REM-Anno VIII, n.2/3 del 1 dicembre 2017 (Sergio Garbato. Il mio Cibotto)

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PUNTO AUTORIZZATO


SOMMARIO

Una scena dello spettacolo "Wonder - la meraviglia di essere unici" dell'I.C. di Villadose - Scuola media "Carlo Goldoni" di Ceregnano per la regia di Roberta Benedetto, vincitore del premio "Miglior spettacolo" assegnato dal pubblico alla 16' edizione del Festival "Tra Scuole e Teatro" (v. a pag.84)

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La Fondazione Banca del Monte di Rovigo è presente nel tessuto polesano attraverso progetti ed interventi a favore della formazione e dell’educazione dei cittadini ed in particolare dei giovani, riservando particolare attenzione al mondo della scuola. In quest’ottica la Fondazione promuove la distribuzione della rivista REM Ricerca Esperienza Memoria presso tutte le biblioteche degli istituti scolastici secondari di primo e di secondo grado del territorio polesano, nella convinzione di offrire uno strumento di approfondimento e di consapevolezza identitaria. Allo stesso tempo, questa opera di diffusione a cura della Fondazione rappresenta un sostegno ad una rivista che valorizza il territorio e mette in luce la vivacità culturale del Polesine affrontando diversi aspetti e caratteristiche. Il pregio della rivista, oltre ai contenuti, va sicuramente riconosciuto anche per lo spazio riservato a molte firme giovani della provincia. Fondazione Banca del Monte

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REM

EDITORIALE

I due cugini................................................................................................................................. 6 Sergio il lettore............................................................................................................................ 7

Anno VIII, n. 2/3 del 1 Dicembre 2017

RUBRICHE

Direttore Responsabile: Sandro Marchioro

Taccuino futile - Natalino Balasso .................................................................................................. 9 Visti da lontano - Laura Marchesani ............................................................................................ 11 Opzione musica - Emy Bernecoli................................................................................................. 12 Visti da vicino - – Essonni Achraf ................................................................................................. 15 STORIA DI COPERTINA

Appunti per un ritratto di G.A. Cibotto – Sergio Garbato.......................................................... 16 COLORE

Al Roverella “Secessioni europee. L’onda della modernità” – Sara Milan ............................. 23 PAROLE

Gianfranco Scarpari, il racconto del nostro destino – Sandro Marchioro ............................... 29 STORIE

Renato l’ultimo barcaro – Intervista di Vainer Tugnolo ................................................................. 35 Nel ricordo di Renzo Barbujani, la “matita che disegnò il Polesine” – Cristina Sartorello ...... 41 IMMAGINI

William Guerrieri e le New Lands – Barbara Pregnolato ........................................................... 47 Dino, Alberto, il rugby e la città di Rovigo – intervista di Vainer Tugnolo.................................... 53 PERSONAGGI

Cristiano Vidali. Quando alle superiori ho incontrato Platone

Intervista di Sandro Marchioro....................................................................................................... 59

Sulle tracce dell’Anonimo del Novecento – Intervista di Sara Milan a Nicola Gasparetto.............. 65 SUONI

Romea, multiculturalità sonore - interviste di Cristiana Cobianco................................................... 70 LUOGHI

I laghi della Valle di S. Giustina. Tracce di un mosaico dissolto – Marco Barbujani ............... 75 Il museo che non c’è – Massimiliano Battiston e Ilaria Gabrieli ....................................................... 80

Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010

Editore: Apogeo Editore REM è fatto da: Sandro Marchioro, Monica Scarpari, Paolo Spinello e Michele Beltramini e da: Francesco Casoni, Cristiana Cobianco, Martina Fusaro, Cristina Sartorello, Nicla Sguotti, Danilo Trombin, Vainer Tugnolo, Massimiliano Battiston Grafica e Impaginazione: Marta Moretto Stampa: Grafiche Nuova Tipografia - Corbola (RO) Tel. 0426.45900 Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Paolo Spinello Diffusione Editoriale Via Zandonai, 14 - 45011 Adria (RO) Tel. 347 2350644, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03. Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010. Copyright - Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze. REM ringrazia gli autori per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo gratuito per l’inserimento nella rivista. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore. Numero chiuso in redazione il 15/11/17. ISSN 2038-3428

SAPORI & SAPERI

L’eredità di Arnaldo Cavallari e l’Accademia del Pane di Adria – Marco Vianello................. 88

www.remweb.it

STRISCE

Una storia quasi infinita – Alberto, Lorenzo e Nico...................................................................... 90 5

In copertina: ritratto giovanile di Gian Antonio Cibotto, opera di Edoardo Chendi (proprietà Fondazione Banca del Monte di Rovigo)


EDITORIALE

I DUE CUGINI

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i funerali si piange si prega si ricorda e si fanno buoni propositi. È accaduto anche per Gian Antonio Cibotto, scomparso qualche mese fa dopo anni di malattia. Nel lungo periodo di oblio che la sua ultima stagione gli ha riservato nessuno ha fatto nulla per ricordare quello che ha fatto e quello che ha scritto. A morto caldo, come sempre accade, il cordoglio è colato abbondante insieme alla promessa che tutto si farà per non dimenticare lui e ciò che ha fatto. Più o meno la stessa cosa è accaduta per Gianfranco Scarpari dieci anni fa, quando morì, anche se quest’ultimo era figura molto più appartata e schiva. Scarpari e Cibotto erano cugini e di entrambi parliamo in questo numero; nel tentativo di fare qualcosa di concreto perché il loro lavoro non venga perso e disperso. Ma il problema, più sottile e profondo, è un altro: il loro lavoro è consistito nel mettere insieme parole, belle e dense, di raccontare storie, di far pensare usando la lingua come forma d’arte. Quanto interessa oggi tutto questo? Non vorremmo realizzare dei santini e rifugiarci nell’osanna: Cibotto e la sua opera sono piene anche di difetti e di limiti, che andrebbero discussi e ragionati: peccato che sia proprio l’opera nel suo insieme a non interessare, a non essere riconosciuta come capace di portare qualcosa alla vita di chi la potrebbe incrociare. C’è un distacco drammatico, oggi, tra l’impegno ad usare le parole con un intento non solo comunicativo (cioè a praticare quella che una volta si chiamava la letteratura) e la società a cui quelle parole vorrebbero rivolgersi. Insomma: ha ancora un senso la letteratura nell’era di Google e di Facebook? La risposta la diamo riproponendo (e lo rifaremo anche in futuro) le parole di questi due cugini che in un’era diversa (anche se lontana pochi lustri) credevano che raccontare storie in un italiano rigoglioso fosse una cosa bella e utile. Può sembrare una banalità: invece è una sfida che non possiamo non cogliere e che rilanciamo con passione e con una punta di rabbia. Non la rabbia dei post su Facebook, ma quella di chi non accetta l’epoca delle passioni tristi e vorrebbe contribuire a invertire una rotta suicida. 6


REM

SERGIO IL LETTORE

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bbiamo costruito questo numero della rivista affidando a Sergio Garbato il ricordo di Gian Antonio Cibotto e ci troviamo, a giornale già pronto ad andare in tipografia, a dover ricordare anche Sergio. Sapevamo da tempo del suo male, di come lo stesse affrontando con un coraggio grande; sapevamo anche che la situazione si stava complicando: eppure è sempre un colpo che fai fatica ad accettare, che ti sprofonda nella malinconia, che non riesci a rendere leggero sfogliando i ricordi o invocando tutte le banalità del caso. Sergio ha accompagnato l’avventura di REM fin dall’inizio, ha sempre collaborato con entusiasmo e generosità, tanta generosità. La precisione era solo una delle sue caratteristiche: chi lo conosce almeno un poco sa quanto profonde fossero le sue conoscenze e quanto larghe, come fosse pieno di passione per ambiti diversi e come a ciascuno di questi dedicasse tempo ed energie, ricavandone sempre qualcosa di fruttuoso per sé e per gli altri. Di lui ci piaceva tanto quel suo dedicarsi alla cultura per trasmetterla, come se ricavarne un piacere e una crescita solo personale non fosse abbastanza bello e gustoso. Anni fa organizzammo una serata in cui parlavamo di libri e di lettura. Era una sera d’inverno fredda e nebbiosa e c’erano pochissime persone, l’argomento non poteva competere con qualche accattivante trasmissione televisiva. Eppure a parlare del suo argomento preferito, i libri e la lettura, Sergio si incendiò e ne discuteva come avesse davanti una platea sterminata e piena di passione: fu un fuoco d’artificio di racconti, di aneddoti, di consigli. Le quattro persone che lo stettero ad ascoltare tornarono a casa infreddolite ma ricchissime. Sergio ha scritto molti libri e una quantità enorme di articoli legati a occasioni particolari. La sua esperienza e il suo lavoro sono stati molto importanti per questo territorio soprattutto perché hanno contribuito a farlo conoscere meglio. Ora sta a noi fare in modo che questa esperienza non vada dimenticata e che la passione culturale che da sempre lo ha contraddistinto serva da esempio. In tempi in cui è più facile dimenticare che ricordare, chi lo ha conosciuto ha il dovere di fare in modo che il suo lavoro non venga disperso ma sia messo a disposizione di chi continua ad essere curioso delle cose della vita e va a cercarle tra le pagine della nostra storia e della nostra cultura, che lui ci ha insegnato ha a che fare sempre con la gentilezza; proprio in questo Sergio è stato un punto di riferimento: lo rimanga, con l’aiuto di chi viene dopo di lui.

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RUBRICA

Taccuino futile

Foto di Nicola Boschetti

Nozioni basilari di linguistica campestre (parte prima) di Natalino Balasso

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io padre aveva la quinta elementare. Un giorno, l’allegra scolaresca di cui faceva parte, aveva legato la maestra alla stufa, forse emulando riti pellerossa visti in qualche film (all’epoca erano già usciti, ad esempio, “Il grande sentiero” e “Billy the kid”), ma lui ci ha sempre tenuto a sottolineare che la stufa era spenta. Quanto di questi episodi della sua infanzia fosse realmente accaduto non ci è dato di sapere. Sto pensando alle esclamazioni e alle espressioni tipiche utilizzate da mio padre e scopro che non tutte erano

legate al suo dialetto, che era il pavadi un carabiniere appena sveglio, no dell’interno, alcune avevano inflesma va spiegato che “arma” sta per sioni vicentine, forse ereditate dagli “anima”, ma non so se la contrazione avi, altre erano storpiature dell’italiasia diffusa o fosse un’interpretazione no, materiale considerato grezzo e personale. piegato alle specifiche esigenze del Una contrazione ancor maggiore si dialetto. ha con “nisso’o” che è originata da La più grande invettiva, che riserva“in nessun luogo”, perciò, quando va ai rari momenti di odio radicale, mio padre usava l’espressione “Co era “Dio te arda”, che riconduceva la chea machina te vè nisso’o” intendedivinità al suo compito primordiale e va dire che il mezzo era talmente maldirei quasi pagano: quello di ardere funzionante che non si sarebbe giunti la gente. Come potete notare, anche da nessuna parte. L’apostrofo che io nei momenti di alterazione emotiva, il uso sostituisce un’acca particolare, la dialetto non dimentica il quale non sottintende congiuntivo. una “c” (alla toscana, Ritengo fosse originaper intenderci), ma una La più grande riamente a sfondo re“g”. ligioso anche “Boia el Quando il dialetto usa invettiva , nome”, anche se dubito una parola italiana la che riservava che mio padre, uomo sottolinea, perché ha ai rari momenti a suo modo devoto, un ruolo specifico (ad di odio radicale, lo usasse in tal senso. esempio, una parola era “Dio te arda” Se ci pensiamo, da un italiana usata in senso lato tale espressione è non comune, in veneto permeata da un qualacquisisce magicamenche senso democratico, te le doppie); di solito si lasciando all’interlocutore la scelta usa l’italiano per dare valore scientifidel nome a cui appioppare l’offesa; co: “A gò fato el vaccino” o per dare dall’altro lato però c’è anche un senprofondità semantica a un aggettivo: so di goliardica sfida blasfema che “A te sì un imbecille”. infrange la catechistica tautologia Una parola italiana che mio padre “Non nominare il Nome...”. usava era “tarma”, per indicare una Un’altra ingiuria onomastica era “Va persona lenta. “Insetto” è persona di col nome”, che mio padre concludeva poco conto ma da eliminare perché a volte con spiegazioni inaspettate, fastidiosa (la “t” doppia va pronundel tipo di “Va col nome del thoetàro” ciata). (notare la theta greca o th inglese che dir si voglia). La thoéta è la civetta e il thoetàro altro non è che l’abitazione del volatile notturno, l’espressione va quindi annotata tra i paradossi e gli assurdi. “Benedeta a me arma” potrebbe a prima vista sembrare l’esclamazione

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RUBRICA

Visti da lontano

distaccata, e dei sogni per il futuro, stazione ristrutturata gruppetti di turifiltrati dai tuoi occhialetti rosa da emisti curiosi che scattano foto. Le vetrine grato. illuminate rallegrano le corte giornate Immagini questo territorio scoperto d’inverno, e le tradizioni tramandate da turisti attenti, in cerca di storia, dagli anziani sono oggetto di ammicultura, piatti caserecci, paesaggi razione, così come quei prodotti artiautentici. Lo pensi meta di viaggi che gianali che vengono acquistati, non portano in Polesine prosperità e OTsolo per la loro bellezza oggettiva, TIMISMO, progetti di crescita per il ma anche per quello che rappresenfuturo, che confermano la laboriosità tano. L’aria salubre, la cultura, la della gente del posto, la loro ospitacucina, la tranquillità, gli spritz e le lità e la voglia di condivisione. Vedi zanzare sono finalmente i protagonascere la volontà di farsi conoscenisti indiscussi e ammirati. Qualcuno re dei polesani, insieme alla perdita sta anche provando ad addestrare i progressiva della nostra siluri per piccoli spettavergogna per l’appartecoli circensi con fauna nenza a un territorio che d’immigrazione. La tua vita era povero e depresso. Nella tua visione, il nuha camminato Immagini che il fascino mero degli abitanti audella nebbia in autunno menta, grazie alle personello spazio sorprenda i turisti strane che si trasferiscono in e nel tempo, nieri che credevano che Polesine per scelta o per ma il Polesine in Italia ci fosse sempre lavoro, perché qui le oprimane il tuo centro caldo, sole e si suonasse portunità non mancano, di gravità il mandolino ovunque. e perché chi arriva viene permanente . Vedi il Polesine che disempre accolto con affetventa meta di pellegrito. naggi alla scoperta del Pensi a piccole gite nel respiro della terra, dell’uterritorio, merende tipimore dell’acqua e di tradizioni senza che, ma anche trasporti da e per gli tempo. Ci sono mercatini di prodotti aeroporti più vicini, con dei pulmini locali, con zone per assaporare, in confortevoli per permettere anche ai tranquillità, cibi e bibite; mostre di meno giovani di poter usufruire delarte e cultura, spettacoli teatrali, che le ricchezze della zona, con tutte le attirano persone da tutto il mondo; picomodità. ste ciclabili piene di bimbi che circoÈ la rivincita del territorio che, da dilano senza paura, con alberi che, in menticato, diventa apprezzato. estate, ombreggiano le carreggiate. Finalmente la terra degli alluvionati è E gli alberghi, le pensioni, i ristoranti stata ribattezzata “Polesinesia”, meta che lavorano costantemente, ma sendi turismo di qualità, dove si accolgoza fretta, con estrema professionalità, no i visitatori con collane di fette di contagiando con la loro serenità gli aromatico salame casereccio. ospiti rispettosi. I servizi pubblici e privati rifioriscono, *definizione inventata da Mimmo, un i treni vuotano sui marciapiedi della amico svizzero/calabrese

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Benvenuti in Polesinesia*: aromi di insaccati, spritz e zanzare di Laura Marchesani

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i’ la verità, polesano emigrato, che se da un lato te ne sei andato perché ti sentivi un pesce (o una nutria?) fuor d’acqua, in fondo adori l’immobilità della tua terra, quello scorrere della vita che si nota solo per le rughe nuove sulle facce di sempre. Ti capisco. Ogni volta che torni in Polesine, ti ricordi perché te ne sei andato, e perché ti piace tornare. La tua vita ha camminato nello spazio e nel tempo, ma il Polesine rimane il tuo centro di gravità permanente. Hai, comunque, una percezione del territorio un po’ diversa dagli altri, più

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RUBRICA

Opzione musica

chio di biscotti o di giocattoli. Un’altra sulle note del Minuetto di Boccherini che manciata di accordi e subito il ricordo ubriaca più del suo pubblicizzato vino corre sorridente alle sculture di ghiaccio Ronco, per salire di gradazione con le della Brancamenta, all’impermeabile tre celebri birre Tuborg, Forst e Carlton giallo della bambina della Barilla, alla Draught che, rispettivamente e sempre minigonna della Martini che si srotola in ordine crescente di storpiatura, si apquasi fosse un gomitolo e ancora a tubapropriano di capolavori quali In the hall ture rotte e inferriate da dipingere con la of the mountain king di Edward Grieg, brava Giovanna, l’esperta della SaratoAquarium di Saint-Saëns e i Carmina Buga antiruggine che non cola. Ma come rana di Carl Orff. Chiudo il balletto desempre al danno si aggiunge la beffa ed gli orrori con il nostro buon Vivaldi e la ecco che le potenti agenzie pubblicitarie sua Primavera-rap per gli snack Twix, la attingono impunemente alla grande raffipassionale Carmen di Bizet, igiene sì fanatezza estetica e alla potenza emotiva tica no, per il detersivo senza risciacquo della musica classica. Ajax in coppia con l’amico Via col massacro musisgrassatore Chanteclair cale! Nelle interviste a sulle note torturate della questi individui e geni Danza delle spade dell’ardel marketing emergono meno Aram Kachaturian, La musica classica due inquietanti conclue l’immancabile Vecchia ci riempie la vita sioni del perché avvenRomagna fedelissima alla quotidianamente ga spesso questa scelta: Romanza n.2 per violino e in modo la prima è perché costa del (fortunatamente per noi subliminale , poco se non nulla, dato sordo) Beethoven. La mualtro che musica che è decaduto il diritto sica classica ci riempie la di nicchia! d’autore e l’altra è pervita quotidianamente e in ché la musica classica modo subliminale, altro che è capace di veicolare e musica di nicchia! Pensiafissare contenuti, anche mo solo alla sigla dell’Eurodi scarso interesse, più visione che dal 1957, niendi altri generi musicali. Ecco il povero te meno, esalta i nostri timpani con il Te Mozart sparso qua e là come il prezzedeum di Charpentier e a quella di Quark molo. Amatissimo dai marchi automobicon l’Aria sulla quarta corda di Bach. listici come Alfa Romeo, Hyundai, BMV Nonostante sia costantemente stuprata e Infinity va a condire poi con la sua si fa riconoscere e grida bellezza conPiccola serenata notturna il prosciutto torcendosi tra prosciutti e antibatterici, cotto della Citterio e con il Concerto per mostrando eleganza tra pomate antietà clarinetto e orchestra la schiuma densa e orrori enogastronomici. Non mancano del cappuccino della Nespresso. Rosalcuni esempi positivi come le pubblicisini accompagna le crocchette secche tà Chanel delle due celebri fragranze per cani Purina (Nestlé) con i virtuosismi Egoiste (Prokofiev-Montecchi e Capuleti) bravo e bravissimo del Barbiere e l’amie Chanel N.5 (Debussy-Clair de lune) o co d’oltralpe Strauss è ridotto a un venquella di Air France molto affascinante to di walzer tra le mongolfiere e i topi sulle note dell’Adagio dal Concerto per della Parmareggio. Procedo volentieri pianoforte e orchestra K488 di Mozart.

