fondo, tutti celiamo, non lo aveva di certo frenato dal menare quel frustino più forte che mai. Avanzo, che in un metro stava percorrendo chilometri, non riusciva a togliersi dalla testa l’immagine di quel fremito collettivo di burocrati improvvisati, fatti di slogan e promesse non mantenute, che di altro non s’era occupato se non di intralciare ogni tentativo di esibizione all’aperto di quei cinque casinari; chissà quanto avrebbe goduto nel rivedere le facce di chi tanto li aveva ostacolati, se solo fosse riuscito a schitarrare in uno dei più celebri luoghi di culto della musica del Bel Paese, se solo avesse potuto vedere in ginocchio quei Torquemada del Setticlavio.

Buzzarello, imperterrito… picchiava sul rullante. Tutto accade rapido: l’Elvis dei nostri, privato del suo Rickenbacker, li chiama, la gente della platea si mescola di colpo con quella del palco, Marco chiede a Fabio cosa

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no. Pure a Firenze, a Modena, Scardovari, Trento, Rovigo. Sì, fino a Rovigo, perché dalla loro tanto amata buca sono riusciti ad uscirne fuori, perché “Tropic Of Dancer”, alla fine, l’hanno registrato. E pure pubblicato. Perché, muovendosi di continuo, la loro rivincita contro i burocrati se la sono presa.

succede, perché, come al solito, non ha capito. Mirco scende le scale, Diego lo si perde in uno tsunami di invasati, Mattia picchia sul rullante, Pastina, sguardo nel vuoto, avambraccio da marinaio e spinaci, aizza l’Altissimo e urla sottovoce: abbiamo vinto. Cinque minuti, questi, che racchiudono anni di lavoro incessante, non retribuito, non riconosciuto, finalizzati alla condivisione di attimi di svago, per il desiderio di offrire, a chiunque ne volesse, solo qualche istante di spensieratezza in terre decadenti, un tempo vive, oggi private di ogni stimolo creativo e di spazio espressivo. Mai i Ragazzi-bollitori si sono fatti portavoce di pensieri profondi, mai hanno dato prova di tecniche virtuose, mai hanno dimostrato di essere superiori in qualcosa rispetto ad altri. E mai lo faranno. Si sono sempre solo dati un sacco da fare. Paradossalmente, sono l’espressione del tempo in cui stiamo vivendo: non sono niente di speciale, ma sembra che siano quel poco che vi resta. Questo lo sanno, eccome, e non perché si siano mai montati la testa, ma perché quando escono dalla loro palude glielo fanno capire. Pure a Mila-

Coi denti. E quella volta Mirco, il Capitano, si presentò e li presentò bene quando disse che loro sono gli ultimi. Loro sono i The Boylers. ...Mattia, ancora oggi, picchia sul rullante.

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I The Boylers sono: Mirco Bellini voce Fabio Benetti batteria Marco Nichil chitarra Mattia Buzzarello basso Diego Avanzo chitarra

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Una linea tratteggiata Viaggio lungo l’ex-ferrovia Adria-Ariano

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di Marco e Michele Barbujani

Arrivati al capolinea ci siamo voltati indietro, abbiamo rivisto tutto questo e ci è venuto d’istinto raccontare questo percorso

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el paesaggio del Polesine ogni elemento ha il suo marchio di fabbrica: la natura disegna usando le curve, l’uomo invece fa le cose dritte. L’ex-ferrovia Adria-Ariano appartiene alla seconda categoria.

Questa breve linea locale, una quindicina di km in tutto, collegava Adria e il delta del Po negli anni tra il 1933 e il 1944. La piccola ferrovia avrebbe poi dovuto continuare il suo percorso fino alla Romagna e consentire le comunicazioni, alla lunga, tra Venezia e Roma, ma ebbe una

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vita breve e sfortunata: tra cedimenti di ponti e bombardamenti, dopo la Seconda Guerra Mondiale non è più stata aperta al traffico. Oggi la maggior parte del percorso è ben arata e coltivata: resta qualche traccia del terrapieno, una serie di manufatti e qualche anomalia sulle strade dove si trovavano i passaggi a livello. Insomma, un non-luogo perfetto per dei curiosi come noi.

di ripercorrerla tutta, da Adria ad Ariano, con un treno… Ci è voluta un bel po’ di fantasia, dato che i binari non esistono più. Ed ecco che, dove la linea emerge ancora dalla terra, il treno sembrava collocarsi nella sua vecchia strada: bastava cambiare il punto di vista, giocando un po’ con la prospettiva. Proprio in quei momenti abbiamo avuto un assaggio di come doveva essere una corsa, ad esempio quella delle

Perciò, in una bella giornata d’inverno, abbiamo deciso 66


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e il treno sale la rampa del ponte sul Po: più di trecento metri di ferro ci consentono di passare il Grande Fiume (un po’ più stretto di com’è oggi) e di arrivare a Corbola alle 13:03. Lì, a metà del nostro percorso, ripartiamo verso Ariano superando la fermata facoltativa del Crociarone.

