REM-Anno VIII, n.1 del 1 giugno 2017 (Una visione oltre)

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Anno VIII, n. 1 del 1 Giugno 2017 | Euro

Città di Monselice

Comune di Lusia

Comune di Badia Polesine

Comune di Taglio di Po

Comune di Pettorazza Grimani

Città di Chioggia

Comune di Porto Tolle

Comune di Vescovana

Comune di Granze

Città di Loreo

Città di Porto Viro Comune di Mesola

Comune di Rosolina Città di Cavarzere

Comune di Stanghella Città di Rovigo

Anno VIII, n. 1 del 1Giugno 2017

Città di Adria

2,50

Comune di Goro

Una visione oltre

Ad Adria prende il via la seconda edizione

UNA VISIONE OLTRE di mappe in mapping

2017

alla scoperta Eventi di un territorio... Gli appuntamenti sono ad

entrata libera

23/SUONI

41/STORIE

70/LUOGHI

85/PERSONAGGI

Creatività e diritti umani: arriva Arte per la Libertà Festival

30 anni di Deltablues

Le fornaci di Villanova Marchesana

Guido Barbujani: “Siamo il frutto di mille migrazioni”


SOMMARIO

REM

30 anni di Deltablues. David “Honeboy” Edwards nel camerino del Festival (2003)

STORIA DI COPERTINA

Anno VIII, n. 1 del 1 Giugno 2017

SUONI

Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010

Una visione oltre 2017............................................................................................................ 16 Creatività e diritti umani: arriva Arte per la Libertà Festival - Selene Cassetta ......................... 23 Le bande musicali cittadine del Polesine - Matteo Sarto con Nicla Sguotti ................................... 29 PAROLE

REM è fatto da: Sandro Marchioro, Monica Scarpari, Paolo Spinello e Michele Beltramini

STORIE

e da: Francesco Casoni, Cristiana Cobianco, Martina Fusaro, Cristina Sartorello, Nicla Sguotti, Danilo Trombin, Vainer Tugnolo, Massimiliano Battiston

30 anni di Deltablues - Claudio Curina e Francesco Casoni - Stefano Marise ................................... 41 “Dai ‘ndemo via… ‘ndemo in Merica” - Danilo Trombin............................................................ 47 IMMAGINI

Mario Lasalandra. Fotografare l’instabilità di un’epoca - Cristina Sartorello ............................ 53 Brancotype il Festival della sperimentazione fotografica - Davide Rossi.................................. 59 PERSONAGGI

Come un segnalibro. Il campanile-faro di Adria tra mito e realtà

Marco Barbujani con Asia Mantovan e Houda Nachit........................................................................ 65 LUOGHI

Le fornaci di Villanova Marchesana - interviste di Chiara Turrini con Sandro Marchioro ............... 70 La villa che resiste - Marta Bigolin e Francesco Casoni................................................................... 75 STORIA

Luciano Chiereghin storico per passione

intervista di Luca Grassi e Asia Mantovan con Sandro Marchioro ........................................................ 80 PERSONAGGI

Scartavetrate le narrazioni............................................................................................................... 7 Gli articoli contrassegnati da questo logo sono stati realizzati durante l'attività di Alternanza scuola-lavoro tra Apogeo Editore e la classe III C Scienze applicate del Liceo Scientifico “Bocchi-Galilei” di Adria.

Taccuino futile - Natalino Balasso .................................................................................................. 9 Visti da lontano - Michela Narsi .................................................................................................. 11 Opzione musica - Emy Bernecoli................................................................................................. 13 Visti da vicino - Abderrahim Nachit ............................................................................................. 15 4

Grafica e Impaginazione: Marta Moretto Stampa: Grafiche Nuova Tipografia - Corbola (RO) Tel. 0426.45900 Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Paolo Spinello Diffusione Editoriale Via Zandonai, 14 - 45011 Adria (RO) Tel. 347 2350644, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03. Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010. Copyright - Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze.

Guido Barbujani: “Siamo il frutto di mille migrazioni” - intervista di Luca Grassi, Houda Nachit,

REM ringrazia gli autori per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo gratuito per l’inserimento nella rivista. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore.

SAPORI & SAPERI

Numero chiuso in redazione il 15/04/17.

Manuel Borella, Vittorio Melato, Stefano Manzolli e Andrea Vianello ................................................... 85 Alternanza scuola-lavoro: una leva strategica per aprire la scuola al territorio e formare i cittadini di domani - Silvia Polato ................................................................................................................ 89

Polenta & BaccalApp - Mario Bellettato....................................................................................... 94

RUBRICHE

Editore: Apogeo Editore

Gianni Sparapan. I miei libri “a futura memoria”

intervista di Chiara Turrini con Sandro Marchioro ............................................................................ 35

EDITORIALE

Direttore Responsabile: Sandro Marchioro

STRISCE

Polleggiao: la rivoluzione - Herschel & Svarion........................................................................... 96

ISSN 2038-3428

www.remweb.it

RITRATTI

Gian Paolo Berto e la memoria del Polesine - Sergio Garbato.......................................................... 100 5

In copertina: ”Una visione oltre” 2017


EDITORIALE

SCARTAVETRATE LE NARRAZIONI

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A bordo delle motonavi e delle piccole imbarcazioni della famiglia Cacciatori potrete ammirare da un punto di vista privilegiato un insieme di ecosistemi ricchi di fascino, colori ed emozioni. Per scoprire a pieno il Parco sono indispensabili il birdwatching sul Po di Maistra e l'escursione tra le lagune ed i canneti che circondano Scano Boa, l'isola dove risiede il genius loci del Delta, mentre l'apogeo della visitazione slow è il bike&boat, l'escursione più completa per vivere un territorio privo di un confine tra terra e acqua.

on riusciamo nemmeno a dirvi quanto detestiamo il termine “narrazione”, usato come piovesse, per descrivere una realtà sociologica, politica, economica; una visione del mondo, insomma, che si potrebbe rendere con molte altre parole e che invece di morire per insufficienza ed insipienza di significato ha avuto un successo imprevisto ma esasperante, talché viene usata costantemente e perlopiù a sproposito. Tristissimo, poi, quando la “narrazione” viene “dedicata” al mondo dei giovani, luogo sociale e psicologico in cui si condensano tutte le più sugose idiozie sociologiche, politiche, terminologiche che condizionano e deformano il senso comune e l’idea stessa (la “narrazione”, appunto) che tutti noi abbiamo dei giovani. Tutta questa lunga premessa per dirvi una cosa molto semplice: grazie ad un progetto di Alternanza scuola-lavoro, il numero che avete tra le mani è realizzato anche con il lavoro di un gruppo di ragazzi (di giovani veri, in carne ed ossa: non quelli delle varie “narrazioni”) del Liceo Scientifico “Bocchi-Galilei” di Adria. Alcuni articoli sono stati ideati e scritti da loro, con una collaborazione che è andata oltre l’impegno previsto dalla normativa di Alternanza scuola-lavoro. Stare insieme con questo gruppo di sedicenni per sette incontri presso la loro scuola e per due settimane intere di stage ci ha fatto scoprire due cose sensazionali, che non ci aspettavamo proprio, avendo tutti noi fino ad ora le menti coinvolte e sconvolte dalla “narrazione” dei giovani più che dai giovani stessi. Ebbene, i giovani delle “narrazioni” avranno anche la mente ottenebrata dai social, saranno anche superficiali perché corrotti dalla velocità e dal multitasking, avranno indebolito lo spirito di sacrificio, sgranato l’impegno politico e civile, flaccido il desiderio e banale e piatta la visione del mondo. Ma non erano i giovani che abbiamo conosciuto noi, che hanno lavorato con noi per fare il giornale (chi più chi meno bene: come sempre accade e accadrà) e che a noi sono sembrati essenzialmente due cose: belli e giovani. Dentro questa loro bellezza e questa loro giovinezza ci siamo anche noi adulti, spesso come la ruggine sullo smalto. Siamo noi il problema non loro. Per questo l’unica cosa che desidereremmo per loro, dopo questa bellissima esperienza che speriamo si ripeterà, è molto semplice: armatevi di cartavetrata e rimuoveteci il più accuratamente possibile.

Per info e prenotazioni:

Navigazione Marino Cacciatori Tel. +390426380314 +39 3347035765 www.marinocacciatori.it

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RUBRICA

30 anni insieme

Taccuino futile

...e non è sua moglie!

Foto di Nicola Boschetti

Paura vera di Natalino Balasso

O

gni tanto, quando ripenso a certe sensazioni dell'infanzia, mi viene da dire che le cose nel mondo cambiano in peggio, anche se so bene che qualunque critica un vecchio possa fare al mondo dei giovani ha una sola definizione: nostalgia. Assaggiare un frutto appena colto lasciava un gusto intenso, è vero, ma non credo che la frutta non abbia più gusto, credo piuttosto che nessuno possa restituirti l'inesperienza, che è ciò che rende sorprendente qualsiasi nuovo esperimento. Una delle sensazioni che rendevano interessanti le giornate dell'infanzia era la paura. Credo di non riuscire più a provare paura come allora. Con mio fratello, nascosti dietro la tenda del pianerottolo, si brandiva un oggetto trovato lì per lì e si era pron-

Molti anni fa Sandra Ceciliato ha scelto di affidarsi alle cure del dottor Leonello Biscaro e ancora oggi è con lui. Una scelta di salute e benessere premiata da decenni di tranquillità e di... sorrisi. Nel 2017 la Clinica Odontoiatrica Biscaro Poggio festeggia i 30 anni di attività nella città di Adria. Implantologia, Protesi, Ortodonzia, Estetica, Endodonzia, Pedodonzia, Logopedia, Chirurgia e Paradontologia, Radiologia e Diagnostica. via Monsignor Pozzato 20/A, Adria (RO) tel. 0426 40014 - www.biscaropoggio.com

Il sorriso ti cambia

ti a un combattimento che si sperava cisamente usuranti per un infante. fortemente non dovesse arrivare mai: La paura mutava via via in terrore ogni un tizio dell'osteria ci stava cercanvolta che giravo la testa per vedere do perché avevamo combinato un se il mostro si fosse allontanato dalla bel guaio. E un altro guaio avevamo finestra; ma se ne stava là, immobile combinato quando, abbarbicati al nell'ombra e sicuramente aspettava ramo di un albero sotto casa, osserche l'ora fosse più tarda per essere vavamo il signore che parlava con certo che tutti i bambini dormissemia madre al cancello, chiedendo se ro. Fuori cominciava ad albeggiare c'erano bambini nei dintorni. Il cuore quando mi arresi al sonno, ma la mia batteva forte, si rischiava sempre il tranquillità fu di breve durata. Sognai tutto per tutto e si scopriva il senso di infatti che durante un gioco di biglie solidarietà che poteva dare l'intensa il terreno si squarciava sotto i miei sensazione di stare per cagarsi adpiedi lasciando uscire dagli inferi una dosso. specie di genio gigante La mia prima notte d'inche volava inseguendosonnia avvenne a 6 mi; sognai che io riuscianni. Ero uno dei tanti vo a fare le scale per Una delle sensazioni bambini che sono pasraggiungere le cameche rendevano sati dalla colonia Stella rate e che mi andavo interessanti Maris di Feltre, si dora rifugiare sotto il mio miva in grandi came- le giornate dell'infanzia letto, ma quel gigante era la paura . rate da 20-30 letti. Alla riusciva a scoperchiare finestra potevo notare l'edificio: sentivo infatti chiaramente la sagoma l'aria schiaffeggiarmi di qualcuno che se ne la schiena quando mi stava là ad osservare svegliai. i bambini dormire. Il fatto che se ne Ero sudato e avevo la schiena comintuisse solo la silhouette rendeva anpletamente scoperta. Come il giocacor più inquietante la persona avvolta tore di poker che scorre le carte con in una specie di mantello o di capimpassibile lentezza mi girai verso la puccio che lo dipingeva tetro e anfinestra. Ora potevo vedere chiaragosciante. Mi dissi che non mi sarei mente chi fosse il mercante di schiavi: certo fatto cogliere impreparato da era il velo che una suora aveva attacquello che sembrava essere un qualcato alla maniglia della finestra. che commerciante di schiavi o per lo Avevo già più di 20 anni quando uno meno un rapitore di bimbi addormenstraniero mi ha minacciato con una tati; il segreto era rimanere sveglio. forbice alla stazione di Milano, era Guardavo con compassione gli altri notte e io buttai la cosa in ridere, gli che se la dormivano, ignari del fatbattei una pacca sulla spalla e me ne to che presto si sarebbero ritrovati in andai per la mia strada. Provai solo qualche isola deserta o sul palco di una leggera preoccupazione, ero siun mercato degli schiavi, in mezzo a curo che non mi avrebbe seguito, pergente che parlava lingue sconosciute ché avevo la certezza che l'infanzia e che li avrebbero usati per lavori demi aveva purtroppo abbandonato.

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RUBRICA

Visti da lontano

ti per rilanciare la terra più giovane una vacanza a Parigi con le amiche. d’Italia. Dal momento che il Polesine Parallelamente, conservavo in me è la mia terra nativa sento di essere un’idea piuttosto romantica della calegata a questi territori, tuttavia rimapitale francese, affascinata da quella nendo fuori Parigi qualche giorno e lingua e da quella cultura che già dal rientrando in città, sento di tornare a liceo mi avevano fatta innamorare. casa. Certo, non ho la sensazione di Perciò mi son detta: Parigi sia! Le difessere parte integrante ed indispenficoltà non sono certo mancate, sia sabile della capitale, bensì perceburocratiche che amministrative, per pisco che una parte della mia casa convertire la mia laurea conseguita è qua. Non posso quindi affermare in Italia in scienze infermieristiche. in maniera totale di sentire “casa“ il Oltre agli affetti che ho lasciato in Polesine o Parigi, ho piuttosto una viItalia, del Polesine mi mancano sisione cosmopolita della curamente il mare ed il questione. Certamente cibo: vedendo l’ocearipartirei, non ho alcun no in Bretagna mi sono rimpianto. Dal primo commossa pensando al Perciò gennaio 2017, con un “mio” Mare e la qualità mi son detta: contratto (finalmente) a del cibo italiano è poi Parigi sia! tempo indeterminato, irraggiungibile, certi salavoro all’Hopital “Léopori appartengono alla pold Bellan” (dopo un tradizione polesana e anno di lavoro “a chianon sono riscontrabili mata”). Si tratta di un in nessun altro territorio. ospedale geriatrico su tre piani, una Riconosco nel Polesine, in particolar diversa tipologia di geriatria su ogni modo nelle mie zone, molte potenziapiano. Il mio è il servizio di "neurolità turistiche inespresse, sviluppabili psychogériatrie": qui mi occupo di nel Parco del Delta del Po, nella sacpersone anziane con diversi tipi di ca di Scardovari e nelle lagune. Aldemenze e problemi comportamentacuni amici canadesi sono passati per li. Le giornate possono essere molto Porto Tolle e sono rimasti affascinati dure, ma continuo ad alimentarmi da questi territori molto meno sfruttadell'energia che mi trasmettono con ti della Camargue francese e nei cui le loro storie, della forza che provieconfronti non hanno nulla da invidiane dall'équipe e dalla caposala e… re. Circa le criticità, noto l’incapacità dalle meraviglie che continuo a veo la non volontà di sviluppare questi dere viaggiando! Per poter tornare punti di forza… da Parigi il Polesine bisogna partire… e si parte e si torna mi sembra statico, fermo, ancorato a sempre un po’ diversi, perciò sono modalità lavorative sorpassate. Tuttaun’orgogliosa polesana sotto la Tour via i miei amici che ancora ci abitano Eiffel! sono persone ricche di potenzialità, creatività, sogni e desideri che talvolta non possono esprimere appieno per i limiti insiti nel territorio. Forse sarebbero necessari dei cambiamen-

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Per poter tornare bisogna partire… di Michela Narsi

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on voglio certo dire che la Francia sia meglio dell’Italia, tuttavia il bisogno di avventura, la voglia di vedere altro e la volontà di cambiamento mi hanno spinta a trasferirmi e la mia vita a Parigi ha avuto inizio il 31 agosto 2014. Devo ammettere che non è stata una scelta semplice, ci ho impiegato un anno a maturare questa decisione. Alla fine, però, la voglia di uscire di casa e il desiderio di ricercare la mia indipendenza in modo radicale mi hanno spronata a compiere questo passo, forte anche del bellissimo ricordo di

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RUBRICA

Opzione musica

La fossa dei leoni scordati di Emy Bernecoli

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edicatari: A tutti i manager che ti contattano e ti chiedono di mandargli cd e materiale fin negli USA e poi spariscono / A tutti i gestori dei locali che ti chiedono di fare pianobar (col violino) per S. Valentino, pagandoti poi con un panino quando tutti sono andati via / A tutti i direttori artistici ed organizzatori simili che ti cancellano un concerto con un sms / A tutti quelli che ti invitano fuori a cena... per capire come suoni / A tutti i direttori arti-

stici che non rispondono mai alle e-mail e al telefono e mandano una risposta automatica / A tutti i manager che ti rubano i soldi per farti promozione e in un anno solare non trovano nemmeno un concerto in parrocchia / A tutte le stagioni di concerti che palesemente e interamente sono scambi di concerti tra stagioni / A tutti quelli che vogliono farti suonare gratis in cambio della famosa ‘’visibilità’’ / A tutte le stagioni di concerti che fanno suonare sempre gli stessi dicendoti che così ‘’riempiono’’ la sala, poi vai a vedere e ci sono quattro gatti / A tutte le etichette discografiche che ti chiedono migliaia di euro per farti fare un cd / A tutti quelli che mai avrebbero pagato per farne uno (di cd) e poi eccoli lì sorridenti con un bel cd in mano pagato profumatamente / A tutti gli agenti che firmano il contratto al posto tuo con le società di concerti (e tu non saprai mai per quanto ti hanno venduto in realtà) / A tutti quelli che ti fanno suonare solo se hai una tua associazione e gli porti tu l’agibilità e magari gli paghi pure la SIAE / A tutti i colleghi che ti fregano i contatti dopo il concerto fatto con te per andare da soli l’anno seguente / A tutti quelli che ti chiedono di portargli ‘’un nome’’ (famoso) a suonare con te altrimenti non ti si vende / A tutti quelli che ti dicono che fai musica troppo difficile anche se suoni musica di più di un secolo fa / A tutti quelli che ti chiedono di fare quello che fanno David Garrett, André Rieu e i 2Cellos senza orchestra e senza budget / A tutti i sedicenti amici che ti vogliono un bene infinito e stima eterna ma che quando organizzano concerti non ti chiamano mai / A tutti quelli che promettono di spaccare il mondo per te perché sei il più bravo musicista del mondo ma poi ti hanno spaccato solo i timpani con una marea di chiacchiere / A tutti gli sconosciuti che ti 13

chiedono i contatti della tua etichetta discografica e del tuo editore via facebook / A tutti quelli che copiano i tuoi articoli e nemmeno ti citano / A tutti quelli che se chiedi 300 euro costi troppo / A tutti quei maestri che ti fanno terra bruciata dopo il corso di studi con loro / A tutte le riviste e ai recensori prezzolati / A tutti gli editori che per pubblicarti il pezzo ritrovato e ricostruito da te vogliono che: prima gli trovi il teatro che lo metta in scena, poi che l’ente paghi l’edizione, poi che tu ceda loro tutti i diritti e poi... non è detto che lo eseguirai tu, perché “noi abbiamo i nostri agganci” / A tutti gli organizzatori che vogliono la prima assoluta del tuo pezzo ma non vogliono pagare il noleggio delle parti all’editore e ti chiedono il pdf gratis (lamentandosi anche del fatto che devono pagare la SIAE) / A tutti quelli che organizzano i concerti in co-produzione e poi “stai tranquillo che ti paga l’altro” / A tutti voi, felici e infinite dediche. La forza è nella musica e voi ne siete sprovvisti.


RUBRICA

Visti da vicino Libreria APOGEO di Sabrina Donegà

ad Adria in Corso V. Emanuele II, 147

LIBRERIA

CARTOLERIA

PLASTIFICAZIONE DOCUMENTI

COPERTINATURA LIBRI

STAMPE FOTOCOPIE

Il Polesine è adesso il mio paradiso di Abderrahim Nachit

FAX

TESTI SCOLASTICI Web: www.libreriaapogeo.it E-mail: apogeo@libreriaapogeo.it Tel. e fax: 0426.21500 Cell.: 340 2253947 WhatsApp: 340 0051200

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utti mi chiamano Stefano anche se il mio nome è Abderrahim Nachit. Sono di origini marocchine e a scopo turistico sono venuto in Italia nel 1984 a Genova e per lo stesso motivo vi ritornai nel 1989 a visitare il Polesine: mi affezionai e decisi di stabilirmi qui.

Attualmente vivo a Porto Viro con mia moglie e i miei quattro figli che non si sentono stranieri, anzi. Inizialmente ho avuto problemi con la lingua, ma grazie alle meravigliose persone, che considero parenti, che abitano in questo paese e ai miei colleghi di lavoro, ho imparato velocemente l'italiano e anche il dialetto. In tutti i luoghi esistono persone che sono accoglienti ma ce ne sono altrettante che non accolgono inizialmente in modo positivo chi proviene da altri luoghi. Mi ritengo fortunato: ho vissuto e vivo insieme a persone che hanno cultura, fedi e tradizioni diverse dalle mie ma grazie a ciò ho imparato a guardare il mondo con occhi diversi. Conoscere altre culture può soltanto arricchire la persona e renderla migliore. Il Polesine è un luogo che non tutti conoscono ma che è ricco di storia e di bellezze da visitare: dal delta del Po, al mare, alle città piene di tesori d’arte. Mancano purtroppo in questo momento le risorse economiche per valorizzare meglio tanta ricchezza della natura. Sono venuto qui quando l'Italia e anche il Veneto erano in un periodo di prosperità economica. Mi dispiace vedere che tutto ciò non è rimasto e che la maggior parte dei giovani tendono adesso a spostarsi verso città più grandi. Però non si può dare la colpa solo ed esclusivamente alla zona nella quale ci troviamo: vent’anni anni fa i giovani si accontentavano di più e 15

si divertivano ad uscire insieme agli amici vicino all'argine, invece ora vogliono frequentare luoghi più conosciuti e famosi e non sicuramente così tranquilli come il Polesine. Tutti noi dobbiamo adattarci ai cambiamenti che stanno avvenendo e non possiamo pretendere che tutto rimanga uguale. Amo la tranquillità di questo posto e nonostante le critiche spesso ingiustamente negative considero il Polesine il mio paradiso.