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Se non hai niente da dire, cantalo! di Emy Bernecoli

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l vecchio adagio dell’industria pubblicitaria di ottocentesca memoria: ‘’Se non hai niente da dire, cantalo!’’ ci fa capire quanto la musica dei nostri spot televisivi sia il mezzo con cui imprimono brand nella nostra corteccia cerebrale. Poche note di quella réclame poppata da bambini davanti allo schermo e prende forma immediatamente quello o quell’altro mar-

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REM

In questi casi la musica è rimasta intatta nella sua forma originale, anche se orfana del suo contesto. La musica d’arte, in generale, andrebbe rispettata e riconosciuta come fosse un monumento, come se avesse una fisicità tangibile. Anche se siamo assuefatti a pubblicità sempre più scadenti con scoiattoli flatulenti che vendono gomme da masticare, gioconde strabiche che vendono occhiali da sole e il povero Dante Alighieri che conclude

‘’il piccolo colpo di genio’’ su un rotolo di carta igienica, non dobbiamo dimenticare che anche la musica colta è un bene da preservare. Potremmo forse accettare la pubblicità di una pasta per dentiere che esibisce le sue potenzialità come collante per vasellami etruschi in una bottega di restauro? O magari la réclame di un martello demolitore che frantuma la Pietà di Michelangelo? O quella di un decespugliatore che sforbicia il tanto

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poetato viale di Cipressi del Carducci? Credo di no. Allora perché mangiare croissant ripieni del Canone di Pachelbel in versione disco o aprire un conto in una banca che sfigura il testo del Va' pensiero di Giuseppe Verdi?


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RUBRICA

Visti da vicino

fortuna durante questo periodo ho inrisuonano delle voci e dei suoni del contrato tante persone che mi hanno mercato e del porto. Il mio sarebbe aiutato. Per loro non sono mai stato proprio un bellissimo paese, pieno di lo straniero, il profugo o l’immigrato, colori, di vita, di arte e di storia, ma ma solo un ragazzo che ha bisogno sono stato costretto a lasciarlo perdi essere aiutato. ché ora è impossibile viverci: manca Purtroppo conosco tante altre ragazluce, acqua e gas, il cibo è quasi ze e ragazzi che non sono stati forintrovabile, e se provi ad uscire in tunati come me, e per questo un dostrada rischi di rimanere ucciso da mani mi piacerebbe fare qualcosa di un cecchino o da una bomba. Alla utile per poterli aiutare. Io penso che fine, al mio bellissimo paese, mansia giusto dare a tutti una possibilità, ca la cosa più importante: la pace. anche a quei ragazzi soli, lontani da Questo è il motivo per cui ho dovucasa e senza una famiglia vicina. Sato a malincuore lasciarlo e venire in rebbe bello poter dare Europa, in Italia. Sono a tutti gli stessi strumenti due anni ormai che per potersi costruire un vivo qui in Veneto e ho Ho incontrato futuro, attraverso l’edufatto tante esperienze: tante persone cazione e l’istruzione, ho cambiato sei case, che mi hanno insegnare a tutti cos’è ho conosciuto tante il rispetto, quali sono i persone e ho imparato aiutato . diritti e i doveri, e una nuovi lavori (barista, buona formazione proaiuto cuoco), ho fatto fessionale per poi poter l’animatore nei campi trovare un lavoro e farsi estivi per ragazzi e mi una vita. Il mio sogno, un domani, sono diplomato come pizzaiolo. Ora sarebbe quello di diventare un bravo vivo con una famiglia e sto frequenbarman e con il mio lavoro riuscire tando la terza media per imparare a costruire una casa per accogliere bene l’italiano e completare la mia i ragazzi e le ragazze sole e in diffiistruzione. All’inizio non è stato per coltà. Questa casa si chiamerà “Saniente facile perché, come tanti ralam”, che in arabo, la mia lingua, gazzi che come me vengono dall’Avuol dire PACE. frica, ho dovuto imparare una nuova lingua e una nuova cultura. Provate ad immaginare di trovarvi, dopo un terribile viaggio, in un paese dove non conoscete nessuno e non capite niente di quello che vi dicono e anche poco di quello che fanno: è come vivere in un altro mondo. Ci sono stati dei momenti molto difficili, soprattutto quando facevo fatica a capire cosa gli altri si aspettavano da me e non riuscivo a comunicare i miei pensieri e le mie esigenze. Per

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La mia casa si chiamerà “Salam”, PACE di Essonni Achraf

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ono un ragazzo di 18 anni e vengo dalla Libia. Il mio paese si trova nel nord Africa, proprio di fronte all’Italia, ed è un paese ricco, non solo di petrolio. La mia città, Sirte, è sulla costa, dove vi è un mare di un azzurro molto intenso, un colore che non ho ancora visto qui in Italia; le strade sono piene dei profumi di cibi buoni e speziati e

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STORIA DI COPERTINA

Appunti per un ritratto di

G.A. Cibotto 16


REM

Fin da bambino aveva voluto essere scrittore, per raccontare con le parole un mondo che continuava a sorprenderlo, a lusingarlo e a tradirlo al tempo stesso di Sergio Garbato

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LA PAGINA E LO SGUARDO

trovare risposta. Allora i suoi sguardi scavavano nella penombra e vagavano per la stanza, fino ad uscir fuori, in volo, per posarsi su uomini e cose e poi tornare dentro carichi di fantasie e accarezzare la pagina o il dorso di un libro. Fin da bambino aveva voluto essere scrittore, per raccontare con le parole un mondo che continuava a sorprenderlo, a lusingarlo e a tradirlo al tempo stesso. Ma aveva scoperto presto che le parole sono come gli sguardi, capaci di assumere la forma di quello che raccontano e descrivono, ma anche di insinuarsi fra le pieghe della solitudine e del silenzio. Molti anni dopo, da quando è tornato a vivere a Rovigo, gli sguardi di Gian Antonio Cibotto hanno definitivamente preso la forma stessa dei suoi occhi, scivolano sulle cose e sulle persone, portandosi via un sorriso o un colore, che poi, nel mezzo della notte, gli fanno compagnia insieme al latrato di un cane lontano o alle smanie amorose di un gatto in fondo al buio del giardino. I suoi sguardi sono ormai quelli di «un principe stanco» di fiabe ma ancora affascinato da laghi e castelli, leggende e feste rinascimentali. E c'è anche il mare inquieto di tanti libri che divorano gli angoli della casa, disponendosi in altissime traballanti colonne, pronte a franare sul pavimento. Sono i libri su cui quegli sguardi si sono accesi ed esaltati per lungo tempo, lasciando filtrare nel cuore nomi e voci e colori, sentimenti e idee, volti e luoghi. Cosa chiedere ancora alla vita, se non un paesaggio in cui il cielo trascolora rabbrividendo in mare, mentre lo sguardo finalmente si smarrisce oltre l'orizzonte? È il paesaggio del delta del Po, o meglio di certi smemoranti itinerari del fiume che si sfrangia prima di perdersi. Scano Boa, soprattutto, oppure la Sacca di Scardovari e ancora la golena di Ca' Cornera. […]

ian Antonio Cibotto è uno scrittore che per mezzo secolo ha mischiato sapientemente il gusto del racconto con la vena sottile della poesia, nell'alternanza di memoria e disincanto, sentimento e paesaggio, poesia e natura, sconsolata malinconia e scatto rabbioso contro il disinteresse dei nostri giorni. E tutto si traduce in una scrittura in cui le suggestioni si infoltiscono in una sintassi che gira intorno a se stessa, con temi che vengono enunciati per essere subito differiti a vantaggio di altri che si insinuano dolcemente e persuasivamente tra le righe, avvicinandosi e allontanandosi di volta in volta, in un progressivo riconoscimento. La pagina nasce come per caso, sollecitata da viaggi degli occhi, spettacoli, veglie notturne, riflessioni e paesaggi. E subito prende forma e si complica quasi inavvertitamente in fughe e digressioni, cercando di ritrovare quello che gli anni hanno disperso, negli azzardi della memoria, nei riflessi di storie perdute e nell’eco di voci spente troppo presto. Quando aveva casa a Roma, Gian Antonio Cibotto indossava morbidi e chiari vestiti di lino e verso sera, traversando Piazza del Popolo, salutava amici e conoscenti con uno svagato cenno della mano, per correre a infilarsi in un teatrino dove lo aspettava un regista squattrinato o all'appuntamento con una bella donna intorno alla tavola imbandita di un palazzo patrizio. Ma si sentiva se stesso solo a notte alta, quando le risate e le voci si spegnevano poco a poco e la notte aveva il colore tenero della malinconia mentre portava con sé immagini lontane e perdute, ricordi sparsi e domande che continuavano a non 17


STORIA DI COPERTINA

A Ca' Cornera

LA VOCE LA SCRITTURA I LUOGHI

frammenti di passato e ombre di persone predilette, diventa alla fine una strana combinazione di saggezza e scontentezza, che vela appena l'insofferenza e la frustrazione che la società odierna, nella irragionevole corsa al denaro e all'abiezione culturale, produce in chi continua a vivere interrogando il cuore degli uomini attraverso le struggenti dolcezze di un paesaggio che sparisce ogni giorno di più. Cibotto cerca lo spirito dei luoghi, il colore delle foglie in autunno, il passo lento dei fiumi («il Po nasce dove sente odore di mare»), il sorriso fatidico delle coincidenze, il dolce ricordo di amici e maestri e compagni di strada. E, naturalmente, trova tutto questo e non solamente nel passato, che ormai gocciola implacabile sul presente. Basta un muro sbrecciato, un nome, il verso di una poesia, una filastrocca, un proverbio. E ancora si sorprende, perché i paesaggi diventano itinerari dell'anima e basta accennare un tema, per muoversi intorno, con veri e propri giri concentrici, allontanandone e differendone la enucleazione, caricando le parole di suggestioni, fino a quando il pretesto perde la sua occasionalità e diventa irresistibile

C’è una bizzarra sintonia tra la voce e la scrittura di Gian Antonio Cibotto, tanto che le frasi e i periodi assumono certa tonalità vagamente interrogativa e stupefatta, quasi il discorso, una volta terminato, continuasse ancora a riverberare in qualche segreto modo. Agli inizi del suo dire e del suo scrivere, il giovane Cibotto amava una scrittura più asciutta ed essenziale, ma non prosciugata nell'aggettivazione un poco favolosa e nell'agguato dei participi presenti. E proprio quei participi e quegli aggettivi, che sulle prime venivano guardati con sospetto, hanno finito per insinuarsi in una sintassi mobilissima, provocandone l'elasticità e la disponibilità a continue intromissioni e diversioni, senza peraltro mai cedere all'anacoluto, in un accumulo di storie e sensazioni, occhiate e incrostazioni, simili alle sparse conchiglie e ai cavallucci rinsecchiti che restano sulla spiaggia dopo l'alta marea, testimoni di eventi e miti perduti. Così, quel procedere divagante, che permette a Cibotto di scivolare da un argomento all'altro, in una sorta di monologo interiore in cui si affacciano 18


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tela e financo di appartenenza. Cibotto si aggrappa al filo dell'ironia e dei proverbi, degli umori e del paradosso, con qualche grumo di malinconia, perché l'esistenza è una sorta di festa illusoria, al termine della quale non c'è più via di scampo. E la scrittura partecipa con periodi lunghi e capricciosi, che tentano l'anacoluto, ogni volta sventato da un verbo che salta fuori all'improvviso dal groviglio delle frasi incidentali, per sintonizzare sul presente i sogni e la memoria. Anche questo è il Veneto: difficoltà di scegliere e farsi strada fra troppe sollecitazioni, per poi scoprire che la luce preziosa dei canali veneziani non è poi tanto diversa da quella che quotidianamente insegue le campagne e ritaglia le piazze dei centri storici. Sette capoluoghi e tante altre città, grandi e piccole, che si susseguono, partendo proprio da Venezia, che serba ancora angoli remoti e gioielli segreti e intatte magie come le Zattere, una «spiaggia in marmo d'Istria dove dire parole leggere e vaganti a chi ci sta accanto» e il «delirio falso gotico del Mulino Stucki», ma anche, verso sera, le ombre di Tancredi, Pound, Palazzeschi, Umbro Apollonio e perfino il Baron Corvo. Rovigo e il Polesine diventano l'intreccio di complicati arabeschi che si sciolgono alle soglie del delta del Po, con i piccoli e silenziosi centri che custodiscono palazzi e quadri. A Treviso c'è il Sile e una architettura che si fa luce e colore, mentre tra romitaggi e penombre delle osterie prende corpo la figura indimenticata di Giovanni Comisso. E Padova è

vibrazione autobiografica, capace però di parlare a ciascuno. Talora, però, la narrazione si fa serrata e nitida, per addentrarsi nelle ombre della malinconia: l'avanzare dell'età e il tempo che fugge. È forse per questo che i giorni che intessono la trama dell’esistenza vengono misurati nello scarto tra presente e passato. Ma tutto passa e trascorre, nel diverso colore e nella diversa inclinazione della luce, verso il mare aperto che si confonde alla fine con il cielo. Là, sussurra lo scrittore, c'è l'infinito e, per un attimo, dimentica quella «esercitazione penitenziale che si chiama vita». IL VENETO All'ombra di un bianco leone di marmo e sullo sfondo di un cielo quasi terso, non fosse per il bandolo sospetto di una nuvola, lo scrittore con il sigaro tra le labbra guarda forse in direzione del mare ed è come se il Veneto, allora, diventasse una fuga dai monti malati e dalle pianure trasformate in un fitto reticolo di strade, dalle campagne senza più agricoltura e dalle case tutte uguali degli uomini. Una fuga verso quella «ansietà d'oriente» di cui ha parlato Montale, per ritrovare storie e leggende ormai sepolte, volti perduti e architetture preziose. Per Cibotto, alla fin fine, il Veneto corrisponde a tante persone e tanti luoghi frequentati assiduamente nell'arco dell'intera esistenza, sempre però con un senso di paren-

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STORIA DI COPERTINA

Ad una presentazione ad Adria con Gianfranco Scarpari, Gino Spinello e Antonio Lodo

edito da Neri Pozza. Le pagine di Cibotto si inseguono tutte nei giochi delle affinità e delle differenze e, di solito, prendono le mosse da una divagazione, quasi un preludiare, prima di incontrare il personaggio, che viene caratterizzato da una battuta inequivocabile, una intonazione della voce, un tic, una mania, un foglietto misterioso, un’occhiata furtiva o l’intensità di uno sguardo (quanti sguardi, in quella galleria di ritratti: dall’estro sornione e argutamente interrogante di Ezra Pound al digradare di azzurri che illuminano il volto di Antonio Baldini o si spengono dopo un attimo in quello di Giacomo Noventa, dalla severità ironica che incrina gli occhiali di Mario Soldati agli improvvisi bagliori dietro le lenti spesse di Vittorio Sgarbi). E sovente, proprio in quel preludiare, in apparenza fuorviante, Cibotto si concede il gusto e il lusso della scrittura e di espressioni rapinose, che insinuano tra le righe un “vento rissoso”, il “fandango dei saluti”, il “pianto della nebbia”, un “cielo terso, limpido, che un velo di luna rendeva più vago e come sospeso sulla vecchia piazza”. Ma, cosa ancora più singolare, molti di questi ritratti si

Prato della Valle e il susseguirsi di splendide chiese, ma anche la magnifica e nascosta dimora di Alvise Cornaro e quell'angolo del Pedrocchi che Diego Valeri aveva intitolato a Stendhal. Ci sono Dino Buzzati dalle parti di Belluno e Silvio Guarnieri a Feltre, fra tante meraviglie ancora da scoprire, mentre Verona è un itinerario nella storia che ha il colore delle sue pietre che si protendono fino alle rive del Garda. E di tante cose e tanti nomi risuona Vicenza, ma al Teatro Olimpico, Jean Vilar e Gerard Philippe erano caduti in ginocchio per lo stupore e il fascino. E allora, Veneto come Ruzzante (con due zeta si raccomanda Cibotto) e Goldoni, Giorgione e Falconetto e Andrea Brustolon. AMICI E CONTEMPORANEI Qualcosa conoscevamo di quei capricciosi ritratti di amici e contemporanei, che Gian Antonio Cibotto ha appuntato negli anni e ha adunato in numero di quarantadue in un suo volume, intitolato spensieratamente “Contropelo”, 20


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la loro presenza (Luchino Visconti). Altri, infine, che non vengono neppure nominati, quasi in una sfida all’orecchio del lettore, si ritrovano in una battuta o in uno dei tanti incisi, in un vezzo stilistico, come l’inequivocabile sapore landolfiano di quel “Vale, atque vale, mio paziente lettore”, che sigla la nota in seconda di copertina. Insomma, molto più dei quarantadue ritratti annunciati e messi insieme “un po’ alla rinfusa, nell’ordine in cui li ho scritti consegnandoli al ponderoso scartafaccio delle cose sognate. Ovverossia Il principe stanco, un journal che prima di chiudere gli occhi spero di terminare”. E, sulla scorta di qualche indimenticata conversazione, proviamo ad aggiungere un nome, quello del vetusto e mai stanco André Gide che scrive al giovane Cibotto, che gli ha inviato i sensi del suo fervore, una lettera affettuosa. […]

sdoppiano e si moltiplicano, così che un personaggio finisce talora per essere messo in ombra da un altro, che non riesce ad accettare il suo ruolo di comparsa. Ecco, allora, che all’immagine sbiadita di Luigi Rusca, ideatore, fra le altre cose, dei “Classici italiani”, della Medusa mondadoriana e della Bur, improvvisamente si sovrappone quella bizzarra di Giacomo Natta pigro e segreto traduttore delle “Massime” di La Rochefoucauld. Il sorriso aperto e invitante di Antonio Baldini svanisce come per incanto, inghiottito dal ricordo del vecchio Emilio Lovarini, primo editore di Ruzante. L’autorevolezza di Raffaele Mattioli è invece sopraffatta dalla figura dimenticata di Gianandrea Zottoli, magistrato inviso al fascismo e studioso di Casanova. E ancora, da un ritratto all’altro, si avverte il respiro profondo del barone Riccardo Ricciardi, fondatore della casa editrice omonima, prediletta, forse fra tutte, da Cibotto. Altri personaggi, invece, tengono da soli la scena, come Memo Benassi e la sua sublime istrioneria (che ritornerà per turbare un Romolo Valli esordiente sul palcoscenico), Paolo Stoppa in vena di amarezza, Neri Pozza incapace di dominare il furore o Carlo Bo alle prese con le contraddizioni della sua memoria prodigiosa. Alcuni vengono evocati direttamente, quasi in forma di intervista (Goffredo Parise e Quarantotti Gambini) o nei giri concentrici di un monologo (Maurizio Costanzo), oppure, al contrario, attraverso amorevoli perlustrazioni di luoghi, che, meglio di dialoghi e confidenze, restituiscono l’autenticità del-

Questo testo di Sergio Garbato su G.A. Cibotto è stato pensato, originariamente, come contributo ad una raccolta di saggi che non è mai stata pubblicata. Per motivi di spazio il testo presenta alcuni tagli, indicati dal simbolo […]. La versione integrale è disponibile nel sito della rivista all’indirizzo remweb.it

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Hugo von Habermann, “Liegender Modellakt”, 1907, olio su tela, 100,5x83 cm

Al Roverella “Secessioni europee.

