REM-Anno X, n.2/3 del 15 settembre 2019 (Paolo Rumiz)

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EDITORIALE Eseguire le idee

RUBRICHE

Taccuino futile – Tavoli e banchi - Natalino Balasso La nottola di riserva – Pubblicità, la legalizzazione della bugia - Cristiano Vidali

STORIA DI COPERTINA

Paolo Rumiz. Il mio filo infinito – intervista di Vainer Tugnolo

PERSONAGGI

Il sogno di Alessio è colorato di rosa. Le ostriche della Sacca di Scardovari – intervista di Danilo Trombin

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7 9 RICERCA E SPERIENZ A MEMORI A

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PAROLE

Figlio della terra tra l’Adige e il Po. Francesco Permunian, il Polesine come condizione esistenziale – intervista di Maurizio Caverzan 25

FORME

InstaMAAD. Esperienze creative crescono – Cristiana Cobianco

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PAROLE

Un cielo pieno di stelle minori. Il nuovo libro di Mattia Signorini – intervista di Paola Piccolo e Annarosa Granata 37

STORIE

Nato per divertire grandi e piccini. Il Teatro Amico di Fratta Polesine – Cristina Sartorello

PERSONAGGI

“La Casa-Rosa”, un’opera nata dal cuore. Ricordo di Paola Giovanna Manzolli Modonesi – Enrica Zerbin

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STORIE

Tramandare la Memoria. Storie inedite di internamento coatto tra Asolo e Adria – intervista di Daniela Rossi 55

PERSONAGGI

Carbonari in Polesine. Gli indagati di Polesella – Maria Lodovica Mutterle

SAPORI & SAPERI

Risoto de sbari (risotto di persico-sole). Un eccellente piatto della cucina popolare – Mario Bellettato

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REDAZIONALE

Gabbris Ferrari e i Grandi Fiumi. Il progetto del Museo rodigino compie 20 anni – a cura della Fondazione Banca del Monte di Rovigo

LA VIGNETTA di Herschel & Svarion

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Periodico culturale quadrimestrale pensato e scritto tra l’Adige e il Po Anno X, n. 2/3 del 15 settembre 2019 Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/2/2010 Direttore responsabile: Sandro Marchioro Editore: Apogeo Editore apogeoeditore.it - remweb.it editore@apogeoeditore.it Pubblicità e marketing: Massimiliano Battiston Impaginazione: Paolo Spinello REM è fatto da: Sandro Marchioro, Monica Scarpari, Paolo Spinello, Francesco Casoni, Cristiana Cobianco, Cristina Sartorello, Nicla Sguotti, Danilo Trombin, Vainer Tugnolo, Sara Milan, Barbara Pregnolato, Cristiano Vidali, Marco Barbujani, Mario Bellettato Stampa: Geca Industrie Grafiche - San Giuliano M. Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Paolo Spinello Diffusione Editoriale − Via Zandonai, 14 − 45011 Adria (RO) Tel. 347.2350644, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs. 196/03. Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC): n.19401 del 14/4/2010. Copyright: Tutti i diritti sono riser vati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze. REM ringrazia gli autori per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo gratuito per l’inserimento nella rivista. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore. Numero chiuso in redazione il 2/9/2019. ISSN: 2038-3428 In copertina: Paolo Rumiz in una foto di Alessandro Scillitani.


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Editoriale

Eseguire le idee

A

guardarla con un’ottica pessimista non c’è stata stagione della storia dell’uomo in cui non ci siano stati motivi per lamentarsi di come vanno le cose: il mala tempora currunt sembra descrivere più un dato umano che una fase storica precisa. Cosa sia stato il Novecento fin dalla sua alba ce lo raccontano facilmente elementari ricordi di scuola: due guerre mondiali, conflitti locali devastanti, la minaccia nucleare, la fame, lo sfacelo di intere aree del pianeta, il sorgere minaccioso della questione ambientale e via elencando fino ad oggi. Il nostro presente non è meno minaccioso:

democrazie in crisi, conflitti latenti, globalizzazione selvaggia, riscaldamento globale, mutamento radicale dei valori indotto da un sistema di comunicazione in rapida evoluzione. L’idea di futuro, oggi, è fosca tanto quanto nel recente passato. Tra le questioni meno discusse c’è quella relativa alla sovrabbondanza ed alla iperdisponibilità di idee che accompagna e segue la facilità di accesso ai beni materiali e alla comunicazione globale. Mai come oggi siamo stati sommersi da idee: non c’è spazio comunicativo in cui ciascuno di noi possa farne mostra e diffusione. Le idee hanno sostituito le ideologie (che oggi per lo più si sono trasformate in mitologie legate al consumo di oggetti e di comportamenti: dall’abbigliamento al videogioco al turismo di massa); ma rispetto alle ideologie, che davano un’idea ed una prospettiva di vita e di mondo, creano un movimento pulviscolare che non contribuisce né a migliorare né a suggerire soluzioni concrete a problemi reali.

all’importanza dell’affermazione di un io megalomane ed ipertrofico. Compito della cultura, secondo noi, è insegnare ad eseguire le idee, a farle diventare realtà ed a migliorare il mondo. È un movimento che parte dal basso, da una riflessione costante sul lavoro che ognuno di noi svolge nel proprio ambito: uno sforzo che coinvolge singoli e gruppi: anche minuscoli, come il nostro, come quello di una piccola rivista di cultura che parla ad un territorio limitato sperando e provando a incidere, in qualche modo, sul suo futuro. Senza parlarsi addosso e senza smettere di tentare di cambiare le cose.

Tanto più che la pletora di idee si blocca ad un dato puramente individualista e quasi mai legato ad un senso profondo dei bisogni e delle necessità di una comunità. Soprattutto, sembra essere declinato un aspetto elementare: le idee trovano un senso e acquisiscono un corpo nel momento in cui vengono eseguite, cioè realizzate, cioè praticate. Ma quest’aspetto oggi passa nettamente in secondo piano rispetto EDITORIALE — 5


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Taccuino futile di Natalino Balasso

Tavoli e banchi

M

io padre aveva accettato dalla ditta un incarico per andare in Sicilia, pagavano bene ed erano tempi da non andar tanto per il sottile. Più tardi ci spiegò che doveva andare alle fiere a fare dimostrazioni con macchine agricole di piccola taglia, su e giù per le colline siciliane, a mostrare agli agricoltori che si trattava di macchine facili da manovrare. Per questo lui e il suo “socio”, che veniva da Bergamo, manovravano motocoltivatori, motozappe ed affini, a mano e col sorriso sulle labbra; facevano in realtà una fatica boja ma lui assicurò che alla gente non sembrava, pareva che stessero manovrando un phon. Ci faceva anche vedere com’era il sorriso e devo dire che ancora oggi, quando vedo le atlete del nuoto sincronizzato, quando le vedo sorridere nonostante lo sforzo, mi viene in mente il ghigno minimizzante di mio padre. Mio fratello avrà avuto tre anni, io meno, e lui stava via per mesi. Un giorno tornò a casa e noi non lo rico-

noscemmo, non sapevamo chi fosse quell’uomo. Corremmo a nasconderci sotto il tavolo della cucina. Fu lì che mio padre decise di tornare a casa, di guadagnare di meno e di faticare di più: “Almanco che i me fjoi i me cognossa, boja el nome!”. Andavamo a nasconderci sotto il tavolo, era una cosa che facevamo ogni tanto, ma anche a giocare con le piccole cose dei bimbi dei ‘60, c’era un pezzo di vita sotto il tavolo. Anche le mie sorelle, e mio fratello rosso, in seguito, passarono del tempo sotto il tavolo. Se ci si fosse sdraiati sotto, si sarebbero potuti notare disegni e scritti incerti. Avemmo anche un tavolo anni ‘60, di quelli con il piano in fòrmica colorata e le gambe di ferro. Quella fòrmica mi era familiare, era quella dei moderni banchi di scuola, che soppiantarono i pesanti banchi di legno col piano rialzabile, ma avevano ancora il buco per il calamaio. Più avanti, a Feltre, dove io e mio fratello facevamo le elementari, c’erano banchi di fòrmica verde chiaro, si usava ancora la penna a inchiostro, che s’intingeva ogni tanto e i cui pennini spesso schincavano sul foglio inondandolo di goccioline nere. Si scriveva due volte, la prima a matita, poi si ripassava l’inchiostro. C’era il voto in calligrafia. Sembravano altri tempi ai bimbi che venivano dal presente e che ci facevano scoprire le meraviglie della penna a sfera. Nel 1968 scoprii che esistevano persino penne biro con inchiostro colorato, e mica solo rosso e nero! Anche a Feltre, nel mondo severo delle suore, si scriveva sui banchi. Ecco la