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Conoscere altre culture può soltanto

arricchire la persona e

renderla migliore .

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L

STORIA DI COPERTINA

REM

e Pro Loco, associazioni di volontariato di diritto privato ma di rilevanza pubblica, sono formate da comuni cittadini accomunati dalla passione e dall'attaccamento per il proprio territorio. Una delle finalità più importanti è quella di valorizzare le potenzialità culturali e storiche del proprio Comune.

Una visione

oltre

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Dopo l'esperienza del 2016, un nuovo progetto dal titolo: “Una visione oltre, di mappe in mapping”, sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo nell’ambito del bando Culturalmente.

Rispondendo a questi intenti, due anni fa la Pro Loco di Adria aveva individuato in Luigi Groto, poeta e drammaturgo adriese del '500, una figura sui cui sviluppare un progetto culturale in collaborazione con un cultore dell’arte qual è Tobia Donà e con l’artista Stefano Cagol. Luigi Groto, il Cieco d’Adria, fu un sensibile interprete di un territorio, che riuscì a leggere in profondità anche senza l’ausilio della vista, persa in giovane età, attraverso una visione illuminata delle arti e della cultura, dell’uomo e dell’ambiente. Grazie a questa interessante suggestione ha preso forma “Una visione oltre”, iniziativa sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e di Rovigo nell’ambito del bando Culturalmente 2015. Una visione oltre (strutturata come residenza d’artista e festival d’arte contemporanea) si è dimostrata una preziosa palestra per giovani artisti under 35 che ad Adria sono stati ospitati in residenza. Questa occasione ha fruttato loro sviluppi eccellenti e la successiva partecipazione ad altre importanti iniziative nazionali, tant’è che tutti hanno espresso un giudizio positivo per questa loro esperienza. Inoltre, l’obiettivo di 17

recupero e rafforzamento di valori immateriali ma fondamentali quali l’identità storica, geografica e culturale, attraverso la Visione, la Coesione, la Condivisione è stato raggiunto in maniera ampia, creando importanti legami tra il team del progetto e numerose associazioni locali oltre che a istituzioni ed aziende fuori dal territorio adriese. Infatti, la collaborazione tra istituzioni, associazioni e cittadini ha portato ad Adria un clima di positiva operosità e di ricerca che ha stimolato la Città a diventare un “laboratorio” di idee protese a una “visione oltre” dell’anima, del pensiero e del sapere. Impossibile quindi non ritentare una seconda volta con un progetto ampiamente rinnovato dal titolo: “Una visione oltre, di mappe in mapping”, sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo nell’ambito del bando Culturalmente 2016. Continua così la volontà di Pro Loco di un recupero di valori immateriali legati al territorio, che si focalizza quest’anno sulla conoscenza del paesaggio antico e sulla divulgazione della sua conoscenza. Da una simile visione, infatti, può derivare anche la consapevolezza che in Polesine acqua e terra si trovano sempre in un delicato equilibrio e che la salvaguardia di questa straordinaria pianura non è del tutto scontata. Di mappe in mapping propone un vero e proprio dialogo tra Scienza e Arte: da un lato ricostruire dei luoghi mediante la ricerca cartografica e l’analisi geo-spaziale, utilizzando una piattaforma digitale fruibile sul web; dall’altro comunicare quanto emerge dalle ricerche attraverso la successi-


STORIA DI COPERTINA

REM

va rielaborazione, dal punto di vista artistico e delle suggestioni che ne derivano.

Un evento al Museo Septem Maria nel maggio 2016 (foto di Ido Biolcati)

La mostra “Attraverso-Una visione oltre” al Maad di Adria nel 2016

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L’area d’interesse è il territorio intorno ad Adria, poiché qui esistevano tre tipologie di ambiente, oggi quasi scomparse e dalle quali prende le mosse tutto il progetto. Esse sono (o meglio, erano): il lago, la palude, il bosco. Tre luoghi che riassumono idealmente la storia del Polesine. Il lago è acqua, l’elemento grazie al quale nasce la vita e da cui è nato il Polesine stesso – letteralmente ed etimologicamente. La palude segna invece una svolta: l’acqua inizia a prosciugarsi, anche artificialmente, e gradualmente lascia il posto a una nuova terra. Asciutto e bagnato si alternano nel corso delle stagioni finché della zona umida non resta più nulla. Al suo posto c’è un bosco; dapprima piante pioniere, frugali, alberi leggeri, senza paura dell’acqua che torni a inondarli; poi, per gradi, altri alberi affondano le radici mano a mano che la terra si consolida e si stacca con decisione dall’abbraccio delle acque. Questi tre ambienti, che rappresentano ciascuno una fase della vita di una pianura come la nostra, fino a qualche secolo fa costituivano ancora buona parte del paesaggio polesano. Nella prima fase del progetto un lago, una palude e un bosco del passato sono stati individuati in tre luoghi reali: si è scoperto dov’erano di preciso grazie anche alle mappe del Catasto Austriaco del 1841. Il vecchio Catasto fornisce molti dettagli a questo proposito. Il tipo di aratura dei campi, la presenza di alberi, con

la vite o senza e la copertura di ogni proprietà è descritta in modo molto preciso. È così possibile sovrapporre il dato storico alle mappe più moderne – satellitari, altimetriche e del suolo. Tutte queste informazioni, incrociandosi, raccontano all’unisono che ambiente poteva esserci (e dove), prima della completa bonifica e del lavoro agricolo. Quindi: zone allagate, terreni più asciutti, altre aree ancora più rialzate e lontane dalle acque. Fare queste analisi è stato possibile grazie alla tecnologia dei GIS, l’insieme di dati geografici, macchine e persone che si cela dietro la cartografia digitale. I GIS sono molto usati nel mondo della ricerca, ma alcune mappe digitali sono sotto gli occhi di tutti ogni giorno: Google Maps e Pokémon GO, in fondo, si basano su cartografia GIS. Da qui l’idea di rendere fruibili queste informazioni preziose realizzando qualcosa che chiunque possa usare. È possibile, ad esempio, ricostruire il paesaggio d’inizio ‘800 (in un’immagine o animazione 3D), usando il Catasto come traccia attendibile e precisa. A prima vista le mappe appaiono con semplici poligoni bianchi, distinti da piccoli numeri. Solo un lavoro paziente fa parlare quelle carte, trasformandole di nuovo in un paesaggio vivo e visibile. Quel lago, quella palude e quel bosco, realmente esistiti, riprendono forma, insieme a un contesto rurale che altrimenti nessuno, nel XXI secolo, potrebbe vedere. Il vecchio Catasto, nato per descrivere uno spazio, ora diventa uno strumento per viaggiare nel tempo.

Il gruppo degli under 35 al lavoro con Stefano Cagol nell'aprile 2016 (foto di Ido Biolcati)

Masterclass del progetto “Una visione oltre-di mappe in mapping” nell'aprile 2017 (foto di Riccardo Bandiera) 19


STORIA DI COPERTINA

Masterclass del progetto “Una visione oltre-di mappe in mapping” nell'aprile 2017 (foto di Riccardo Bandiera)

Masterclass del progetto “Una visione oltre-di mappe in mapping” nell'aprile 2017 (foto di Riccardo Bandiera) 20

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Si capisce già che dalla prima parte del progetto emergono tante cose inaspettate, che non ci sono più: oltre ai laghi e alle paludi, si scopre un paesaggio a cui partecipano anche pascoli, prati da fieno, campi più piccoli, con siepi e filari, nonché gli ultimi residui di bosco di pianura. Per noi sono elementi inimmaginabili, poiché oggi il Polesine è fatto di enormi campi tutti uguali, con due o tre soli tipi di coltura, senza alberi, in una banalizzazione del paesaggio agrario che l’ha reso a misura di macchina automatizzata. Questo da un lato rende più facile coltivare la terra e semplifica la vita ai lavoratori, ma dall’altro ha tolto quasi tutte le caratteristiche dell’ambiente antico. Nell ’800 era già antropizzato e modificato, ma almeno aveva una diversità ambientale che adesso è quasi del tutto assente. Se da un lato il delta del Po è stato appena riconosciuto come Riserva della Biosfera, in un passato non lontano anche l’entroterra aveva una grande diversità biologica. Perciò, nel contesto del deserto agrario a cui siamo abituati, una ricostruzione simile è assoluta necessità, prima che una innovazione. Nella sua seconda fase il progetto è elaborato da un gruppo di artisti visivi e performers, che tradurrà quanto emerso dall’indagine scientifica, e lo tramuterà in “comunicazione”. Questo delicato processo mira non solo alla divulgazione scientifica in senso lato, ma tende a essere catalizzatore del rafforzamento di una maggior identità locale. L’obiettivo è l’invenzione di modi e metodi in grado di creare un’autentica coscienza

collettiva, fortificando il senso d’appartenenza e il legame tra le giovani generazioni e i propri luoghi. In particolare, un gruppo di lavoro è impegnato nella creazione di una piattaforma digitale, un contenitore d’immagini e video che restituiscano il paesaggio antico così come descritto dal Catasto storico. Un secondo gruppo, composto per lo più da artisti performativi, realizza invece azioni ed eventi collettivi che si traducano in veri e propri momenti d’aggregazione; tali occasioni, oltre a coinvolgere un pubblico di spettatori, includeranno il contributo di alcune associazioni locali. Il calendario degli eventi prevede tre momenti di conviviali e d’intrattenimento, ognuno dei quali, rispettivamente, ispirato alle tre tipologie di ambiente su cui è incentrato il progetto – il lago, la palude e il bosco. Anche Di mappe in mapping ha coinvolto giovani di età inferiore a 35 anni. Lo studio del paesaggio, così come descritto all’inizio, è condotto dal team scientifico composto da Marco Barbujani e Lisa Maggiolo. A Michele Barbujani e Niccolò Raimondi è affidata invece la parte digitale e informatica, che concerne la piattaforma digitale e il relativo contenuto 3D. A Matteo Capobianco, Giorgio Geri, Annamaria Maccapani, Giulia Sacchetto e Giulio Zanet, il compito di progettare e realizzare installazioni, performance e video-mapping, con un contributo musicale di Chiara Parolo e il supporto per la grafica e la comunicazione di Simona Canè.

anche per Di mappe in mapping è fondamentale la centralità della comunità locale ospitante e il suo ruolo di protagonista nello sviluppo turistico sostenibile e socialmente responsabile del proprio territorio. Questa è, infatti, un’opportunità di crescita che può avvicinare, integrare e unire le persone (associazioni, cittadini, istituzioni), che avranno l’occasione di comprendere quanto sia importante conoscere il proprio territorio per meglio contribuire al suo sviluppo. Perciò anche quest’anno ci si attende l’avvio di nuove relazioni e sinergie, come quella con l’Università e-Campus, per allargare la consapevolezza dell’identità e del valore del patrimonio e del paesaggio locale. Questa esperienza sarà fondamentale per i giovani artisti e studiosi, che avranno l’opportunità di conoscere Adria e, contestualmente, arricchire i loro curricula con un evento d’indiscutibile valore culturale. Di mappe in mapping vi dà appuntamento all’estate 2017, mettendo in campo tutto l’impegno per centrare anche in questa edizione gli obiettivi di “Una visione oltre”.

Come per l’edizione precedente, 21

UNA VISIONE OLTRE 2017 di mappe in mapping 23 giugno ore 16.00 Museo Archeologico Nazionale di Adria Installazioni di Giulia Sacchetto, Giulia Callegarin, Stefano Cagol ore 21.00 Baricetta, ex Mulino Intervento di Gino Giannuizzi su “Arte e interventi territoriali” Installazioni di Matteo Capobianco e Luca Coclite Intervento musicale di Chiara Parolo 24 giugno ore 21.00 Ca’ Emo, Centro Civico ed ex Scuola Elementare Installazioni di Giulio Zanet e Luca Coclite Riattivazione di Villa Emo con la luce Percorso “Antichi paesaggi dissolti” di Marco Barbujani Musica set Dj Key 25 giugno Bellombra, Corte Milana ore 18.30 Interventi dell’ing. Lucio Bonafede e dell’arch. Lisa Maggiolo (validi per crediti formativi) Installazione di Ginevra Mei ore 19.30 Visita a Corte Milana, tramonto e degustazioni ore 22.00 Video mapping di Giorgio Gieri ore 22.20 Musica set Dj Key


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Creatività e diritti umani: arriva

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Arte per la Libertà Festival di Selene Cassetta foto di Silva Rotelli

Proseguendo un percorso avviato lo scorso anno, il festival assume le forme di un evento diffuso. 23

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ent’anni di esperienza nell’organizzazione del festival “Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty”, che si uniscono con i cinque anni di crescente successo del festival di arte contemporanea “DeltArte


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diritti umani. È questo il valore fondante che il festival vuole promuovere attraverso tutte le forme d’arte, consapevoli che le arti sono uno strumento di formazione e crescita di consapevolezza, un vero e proprio mezzo educativo per la realizzazione di una cultura universale dei diritti umani.

Lo spettacolo teatrale “Orizzonte degli eventi”

Arte per la Libertà vuole parlare al cuore delle persone, sensibilizzando al rispetto e all'uguaglianza come solo l’emozione sa fare: il risultato è un ricco calendario di eventi tra musica, cinema, teatro e arte, localizzati anche in contesti non convenzionali come corti rurali, spiagge, imbarcazioni, luoghi cittadini abbandonati, capaci di veicolare un messaggio che abbatte le barriere ideologiche e culturali, favorendo il dialogo interculturale tra giovani artisti, abitanti, immigrati, studenti e anche turisti. Tante location, un unico evento Proseguendo un percorso avviato lo scorso anno, il festival assume le forme di un evento diffuso, ovvero un insieme di appuntamenti culturali inseriti in diversi luoghi del Polesine e del Delta del Po, ma non solo, anche non convenzionali come barche, spiagge e ville di campagna. Tante location diffuse sul territorio (oltre 20 Comuni coinvolti) che riprendono vita e assumono un nuovo valore grazie alla creatività artistica, che diventa uno strumento fondamentale per dare voce ai diritti umani e alle storie

– il Delta della creatività”: da questo nasce Arte per la Libertà Festival, il nuovo importante evento che coinvolge i territori del Polesine e del Delta del Po. La forza creativa dei due eventi culturali (ormai consolidati sul territorio) si amplifica in un festival che propone un grande cartellone artistico costruito seguendo il filo rosso della tematica dei

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che si mescolano tra le pieghe di un territorio sospeso tra terra e acqua. Il messaggio universale promosso da Arte per la Libertà Festival si trasforma nel collante capace di unire l’ampio territorio attorno al fiume Po e al suo Delta, valorizzandolo. Una terra con la quale l’associazione ha avviato un dialogo importante, impegnandosi fin da subito a dare nuovo risalto ai tratti che la rendono unica. Una terra lenta, dal carattere autentico, ricca di storia e tradizione. Un luogo dove la natura è protagonista, che incanta per i suoi paesaggi unici al mondo: distese di campi coltivati, argini e canali da cui compaiono splendide corti rurali, ville storiche e piazze.

laboratorio Cinema per i diritti umani

Il programma degli eventi Grazie alla progettualità di Culturalmente Impresa della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e al finanziamento del bando SIAE Periferie Urbane, l’Associazione Voci per la Libertà è riuscita a mettere insieme uno staff in grado di creare un festival unico in Italia: Arte per la Libertà sarà un caleidoscopio di eventi da aprile a settembre 2017 che danno spazio alle diverse forme artistiche, in particolar modo a quelle dei giovani under 35, dalla musica, al teatro, al cinema, all’arte contemporanea.

laboratorio di musica Attivamente

Il Festival inizia con una serie di laboratori didattici di musica, street art e cinema realizzati in numerose scuole delle province di Padova e Rovigo. Si tratta di un vero e proprio percorso educativo che coinvolge i giovani studenti per farli diventare parte attiva nella promozione dei diritti umani grazie al potere dell'esperienza artistica.

laboratorio di arte contemporanea Attivamente

Ampio spazio è dato all’arte contemporanea, grazie a DeltArte ci saranno numerose opere di street art, installazioni, land art mostre e performance realizzati da giovani artisti, anche all’interno di spazi non convenzionali nel territorio del Delta, per riqualificarli e ridare loro nuova forza comunicativa. Il pubblico di "Voci per la Libertà-Una canzone per Amnesty” (foto di Silva Rotelli) 24

Non mancano gli spettacoli teatrali e il cinema nel ricco calendario di Arte per la Libertà Festival, che ha deciso 25


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Libertà – Una Canzone per Amnesty a Rosolina Mare dal 20 al 23 luglio. Si compone di un concorso per giovani band emergenti che, da 20 anni, premia le canzoni legate alla Dichiarazione universale dei diritti umani; oltre al concorso, i concerti di big della musica in qualità di ospiti; l’assegnazione del Premio Amnesty International Italia che quest’anno è andato a Nada con il brano Ballata triste. Si aggiungono a questo già ricco programma una serie di altri eventi collaterali quali l’inaugurazione dell’installazione in realtà aumentata del progetto di Silva Rotelli Musica e diritti umani, aperitivi in spiaggia, incontri, dibattiti, flash mob. A questo ricco calendario si aggiungono le crociere musicali sul Delta del Po, occasioni per entrare in contatto con il volto più emozionante del Grande Fiume.

“I monologhi della vagina”

di dare ampio spazio alle produzioni degli artisti locali: tra queste Presi a Caso, docufilm sull’eccidio nazista avvenuto a Villadose, Orizzonte degli eventi e I monologhi della vagina.

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riconoscimento del territorio del Delta del Po a Riserva MaB UNESCO, infatti, diventa cassa di risonanza internazionale per un evento che porta con sé valori universali come il rispetto e la tolleranza. Da sempre affiancato da Amnesty International, che ne ha fin da subito riconosciuto l’unicità e il valore, Arte per la Libertà Festival è un evento capace di travalicare i limiti territoriali e nazionali, facendosi promotore di un’arte che abbatte i confini, crea legami, unisce i popoli e le diverse culture.