L'onda della modernità”

di Sara Milan

La mostra di Rovigo fonde insieme l'impeccabile e ragionata eleganza dell'Art Nouveau con il gusto simbolista per il recondito, l'occulto, l'inconscio 23

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ecessioni europee” offre una panoramica sulla produzione artistica della fine del XIX secolo, mettendo in risalto i fattori che hanno


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portato ad un nuovo capitolo della storia dell'arte. Non si tratta della ricerca di un archetipo, quindi, ma di un pot-pourri di contributi creativi, ben ordinati cronologicamente e per centro culturale. Ogni sezione corrisponde ad uno specifico gruppo di artisti, uniti da un unico intento e che condividono una poetica omogenea: la Secessione di Monaco, quella di Vienna, il gruppo Sursum di Praga e gli artisti secessionisti di Roma. L'uso di questa definizione, “Secessione”, non è, come erroneamente si pensa, legata ad un concetto di contestazione della tradizione, ma si riferisce al desiderio di imporsi sul mercato dell'arte: come con la secessio plebis nel terzo secolo prima di Cristo, i plebei chiedevano ai patrizi maggior rappresentanza politica, così gli artisti alla fine del XIX secolo chiedevano alla propria città maggior attenzione. A conferma di ciò si consideri che Franz Von Stuck non era solo l'artista di punta del movimento di Secessione ma anche il direttore dell'Accademia di Belle Arti di Monaco: non avrebbe quindi potuto contestare se stesso! Inoltre, si scrive nel primo fascicolo di “Ver Sacrum”, rivista culturale viennese che promuoveva l'attività del gruppo secessionista: “Chi muove rimproveri a chi l'ha preceduto, è un buffone. E i buffoni non sono mai mancati. Sono presenti anche nei movimenti di oggi, come il matto che chiude o procede danzando, il corteo reale”. E in un altro punto: “Il centro e la forza della SecessioWilhelm List, “Rosenwunder”, 1905 circa, olio su tela, 162,5x82 cm 24


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ne sta nella tolleranza”. Grazie ai movimenti secessionisti, che caratterizzano tutte le maggiori città e centri culturali europei, quindi, si costituiscono le prime gallerie d'arte e si organizzano piccole esposizioni d'élite per la promozione degli artisti locali. “Donne/ in cerca di guai” cantava Zucchero qualche anno fa. È proprio questo a cui si pensa quando si entra nella sala dedicata alle opere di Gustav Klimt al Palazzo Roverella. Donne moderne coperte fino al collo da cappotti neri, ingessate dalla moda di fine '800, sono solo apparentemente in linea con lo sfondo quadrettato che Klimt dipinge in “Amiche (Le sorelle)”, hanno invece intensi sguardi, accesi dalla curiosità. Così si ritrovano, proprio sulla parete di fronte, ritratte fugacemente in pose lascive, o addirittura durante l'amplesso. Di eccezionale impatto, in questa sala, il disegno di Egon Schiele, “Nudo di donna con vestito blu”, che sembra dialogare con l'opera di Klimt: su una parete la morigeratezza apparente della buona società, sull'altra la cruda vivacità del corpo, sensuale e vero. L'allestimento di questa sala sottolinea evidentemente il significato dell'intera esposizione: una nuova arte per una nuova società, sempre più caratterizzata da contraddizioni e ambiguità. “Ogni cosa appare gravida del suo contrario”, scriveva Marx in riferimento a questo periodo storico. Un'epoca talmente carica di incerEgon Schiele, “Weiblicher Akt mit blauem Tuch”, 1914, matita, gouache e acquerello, 483x322 mm 25


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Franz von Stuck, “Lucifer”, 1889-1890, olio su tela, 161x152,5 cm

tezze (di lì a pochi anni la Grande Guerra cancellerà per sempre gli imperi europei, a favore di nuovi, moderni, modelli politici), che perfino il Diavolo diventa pensoso. In “Lucifero” di Franz Von Stuck infatti, viene ritratto il Demonio, mentre in un angolo buio dell'Inferno se ne sta

a guardare i suoi dannati bruciare tra le fiamme. Su cosa si interroga con aria così assorta? Sul suo passato? Sul suo futuro? Sulla vita dei penitenti? Di quest'opera si espone anche, per la prima volta, un bozzetto preparatorio. Sempre più spesso infatti, nel26

le mostre di respiro internazionale, come questa a Rovigo, viene mostrato interesse per schizzi preparatori e bozzetti, considerati per certi aspetti più importanti dell'opera stessa, spogli dalle sovrastrutture come composizione, colore o decorazione. Il bozzetto cattura il primo atto creati-


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processo di stilizzazione lo prepara poi per essere utilizzato in gioielli, accessori, complementi d'arredo, e perfino carte da parati: indiscusso simbolo di sacralità, eleganza, ma anche di lusso e sfarzo.

Gustav Klimt, “Dame mit Cape und Hut vor rotem Hintergrund”, 1897-1898, olio su tela, 30x19,5 cm

vo, la primigenia idea, l'ispirazione, e viene avvertito, dal pubblico contemporaneo, più autentico dell'opera che ne deriva. “Secessioni europee” fonde insieme l'impeccabile e ragionata eleganza dell'Art Nouveau con il gusto simbolista per il recondito, l'occulto, l'inconscio. Opera esemplare, incantevole, è senza dubbio “L'Offerta o il Miracolo delle rose” di Wilhelm List, che mette in evidenza il “miracolo” della Secessione viennese: la sapienza nello scegliere un soggetto tanto rappresentato nella storia dell'arte, come quello della rosa, e renderlo completamente nuovo, moderno. Il

Dalla stilizzazione di List, a Vienna, all'orda di mostriciattoli, spiritelli e fantasmi di Vachàl, a Praga. Degna di nota è infatti “Piano elementale (Piano delle passioni e degli istinti)”, nonostante sia in linea con il gusto dell'epoca per l'occulto, è caratterizzata da una veste grafica modernissima, da un disegno estremamente particolareggiato, affastellato di personaggi fantastici. L'opera lascia senza parole per la sua capacità di richiamare alla mente le illustrazioni contemporanee, e sorprendentemente si possono trovare assonanze con i graffiti dello street-artist marchigiano Blu. Un percorso espositivo molto ricco e originale, quindi, quello a Palazzo Roverella, perché pone l'attenzione non solo su artisti ancora poco conosciuti in Italia, ma anche perché apre la riflessione su campi dell'arte poco battuti. È infatti di tendenza, nelle recenti esposizioni, interessare il visitatore non solo con opere di pittura o scultura ma anche esponendo oggetti di design, prodotti editoriali, abiti e accessori, strumenti di lavoro... Si offre al visitatore un quadro più completo sul contesto storico, tecnologico e culturale che ha permesso lo sviluppo di una specifica corrente artistica, così da dimostrare che l'arte nasce sempre dal proprio tempo.

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Gustav Klimt, “Freundinnen I (Die Schwestern)”, 1907, olio su tela, 125x42 cm



PAROLE

Gianfranco Scarpari,

il racconto del nostro destino

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di Sandro Marchioro

ivere. E poi sparire. Essere coperti dalla marea montante delle generazioni che ci succedono e che a loro volta subiranno lo stesso destino: lo sguardo di Gianfranco Scarpari sulla condizione umana è lucido, disincantato e soprattutto sempre pieno di una ironia leggera e gaia, nonostante i risultati un po’ amari della sua analisi dell’esistente. Se fosse possibile una sintesi dei con-

Di Gianfranco Scarpari ricorre, nel 2018, il decennale della morte ed è un’occasione per tornare a parlare di lui e dei suoi libri 29


PAROLE

tenuti dei suoi non molti libri di narrativa, noi suggeriamo sia questa: il racconto del nostro destino senza mascheramenti ma anche senza cupe tristezze. Parto da qui, dai contenuti, ed uso questo linguaggio odioso della più trita critica letteraria per dimostrare che un discorso critico su Scarpari narratore può tener banco, ma francamente non è questo il primo interesse. Di Gianfranco Scarpari ricorre, nel 2018, il decennale della morte ed è un’occasione per tornare a parlare di lui e dei suoi libri; perché di fatto lui e quello che ha costruito sono spariti dall’interesse (anche e soprattutto del territorio in cui è nato ed è vissuto) già a pochi mesi dalla sua scomparsa. La cosa è molto semplice: Scarpari ha scritto dei libri molto belli, che non sfigurano affatto accanto ad altre opere venerate come capolavori del Novecento, di cui non c’è più memoria e di cui in questi dieci anni dalla morte dell’autore non si è più parlato: non una riga su un giornale, non un intervento critico, non un richiamo, non un atto da parte delle istituzioni che contribuissero a non dimenticare quest’uomo che, oltre che narratore, è stato anche una figura pubblica di rilievo in vari ambiti. Vergognoso (ma non inaspettato) che la città e chi la rappresenta non abbia avuto la voglia di ricordare e di promuovere: non solo, che non si sia nemmeno posta il problema di cosa fare di un’eredità culturale importante, magari pensando che la sua opera meritasse di essere divulgata anche fuori del territorio comunale (e bastano poche pagine di uno dei suoi racconti per capire che tenere Scarpari dentro un’idea di scrittore locale è soffocante e ingiusto). A dieci anni dalla scomparsa, dunque, Apogeo Editore prova a rilanciare questa figura con delle iniziative che sono in fase di organizzazione. Il giorno dell’anniversario della morte, in collaborazione con la biblioteca comunale, organizzeremo una lettura pubblica di alcune delle pagine più belle di questo autore. A maggio ci sarà un convegno nel corso del quale studiosi e amici parleranno dell’uomo e del narratore, cercando di delinearne un profilo critico come finora non è stato fatto. Nel corso del convegno verrà presentata anche una nuova edizione di due delle opere più importanti di Scarpari, accompagnata da alcune pagine di inediti scoperti di recente nel suo archivio. Ma la cosa a cui teniamo di più è il progetto di lettura che stiamo organizzando con alcune classi (e con i relativi docenti) del polo liceale, che dovrebbe portare alla pre30


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sentazione, sempre nel corso del convegno, di relazioni e di un breve documentario realizzato dai ragazzi sulla vita e l’opera dello scrittore adriese. Altre iniziative verranno, e vorremmo infine costituire un gruppo permanente che si occupasse di tenere alta, anche nei prossimi anni, quando l’occasione dell’anniversario non ci sarà, l’attenzione sull’opera di Scarpari, magari mirando all’obiettivo ambizioso di farlo conoscere anche fuori dagli angusti confini della città. La parabola della scrittura di Scarpari inizia ben prima della pubblicazione di racconti e romanzi, avvenuta anche con editori importanti quali Marsilio e Neri Pozza. L’anali-

Con un giovane avvocato Luigi Migliorini alle spalle 31


PAROLE

si di quello che resta nel suo archivio personale (ordinato dallo stesso Scarpari con grande cura e precisione) dimostra che in lui la scrittura è un’esigenza coltivata fin dalla prima giovinezza: l’archivio contiene infatti un gran numero di testi (poesie, racconti, abbozzi di romanzo, tentativi saggistici) che rivelano fin dall’inizio, nonostante qualche ingenuità, una grande sicurezza nella scrittura ed una evidente sensibilità nel condurre narrazioni e contenuti secondo

una precisa idea di stile: testi chiari, limpidi, coerenti e attenti a tenere il lettore chinato sulla pagina e attratto dal suo modo di scrivere. Questa è una prima fase, rimasta chiusa nel cassetto ma sempre ben presente nelle esperienze di scrittura che sono venute dopo: la prima delle quali, quella giornalistica iniziata negli anni settanta con la collaborazione continuata per oltre dieci anni con la terza pagina del quotidiano “Il Gazzettino”, rivela uno scrittore capace di misurarsi non solo con la narrazione, ma anche e soprattutto con i temi più sentiti del suo tempo: la crisi ambientale, i mutamenti traumatici che hanno inciso in maniera traumatica sul paesaggio, lo sviluppo che spiana una storia millenaria e cancella una passato carico di cultura e passioni. Una fase giornalistica a cui succedette, quasi come sbocco naturale, quella propriamente narrativa condensata nei diversi volumi che raccolgono racconti e romanzi (anche se la distinzione tra queste due modalità 32


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è, in Scarpari, una questione tutta da scoprire e da analizzare). In definitiva, la quantità di temi e di stimoli che i libri di Gianfranco Scarpari contengono sono davvero tanti: chi ha letto la sua opera, in tutto o in parte, è rimasto colpito dalla sua ricchezza, dalla limpidezza stilistica, dall’abilità romanzesca: fare in modo che queste delizie narrative vengano colte da un pubblico molto più ampio di quanto è stato finora è non solo una sfida, ma anche un dovere morale nei confronti di un uomo che ha dato tanto a questo territorio e che merita, seppur tardivamente, un riconoscimento: e nessun riconoscimento può essere più importante di stare ad ascoltare le storie che ci ha raccontato e di godere del modo, arguto e bello, in cui ce le ha raccontate.

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“Le Ville Venete”, Newton Compton, Roma 1980 (con ricerca iconografica di Marina Emo Capodilista) “La casa rustica in Polesine”, Marsilio, Venezia 1980 (con E. Renai e G.A. Cibotto) “Vivere nel Delta”, Arte Grafica Bolzonella, 1980 (con immagini di Fulvio Roiter) “Il Delta del Po natura e civiltà”, Signum Edizioni, Padova 1983 (con altri autori, a cura di G. Ceruti) “La casa là”, Morganti, Treviso 1993 “I piccoli peccati”, Neri Pozza, Vicenza 1995 “Valzer imperiale (Kaiserwalzer)”, Perosini, Zevio 1998 “Gli alberi della memoria”, Marsilio, Venezia 2000 “Gli anni della cornacchia. Ricordi adriesi e polesani 1934-1946”, Perosini, Zevio 2002 “Una corsa nel tempo”, Perosini, Zevio 2004 (Premio “Settembrini”)

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STORIE

Renato l’ultimo barcaro Protagonista della grande stagione dei marinai del vecchio Eridano, dei barcari, quando il fiume veniva percorso da Cremona fino al Delta

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Intervista di Vainer Tugnolo foto di Marco Bovolenta

e è vero che oggi il fiume è diventato una sorta di zona franca dove può accadere di tutto, se sembra essersi trasformato in una grande autostrada, dal Monviso al Delta, dove non esistono forme di controllo, c’è stato invece un tempo


STORIE

in cui la vita sul Po veniva scandita da regole ben precise, un tempo in cui le insidie dovevano essere conosciute e governate. È stata la grande stagione dei marinai del vecchio Eridano, dei barcari, quando il fiume veniva percorso da Cremona fino al Delta, e fino alla laguna di Venezia, e le sue acque usate per trasportare merci, materie prime e prodotti agricoli. Renato Baccara ne è stato uno dei principali testimoni, un uomo che ha trascorso parte della sua vita facendola scorrere sull’alveo del Po e dei suoi rami, e di quella vita conserva nitidamente i ricordi. Ho cominciato a lavorare sul fiume quando avevo 13 anni: le barche del nonno erano andate a fondo durante la guerra e quindi ho iniziato come moré (mozzo), addetto alle mansioni più svariate, sulla barca dei fratelli Ferri: tutto questo poco prima della grande crisi del 1948 quando per circa due anni le attività furono completamente ferme, e si fece la fame. A 16 anni sono salito a bordo della “Leonardo da Vinci”, una comacina con la prua in asta, e a 18 anni con lo Zio Cesare, a bordo della Lindarosa, una barca in ferro, sono diventato marinaio. Parla con un filo di voce Renato Baccara, l’ultimo Barcaro di Corbola, Paese che per anni è stato la casa dei marinai del Po, testimone di una grande tradizione di naviganti che rischia di scomparire anche dalla nostra memoria.

Un giovane Renato Baccara

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Si trasportava soprattutto grano proveniente dalle varie zone di carico del Delta, da Oca Marina a Porto Tolle, al Molino Stucky di Venezia; o ancora si portavano al Lido i mattoni provenienti dalle fornaci di Corbola e Villanova Marchesana; durante il periodo di raccolta si caricavano le barbabietole da zucchero e le si conferivano soprattutto agli zuccherifici di Ca’ Venier e Ca’ Tiepolo; o ancora si trasportava carbone o ghiaia raggiungendo Marghera o, attraverso il Sile, i paesi di Casier e Silea. Renato ricorda tutto lucidamente, compresa l’evoluzione dei mestieri e delle tecniche di navigazione e la storia delle diverse tipologie di imbarcazioni che i suoi occhi hanno visto calcare, in lungo e in largo, le acque del Po e della laguna veneta. Dei diversi tipi di imbarcazione che sono stati utilizzati nel tempo per la navigazione sul fiume (dalla rascona al bucintoro, al magan…) due tipologie in particolare si imposero per la migliore manovrabilità in tutte le occasioni: il Burcio e la Gabarra. Il primo aveva trovato impiego soprattutto nei canali del Padovano, la seconda nella rete fluviale del Mantovano e del Medio Po. Grazie alla carena che non affondava il Burcio divenne l’imbarcazione più adatta a qualsiasi tipo di manovra, anche complicata, e quindi la migliore per la navigazione sul fiume. Il mestiere di barcaro si era molto diffuso nei paesi che erano sorti vicino alle sponde del grande fiume: con il tempo si erano creati dei veri e propri centri in cui la competenza e la

Renato oggi con uno dei suoi modelli

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STORIE

to costruito il leggendario “Tesio”, un burcio costruito così meticolosamente che con i materiali di scarto ne era stato realizzato un altro, il “Gilberto”. Renato parla con precisione anche della diffusione del mestiere duro ma affascinante del barcaro un pò in tutto il territorio del Delta, e glissa con un sorriso quando le domande toccano argomenti insidiosi, come il ruolo delle donne ad esempio...

Certificato definitivo d'Azione della Soc. Mantovana dei barcari (1931)

professionalità di questi capitani della corrente erano riconosciuti anche fuori i confini polesani; ed era cresciuta, d’altra parte, una pluralità di mestieri collegati, una estesa rete di indotto, che aveva finito con il dare vita ad un grande distretto di esperti e ricercati viaggiatori del Po e di abili artigiani della navigazione.