Si parte dalla stazione di Adria: il treno piega quasi subito verso sud e si prepara a scavalcare il Canalbianco due volte, salutato da un casello sul primo dei due ponti di ferro. Dopo qualche minuto, oltrepassiamo anche il Collettore Padano-Polesano diretti a Bottrighe, dove arriviamo alle 12:59. La stazione è piccola, ma il nodo è molto importante anche per via dello zuccherificio situato accanto. È l’una,

Il treno prosegue dritto attraverso la campagna di Garzara e si ferma infine nell’ampia stazione di Ariano nel Polesine: sono le 13:15. 67


LUOGHI

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Arrivati al capolinea ci siamo voltati indietro, abbiamo rivisto tutto questo e ci è venuto d’istinto raccontare questo percorso, breve ma intenso. Ci siamo perciò divertiti a cercare di far parlare le poche tracce che ne restano, in parte con fotografie che, per quanto attuali e realizzate da noi, speriamo aiutino ad immaginare questa realtà quasi dimenticata. Poi abbiamo recuperato il libro, scritto qualche anno fa da un giovane appassionato di ferrovie, che parla

proprio della Adria-Ariano nei minimi dettagli (M. Bottazzi, “Binari nel Polesine”, ed. Calosci, Cortona 1995). Questa nostra esperienza è capitata quasi per gioco, ma speriamo possa regalare lo stesso un piccolo spunto in più a chi ama scoprire le storie nascoste del Polesine.

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REM

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Immagini: 1.: gli orari delle quattro corse giornaliere lungo la ferrovia Adria-Ariano (da M. Bottazzi, “Binari nel Polesine”, ed. Calosci, Cortona 1995) 2.: il casello di Adria sul ponte del Canalbianco 3.: un casello tra Adria e Bottrighe 4. e 5.: l’ex-stazione di Bottrighe 6.: l’ex-stazione di Corbola, punto centrale del percorso e sede del Dirigente Unico Operativo 7. e 8.: l’ex-stazione di Ariano, capolinea sud, come appare oggi 69


MESSAGGIO REDAZIONALE

LA FONDAZIONE BANCA DEL MONTE DI ROVIGO

L’arte di Gabbris Ferrari avvicinata ai giovani Con un interessante progetto di Alternanza Scuola Lavoro la Fondazione Banca del Monte fa conoscere le opere del maestro agli studenti del "De Amicis" di Rovigo

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a Fondazione Banca del Monte di Rovigo ha recentemente concluso con l’Istituto di Istruzione Superiore “De Amicis” di Rovigo la prima fase del progetto di Alternanza Scuola Lavoro dedicato al maestro Gabbris Ferrari. La Fondazione ha proposto all’Istituto scolastico un’esperienza unica di conoscenza dell’arte di Gabbris Ferrari, a diretto contatto con la sua produzione e la sua creatività: un’opportunità didattico-formativa nata dalla recente donazione delle opere dell’artista alla Fondazione e dalla necessità di quest’ultima di riordinarle e catalogarle. Il progetto della Fondazione ha avuto come scopo principale la divulgazione dell’opera e della figura di Gabbris presso i giovani, tramite la scuola. L’istituto scolastico, comprendendo l’occasione di arricchimento formativo e culturale per i propri studenti e condividendo le finalità del progetto, ha accolto prontamente la proposta. Di questa esperienza sono stati protagonisti nove studenti delle classi VAg, VBg e VAt: Matteo Beccati, Licia Brajato, Giada Breda, Giulia Cabbia, Vittoria Donatone, Debora Maron, Mattia Previato, Valentino Pizzo, Doina Sajin seguiti da Cinzia Malin, figura di tutor aziendale per la Fondazione Banca del Monte. Con la collaborazione fattiva dei docenti referenti dell’Istituto scolastico, il progetto ha consentito di