Un festival dal respiro internazionale Il territorio da cui parte la storia del festival allarga il suo confine per assumere rilevanza mondiale: il recente

Il cuore del festival è il concorso musicale Voci per la

Nada vincitrice con “Ballata triste” del Premio Amnesty International Italia 2017

Un fotogramma di “Presi a Caso”

(foto di Silva Rotelli) 26

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Pro Loco - IAT Porto Tolle Piazza Ciceruacchio 1 45018 Porto Tolle (RO) Tel. 0426.81150 - 0426.1905676 Cell. 328.9109007 Sito: www.prolocoportotolle.org Mail: info@prolocoportotolle.org iat@prolocoportotolle.org

Orario apertura ufficio:

GENNAIO - FEBBRAIO da martedì a sabato 9.00 - 12.30 MARZO da martedì a domenica 9.00 - 12.30 DA APRILE A SETTEMBRE da martedì a domenica 9.00 - 12.30 venerdì e sabato 15.30 - 18.30 OTTOBRE da martedì a domenica 9.00 - 12.30 NOVEMBRE - DICEMBRE da martedì a sabato 9.00 - 12.30

Alcune manifestazioni in programma:

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19^ Parco in Bici

Boccasette dal 13 al 14 maggio 2017 Escursioni in bicicletta alla scoperta del territorio

Le foto in bianco e nero dell'Ass. Filarmonica di Rosolina sono di Stefano Tarquini

Pedalata notturna

Camminata in compagnia Mostra fotografica

Stand gastronomico Mercatino hobbisti

54^ Fiera del Delta Ca’ Tiepolo di Porto Tolle dal 7 al 10 settembre 2017 Spettacoli

Stand gastronomico Mostre

Lotteria

Spettacolo pirotecnico

Le bande musicali cittadine

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l termine “banda” ha in sé una varietà piuttosto ampia di accezioni in termini musicali, esso può fare riferimento a quasi ogni insieme di strumenti ma si applica comunemente a un gruppo di musicisti che suonano ottoni e percussioni, ai quali si possono aggiungere in certe parti d’Europa i contrabbassi o i violoncelli. Le tracce di questo tipo

del Polesine 29 FOTO DI ILARIA GABRIELI

di Matteo Sarto in collaborazione con Nicla Sguotti


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bandistica e suggestioni della musica contemporanea. CORPO BANDISTICO “CITTÀ DI LENDINARA”

di corpo musicale risalgono a epoche piuttosto antiche anche se gli studiosi sono soliti collocare le origini della banda nella seconda metà del XVIII secolo, con un maggiore sviluppo soprattutto dopo la Rivoluzione francese. Le bande cittadine hanno continuato ad avere una grande varietà di compiti anche nel periodo successivo, il musicista che ne faceva parte doveva avere familiarità con diversi strumenti e conoscere un ampio repertorio, tra cui pezzi di danza, sinfonie e concerti. Alcuni musicisti delle bande cittadine provenivano dalle formazioni musicali militari, altri da famiglie in cui tale professione era tradizionale. In Francia i nuovi tipi di bande sorsero per caricare la musica degli ideali del nuovo ordine rivoluzionario, questa nuova formazione strumentale fu onorata da subito dell’attenzione dei massimi compositori dell’epoca che scrivevano le

musiche per la Banda della Guardia Nazionale. Quest’organico strumentale si è evoluto nel corso dei secoli ed ha assunto nomi diversi, in Italia si chiama “banda” oppure “orchestra di fiati” e vanta una lunga e prestigiosa tradizione, resa ancor più importante dai lavori che alcuni dei più grandi compositori nel nostro Paese scrissero espressamente per ensemble bandistici. Ciò che in Italia salta agli occhi è, fin dalle origini, il profondo legame della banda al territorio e alle sue tradizioni, al vivere quotidiano e ai momenti più significativi dal punto di vista storico, sociale e religioso. Un legame che ha fatto del territorio italiano un terreno fertile per la musica e le formazioni bandistiche, distribuite ancora oggi in maniera capillare in tutto il Paese. Il Polesine non fa eccezione con le sue bande musicali cittadine che rappresentano la perfetta sintesi tra una consolidata tradizione 30

“Per iniziativa di alcuni deputati municipali è stato steso l’invito alla cittadinanza a partecipare alla costituzione di una società atta a risvegliare il gusto musicale”. Con queste parole si apriva un documento del febbraio 1870. Attualmente il Corpo Bandistico “Città di Lendinara” sta contribuendo, in modo significativo e con grande orgoglio, alla diffusione della cultura musicale, non solo nell’ambito della propria comunità, ma partecipando anche a concorsi, incontri e rassegne, fra le quali la più importante è la partecipazione al “Flicorno d’Oro” di Riva del Garda. Grazie a quel seme piantato nella seconda metà del XIX secolo con tanta passione e determinazione, nuovi territori musicali la attendono. BANDA MUSICALE CITTADINA DI CAVARZERE La Banda Musicale Cittadina di Cavarzere ha una storia più che centenaria, la sua esistenza è documentata fin dagli ultimi anni dell’Ottocento, anche se si può dire che una rinascita sia avvenuta negli anni antecedenti l’ultima guerra mondiale per desiderio spontaneo degli abitanti di un paese amante della musica. La guerra e le calamità naturali, quali l’alluvione del ‘51, hanno creato un vuoto nella storia della Banda. La ripresa è stata faticosa, lunga, fino ad arrivare agli

anni ’80 quando l’Amministrazione comunale ha finanziato la prima uscita del complesso bandistico cittadino nella sala consiliare del Comune, dimostrando il grande impegno di tutti i suoi componenti, che hanno voluto che tale realtà musicale diventasse un’istituzione stabile. La Banda musicale cittadina di Cavarzere ha un repertorio molto vasto, testimoniato da diverse incisioni. BANDA MUSICALE DI VILLADOSE Da una ricerca nell’archivio comunale, la Banda Musicale Villadose appare in documenti del 1951, ma c’è chi fa risalire le sue origini al 1885. Nel 2011 viene insignita da parte dell’Amministrazione comunale, del Ministero per i Beni e le attività culturali e dai garanti per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia del riconoscimento di gruppo di musica popolare e amatoriale di interesse nazionale. Nella sua tradizione sono ormai entrati i “Campi estivi musicali”, veri e propri campi scuola, quali occasione per un momento di verifica, di programmazione, di crescita professionale e umana. E non si è certo risparmiata svolgendo centinaia di servizi musicali, taluni di vero prestigio, quali il concerto di Enrico Ruggeri al Teatro Sociale di Rovigo. CORPO BANDISTICO MUSICALE “G. VERDI” DI TAGLIO DI PO La Banda di Taglio di Po è nata dalla fusione di due gruppi di musicanti, 31


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BANDA MUSICALE “COL. LUIGI BOSI” ALTO POLESINE (TRECENTA) Il percorso del Corpo bandistico “Col. L. Bosi” inizia nel 1989, l’associazione deve il suo nome agli eredi Bosi di Trecenta che fornirono gli strumenti musicali per la formazione del complesso. Dall’anno di nascita fino al 2005 sono stati fatti ben cinque cicli di corsi triennali dai quali sono usciti un centinaio di musicisti che hanno poi formato la banda. Negli anni successivi, visto che la banda era richiesta e funzionava, si è deciso di legalizzare il tutto in una associazione senza scopo di lucro con uno statuto ad hoc, registrato presso l’Ufficio del registro di Badia Polesine. La Banda Musicale ora è conosciuta in tutto il Polesine e spazia anche nelle province vicine come Ferrara, Padova e Modena.

Ass. Filarmonica di Rosolina

uno proveniente da Adria e l’altro da Chioggia. I componenti furono subito uniti da una grande passione che cresceva giorno per giorno, arrivando in breve ad esibirsi in concerti, ne è testimonianza un manifesto datato 26 giugno 1898. Nel periodo postbellico anche i musicisti più appassionati dovettero trascurare la Banda per più impellenti necessità di lavoro. Negli anni ‘50 la compagine riprese vita e la sua apprezzata attività concertistica sotto il nome di “Banda Musicale Giuseppe Verdi”. Il vasto repertorio spazia dalla musica sinfonica alle co-

lonne sonore di film e grandiose marce da sfilata, suscitando nell’ascoltatore sempre grandi emozioni. ASSOCIAZIONE FILARMONICA “V. BELLINI” DI ROSOLINA È il 1908: i giovani rosolinesi animano una sala da ballo appena costruita, danzando al suono di walzer, polke e mazurke. Ad inaugurarla è un sestetto di musicisti. Le due guerre mondiali e la terribile “spagnola” 32

non sono bastate a fermare la passione per la musica, così forte nei cuori dei rosolinesi. Ad oggi la Filarmonica ha coinvolto i giovani musicisti in una collaborazione con importanti musicisti di fama internazionale tra cui Marco Pierobon e Silvio Maggioni, che si sono esibiti in un magnifico concerto finale tenuto nel suggestivo Piazzale Europa che ha fatto emergere uno stile nuovo, originale. Come se lo spirito musicale di quel sestetto “pioniere” avesse trovato, oggi, sicura e ampia dimora in un corpo bandistico moderno.

BANDA MUSICALE CITTADINA DI PORTO VIRO L’intenzione e l’obiettivo dei soci fondatori è stato quello di dare l’opportunità a tutti gli appassionati di musica di poter coltivare tale passione all’interno del proprio territorio. Grazie a loro nel 2002 è nata la banda di Porto Viro: la più giovane nel Polesine. La banda è celebre per la sua presenza sulle reti nazionali Rai in un noto programma nazionalpopolare. Un evento culturale di alto livello è stato sicuramente il corso di perfezionamento musicale con il M° Roberto Rossi, prima tromba dell’orchestra della Rai, organizzato interamente dalla banda. In questo modo la banda rie-

Banda musicale cittadina di Porto Viro

sce ad essere un valido supporto per qualsiasi tipo di manifestazione, sia civile che religiosa o culturale. 33


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Gianni Sparapan Per le Vostre Vacanze nel Delta del Po Albergo Italia "La porta del delta del Po", un ambiente accogliente, giovane e dinamico in continua evoluzione che vi accompagna alla scoperta di un territorio unico e "selvaggio". Ottimo punto di partenza per le vostre escursioni naturalistiche, sportive, culturali o di piacere culinario. Per soggiornare in pieno relax nel Cuore del Parco del Delta del Po in stanze essenziali, luminose e confortevoli. Un ambiente semplice ed accogliente dove potrete trovare il calore ed il comfort per una piacevole vacanza. Situato al Centro di Porto Tolle riuscirete a raggiungere in completa autonomia e semplicità tutti i vari punti di interesse del territorio deltizio e visitare città d'arte come Venezia, Ferrara, Ravenna.

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di Chiara Turrini e Manuel Borella in collaborazione con Sandro Marchioro

’idea originaria su come organizzare l’intervista a Gianni Sparapan era completamente diversa da come in realtà sono andate le cose. Avevamo preparato la scaletta e ci aspettavamo che tutto sarebbe stato semplice e schematico: noi che facevamo le domande, lui che rispondeva e ancora noi a trascrivere. Non è andata così. Per niente.

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PAROLE

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tutti questi anni, l’insieme dei suoi libri che hanno soggetti e scritture diverse, ma sicuramente la stessa passione, la stessa forza che ne ha determinato l’ideazione e la stesura. E quando parliamo di forza intendiamo anche rabbia, perché ci è parso di capire, da questo incontro, che il molto sapere che Sparapan ha introiettato nella sua vita abbia prodotto anche una certa rabbia. Ma lo vedremo tra poco.

Ci siamo trovati davanti una situazione ingestibile, un uomo di una ricchezza e di una intensità che non si riescono a contenere dentro lo schema di una classica intervista. A ben pensarci i libri che Gianni Sparapan ha prodotto avrebbero dovuto prepararci a questo fuoco di fila, a questa specie di magma che è l’uomo che li ha scritti.

In sostanza abbiamo fatto solo la prima domanda: “Chi è Gianni Sparapan?”, e tutto il resto è venuto da solo, travolgendoci. Ed il tutto è stato così veloce che metà delle cose che Sparapan ha detto le abbiamo digerite un paio di giorni dopo. Facendoci venire, tra l’altro, il desiderio molto forte di andarci a leggere le cose che ha scritto in

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importanza, e quindi figuriamoci se si riesce a capire la sua bellezza. Perché non c’è stato nessuno di quelli che avrebbe avuto il potere di farlo che ha speso una parola in difesa del dialetto. E qui è meglio non riferire il modo coloratissimo, diciamo così, con cui Sparapan ha definito tutte quelle realtà che sono evidentemente colpevoli di

Per chi non lo conoscesse, Gianni Sparapan è uno scrittore che si è occupato di molte cose: essenzialmente di teatro, di poesia e di storia, potremmo dire per sintetizzare. È nato nel 1944 in quella che lui chiama “la riviera dell’Adigetto limitrofa a Rovigo”, una definizione generica e piena di immaginazione per indicare un territorio che più o meno coincide con quello di Villadose. E a proposito di immaginazione quella di Sparapan si accende ogni volta che si toccano i due poli principali del suo interesse culturale e artistico: il Veneto e la sua lingua (e ovviamente il Polesine e la sua lingua) e la storia (la Storia) che ha incrociato nella sua vita. In sostanza tutto il tempo che Sparapan ci ha dedicato durante questo incontro è stato assorbito da questi temi, con varianti coloratissime, con accensioni di tono che perfino ci hanno intimoriti, ma che dimostravano la sostanziale, verissima passione per le cose di cui stava parlando e di cui ha parlato sempre nei suoi testi. Il destino di questo angolo di Veneto che è il Polesine, provocatoriamente considerato una “pura espressione geografica” e soprattutto il destino della sua lingua: attenzione, lingua, non dialetto, come erroneamente l’abbiamo chiamato provocando un sussulto ed uno scoppio vigoroso nel ragionamento di Sparapan. Perché quello che parliamo in quel territorio che chiamiamo Veneto è una lingua vera e propria, così come lingue sono altri idiomi presenti nella nostra penisola: considerarlo dialetto significa sminuirlo, mortificarlo, soprattutto non capire l’importanza di un fenomeno che ha radici storiche e sociali amplissime. Ed allora ecco la rabbia di cui parlavamo prima: perché l’averlo sempre considerato “dialetto” lo ha consegnato all’incuria, all’inconsistenza, ad una specie di limbo sociale e culturale che lo ha portato alla situazione attuale, in cui il dialetto sta sparendo: non solo perché sta sparendo il mondo che questa lingua esprimeva, ma anche perché non si è capito e non si riesce a capire la sua ricchezza e la sua

non aver fatto nulla per difendere il dialetto, anzi che hanno fatto di tutto per affossarlo: la politica, la scuola, il mondo della comunicazione in generale. Ma la rabbia che in lui si concretizza in scelte lessicali coloratissime, in espressioni antiche e vitali, si riversa poi in una grande malinconia perché quello che rimane del dialetto è un 37


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piccolo residuo, il cui destino certo è la scomparsa. Ormai non si può fare niente per salvare questo patrimonio: “Ancora pochi anni e i miei stessi libri scritti in dialetto avranno bisogno della traduzione, perché la lingua con cui mi sono per lo più espresso a breve sarà una lingua morta, come lo è il latino, come lo è l’etrusco, il greco antico”. Non ha speranze e non ne dà, Sparapan, e questa

to, ma anche per la stessa lingua nazionale, impoverita, a suo dire, da fenomeni diversi che hanno tutti lo stesso obiettivo: l’eccesso dell’uso dell’inglese è uno di questi, ma non possiamo dimenticare la condizione pietosa del sistema di comunicazione sempre più veloce e povero dal punto di vista linguistico. Col risultato che i giovani si esprimono avvalendosi mediamente di 200 vocaboli. Ma la forza del commercio, di questo sistema economico che infetta tutti gli aspetti della nostra vita è tale che la tendenza è quella di usare le lingua sempre più come mezzo per comunicare, tralasciando le sue potenzialità espressive, il suo colore, la sua forza. Anche qui Sparapan di speranza ne ha poca che le cose possano migliorare. Ma allora, gli abbiamo chiesto verso la fine, inserendoci in uno dei pochi attimi di pausa della sua appassionata “tirata”, perché lei continua a scrivere libri nell’epoca dei social? Ci ha guardato negli occhi, ha fatto un attimo di pausa e poi, stranamente, ha risposto con una frase secca: “A futura memoria”. Cosa volesse dire di preciso lo ha spiegato dopo una lunga pausa, quasi una rincorsa per spiegare più distesamente il senso del suo lavoro. I legami col passato nel suo caso non sono solo nostalgia, come capita per lo più alle persone che hanno vissuto molto: ricordare per lui è studiare e ricostruire, soprattutto per tramandare, per fare in modo che non si dimentichi, per cercare un senso preciso in quello che è stato, ma soprattutto per cercare di dare un senso anche al nostro presente. Come a dire che prima o poi le cose che sono state si riveleranno come la matrice delle cose che sono, e avremo bisogno di guide per capire queste relazioni, e le profonde conoscenze che un uomo come Sparapan ha riversato nei suoi libri saranno preziose per tutti coloro che non si accontenteranno di vivere le cose per come sono e basta, ma cercheranno uno spessore, un significato profondo, un’origine.

giovane; un pubblico di ragazzi che potrebbero scoprire non soltanto cose di straordinario interesse ma soprattutto, l’abbiamo provato noi stessi inaspettatamente, potrebbero essere trascinati in una realtà (quella delle opere di Sparapan) che non regala soltanto conoscenza, ma anche un piacere davvero raro, un divertimento che ai

ragazzi della nostra età potrebbe risultare particolarmente congeniale. E ci si diverte anche crescendo un poco, beh, perché no.

Non sappiamo se siamo riusciti a rendere bene il significato di questo incontro. Certo quello che abbiamo scritto è una sintesi, che rende poco di quello che è stato il vero carattere, l’autentico sapore di quest’ora e mezza passata con un uomo che ha dato molto alla cultura del nostro territorio e che abbiamo l’impressione debba ancora essere scoperto nel suo insieme, nelle varie sfumature che la sua opera ha attraversato. Certo, sarebbe bellissimo che questo lavoro venisse conosciuto anche da un pubblico

sua negatività nasce da una comprensione profonda dei fenomeni linguistici, ma anche storici e sociali, che hanno caratterizzato gli ultimi cinquant’anni della storia nazionale, e delle sue ricadute inevitabili nella storia locale. L’analisi che fa questo autore che ha passato la vita a scrivere e a studiare non è sconfortante solo per il dialet38

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STORIE

Trent’anni dopo, nel segno di Fabio Treves di Claudio Curina e Francesco Casoni

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30 anni di Deltablues

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oi siete dei pazzi!”, esclamò Fabio Treves, scendendo dall’auto dopo svariate ore di viaggio e mettendo piede forse per la prima volta nella sua vita nel Delta del Po. Aveva forse sottovalutato il viaggio per arrivare sul luogo del 41

concerto: gli era stato detto Rovigo, ma era un’ora buona di viaggio in più. All’epoca non era ancora stata ultimata la superstrada da Verona a Rovigo e il viaggio da Milano si era prolungato a dismisura, finendo quasi per perdersi nella bassa veronese. E ora con la sua Treves Blues Band si ritrovava a Donada, di fronte a una


STORIE

Luther Allison (1996)

anonima discoteca lungo la strada Romea, ingaggiato da due ragazzotti polesani, Stefano e Claudio, che si erano messi in testa di portare il blues in questo angolo della pianura padana ancora sconosciuto ai più, che tanto ricordava il Delta del Mississippi. Da un anno circa, Stefano Marise e Claudio Curina, con l’appena nata cooperativa Area Rebus, avevano iniziato l’impresa di portare il blues in Polesine, realizzando alcuni concerti in teatri: Elisha “Blue” Murray a Rovigo, poi Arthur Miles e Eddy C. Campbell ad Adria. Incredibilmente il pubblico apprezzava e partecipava numeroso. Nel giugno 1988, grazie al Comune di Donada e all’Arci, arrivò l’opportunità di realizzare quasi un piccolo

festival. Quello di Treves era il concerto di punta di questa rassegna, nata grazie alla collaborazione del presidente dell’Arci Pietro Callegarin e del suo principale collaboratore, Ivan Dall’Ara. Fu proprio Dall’Ara a proporre di chiamarla “Blues nel Delta” oppure “Deltablues”. E, dopo averci pensato su un po’, Stefano e Claudio decisero che, sì, non era male quel nome, che metteva assieme il Delta del Po con la culla del Blues: il Delta del Mississippi. Deltablues, poi, era il blues primordiale di Charley Patton, Johnny Shines, Son House e tanti altri, fino al più grande di tutti: Robert Johnson, quello del patto col diavolo che gli permise di registrare le mitiche 29 canzoni che cambiarono la storia del blues e forse anche della musica moderna. Nei tre concerti nel Delta, furono protagonisti, assieme alla Treves Blues 42

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Band, i Big Fat Mama, diventati poi uno dei gruppi storici del blues italiano, con ospite l’ottimo armonicista Johnny Mars e il compianto Cooper Terry, assieme alla band padovana capitanata da Claudio Bertolin. Così nasceva trent’anni fa Deltablues, quasi per caso. Ma evidentemente il terreno era fertile. Nel luglio dello stesso anno ebbe già una coda a Rovigo, grazie alla sensibilità e passione dell’allora assessore Lorenzo Liviero, che fece sì che il Blues approdasse in piazza Vittorio Emanuele: il salotto buono della città! Sul palco i “Chicago All Stars”, gruppo interamente americano, con il grande sassofonista A.C. Reed, il giovane chitarrista Maurice John Vaughn e il pianista Detroit Junior. L’anno dopo, e siamo nel 1989, la piazza rodigina diventa stabile dimora e l’impegno di Comune e Provincia fa decollare il Festival, che negli anni successivi, soprattutto grazie alla Fondazione Cariparo, si svolgerà ininterrottamente, portando in Polesine appassionati da tutta Italia. Parte nel 1989 anche la collaborazione con il Festival Piazza Blues di Bellinzona, creato da Libero “Bibo” Verda, grandissimo e competente appassionato del genere. Per più di vent’anni il gemellaggio con Piazza Blues e con Liri Blues Festival portò il meglio del blues mondiale, i “grandi vecchi del blues” e per la prima volta lo zydeco, la musica delle paludi della Louisiana. Esordirono sul suolo europeo artisti sconosciuti, poi diventati grandi e famosi nomi del blues internazionale. Trovarono spazio giovani musicisti emergenti, impegno che prosegue

con l’International Blues Challenge e la collaborazione con il Conservatorio “Venezze”, iniziata con il compianto Marco Tamburini.

James Cotton (1993)

Il Deltablues è il Polesine. Con tutte le difficoltà di un Festival nato e cresciuto in un territorio con poche risorse economiche, non potrebbe davvero esistere altrove.

Un patrimonio musicale che prosegue di Stefano Marise

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lues: genere musicale che negli anni Ottanta e Novanta ha vissuto un’incredibile ed entusiasmante parabola, con un seguito diffuso in ogni età anagrafica. Tutto il mondo musicale guardava a questa musica, in Europa e in Italia si ascoltava blues in qualsiasi club, bar, circolo o teatro dove vi fosse musica dal vivo. I principali musicisti di questo genere musicale, una generazione ormai quasi tutta scomparsa per motivi anagrafici, si esibivano regolarmente in lunghissime tournée per l’Europa e sporadicamente in Italia. Si vendevano moltissimi dischi prima e tanti cd dopo. B.B.King e John Lee Hooker facevano i testimonial di pubblicità. In Italia l’interesse era molto alto, ma trovava difficilmente sfogo dal punto 43


STORIE

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di vista di concerti dal vivo. In questo quadro nasce nel 1988 Deltablues e prende da subito la parola “festival”, un incontro musicale che presenti quanto più possibile una diversità di stili e di generi sempre nell’ambito della musica nera african-americana. Hip hop e rap erano ancora lontanissimi.