Grazie all’attività dei barcari erano nati mestieri come quello dei cavallanti, figure molto particolari del tempo, che avevano sviluppato una incredibile abilità nell’addestrare i cavalli per il traino dei natanti, vuoti o con carico. A Corbola il più famoso era Toni Polidori detto “Spalpieri” con il suo cavallo “Pisoco”, un animale con una abilità straordinaria. Attorno al lavoro dei barcari vi era inoltre, è impossibile dimenticarla, l’opera indispensabile dei cantieri per la manutenzione e la realizzazione delle imbarcazioni: quello dei Marchetto di Chioggia oppure quello di S. Pietro in Volta, a Pellestrina, diretto dal maestro d’ascia Benedetto Schiavon. Grandissimo prestigio vantava all’epoca lo squero di costruzione adriese del maestro d’ascia Luigi Duò detto “Papa”, gli attuali cantieri Vittoria, dove era sta38

Le donne non potevano salire sulle imbarcazioni, io ho conosciuto mia moglie a terra, fra un viaggio e l’altro, nell’osteria di Brondolo dove lavorava. Ma erano numerosi i centri dove il trasporto fluviale si era sviluppato molto ed era cresciuto nel tempo: Contarina e Porto Tolle nel Delta, ma anche nel Cavarzerano e soprattutto a Battaglia Terme dove oggi, per merito di Riccardo Cappellozza, è sorto il Museo Civico della Navigazione Fluviale. A Corbola la maggior parte dei barcari si era organizzata nella Cooperativa Eridania che aveva sede ad Adria. Per Renato Baccara il barcaro diventa quindi il mestiere di una vita, tutta condotta fra cielo ed acqua, a trafiggere i luccichii del sole, a misurare le nebbie, a spostare dalle labbra il soffio di venti che partivano da lontano. Nel 1956 ho poi iniziato a lavorare per la SONACI, una Compagnia di Navigazione di Marghera. Trasportavamo olio combustibile, soprattutto alle centrali di Porto Tolle, di Ostiglia e di Sermide. Ho navigato per tutti


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Un burcio in un canale (1948)

questi anni lungo il fiume, percorrendolo in continuazione e trascorrendo buona parte della mia vita sulle barche. Lì sopra ho percorso tutte le tappe della mia carriera di navigante: da secondo pilota a primo pilota, fino a Comandante. Ho interrotto la mia vita sul fiume solo una volta, quando per circa un anno sono stato imbarcato per mare: toccavamo le città di Brindisi e Augusta e, per quanto riguarda il trasporto del catrame, i porti di Napoli e Livorno. Quindi sono tornato sul fiume a manovrare rimorchiatori e chiatte fino a Ostiglia e Cremona; l’equipaggio era formato da circa 5-6 persone, negli ultimi anni si era ridotto solo a

quattro marinai: un cuoco, un macchinista, il primo pilota e il Comandante. Corbola è stato un grande paese di barcari, un Paese sorto dove la discesa del fiume verso il mare inizia a complicarsi, ma dove gli abitanti avevano capito, un po’ misteriosamente, che dal rapporto con il fiume poteva nascere qualcosa di nuovo. Anche l’elenco dei natanti stilato da Pio Forza, uno degli ultimi barcari di Corbola, conferma come il Paese fosse stato un grande centro di naviganti del fiume: il periodo di maggiore espansione va dal 1925 al 1965. 39

Armatori o capi barca come i Vicentini, i Ferri, i Passarella, i Turatti conosciuti con soprannomi come “Baciri”, “Cavraro”, “Matana” e altri ancora avevano in dotazione, complessivamente, più di cento imbarcazioni. C’è qualcosa di avvincente, e indecifrabile nello stesso tempo, in questo racconto che unisce la storia del fiume a quella di un intero Paese. Una cosa è certa, però: Renato Baccara, con il sorriso lieve disegnato sul volto di un uomo sereno, le ha vissute entrambe. E le conosce meglio di chiunque altro.


C’è il nanetto Igor che vuole andare in America anche se non sa dov’è e la donna che, in un’ora di disperazione, trova in una piccina abbandonata il coraggio per una rinascita. C’è un giovane parricida che si sentiva disamato e una studentessa che capisce come, per salvarsi la vita, occorre contare solo su sé stessa. C’è una bimba molto brutta ma molto amata e tanti altri tipi umani usciti dalle cronache o dalla fantasia dell’autrice.

Gabriella Imperatori

BALLATA PER EROI SENZA NOME 244 pagine Formato 15x21 ISBN: 978-88-99479-25-1 Collana “La grande fuga delle trote inglesi”, n.7 apogeoeditore.it

La terra è di tutti, d’accordo, mentre il quartiere non è più di nessuno. Eppure lo amo nonostante tutto, perché i luoghi si amano (o si odiano) come persone, anche se le voci che li hanno animati sono lontane o perdute.


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Nel ricordo di Renzo Barbujani, la “matita che disegnò il Polesine”

L’associazione socio-culturale “Renzo Barbujani”, tra le più attive della nostra provincia, è così chiamata per onorare la figura di un amante della sua terra e della sua gente 41

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di Cristina Sartorello

enzo Barbujani ha dedicato la sua vita alla ricerca analitica e statistica del Polesine, promuovendo l’Ufficio Studi Economici e Rilevazioni Sociali


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associazione apartitica e aconfessionale, con scopi di solidarietà sociale, nell’ambito della tutela dei beni culturali, con la finalità specifica di “operare nella salvaguardia, conservazione e fruizione dei beni culturali in collaborazione con gli Enti Culturali di Rovigo e Provincia, recupero dei beni culturali e artistico monumentali in stato di abbandono” e ancora per “realizzare interventi socio-culturali di promozione della storia e della tradizione locale, con l’intento di fare conoscere e rivisitare l’opera di scrittori del passato protagonisti della cultura del Polesine e del Veneto”, nonché “attuare ricerche in ambito letterario, iconografico e musicale del Polesine, operando in regime di convenzione, come previsto dalla Legge 266/91 con Enti locali ed istituzioni culturali quali Biblioteche, Musei, Scuole ed altro”.

della Provincia. Fu definito “la matita che disegnò il Polesine” ed era anche un appassionato in ambito storico, autore delle biografie di alcuni polesani illustri, quali Giacomo Matteotti, Alberto Mario, Nicola Badaloni, Ferruccio Viola, Virgilio Mat-

tioli, Umberto Maddalena, Umberto Merlin e Giovanni Miani. Suggerì la creazione del museo della civiltà contadina del Polesine, poi avvenuta sotto la guida scientifica del professor Raffaele Peretto. L’associazione “Barbujani” nasce da statuto come 42

L’associazione è nata nell’anno 2000 e il merito va al professor Antonio Carlizzi, socio fondatore e primo presidente. Fu socio dell’Accademia dei Concordi, dove seppe guidare i primi volontari nella cura dei testi antichi, nella preparazione dei contenitori per i libri, seguiti dal dottor Adriano Mazzetti. Tra i maggiori promotori dell’associazione anche Arnaldo Pavarin, valente poeta vernacolare, presidente dal 2001 al 2015. Ecco quindi i primi passi dell’associazione come volontari al Giubileo del 2000, nell’anno successivo la convenzione con il Comune di Rovigo al Museo dei Grandi Fiumi e a Palazzo Roverella per il servizio di guardasala durante le mostre, nel 2002 l’adesione al progetto dell’associazione Pianeta Handicap “La


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diversità come risorsa”. E, ancora, interscambi culturali, convegni, gite turistiche. Nel 2003 la parrocchia di san Bartolomeo chiede di liberare i locali della biblioteca, essendo venute meno le circoscrizioni. La biblioteca di quartiere diviene quindi una biblioteca comunale, intitolata il 13 ottobre 2003 proprio ad Antonio Carlizzi, uomo di profonda cultura e umanità; si trova nella palazzina adiacente la scuola media “Parenzo”, dove i libri vengono portati in ceste di vimini dai volontari dell’associazione, aiutati dall’Asm, che fornisce aiuto per il trasporto. Iniziano anche i progetti di animazione all’I-

ras, la casa di riposo rodigina, ed i rapporti di collaborazione con le cooperative sociali Aliante e Peter Pan, il sostegno del Centro servizi volontariato, l’impegno dei volontari nella casa di riposo di Crespino. Seguono collaborazioni con il Rotary per l’handycamp ad Albarella e la convenzione con l’azienda Ulss 18 per un tirocinio terapeutico. Nel 2004 prende il via il primo laboratorio di scrittura creativa e la prima serie dei “Percorsi della memoria”, itinerari letterari attraverso la cultura e la storia del Polesine, che seguiranno per sei anni con relatori quali Giuseppe Rigolin, Gianni Sparapan, Pietro 43

Conforto Pavarin, Raffaele Peretto, Sergio Garbato, Chiara Crepaldi, Carlo Piombo, Adriano Mazzetti, Gabbris Ferrari ed altri. Nello stesso anno prende avvio il primo laboratorio di pittura e grafica per persone neofite, accomunate dalla passione per il disegno e la pittura, esperienza proseguita negli anni successivi. Seguirà un convegno al Museo dei Grandi Fiumi per ricordare la figura di Barbujani, dal tema: “Dal Polesine post-rurale di Renzo Barbujani al Polesine post industriale: continuità o svolta?” Nel 2005 viene prodotta una rac-


STORIE

colta antologica dei partecipanti al laboratorio di scrittura creativa, poi un laboratorio di informatica, il convegno di archeologia “Lungo antiche vie d’acqua”, il laboratorio di poesia “Il sacco delle parole”, composte da bambini. Nel 2006 è la volta del doposcuola a favore degli alunni stranieri, la ricerca degli scrittori polesani attivi, quindi l’aperitivo con l’autore, per valorizzare generi letterari diversi. E poi serate di poesia alla Pescheria Nuova, un corso di decoupage, la rappresentazione teatrale “Se il grano non

muore”, i canti e le poesie attorno all’albero di Natale. Negli anni successivi saranno sempre di più gli interventi della Barbujani nel mondo culturale e sociale con “Voci del Polesine”, “La Storia siamo noi”, la realizzazione del dvd “Ascoltando il passato per vedere il futuro”. Nel novembre 2007, dopo lavori edilizi e di riposizionamento delle scaffalature, si inaugura la “nuova” Biblioteca “Carlizzi”, mentre continuano le attività in convenzione con l’Accademia dei Concordi, il Palazzo Roverella nuova sede di importanti 44

mostre e il Museo dei Grandi Fiumi. Il laboratorio di pittura e grafica si apre alla città con le serate “Conoscere l’artista, una serata un’opera”, con ospiti che eseguono dal vivo presentando nei vari passaggi una loro opera davanti al pubblico presente e poi donano la loro creazione alla Barbujani, che acquisisce cosi una diversificata pinacoteca. Poi l’incontro con il genetista Guido Barbujani, nipote di Renzo, il servizio “Informa anziani”, una convenzione con l’Iras per incontri socio culturali sulla “Vita di ieri e di oggi”, la stampa dei vo-


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lumi “Polesani Illustri”, la festa dei nonni all’Iras, il doposcuola e poi, nel 2010, la ricorrenza del decennale con una pubblicazione ricca di foto dell’attività di una realtà partita con 20 soci diventati in seguito 200, tutti appassionati e fedeli amici, nel percorso comune di una associazione di volontariato che fa socialità e cultura.

Dopo 17 anni di attività, l’associazione Barbujani mantiene la sua freschezza e sia in ambito culturale

Nel 2012 inizia il primo corso di fotografia, oggi al sesto anno, condotto da Domenico Russo, che propone grandi fotografi e racconta una storia della fotografia diversificata e innovativa, seguita con entusiasmo da persone di tutte le età. Nel 2016 assume la carica di presidente Paolo Bordin, che prosegue negli impegni assunti dall’ associazione ampliando il campo degli interessi con il laboratorio di musica “Racconti musicali, armonie solidali”, un percorso per scoprire il magico mondo della musica al Centro Servizi Anziani nel nuovo policlinico e in Biblioteca “Carlizzi” con i maestri Giuliano Pajarini ed Alessandro Marcato. Importante la collaborazione con il CRAL del Comune “La Ciacola”, per la condivisione di iniziative ricreative culturali e di animazione per gli anziani, il convegno sulla figura del Maestro Rigolin nel decennale della morte, la mostra annuale in Pescheria con l’esposizione degli elaborati pittorici e fotografici, la presentazione in Archivio di Stato del volume ”Luoghi Pii Riuniti. Rovigo, tra storia e ricordi” e la collaborazione e partecipazione attiva fin dalla sua nascita al Festival Biblico a Rovigo, con un concorso letterario e fotografico. 45

che sociale è diventata un punto di riferimento importante per la città di Rovigo.



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Case Ente Delta Padano #3, Oca Marina

William Guerrieri

e le New Lands

Another Landscape #2, l’occasione per coniugare in un unico progetto due aspetti della propria ricerca: l’agricoltura contemporanea e il moderno 47

Foto di William Guerrieri

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di Barbara Pregnolato

otografia e paesaggio, un binomio molto abusato in tempi di selfie e smartphone, e soprattutto in un territorio ricco di ambienti naturali di pregio come il delta del Po. Dove la natura addomesticata dall’uomo regna sovrana, sia essa


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spazio dell’agricoltura, piuttosto che golena, fiume, argine, scanno, valle, laguna è talvolta facile cadere nell’errore di confondere la natura con il paesaggio. La questione sui termini è però oggi ben chiara, soprattutto da quando nel 2000 a Firenze si scrisse la Convenzione Europea sul Paesaggio e si fissarono i punti cardine del pensiero, a garanzia di una efficace tutela del territorio e dei valori racchiusi nei suoi paesaggi. Nella seconda metà del ‘900 i cambiamenti socio-economici dell’Europa hanno cominciato a plasmare i territori in maniera diversa rispetto a quanto succedesse prima delle Guerre Mondiali; in particolare, per quanto riguarda l’Italia, è ben noto come dagli anni ’60 la trasformazione del Paese a colpi di grandi fabbriche, autostrade, espansioni urbane, turismo balneare di massa, abbia stravolto in poco tempo il territorio portando molti intellettuali a riflettere sul significato di paesaggio e di “Belpaese”. Fra i primi ad accorgersene e a registrare i cambiamenti e le contraddizioni di questa evoluzione ci sono stati sicuramente alcuni fotografi che dalla seconda metà degli anni ’70 si sono raccolti attorno a Luigi Ghirri. Il lavoro di documentazione sulle trasformazioni del territorio italiano di quegli anni confluì in un catalogo e in una mostra del 1984 di cui ancora oggi si parla molto, “Viaggio in Italia”. Questa esperienza ha segnato a lungo la storia della fotografia italiana, perché con essa si è compiuto un atto critico ed intellettuale che assegnava una dimensione internazionale al lavoro dei 20 fotografi che insieme a Ghirri

Siepe a forma di cervo, Ca' Tiepolo 48


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descrissero un’Italia un po’ diversa e meno da cartolina di quanto si facesse contemporaneamente da parte di altri, e poneva il loro lavoro al pari delle indagini sul territorio americano svolte negli anni ’30 piuttosto che al lavoro della DATAR in Francia. Sulla scorta di questa esperienza, in Emilia, zona in cui viveva Ghirri, dal momento della sua scomparsa avvenuta nel 1992 si raccolse un gruppo di fotografi stimolati in particolare da William Guerrieri e Guido Guidi, che diedero vita a “Linea di confine”, un’associazione che si propose di proseguire ed evolvere il lavoro di indagine fotografica iniziato e promosso con “Viaggio in Italia”. Al gruppo, fin da subito, prese parte come responsabile scientifico il critico Paolo Costantini, figura di spicco per la fotografia italiana, che purtroppo scomparse prematuramente nel 1997; successivamente si unirono urbanisti come Bernardo Secchi e Stefano Munarin, il critico Antonello Frongia e la storica dell’arte Tiziana Serena. Da allora l’esperienza di “Linea di confine” è coordinata da William Guerrieri per stimolare e organizzare la produzione di campagne di indagine sul territorio emiliano e italiano con la partecipazione di fotografi internazionali, creando occasioni di dibattito e stimolando il mondo della fotografia più giovane. Parallelamente a questa attività curatoriale e intellettuale, Guerrieri non ha mai smesso la sua personale ricerca fotografica, indagando luoghi e fenomeni sociali; per sua inclinazione, per anagrafica e anche per aver frequentato a lungo una città

Bracciante #2, Papozze 49


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come Bologna in anni di rivendicazioni sociali, egli è particolarmente interessato alle trasformazioni economiche e al loro riflesso sulla società. In particolare recentemente si è interessato allo studio documentario di un caseificio emiliano e del villag-

Nel 2014 ho incontrato William Guerrieri per parlargli del progetto di indagine fotografica che avevamo intenzione di realizzare e già dalla sua prima edizione l’idea ha dapprima suscitato in lui benevola curiosità, poi, visti i risultati e com-

dagine fotografica d’autore, dove in questo caso Guerrieri è stato invitato ad occuparsi delle terre artificiali del delta, luogo creato dall’uomo come spazio per la produzione agricola. In questo lavoro l’autore ha trovato l’occasione per coniugare in un uni-

preso l’inquadramento generale del progetto, “Linea di confine” ha deciso di mettere nella propria collana la pubblicazione del lavoro di Marco Zanta. Da questo incontro è nato, nel 2017, New Lands che rappresenta l’esito della seconda in-

co progetto due aspetti della propria ricerca: l’agricoltura contemporanea e il moderno.

Campo di riso, Tolle

gio artigiano di Modena, entrambi realizzati come modelli sperimentali di industrie degli anni ’50, potremmo dire due industrie rappresentative dell’Italia intera: l’agroalimentare e la meccanica automobilistica.

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Nel delta del Po, infatti, Guerrieri, per sua stessa ammissione, ha trovato visibili in maniera nitida e leggi-


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bile le stratificazioni prodotte dalle politiche economiche agricole, in particolare quelle degli anni ’50 a cui egli si interessa. Il Dopoguerra, con la forte carica emotiva e la spinta al progresso e al raggiungimento di una società migliore, ha prodotto città, luoghi, architetture, oggetti che l’autore descrive nel loro stato attuale e mette a confronto con quanto oggi invece è il massimo della modernità. La ricerca sul passato che egli svolge con il mezzo fotografico è uno strumento per porre e porsi domande sull’oggi. In particolare in The Dairy e in New Lands, il tema è l’industria agroalimentare e agricola; nel progetto sviluppato con “Città Invisibili” osserviamo le case dell’Ente Delta Padano e poi vediamo i luoghi dell’industria agricola moderna che nulla hanno a che vedere con i piccoli appezzamenti dati agli assegnatari a suo tempo, per offrire loro opportunità di sviluppo. Le immagini hanno diversi livelli di lettura e hanno bisogno di tempo e di una lettura sequenziale; i tagli dati alle inquadrature e la quasi assenza di persone rendono il lavoro per certi versi astratto, ma nel complesso con New Lands il fotografo traccia un quadro ben chiaro del delta agricolo contemporaneo e allo stesso tempo ne offre una lettura del tutto nuova, in quanto viene visto come luogo di produzione agro-industriale, punto di vista a cui si è poco inclini nella fotografia italiana.

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William Guerrieri vive a Modena. Fotografo e curatore, è stato ideatore insieme a Guido Guidi del progetto Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea (Rubiera, Reggio Emilia), di cui è coordinatore. Come fotografo, ha partecipato a diversi progetti pubblici d’indagine, fra i quali: VeneziaMarghera (1998), Atlante 03 (MAXXI, 2003), Luoghi della cura (2004), Linea veloce Bologna-Milano (2006), Il Villaggio/The Village (2009). Ha tenuto diverse esposizioni, fra le quali Venezia-Marghera (Biennale d'Arte di Venezia, 1997), Fotografia italiana per una collezione (Sandretto Re Rebaudengo, Torino, 1997), Luoghi come paesaggi (Galleria degli Uffizi, Firenze, 2000), Le Bati et le Vivant (Galleria Madga Denysz, Parigi, 2002), Atlante 03 (MAXXI, Roma, 2003), Sguardi contemporanei. 50 anni di architettura italiana (DARC/ Biennale d'architettura di Venezia, Venezia, 2004), Trans-Emilia (Fotomuseum Winterthur, Winterthur, 2005), Il Villaggio/The Village (Die Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur, Colonia, 2010/2011), Non basta ricordare (Maxxi, Roma, 2013/14), Modena e i suoi fotografi (Fondazione Fotografia, Modena, 2015), Works 1989-2009 (SP3 Galleria, Treviso, 2015), Abitare sociale. Un’indagine fotografica per Bologna (Urban center, Bologna, 2016), Ceramica, latte, macchina e logistica. L’Emilia Romagna al lavoro (MAST, Bologna, 2016). Ha pubblicato le monografie Oggi nessun può dirsi neutrale (Ar/Ge Kunst Edizioni, Bolzano, 1998), Zona 16 (Open Space, Milano, 1999), Where It Was (Linea di Confine, Rubiera, 2006), Il Villaggio (Linea di Confine, Rubiera, 2009), The Dairy. Images for the italian countryside (Koenig Books, London, 2015). Come curatore, oltre a vari testi curatoriali per Linea di Confine, ha pubblcato il saggio Attualità del documentario, in Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, a cura di R. Valtorta (Einaudi, Torino, 2013). Alcune sue opere sono ospitate in collezioni private e pubbliche, fra le quali: Bibliothèque Nationale de France (Parigi), Canadian Center for Architecture. CCA (Montreal), AR/GE Kunst (Bolzano), MAXXI (Roma), Osservatorio VeneziaMarghera (Venezia), Galleria Civica (Modena), Linea di Confine (Rubiera, Reggio Emilia), Die Photographische Sammlung/SK Stiftung Kultur (Colonia), MAST. Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia (Bologna).