foto di Nicola Boschetti

bellezza di questo nuovo materiale: certo, non si poteva incidere come il legno, ma se ci scrivevi a matita poi potevi cancellare! Con risultati non sempre per fetti, come notò suor Umberta, dopo avere avvistato una frettolosa cancellatura della parola “traguardo”, che avevamo scritto prima di competere in una gara di corsa intorno ai banchi. Si mangiava su capienti tavoli in una mensa comune poco chiassosa, perché bisognava parlare a voce bassa, cosa che comunque non imparammo mai. Anche a Chioggia, nei ‘70, in refettorio c’erano lunghe tavolate collettive. La cosa curiosa fu che negli anni ‘70, quando io e mio fratello frequentammo il seminario di Chioggia, ritrovammo gli amati banchi di legno di un tempo. Erano più grandi, ma avevano di nuovo il piano rialzabile, un tuffo nel passato. Il pomeriggio, si appoggiava la testa e si dormiva un po’, prima di riprendere, chi più chi meno, a studiare e l’odore del mordente aveva un effetto soporifero devastante. RUBRICA — 7



La nottola di riserva di Cristiano Vidali

Pubblicità, la legalizzazione della bugia

U

no degli esempi più intuitivi per spiegare a un bambino cosa sia un’azione morale è quello della bugia: poste le dovute contestualizzazioni, è immediatamente evidente che dire altro da ciò che si pensa, dire l’inverso di ciò che si sa è male. L’importanza etica della sincerità sarebbe facilmente intuibile non appena ci si figurasse un ipotetico gruppo sociale dove tutti mentissero: in tale contesto costantemente attraversato da una coltre di sfiducia diffusa, la stessa costituzione e conservazione di una comunità sarebbero semplicemente impossibili. Eppure, un genitore che – tutt’altro che eccezionalmente – lasciasse al figlio fruire della televisione o utilizzare lo smartphone, dovrebbe educarlo proprio come se si trovasse nella distopia di una simile comunità della menzogna. Ogni tra-

smissione e ogni cartone animato, ogni telegiornale e ogni video sono intramezzati da una carrellata di spot pubblicitari, dei cui slogan e motivetti i nostri pensieri si sono sollecitamente impregnati. A ssediato da un bombardamento di pubblicità, il figlio si sentirà, allora, dire dallo stesso genitore che aveva presentato la sincerità come esempio di moralità che il mondo mediatico che li circonda – in un quadro di piena legalità e legittimazione – la rinnega costantemente. Più che un’istruttrice, la pubblicità sembra, infatti, un sofista dell’immagine e della parola, per gli scopi del quale ogni mezzo è lecito: dai fraseggi di Mozar t agli aforismi di D’Annunzio per promuovere un liquore, dalle tele di Van Gogh ai versi biblici per valorizzare un’auto, dall’innocenza di un bambino alle lacrime di un anziano per nobilitare uno smartphone. In questo rito profano di fusione degli opposti non vi è traccia di informazione: tutto si riduce alla performance del prodotto al pieno delle sue potenzialità espressive, il cui monologo non ha altro fine che quello della seduzione. Così, la pubblicità è la voce del prodotto, la tv il suo palcoscenico. Evidentemente le cose non possono essere andate sempre così. Se fin dal principio fosse stato assodato che i media mentono, nessuno avrebbe mai nemmeno pensato di comprare un televisore; nessuno, infatti, pagherebbe per ascoltare chi sa che lo ingannerà. L’ipertrofia pubblicitaria e l’ethos della menzogna segnano, piuttosto, un passaggio sintomatico dalla concezione della televisione come mezzo

educativo a quello che la concepisce come mero strumento promozionale; una transizione dal paradigma del mezzo televisivo destinato a futuri cittadini a quello in cui esso si rivolge a consumatori già pronti all’uso. Troppo spesso il pericolo sociale e culturale di un sistema così pervasivo viene sconsideratamente trascurato. Ciò che esso veicola, infatti, non è solo un’innocente e circostanziata bugia a fin di bene o una “nobile menzogna”, come suggeriva Platone nella Repubblica, ma un intero contesto di falsificazione perenne che induce fin dalle prime parole emesse a dubitare della loro verità. E proprio della verità pare non esserci più traccia quando ci si abitua a diffidare di ogni prossimo, troppo poco disinteressato per non esser avvezzo al raggiro; quando ci si abitua, in fondo, a essere figli di un educatore immorale.