Bo Diddley (1997)

Un incontro, Deltablues, che avrebbe dovuto nascere e morire con quel primo tentativo. Ma non andò così. Da una prima timida edizione con concerti nel Delta del Po polesano e a Rovigo (aprono Fabio Treves, Cooper Terry, Arthus Miles e Johnny Mars) si passa subito ad una struttura organizzativa di due serate musicali, quattro concerti a serata. La seconda edizione fa il botto: si esibiscono in piazza a Rovigo una trentina di musicisti americani, quasi tutti mai ascoltati prima in Italia (Honeyboy Edwards, Frank Frost, Big Jack Johnson, Phillip Walker) e si ascolta per la prima volta dal vivo lo zydeco, musica originaria delle paludi della Louisiana, proposta per la prima volta in Europa da C.J. Chenier, figlio del grande Clifton Chenier, re indiscusso del genere. La stampa specializzata rimane incredula nel trovare in una realtà come Rovigo, fuori dal “giro” musicale e decentrata rispetto al resto dell’Italia musicale in fermento (decine i club che all’epoca punteggiavano l’Italia con blues e jazz dal vivo ai massimi livelli), che fa fatica a comprendere quanto stia succedendo. Negli anni successivi, la manifesta44

zione decolla definitivamente sia come cartellone artistico, che come seguito e importanza. Nel mondo dello spettacolo si impone da subito tra i piccoli festival analoghi nati o nascenti, per scelte artistiche e rigorosità. Il pubblico frequenta Deltablues, ormai appuntamento fisso di fine giugno, anche se non conosce buona parte dei musicisti. Si “fida” delle scelte artistiche e torna a casa con grande soddisfazione. La stampa nazionale si accorge e segue per molti anni l’evento. Altri festival, che intanto nascono e dopo breve periodo muoiono, cercano di copiarne la formula, cominciano a cercare l’esclusività delle proposte, prendono Deltablues come riferimento. Artisti statunitensi fondamentali si esibiscono negli anni: nomi magici come Albert King, Taj Mahal, Alberto Collins, Robert Junior Lockwood, Luther Allison, Magic Slim. Il re del British Blues John Mayall, persino Ike Turner, che lanciò musicalmente il re del rock’n’roll Elvis Presley e Bo Diddley. Artisti fondamentali come Jimmy Rogers, partner fondamentale di Muddy Waters, James Cotton, Carey & Lurie Bell, R.L. Burnside, Snooky Pryor che regnava incontrastato in Mississippi. E ancora, quelle che erano, per età anagrafica, le future promesse: Joe Louis Walker, Anson Funderbegh, John Hammond, Shemekia Copeland, Billy Branch, Sherman Robinson, Michael Coleman. Perfino un grande del soul come Otis Clay, un musicista simbolo di New Orleans,

Walter Wolfman Washington, un artista non etichettabile come Screamin’ Jay Hawkins e una lunga serie di zydeco band dalla Louisiana, tra cui Rockin’ Doopsie, Sunpie Burnes, Terrace Simien.

durata fino al 2007, anno in cui chi scrive lascia la direzione artistica del festival. Ma una simile eredità, patrimonio musicale, di conoscenze e organizzativo ha proseguito e festeggia con merito i primi 30 anni. Ci ritroviamo per il prossimo anniversario.

Un’incredibile traiettoria musicale,

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• Venerdì 2 giugno, ore 18,00 – attracco Loreo-Porto Viro – Anteprima Deltablues “Deltablues Cruise” nel Delta del Po con Fabio Treves e Alessandro Gariazzo. • Venerdì 2 e sabato 3 giugno, ore 21,30 – Loreo – Anteprima Deltablues T.R.E.S. Radio Express Service – Riki Massini Bonus Track Band feat. Clive Bunker • Venerdì 23 giugno, ore 18.30 Lendinara, piazza Teatro Ballarin, Sunny War Acoustic; a seguire ore 21.30, ex Pescheria, “Southland” con Walter Gatti e Michele Gazich • Domenica 25 giugno, ore 18,00 Rovigo centro storico, Giornata Europea della Musica Deltablues & Jazz on The Road • Venerdì 30 giugno, ore 18,00 attracco Albarella-Rosolina, “Deltablues Cruise” nel Delta del Po con Veronica Sbergia & Max De Bernardi • Dal 30 giugno al 2 luglio, ore 21,00 Rosolina Mare, “Rock Around the Blues” The Velvet Candles, Psycho Surfers, P-51 Airplanes e The Takeoff big band, ed altri • Venerdì 7 e 8 luglio, ore 21,30 S. Maria Maddalena-Occhiobello, Parco golenale Il Pontile Selezione italiana International Blues Challenge - Mike Zito Blues Band - Zac Harmond Band • Sabato 8 luglio, ore 18.30, S. Maria Maddalena-Occhiobello, attracco il Pontile “Deltablues Cruise” sul Po con Hubert Dorigatti • Mercoledi 12 luglio, ore 21.30, Rovigo, Piazza Vittorio Emanuele II Deltablues Jazz & Soul Connection, Venezze Big Band feat. Dave Weckl • Venerdì 14 luglio, ore 21.30, Adria, Miss Eliana Cargnelutti Blues Band

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“Dai ’ndemo via… ’ndemo in Merica” In bicicletta alla ricerca degli emigranti Veneti in Sudamerica La vignetta è di Byrata, un fumettista che scrive e disegna storie sui gauchos. Il personaggio al centro è Moacir del Castel, accompagnatore dei Free Bikers, la sua famiglia è di origine bellunese

RADIO KOLBE ROVIGO É la radio della Diocesi di Adria-Rovigo, fondata nel 1983 da don Bruno Cappato su incarico dell'allora Vescovo Mons. È territoriale, cercando di portare una parola buona, di amicizia e di speranza agli ascoltatori. E ancora oggi cerca di porsi come un punto di riferimento nell'immenso mare della comunicazione. Un porto sicuro, una voce amica.

I Free Bikers di Porto Viro hanno portato a termine una delle loro imprese più memorabili, in un’area che fu teatro degli sbarchi di milioni di nostri concittadini.

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di Danilo Trombin

o avuto l’occasione di accompagnare in visita nel Delta del Po alcune classi di un liceo piemontese, che soggiornavano nel territorio per conoscerne la storia, la tradizione, la ricchezza paesaggistica e soprattutto quella naturale. Li attendevo al Museo della

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STORIE

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tisse l’emigrazione dal meridione, e inizialmente furono trattati come animali da soma, come gente priva di diritti, come esseri umani di serie B, un po’ come noi trattiamo oggi chi arriva dall’Africa. La povertà, oggi come allora, fa schifo, provoca terrore e i poveri vanno disprezzati, inutile ricordarlo. Questo episodio mi è tornato in mente quando ho deciso di descrivere per questa rivista l’esperienza che i Free Bikers di Porto Viro hanno appena portato a termine, una delle loro imprese più memorabili, in un’altra area che fu teatro degli sbarchi di milioni di nostri concittadini, cioè il Sudamerica. Dal 6 al 27 di febbraio scorso il gruppo di amatori della bicicletta che 16 anni or sono hanno fondato il sodalizio con sede a Porto Viro, sono andati a percorrere le strade

Bonifica di Ca’ Vendramin, in una mattinata luminosa e placida che lasciava immaginare una giornata tiepida e indolente, tipicamente primaverile, come accade spesso da noi in primavera. Il professore capogruppo, dopo le presentazioni di rito, mi spiegò che quasi tutti i ragazzi erano di origine polesana e che lui stesso aveva parenti che vivono ancora a Rosolina. Chiesi ai ragazzi quale fosse il proprio cognome, ed effettivamente moltissimi terminavano con la “N”, come Mancin, Fregnan, Pavan, Visentin, Ballarin, o ancora, quelli tipici, come Osti, Zanirato, e molti altri. Mi spiegarono che i loro antenati fuggirono da questa terra dura, aspra e amara, in cerca di una sorte migliore, quando, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 del ‘900, continue alluvioni vessavano un territorio già povero e martoriato. I polesani arrivarono in Piemonte subito prima che par48

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STORIE

di paesi, borghi, città e campagne che accolsero l’immigrazione polesana nel XIX e XX secolo, con il nobile intento di conoscere, capire e divulgare quali furono le tappe e la modalità di tale esodo verso l’Eldorado d’oltreoceano. Tra il 1860 e il 1885, infatti, partirono dall’Italia più di 10 milioni di persone, mentre, in circa un secolo emigrò un numero quasi pari alla popolazione che era stata rilevata nel primo censimento del Regno d'Italia, ovvero circa 23 milioni di italiani, che si trapiantarono in quasi tutti gli Stati del mondo occidentale e in Nordafrica. Quest’ultimo viaggio porta i Freebikers a percorrere nuovamente le strade del continente sudamericano, per incontrare le comunità italiane e polesane partite dal cosiddetto Belpaese oltre un secolo fa. Toccano tre stati: Rio Grande do Sul, in Brasile, Montevideo in Uruguay e Rosario, in Argentina, percorrendo 3600 km, anche se questa volta di bicicletta ne fanno meno, rispetto agli altri loro viaggi, circa 600 km. Questa volta, infatti, non si tratta di un’impresa meramente sportiva. Questa volta il loro intento è quello di incontrare persone, di percorrere le rotte dell’emigrazione veneta, disseminate per le vastissime lande sudamericane, dove la gente ha mantenuto ancora vivo e saldo un cordone ombelicale con la terra nativa e parla il “Talian”, una lingua che è un miscuglio comprensibilissimo di dialetto veneto e portoghese. In questo contesto, le tradizioni, le usanze, la lingua si sono tramandate per generazioni, mantenendo caparbiamente il legame con la terra d’origine e sono state il collante attorno al quale la comunità è cresciuta e sviluppata. Il sentimento di “nostalgia-saudade” che i veneti sudamericani portano nel cuore, rivolto a ciò che ricorda la loro terra, manifesta una forte curiosità verso tutto ciò che riguarda l’Italia e, in particolare, i luoghi dai quali partirono i loro avi. Mantenere viva l’identità veneta è un bisogno vitale perché, anche se inseriti nel tessuto economico e sociale di Brasile, Uruguay e Argentina, portano nell’animo il desiderio di appartenenza e identità alla loro cultura, dalla quale sono stati sradicati con dolore. Molte sono le collaborazioni che raccolgono prima di affrontare il viaggio in bicicletta alla ricerca delle comunità italiano-venete, come il CONVERS (Comitato Veneti Rio Grande do Sul), il CAVU (Comitato Associazioni Venete Uruguay) e il CAVA (Comitato Associazioni Venete Argentina), con l’Associazione Familia Veneta de Rosario. 50

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Incontrano sindaci, consoli, ambasciatori, personaggi di spessore elevato come il musicista polesano Paolo Rigolin, che vive e lavora ormai da decenni a Montevideo, come direttore d’orchestra e fondatore dell’orchestra giovanile da cui sono usciti i migliori talenti lirici del Paese degli ultimi anni. In Brasile giungono addirittura presso una città che si chiama Sao Joao do Polesine… Per condividere le emozioni del viaggio e per creare un ponte con le terre native delle persone che incontrano, ad ogni tappa si collegano via skype con il Polesine: con la sala della musica di Porto Tolle, con Loreo, con Porto Viro. I Freebikers vorrebbero avvicinare le persone tra le due sponde dell’Oceano, farci “guardare le facce” di quella gente che ci assomiglia e vede in noi i loro fratelli dopo quattro generazioni, che ci parla con una lingua uguale alla nostra, tramandata di bocca in bocca e che in tempi non lontani, poteva condurre alla prigione. Ci mostrano i piatti che cucinano come una volta, con grande dedizione e orgoglio, cantano le canzoni che noi abbiamo dimenticato, mantengono vive le nostre tradizioni religiose con fervore, cantano e pregano tutti, nessuno escluso. Ci dicono: “Essere qua con questa gente semplice ma orgogliosa della propria Italianità fa riflettere! Non è solo un viaggio temerario, ma significa raggiungere luoghi dove quello che vale, prima di tutto, sono i sentimenti e la condivisione del poco che si possiede, dell’amore delle persone”. Storie semplici, fatte con il lavoro e il sudore, e anche con stenti e discriminazioni, e con la lotta per mantenere viva la propria identità, anche quando lo straniero di qualcun altro eravamo noi. I Free Bikers sono: Mario Mantovan, classe ’59, il più giovane del gruppo, responsabile della Polizia Locale di Porto Viro, esperto di viabilità, fotografia e sistemi informatici; Mauro Garbin, classe ‘54 già apicoltore, esperto ambientale, programma gli itinerari e i reportage in cd dei viaggi; Vittorio Cacciatori, classe ‘52 guida turistica, indispensabile meccanico del gruppo; Vincenzo Mancin, classe ‘51 presidente del Gruppo Iniziativa per l’Ambiente di Porto Viro, tiene la cassa del gruppo che si autofinanzia con il versamento di quote mensili. Facebook/freebikersportoviro 51


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Gemelle (1999)

Mario Lasalandra fotografare l’instabilità di un’epoca 53

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di Cristina Sartorello

o conosciuto Mario Lasalandra alla sua ultima mostra antologica, nel 2016 ad Este, sua città natale e lo


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incontro di nuovo nel suo studio per parlare di fotografia. Mi colpisce la sua grande capacità di vedere attraverso e dentro la figura umana, di assegnarle un’anima e nello stesso tempo di riuscire a sdoppiarla dalla realtà, ponendola in una dimensione onirica, in un altro da sé, grazie ad uno scatto apparentemente naturalistico, in realtà metafisico.

Filodrammatici #3 (1968)

Il desiderio di Mario Lasalandra era di fare il pittore, il nonno materno era un ritrattista e il suo atelier fotografico era in una serra ereditata vent’anni dopo dal nipote, che lì inizierà il suo apprendistato come pittore e fotografo. Ma il padre professore, che voleva che egli studiasse, lo iscrive al liceo: scarso successo e trasferimento all’Istituto per geometri, che Mario frequenta per quattro anni e poi abbandona, prediligendo la pittura artistica e non il disegno tecnico. Apprende le prime nozioni di fotografia dalla madre utilizzando una vecchia macchina di legno. La sua prima fotocamera è la Ferrania Condor delle Officine Galileo di Firenze, pagata cinquantamila lire, che appartiene a quel filone di macchine che sul finire degli anni Cinquanta si ispirano al modello Leica, con messa a fuoco a telemetro accoppiato, uguale a quella di Piergiorgio Branzi. Mario impara a stampare, poi mentre sta facendo il militare a Treviso scopre la fotografia aeronautica e conosce la rivista “Progresso Fotografico”, dove trova i nomi dei fotografi che diventeranno poi suoi amici: Gianni Berengo Gardin, Paolo Monti, Fulvio Roiter, Piergiorgio Branzi, Toni del Tin, molti dei quali appartengono al gruppo della

Paradiso #1 (1992)

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Mario del bosco (1994)

“Gondola” di Venezia. Ma continua anche a dipingere con Gigi Candiani e con lui va in Vespa nel delta del Po, a Boccasette, ad Adria, a Rosolina, e racconta i paesi che visita usando i colori ad olio o l’acquarello e vincendo in seguito numerosi premi. La pittura gli insegna il modo plastico di sistemare le cose: osservando il drappeggio e le nuvole nella grande tela di Giambattista Tiepolo dedicata al

miracolo di Santa Tecla nel duomo di Este, impara in seguito a comporre le sue fotografie. Le prime opere artistiche sono del 1967, poche in estemporanea, in quanto il Maestro le progetta creando i bozzetti che conserva ancora e le stampa da solo su carta non lucida; per vivere fa il fotografo di matrimoni, foto tessere, cataloghi e calendari per aziende (anche una di Villanova del Ghebbo), o lavora 55

con grandi architetti. Nel periodo che dedica al reportage incontra il re dei paparazzi Tazio Secchiaroli, fotografa Mike Bongiorno e i concorrenti dei suoi programmi, poi Papa Giovanni XXIII entrando di nascosto nella sala delle udienze del Vaticano; tante anche le foto di attori del cinema o di teatro. Nel 2006 partecipa ad un concorso il cui tema è il fazzoletto da naso Scottex: qui Mario riesce magi-


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Le sue fotografie del periodo 19622004, principalmente in bianco e nero, sono raccolte nel bel volume dell’Istituto Superiore per la Storia della Fotografia, con introduzione critica di Paolo Morello e partecipano quest'anno in Villa Badoer a Fratta Polesine alla quarta edizione del Festival “Polesine Fotografia”. Le sue foto a colori, principalmente in ambito commerciale, sono state invece realizzate per Ciga Hotel Magazine, nel momento del boom economico, per il libro sul restauro di Palazzo Roncale a Rovigo nel 1980, o per quello sull’Agricoltura del 1983, sull’Artigianato del 1984, sul Commercio del 1985, tutti per la Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, sostituendo degnamente il grande Fulvio Roiter.

Interni #7 (1972)

camente a creare una foto meravigliosa: da solo in giardino, usando il materiale che aveva a disposizione e pensando ad una persona in mezzo ad una bufera, prende la testa di un manichino, vi pone una sciarpa rossa sulla sagoma, gli mette in testa un vecchio cappello sulla cui fascia infila i fazzolettini Scottex come fossero la penna degli alpini; spruzza poi della neve finta, utilizzando un fondale grigio: ottiene un risultato

sorprendente e vince dieci milioni di lire in lingottini d’oro. Dal 2003 al 2013 Mario Lasalandra cura la regia del “Magico Carnevale” di San Felice sul Panaro, realizzandone le scene e la coreografia utilizzando burattini da lui costruiti, trattando temi come “un Circo immobile”, in omaggio a Fellini, santi e miracoli, guerra e pace, angeli e diavoli, diario di un sogno. Sono gli stessi argomenti delle scenografie fotografiche 56

nei suoi più importanti lavori: poeti, maschere, attori, fantasmi nella serie Giudizio del 1967, Spaventapasseri e Filodrammatici del 1968, Storia di un dramma del 1970 e qui, non potendo fare il cinema perché troppo costoso, Lasalandra lo fa con la fotografia, in uno storytelling di 4, 8, 10 foto, inventando molti anni prima il portfolio e portando una rivoluzione nel mondo fotografico.

Mario Lasalandra, che ha fatto della fotografia la sua ragione di vita, si definisce un rigattiere, poiché amava raccogliere oggetti che ha poi utilizzato per le sue scenografie, usando i fumogeni per creare la nebbia se la giornata era limpida, o due stracci legati per fare gli spaventapasseri; modificando il paesaggio con della farina in terra o ponendo la biacca da pittura sulle guance dei suoi personaggi per renderli diafani ed irreali, bilanciando, come in pittura, il peso di una scena con uno straccio bianco, o un sasso, posti per terra dall’artista, oppure un colombo imbalsamato o legato con uno spago sottile affinchè non si vedesse, componendo una installazione che poi veniva fotografata. Il suo segreto è stato sempre la curiosità, l’attenzione per le cose che

Paradiso #4 (1992)

ci circondano. Alzarsi presto al mattino, cercare di essere sempre puntuale, lavorare sulla costruzione delle immagini e meno sull’attesa, aspettando però anche il balzo di un cane nero o la corsa di un cavallo bianco. In questo modo la storia – il riferimento è a Pasolini, Fellini, Antonioni – diventa favola e il ritratto ambientato offre una traccia illuminante attraverso cui ripercorrere le vie del neorealismo nella fotografia italiana. La questione della coerenza drammaturgica è destinata a rimanere insoluta: ogni fotografia ha una sua forza di narrazione autonoma, che può restituire spaesamento, ma affascina per la storia celata che trasmette vere emozioni, pur rimanendo in un ambito metafisico e surreale. Mario Lasalandra, classe 1933, è tutto questo e molto di più. Dedicandosi ora ad una storia drammatica 57

in sette foto su “Don Chisciotte” continua ad emanare una grande, pervasiva e coinvolgente vitalità. Mario Lasalandra nel suo studio


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Mattia Capuzzo Federico Baldon Agenti

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La stampa a contatto più grande stesa ad asciugare (Firenze 2015)

il Festival

della sperimentazione fotografica In una location straordinaria quale il Museo della Bonifica di Ca’ Vendramin, Brancotype diventa un contenitore di incontri.

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di Davide Rossi

a fotografia contorna vari momenti della nostra vita quotidiana, che si manifestano in modo più o meno consapevole attraverso ogni mezzo di acquisizione, dallo smartphone ad oggetti realizzati appositamente per esprimersi


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mob, workshop sulla fotografia, mescolando tecnologia, antiche tecniche fotografiche, divertimento e informazione, in un ensemble unico. Il gruppo coinvolge curiosi e appassionati, senza limitazioni di età o preparazione, la ricetta è composta da una base di cultura, condita di interattività e coinvolgimento, ingredienti che trasformano la fotografia in un veicolo emotivo capace di attirare la curiosità e di innescare una sorta di “passione virale” verso “Riverspective”, il libro sul grande fiume del Branco Ottico La creazione di una gifantesca macchina per fototessere tutta in cartone (Polesine Fotografia 2016)

Corsi di fotografia a Bologna Immagini stampate secondo le antiche tecniche fotografiche per la mostra “Rock around the photos” a Rosolina

in modo creativo. In questo momento, ognuno di noi ha sicuramente con sé almeno uno strumento per acquisire immagini. L'esplosione tecnologica che circonda la fotografia ha creato allo stesso tempo curiosità e confusione: molto spesso nasce il desiderio di approfondire la materia, ma il web è inadeguato, dispersivo, insoddisfacente, troppo virtuale, lontano. Branco Ottico, gruppo di sperimentazione fotografica, propone da anni eventi, flash 60

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le capacità espressive del mezzo. A questo punto dell'esperienza del BRANCO OTTICO è arrivato il momento di fissare un appuntamento che trovi una sua continuità e diventi un riferimento in ambito territoriale e nazionale, incentrato su una visione sperimentale della fotografia. Nasce quindi BRANCOTYPE, il Festival della sperimentazione fotografica. In una location straordinaria, ricca di storia e fascino quale il Museo della Bonifica di Ca’ Vendramin a Taglio di Po, BRANCOTYPE diventa il contenitore di incontri con le scuole, esperimenti, workshop, corsi di fotografia gratuiti, proiezioni e mostre. Il progetto nasce per la volontà di mettere insieme le iniziative e l'esperienza del BRANCO OTTICO, in un’unica situazione in cui convogliare tutta l'attenzione e le energie. Il Festival rappresenta a pieno una visione particolare della fotografia, l’opera attraverso l'esperimento. Si concretizza un ideale di divulgazione e condivisione che nella fotografia, negli ultimi anni in particolare, non sempre si respira, i contenuti sono piuttosto ermetici, spesso brandelli di un'arte che si compie attraverso un sensore e un computer. BRANCOTYPE è rivolto a tutti, non solo ad appassionati di fotografia, per questo motivo il Festival dedica spazio alle scuole con dimostrazioni ed esperimenti collettivi, momenti di condivisione e sperimentazione come il Cyanotype Day – giornata sulle tecniche antiche di stampa nata nel 2011 quasi per scherzo – da un'idea sempre del BRANCO OTTICO. Il Festival svela i segreti della camera oscura attraverso un contest di ben 24 ore gestito dal gruppo Frequenze Visive, nel quale è possibile vedere concretizzarsi la magia della luce che diviene stampa. Chiunque può cimentarsi e stamparsi fotografie da negativi o addirittura dal display di uno smartphone. Un programma molto intenso, studiato per tenere sempre viva l'attenzione, con proiezioni video, brevi lezioni di fotografia generale, dimoLa stampa a contatto più grande: esposizione alla luce del sole (Firenze 2015)

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Il festival della fotografia del Branco Ottico a Ca' Vendramin

strazioni su come eseguire un ritratto con il banco ottico con Davide Rossi, un salotto letterario nel quale si parla di fotografi autori tenuto sempre da Frequenze Visive. Le mostre, in cui sono coinvolti diversi artisti di livello nazionale, hanno come tema la sperimentazione, un modello espressivo che può essere approfondito direttamente con i vari autori presenti con le loro performance. Quattro giorni densi di esperienze fotografiche emozionanti, organizzati in modo da permettere a chi viene da fuori di fermarsi qualche giorno e godere delle bellezze del Delta del Po. Come primo anno non è affatto male, ma è solo l'inizio!