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“Dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli posti vicino casa, così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti su nessuna mappa del mondo”. Eleanor Roosevelt Un progetto dell’Associazione

Voci per la Libertà

a cura di Michele Lionello con la collaborazione di Enrico Deregibus e Paolo Spinello

VOCI PER LA LIBERTÀ

UNA CANZONE PER AMNESTY 20 ANNI DI MUSICA E ARTE PER I DIRITTI UMANI LE EMOZIONI RACCONTATE IN TESTI E IMMAGINI Foto di Silva Rotelli, Francesco Pozzato, Gianpaolo “Wally” Vallese, Andrea “Artax” Artosi

176 pagine Formato 20,5x27,5 ISBN: 978-88-99479-26-8 apogeoeditore.it

QUESTO LIBRO SOSTIENE LE CAMPAGNE DI AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA


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Dino, Alberto, il rugby

e la città di Rovigo Intervista di Vainer Tugnolo

Raccontare le storie sovrapponendo abilmente passato e presente, giocando con la dimensione del tempo

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a un po’ di tempo Alberto Gambato ci costringe a prestare attenzione ai suoi lavori di regista e documentarista, e ancor più alla sua attività di singolare ricercatore. Da “L’isola che c’era”, per rimanere in tempi


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Fotogrammi dal film "Dino"

anni Settanta, proseguendo con la vicinanza della nostra abitazione allo stadio, le tante partite viste con mio padre sin da bambino, il (poco) rugby da me praticato da adolescente e il (molto) rugby scritto e filmato a partire dal 2005. C’è anche da dire che fino ad oggi su Lanzoni ci si poteva documentare quasi esclusivamente leggendo i seminali libri di Luciano Ravagnani sulla storia della Rugby Rovigo, dove tra realtà e mito vengono mirabilmente tratteggiati l’arrivo nel capoluogo del primo pallone ovale e la scelta dei leggendari colori rossoblù per la squadra rodigina. Per tutti questi motivi e per la mia storia personale, raccontare la genesi del gioco del rugby nella città italiana che più si sente rappresentata da questo sport, su progetto dell’associazione MondOvale, è stato un compito a cui mi sono approcciato con grande deferenza e cautela. Quando è iniziato il montaggio del film, ci siamo anche accorti che il respiro familiare lanzoniano poteva essere una parte del racconto: così, una volta giunti in possesso di alcune lettere scritte splendidamente da Dino Lanzoni, ci è sembrato quasi naturale farle leggere a Sarah, figlia di uno dei nipoti di Dino.

recenti, selezionato in più di trenta festival nazionali ed internazionali, a “Presi a Caso”, menzione speciale del Premio Gobetti. Un attento osservatore, Alberto, che sembra mostrare a tutti, con sorprendente semplicità, come la sua macchina da presa, uno sguardo fisso e implacabile puntato a catturare le immagini, sia nello stesso tempo, in realtà, uno strano utensile che scava riportando alla luce fatti, storie e personaggi. Esattamente quello che accade con questo ultimo lavoro, “Dino”, dedicato alla figura di Dino Lanzoni, l’uomo che ha portato il rugby a Rovigo e ai rodigini. Per quali ragioni, personali o no, sei rimasto affascinato dalla figura di Dino Lanzoni? Devo dire che l’interesse a 360° per la figura di Lanzoni si è sviluppato lentamente, mano a mano che Ivan Malfatto (giornalista del “Gazzettino”) ed io raccoglievamo nel 2015 le densissime testimonianze di familiari, colleghi e amici di Dino Lanzoni. Lo scopo primario non era quello di realizzare un documentario, ma di produrre materiale audiovisivo a corredo dell’evento con cui l’associazione MondOvale - su iniziativa di Malfatto - celebrava i 100 anni dalla nascita di Lanzoni stesso, avvenuta il 17 settembre del 1915. Sul piano personale, in casa si è sempre respirato rugby, a partire dalla passione del babbo e dalla sua amicizia con alcuni giocatori del Rovigo degli

Che idea ti sei fatto sul rapporto fra il rugby e la città di Rovigo? In che modo l’uno è stato di aiuto all’altra o viceversa? Credo che il passaggio da una dimensione dilettantistica 54


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segnato dall’alluvione e dalle sue conseguenze economiche e sociali: dunque il rugby vissuto da un intero territorio come riscatto per una condizione svantaggiata. Credo che quest’ultimo sentimento sia condiviso anche oggi dagli appassionati rossoblù che continuano a vivere in Polesine.

- in cui la squadra era formata quasi tutta da rodigini a quella semiprofessionistica - con l’andirivieni annuale di giocatori - non abbia giovato al mantenimento di un legame città/squadra noto in tutta Italia. Stiamo parlando di una cesura che ha avuto inizio grossomodo nella seconda metà degli anni novanta. Il buco di competitività del Rovigo, durato 15 anni e concluso nel 2008, è stato un altro fattore di sempre minor vicinanza (e cultura rugbystica) e di indebolimento dell’attaccamento alla Rugby Rovigo. A tutt’oggi l’appassionato medio segue la squadra con passione quasi unicamente a partire dai playoff, quando si può sperare di vincere il titolo, ma questo testimonia anche il sentimento di estrema “esigenza” che il tifoso prova rispetto al Rovigo. Se devo pensare a una riflessione storica e ad un “mutuo soccorso” tra città e rugby, mi sembra debbano essere ricordate due cose. La prima riguarda l’assoluta singolarità della nascita di questo sport a Rovigo: il primo pallone nel maggio del 1935 lo porta un laureando in medicina (Lanzoni, appunto) ma, a differenza delle altre città italiane, a Rovigo tra i pionieri ci sono figli della Rovigo “bene”, ragazzi di famiglie del ceto medio e giovani appartenenti agli strati più poveri. Nel film lo dice bene Francesco, nipote di Dino Lanzoni: il rugby a Rovigo - quando nasce - funge anche da collante sociale. Il secondo dato sono i primi quattro scudetti - tutti consecutivi - che il Rovigo conquista tra il 1951 ed il 1954, ovvero a cavallo di un periodo

Personalmente non sapevo che all’origine del successo del rugby a Rovigo, pur trattandosi di uno sport che Lanzoni aveva fatto arrivare da Padova, ci fosse però una forte corrispondenza fra il Polesine e la Romagna. Un legame che cresce e che Ubaldo Galli spiega con queste parole: “I romagnoli usano la sbruffoneria per coprire la loro malinconia” (il rimando va inevitabilmente a Fellini). Una storia che porterà artisti come Angelo Biancini e Fausto Ferlini ad arrivare a Rovigo, negli anni ’60, ad esporre in Accademia. Il legame tra Dino Lanzoni e la Romagna, terra di provenienza dei genitori, è un topos emerso con prepotenza non appena ho potuto prendere contatto con Andrea Soglia, storico locale castellano: volevo sapere di più sui banchetti luculliani e sulle poesie recitate da Dino con gli amici di Castel Bolognese, cose solo accennate dal figlio Maurizio. Quando Andrea ha scandagliato il fondo Ubaldo Galli alla biblioteca comunale di Castel Bolognese cercando materiale su Lanzoni, è emersa con facilità 55


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radici, sulla loro percepibilità o meno. Per radici intendo le mie personali, ma anche del luogo da cui provengo e in cui ho scelto di vivere. Portando questa riflessione sul piano rossoblù, credo che la velocità con cui siamo costretti a vivere le cose possa farci correre il rischio di perdere per strada la conoscenza di quello che siamo. Ecco perché mi piacerebbe che appassionati e addetti ai lavori rugbystici vedessero questo documentario, non solo in Polesine.

una messe di documenti di grande varietà e di ancor più grande interesse su questo argomento. Da una parte il rapporto con i poeti Galli e Savelli e gli artisti Biancini, Ferlini e Monti, dall’altra il lato più incline all’approfondimento della cultura gastronomica, ci hanno dimostrato che davvero Dino ha trascorso molte vite dentro ad una vita sola. Come se il medico di professione e il giocatore, allenatore, medico sportivo e dirigente sportivo per passione, a 50 anni avessero scoperto di poter vivere un’altra vita, tesa alla scoperta della propria provenienza, ma sempre incline a creare ponti, reti e relazioni. Da giovane, Lanzoni lo aveva fatto nello sport, da non più giovane lo ha fatto nel mondo dell’arte, osando e riuscendo nell’impensabile: portare ad esporre in Accademia dei Concordi negli anni sessanta (!) tre artisti di Castel Bolognese, oltre a mettere in contatto poeti dialettali rodigini e castellani.

La meticolosità nella ricerca del dettaglio nell’immagine, del presente o del passato, è un esercizio del tuo stile che sembra riuscirti sempre benissimo. Continuo a pensare che i dettagli di un’immagine possano essere rivelatori di qualcosa che con un’inquadratura ampia potrebbe invece andare perduto o addirittura non essere visibile e percepito. In questo film, a farmi propendere per tale modus operandi vi è anche la necessità di raccontare - con i luoghi di oggi - le persone e i fatti di ieri, che non sono più materialmente visibili.

La netta sensazione è che con questa storia racconti una Rovigo che probabilmente in gran parte non c’è più, ma alla quale ti senti ancora fortemente legato: una concessione alla nostalgia delle stagioni perdute o c’è qualcosa di diverso?

Rispetto alle produzioni precedenti c’è qualcosa di diverso dal punto di vista tecnico? O rinnovare la tua capacità di sguardo, cogliendo al volo quello che succede dietro, rimane un approccio con cui ti senti particolarmente a tuo agio?

Non penso mai al passato come a un tempo globalmente migliore di quello presente; semplicemente, tra i temi che mi stanno a cuore, vi è l’interrogazione sull’identità, sulle 56


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Non riesco mai a guardarmi “da fuori” in questo modo. Credo che il cinema, se non altro per il proprio statuto tecnologico, abbia sempre avuto la bellissima e invidiabile possibilità di sovrapporre le dimensioni temporali. Dalla sua, il documentario per definizione ha invece il compito di mettere in luce persone, cose ed eventi che viceversa rimarrebbero sottotraccia, difficilmente conoscibili. Penso che Lanzoni e la sua parabola possano essere un patrimonio di tutti, tanto quanto lo sono i luoghi di allora che esistono ancora adesso, in cui Dino ha vissuto e in cui oggi viviamo noi. Diventarne maggiormente consapevoli può essere qualcosa di prezioso.

Forse una cosa che tendo sempre di più a fare inconsciamente in fase di produzione, accorgendomene poi al montaggio, è una specie di depurazione. Voglio dire che mi sembra sempre di più che le inquadrature maggiormente adeguate siano quelle in cui non vi sia per forza di cose un movimento della macchina da presa. Credo sia anche un frutto dei tempi: ottime tecnologie a basso costo rendono possibili riprese di ottima qualità con droni, dolly, steadycam e slide. L’impressione che ne ricavo è che siano sempre di più queste tecnologie a dettare lo stile di un racconto che rischia l’impersonalità, anziché una narrazione a richiederne l’utilizzo. Questo mi sta portando a pormi sempre più domande su quale sia la posizione giusta, l’inclinazione giusta, la distanza giusta per quello che sto cercando di rappresentare e va da sé che così il peso del fuori campo aumenti esponenzialmente. In questo film, tale atteggiamento è sorto soprattutto quando mi sono trovato a dover filmare luoghi simbolo come i due stadi rugbystici rodigini, passato e presente: il “Gabrielli” (ex- “Tre Martiri”) e il “Battaglini”, oltre all’ultima abitazione di Lanzoni nel quartiere Commenda.

Il progetto di questo film, scritto con Ivan Malfatto e Sarah Lanzoni, è stato voluto e promosso da MondOvale, associazione rodigina nata nel 2013 con lo scopo di salvaguardare e promuovere la memoria e i valori del rugby rodigino, nazionale e internazionale. Per info, notizie e per iscriversi all’associazione: info@mondovale.net

Guardando i tuoi lavori, ora che la tua produzione è diventata di tutto rispetto, sembra che si possa individuare una cifra riconoscibile, un modo di raccontare le storie sovrapponendo abilmente passato e presente, giocando con la dimensione del tempo, cosa ci puoi dire? 57


Le idee migliori nascono per caso, in un lampo, giusto il tempo di dire Lò-Lò! www.lolobottega.com


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Cristiano Vidali

Quando alle superiori ho incontrato Platone

Sono arrivato alla filosofia passando dalla musica: ho sempre ascoltato punk, rock, metal, quelle cose lĂŹ

Intervista di Sandro Marchioro

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astica Hegel come fosse chewing gum, svolazza su Nietzsche attento come un rapace, ha idee puntute su Marx e sul ruolo che potrebbe avere nel presente; e a tempo perso organizza (del tutto da solo) una serie di incontri su temi filosofici: d’estate, in una località di mare, facendo concorrenza a bancarelle negozietti pizzerie e gelaterie e vincendo la scommessa, visto

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PERSONAGGI

lui del più e del meno filosofico, con qualche puntata alle ansie del nostro tempo e ad una loro possibile interpretazione. È quello che abbiamo fatto. Cominciamo con questa idea apparentemente azzardata di organizzare incontri a Rosolina Mare (documentati dalle foto in queste pagine) su temi poco balneari quali “Il desiderio in prestito” (tenuto dal filosofo Gianfranco Mormino), o “La democrazia senza ragione” (con quel gran mattatore che è Massimo Cacciari); iniziativa arrivata alla seconda edizione e che ora punta con determinazione alla terza: che la sala si riempie. Avesse cinquant’anni e sedesse su una prestigiosa cattedra universitaria sarebbe una cosa normale: ma Cristiano Vidali ha poco più di vent’anni, è uno

studente di filosofia a Milano ed è un ragazzo che nell’aspetto è il contrario del secchione occhialuto tutto libri e sillogismi. Come si fa a non essere curiosi di incontrarlo, di parlare con

Beh sì, quest’anno i quattro incontri sono andati molto bene, ma punto ad aumentarne il numero e ad allargare il territorio coinvolto: pensavo a diverse località del Polesine in un lasso di tempo più ampio. Sono tanti anni che medito questi incontri. L’idea è molto semplice: dimostrare che è possibile pensare, fare cultura anche dove non ce lo si aspetta. E comunque contribuire a far riflettere, ad informare, ad educare. Anche combinando il turismo del territorio con la cultura, cosa che mi piacerebbe far crescere l’anno prossimo: perché non organizzare una gita in barca nel Delta ed al tramonto parlare di bellezza, ad esempio. Ne vedremo delle belle, insomma. Ma a parte questo, incuriosisce sempre un giovane che si dedica con tanta passione alla filosofia, tanto più in tempi in cui tutto ciò che è cultura umanistica sembra non ave-

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re alcun senso. Quindi, come sarà capitato da queste parti Cristiano? Non è mai agevole trovare ragioni biografiche. Sono arrivato alla filosofia passando dalla musica: ho sempre ascoltato musica dura, punk, rock, metal, quelle cose lì; e poi ad un certo punto sono arrivati De Andrè e Guccini, i loro testi soprattutto, tessuti con parole molto alte che hanno messo in moto un certo meccanismo. Poi alle superiori ho incontrato Platone, non tanto il Platone spiegato dal professore o dal libro di testo, ma proprio le parole di Platone: e qui ho capito la potenza della filosofia, che rispetto a tutti i castelli di parole che ascoltavo e che elaboravo prima mi chiedeva, per la prima volta, i fondamenti di quei ragionamenti, le ragioni per cui dicevo quello che dicevo. L’esperienza della filosofia non è stata né bella né piacevole, ma destabilizzante, perché la filosofia è impietosa, è l’immane potenza del negativo, come dice Hegel; però è rivelatrice e una volta che la si pratica non si torna più indietro: a quel punto la filosofia è un destino. Ed è affascinante anche perché è radicale e impietosa, distrugge tutto e ti costringe a ricostruire dopo aver guardato in faccia il problema, anzi il fondamento del problema.

spiegare che non tutto è uguale, testimoniare che non tutto va bene. Mi spiego: la nostra è l’epoca degli infiniti mezzi e dei pochi contenuti. Un dato che cambia completa-

Affascinante, certo: ma che fatica parlare di fondamenti in una società in cui tutto è comunicazione, cioè essenzialmente velocità e superficialità. Cosa vuoi che ci faccia un filosofo in un mondo così? Potrebbe avere un ruolo fondamentale in un mondo come questo: dire e 61

mente il linguaggio e che cancella la distinzione qualitativa tra le fonti. Un evento oggi può venire filmato e commentato da ciascuno di noi, non è più, ad esempio, un giornalista a


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oppone in maniera decisa (cosa che invece dovrebbe fare: questo è il suo ruolo) perché è ancora troppo claustrofobica, monastica e finché è vissuta così non trasformerà niente della realtà (ecco perché mi piace la sfida di portare i filosofi a parlare d’estate al mare). E invece il filosofo, l’uomo di cultura dovrebbero prendersi la responsabilità di affermare e di far emergere la differenza tra un’idea e un luogo comune, tra ciò che è evidentemente vero e ciò che è falso.

mediare il racconto ed il commento di un dato avvenimento. O comunque non solo. Il problema è che non c’è distinzione qualitativa tra un commento qualsiasi e un commento di un

professionista. Questo è l’orizzonte della comunicazione oggi, in cui tutto è indistinto contenutisticamente e qualitativamente. È un processo molto pericoloso; e la cultura non vi si

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Ma questo modo di vedere il mondo te l’ha dato la tua passione per il pensiero o la formazione universitaria? Perché ci pare che non sia un buon momento per l’università, anche se è vero che se forma in questo modo uno come te non tutto è da buttare. Io sono rimasto molto deluso dall’università. Mi aspettavo di trovare degli importanti interlocutori ma non è stato così. Ma il problema è nel ruolo storico che l’università ha assunto. Cioè: c’è stato un tempo in cui l’università formava un’élite, mentre oggi l’università è di massa, diventa inclusiva ed educa tanti. È un bene perché diventa possibile a tanti usufruirne, ma diventa inevitabile che tutte le forme di inclusione diventino anche forme di livellamento al ribasso dei contenuti e anche dei criteri di selezione e di valutazione. La cosa più difficile è educare la massa senza far diventare la cultura una cultura di massa. Ma qui è evidente che centrale e di fondo è un discorso sulla democrazia. Il punto è riuscire a mediare.


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Più volte in questo colloquio è stata pronunciata la parola democrazia. È evidente che la democrazia in tutto il mondo sta vivendo una fase di crisi. Quali strade si potrebbero praticare secondo te per superare o per almeno ostacolare questa crisi? La primissima cosa da dire è che la politica è una cosa estremamente concreta: in Platone la politica è come amministrare la città. Bisogna fare quella roba lì. Teniamo presente che siamo arrivati ad una situazione di crisi anche perché siamo arrivati a chiederci non come dove quando è possibile fare quella cosa molto concreta, ma se sia possibile farla. È chiaro che la grande disaffezione per la democrazia deriva dal fatto

che essa non sa far fronte alle esigenze materiali delle persone. Cioè oggi gli uomini non si arricchiscono nella democrazia, non stanno bene. Poi bisogna anche essere chiari: non è tanto la democrazia che è in crisi nelle sue strutture profonde: è il neoliberismo che lascia l’individuo solo a se stesso. È cioè un modo molto specifico di intendere come la politica e come l’economia devono andare che ha dissestato le democrazie. L’idea di fondo è che chi ha i soldi li ha fatti perché se li è meritati e chi non li fa non se li è meritati. Inoltre l’egemonia economica è anche egemonia culturale. E questo orienta ormai tutte le democrazie occidentali. Finché restano così le cose non è che la democrazia abbia tanti strumenti per svincolarsi da una tendenza

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immanente alla democrazia stessa. Quindi davvero urgente è per me cambiare l’impostazione neoliberista che oggi di fatto governa il mondo. Cominciando a dire che devono esistere delle reciprocità, che ci sono dei limiti agli scambi economici, che non può esserci la multinazionale che decide tutto, a tal punto che se lo Stato alza un pochino le tasse quella delocalizza. Questa è la primissima cosa e senza questa non ci può essere fiducia nella democrazia. Dobbiamo tornare a mettere dei limiti: abbiamo passato tanti anni a cercare di togliere i limiti in nome di una libertà astratta e adesso è giunta l’ora di tornare a riflettere sul fatto che dei limiti, invece, sono necessari.