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valorizzare le competenze degli specifici indirizzi curricolari “Grafica e Comunicazione” e “Turismo”. I ragazzi sono stati in grado di organizzare un vero e proprio team di lavoro e articolare le diverse e specifiche attività: l’allestimento di un set fotografico e di un laboratorio di fotografia digitale, facendo pratica di modalità e procedure specifiche per le opere d’arte; la classificazione e la metodologia di catalogazione, l’analisi delle opere, la stesura di relative schede descrittive. L’attività didattica è stata coordinata dai docenti Rossella Fontanazza e Anna Casazza per la parte tecnica e Cristina Ferrari per la catalogazio-

ne, in un unico progetto modulato e interconnesso, nel quale ognuno dei ragazzi ha potuto esplicare il proprio ruolo e contribuire al raggiungimento dell’obiettivo del progetto proposto dalla Fondazione. Grazie alla compartecipazione dei docenti delle diverse aree e, soprattutto, all’impegno dei ragazzi, il ben impostato lavoro di squadra ha consen71

tito di portate a termine il progetto, alla cui realizzazione ha contribuito anche la messa a disposizione della strumentazione tecnica di alto livello da parte della scuola. La perizia e la professionalità dei docenti hanno permesso, inoltre, di condurre l’analisi minuziosa delle opere del maestro, di classificarle in quattro macro aree e di produrre per ciascuna una precisa scheda di catalogazione corredata di immagine. Si è trattato di un lavoro complesso e delicato, che i ragazzi hanno condotto con cura e senso di responsabilità. Sotto la supervisione degli insegnanti, che hanno affiancato con dedizione un compito importante e molto appassionante, gli studenti si sono cimentati con precisione nelle diverse attività mettendo in pratica vari aspetti del lavoro vero e proprio: dalla strutturazione delle varie fasi all’assunzione del proprio impegno in rapporto all’obiettivo del progetto e ai compagni di squadra, dal rispetto dei tempi assegnati alle proposte migliorative per risolvere eventuali difficoltà. “È stata per tutti un’esperienza unica, in quanto gli alunni hanno avuto l’opportunità e il privilegio di essere a contatto diretto con le opere del maestro Ferrari e conoscere da vicino il suo percorso artistico, dalla produzione degli anni Settanta alle opere più recenti delle ultime sue esposizioni, compresi disegni, produzioni polimateriche e studi per l’allestimento scenografico di opere teatrali” - ha affermato la docente Cristina Ferrari -


MESSAGGIO REDAZIONALE

che ha seguito i ragazzi nel lavoro di ricognizione, studio e classificazione delle opere. L’obiettivo principale della Fondazione era quello di catalogare le opere ricevute in donazione ma “non è stato certo un lavoro meccanico, quanto piuttosto l’opportunità di entrare nell’animo della persona” hanno affermato concordi tutti i docenti. “Si è trattato soprattutto di un’attività di tipo culturale, di conoscenza dell’arte e della figura del maestro Ferrari e della sua copiosa e diversificata produzione” ha precisato l’insegnante

Casazza. Ritenendo importante ottenere dai ragazzi un feedback sull’esperienza, la Fondazione ha realizzato un incontro presso la propria sede a conclusione dell’attività. In un clima di familiare confronto con il Segretario Generale Giorgio Lazzarini gli studenti hanno espresso le loro opinioni. “È stata una bellissima esperienza. Abbiamo conosciuto Gabbris Ferrari, un artista di Rovigo di cui non sapevamo e abbiamo sperimentato anche un metodo di lavoro”; “Abbiamo imparato a riconoscere e a gestire i parametri della 72

macchina fotografica soprattutto per quanto riguarda la difficile ripresa dei quadri e delle opere tridimensionali che richiedono tecniche specifiche per via del posizionamento delle luci e del soggetto”; “Riconosciamo che è stato un lavoro molto importante e formativo, non capita spesso di avere queste opportunità” ; “Tra di noi non ci conoscevamo, provenendo da classi diverse, ed è stato bello costruire il lavoro d’insieme, peraltro in un clima di armonia perché ognuno di noi si sentiva utile con il proprio lavoro”; “Per noi è stata un’attività nuova; il