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Il Branco Ottico è un gruppo di sperimentazione fotografica, organizza corsi, workshop, performance, flash mob nel campo della fotografia e lavora per dare spessore al significato culturale storico dell'arte fotografica. Caratteristica del gruppo è quella di cercare sempre di coinvolgere il pubblico, dando vita a eventi fotografici live, nei quali si creano immagini e tecniche direttamente nel contesto. Sono molte e diversificate le performance del Branco Ottico, a partire dal Guinness World Record, la stampa a contatto da negativo più grande mai realizzata, circa 24 mq, passando per lo smartphone Fine Art, che unisce il mondo della tecnologia digitale con la camera oscura, fino ad arrivare alle fotocamere giganti costruite interamente di materiali riciclabili, recente performance intitolata “Mystery Box”. http://www.brancoottico.fineartlabo.com/

La stampa a contatto piu grande: sensibilizzazione e preparazione

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Un evento del Branco: il “cyanotype day”

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Come un segnalibro Il campanile-faro di Adria tra mito e realtà

di Marco Barbujani in collaborazione con Asia Mantovan e Houda Nachit

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ue cose abbondano in Polesine: l’argilla nel terreno e le storie che vi si nascondono sotto. Ad Adria c’è un campanile fatto di mattoni d’argilla ma anche ricco di storie: è quello della basilica “Santa Maria Assunta”, detta della Tomba. La vicenda più raccontata sul campanile della Tomba è che in età romana fosse un faro per il porto di Adria. Mito o realtà? Per scoprire cosa c’è di vero in questa storia bisogna fare qualche passo indietro.

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PERSONAGGI

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momento non sappiamo se ce ne sia davvero uno anche ad Adria. Comunque l’attività portuale della città è davvero intensa, tanto che esiste anche un Collegio dei Nautici, una sorta di corporazione di mestiere dei marinai e dei barcaioli. Una lapide, poi incastonata proprio nel campanile, richiama un episodio legato al Collegio: un uomo lascia 400 sesterzi (forse l’equivalente di un migliaio di euro, come scrive Alberto Angela in “Una giornata nell'antica Roma“, Mondadori 2008, p. 233) perché ogni anno il Collegio dei Nautici organizzi un pranzo funebre in memoria del padre, Quinto Tizio Sertoriano. Dunque una realtà importante e dinamica.

L’Adriatico nel I secolo è ben frequentato. La costa del Polesine non è una linea netta, ma una sfumatura tra terra e mare fatta di scanni e lagune detta Septem Mària. In una zona rialzata di questo paesaggio lagunare sorge Adria, il primo centro commerciale che si incontra venendo dal mare. Ha un porto affollato che, visto l’ambiente partico-

lare, probabilmente è fatto di canali e bacini di varie profondità. Perciò si vedono imbarcazioni di tutti i tipi, come a Venezia: dalle barche piatte, che scivolano anche sull’acqua bassa, alle navi da guerra. Una simile area portuale potrebbe avere anche un faro. Di solito è una torre di pietra, alta qualche decina di metri, che in cima ospita un braciere. Ma per il 66

Il vecchio campanile della Tomba (a sinistra), in una delle sue ultime fotografie; come si può vedere, una colonna della facciata della chiesa è in realtà uno spigolo del campanile. Nel 1902 la torre è ribassata (al centro), e rimane così quasi trent’anni. Il nuovo campanile (a destra), inaugurato nel 1931, è leggermente spostato rispetto al precedente, di cui però resta lo spigolo incastonato nella facciata della basilica.

Col passare del tempo il porto di Adria va incontro a dei cambiamenti, anche perché la costa avanza. Certo non è un processo costante, avviene per gradi e qualche volta si verificano anche arretramenti, ma in sostanza il Polesine nei secoli guadagna terreno. Nonostante ciò, dalla zona di Adria continuano a passare imbarcazioni: è la forma del porto che cambia. Nel Medioevo è una realtà portuale “diffusa”, fluviale, distribuita tra diverse bocche di porto: da Adria si esce in mare attraverso dei corsi d’acqua. E il faro? Non solo continuano a mancare notizie certe a riguardo ma, visto il nuovo contesto, è anche poco chiaro in che punto possa essercene uno. Forse la storia del campanile-faro nasce più avanti, dopo il Medioevo. Il vecchio campanile della Tomba – forse trecentesco, forse più recente – rimane in uso a lungo, fino ai

primi del ‘900. Si trova in una zona dove vengono trovati degli edifici romani. Inoltre una lapide duecentesca nella chiesa, a proposito della basilica stessa, dice “affinché la luce della nuova fede illumini il mondo” 67

1928: il nuovo campanile in costruzione


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Nell’ultima colonna della facciata l’unica traccia del vecchio campanile.

e fa riferimento ad un faro (forse più simbolico che reale...). Così, nel tempo, si inizia a guardare diversamente quella torre. La muratura è irregolare, rovinata, forse a qualcuno sembra più antica di quello che è; complice pure quella lapide del Collegio dei Nautici infissa tra i mattoni si inizia a pensare che la base sia quella del faro romano. In effetti, a guardare le sue ultime foto, la base del vecchio campanile può dare questa impressione. Comunque sia, è difficile fissare con certezza la vera origine di quella torre, perché oggi non c’è più. Infatti, dopo il crollo del campanile di San Marco a Venezia nel 1902, molti campanili pericolanti del Veneto vengono fatti demolire o ribassare, compreso quello della Tomba – che viene tagliato a circa mezza altezza. “I l’à mocà” (l’hanno mozzato), scrive Gaetano Smorgoni in una poesia. Per un po’ il campanile della Tomba resta così, un mozzicone che non piace a nessuno. Poi, verso gli anni ’30, l’architetto Giambattista Scarpari progetta l’attuale campanile (ispirandosi proprio a quello di San Marco) e il capomastro Gaetano Barbujani e i suoi uomini lo mettono in piedi. Per farlo, tutto il moncone della vecchia torre viene demolito, tranne lo spigolo che aveva in comune con la chiesa. Inaugurato nel 1931, il nuovo campanile è alto 50 metri, è più grande del campanile precedente e regge qualcosa come 45 quintali di campane. 68

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Oggi la sola traccia rimasta della vecchia torre è nella facciata della chiesa, nell’ultima colonna a destra. Quel pilastro di mattoni rovinati in realtà ha diversi secoli ed è proprio lo spigolo del vecchio campanile – e, secondo la leggenda, anche del faro romano. Non è stato conservato per ricordo, ma piuttosto perché ha la chiesa costruita addosso. In ogni caso, è uno dei resti di superficie più antichi in tutta la città. Sarebbe bello poter dire con certezza che è un pezzo di faro romano, ma dal punto di vista archeologico non ci sono testimonianze per farlo.

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La vita e le opere di chi ha realizzato il campanile sono stati già raccontati più volte e ha poco senso ripetere. Qui, invece, in un piccolo spunto fatto di scene quotidiane, viene semplicemente presentato chi erano Scarpari e Barbujani – due persone, innanzitutto.

Oggi il mare è a una ventina di chilometri a est di Adria e il porto non c’è più. La leggenda del suo faro, però, di quel frammento di torre dall’età incerta, per qualche motivo ogni tanto viene ancora raccontata, è ancora viva. Forse perché, come tutte le leggende, ha qualcosa di vero: racconta un profondo e antico legame tra Adria e il “suo” mare. E poi racconta, a modo suo, la nascita della nostra terra, in una storia che va sfogliata e letta da ovest a est. Come un segnalibro, ci ricorda che due millenni fa i fiumi erano arrivati lì a scrivere la storia del Polesine.

Il progettista – Giambattista Scarpari (1884-1962)

Il costruttore – Gaetano Barbujani (1889-1991)

Architetto, nella prima metà del ‘900 ha progettato molti edifici di Adria. Durante lo scavo del ramo sud del Canalbianco (1938) sorvegliava i lavori per conto della Soprintendenza. Quando è riemersa la famosa “Tomba della Biga”, un operaio è corso a chiamarlo dicendogli: “Architeto, i g’ha trovà la carossa del re Adriano, ma pare che no la sia de oro”, riferendosi alla leggenda adriese del cocchio d’oro. Ogni sera passava dalla madre a caricarle l’orologio, nella casa da cui si vedeva crescere il futuro campanile della Tomba. A volte suonava il violino per i familiari, e nel Natale del 1951 non ha fatto eccezione, benché l’alluvione sommergesse Adria da oltre un mese e il clima non fosse dei più festosi.

Impresario edile, nella prim a metà del ‘900 ha realizzato molti edifici di Adria. In alcuni c’è la sua firma: un piccolo bassorilievo con il leone di San Marco, San Giorgio con il drago, oppure un castello. Quando possibile, arricchiva gli edifici con elementi classici come colonnine, capitelli, statue e altro ancora. Una volta, per fare presto, ha fatto asciugare delle formelle decorative di cemento nel forno della sua cucina!

Al mattino, radendosi, cantava intonando le arie di diverse opere liriche. In casa, poi, aveva l’abitudine di scrivere, fare conti e disegnare schizzi di edifici praticamente ovunque: sulla parete del garage, sul giornale o addirittura sulla rivista che un familiare lasciava in giro.

Sebbene in pensione, ha continuato a seguire gli scavi e le attività del Museo archeologico di Adria, talvolta mettendosi in gioco egli stesso come guida se veniva in visita qualche personaggio importante.

Ha vissuto 102 anni, rimanendo molto attivo anche in età avanzata: ancora a 94 anni non esitava ad arrampicarsi con la scala a pioli fin sul tetto di casa.

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Le fornaci

di Villanova Marchesana

La foto (g.c. dalla famiglia Tumiati) ritrae la fase di sistemazione del materiale, crudo, nel forno di cottura. Avenerio Tumiati, uno degli intervistati, è il giovane (secondo da sx) con basco in testa.

Qualcuno le ha definite “vigili sentinelle del fiume Po”, simboli di un passato industriale ormai dimenticato. interviste di Chiara Turrini in collaborazione con Sandro Marchioro

foto di Roberto Giannese

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e fornaci “Totti” ed “Etna” sono state sin dal momento della loro costruzione il simbolo di Villanova Marchesana. Situate nella grande golena tra Villanova e la sua frazione di Canalnovo, sono tra le strutture industriali più imponenti

della provincia di Rovigo. Lo stabilimento, costruito dopo la Prima Guerra Mondiale, ha visto impiegati fino a 300 dipendenti e ha cessato l’attività negli anni 60. Le fornaci venivano costruite sulle rive del Po affinché le materie prime necessarie alla lavorazione potessero essere ricavate direttamente. L’argilla, infatti, veniva raccolta nelle golene sfruttando un procedimento che dopo lo scavo e la raccolta consentiva il rifornimento di altri strati di materiale per prelevamenti successivi. Le ampie superfici golenali, attraversate dalle acque del fiume in piena mediante un sistema di argini e chiuse, costringevano al rallentamento della corrente fluviale con conseguente deposito sul fondo dei materiali. La resa delle fornaci era dunque dovuta alla vincente collocazione rispetto al fiume e alla loro razionalità di funzionamento.

Nello specifico, la fornace “Totti” è composta da un corpo principale alto 5 piani, più un piano sotterraneo con solai e travature che venivano serviti da ascensori a bilancia. Questi piani erano adibiti allo stoccaggio e all’essiccazione delle tegole grazie al calore irradiato dalla ciminiera. Un secondo forno di dimensioni minori, di tipo “Hoffman” modificato, fu costruito in un secondo momento al fine di aumentare la capacità produttiva. Esso sostituì il forno “Hoffman” tradizionale ed era costituito da una lunga galleria nella quale il materiale, caricato su carrelli, scorreva lentamente passando dall’essiccazione al preriscaldamento, alla cottura e successivamente al raffreddamento. La fornace “Totti” contiene altre tettoie-magazzino, il locale per la centralina elettrica, una palazzina-uffici, alcune case per i lavoratori ed un piccolo capitello con la statua 71


LUOGHI

intervistare due di loro, Aldo Rangon (che oggi ha 76 anni) e Avenerio Tumiati (che oggi ne ha 80), due protagonisti della storia delle fornaci. Ecco le loro risposte:

del santo protettore. I materiali usati per la costruzione di questi edifici e le file di finestroni sulla facciata del forno maggiore conferiscono al complesso un notevole spessore estetico. Nello specifico il tutto è molto influenzato dallo stile Liberty.

Per quanto tempo ha lavorato alle fornaci? In che anni? Rangon: “Dal 1952 al 1957. Avevo 16 anni”. Tumiati: “Ho lavorato per 10 mesi, avevo 16 anni e poi sono emigrato a Milano con altre prospettive lavorative”.

La seconda fornace “Etna” è formata da un corpo centrale con forma a “C”. Nella parte centrale si trova il forno, dal cui centro si eleva un’alta ciminiera. Le due ali erano adibite a uffici e servizi. Queste ultime erano coperte da un tetto in coppi a quattro falde, mentre il tetto del locale cottura era a due falde sorretto da pilastri. Al corpo principale, a completamento della struttura, erano poi poste due basse costruzioni destinate all’immagazzinamento. Nel corso della loro lunga vita nelle fornaci di Villanova Marchesana hanno lavorato molte persone. Siamo riusciti ad

Con che mansione? Rangon: “Ero un fuochista, cioè addetto alla cottura del materiale”. Tumiati: “Ero un operaio addetto al riempimento dei forni: utilizzavo una carriola a fondo piatto (carion) che riempivo con 40/50 mattoni crudi da cuocere”. Come si svolgeva la sua giornata lavorativa?

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Rangon: “La giornata era organizzata per turni: si lavorava per 6 ore, ci si riposava per 12, poi il turno riprendeva. Dato che nei forni si arrivava a 60 gradi eravamo in pantaloncini corti e canottiera, senza alcun abbigliamento specifico. Nel mio lavoro usavo, per ispezionare i forni che bruciavano, uno “zampin”. Tumiati: “Lavoravo dalle 2.30 fino alle 10.30 circa: l’intervallo (càssion) era il momento più bello della giornata, in quanto si poteva mangiare riso condito, mortadella a volontà e vino. Non c’era ovviamente la mensa aziendale!”

il mio operato”. Tumiati: “Il lavoro era suddiviso in due squadre: una era addetta al riempimento del forno di cottura mentre l’altra aveva il compito di prelevare il materiale cotto”. Era un lavoro pesante? Dava soddisfazioni o era ripetitivo? Rangon: “Non era un lavoro pesante e vista la paga superiore a ogni altro impiego io ero soddisfatto”. Tumiati: “Il lavoro era molto pesante, bisognava avere un fisico robusto perché non esistevano lavori leggeri in fornace. Basti pensare che le persone addette allo svuotamento del forno lavoravano con 40 gradi di calore. Non avevo soddisfazioni se non quella di avere guadagnato la giornata”.

Il lavoro lo svolgeva da solo o con altri operai? C’era un capo squadra? Rangon: “Lavoravo solo, un sorvegliante però controllava

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LUOGHI

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Quali erano i rischi sul lavoro? Rangon: “Il rischio primario era quello di scottarsi”. Tumiati: “I potenziali rischi nel mio settore erano limitati, anche se di incidenti ce ne sono stati, addirittura uno mortale dove morirono due donne”. Quali ricordi positivi e negativi le sono rimasti di quel periodo lavorativo? Rangon: “Ho un ricordo positivo perché ho svolto quella mansione volentieri”. Tumiati: “L’esperienza maturata mi ha fatto capire che non avendo voluto continuare gli studi quello era l’inevitabile risultato a cui potevo aspirare. Successivamente, emigrato a Milano, ho proseguito gli studi per poter migliorare la mia qualifica lavorativa”. Le piaceva il suo lavoro? Rangon “Sì, non mi pesava.” Tumiati: “Ho dovuto scegliere se lavorare in campagna o in fornace, ma nessuno dei due lavori era di mio gradimento. Tuttavia non avendo alternativa ho scelto la fornace”.

La villa

che resiste

Cosa faceva prima di quel lavoro? Rangon: “È stato il mio primo lavoro”. Tumiati: “Prima di quel lavoro non avevo fatto alcuna esperienza se non un corso di addestramento professionale”. Cosa prova ora vedendo i ruderi della fornace? Rangon: “Vedendo i ruderi provo dispiacere, poiché quella costruzione era il simbolo di una Villanova fiorente, industrialmente avanzata e ricca. Ora vedo solo degrado”. Tumiati: “A quel tempo la fornace rappresentava una fonte di lavoro per tante famiglie non solo del mio paese; ora è soltanto il simbolo di qualcosa che non tornerà”. Ci sono state utili nella redazione di questo articolo le ricerche di Leonardo Toso e l’aiuto dei volontari della biblioteca comunale di Villanova Marchesana. Si ringrazia inoltre Pietro Roma che ha contattato i due intervistati.

di Marta Bigolin e Francesco Casoni

Villa Valente Crocco fu edificata nel XVIII secolo. Non esistono documenti che ne attestino l’anno esatto della costruzione, ma l’edificio risulta già presente nel catasto napoleonico del 1825. 74

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n’antica villa perduta, in una non certo celebre frazione di Badia Polesine, vanta due primati: è il primo bene


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stabile all'importazione, detenzione e vendita di notevoli quantitativi di sostanze stupefacenti, che i precedenti penali e giudiziali nonché la pessima condotta di vita del soggetto autorizzano la formulazione di un giudizio di pericolosità sociale (...); che il predetto, proprio grazie all'attività criminosa svolta si è assicurato la disponibilità di un cospicuo patrimonio, in parte intestato anche alla moglie Ravagnani Anna, alla figlia Ferrari Alessandra, nonché al cognato Ravagnani Gaetano, patrimonio certamente sproporzionato al reddito dichiarato e alla propria attività economica, (...) dispone il sequestro in via anticipata dei seguenti beni: unità immobiliare villa con cortile intestata a Ravagnani Anna sita in Salvaterra, Via Partigiani 262”.

stra sede storica in via San Rocco, ci siamo messi in cerca di un nuovo spazio ed è tornata l’idea di recuperare la villa”. La villa Villa Valente Crocco fu edificata nel

semplici in linea con la sobrietà richiesta dallo stile, che si rifaceva al classicismo di epoca greca o romana. I volumi e la divisione interna sono equilibrati, l’edificio è simmetrico e lo si nota dalla presenza di due camini che danno verticalità alla fac-

Questo momento è lo spartiacque fra gli anni di gloria dell’edificio storico e lo stato di abbandono in cui è rimasto nel corso dei dieci anni successivi al sequestro. Solo nel 2002 infatti la Procura ha dato disposizione di confisca dei beni e li ha devoluti allo Stato. L’anno successivo sono passati al patrimonio del Comune, che, però, non riesce ad avviarne il recupero. Villa Valente-Crocco a Salvaterra

polesano confiscato alla criminalità e il primo ad essere stato riconvertito in un progetto sociale e culturale, come già avviene per molti spazi analoghi nel Sud Italia.

fiscati alle mafie si trovano anche dietro l’angolo di casa, nel ricco Nordest, che negli ultimi decenni si è rivelato terreno fertile per una criminalità organizzata sempre più mossa da interessi economici.