RUBRICA — 9


Paolo Rumiz Il mio filo infinito

intervista di Vainer Tugnolo foto di Alessandro Scillitani

Il fiume è una perfetta metafora della vita, nasce spumeggiante, cresce, raggiunge la maturità e poi rallenta, non riceve più acqua, si disperde e si indebolisce. Ma nel momento del trapasso trova una dimensione nuova che è quella del mare, e questo l’ho vissuto.

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H

a at tr aver sato l ’Italia e l’Europa da nord a sud, da oriente a occidente, lungo la costa adriatica, marciando sugli Appennini e navigando sul Danubio. Ha ripercorso i tracciati delle grandi vie di comunicazione europee, come la Francigena e l’Appia antica, ha riscoperto i luoghi del Risorgimento e dell’epopea garibaldina e viaggiato fra i camminamenti delle trincee italiane sui fronti della Grande Guerra.


Per anni inviato di Repubblica, Paolo Rumiz è uno dei maggiori esperti e conoscitori dell’area Balcanica e da poco ha terminato un grande viaggio, raccontato nel libro Il filo infinito, attraverso i grandi Monasteri Benedettini d’Europa. Nel 2012, in canoa e in barca a vela, ha navigato lungo l’intero corso del Po giungendo fino al Delta, per poi arrivare a toccare le coste della Croazia. Nel ripercorrere la sua discesa lungo il Po la prima cosa che colpisce, per usare una sua definizione, è che «il paese sembra ridotto all’idrofobia da chissà quale pestilenza». Considero il fiume la quintessenza del paesaggio, e proprio per questo è più difficile da accettare, ma ho l’impressione che nella storia del nostro paese questa sia una tendenza molto recente. Per quale motivo gli abitanti della più grande pianura italiana dovrebbero avere paura di avvicinarsi al corso d’acqua più importante della nostra penisola? C’è come un divorzio degli italiani dalla loro stessa terra. Il senso di appartenenza degli italiani all’Italia è molto debole ed è qualcosa che li ha portati a tollerare le manomissioni che altri Paesi non avrebbero consentito. Esattamente il contrario, infatti, di quello che è accaduto altrove.

In Austria, sul Danubio, ad esempio, il fiume è vissuto a trecentosessanta gradi via acqua, in bicicletta, frequentando le locande sulle rive… non c’è metro del suo corso che non sia vissuto e valorizzato.

un crimine che ci ha allontanati dalla meraviglia della natura.

Sembra quasi che gli italiani ritrovino nel rapporto con il grande fiume, esibendoli con estrema disinvoltura, alcuni tratti essenziali del proprio carattere.

In Austria e in Germania, in Croazia e in Serbia il fiume è un grande baricentro, un grande elemento di unione. Gli italiani lo vivono invece a segmenti: ogni provincia, ogni città, ogni paese, lo vive semplicemente per ciò che trova di fronte. Molto spesso è completamente sconosciuto e ignorato ciò che si trova a poco più di due passi, e questo è veramente sconfortante.

Penso che questa cosa nasca da un atteggiamento predatorio che abbiamo nei confronti del l a natura, da una scarsa cultura e da u n o s c a r s o s e n s o d e l l a s to r i a . Quando ho percorso a piedi la Via Appia da Roma a Brindisi quasi sempre gli abitanti del posto apprendevano da me, che sono di Trieste, la loro appartenenza alla prima grande via dell’umanità, e questo è paradossale. Che ogni anno cinquantamila italiani vadano a percorrere il Cammino di Santiago e nessuno abbia provato a rifarsi l’Appia per due secoli, è difficile da credere. E poi c’è anche un’altra cosa... Quale? Probabilmente l’idrofobia nasce dal nazionalismo: sono proprio i popoli con scarsa identità nazionale che diventano nazionalisti. Oggi l’Italia ha preso questa direzione preoccupante perché ha un’identità debole. Il mondo nazionalista vede un primato maschile e non concepisce la presenza femminile al potere, e quindi la Po è diventata il Po: la maschilizzazione dei fiumi è

Per gli italiani, va ricordato, il Po è stato spesso un confine, una frontiera che ha diviso popoli e territori.