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lavoro è stato impegnativo ma ci ha dato anche molta soddisfazione perché siamo riusciti a portarlo a termine, ci siamo messi alla prova, abbiamo imparato come risolvere i problemi, insieme. Riteniamo che anche questo sia stato per noi molto istruttivo per affrontare il mondo del lavoro”; “Sotto la guida della nostra insegnante Cristina Ferrari abbiamo percepito la personalità del maestro Gabbris e avuto modo di accostarci alla sua arte e alla sua continua sperimentazione sia tecnica che artistica”. Anche la Fondazione Banca del Mon-

te ha valutato molto positivamente l’esperienza in quanto, oltre al costruttivo rapporto creato tra i vari attori del progetto, considera realizzato il duplice obiettivo di riordino delle opere e di divulgazione presso i giovani di un artista di pregio come Gabbris Ferrari, perseguendo così lo scopo istituzionale di intervenire nel settore della cultura, valorizzando il maestro rodigino, e nel settore delle attività formative, con mirate attività rivolte alla scuola. “Ricordando la grande passione di Gabbris Ferrari per la didattica, quasi una vocazione, e verso i giovani che amava coinvolgere direttamente nei suoi

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lavori rendendoli protagonisti, la Fondazione ritiene di avere donato a questi ragazzi una speciale opportunità, di vivere cioè l’arte appieno e di avvicinarsi all’artista Ferrari, attraverso i lavori, come se l’avessero conosciuto di persona” - dichiara il prof. Luigi Costato, Presidente della Fondazione - a riassumere la molteplice valenza del progetto.


SAPORI & SAPERI

Sardele in saore Sardine in carpione

di Mario Bellettato

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servazione della salma in attesa di istruzioni da parte del messo pontificio che, comunque, avrebbe impiegato più di qualche giorno per giungere a destinazione. Il senso pratico dei chioggiotti suggerì una metodologia collaudata che venne approvata all’unanimità. Lo “squero” maggiore cessò la produzione di bragozzi e batàne e preparò una bara di dimensioni ragguardevoli, debitamente impermeabilizzata con la pece, dove venne adagiato il povero vescovo, con tanto di mitra e pastorale. La “mummificazione” venne assicurata da una quantità generosa di saore, preparata allo scopo da sante donne con cipolle benedette degli orti di Sottomarina. Non è dato sapere se le sacre spoglie vennero tumulate con o senza saore. Oggi il piatto gode di discreta fortuna soprattutto presso ristoranti e trattorie, dove generalmente viene fatto rientrare tra gli antipasti, in origine tuttavia esso costituiva il piatto unico di manovali, segantini e pescatori che lo portavano con sè già pronto in piccole terrine di coccio insieme alla “polenta dura”, termine che indicava il tipo di polenta ottenuto con una quantità d’acqua ridotta così da poter essere tagliato a fette e trasportato, avvolto nel tradizionale canovaccio. Trattandosi di una ricetta molto antica, non è stata creata per soggetti che trascorrono parte della giornata davanti

reparazione molto antica di origine veneziana, che permetteva di conservare a lungo il pesce azzurro che veniva pescato in grandi quantità da fine maggio a fine luglio. È il piatto tradizionale della Festa del Redentore (3^ domenica di luglio) e andrebbe gustato in barca, nel bacino di San Marco, mentre si gode lo spettacolo dei fuochi artificiali, possibilmente in buona compagnia (ottima opportunità per concludere concretamente il corteggiamento prolungato di partner indecisi). È comunque una preparazione che godeva di ampia diffusione in tutto il Veneto e, pur con qualche variante, anche in Friuli perché utilizzava ingredienti di base molto economici e durava a lungo. La tecnica di preparazione può essere utilizzata anche per altri pesci, a Chioggia si preparano “in saore” anche gli sgombri e i loro cugini suri e “lansardi”, i “moli” (naselli), le “anguéle” (latterini) e le “pataràcie” (suacie), ma l’equilibrio di sapore della ricetta originale con le sarde è, probabilmente, insuperabile. La leggenda vuole che nel medioevo il vescovo di Chioggia venne colto da malore e morì durante le celebrazioni della tradizionale festa dei santi patroni della città, san Felice e san Fortunato. Il parroco dei Salesiani, nell’imbarazzo generale, cercò una soluzione dignitosa per la con74


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allo schermo del PC, per stomaci abituati al tofu e neppure per gli amanti della cucina molecolare. Esistono varianti “light” del saore, proposte da personaggi di pochi scrupoli, che a mio parere costituiscono ottimi esempi di pornografia culinaria, del tipo della “carbonara vegana”, per intenderci. Di conseguenza, ho scelto di pubblicare la ricetta tradizionale, con buona pace dei sapienti che sproloquiano via web. Se il clima lo consente, prima della cottura aprite le finestre e chiudete la porta della cucina, indossate abiti che non utilizzerete al lavoro o per uscire di casa, i colleghi ve ne saranno grati e non sarete inseguiti dai gatti del vicinato.