Mafie a Nordest

Era il 1995 quando Ferrari Francesco, detto “Bistecca”, venne arrestato per spaccio di droga ricollegato alla

Potrà suonare strano, ma i beni con-

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Mafia siciliana e vennero dunque posti i sigilli a villa Valente-Crocco, bene immobile tempestivamente intestato alla figlia, prima del suo processo nell’inverno dello stesso anno. Fu proprio la Procura di Verona a sentenziare: “Rilevato che in base agli accertamenti svolti dalla Polizia Giudiziaria, Ferrari Francesco deve ritenersi persona dedita in modo

È così che entrano in scena alcune associazioni della zona, in primis il Centro Documentazione Polesano, storica associazione legata alle tematiche dei diritti e della giustizia, da tempo attiva nel circuito di Libera. “Siamo venuti a conoscenza di questo bene già negli anni Novanta, da Pierpaolo Romani, coordinatore di Avviso Pubblico”, ricostruisce Remo Agnoletto, presidente del Cdp. “Dopo essere stati sfrattati dalla no-

XVIII secolo. Non esistono documenti che ne attestino l’anno esatto della costruzione, ma l’edificio risulta già presente nel catasto napoleonico del 1825. A dare indicazione sulla sua età è lo stile architettonico in cui è stata realizzata: seguendo i dettami artistici del Neoclassicismo, presenta forme 77

ciata, chiusa da un piccolo timpano triangolare. All’interno due caminetti, fregi, rifiniture in marmo e affreschi, che sembra siano stati rimossi da Ferrari durante una prima ristrutturazione. Questa ha comportato lo scempio degli aspetti architettonici più antichi, ma ha anche permesso la messa in sicurezza dell’edificio, che quindi ha saputo superare i lun-


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ghi anni di abbandono. La villa è composta da tre piani: il primo ospita i locali nobili della zona giorno, salendo si trova la zona notte, mentre al terzo piano le soffitte erano adibite a magazzino. Nel 1875, sempre grazie alla lettura delle carte catastali, si apprende di

di lire alla famiglia Ferrari, la quale la utilizzava come casa in campagna nel periodo estivo. Con la confisca definitiva del 2002, il Comune accettò di prendere a carico del bilancio comunale gli oneri finanziari per destinare la villa a sede di organizzazioni di volontariato e dell’associazionismo. Sebbene la casa si

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provinciale di Libera, l’associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti, assieme al Cdp, avanzano il primo progetto di riqualificazione. Fondamentale, per arrivare al recupero, la collaborazione tra più associazioni. “Il progetto è nato tramite Architetti per Esigenza”, ricorda Agnoletto “e l’attuale gestione è resa possibile dalla collaborazione tra sette diverse realtà del territorio”. Il progetto è strutturato in due fasi: prima il recupero dell’area esterna, che vede un cortile di circa 400 metri quadrati al lato strada e il terreno retrostante per l’avvio di piccole attività agricole, con l’impegno di cooperative sociali. La seconda fase è legata alla messa in sicurezza e all’agibilità delle stanze al piano terra. Grazie alla partecipazione ad un bando GAL (Gruppo di Azione Locale), il Comune ha ottenuto nel 2014 un finanziamento di 200 mila euro per i lavori. L’intervento di recupero dell’area esterna e del piano terra si è concluso nell’autunno 2015: la villa è operativa già dai primi mesi di gennaio 2016 diventando così “Casa della cultura e della legalità”.

come sia stato fatto un ampliamento sul lato sinistro che dà all’edificio configurazione planimetrica a “L”, come la vediamo anche oggi. Da metà Ottocento in poi la villa fu frazionata e passò in eredità a diversi proprietari dai quali prese il nome. Fu nel 1988 che l’intera villa ValenteCrocco venne venduta per 50 milioni

presentasse in buono stato, erano però necessari interventi di recupero che permettessero la messa in sicurezza dell’edificio, ma che il Comune non era in grado di garantire. La “Casa della Legalità” È il 2012, quando il coordinamento 78

Così l’avvio di questa nuova vita del bene confiscato e ridestinato alla collettività ha mosso i primi passi verso un lungo percorso ancora tutto da scrivere. Ora è sede di diverse associazioni, tutte coordinate dal Cdp, che organizza la vita nella villa con incontri, cineforum e attività all’aperto come l’orto sociale, che ha già visto il primo raccolto.

Il 21 marzo oltre 200 bambini delle scuole di Badia Polesine vi hanno piantato gli “alberi della pace”. Qui è già nato un progetto di apicoltura e prenderanno vita, oltre ad orti e frutteti, ambienti naturali ripristinati dal Wwf. All’inizio dell’anno ha già ospitato un gruppo di scout, mentre durante l’estate ci sarà un campo di volontariato della Rete Studenti sui

temi della legalità. In questi mesi sta prendendo forma anche una biblioteca per ragazzi. E nella seconda settimana di luglio ospiterà lo storico “Festival dei Popoli”, con numerosi ospiti di prestigio che parleranno di guerra, pace e diritti umani. È cominciato un nuovo percorso per villa Valente-Crocco, che non può 79

che essere in salita, verso l’apertura alla comunità e lontana dalle vecchie vicende in odor di mafia.


STORIA

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Luciano Chiereghin storico per passione

Cartiglio del forte veneziano della Donzella (1633).

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Intervista di Luca Grassi e Asia Mantovan in collaborazione con Sandro Marchioro

e c’è una cosa che Luciano Chiereghin e il suo lavoro insegnano (soprattutto a dei giovani come noi) è che la passione ti può far raggiungere risultati inaspettati. Nel suo caso ciò è evidente: nemmeno gli storici “ufficiali” hanno scoperto così tante cose del nostro territorio; egli ha inoltre contribuito, con la sua tenacia e la sua passione, a far conoscere meglio i luoghi in cui è cresciuto e che ama con grande trasporto. Abbiamo visitato con la nostra classe, al Maad di Adria, la mostra “Giovani terre contese”,

Se le risorse non verranno utilizzate sapientemente un giorno il Delta non esisterà più, e tutto quello che esiste ora diventerà argomento di studio per gli archeologi marini. 80

La batteria napoleonica di Maistra con il telegrafo ottico (stralcio della carta napoleonica “Dipartimento del basso Po del 1814”).

da lì è venuta l’idea di proporgli questa intervista. Luciano Chiereghin è originario di Porto Tolle, dove è nato nel 1949. Nella sua vita ha svolto lavori per lo più tecnici, dato che tecnico è il suo percorso di studi. Ma accanto al lavoro ha sempre coltivato almeno due passioni: quella per il territorio del Delta e quella per gli studi storici (che lo ha portato ad essere socio di due importanti associazioni archeologiche locali). Finendo poi per unire le due cose e per dedicarsi alla ricerca del passato del Delta; con risultati davvero interessanti e stimolanti, di cui anche recentemente la stampa quotidiana nazionale ha

dato notizia. Ma andiamo con calma e sentiamo questo racconto direttamente dalle sue parole. Partendo proprio dall'inizio. Com’è nata la sua passione per il Delta? La mia passione risale alla scuola elementare, quando durante l’intervallo osservavo le cartine geografiche del mio territorio e già allora mi piaceva cercare eventuali errori; ed è così che nei seguenti trentacinque anni decisi di studiare le cartografie del Delta per passare poi alle vedute aeree e satellitari, scoprendo così vari reperti storici 81


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di ricerca da fare; nell’immaginario collettivo, infatti, la Prima Guerra Mondiale è stata combattuta principalmente sul Carso, ma in realtà è stata combattuta anche nel nostro territorio, e ne ha lasciato i segni! Un’altra delle scoperte affascinanti che lei ha fatto è stata quella dell'uso nel Delta del telegrafo ottico. Come si è giunti a questa scoperta? Beh, spieghiamo prima cos’è: il telegrafo ottico era un sistema di comunicazione su lunghe distanze; vi era una torretta sormontata da tre pali, uno principale e due secondari collegati a quest’ultimo. A seconda della disposizione di questi pali si andavano a formare dei segnali che stavano ad indicare le lettere, questi venivano trasmessi tra una postazione all’altra, coprendo così grandi distanze in tempi brevi. Ma bisogna fare anche un’altra considerazione: secondo me, durante le guerre, l’aspetto fondamentale sono le comunicazioni; la Germania, ad esempio, durante la Seconda Guerra Mondiale aveva

La batteria di Porto Levante eretta nell'ottobre del 1916 (foto L. Chiereghin).

Il telegrafo ottico utilizzato da Napoleone. L'immagine è tratta da uno dei pannelli della mostra “Giovani terre contese”.

che quando ero bambino erano ben poco conosciuti.

i due Stati erano in continua lotta perché l’avanzare del Po andava a sottrarre o aggiungere territori all’uno o all’altro. Questo conflitto militare non poteva quindi non prevedere la costruzione di fortificazioni, ed alcune di queste sono riuscito ad individuarle e a studiarle. È un ambito, questo della storia del luogo, che mi ha sempre appassionato: e mi sono concentrato su questo per portare alla luce la memoria della nostra zona; con risultati che mi hanno sempre dato una grande soddisfazione, anche minima se volete, come ad esempio il saper riconoscere una tegola moderna da una romana o da

Una delle sue ricerche più interessanti riguarda il sistema di fortificazioni presente nel Delta. Perché si è occupato proprio di questo? Il territorio polesano è stato, nel corso dei secoli, conteso tra diverse città; per questo mi sono chiesto: “Ma se in passato sono avvenute delle battaglie, saranno pure rimasti dei segni di tutto ciò?”; sono giunto quindi alla scoperta che durante il conflitto tra il Ducato di Ferrara e la Repubblica di Venezia sono state edificate varie fortificazioni sul confine: 82

una etrusca, tutte civiltà che hanno abitato il Polesine migliaia di anni fa. Ma l’aspetto fondamentale è stato quello di convincere tutti del fatto che sotto il nostro territorio (ad Adria ad esempio) potremmo potenzialmente trovare numerosi resti anche solo scavando pochi centimetri; del resto è accaduto spesso che qualcuno, piantando dei pali nell’orto, si imbattesse in qualche reperto; ecco, mi piacerebbe che quest’aspetto della ricerca, dello scavo coinvolgesse più persone, in particolare che fosse compresa la sua importanza dai giovani; tra l’altro, c’è un aspetto avventuroso ed anche divertente che ai giovani potrebbe particolarmente interessare. Ricordiamoci che anche eventi più recenti come la Prima Guerra Mondiale hanno lasciato tracce ancora oggi visibili nel nostro territorio, spesso ancora da scoprire e sulle quali ci sarebbe un grosso lavoro

Luciano Chiereghin di fronte al basamento del radar tedesco a Rosolina.

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STORIA

inventato il “codice enigma” per comunicare sotto forma di messaggi criptati, con lo scopo di non farsi scoprire dai nemici; così in passato Napoleone fece costruire il telegrafo ottico al fine di intercettare le informazioni da zone lontane in tempi più rapidi, potendo così anche anticipare le mosse del nemico e sorprenderlo impreparato; un metodo che si è rivelato estremamente più efficace rispetto a quelli già in uso, come ad esempio la comunicazione via terra. Le torrette ospitanti questi dispositivi erano distribuite su linee lunghe migliaia di chilometri, passate inosservate nel Delta fino alla mia scoperta, resa possibile dall’analisi delle cartine territoriali; ma il fatto più incredibile è che nessuno sembra essersi mai accorto di queste strutture. Dobbiamo ricordare anche che cercare qualcosa con un’immagine satellitare è più agevole di cercare reperti restando “sul campo”.

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bene non c’è molto tempo per evitare il peggio per il nostro territorio: per questo è importante che le giovani generazioni si impegnino per il futuro della zona: c’è bisogno di idee, di scelte e di interventi: tutto è nelle mani dei giovani, a ben pensarci; in loro e nella loro passione per il territorio in cui sono nati io ho molta fiducia.

Quali ricerche sono in corso o in programma sul Delta? La mia scoperta più recente è finita sui giornali proprio qualche settimana fa! Si tratta del supporto di una gigantesca parabola che veniva utilizzata dai Tedeschi per tracciare le rotte degli aerei nemici, una struttura così imponente che sono stati necessari ben quattro vagoni per trasportarla tutta, usata anche per intercettare le fortezze volanti, che sganciavano le bombe sui paesi durante la guerra. I radar (presenti su tutto il territorio europeo) sono stati sfruttati maggiormente verso la fine della guerra, quando i fedeli del duce tentarono di “salvare il salvabile” attaccando gli alleati che ormai erano sbarcati in Sicilia. Il mio obiettivo futuro è quello di trovare le batterie antiaereo, e sono certo che prima o poi le troverò. Come vede il Delta tra 50 anni? Dipende molto dai giovani, sono una persona che ha molta fiducia nei giovani; io oramai ho già segnato il mio percorso, non posso tornare indietro e cambiare, mentre i ragazzi hanno ancora molta strada da fare. Il Delta è un bene da preservare, su cui sono state spese tantissime risorse (fin da tempi molto lontani, basti pensare che già dal tempo degli etruschi il Po viene arginato per evitare le esondazioni). Se le risorse non verranno utilizzate sapientemente un giorno il Delta non esisterà più, e tutto quello che esiste ora diventerà argomento di studio per gli archeologi marini; il mare è rientrato di 600 metri dagli anni Cinquanta, e 50 anni non sono molti. A pensarci

Guido Barbujani: “Siamo il frutto di mille migrazioni”

La mostra “Giovani terre contese. Tre secoli di fortificazioni nel delta del Po”, basata sulle ricerche di Luciano Chiereghin, è curata da CE.RI.DO Centro Ricerca e Documentazione del Delta. Il coordinamento generale è di Maurizio Tezzon, la ricerca iconografica di Luciano Chiereghin, Luigi Contegiacomo, Mihran Tchaprassian, Maurizio Tezzon, i testi a cura di Luciano Chiereghin e Luigi Contegiacomo, la traduzione dei testi di Ursula Andreose, il progetto grafico di TE.MA Progetti, la stampa pannelli di Tecnocopy – Print & Co.

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Le differenze fra noi sono sfumature all’interno di una variabilità continua nello spazio geografico. 85

A cura di Luca Grassi, Houda Nachit, Manuel Borella, Vittorio Melato, Stefano Manzolli e Andrea Vianello.

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uido Barbujani, adriese di nascita e genetista di professione, da tempo docente all’università di Ferrara, ha risposto all’invito degli


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studenti della classe III C Scienze applicate del Liceo Scientifico “BocchiGalilei” a conclusione del progetto di alternanza scuola-lavoro con Apogeo Editore, iniziato a novembre 2016. Nell’aula magna della nostra scuola ha parlato dei suoi libri, a partire dal più recente “Gli africani siamo noi”, edito da Laterza. “Gli africani siamo proprio noi – ha detto – quelli con la fronte verticale e il cranio corto, caratteristiche presenti in Africa già 100mila anni fa, quando negli altri continenti c’erano i veri europei, gli uomini di Neandertal, e i veri asiatici, l’Homo erectus, con i loro crani

più lunghi e più schiacciati, con la loro struttura fisica più tozza e robusta. Siamo, insomma – ha proseguito – i discendenti di un processo migratorio che ha avuto uno straordinario successo, migranti invadenti, che hanno occupato tutto lo spazio disponibile”. Ha poi risposto ad alcune nostre domande, riassumiamo qui le sue risposte: Professor Barbujani, da che cosa è nata la sua passione per la scienza? “Forse è nata dal rifiuto del liceo classico che ho frequentato, i miei anni alle superiori sono stati pessimi,

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a scuola non mi interessavano per niente le cose che facevo. Quando è stato il momento di proseguire gli studi, un mio amico, oggi mio collega all’università, mi disse che se ci fossimo iscritti ad una facoltà letteraria metà della cultura ci sarebbe rimasta incomprensibile, mentre se avessimo scelto una facoltà scientifica avrei potuto continuare a leggere tutti i romanzi che volevo. Appena ho cominciato a frequentare più assiduamente i temi della scienza ho scoperto che mi piaceva molto, che mi appassionava. Mano a mano che percorrevo la mia nuova strada mi accorgevo sempre più di aver trovato il ‘mestiere’ giusto per me”.

In che cosa consiste il suo lavoro di genetista? “Il lavoro del genetista comprende gli scienziati ‘da campo’, che raccolgono campioni e informazioni preziose sul loro lavoro a contatto con l’ambiente, preparano relazioni, producono dati utili ad una successiva elaborazione. Ci sono poi scienziati che si dedicano invece ad un lavoro di laboratorio, anche se questi ‘camici bianchi’ sono sempre meno, perché ormai la maggior parte dei ricercatori utilizza moderne apparecchiature informatiche che elaborano sempre più velocemente i dati in loro possesso. La parte più stimolante coincide con il confronto, che avviene periodicamente, con altri scienziati, per l’interpretazione dei dati raccolti attraverso la biostatistica e la matematica ed è sicuramente l’aspetto più divertente del mio lavoro. La scienza, a differenza di quanto molti ancora oggi pensano, non è produttrice di certezze, tutt’altro, è piuttosto produttrice di dati, e capire che cosa essi significano è un processo intellettuale, perché i dati li leggono gli scienziati, non parlano da soli”. Di che cosa si sta occupando attualmente? “Stiamo lavorando su reperti provenienti da una tomba neolitica venuta alla luce in Polonia, che è molto importante nel dibattito sulle migrazioni e sulla diffusione delle lingue indoeuropee. Tutti gli europei, esclusi i baschi, gli ungheresi e i finlandesi, parlano lingue di origine indoeuropea, il che non è un caso. Nonostante i meccanismi della diffusione

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linguistica non siano ancora ben compresi, i linguisti sono d’accordo nell’affermare che un continente così omogeneo, dal punto di vista della lingua, deve essere stato frutto di migrazioni. Questa tesi è sostenuta anche dal più famoso genetista Italiano, Luca Cavalli-Sforza, che già trent’anni fa aveva dimostrato che l’arrivo delle tecniche e degli strumenti per l’agricoltura erano dovuti all’effetto di una migrazione dall’Anatolia verso l’Europa circa diecimila anni fa; a quel tempo si viveva di caccia e di raccolta, di cibo ce n’era poco, mentre con l’agricoltura la popolazione comincia a produrre e a conservare il cibo. Questi nostri antenati provenivano dal Medio Oriente e si sono mescolati a noi, a chi già abitava l’Europa”. Per quanto riguarda i finanziamenti necessari e il riconoscimento del suo

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lavoro, è più complicato oggi operare in Italia o all'estero? “È nei fatti la volontà da parte del governo di indebolire l'università pubblica, oggi la ricerca in Italia è sostenuta quasi unicamente da fondi europei. Anch’io personalmente ne usufruisco per le mie ricerche, ma presto finiranno. L'Italia è tra i Paesi in cui lo Stato investe di meno in ambito universitario. La struttura burocratica soffoca l'istruzione, e c'è purtroppo una perfetta identità di pensiero tra i governi di centrodestra che si sono succeduti e quelli di centrosinistra che li hanno seguiti: appare chiara la volontà di distruggere l'università pubblica”.

no completo, ci avevano lavorato in 13 anni 20.000 scienziati ed erano stati spesi 2 miliardi e mezzo di dollari. Oggi per fare ‘meglio’ la stessa cosa si spendono 1000 dollari e ci si impiega 15 giorni, che corrispondono alle ‘liste d’attesa’ dei laboratori delle grandi Compagnie in Cina, Corea o negli Stati Uniti, che elaborano in un solo giorno il materiale che viene loro inviato. Il genoma di ognuno di noi è un ‘testo’ che comprende 6 miliardi e mezzo di caratteri, considerate che ‘I promessi sposi’ è composto da 1 milione di caratteri, quindi in ognuna delle vostre cellule c’è l’equivalente di 6.500 volumi delle dimensioni di quel libro”.

Quali strumenti utilizza per le sue ricerche? “La tecnologia ha fatto passi da gigante. Nel 2003, quando venne ‘letto’ per la prima volta il genoma uma-

L’intervista è finita, ma il professore, dopo la foto di rito, si intrattiene con noi in giardino a parlare della sua entusiasmante professione, dei suoi viaggi in giro per il mondo a cercare ciò che solo un potente microscopio o un sofisticatissimo computer possono rivelare.