Eppure si fa un gran parlare di promozione del territorio e di valorizzazione delle sue peculiarità. Ma nessuno pensa a quanto il fiume potrebbe essere motivo di attenzione: non potremo mai avere un’offerta turistica decente perché siamo i primi a non amare la nostra terra. Tradendone lo spirito, senza riconoscerne il respiro. Prima di imbarcarmi in questa avventura ho avuto a che fare con gente che mi sconsigliava di partire, anche canoisti abituati a fare rafting e a cavalcare torrenti: trascinati a forza sul Po, li ho visti stupefatti, travolti dalla sua bellezza. Ma ogni volta che il fiume ha incontrato la civiltà questa ha finito con il mostrare il suo lato peggiore.

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di un flusso senza fine, il fiume è stato cantato da grandi visionari, nel cinema, nella pittura, nella letteratura. Secondo me il Po ha una dimensione metafisica altissima, è ancora molto selvaggio, questo è il suo enorme vantaggio rispetto agli altri grandi fiumi d’Europa: questa sua posizione perfettamente baricentrica fra due catene di montagne, questo avere chilometri e chilometri selvaggi e di solitudine. Sembra quasi che in una dimensione così marcatamente orizzontale, senza riferimenti, l’unica occasione di ritrovarsi, la sola possibile via di fuga sia quella in verticale, verso il sogno. Il paradosso è infatti che il fiume è protetto dall’incuria dei suoi abitanti, proprio il fatto che gli italiani non lo considerino ne fa uno dei corsi d’acqua più interessanti d’Europa. Il Po è sicuramente più misterioso del Gange, mille volte migliore di quello che possiamo immaginare, è un lusso che gli italiani non sanno neanche che esista. Dopo Ficarolo, lasciato alle spalle anche il Panaro, l’ultimo affluente, lei ha osservato che il tempo rallenta con la decelerazione della corrente e diventa lentezza e silenzio. Sì, procedendo nella discesa c’è una crescita della dimensione divina del fiume che piano piano diventa sempre più femminile e sempre più Dio, ad un certo punto non è più un elemento del 12 — STORIA DI COPERTINA

paesaggio ma una persona, un’entità, qualcuno con cui rapportarsi. È il fiume dei misteri, della notte, dei mulinelli, delle divinità dell’acqua che governano un territorio senza regole. Diciamo che è il mio modo un po’ pagano di guardare all’acqua, molto simile a quello dei popoli nordici. Il libro tratto da questa esperienza, Morimondo, ha infatti trovato grande riscontro soprattutto in Germania. Noi oggi avremmo proprio bisogno di ritrovare la divinità delle acque, ma anche quella delle montagne, della natura nei confronti della quale abbiamo perso il contatto. Sedotti dall’incessante riproporsi

A questo non avevo pensato, ma in effetti è una via di fuga formidabile... Pochi fiumi sono in grado di fornirti una simile sorpresa, chi arriva in un posto del genere si aspetta un luogo iperabitato e invece trova una specie di deserto. Comprendendo entrambe le rive abbiamo più di mille chilometri di territorio quasi vergine dove chiunque può nascondersi, dove hai una situazione da pirati della Malesia e dove in effetti anche dei pirati si nascondono. Cosa è diventato per lei il Po? Per me è la vetta del mistero perché la geografia delle sue curve rappresenta la femminilità del mondo, come certe linee di costa: la febbre con cui consulto le mappe dei fiumi non ha niente a che fare con l’attenzione con cui cerco


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i punti emergenti delle montagne. I fiumi sono il massimo del mistero perché cambiano direzione, perché non sono mai quieti. A cosa si pensa navigando per ore, fissando le onde aprirsi davanti alla prua. Mi chiedevo, guardando un meandro da lontano, dove il fiume andasse a finire dopo la curva: è la straordinaria continuità dell’acqua che trova sempre la strada giusta. A proposito del suo incontro con le Foci lei ha parlato dello sperdimento del Delta. A mio avviso ha a che fare, come ricordavo prima, con la femminilità del Po che raggiunge il suo massimo quando il fiume si allarga, quando diventa placenta, si ramifica e diventa ancora più misterioso e incontrollabile, quando si addentra in queste terre franche del Delta dove hai la sensazione che qualcuno si nasconda. È un luogo dell’anima. Togli le zanzare e il Polesine è un luogo straordinario, il meno classico e il meno prevedibile fra quelli che puoi attraversare scendendo il Po. Slobodan, il navigatore serbo incontrato in Montenegro, diceva che «il mare aperto è un’altra cosa se ci arrivi da un fiume». Il fiume è una perfetta metafora della vita, nasce spumeggiante, cresce, 14 — STORIA DI COPERTINA