per qualche minuto, mescolando frequentemente e abbassate la fiamma al minimo. Assaggiate il saore e valutate la sapidità: dovete ottenere un equilibrio tendente al dolce per bilanciare il sapore deciso delle sarde, se vi sembra troppo dolce potete aggiungere una presa di sale. Disporre le sarde fritte “in bianco” in una terrina alternando gli strati di sarde con strati di saore bollente, avendo cura di riempire per bene gli spazi tra un pesce e l’altro. Tradizionalmente gli strati di sarde andrebbero incrociati di 90°, per riprodurre il simbolo della croce in una sorta di superstizione religiosa che ne favorirebbe la conservazione. A questo punto la terrina (coperta) va passata per circa 15 minuti in forno preriscaldato a 150° per completare la cottura. Il passaggio è fondamentale per conferire al piatto un equilibrio altrimenti impossibile. Lasciate riposare la preparazione almeno 48 ore in luogo fresco, lontano dalle tentazioni di ospiti, familiari e amici, ne vale la pena. Servire le sarde a temperatura ambiente, accompagnate da polenta bianca e patate bollite prezzemolate o lattuga in insalata. Non è semplicissimo abbinare un vino, un rosso giovane con buona acidità può essere la soluzione, non sottovalutate una birra di qualità con parecchio luppolo, la nota amara si sposa bene con la pienezza dolciastra delle sarde.

Pulire accuratamente 1 kg di sarde freschissime, meglio se di grosse dimensioni, infarinarle leggermente e friggerle in abbondante olio di arachidi fino a circa ¾ di cottura (devono risultare appena dorate e non brune). Eliminare circa il 50% dell’olio di cottura ed aggiungere olio nuovo fino a ripristinare la quantità necessaria a soffriggere lentamente 1,3 kg di cipolle bianche tagliate a listarelle sottili. Resistete alla tentazione di gettare tutto l’olio usato per il pesce: il sapore sarebbe completamente diverso, tacitate eventuali partner dubbiosi con la promessa di un dono appropriato che potete comunque rimangiarvi una volta che avranno assaggiato il vostro meraviglioso saore. Quando avete ben imbiondito la cipolla aggiungete una miscela composta da ½ litro di aceto bianco di buona qualità e ¼ di litro di vino bianco secco, 30 g di uva sultanina fatta ammollare nel marsala, 40 g di pinoli tostati e una macinata di pepe nero. Lasciate bollire il composto

A casa dei miei nonni si accompagnava il piatto con acqua e, a fine pasto, si puliva il “freschìn” con un quarto di mela e un bicchierino di grappa bianca.

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PRIMAVERA-ESTATE 2018

Un lavoro il cui scopo è quello di offrire un testo semplice e breve capace di fornire delle chiavi di lettura del presente a partire dallo snodo fondamentale del secondo Novecento. È rivolto a studenti, insegnanti e appassionati che desiderino ripercorrere alcuni momenti salienti della storia recente.

Antonio Lionello

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1866. Adria e il Polesine nel 150° anniversario del Veneto italiano. Atti del Convegno del 7 dicembre 2016

Illustrazioni di Piero Sandano

Cinque lire per un biglietto. Tullio Serafin, la musica e l’incanto

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Euro 15.00 La pubblicazione degli Atti del Convegno permette di concentrare in un unico testo informazioni sul periodo in parte inedite e in parte difficilmente reperibili in varie pubblicazioni. La qualità dei relatori ha garantito una ricostruzione storica articolata e ricca di dati e, anche quando non convergente, sempre comunque aderente al contesto storico e ai suoi diversi aspetti e alle sue complesse dinamiche politiche e culturali.

Questo libro nasce dalla volontà di dare a Tullio Serafin un pubblico più ampio rispetto a quello dei testi specialistici scritti su di lui e dal desiderio di renderlo più familiare alle giovani generazioni, a chi desidera conoscere la sua storia personale, intrecciata alle vicende più significative del Novecento e vissuta al servizio dell'arte musicale.


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Quella svolta dalle Confraternite fu un'attivitĂ assistenziale a tutto campo, che interveniva dove c'era bisogno di curare i malati e le persone emarginate, cercando di alleviare i dolori fisici e quelli morali prodotti dalla sofferenza. La nuova ricerca di Aldo Rondina nella Collana "Le Radici".

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LA VIGNETTA DI HERSCHEL & SVARION

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