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ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO: UNA LEVA STRATEGICA PER APRIRE LA SCUOLA AL TERRITORIO E FORMARE I CITTADINI DI DOMANI Tra le novità introdotte dalla Legge 107 del 2015, la cosiddetta “Buona Scuola”, vi è l’obbligatorietà dell’Alternanza Scuola-Lavoro nel secondo biennio e ultimo anno in tutti gli ordini della scuola secondaria di secondo grado, con alcune distinzioni: almeno 400 ore negli Istituti Tecnici e Professionali e 200 nei Licei. Com’è noto, l’AS-L è una metodologia didattica innovativa che prevede la progettazione di un percorso da effettuarsi alternando ore di attività formative in classe ad altre in situazione lavorativa, svolte generalmente presso una struttura ospitante. La programmazione del percorso deve essere promossa dalla scuola, possibilmente in co-progettazione con la struttura ospitante, e prevede lo svolgimento di precise attività da valutare annualmente in sede di scrutinio finale sulla base di una serie di verifiche effettuate dal tutor scolastico, dal tutor aziendale e dall’intero Consiglio di Classe. Se l'esperienza di Alternanza Scuola-Lavoro era già una prassi consolidata nei Tecnici e Professionali da circa dieci anni, nei Licei essa ha costituito una vera novità che ha suscitato non poche perplessità tra gli operatori della scuola. Tuttavia, i percorsi di AS-L hanno una loro ragione di essere, perché, come molte altre disposizioni normative emanate in questo inizio di secolo, esse sono inserite nel processo di rinnovamento dei sistemi scolastici promosso dall’Unione Europea, che ha posto l’accento sull’acquisizione delle competenze chiave e di cittadinanza, come finalità principale del processo formativo. L’AS-L, dunque, diventa elemento catalizzatore nel favorire l’incontro tra istruzione, società civile e mondo del lavoro, visti come sistemi tra loro complementari e integrati, attraverso i quali lo studente impara ad esercitare le competenze di cittadinanza, basate sull’utilizzo di conoscenze e abilità in modo autonomo e responsabile. Più facile immaginarla in istituti Tecnici e Professionali che da anni collaborano con imprese e associazioni di categoria, molto più difficile accettarla per il sistema dei Licei, considerato tradizionalmente un percorso propedeutico allo studio universitario e non all’inserimento nel mondo del lavoro. Eppure l’AS-L costituisce una vera opportunità anche per gli studenti liceali, soprattutto perché grazie alla Legge 107 si è allargato il panorama dei soggetti con cui la scuola può interagire: non solo con imprese e organizzazioni del terzo settore, ma anche con gli ordini professionali, musei, istituti pubblici e privati operanti nei settori del patrimonio, delle attività culturali, artistiche e musicali, nonchè con enti che svolgono attività afferenti al patrimonio ambientale e associazioni sportive riconosciute dal CONI. La norma sancisce, pertanto, un’apertura totale della scuola al territorio e fornisce agli studenti gli strumenti per costruire il proprio curricolo, in coerenza con l’indirizzo di studi prescelto, con la possibilità di fare esperienze significative con valore di orientamento, utili a scoprire potenzialità e vocazioni ancora latenti, spesso non adeguatamente espresse con lo studio tradizionale. Certo, gran parte delle scuole sono ancora all’inizio nell’adozione di questa nuova metodologia didattica, ma molte strade si stanno aprendo, nuove idee si stanno affacciando grazie ai molteplici interlocutori presenti nel territorio e alla tenacia di tanti docenti nella promozione di esperienze realmente valide dal punto di vista formativo. Silvia Polato Dirigente Scolastico Liceo “Bocchi-Galilei” di Adria

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MESSAGGIO REDAZIONALE

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LA FONDAZIONE BANCA DEL MONTE DI ROVIGO

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llestita al piano nobile di Palazzo Roverella a Rovigo (g.c.) fino al 2 luglio, la mostra monografica Gabbris. Un’avventura artistica e umana è

omaggia il maestro Gabbris Ferrari 90

stata inaugurata il 29 aprile con la presentazione istituzionale presso l’Accademia dei Concordi e la successiva visita guidata. Voluta dalla Fondazione Banca del Monte di Rovigo in collaborazione con diversi Enti, la mostra, curata da Sergio Garbato, espone numerose opere selezionate tra la corposa produzione del maestro polesano, con l’intento di presentare uno spaccato della sua composita attività artistica. Gabbris Ferrari era molto conosciuto ed apprezzato nella sua terra per cui molto si è speso anche rivestendo ruoli di amministratore della città, ed era molto stimato anche oltre i confini provinciali. Tra i molti incarichi rivestiti anche quello di ideatore del Museo dei Grandi Fiumi, in cui è riconoscibile l’impronta della sua moderna concezione espositiva e didattica. Gabbris Ferrari ha dedicato un lungo periodo della sua vita alla pittura e, intorno agli anni ottanta del secolo scorso, ha orientato il suo lavoro verso il teatro, fino a farlo divenire la sua attività preminente. Come scenografo ha curato molti allestimenti, prima per il Teatro “La Fenice” e il circuito dei teatri veneti, poi per molti altri teatri italiani e stranieri. Ha esteso la sua attività, oltre alla lirica, anche alla danza per la quale ha scritto testi per coreografie, e alla prosa, realizzando allestimenti importanti. Era anche illustratore, costumista e drammaturgo. In diverse occasioni ha curato anche la regia dei suoi spettacoli. È stato docente di scenografia all’Accademia delle Belle Arti di Urbino, che ha diretto per anni, e 91


MESSAGGIO REDAZIONALE

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Nell’ambito di tale progetto di valorizzazione della personalità artistica e umana di Gabbris Ferrari, la Fondazione Banca del Monte promuove e realizza ulteriori eventi rivolti alla cittadinanza e a quanti vogliano approfondire la conoscenza di una figura eccellente del nostro territorio, sia per un pubblico adulto sia per i giovani. Sabato 27 maggio alle ore 10 presso la Sala Oliva dell’Accademia dei Concordi la Fondazione organizza la conferenza Gabbris, la figura e l’opera, con relazioni di personalità del mondo del teatro e della critica d’arte; mentre per tutto il periodo di allestimento la Fondazione mette a disposizione degli istituti scolastici superiori del Polesine un servizio di visite guidate gratuite, precedute da un breve incontro introduttivo, a cura di CeDi onlus.

successivamente all’Accademia delle Belle Arti di Venezia dove ha allestito un corso di teatro con laboratori. Naturalmente predisposto per la didattica, partecipava con entusiasmo ad iniziative con protagonisti i giovani, dimostrando un naturale capacità come talent scout. La mostra, che porta semplicemente il suo nome, è intesa, secondo gli organizzatori, quale doveroso omaggio al maestro polesano a due anni dalla scomparsa. La Fondazione Banca del Monte di Rovigo con questa iniziativa prosegue il progetto di

valorizzazione e di divulgazione della poliedrica personalità dell’artista, che amava sperimentare e cimentarsi nelle molteplici forme espressive. Nel tempo la Fondazione ha goduto della sua collaborazione per la realizzazione di diverse proposte artistiche e culturali, oltre ad annoverarlo tra i componenti dei propri organi statutari. La mostra monografica intende rappresentare la poliedricità dell’attività del maestro istituendo diverse sezioni: dalla scenografia alla didattica, dalla pittura alla scultura, dalla grafica all’illustrazione. Pannelli esplicati92

vi introducono a tale attività, volendo dare dimostrazione della sua vivacità artistica e culturale. In occasione della mostra viene edito un catalogo che raccoglie, insieme alle immagini delle opere esposte, anche riproduzioni di altri lavori che diano l’idea della complessità e della varietà della sua instancabile ricerca e della sua produzione. Il catalogo, tra l’altro, vanta contributi di critici d’arte e di qualificati studiosi. La pubblicazione è resa ancor più interessante in quanto raccoglie diverse testimonianze, professionali e umane, di chi con Gabbris ha lavorato.

La mostra Gabbris. Un’avventura artistica e umana rientra nella manifestazione Maggio Rodigino, che vede riunite in un unico cartellone importanti ed interessanti proposte culturali, alcune delle quali inedite, ad opera di istituzioni ed associazioni, tra cui il Conservatorio, che mette in programma il concerto musicale Variazione sul nome Gabbris, composizione di Franco Piva, collaboratore per decenni del maestro Ferrari.

Gabbris. Un’avventura artistica e umana Palazzo Roverella 29 aprile - 2 luglio 2017

Orario apertura: feriale 9-19, sabato e domenica 9-20, chiuso i lunedì non festivi

Info: Fondazione Banca del Monte di Rovigo Piazza Vittorio Emanuele II, 48 Tel. 0425 422905 Fax 0425 464315 segreteria@fondazionebancadelmonte.rovigo.it

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SAPORI & SAPERI

Polenta & BaccalApp ovvero lo stoccafisso nell’era digitale

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di Mario Bellettato

a precisato che quello che noi veneti, me compreso, ci ostiniamo a chiamare “baccalà” è in realtà “stoccafisso”, merluzzo artico essiccato. Una fonte preziosa di proteine nobili, sali minerali e iodio che dura a lungo anche senza essere refrigerata. Nei secoli scorsi era una risorsa alimentare economica: veniva pescato in grandi quantità, il processo di conservazione non prevedeva l’impiego di sale o di olio, entrambi costosi e nemmeno di molta manodopera poiché l’essiccazione avveniva grazie alla semplice esposizione al sole e al vento. Una volta privato dell’acqua il merluzzo diven-

tava leggero e facile da trasportare, un ulteriore vantaggio per la commercializzazione su vasta scala. Per ragioni che riesco a comprendere solo parzialmente, le dinamiche economiche attuali lo hanno trasformato in un alimento piuttosto costoso; questo fatto, insieme alla laboriosità di molte preparazioni, ne limitano il consumo e lo vedono proporre con maggiore frequenza dai ristoranti di livello piuttosto che da quelle trattorie e osterie dove in passato costituiva un classico. Lo stoccafisso di qualità migliore, denominata “Ragno”, proviene dalle isole norvegesi Lofoten: al momento della pesca i merluzzi devono presentare una percentuale ridotta di grasso ed essere di taglia 94

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media. Queste caratteristiche garantiscono una migliore conservazione ed un sapore più gradevole al momento della reidratazione. La fase di ammollo è altrettanto importante quanto l’essicazione e la cottura; per eseguirla correttamente vanno rispettate alcune semplici regole: dura circa 48 ore e si deve utilizzare esclusivamente acqua fredda che va cambiata più volte, nell’ultimo bagno andrebbe aggiunto qualche cucchiaio di cenere di legna per preparare la “lissietta” , la soluzione alcalina che tende a sbiancare la polpa del merluzzo e ne ammorbidisce anche le parti leggermente legnose. In genere, una colorazione rossastra del pesce prima della reidratazione indica un inizio di fermentazione durante l’essiccazione e questo fenomeno influisce negativamente sulle qualità organolettiche e sul sapore; è meglio allora acquistare pesce che si presenta con una polpa di colore chiaro. La durata dell’ammollo varia in funzione di molti fattori, un sistema pratico per verificarlo è assaggiare un frammento di polpa: deve risultare piacevolmente sodo ma reidratato, tenete conto che la cottura lo ammorbidisce ulteriormente. Al di là delle preferenze personali, a fine cottura un buon baccalà dovrebbe comunque conservare una certa compattezza e non sfaldarsi in frammenti molto piccoli. 300 g di stoccafisso secco sono sufficienti per 4/6 persone. La polenta Per i piatti di pesce si predilige tradizionalmente la polenta preparata con farina bianca a macinatura fine, tenete la consistenza piuttosto

morbida, “da sculiero”. In ogni caso meglio una cottura prolungata che favorisce la digeribilità ed esalta il sapore del mais. I puristi sostengono che una leggera sfumatura di sapore di brace, “el tacadin”, sia indispensabile per raggiungere la perfezione. Salate a piacere ed aggiungete un cucchiaio di EVO a fine cottura per rendere l’impasto omogeneo. La preparazione Una volta eliminata l’acqua in eccesso, lo stoccafisso va diliscato e privato di pelle e delle interiora eventualmente presenti, “el budelo”. Va eliminata con cura anche la cuticola che riveste la cavità addominale. Questi “scarti” in realtà non vanno buttati, ma racchiusi in una garza e messi in cottura insieme alla polpa, sono indispensabili per dare al piatto il suo sapore inconfondibile, ma risulterebbero meno piacevoli alla vista. Naturalmente la maggiore o minore quantità di pelle e di interiora che viene utilizzata, come del resto la durata dell’infusione, conferiscono un grado più o meno marcato di sapore tipico. I pezzi di polpa, che

cercherete di non sminuzzare eccessivamente, vanno passati rapidamente in una miscela di fior di farina e parmigiano grattugiato, setacciati per togliere l’eccesso e lasciati riposare qualche minuto. Preparate un soffritto abbondante con EVO, cipolla bianca affettata molto sottile e prezzemolo tritato, dove farete sciogliere la polpa di due sarde sotto sale preventivamente lavate e sfilettate o in alternativa quattro o cinque alici sott’olio. Disponete sul fondo di una teglia spessa (l’ideale sarebbe il coccio) uno strato di soffritto sul quale adagerete, senza lasciare troppi spazi vuoti, la polpa infarinata dello stoccafisso, che coprirete a sua volta con uno strato di soffritto e poi di nuovo con lo stoccafisso, continuando con gli strati. Completata la disposizione, aggiungete latte intero in modo da riempire completamente tutti gli spazi fino ad arrivare a filo dello strato superiore. Cuocete a fuoco lentissimo per almeno tre ore, scegliendo una teglia con il fondo molto spesso o utilizzando un diffusore rompifiamma, per evitare che lo stoccafisso “attacchi”, senza la necessità di rimestare frequentemente, poiché questo frammenta eccessivamente la polpa. Se durante la cottura lo stoccafisso risultasse troppo asciutto aggiungete ancora un po’ di latte intiepidito. A cottura ultimata passate per circa 20 minuti in forno a 180° per ottenere una crosticina dorata sulla superficie. Salate e pepate a piacere al momento di servire, le quantità necessarie per la corretta sapidità variano di volta in volta. L’accompagnamento Di per sé polenta e baccalà non 95

prevede contorno, ma una buona insalata mista con un po’ di porro e aceto abbondante si sposa bene con questo piatto deciso, l’abbinamento ideale è un vino rosso giovane, Merlot, Friularo o anche Terrano del Carso. Chi la gradisce può abbinare una grappa bianca non invecchiata da bere com’è o per correggere il caffè. L’ode Chi xe che ga inventà Polenta e bacalà? Dixemelo creature Sto nome, sto portento Che toga le misure Per farghe un monumento Dante, Petrarca e tasso Xe piavoli al confronto! Omero xe un pagiasso E Metastasio un tonto! No ghe xe al mondo un piato Che’l possa starghe a peto; Sia lesso o mantecato Co’l tocio e co’l tocheto Fato a la venessiana, Fato a la vissentina, De sera o de matina, che roba soprafina! L’imbalsama el sublima El sassia, l’incocona, E drento el te combina ‘na festa cussì bona Che dopo gnanca un‘ora Che te lo ga magnà Vien su… la dolse aurora De la felissità. (Agno Berlese)


Polleggiao: la rivoluzione

Strisce

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Herschel & Svarion


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RITRATTI

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Gian Paolo Berto

umerosi, più di quanto non si creda, gli artisti che hanno avuto i natali in Polesine, anche se quelli che vi sono rimasti, condannandosi sovente a una esistenza oscura e mediocre, sono poco meno della metà. Tuttavia, nei confronti di chi se n’è andato e ha trovato fama e fortuna altrove, la memoria è stata sovente altrettanto distratta e ingrata. Non è così per Gian Paolo Berto, artista di grande respiro e complessa personalità, che a settantasette anni non demorde, rigenerandosi in una stretta intesa con molti giovani, con un interesse e una curiosità che sembrano non spegnersi mai. Il fatto è che, quella di Gian Paolo Berto,

è la storia di una lunga fedeltà, a tutto ciò che è stato e continua ad essere e a tutti quelli che ha amato e perfino detestato: «io non ho mai abbandonato niente nella mia vita», dice. Nato ad Adria nel 1940, aveva iniziato a dipingere da ragazzo come autodidatta, presto frequentando il paesaggista Tommaso Foster (“andavamo a caccia di anitre selvatiche negli acquitrini, ma con tavolozza e pennelli invece del fucile”), per poi approdare a Rovigo. L’esordio risale a un giorno lontano del 1956, in cui il poeta rodigino Livio Rizzi aveva aperto le porte della sua prestigiosa ed esclusiva “Piccola Galleria del Polesine” alla prima mostra personale del pittore appena sedicenne, che però era già un artista vero, con storie di malattia alle spalle, conflitti familiari, notti insonni e frustrazioni, capace di trasformare tutto in pittura come una specie di re Mida. La sua era una musa tragica, che si traduceva in volti espressionisti che illividivano verdastri su fondi scurissimi. E in quelle tele tormentate traspariva un dolore che sapeva essere cosmico. Tra i diciassette e i venti anni, Berto aveva dipinto almeno un paio di quelle opere, che, al di là dell’occasione e del luogo, restano nel tempo e subito entrano nell’immaginario: «I consunti» e un drammatico «Cristo». E quelle opere, viste con l’occhio ingordo e disincantato di oggi, non hanno perso neanche un grammo della loro forza e del loro fascino, che aveva lasciato letteralmente stupefatti maestri come Tono Zancanaro e Carlo Levi, che avrebbe voluto portarselo subito a Roma. E, in effetti, a Roma Berto ci andò veramente, appena qualche anno dopo, e ci rimase dipingendo un’infinità di quadri (talmente numerosi che se ne può dar conto solo in modo approssimativo), diventando un maestro dell’incisione e della grafica, talmente esperto e sottile come stampatore, che Guttuso e De Chirico, per dire dei maggiori, lo prediligevano più di qualsiasi altro. A Roma fraternizza con Attardi, Reggiani, Salvatore, Enotrio, ma frequenta anche Mazzacurati, Braibanti, Pasolini e molti altri. È il momento della pop

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e la memoria del Polesine

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di Sergio Garbato

Crocifissione


Faust (incisione)

RITRATTI

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italiana, con cui l’artista condivide la scelta di attingere ad un patrimonio iconico “alto“, accanto al repertorio del quotidiano, che non è mai tralasciato: è da qui che deriva la forza, l’immediatezza della comunicazione. Le tecniche usate sono innumerevoli, dal pastello all’acrilico (i colori sono primari, la pennellata larga), dall’assemblaggio al ready-made. Ogni incontro con la pittura è puntualmente registrato nell’opera di Berto con la manifesta coscienza dell’autoreferenzialità dell’arte intesa come metalinguaggio e codice universale. Ma alla sua terra natale Berto è rimasto legato: «in realtà, non sono mai andato via veramente dal Polesine. Certo, vivo a Roma da oltre cinquantacinque anni, ma sempre più spesso ho la sensazione di stare in una periferia lontana del Polesine: chi arriva da Rovigo è costretto ad imboccare la via Salaria e io, appunto, abito qui. È come se il Polesine fosse l’orto di casa mia, pieno di fascino e verità. Vista da Roma, la terra in cui sono nato ritrova tutta la sua magia, sfumata dalle nebbie e inzuppata di acque misteriose. Il Polesine e Venezia si possono immaginare e dipingere solo da lontano, come se fossero un sogno ricorrente». In ogni sua opera è presente quel furioso talento, rimasto legato alla memoria di luoghi e di persone, di stati d'animo e sentimenti, di voci e sguardi. E tutto è mischiato e confuso come in un sogno, debordante dai limiti della notte e pronto a insinuarsi nella veglia, offrendo frammenti e icone, atmosfere e brividi, in una tensione verso l'assoluto della pittura. Memoria come teatro e come accumulo di immagini del passato (e di un presente fulmineamente retrodato), immersione in una temperie di sensazioni e sentimenti, da cui sono banditi i calendari. Da qui la sollecitazione metamorfica che si coglie in moltissime opere che si inseguono e si ripropongono, con variazioni e correzioni di rotta. Per Berto il tempo è caratterizzato da un borgesiano andamento circolare, il che vuol dire che un'opera non è mai

finita, o meglio non sono mai finite le implicazioni che essa porta con sé. Non soltanto l'artista ne fornisce una serie di versioni diverse, quasi volesse saggiare e spezzare la «resistenza» del soggetto, ma continua, a fasi alterne e a distanza di anni, a tornarci sopra, caricando il primo segno del peso di tutti quelli che sono venuti dopo e di una favolosa stratificazione cromatica. Non appare, perciò, strano che, per qualche decennio, Berto abbia incominciato o concluso la sua giornata, facendo incespicare la matita o la penna sul foglio per disegnare un ritrattino di Jolena Baldini, scrittrice e giornalista con il nome di Berenice per via di quella sua lunga treccia che aveva affascinato Guttuso e Cagli e Vespignani. Né stupisce più di tanto che l’artista abbia promesso a un vecchio amico, in ricordo di una collaborazione antica che non c'era stata, una serie di illustrazioni per poesie che questi non ha ancora scritto e probabilmente non scriverà mai. Il filo del tempo, per Berto, non è diverso da quello di una matassa che diventa gomitolo. Ogni mostra diventa, allora, il sogno di un ritorno al paesaggio delle origini, mentre le opere si accavallano e si accalcano intorno a se stesse, in un continuo andare e venire e articolarsi per temi e subito fuggire in altre direzioni e ricominciare daccapo, con Alessandro (autometafora infantile) e Carlo Levi (contradditorio prototipo paterno) che spiano o si affacciano da un quadro all'altro, con composizioni che riflettono sulla natura eterogenea della mercificazione per riscattarla in assemblaggi che ripescano tutto quanto viene disperso o perduto. Le opere, allora, somatizzano la riorganizzazione, ma anche la trasfigurazione, dell'immagine in composizioni che esaltano il volto e il corpo, la sostanza delle cose e l'autenticità dei segnali, il sogno e il colore, la poesia e la materia, trasformando l'artista nel maestro di una metamorfosi ininterrotta. «Vorrei fare un museo che raccogliesse tutto quello che si scarta», dice.

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Maternità


La morte di Arlecchino

RITRATTI

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In una produzione che appare, oggi, sterminata, la visione del sacro appare sottesa a qualsiasi soggetto nel fagocitante immaginario dell’artista, al punto che tutta la pittura di Berto è attraversata da una tensione religiosa, che preferisce il suggerimento all’espressione, il segreto alla rivelazione. Fede e religiosità accompagnano un itinerario artistico che si svolge in ossessive coazioni a ripetere, non certo per mancanza di idee ed esiguità di obiettivi, quanto per quel ritrovarsi, ogni volta, a ripercorrere a ritroso lo stesso cammino. È così che ritornano, insieme al volto della donna (la madre reinventata), i paesaggi e i personaggi della laguna e del delta, gli ori notturni di Venezia, sostanziandosi in un intimo vissuto che ritrova il senso stesso della fede, ma anche l'autenticità del sogno e il colore, la poesia e la materia. Ecco l’estasi miracolistica nelle immagini dei santi, l’idillio nella maternità della Madonna, il dramma nelle grandi e straordinarie crocifissioni. Berto è nato pittore, senza maestri e senza veli accademici e chi è nato pittore non può che trasformare tutto in pittura, l’uomo e la fede e più ancora Dio. Il “suo amore furibondo per l’arte“ (l’espressione è di Renato Guttuso) lo ha portato a vivere in prima persona i momenti salienti della nostra contemporaneità, a partire dalla seconda metà del Novecento. Dipinti su legno, su carta, su tavola, incisioni, stampe, collages, frottages, ready made, installazioni, appropriazioni e assemblaggi. Accanto ai soggetti “classici“ dell’iconografia pittorica bertiana, gli “Erranti“, le “J.B.“, gli “Alessandri“, le “Venezie“, le “Lamentazioni“, i lavori di ispirazione più manifestamente dadaista e pop, le “Madonne“, gli “Snoopy“, i “Pokemon“, i cartelloni pubblicitari “rettificati“ dalla mano dell’artista, che recupera ed eleva a rango artistico la selva di riviste, film, abbigliamento, profumi, cibi confezionati, nella quale l’uomo contemporaneo si muove nel quotidiano. Berto dialoga con i maestri (Studio di Picasso, 1964-1969), racconta fiabe iniziatiche (Pinocchio, Faust, 1962-1981) trasfigura la veduta nella visione (Entelechie, 1991) indicando la presenza di un

contenuto spirituale in forma esoterica. È leggendaria la sua capacità di aderire in maniera perfetta allo stile e ai modi dei maestri amati da arrivare al mimetismo, ma altrettanto grande la capacità di cogliere sparsi elementi di quello stile e trasportarlo nelle proprie opere, non nei termini di un calco o di una citazione, ma di un gioco o di una contaminazione ricorrente, di un segreto omaggio e specialmente di un dialogo ininterrotto. Così, chi osserva attentamente un quadro o un assemblaggio, una incisione o un ready-made dell’artista polesano, ha sovente la sensazione di non essere solo, o meglio, che incontro al suo sguardo corrano, appunto, quelli dei maestri, in agguato dietro il supporto o addirittura incastonati negli spessori della materia cromatica o nella morbidezza di una pennellata. Allora, ci si ricorda che Berto coltiva, insieme all’amore per le bambole e per i giocattoli che sono mancati alla sua infanzia, il gusto per le conoscenze esoteriche, rintracciando nella illuminante «Favola» di Goethe un percorso iniziatico che arriva fin nei recessi della pittura. Tanto più che l’uomo è pronto a sconvolgere abitudini e tempi organizzati, con gli estri di uno che non si contenta di essere artista nella ingombra solitudine di un atelier, ma in ogni momento della sua giornata, tra acciacchi veri o solamente paventati, chiacchiere di pittura e filosofia, telefonate chilometriche soprattutto a notte alta, entusiasmi e malinconie, slanci e ripensamenti, esercitando l’arte di una memoria infallibile con il vezzo dell’imprecisione. Tra gli infiniti quadri dipinti da Gian Paolo Berto, ce n'è uno che amiamo in modo particolare, anche se l'abbiamo visto una sola volta e quasi di straforo. Un quadro di grandi dimensioni e immerso in una luce scura, realizzato più di quarant'anni fa e che, con il senno del poi, costituisce un momento chiave nella storia artistica di Berto: La morte di Arlecchino. Come avviene talora per certe opere misteriose, dentro c'è già tutto, il passato e il futuro e perfino il presente. Ci sono i temi e i personaggi che hanno ossessionato e continuano ad ossessionare l'artista, ma anche

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Ramingo


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l'eco della lezione dei suoi maestri e c'è, appunto, quella luce impastata di nero e azzurro caliginoso, che protegge le casupole rossastre e i personaggi che recitano la vita come in una scena di teatro, con l'accensione irreale delle chiese veneziane come fondale e la luna che sembra un cerchio di vetro. Aggrappato alla barca che affonda, Arlecchino ha già i lineamenti di Alessandro (emblema stesso dell'infanzia assassinata e riscattata nell'arte) e si stringe quasi ad un capro che pare emergere dal mondo di Chagall, sul tetto di una casa alluvionata sta immobile un uccello notturno, un pipistrello si agita in cima ad un camino e la grande chiesa di San Marco ha le sfumature notturne e preziose delle ville di Tono Zancanaro, mentre le acque inquiete del Po scivolano silenziosamente nello stagno della laguna. La misteriosa morte di Arlecchino ha un solo spettatore, un volto appena percepibile sul muro di una casa. Di Arlecchino e dei suoi colori, Gian Paolo Berto si era appropriato fin da ragazzo, per rovesciarne il senso (avrebbe fatto così, anni dopo, anche con Pinocchio che diventa Faust) e raccontare la sua storia di bambino in fuga nella tragedia dell'alluvione, affascinato dalla pittura. Pittura che era il segno stesso del destino.