raggiunge la maturità e poi rallenta, non riceve più acqua, si disperde e si indebolisce. Ma nel momento del trapasso trova una dimensione nuova che è quella del mare, e questo l’ho vissuto. Avete trasformato la fine in un nuovo inizio. Abbiamo cercato di vincere la malinconia della fine e con un colpo di reni l’abbiamo trasformata in voglia di continuare. La notte che abbiamo passato sul Delta, ai piedi del faro, è stata indimenticabile, non ho chiuso occhio. Trovarmi in quelle sabbie fra tronchi d’albero portati dalla corrente, accendere un fuoco, ruminare sul viaggio finito e decidere di continuare è stato un salto di qualità, un cambio di marcia assolutamente imprevedibile. Cosa ricorda, ripensando a quella notte? Il mare, il vento, la salsedine, le tamerici, i canneti, insomma una intera notte di tregenda che non posso dimenticare. La grande stagione delle bonifiche sul Delta ha riproposto il tema della relazione fra uomo, terra e natura. Lei ha concluso da pochi mesi un viaggio attraverso i grandi Monasteri Benedettini: la capacità dei monaci di governare il territorio ha avuto un fortissimo impatto sui luoghi in cui è stata attiva la loro presenza. I benedettini, rispetto ai francescani, STORIA DI COPERTINA — 15


hanno avuto un’influenza immensa sul paesaggio italiano ed europeo: oggi possiamo visitare luoghi che hanno acquisito una grande forza e una enorme capacità magnetica di attrazione. Ad esempio? Basti pensare a un posto come Mont Saint-Michel: un banale scoglio a due passi da una riva battuta dalle maree è diventato uno dei grandi monumenti dell’umanità grazie ai benedettini, gli

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unici in grado di pensare e trasformare quel luogo in quel modo, e nella bellezza che conosciamo. Ma vale lo stesso discorso per l’Abbazia di Westminster nel cuore di Londra, o per i grandi monasteri irlandesi nei pressi della forza micidiale dell’oceano. C’è qualcosa nell’insegnamento dei benedettini che ci rende attenti al rapporto fra noi e la natura: ma la sua desacralizzazione ha impedito che conservassimo quella importantissima lezione.

Oggi il tema della conservazione, non solo del paesaggio, richiede un’attenzione che sembra mancare completamente. Io vedo che un popolo intero ipnotizzato dagli smartphone non si accorge nemmeno delle mutazioni spesso drammatiche che la natura sta vivendo. Qualcosa, dopo molto tempo, sembra muoversi.


Sono profondamente pessimista. Quando lo scavo del tunnel dell’alta velocità fra Bologna e Firenze ha letteralmente disidratato il Mugello, molte delle persone che abitavano lassù non si rendevano nemmeno conto che i loro fiumi erano spariti. Oggi sembra tutto estremamente complicato, paradossalmente anche il semplice tentativo di informarsi. La vera cosa grave di questo momento non è il disastro naturale che si è innescato, guarda un po’, dal momento in cui in Europa abbiamo smesso di farci la guerra, quasi a dire che la pace è stata molto peggio… Quale sarebbe, invece?

Ciò che ritengo più grave è la nostra totale incapacità di vedere e capire la realtà: oggi siamo talmente distratti rispetto a queste cose che non ci accorgiamo di mutazioni epocali. A vent’anni di distanza sono ritornato in una zona del Ticino che avevo percorso in canoa alla fine degli anni Novanta: la biodiversità era più che dimezzata, tutto il frastuono di uccelli che mi aveva quasi impedito di dormire era scomparso, ho trovato una foresta muta.

Tutto ciò che ci troveremo di fronte, alla fine, sarà un complesso di emergenze che non saremo più in grado di affrontare.