Lo scopo di questo lavoro è di offrire un testo semplice e breve capace di fornire delle chiavi di lettura del presente a partire dallo snodo fondamentale del secondo Novecento. In questo tentativo mi è stato di grande aiuto il criterio metodologico che ha ispirato l’opera dell’indimenticato Augusto Del Noce, ovvero il bisogno di pensare «l’attualità storica». Antonio Lionello

Antonio Lionello

SECONDO NOVECENTO Temi e linee di sviluppo storico 178 pagine Formato 15x21 ISBN: 978-88-99479-16-9 antoniolionello.wordpress.com apogeoeditore.it

Uno sguardo sinottico su alcuni snodi fondamentali della storia del secondo Novecento.


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Giuseppe Marchiori, opera senza titolo realizzata tra il 1935 e il 1938 (Coll. privata)

Sulle tracce dell’Anonimo del Novecento Un libro per riscoprire l’eccezionale personalità di Giuseppe Marchiori, uno dei più grandi critici d’arte del Novecento

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Intervista di Sara Milan a Nicola Gasparetto

'Anonimo del Novecento. Giuseppe Marchiori dagli esordi all'affermazione nella critica d'arte” è un libro che ogni appassionato d'arte non può perdere, perché va a colmare una lacuna nella valorizzazione


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del patrimonio culturale di questo territorio. Giuseppe Marchiori è infatti tra i più illustri intellettuali del Polesine e dell'Italia intera: il suo contributo alla critica d'arte è di rilievo nazionale e di respiro internazionale. Nicola

Giuseppe Marchiori, "Natura morta", 1928 (Collezione privata)

Gasparetto, coordinatore della Biblioteca Comunale di Lendinara, è autore del volume pubblicato in coedizione da Apogeo Editore e da Turismo & Cultura con un contributo della Fondazione Banca del Monte di Rovigo: lo abbiamo intervistato per Rem.

Leone Minassian, "Ca' Dolfin-Marchiori", 1932 (Collezione privata)

Marchiori nella seconda metà degli anni Trenta, alle sue spalle alcuni suoi quadri astratti 66


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Com'è nata la tua curiosità per la figura di Marchiori? L’incontro con Marchiori risale al tempo in cui stavo terminando i miei studi universitari e mi accingevo a scegliere l’argomento della mia tesi, in Storia della critica d’arte. L’interesse è nato quando ho scoperto che la biblioteca Gaetano Baccari di Lendinara, la mia città natale, custodiva da alcuni anni un archivio che raccoglieva pubblicazioni, cataloghi e soprattutto uno sterminato epistolario di un critico d’arte il cui nome avevo già incrociato nei manuali di storia dell’arte, perché aveva vissuto, e interpretato con i suoi scritti, capitoli decisivi della storia dell’arte del Novecento. Ho deciso subito di dedicarvi le mie ricerche. Dal lavoro di ricerca alla pubblicazione: quali sono stati i momenti più difficili e quelli più soddisfacenti? Indubbiamente uno degli aspetti problematici e a tratti disorientanti del lavoro è stato quello di misurarsi con una mole documentaria davvero consistente e che doveva es-

Guido Marchiori, "Giuseppe Marchiori", fine anni Trenta (Collezione privata)

sere ricomposta in modo da restituire il percorso umano ed intellettuale di quest'uomo. Altra sfida impegnativa è stata quella di individuare la via da seguire affinché la mia tesi suscitasse l’interesse per essere rivista e sviluppata in una pubblicazione. Fortunatamente ho trovato interlocutori attenti alla valorizzazione della figura di Marchiori, che rappresenta quanto di meglio la nostra terra ha saputo esprimere nel secolo scorso. Nel 2015, con il sostegno di Turismo e Cultura e il contributo Fondazione Banca del Monte di Rovigo, ho curato a Lendinara una mostra fotografica e documentaria dedicata agli artisti che Marchiori aveva ospitato nella sua storica residenza di Ca’ Dolfin. Sull’onda del positivo accoglimento di que-

Marchiori in divisa da ufficiale a Tripoli nel 1941

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sta iniziativa, con il coinvolgimento di un terzo partner, Apogeo Editore, sono così riuscito a raggiungere il traguardo di veder pubblicata la monografia dedicata agli anni di formazione di Giuseppe Marchiori.

a personalità che a vario titolo furono protagonisti della stagione a cavallo tra le due guerre. Tra tutti gli artisti con cui Marchiori strinse un rapporto d'amicizia o professionale, quale ti sembra il più significativo e perché?

Qual è il passo del tuo libro che può essere rappresentativo della personalità di Marchiori?

Tra questi artisti c’è sicuramente Osvaldo Licini, da lui molto amato perché incarnava il modello ideale d’artista: anticonformista, autonomo da qualsiasi orientamento prescritto e libero nell’esprimere una personalissima scrittura pittorica. Condivisero anche l’impegno per l’affermazione della prima pittura astratta in Italia. Poi sicuramente c'è Renato Birolli: fra i due si sviluppò un fitto epistolario

Trovo decisamente significativo un capitolo del mio studio: la selezione dei carteggi con diversi artisti e letterati con cui Marchiori è stato in contatto. Nella maggior parte dei casi scorrere quelle lettere permette di leggere pagine importanti della critica d’arte, dei movimenti artistici, degli orientamenti culturali e delle vicende legate

Marchiori con Giuseppe Santomaso alla fine degli anni Trenta

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lungo il quale emerse un confronto di grande profondità su quanto di volta in volta si affacciava nel panorama artistico, senza tralasciare il fatto che dal loro dialogo si posero le basi del Fronte Nuovo della Arti. Non posso tralasciare, infine, Umberto Saba. Fra i due si instaurò subito una sorta di affinità elettiva, un incontro di anime che li condusse a toccare temi estremamente personali, costruendo una sorta di rapporto padre e figlio che rende intenso, a tratti struggente, il loro scambio epistolare.

redazione della bibliografia completa, su questo terreno le mie ricerche sono arrivate fino agli anni del Fronte Nuovo delle Arti, quindi all’immediato dopoguerra, resta di conseguenza da ricomporre il quadro dei decenni successivi. Non ultimo un archivio, per essere un centro in cui il patrimonio vive, dovrà farsi promotore di incontri di approfondimento o di carattere espositivo che permettano di apprezzare le molte carte ancora inedite e in grado di fornire un contributo di tutto rilievo agli studi sull’arte contemporanea.

Quali sono le peculiarità della critica di Marchiori? È perché lo si considera un critico sui generis? Una delle sue peculiarità è sicuramente l’estrema indipendenza intellettuale con cui sceglie di avvicinarsi allo studio dell’arte al di fuori di ogni percorso accademico precostituito. Questo lo condurrà a svincolarsi sempre da ogni apparentamento ideologico, ad evitare qualsiasi legame condizionante. Altro aspetto che lo distingue è la volontà di approcciarsi all’artista entrando direttamente nella sua vita: la sua lettura critica quindi fu sempre orientata ad interpretare le opere come frutto di un’individualità irripetibile, evitando di classificare gli artisti con etichette di correnti e movimenti, tanto cari alla critica convenzionale. Quali obiettivi hai, in qualità di coordinatore della Biblioteca “G. Baccari”, per la valorizzazione della figura di questo grande critico? Va innanzitutto ricordato che l’archivio ha ritrovato la piena consultabilità nel contesto dell’ultimazione del restauro della storica sede dell’istituto, palazzo Boldrin, ribattezzato “Cittadella della Cultura” di Lendinara, che ha permesso di far interagire in un unico luogo i servizi bibliotecari, le sale destinate ai fondi archivistici e nuovi spazi museali. L’impegno nell’immediato è quello sicuramente di mantenere fruibile l’archivio e fornire consulenza ai numerosi ricercatori che settimanalmente lo consultano, ed in questo un valido contributo ci viene anche offerto dal supporto volontario di Pier Luigi Bagatin, già direttore del nostro istituto. Su un fronte più strettamente scientifico, operazione fondamentale per avere un’esatta misura della sua sterminata produzione di scritti sarà la 69


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Romea, multiculturalitĂ sonore 70


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Interviste di Cristiana Cobianco

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omea è il nome della strada che vedono dalla finestra il DJ e produttore Alberto Tessarin e il batterista Andrea Mancin, i due amici fondatori del gruppo nato nel 2014 in occasione di Deltarte e che ha in Alberto Tessarin il suo scheletro. Il progetto parte da sonorità campionate scelte nel repertorio musicale tra gli anni '70 e '90, spaziando dalla musica pop italiana e non, al jazz, al rock, all’etnica fino alle colonne sonore di film di culto. Ai campionamenti, che stravolgono le singole tracce, si decide nel tempo di aggiungere strumenti che suonino dal vivo. I musicisti che rispondono all’appello (Paolo Garbin al pianoforte, Germano Chieregato e Francesco Tessarin alle chitarre e Alessio Simoni al basso), a loro volta ribaltano le dinamiche campionate alla ricerca di un suono al contrario che renda irriconoscibile il punto di partenza se non per alcuni momenti di breve memoria. Ma manca ancora la voce e Alberto Tessarin e Andrea Mancin vogliono comunque attirare l'attenzione del pubblico sulla performance. Si decide di accompagnare la musica con video psichedelici, allo scopo di sequestrare orecchi, occhi e mente del pubblico. È un successo, a cui segue la registrazione dell’Ep “SS 309” con i pezzi proposti in quel primo esperimento del 2014. È l'inizio di un gran numero di concerti nelle location più diverse. Loro si divertono e si stimola71

no a innovare a vicenda. Provengono da un mix di esperienze musicali che creano sound meticci e che danno libertà a ciascuno di comporre, proponendo anche dal vivo nuovi sentieri di note. Sono dei virtuosi, ciascuno con il proprio strumento musicale e il conoscersi ha modificato il modo di lavorare del gruppo. La base campionata non ha più l'esclusiva del punto di partenza, ma si pone col tempo, anche a servizio delle idee degli altri. I Romea, che attualmente sono Alberto Tessarin aka DJ LB alla produzione e giradischi, Paolo Garbin al pianoforte, Alessio Simoni al basso e Antonio Zanellato alla batteria, sono attualmente in fase creativa, niente concerti, tutte le energie sono rivolte al prossimo cd che uscirà verso la metà del 2018 e che probabilmente sarà un concept album. Sono aperti a nuovi apporti musicali e continuano a cercare contaminazioni tra jazz, hip hop ed elettronica. La preparazione video è stata affidata ai visual artists Francesco Mancin e Lorenzo Zerbin. Con i Romea molti locali si sono vestiti di underground negli ultimi anni e ora il nuovo cd e i nuovi video stanno cucendo un nuovo vestito. Non ci resta che attendere qualche mese per godere delle loro performance e farci trasportare in atmosfere metropolitane dal gusto di Club, quei Club in cui la musica si sperimenta, frequentati da curiosi, da cultori del genere e da tutti quelli che non ne possono più di coverband.


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Antonio Zanellato

Alberto Tessarin aka DJ LB

Strumento musicale: batteria.

Strumento musicale: giradischi\vinile.

Background: da bambino sentii suonare per la prima volta la batteria da mio cugino Alberto (nonché leader dei Romea) e da lì iniziò il mio percorso. Ho frequentato il Conservatorio, inizialmente il dipartimento classico per sei anni e poi jazz che tutt’ora frequento. Per la maggior parte della mia attività live, però, ho suonato in contesti pop.

Background: batterista per 12 anni in generi diversi, dal crossover al punk e al rock, dal 2010 ad oggi dj turntablist, scratch, campione italiano IDA 2013 show category scratch, partecipazione al mondiale del medesimo anno sempre IDA, arrangiatore/produttore/fondatore e musicista dei Romea.

Musicista o band preferita: sono molti gli artisti che mi hanno e tuttora mi influenzano, ma fra tutti quello che ancora spicca è il batterista Dave Weckl.

Musicista o band preferita: Gil Scott Heron, Queens of the stone age, Metallica, Public Enemy. Il tuo contributo al progetto Romea: fondatore, arrangiatore, produttore, musicista.

Il tuo contributo al progetto Romea: vista la natura del progetto, è quello di dare della modernità partendo però dalla tradizione. Ciò significa che posso, ad esempio, partire da un groove utilizzato negli anni 30’ e riproporlo in maniera moderna con le evoluzioni di suono che si utilizzano ora.

Pregi e difetti dei Romea: un pregio importante dei Romea è la versatilità dei generi che riusciamo a toccare, pur rendendo l'ascolto relativamente semplice e orecchiabile, inoltre riusciamo a creare spesso un'atmosfera emotiva che rispecchia la passione dei membri del gruppo per il progetto stesso. Difetti spero non ce ne siano molti :), comunque si potrebbero aggiungere fiati e voci cantate.

Pregi e difetti dei Romea: il maggiore pregio è la derivazione musicale e il background che ognuno di noi propone; è dà lì che si crea il sound Romea. A livello di miglioramenti, dobbiamo ancora lavorare sul legame tra musica e video-art per dare ulteriormente spessore al nostro progetto.

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Alessio Simoni

Paolo Garbin

Strumento musicale: basso/sintetizzatori.

Strumento musicale: tastiere.

Background: gruppi adolescenziali a parte, la mia carriera nell’underground polesano inizia come bassista negli Anna Never, gruppo grunge/stoner formatosi nel 1995; successivamente, a metà 2000, sempre come bassista ho fatto parte della band indie rock Juxtabrunch. Cambiando completamente genere, prima dei Romea ero nel progetto cantautorale NaStraße ai sintetizzatori in sonorità electro/ pop.

Background: il mio percorso é stato piuttosto accademico, diploma in musica classica, qualche anno di composizione, biennio jazz. Ho avuto la fortuna di studiare e lavorare con il grande trombettista Marco Tamburini, che ha lasciato un'impronta importante nel mio percorso musicale. Ho sempre preso parte a progetti prettamente jazzistici e con i Romea mi permetto di sperimentare liberamente, senza rimanere per forza legato ad un certo “stile”.

Musicista o band preferita: sono molti gli artisti che mi influenzano e fortunatamente sono riuscito sempre ad evitare di fissarmi eccessivamente su un nome in particolare. Per rispondere alla tua domanda, però, diciamo che i Radiohead sono uno dei gruppi che ho rivisto in concerto più volte negli ultimi anni.

Musicista o band preferita: se devo citarne uno tra i tanti direi Herbie Hancock. Il tuo contributo al progetto Romea: come tutti contribuisco con le mie idee, abbozzo qualche brano che viene poi rielaborato insieme agli altri componenti del gruppo, i nostri pezzi sono tutti frutto di uno sforzo comune.

Il tuo contributo al progetto Romea: dal punto di vista strettamente musicale il mio contributo si concretizza maggiormente nelle fasi di arrangiamento e finalizzazione dei pezzi.

Pregi e difetti dei Romea: come pregi direi innanzitutto che é un gruppo composto da amici che condividono, oltre al palco, anche la vita di tutti i giorni; inoltre é un progetto che, visti i diversi background dei musicisti che lo compongono, offre imprevedibili possibilità di evoluzione. Se devo trovare un difetto direi che dobbiamo velocizzare un po' il processo di sviluppo dei brani, spesso risulta difficile trovare un punto di equilibrio per evitare che un brano suoni troppo "pop" piuttosto che troppo "jazz”.

Pregi e difetti dei Romea: il maggiore pregio che riconosco al progetto è l’ampiezza della visione musicale ed artistica che ognuno dei componenti cerca a suo modo di portare; quanto ai difetti, diciamo che nell’immediato futuro dovremmo cercare di aumentare le forze da indirizzare da un lato nella cura della video arte che accompagna i nostri live e dall’altro nella promozione artistica del progetto e nello sviluppo dei contatti. 73


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Il collettivo dei Romea è nato nella seconda metà del 2014, in modo del tutto spontaneo, tra amici che avevano intrapreso percorsi musicali differenti: Alberto Tessarin aka DJ LB reduce dai mondiali di scratch a Cracovia (IDA) e il batterista Andrea Mancin. Ad essi si sono aggiunti il pianista Paolo Garbin che arriva dalla classica e dal jazz, il bassista Alessio Simoni con background indie rock e grunge e il chitarrista Francesco Tessarin, che è rimasto nella band fino a metà 2017. Poco dopo la fondazione dei Romea Andrea Mancin si è trasferito a New York ed è stato sostituito dal batterista jazz Antonio Zanellato. Il nucleo originario comprendeva inoltre il chitarrista Germano Chieregato e il videoartist Francesco Mancin, che ha contribuito alla creazione delle proiezioni artistiche durante le performance dal vivo dei Romea. Il nome richiama la strada che si vede dalla finestra della sala prove (casa di DJ LB). Nel 2015 è uscito il primo album, rigorosamente autoprodotto, intitolato "SS309". I Romea si sono esibiti tra Veneto, Emilia e Lombardia, partecipando a festival come DeltArte e Rural Lab Festival nel Delta del Po, Railway Festival di Ferrara e Ora d'aria alle ex carceri di Loreo.

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LUOGHI

I laghi della

Particolare di una mappa di metà ‘600. Nella Valle di S. Giustina l’acqua restava intrappolata nella bassura tra Adige (a nord) e Adigetto (a sud). Si distinguono alcuni laghi, anche se forse le loro forme e posizioni sono più simboliche che reali

Valle di S.Giustina

Tracce di un mosaico dissolto

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di Marco Barbujani

osa c’è di più noioso della piatta campagna polesana? Forse leggere cinque pagine sulla piatta campagna polesana: perciò meglio evitare. Eppure in passato le basse pianure come il Polesine erano ben più variegate: prima dell’agricoltura si alternavano boschi e paludi a seconda delle condizioni ambientali. E anche con l’agricoltura tradizionale i campi erano piccoli, diversi, interrotti da stagni, siepi o addirittura boschetti. Oggi è quasi impossibile avere tracce della diversità di quel paesaggio

A più di un secolo dal loro prosciugamento, queste zone umide ci dicono ancora qualcosa, forniscono indicazioni su cosa c’era in Polesine prima della bonifica moderna 75


LUOGHI

A sinistra, la Valle prima della bonifica (1721); nell’altra mappa, di un secolo dopo, è quasi tutto coltivato, ma ci sono ancora dei laghi, in particolare il Bovina (quello più in basso) e il Ceco Frassine (in alto). Foto: Michele Barbujani; mapire.eu persistenti al punto da avere anche un nome: lago Bovina, lago Grande e lago Ceco Frassine, che con ogni probabilità erano proprio le zone più basse della Valle. Non erano gli unici rimasti e non sono sempre stati chiamati così, ma di tutta la palude questi sembrano essere i più ricorrenti in cartografia storica.

scomparso. Ma forse la cosa è diversa nel caso di Ca’ Emo e della Valle di S. Giustina. Tra Villadose, Mardimago e Cavarzere c’era una grande palude, che appare in quasi tutte le mappe storiche almeno dal ‘600. Occupava quella lieve ma vasta bassura tra la sponda destra dell’Adige e quella sinistra dell’Adigetto, perciò era un vicolo cieco in cui l’acqua si fermava facilmente.