Le idee migliori nascono per caso, in un lampo, giusto il tempo di dire Lò-Lò!

Ritorno ai Consunti

www.lolobottega.com 106


MESSAGGIO REDAZIONALE

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BANCADRIA:

LA “FESTA DEL MELOGRANO” PER SOCI DI QUALITÀ Conclusi i festeggiamenti per il 120° di fondazione di Bancadria

a cura di Gaetano Micaglio

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In questo senso nell’occasione delle premiazioni soci si è voluto (nell’ultima cerimonia del 25 marzo) anche premiare “il merito” di uno studente neolaureatosi in ingegneria aerospaziale per un mestiere che guarda al futuro, un mestiere di “sfide”. Il Presidente Vianello ha evidenziato che “con orgoglio abbiamo voluto mettere assieme anche questo riconoscimento al merito”. Merito

n tutte e tre le occasioni di premiazione, oltre alla classica pergamena, “il melograno d’argento” è stato il pensiero di riconoscenza omaggiato ai 64 soci per la loro fedeltà alla Banca e premiati in tre momenti diversi: il giorno 10 dicembre scorso (presso Teatro Comunale di Adria), l’11 marzo ed il 25 marzo 2017, presso il Salone del Grano della Camera di Commercio Delta Lagunare in piazza Garibaldi. “Dobbiamo essere grati a coloro che ci hanno preceduto nel ruolo di socio della nostra cooperativa di credito perché se siamo così oggi è grazie alla loro fedeltà che va giustamente riconosciuta e premiata”. Con questa sottolineatura del Presidente Giovanni Vianello si è conclusa la “festa del melograno” conclusione dei festeggiamenti ai soci nella ricorrenza del 120° anniversario di fondazione della Banca. Anche nei suoi indirizzi di saluto il Direttore Generale Antonio Biasioli si è così espresso: “Se penso che quando sono stato assunto tutti voi eravate già clienti e soci della Banca provo una certa commozione perché ciò significa che sono passati tanti anni e la piccola banca di allora è diventata più grande. Grazie a voi si sono rinforzate le fondamenta del nostro istituto proiettandolo verso il futuro che si profila ricco di sfide importanti!”

Rita Perlini di Adria, unica donna socia premiata, tra i vertici della Banca 108

premiato pure dal fatto che il giovane neo dottore Andrea Menardo di Lusia non ha voluto espatriare e oggi trova occupazione in una multinazionale americana presente sul territorio locale.

Giancarlo, Toffolo Lino, Bellato Silvano, Berto Francesco, Cappello Renzo, Contato Egidio, Mottaran Benito, Pavan Dario, Rossi Giuseppe, Cassetta Ugo, Perlini Rita, Stoppa Giovanni, Roncon Angelo.

Dopo le premiazioni il commiato da parte del Presidente Vianello che ha così esordito: “Per superare ogni male interpretazione ed evitare campanilismi inutili“, ha spiegato che oggi “Bancadria sta per la Banca dell’Adriatico cioè di quella porzione di territorio lambita dal mare che va da Chioggia a Goro estendendosi all’interno verso Adria, Rovigo Lusia, Badia e Monselice”. Riguardo ai soci ha concluso: “La vostra presenza è stata spesse volte silenziosa ma non per questo partecipe e decisiva. Voi siete soci di qualità ed oggi ci è chiesto di cambiare il modo di pensare per superare le prossime sfide a cominciare da quelle dell’Assemblea dei soci del prossimo 7 maggio dove si dovrà scegliere a quale gruppo bancario aderire”.

Per la cronaca, tra i soci premiati nelle tre occasioni una sola è donna. Trattasi dell’imprenditrice di Adria Perlini Rita, artigiana nel settore delle confezioni con 45 anni di fedeltà alla Banca. In tutte le tre date chiusura con la foto di gruppo ed un bene augurante brindisi.

Presenti per la Banca oltre ai citati il Vice Presidente Vicario Riondino, i due Vice Presidenti Trevisan e Davì, il Vice Direttore Generale Vicario Contiero, il Vice Direttore Generale Perosa con i Responsabili della Filale di Lusia. In rappresentanza della Federazione Veneta delle Bcc presente il Vice Direttore Generale Gabriele Beggiato. Questi i nominativi dei Soci premiati per i loro 50 anni e più di appartenenza alla base sociale: Nalin Gastone, Crepaldi Giovanni, Chiereghin Ruggero Pasquale, Crepaldi Angelo, Vidali Gelmino, Passadore Lino, Navicella Gino. Seguono quelli con 45 anni e più di fedeltà: Berti Mario, Maestri Giannina, Travaglia Renzo, Bernardinello Giannino, Bombarda Carlo Alberto, Pezzolato Luigi, Rigoni Piergiorgio, Rossi Renzo, Visentin Giuseppe, Paggio Giancarlo, Prosdocimi Giuseppe, Tiengo Giovanni, Bartelle Romolo, Crepaldi Corrado, Gambato Gianfranco, Spinello Bruno, Spinello Francesco, Longato Renzo, Garbin Marcello, Pezzolato Aldino, Sarti Giorgio, Stoppa Antonio, Dressino Carlo, Ingegneri Marino, Capato Mario, Capato Angiolino, Capato Bruno, Barin Vittorino, Barison Ivo Dino, Padoan Gilberto, Pellegrini Luigi, Seno Sante, Seno Enzo, Galena Gianni, Pomaro Giuseppe, Pasello Luciano, Pomaro Florindo, Dal Bello Guido, Altieri Cesare, Barison Leonello, Cisotto Carmelitano, Capato Luigi, De Stefani Fabio, Maggiolo Valentino, Riberto

La premiazione del giovane ingegnere Andrea Menardo

La targa consegnata all'ing. Menardo 109


MESSAGGIO REDAZIONALE

REM

FESTA DEL MERITO, BANCADRIA PREMIA GLI STUDENTI PIÙ BRAVI a cura di Gaetano Micaglio

In totale i premiati sono stati 43, di cui 20 nella scuola secondaria di I grado, 8 nella secondaria di II grado e 15 tra i neolaureati. Tra essi Giulia Siviero di Porto Viro, vincitrice della borsa di studio istituita dalla Banca in memoria di Girolamo Astolfi, “il tipografo”, dal 1994 al 2000 consigliere dell’Istituto di Credito adriese. Giulia Siviero è stata premiata per la sua laurea specifica ottenuta presso la “Libera Accademia delle Belle Arti” di Brescia in “Progettazione artistica per l’impresa indirizzo graphic design”. Erano presenti le figlie di Girolamo Astolfi, Irene ed Ilaria, che hanno consegnato il premio alla neolaureata e che con commozione hanno brevemente ricordato il loro papà dicendosi “onorate per questo ricordo e ringraziando tutti”. Giulia Siviero ha voluto aggiungere: ”Non pensavo che la mia laurea, che per anni mi ha visto impegnata con passione, creatività e pazienza, potesse ottenere un riconoscimento così importante”. I premiati per la scuola secondaria di I grado sono stati: Bissacco Camilla, Gibbin Greta, Marangoni Camilla, Munari Alessandro, Sgobbi Alessandro, Rondina Anna, Tecchiati Veronica, Travaglini Vittoria, Conti Silvia, Pomaro Davide, Pistori Irene, Zanellato Francesca, Ghiotto Sara, Crestani Francesco, Spinello Giovanni, Crivellari Matteo, Longhini Chiara, Seno Annasofia, Pastorelli Sara e Zanellato Nicola. Per la scuola secondaria di II grado invece: Banin Martina, Rovigatti Martina, Bovolenta Roberta, Converso Francesca, Doni Maddalena, Pellegrini Chiara, Fantinati Noemi e Barison Giorgia. Questi infine i nominativi dei neolaureati: Puppa Laura, Marzolla Enrico, Frigato Mauro, Cancelliere Giuseppe, Azzano Cantarutti Filippo, Voltan Nicola, Siviero Giulia, Ghirardello Anna, Domeneghetti Elia, Buoso Chiara, Mancin Elisa, Muraro Riccardo, Tessarin Giulia, Sartori Claudia e Penini Anthea.

Ha avuto luogo ad Adria nella Galleria degli Artisti del Teatro Comunale la cerimonia di premiazione della III^ Festa del Merito-Borse di Studio 2016. L’iniziativa organizzata da Bancadria, cui hanno partecipato più di 250 persone, si è svolta alla presenza dei vertici aziendali: il presidente Giovanni Vianello, il vice vicario Raffaele Riondino, i due vice presidenti Emilio Trevisan e Mosè Davì, oltre ai Consiglieri Mauro Giuriolo, presidente del Comitato Esecutivo, Riccardo Crestani e Simone Meneghini e al direttore generale Antonio Biasioli con il vice Umberto Perosa. In prima fila i Sindaci di Adria e di Lusia, Massimo Barbujani e Luca Prando. Il direttore Biasioli, nell’aprire i lavori, ha ringraziato i tanti giovani presenti, complimentandosi con le famiglie e con i premiati, tutti giovani soci e figli e nipoti di soci per i brillanti risultati ottenuti. Il vice direttore Perosa è poi passato a chiamare uno per uno i giovani per il ritiro del diploma e del voucher.

Giulia Siviero vincitrice borsa di studio alla memoria di Girolamo Astolfi 110

Il gruppo dei meritevoli scuola secondaria di I grado Intervento del Presidente Giovanni Vianello al tavolo della presidenza

VIANELLO: “CONNESSIONE TRA IMPEGNO E MERITO” Nel suo intervento a conclusione della cerimonia per le Borse di Studio 2016, il Presidente Vianello ha voluto richiamare l’attenzione dei presenti sul problema dell’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e nella società civile ed ha posto in evidenza la stretta connessione con l’impegno ed il merito dei ragazzi premiati, ma anche dei loro genitori, delle famiglie che li hanno cresciuti. “La coscienza dei tanti bravi giovani qui convenuti – ha continuato il Presidente – di aver raggiunto certi traguardi solo per il merito e l’impegno proprio, farà di loro dei lavoratori che avranno rispetto per l’etica professionale e che matureranno il senso di appartenenza all’azienda per cui decideranno di lavorare. I genitori, dal canto loro e quelli che sono qui presenti oggi ne sono la riprova, devono essere coscienti che il tempo dedicato al figlio non sarà mai tempo perso, quanto piuttosto un investimento nella sua formazione, accompagnato alla pretesa che questi dia sempre il meglio di sé. La conquista di un titolo di studio con impegno e buoni risultati rimane alla base dell’autostima e della percezione di autosufficienza. E sono questi i giovani che oggi abbiamo premiato, sono questi i giovani di cui la nostra società civile ha urgente bisogno”.

Il gruppo dei meritevoli scuola secondaria di II grado

Il gruppo dei meritevoli neolaureati 111


PRIMAVERA-ESTATE 2017

Gabriele Picard in collaborazione con Giovanna Gambacurta e Maria Cristina Vallicelli

Una scelta di frammenti dei grandi tragici greci (Eschilo, Sofocle, Euripide) sono affiancati da immagini di frammenti di ceramica attica provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Adria. I frammenti raggiungono talora vette di altissima poesia e sono accompagnati da frammenti di figure propri dei grandi maestri della pittura attica del VI e V sec. a.C., rendendo agile e piacevole lo scorrere delle pagine.

Oltre il mare verso gli estremi confini della terra Euro 15.00

Euro 15.00

Laura Fasolin

Palazzo Manfredini a Rovigo. Storie di uomini, famiglie e mestieri tra il 1485 e il 1953

Un’opera di per sé singolare dove l’autrice ricostruisce le vicende di Palazzo Manfredini, partendo da informazioni irrisorie e confuse, per giungerne ad una genesi lontana nel tempo e mai immaginata sinora da quanti ne descrivevano distrattamente l’eleganza formale, attribuendone superficialmente la fattura alla famiglia di cui porta oggi il nome, l’antichissima genia dei Manfredini.

Dario Curtarello

Attentato alla Casa Circondariale di Rovigo del 3 gennaio 1982. I fatti, i procedimenti penali, le sentenze

Nelle librerie e online

Barbara Zeizinger

Lungo il Canalbianco Euro 15.00

Aldo Rondina

Euro 15.00

Carlo Piombo

Battiti di cuore Una città sull’acqua. Nel solco delle antiche tradizioni marinare adriesi Euro 15.00 Per il territorio del Polesine è sempre stato essenziale il rapporto con l’acqua e con il mare. Al di là di una semplice raccolta di testimonianze riguardanti la storia millenaria del Delta e del suo rapporto con l’acqua, questa ricerca si pone come stimolo per tutti coloro che hanno a cuore le sorti di questa “terra tra i fiumi”.

Euro 15.00

È necessario far conoscere alle nuove generazioni un fatto importante di quegli anni in cui il nostro Paese fu attraversato non solo dal terrorismo ma anche da numerosi altri fenomeni non meno rilevanti e inquietanti, come i tanti depistaggi e le azioni di contrasto all’accertamento della verità, in quella stagione definita anche di “strategia della tensione”.

Nel tentativo di salvare un bambino, l’ottantenne Günther Rosenbach annega nel fiume Reno. La nipote giornalista Irene Fischer, liberando il suo appartamento, trova alcune vecchie foto di un ragazzo e di un giovane Günther in uniforme. I due dovevano conoscersi: in un appunto sul retro di una delle foto legge: “Giorgio, due giorni prima”.

Quando inizia il racconto della sua vita Michele Vallese è un giovane laureato all’università di Padova. Il suo è un racconto che viaggia su due binari, quello del lavoro e quello degli affetti. Mentre la sua esperienza professionale, che si svolge tra l’Italia e Londra, prosegue ininterrotta tra successi e nuove prospettive, quella affettiva conosce spesso il dolore della perdita.

Paolo Spinello Diffusione Editoriale Apogeo Editore www.apogeoeditore.it paolospinellode@gmail.com 0426 23783 347 2350644


I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO

Natalino Balasso è attore, comico e autore di teatro, cinema, televisione e libri. È nato a Porto Tolle nel 1960. Ha debuttato in teatro nel 1990, in televisione negli anni '90, nel cinema nel 2007 e pubblica libri dal 1993. È collaboratore di Rem fin dal primo numero. Marco Barbujani è nato ad Adria nel 1992. Laureato in Scienze Forestali, si occupa di analisi cartografiche su GIS, consulenza ambientale e comunicazione della scienza. Collabora con la rivista scientifica per ragazzi PLaNCK!. Mario Bellettato è nato ad Adria nel 1956. Dopo gli studi classici e la laurea in giurisprudenza ha intrapreso una carriera manageriale che lo ha portato a lunghe permanenze all’estero. Ha lavorato come copywriter per alcune agenzie di pubblicità e si è occupato di formazione per l’Unione Europea. Ha pubblicato il romanzo Il sognatore. Emy Bernecoli, violinista adriese, si è diplomata con 110 e lode al Conservatorio di Musica di Adria e all’Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma col massimo dei voti. Incide per la casa discografica internazionale Naxos le musiche degli autori italiani del ‘900 e pubblica le sue revisioni per le edizioni Suvini Zerboni di Milano e Ut Orpheus di Bologna. Negli ultimi anni ha pubblicato alcuni preziosi inediti di Fiorenzo Carpi e Ottorino Respighi; i suoi dischi hanno suscitato gli entusia-

smi della critica nazionale ed internazionale, ricevendo la Nomination agli ICMA 2014. www.emybernecoli.com Marta Bigolin si è laureata all'Università Statale di Milano con la tesi: Cosa Vostra: il Veneto dei beni confiscati. Un'analisi che ha toccato tre principali beni confiscati in Veneto e la loro storia: fra questi villa Valente-Crocco. La tesi è parte del progetto Cosa Vostra, start-up e associazione contro le mafie in tutte le loro declinazioni. Per il geoblog www.cosavostra.it scrive prevalentemente di ambiente e paesaggio. Selene Cassetta si occupa della comunicazione online per l’associazione Voci per la Libertà ed è supporto dell’organizzazione del festival. Specializzata in web marketing e redazione di contenuti per il web in ambito turistico e culturale, gestisce con passione un blog di turismo sostenibile, viaggiosostenibile.com Claudio Curina e Stefano Marise sono i fondatori di Deltablues. Sergio Garbato, laureato in lingue e letterature straniere, ha insegnato nelle scuole superiori. È socio dell’Accademia dei Concordi. Collabora con articoli e saggi a riviste e periodici, cura programmi di sala e presentazioni di mostre d’arte. Da più di trent’anni è collaboratore de Il Resto del Carlino e per l'edizione di Rovigo si occupa quotidianamen-

te della pagina dedicata alla cultura e agli spettacoli. Ha curato mostre ed esposizioni e pubblicato numerosi saggi su teatro, arte, musica, storia e alcuni volumi dedicati a Rovigo e al Polesine. Herschel & Svarion Né il primo, né il secondo ricorda come si sono conosciuti, ma nel 2015 un incidente del destino li ha portati a lavorare a quattro mano al libro Scarafaggi, un libro di vignette ideate da Herschel e disegnate da entrambi. Entrambi abbondantemente trentenni, entrambi di Rovigo, entrambi dediti a mille progetti, Herschel & Svarion si sono facilmente ritrovati nell’idea di usare il fumetto come strumento per parlare, con toni leggeri, di temi quali politica, diritti civili, immigrazione, ingiustizie sociali. Temi che appassionano entrambi, vuoi per spiccato senso civico, vuoi per il gusto di essere fastidiosi. Con Polleggiao, di cui presentano in questo numero quattro nuove tavole in esclusiva, stanno lavorando a un progetto completamente nuovo per temi e stile narrativo, che dovrebbe vedere la luce nel 2017. Abderrahim Nachit è di origini marocchine. Ha visitato per la prima volta l’Italia nel 1984 e vi è ritornato nel 1989, proprio in Polesine, dove decise di stabilirsi. Vive a Porto Viro con la moglie e i quattro figli. Michela Narsi è nata a Rovigo nel 1990 e ha trascorso la sua infanzia a Porto Tolle.

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Ha frequentato il liceo classico Petrarca a Trieste e conseguito la laurea in Infermieristica all'università degli Studi di Trieste. Dopo un anno di ”jeune fille au pair” a Neuilly sur Seine, nell’agosto 2014 è iniziata la sua vita francese. Davide Rossi è polesano. Lavora in tutti i settori della fotografia professionale, organizza corsi e workshop dalla ripresa fotografica alla camera oscura, usa strani oggetti fotografici e gli piace manipolare la luce come gli pare. Matteo Sarto, Chiara Turrini, Manuel Borella, Asia Mantovan, Houda Nachit, Luca Grassi, Vittorio Melato, Stefano Manzolli, Andrea Vianello e Stefano Carriero sono studenti della classe III C Scienze applicate del Liceo scientifico “Bocchi-Galilei” di Adria. Con la loro classe (tutor scolastico il prof. Paolo Biscaro) hanno partecipato al percorso di Alternanza scuola-lavoro presso Apogeo Editore da novembre 2016 a gennaio 2017, seguendo fin dall’inizio la pubblicazione di questo numero della rivista, ideando alcuni articoli o collaborando alla loro stesura.


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Comune di Lusia

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E

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