Abbiamo una necessità sempre più urgente, un disperato bisogno di conoscere. Ma come le spieghi queste cose… I giornali non ne parlano, si occupano dei fatti e non delle grandi mutazioni.

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e giornalista tra i più noti in Italia. È inviato speciale del “Piccolo” ed editorialista de “La Repubblica”. I suoi libri più recenti sono: Morimondo, Feltrinelli, 2013; Come cavalli che dormono in piedi, Feltrinelli, 2014; Il Ciclope, Feltrinelli, 2015; Appia, Feltrinelli, 2016; Dal libro dell’Esodo, Edizioni Piemme, 2016 con Cécile Kyenge; La Regina del Silenzio, La Nave di Teseo, 2017. In Il filo infinito, il suo libro più recente pubblicato da Feltrinelli, Rumiz cerca risposte nei luoghi e tra le persone che continuano a tenere il filo dei valori perduti, e lo fa ricostruendo la storia dei discepoli di Benedetto da Norcia, il santo protettore d’Europa. Paolo Rumiz li ha cercati nelle abbazie, dall’Atlantico fino alle sponde del Danubio. Quelle nere tonache ci dicono che l’Europa è, prima di tutto, uno spazio millenario di migrazioni. Una terra benedetta che sarebbe insensato blindare. In questo libro si chiede: “Sapremo risollevarci senza bisogno di altre guerre e catastrofi?”

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Il sogno di Alessio è colorato di rosa Le ostriche della Sacca di Scardovari intervista e foto di Danilo Trombin

“Tutto nasce perché io avevo un sogno”, mi dice. Mi guarda dritto negli occhi come per essere sicuro che mi arrivi proprio ciò che intende dire. Poi continua così: “Sono sempre stato appassionato di ostriche”.

L

a Sacca degli Scardovari è liscia e piatta come un tavolo da biliardo. Ed è pure di colore verde, che sfuma all’orizzonte come il tratto di un acquerello. Gli allevamenti di mitili sembrano la cerniera che salda l’acqua al cielo. Alessio Greguoldo porta la barca verso una serie di palizzate che non mi appaiono familiari, come quelle dei mitili. Sono fitte e più sottili, e ordiscono una trama verticale che ricorda un castello gotico francePERSONAGGI — 19


perché le ritiene innovative e vincenti. Dopo aver accolto la proposta del direttore del Consorzio, Alessio incontra Florent Tarbouriech, rimanendone molto colpito. L’imprenditore francese racconta di come si possono allevare le ostriche e ritiene la Sacca molto adatta a questo tipo di allevamento. Si reca allora in Francia. Fu così che andai a visitare gli impianti di produzione francesi, e soprattutto che conobbi Flaurent Tarbouriech, l’inventore della tecnica di allevamento che impiego anche io oggi. La figura e la passione di Flaurent Tarbouriech colpiscono molto il giovane polesano, che parla in tono entusiastico dell’incontro con l’imprenditore francese. se. Forse perché il prezioso carico che sostengono è proprio di origine francese. Alessio si avvicina con la barca alle funi che si nascondono nell’acqua, che gorgoglia sommessa, mentre Alessio ne tira una verso la superficie. Alessio è un uomo di poche parole ma dalle idee chiare. Lo sguardo intenso e intelligente preannuncia la voglia di raccontarmi questa storia, che, una volta tanto, è la storia positiva di un sogno che si realizza, è la storia della caparbietà e della tenacia nascosta sotto i riccioli neri che ricoprono il capo. Il sogno di Alessio è tinto di rosa. Come nasce questa idea di allevare le ostriche qui nella Sacca degli 20 — PERSONAGGI

Scardovari, che tutto sembra tranne che uno stagno costiero della Bretagna. Tutto nasce nel corso di una cena, il direttore del Consorzio delle Cooperative dei Pescatori del Polesine, Gabriele Siviero, propose ai presenti di tentare la strada della produzione delle ostriche nel Delta del Po, io fui l’unico a cogliere l’opportunità e ad accettare la sfida mi dice. Mi guarda dritto negli occhi come per essere sicuro che mi arrivi proprio ciò che intende dire. Poi continua così: Da allora nasce la mia curiosità e la passione per le ostriche. Alessio ha lo sguardo schietto e genuino di chi ha voglia di spiegare le proprie idee e le proprie ragioni,