I tre laghi nel 1841 sono stati disegnati con precisione nel Catasto Austro-ungarico, per cui è possibile sapere dov’erano e com’erano fatti. Il lago Ceco Frassine, ad esempio, tra Fasana e Pettorazza, era vasto e dalla forma vagamente tondeggiante, ampia oltre un chilometro. È interessante notare come il Ceresolo, il canale di scolo che gli passa sotto, compia una breve deviazione e sembri scavato in modo da girargli bene alla larga. La stessa cosa si verifica anche in altri casi, come per lo scolo Bresega che sembra piegare per “evitare” il lago Bovina. Oggi il tracciato di molti scoli artificiali è rimasto uguale al passato, e conserva dei repentini cambi di percorso: in alcuni casi, questi piccoli scansi sono legati proprio alla presenza dei laghi scomparsi oppure di vecchi rami di fiume inglobati nel canale.

La palude è indicata in vari modi, tra cui Fossa Liparo e poi Valle (o Valli) di S. Giustina; nelle mappe storiche è evidenziata e disegnata spesso come un prato costellato da alcuni laghetti. Visto il clima del Polesine, probabilmente la Valle si allagava in prevalenza tra autunno e primavera, con le piogge e le conseguenti alluvioni dell’Adige; in estate invece l’acqua rimaneva solo nei punti più depressi. Così com’era, l’area si prestava poco all’agricoltura, o anche solo ad essere abitata. Al più poteva fornire canne, legna dolce e prodotti di caccia e pesca. Tra ‘700 e ‘800 sono migliorate decisamente le tecniche di bonifica, perciò in quel periodo gran parte della Valle di S. Giustina è stata prosciugata e coltivata. A metà ‘800, però, restavano ancora almeno tre grandi laghi,

Il lago Grande e il Bovina, invece, si trovavano a nord di 76


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Le zone umide censite nel Catasto del 1841 (in rosso), sovrapposte a una foto satellitare del 2017 dell’ex-Valle di S. Giustina. L’area è compresa tra l’Adige (in alto) e la città di Villadose (in basso a sinistra). Il lago Ceco Frassine (in alto a destra) era il più esteso di quelli rimasti. Foto: Google Ca’ Emo. Entrambi avevano una forma allungata e curva, che ricorda il frammento di un fiume. Viste le violente alluvioni dell’Adige, forse i due laghi occupavano proprio un solco scavato in passato dall’acqua, ossia un canale di rotta, oppure erano vecchi meandri, ma è difficile dirlo con certezza. Nel Catasto appaiono lunghi uno o due chilometri e larghi appena un centinaio di metri, anche se probabilmente si riempivano e si espandevano di più in caso di alluvioni o anche solo di piogge.

Proprio il Catasto dà indizi su una maggiore diversità ambientale dei laghi rispetto al paesaggio coltivato. E non solo perché in mappa la campagna si interrompe lasciando posto a zone umide, ma anche perché queste ultime sono ambienti mutevoli sia nello spazio di qualche metro, sia nell’arco di una singola stagione. In questo senso il Bovina appare come il lago più interessante dal punto di vista naturalistico. Il Catasto, infatti, ne classifica un segmento come Palude da canne e uno 77


LUOGHI

come Stagno: ciò significa che parte del lago era un canneto che poteva restare asciutto nei mesi estivi mentre una parte, forse più profonda, rimaneva allagata tutto l’anno. Un contesto così eterogeneo è importante perché offre molte possibilità per le più disparate specie animali e vegetali, con tanti “posti di lavoro” diversi (nicchie ecologiche) in cui ogni organismo si specializza.

quante situazioni diverse si incontrano nelle zone umide presenti oggi in Polesine, come il Boji della Feriana a Concadirame o l’oasi di Ca’ Mello a Porto Tolle. Si va da uno specchio d’acqua dolce, habitat di piante e animali acquatici, ad una zona di transizione tra il bagnato e l’asciutto, dove i canneti e i prati umidi offrono grandi possibilità a chi vive tra l’acqua e la terra: anfibi, ma anche animali terrestri che comunque dipendono dal lago. Ci sono poi aree meno umide dove vive chi ha bisogno della terra sotto i piedi. In molte zone, anche allagate, crescono alberi capaci di vivere sommersi per settimane,

Non è possibile elencare tutte le specie che potevano gravitare attorno a un lago come il Bovina. Però, per farsi un’idea di questa ricchezza, si può pensare appunto a

In alto, i laghi di Ca’ Emo nel Catasto del 1841 e, in basso, la loro posizione reale, sulla strada tra Ca’ Emo e Beverare. Il lago Bovina è quello più piccolo, sulla destra. Foto: Archivio di Stato Padova; Google 78


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creando a loro volta ulteriore diversità. Infatti il legno, sia vivo che morto, è un elemento importante in tutte le sue forme: tronchi in piedi, a terra, dentro o fuori dall’acqua sono preziosi contesti “di nicchia”, microhabitat in cui vivono organismi tra i più specializzati.

ca moderna. Da un lato, questo può dare un impulso in più verso la tutela delle aree umide rimaste, soprattutto quelle dell’entroterra. Dall’altro, la consapevolezza dell’ambiente passato può arricchire l’identità di questa terra così particolare: in fondo, se il Polesine attuale è il risultato della convivenza dell’uomo e di un certo tipo di ambiente, quest’ultimo fa parte anch’esso del territorio e della sua cultura, anche se oggi è scomparso.

A più di un secolo dal loro prosciugamento, queste zone umide ci dicono ancora qualcosa. Non è solo questione di sapere dove può accumularsi l’acqua, che comunque è un’informazione preziosa; esse forniscono anche indicazioni su cosa c’era in Polesine prima della bonifi-

Prima della bonifica della Valle, il lago Bovina poteva apparire simile a questa palude. Nei suoi ultimi anni, invece, può darsi che la coltivazione delle aree vicine e l’alterazione della vegetazione ne abbiano modificato l’aspetto in modo significativo, probabilmente aumentando anche la torbidità dell’acqua. (Foto: D. Cuizzi; Archivio Riserva naturale Palude di Ostiglia) 79


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Il museo che non c'è 80


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Se si risale agli esordi, è facile comprendere come siano state travagliate e ancora lo siano le vicissitudini legate alla collocazione del Museo della Civiltà Contadina di Porto Tolle. Vale la pena, allora, cercare di ripercorrerne le tappe attraverso il racconto dei protagonisti di Massimiliano Battiston e Ilaria Gabrieli

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tanze affollate di oggetti d’epoca di ogni tipo e fattura: mobili, utensili per uso domestico, pentole e mestoli, recipienti, biancheria per la casa e coperte, piccoli attrezzi per i lavori manuali, attrezzi più ingombranti per il lavoro nei campi, ferramenta assortita, cordami, biciclette e carriole, pietre miliari, macchine per cucire; c’è perfino un grande proiettore proveniente da uno dei vecchi cinema di paese e molti articoli dal fascino obsoleto a cui è difficile attribuire uno scopo, senza contare la mole di materiale fotografico e gli apparati audiovisivi. Questo e molto altro è, oggi, il patrimonio del Museo della Civiltà Contadina di Porto Tolle. Concretamente: un museo che non ha una casa.

Foto di Ilaria Gabrieli e Valentino Maggio

Dopo un rapido trasloco dagli ambienti che prima lo ospitavano, tutto il materiale è stato accatastato nei locali dell’ex-asilo Scarpari, in attesa 81

di poter essere ordinato ed esposto al pubblico, come meriterebbe. Oltre alla cospicua collezione di reperti custodita nei locali dell’ex-asilo di proprietà del Comune, probabile futura sede del museo, un’altra, riguardante soprattutto gli attrezzi agricoli più ingombranti, ha trovato una temporanea collocazione negli stabili dell’azienda agricola Silimbani a Donzella, mentre alcuni oggetti si possono trovare presso il Centro di Informazione dell’ENEL a Polesine Camerini. Per il museo non esiste un vero e proprio progetto di allestimento, mentre gli spazi dell’asilo presentano i chiari segni di un rapido degrado dovuto all’abbandono. Se si risale agli esordi, è facile comprendere come siano state travagliate e ancora lo siano le vicissitudini legate alla collocazione del Museo. Vale la pena, allora, cercare di ripercorrerne le tappe attraverso il racconto dei protagonisti. Nei primi anni Ottanta, a quindici anni dall’ultima alluvione del ’66,


LUOGHI

che si era abbattuta sulle terre di Porto Tolle causando la distruzione di colture, edifici, cose, la Comunità assiste anno dopo anno al risorgere degli abitati e alla ripresa dell’economia; si accresce la fiducia nel futuro e la consapevolezza di una società avviata agli agi della modernità: pare legittimo tributare ad un’epoca che si è chiusa la memoria storica di chi è rimasto e continua a ricordare un mondo arcaico ed estinto, attraverso la trasmissione delle tradizioni e del sapere orale, oppure raccogliendo e togliendo dalla polvere quei reperti ancora in grado di rievocare le piccole storie quotidiane delle comunità rurali, la precarietà, le fatiche e i mestieri scomparsi. Fu questa sensibilità che

spinse un gruppo di persone, i signori Arnaldo Girardi, Leonino Ferro, Vittorino Mancin e Vittorio Moretto ad allestire, all’interno delle sale dell’ex-Banca Cattolica, in occasione della Fiera che si tiene ogni anno a settembre, una mostra ispirata alla civiltà contadina che, pur nella sua semplicità, destò una profonda impressione nei visitatori di ogni età, specialmente nei più giovani. L’anno successivo venne chiesto al gruppo di organizzatori di ripetere la mostra, questa volta arricchita di contributi da parte di nuovi donatori. La collezione iniziò così ad accrescersi e si fece strada la necessità di custodire e conservare il patrimonio storico e culturale rappresentato da tutti quei beni messi insieme all’interno

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di uno spazio protetto. Il Comune assegnò l’ex-asilo Badaloni, un basso fabbricato inutilizzato da qualche anno con cortile sulla via principale, che sarà per oltre un decennio la prima sede del costituito Centro di Documentazione della Civiltà Contadina. Il museo si articolava principalmente in due sezioni: la vita quotidiana rappresentata dalla cucina, la camera da letto, la scuola e il gioco; le attività lavorative come l’agricoltura, la pesca, le professioni. Un importante lavoro fu svolto dai volontari nel garantire il servizio di guida ai visitatori, nella catalogazione e nella manutenzione degli oggetti. Ma imponente è stato anche l’impegno di portare il museo fuori dalle stanze della sua sede,


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partecipando alle manifestazioni e alle fiere di piazza con mostre temporanee e ricostruzioni storiche di arti e antichi mestieri, rappresentando la trebbiatura del riso e del grano con macchinari d’epoca, comparendo in trasmissioni televisive, promuovendo scambi culturali con associazioni di altre parti d’Italia e accordando il prestito di molti pezzi, non ultima la presenza in occasione dell’Expo di Milano. Nel tempo al gruppo dei primi volontari si aggregarono anche Giovanni Marangoni, Benito Milani, Gino Pregnolato, Natale Falconi, Giorgio Bellan e Silvana Cavallari; preziosi furono, inoltre, i contributi dei professori Raffaele Peretto, Luciano

Scarpante e dei professori Chiara Crepaldi e Paolo Rigoni del Centro Etnografico Adriese, che offrirono la loro consulenza per la catalogazione e l’allestimento degli ambienti. In oltre trent’anni il museo e i suoi sostenitori hanno incrementato la collezione di nuovi pezzi, hanno sostenuto attività didattiche con le scuole e collaborazioni con la Pro Loco, hanno prodotto documenti audiovisivi, realizzato pubblicazioni e affrontato il trasloco dalla scuola Badaloni per lasciare il posto alla Biblioteca Comunale, insediandosi in alcuni capannoni pertinenti al complesso dell’istituto professionale IPSIA. Qui, nonostante la posizione appartata e poco adatta alla fruizione di un pubblico, il Museo ha proseguito la

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sua attività di divulgazione. Dopo oltre vent’anni anni i capannoni di lamiera sono stati demoliti, perché al loro posto sorgerà la mensa scolastica. L’ultima tappa del museo è oggi, dunque, l’ex-asilo Scarpari: un grande edificio addormentato circondato da un bel giardino, che non è difficile immaginare come il luogo ideale quale sede di un museo meraviglioso. È auspicabile, visitandone gli interni malmessi, dove risiedono disordine e incuria, che gli interventi di recupero inizino quanto prima, per restituire una dimora definitiva a quello che è a tutti gli effetti il patrimonio di una Comunità.


MESSAGGIO REDAZIONALE

LA FONDAZIONE BANCA DEL MONTE DI ROVIGO

Al Teatro Don Bosco di Rovigo la 16° edizione del Festival

“Tra Scuole e Teatro” 84

Una scena dello spettacolo "Ubu re" del I.I.S. "Primo Levi" - Liceo "E. Balzan" per la regia di Georg Sobbe, vincitore della menzione per "la poeticità dell'allestimento" assegnata della giuria degli studenti


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di Barbara Chinaglia foto di Ciro Mattia Gonano

I

nserito nel contesto del prestigioso Maggio Rodigino, dopo due settimane di manifestazioni, lo scorso 5 giugno si è concluso al Teatro “Don Bosco” di Rovigo il Festival “Tra Scuole e Teatro”. L’iniziativa, alla sua sedicesima edizione, è promossa e organizzata fin dal 2001 dal Teatro “Don Bosco” e dall’associazione Teatro Nexus, sostenuta a partire dal 2006 dall’associazione Noi Rovigo e, a partire dal 2016, dalla Fondazione Banca del Monte di Rovigo. L’iniziativa ha goduto inoltre del patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Rovigo e della Fondazione per lo sviluppo del Polesine in campo Letterario, Artistico e Musicale. Densa ed emozionante la serata conclusiva, con la messa in scena di performance teatrali e la cerimonia di premiazione. Registrando il tutto esaurito, come per le precedenti serate in cartellone, il numerosissimo pubblico di giovani e giovanissimi ha assistito entusiasta ai lavori teatrali dei loro coetanei - non sono mancati le famiglie e gli insegnanti orgogliosi dei propri figli e alunni in primo piano sul palcoscenico – e alla consegna dei riconoscimenti secondo le categorie di premiazione. Tra il pubblico erano presenti i rappresentanti di tutti gli enti promotori e sostenitori del Festival. La manifestazione è ormai divenuta un immancabile appuntamento per le scuole della città e della provincia e attesta, per il numero delle scuole in cartellone e per il consistente

pubblico, il crescente interesse verso l’attività teatrale. Il Festival, inoltre, ha permesso di prendere consapevolezza dell’importanza dell’autentico protagonismo dei giovani, inteso come coinvolgimento nei diversi ruoli e capacità di assumere e portare a compimento impegni come attori, scenografi, giudici, spettatori, tecnici di sala e promotori delle loro opere teatrali. Gli istituti scolastici in concorso nel 2017 sono stati cinque, provenienti da tutta la provincia, da Adria a Badia Polesine. Sono state presentate rielaborazioni originali tratte dalla letteratura internazionale, tematiche attuali quali il bullismo e, per contrapposizione l’inclusione, grandi nomi della letteratura teatrale internazionale, quali Dario Fo, Alfred Jarry, e Pierre-Augustin Caron De Beaumarchais, valorizzato in un prezioso lavoro drammaturgico da insegnanti e ragazzi che lo hanno interpretato in un francese davvero ben parlato oltre che in italiano. Apprezzati anche il Mateatro del Liceo “BocchiGalilei” di Adria con un originale e duraturo esperimento di allenamento alla matematica attraverso il teatro e il rinato laboratorio del Liceo Scientifico “Paleocapa”, che ha proposto una versione meta-laboratoriale mettendo in scena un esperimento sociale drammatizzato. Vari i linguaggi e le tecniche utilizzati per le diverse messe in scena, così come diversificata e di qualità è stata la rassegna di opere offerte al pubblico, facendo emergere l’amore per il teatro, vero motore di questo Festival, che merita di essere maggiormente divulgato nella provincia. 85

Il pubblico della serata di premiazione con, in prima fila, le autorità La serata conclusiva al Don Bosco è stata aperta dal Drama club del Liceo “Celio-Roccati”, vincitore dell’edizione 2016 del Festival, con la rappresentazione, fuori concorso,

Il momento degli applausi con gli studenti e il regista di "Impetus" del Liceo Scientifico "P. Paleocapa" di Rovigo per la regia di Ciro Mattia Gonano, spettacolo vincitore della menzione per il "miglior progetto didattico-educativo" assegnata dalla giuria di studenti


MESSAGGIO REDAZIONALE

Una scena dello spettacolo "Isabella, tre caravelle e un cacciaballe" del Liceo "CelioRoccati" per la regia di Rossella Moscatello, vincitore del premio come Miglior Spettacolo secondo la giuria degli studenti e della menzione per la "migliore scenografia", laboratorio scenografico a cura di Mirella Boso “The Tell-Tale Heart”, in lingua inglese, tratta dall’omonimo racconto di Edgar Allan Poe. Lo spettacolo, ben curato e con punte di eccellenza tra gli studenti attori, ha valorizzato le

Un momento dello spettacolo "Diavolo di un barbiere" del Liceo "Celio - Roccati" di Rovigo a cura di Guidalberto Gregori e Germana Menardi

loro competenze e la specificità linguistica del laboratorio. La serata è poi proseguita con la consegna dei riconoscimenti agli istituti in concorso. A tutti i partecipanti, da parte del prof. Luigi Costato, presidente della Fondazione Banca del Monte di Rovigo, è stato consegnato l’attestato di partecipazione, unitamente ad un contributo assegnato dalla Fondazione stessa, un aiuto concreto alle scuole per incentivare il proseguimento dell’attività teatrale negli anni futuri. La Fondazione, infatti, dal 2016 sostiene il Festival apprezzandone il valore formativo e culturale, incoraggiandone l’esperienza laboratoriale nel corso dell’anno scolastico e condividendo le finalità del progetto. È stata poi la volta dei premi assegnati dalla giuria di studenti, un gruppo di lavoro formato dagli studenti stessi partecipanti al Festival e inviati direttamente dalle scuole in concorso ad osservare e valutare i lavori di tutti i partecipanti. Gli studenti hanno scelto di assegnare il premio per la migliore scenografia al Liceo “Celio-Roccati” di Rovigo e al laboratorio condotto dalla professoressa Mirella Boso per lo spettacolo “Isabella tre caravelle e un cacciaballe”. Impossibile non riconoscere la coerenza estetica e l’esecuzione puntuale delle scenografie utilizzate in scena dagli attori con continui cambi di scena a vista, un progetto complesso ed efficace. Luca Cherubini, giurato e attore della scuola media “Carlo Goldoni” di Ceregnano, nella consegna della menzione, ha sottolineato come lavorare in giuria gli abbia permesso di imparare ad 86

apprezzare diverse tipologie di linguaggi e metodi del fare teatro. Il miglior progetto didattico educativo è stato, secondo gli studenti, “Impetus”, scritto e diretto da Ciro Mattia Gonano per il laboratorio del Liceo Scientifico “P. Paleocapa” di Rovigo; la motivazione della giuria studenti ha evidenziato come lo spettacolo trattasse argomenti in programma (la dittatura nazista) in un modo educativo, sia per gli studenti che hanno allestito lo spettacolo, sia per il pubblico che vi ha assistito. Al laboratorio dell’Istituto di Istruzione Superiore “Primo Levi” di Badia Polesine, condotto nell’ambito del Liceo “E. Balzan” da Georg Sobbe, la giuria studenti ha deciso di assegnare la menzione speciale per la “poeticità dell’allestimento”, colpita dalla particolare ed efficace soluzione scenica individuata dal regista e ben gestita dagli attori che, con una sola scala, sono stati in grado di creare, secondo le scene, diversi ambienti, situazioni e momenti della drammaturgia. Il miglior spettacolo giudicato dal pubblico è stato “Wonder - la meraviglia di essere unici”, adattamento teatrale del romanzo di R. J. Palacio, frutto di un laboratorio di sensibilizzazione a tutte le arti della scena. Per questo spettacolo, presentato dalla scuola media “Carlo Goldoni” di Ceregnano, si è letteralmente messa in moto un’intera comunità. Non solo i ragazzi hanno integrato la preparazione delle scene con esperienze da spettatori e con la visita al Teatro Sociale di Rovigo, ma si è avvertito tangibilmente l’amore e il rispetto per il “fare teatro” dalla motivazione di allievi e famiglie ad


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Un momento dello spettacolo "The Tell - Tale Heart" del Drama Club del Liceo "Celio - Roccati" andato in scena in occasione della serata di premiazione, laboratorio a cura di Silvana de Vincentiis e Margaret Hazard.

essere presenti tutte le sere del Festival per conoscere anche gli spettacoli delle altre scuole. Il miglior spettacolo, invece, valutato dalla giuria studenti è stato “Isabella tre caravelle e un cacciaballe” di Dario Fo, adattamento a cura della professoressa Rossella Moscatello, che ha portato in scena con grande capacità il gruppo del Liceo “CelioRoccati” con una storia laboratoriale più che ventennale. Una grande soddisfazione per studenti, insegnanti e famiglie portare in scena un testo sagace e sarcastico, come quello del premio Nobel Fo, non certo facile da indossare per dei giovanissimi studenti-attori. Sono già in corso i preparativi per l’edizione del Festival 2018, dove saranno previsti appuntamenti mattutini presso le scuole della città e della provincia, a cura dell’associazione Nexus, così da dare spazio e far

conoscere quanti più laboratori teatrali possibili. Mentre lo scorso anno sono stati invitati il Teatro Cosquillas di Ferrara con il gruppo “Nati dal nulla” e Farmaschool, uno spazio di formazione gestito a Mestre da Farmacia Zoo, compagnia veneta di rilevanza nazionale che ha dedicato uno spazio specifico alla formazione teatrale dei giovani, ad occupare lo spazio delle matinée nell’edizione 2017-2018 sarà l’associazione Zagreo, un’associazione culturale attiva in provincia di Rovigo e nella bassa padovana con una particolare specializzazione e vocazione per il Teatro Educazione. Una nota che riempie di orgoglio gli organizzatori del Festival è la constatazione che diversi istituti hanno già attivato i loro laboratori teatrali

e altri sono in attesa di farlo. Altri ancora, forti del successo raggiunto al Festival, stanno presentando i loro spettacoli a concorsi regionali e ad altri istituti della provincia. La considerazione finale è quindi positiva: il teatro nelle scuole del Polesine si sta sempre più affermando ed è intenzione del Festival continuare a valorizzarlo. Per questo motivo tutte le scuole sono invitate a partecipare all’edizione del Festival 2018 contattando l’associazione Nexus al numero 347.1389682 nei giorni di lunedì e mercoledì dalle 10.30 alle 13.00; il martedì, giovedì e venerdì dalle 14.30 alle 17.30.

Una scena dello spettacolo di Mateatro "I 3 matematici" del Liceo "Bocchi -Galilei" di Adria per la regia di Gianni Callegarin 87


SAPORI & SAPERI

L’eredità di

Arnaldo Cavallari e l’Accademia del Pane di Adria

21 di Marco Vianello

Settembre 1982: nel suo forno sperimentale di via Ca’ Cima ad Adria, presso i Molini adriesi, Arnaldo Cavallari aveva riunito una coppia di amici esperti nel campo della panificazione e si apprestava a scrivere una ricetta da lui pensata per poter realizzare un pane unico, quel

pane che diventerà il più conosciuto al mondo, un pane che contenesse una quantità di acqua superiore agli altri, grazie alla maglia glutinica della sua farina, la parte proteica che poteva contenere una grande quantità di molecole d’acqua. Il pane si chiamerà Ciabatta polesana e nel 1989 diventerà Ciabatta Italia, il pane dalla mollica bucherellata. La prima ciabatta, prodotta con farine principalmente di tipo “0” e “00”, sarà poi perfezionata usando farine di tipo 1 che contengono più fibre e sono più utili alla salute. Pochissimo lievito, lunga lievitazione, biga creata il giorno prima e impasto il giorno seguente, due procedimenti complementari tra di loro. 88

Il nome del pane “ciabatta” deriva dalla sua forma appiattita, un pane che vanta un disciplinare con data certa, garantito da una filiera naturale sicura, dalla genuinità delle farine prodotte nei Molini adriesi, dove gli additivi non si sapeva neanche cosa fossero. Un pane leggero, che si combina con qualsiasi tipo di salumi, oppure con il budino di cioccolato o le marmellate, indicato quindi sia con il dolce che con il salato, con la mollica alveolata che non dà quel senso di pienezza che potrebbe diminuire l’appetito. La crosta è croccante, ma non deve essere dura e se refrigerato dura molti giorni, è sufficiente lasciarlo scongelare e metterlo nel forno per qualche minuto per ritornare come appena sfornato.


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Questa eredità, lasciata da Arnaldo Cavallari, ha permesso ad Adria di diventare la “Città del pane”, il luogo dove è nato il pane ciabatta. Negli anni della sua vita Arnaldo Cavallari ha conseguito successi nel mondo sportivo e imprenditoriale e ha portato il nome di Adria in giro per il mondo. Il suo bagaglio di esperienza non poteva essere dimenticato: è così nata l’Accademia del Pane, voluta dallo stesso Cavallari (che aveva anche pensato inizialmente di ideare una rivista con questo nome). In seguito, nel 2013, alcune persone hanno manifestato l’intenzione di dare forma ad una Associazione costituita nel rispetto del Codice Civile e della normativa in materia, con sede sempre ad Adria. Il progetto, rimasto nel cassetto fino alla scomparsa di Arnaldo (il gruppo di amici si ritrovava settimanalmente

con lui e continuava nell’intento di sviluppare il progetto Ciabatta Village) è stato recentemente riproposto per raccogliere la sua eredità e l’Associazione è diventata operativa. Oggi svolge attività di promozione ed utilità sociale nel settore didattico dell’arte bianca, del marketing, della salute dei consumatori, dell’agroalimentare, industriale, culturale, dello spettacolo, sportivo e persegue anche scopi filantropici. Mantiene la gestione storico-industriale e culturale del pane ciabatta, delle farine e di tutte le ricette metodologiche inventate da Arnaldo Cavallari (ultima, in ordine cronologico, la “pagnocca polesana”, pane pulito italiano). La volontà degli associati è quella di rimanere nel fabbricato di via Ca’ Cima, casa e forno sperimentale di Arnaldo Cavallari, affinché questo possa diventare un museo dei suoi

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cimeli sportivi e luogo di ritrovo per promuovere nuovi prodotti ed eventi. Inoltre, per potervi riunire tutti coloro che credono nella missione del “prodotto pulito”, affinché possano aggregarsi e creare nuove soluzioni per il mondo alimentare, tenere viva la tradizione cittadina e farla conoscere all’esterno. Chiunque fosse intenzionato a portare un suo contributo costruttivo e ad approfondire la conoscenza degli scopi dell’Associazione può trovare informazioni sulla nostra attività sul sito www.accademiadelpane.it o contattarci inviando una mail all’indirizzo info@accademiadelpane.it


Strisce

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Alberto, Lorenzo e Nico

UNA STORIA quasi INFINITA Preludio

Q

ualche tempo fa, nella terra del Polesine, in una remota cittadina di nome Porto Viro, 91

tre giovani ragazzi decisero di mettersi insieme per una missione: creare un canale Youtube. A loro pareva un’idea fantastica e il nome era già pronto: Moodyseries! Avrebbero parlato dei loro più grandi interessi: fumetti, film, serie tv e videogiochi, la sfida era molto allettante e il premio, ovvero la fama, ancora di più!


Strisce Ma le cose non andarono proprio per il verso giusto… Il primo a capire che l’impresa era troppo grande per il giovane gruppo fu Alberto, che decise di abbandonare la nave lanciandosi nell’insidioso mare dell’università a tempo pieno. Poco dopo, anche Lorenzo e Nico cominciarono a non credere più nel loro piccolo canale da una manciata di iscritti. Il tempo passò e il morale crollò presto, fino a quando un giorno Nico, con il suo cavallo bianco fiammante, arrivò a casa di Lorenzo dicendo: “Ho un’idea per il canale! Una web serie, non ce ne sono molte e se diventassimo bravi potremmo anche sbarcare il lunario”. Lorenzo rimase impressionato dalle sue parole e cominciò subito a scrivere la sceneggiatura della WebSerie. Dopo giorni e giorni di scrittura, come in tutte le storie che si rispettino, incontrarono il villain della situazione, ovvero… i soldi. Combatterono valorosamente

con tutte le loro forze ma ne uscirono sconfitti. Seguirono giorni di tristezza e desolazione e mentre una buona dose di sfiga cominciava ormai ad ammassarsi sulle loro spalle, decisero di passare a scrivere il soggetto di una possibile Graphic Novel.

Hoop Il percorso di Hoop è lungo e tortuoso, e spesso anche vorticoso, e a raccontarlo tutto servirebbero molte più di queste quattro pagine. Adesso la storia c’è, è bella ed avvincente, ma i tre volenterosi ragazzi che ne sono gli autori non hanno il pregio di essere dei provetti disegnatori e allora… via alla ricerca. Comincia così per il dinamico trio un’altra fantasmagorica avventura: trovare qualche disegnatore in erba abbastanza bravo. Tutto ciò mentre il povero Alberto non vuole arrendersi all’idea di essere considerato un’autentica chiavica a disegnare e lo stesso Nico continui a proporre i suoi geniali e quanto mai artistici character design. Lorenzo, che sembra l’unico con i piedi per terra, comincia le ricerche: “Questi due ragazzi sono in corso con me, si chiamano Weagle e Muk e ci sanno fare”. Lorenzo effettivamente ha ragione: con loro i tre riescono ad ottenere la prima tavola del loro wanna be graphic novel e il risultato è ottimo. Manca adesso un colorista e il buon Weagle si mette a cercarlo: “Sono amiche mie, sono 92

brave”, dice. All’appuntamento in un centro commerciale, aspettandole, si discute amorevolmente del progetto, carichi di entusiasmo e di passione. Ma improvvisamente le luci si affievoliscono e una sinistra nebbia si sparge attorno ai ragazzi avvolgendoli, mentre Malefica e Crudelia, le due malcapitate figure, si manifestano di fronte a loro. Niente da fare neanche stavolta. La sceneggiatura intanto prende forma definitiva, anche se tra i tre autori aleggia un senso di smarrimento totale. Neanche successivi contatti, che galvanizzano momentaneamente i tre facendo intravedere un futuro radioso, portano a risultati concreti. Siamo arrivati ad oggi: i poveri autori, dopo aver sofferto ulteriori batoste, cercano adesso di rialzarsi e di andare avanti per la loro strada incontrando altri disegnatori. Dopo Morty * (è una lunga storia che non vi stiamo a raccontare…) arriva la signorina Terminator, ovvero colei che sembra terminare una volta per tutte le speranze dei poveri ragazzi. Dopo il loro primo incontro affermò


sicura: “Non preoccupatevi, mi faccio sentire io”. E più si fece sentire. Poi venne il turno di Namek che non durò più di due giorni perché, convinto ancora di vivere nel medioevo, non riusciva a concepire che la pubblicazione di un libro prevedesse anche l’utilizzo di strumenti digitali. Sono questi giorni di vera disperazione, amarezza e disillusione: ci sarà mai qualcuno che deciderà di disegnare la loro stupefacente opera?

* Se ti senti pronto all’avventura e sai disegnare allora sei quello che fa per noi! Invia una mail a: moodyseries@gmail.com Oggetto “Hoop - candidatura” Ricordati di specificare: nome e cognome, chi sei (età, dove vivi, scuole o lavoro) e allegare un piccolo portfolio.

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Il primo numero della nuova collana “I Quaderni dell’Associazione polesana della stampa” apre lo scrigno dei ricordi storici per consegnare ai giornalisti e ai lettori una cronaca degli avvenimenti e un dibattito sull’importanza dei giorni che sancirono, insieme agli accordi di pace e al successivo plebiscito, l’attuale assetto del Polesine, del Veneto e di Mantova nello Stato italiano. Una guida per comprendere e non dimenticare.

La terra è di tutti, d’accordo, mentre il quartier non è più di nessuno. Eppure lo amo nonostan perché i luoghi si amano (o si odiano) come pe anche se le voci che li hanno animati sono lontan

Voci per la Libertà Una Canzone per Amnesty Foto di Luccia Danesin

Gabriella Imperatori veneziana, laureata in lettere classiche all’università di Padova, ha collaborato con quotidiani e riviste regionali e nazionali e con la Rai. È attualmente editorialista del Corriere del Veneto, edizione regionale del Corriere della Sera e direttrice responsabile del trimestrale Leggere donna. Ha pubblicato, oltre a saggi e racconti in antologie di autrici venete, fra cui Io sono il Nordest (Apogeo Editore, 2016), un libro di conversazioni critiche con scrittori del Triveneto: Profondo Nord, (Nord Est/Garzanti, 1988), il saggio Il cittadino protagonista, commissionato dal Comune di Padova (1995), e i romanzi Bionda era e bella (Rusconi, 1990), Questa è la terra, non ancora il cielo, con Gloria Spessotto (Tufani, 1998), Portami via con te (Marsilio, 2000), Trilogia dei baci (Marsilio, 2004) e L’onda anomala (Marsilio, 2013). Ha ottenuto numerosi premi per la narrativa e il giornalismo e ha fatto parte del “Forum di cultura femminile” dell’università di Padova.

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Raccontare 20 anni di una storia non è cosa facile. Arrivarci dopo un percorso lungo e con qualche ostacolo, coinvolgendo istituzioni e tante realtà del proprio territorio, è un’esperienza che pochi possono dichiarare d’aver fatto. Succede quest’anno che “Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty”, un Festival partito in sordina negli ultimi anni del Ventesimo secolo, sia arrivato a spegnere venti grosse candeline dopo aver attraversato gli Anni zero e aver affrontato con coraggio questo tempo così periglioso e distratto, ma carico di tensioni positive ed entusiasmo.


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Due misteriose esplosioni hanno colpito il comune di Porto Tolle. È una notizia clamorosa, quella capitata per le mani di Paolo, svogliato e disilluso giornalista di provincia, che si trova precipitato in una vicenda destinata a buttare all’aria il suo tran tran quotidiano. Un attentato terroristico? Un drammatico incidente? Un complotto politico? Giorno dopo giorno, si affastellano mille verità sull’accaduto. Ma cos’è successo veramente? E Paolo è sicuro di volerlo sapere davvero? Una commedia grottesca ambientata tra il Delta del Po e la città più noiosa d’Italia.

Giuseppe Marchiori, uno dei più acuti osservatori dell’arte italiana ed europea del Novecento, nasce a Lendinara il 18 marzo 1901. Fin da subito la sua formazione si snoda fuori dai vincoli accademici assecondando diverse vie espressive: dalla pratica della pittura, all’esercizio letterario, sia in poesia che in prosa. Le prime pubblicazioni sono raccolte poetiche, accompagnate dagli interventi d’esordio sui quotidiani polesani, mirati alla riscoperta di un patrimonio di storia e cultura locale a cui poteva attingere immergendosi nel giacimento documentario di famiglia custodito nella cinquecentesca Ca’ Dolfin.

Paolo Spinello Diffusione Editoriale Apogeo Editore www.apogeoeditore.it editore@apogeoeditore.com 0426 23783 347 2350644


I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO

Essonni Achraf è un ragazzo di 18 anni e proviene dalla città di Sirte, sulla costa della Libia. Vive da due anni in Veneto. Natalino Balasso è attore, comico e autore di teatro, cinema, televisione e libri. È nato a Porto Tolle nel 1960. Ha debuttato in teatro nel 1990, in televisione negli anni '90, nel cinema nel 2007 e pubblica libri dal 1993. È collaboratore di Rem fin dal primo numero. Marco Barbujani è nato ad Adria nel 1992. Laureato in Scienze Forestali, si occupa di analisi cartografiche su GIS, consulenza ambientale e comunicazione della scienza. Collabora con la rivista scientifica per ragazzi PLaNCK!. Emy Bernecoli, violinista adriese, si è diplomata con 110 e lode al Conservatorio di Musica di Adria e all’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma col massimo dei voti. Incide per la casa discografica internazionale Naxos le musiche degli autori italiani del ‘900 e pubblica le sue revisioni per le edizioni Suvini Zerboni di Milano e Ut Orpheus di Bologna. Negli ultimi anni ha pubblicato alcuni preziosi inediti di Fiorenzo Carpi e Ottorino Respighi; i suoi dischi hanno suscitato gli entusiasmi della critica nazionale ed internazionale, ricevendo la Nomination agli ICMA 2014. www. emybernecoli.com Sergio Garbato, laureato in lingue e letterature straniere, ha insegnato nelle scuole superiori. È stato socio dell’Accademia dei Concordi. Ha collaborato con articoli e saggi a riviste e periodi-

ci, ha curato programmi di sala e presentazioni di mostre d’arte. Per più di trent’anni è stato collaboratore de “Il Resto del Carlino”. Ha curato mostre ed esposizioni e pubblicato numerosi saggi su teatro, arte, musica, storia e alcuni volumi dedicati a Rovigo e al Polesine. Laura Marchesani ha studiato a Padova, Verona e Madrid, dove risiede attualmente. Della sua terra dice: “Il Polesine per me è come i latticini, da prendere con moderazione. È proprio questa moderazione che mi permette di gustarlo con piacere”. Sara Milan, classe 1986, è laureata in Conservazione e diagnostica per l'arte moderna e contemporanea all'Università di Ferrara. È ora docente di storia dell'arte e curatrice di mostre. Barbara Pregnolato è architetto, vive e lavora a Porto Viro. Dopo la laurea conseguita allo IUAV, rimane a Venezia dove lavora e si forma professionalmente nello studio di Andrea de Eccher; nel 2004 si sposta per diversi anni a Barcellona dove collabora con Carmen Fiol e con altri architetti spagnoli. Rientrata in Italia nel 2010 decide di investire le proprie energie nella terra d’origine per la divulgazione della cultura e di un diverso approccio all’architettura. Nel 2013/14 fonda con alcuni amici l’associazione culturale “Città invisibili” per offrire una finestra da cui osservare il territorio con altri occhi, facendo interagire il contesto con le discipline creative. Fa parte del Consiglio dell’Ordine degli Architetti della provincia di Rovigo. 96

Marco Vianello, presidente dell’Associazione Accademia del Pane “Arnaldo Cavallari” Adria a.s.d., è nato ad Adria nel 1962 dove risiede. Alberto Dinarello, Nico Cecchetto e Lorenzo Moretto sono tre giovani autori di Porto Viro. Alberto e Nico sono nati nel 1993, il primo sta facendo il dottorato in bioscienza all’università di Padova, il secondo lavora come geometra e Lorenzo, nato nel 1996, si sta laureando in design del prodotto industriale a Bologna. Amici da tantissimo tempo, stanno cercando di portare a termine il progetto Hoop, ovvero una graphic novel a stampo thriller/fantascientifico ambientata in Polesine.


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