Rimasi così affascinato dalla passione con cui Flaurent parlava delle sue ostriche, dall’amore che metteva nei suoi allevamenti, dalla luce che brillava nei suoi occhi, quando si parlava di ostriche, che quando tornai a casa non facevo altro che pensarci. Era il 2010. Così, quando tornai a casa, non facevo altro che pensare a queste ostriche, ma ero pessimista, pensavo che nelle nostre lagune non sarebbe stato possibile applicare quel metodo. Sapevi già che le lagune del Delta potevano ospitare un mollusco e un tipo di allevamento del genere? No, potevo solo ipotizzarlo. Infatti, nonostante il pessimismo e la paura iniziali, decisi di avviare una prova.


Con Tarbouriech avviammo la sperimentazione, che durò un paio di anni, anche per capire se il nostro habitat e le nostre lagune fossero adatte ad ospitare questi straordinari molluschi. La cosa andò per il meglio, e fu così che cominciai. Quando cominciò uf ficialmente l’allevamento delle ostriche qui a Scardovari? All’inizio l’allevamento partì con una trentina di corde. Il primo impianto risale al 2016, ma oggi siamo arrivati già a 4 impianti che ne sostengono quasi 5000 La produzione e la commercializzazione in Italia come funziona? Ho costituito una società con Laurent Tarbouriech. Lui detiene il brevetto per questo tipo di impianto. Brevetto per il quale io oggi sono concessionario esclusivo per l’Italia. L’azienda è cresciuta velocemente. Adesso ho anche cinque dipendenti. Per quanto riguarda, invece, la commercializzazione, prima di avviarla, il prodotto passa attraverso il Consorzio, che rilascia i certificati sanitari di idoneità. Riforniamo soprattutto ristoranti. Anche alcuni della zona dispongono del nostro prodotto. La produzione viene assorbita per il 90% dal mercato italiano, mentre per il restante 10% dal mercato francese. Come funziona questo tipo di allevamento? Le giovani ostriche rosa, che quando

sono piccole vengono anche chiamate “seme”, arrivano dalla Francia. Alessio ne raccoglie una manciata dall’interno di una rete nel vivaio e me le porge. Vedi? dice. Sono più piccole di un chicco di riso. Guardo queste minuscole ostriche dall’aspetto così fragile e delicato che mi sembrano quasi la schiuma del cappuccino. Queste le teniamo per un po’ di tempo in queste reti a lanterna, per il pre-ingrasso. Il tempo è variabile in base alle condizioni meteo e climatiche. Decidiamo noi quanto. Alessio continua poi a spiegarmi come realizzano le collane che sostengono le ostriche in crescita. Una volta tolte dal pre-ingrasso le gio-

vani ostriche vengono portate nella cavana, posizionate su di un piano a coppie e incollate, tramite un cemento marino atossico, alla fune che le sosterrà in acqua. Alla coppia di ostriche ne viene poi attaccata un’altra, in modo da formare gruppetti di tre esemplari. Le funi, portate con la barca presso gli impianti, vengono appese a dei tubi in grado di ruotare, in modo da poter avvolgere la fune e far uscire le ostriche dall’acqua o di rimetterle a bagno, a seconda delle necessità. I tubi sono fatti ruotare da motori elettrici a circuito chiuso, che traggono l’energia da pannelli solari o da piccoli rotori eolici, il tutto posizionato sopra gli impianti. Si tratta – continua Alessio – di un PERSONAGGI — 21


dal computer...

impianto completamente ecologico, a zero emissioni, che si auto-sostiene in tutto e per tutto. Una volta che la crescita è completata, le ostriche vengono suddivise in base alla dimensione, al calibro. Ne esistono cinque. Il calibro, ovviamente, determina anche il prezzo di questi molluschi. Prima di essere portate allo stabulario per la depurazione, però, rimangono ancora un po’ di tempo in queste gabbie a pagoda. Non sono più ancorate tra loro e quindi, col movimento dell’acqua, la superficie viene levigata, vengono eliminate le alghe e altre formazioni che possono incrostare la conchiglia. Con questo metodo, le ostriche raggiungono una forma regolare, priva di asperità e di parti taglienti. Possono quindi essere consumate più facilmente.

Per le sfumature e il colore della conchiglia. Alessio ne estrae una del calibro più importante, la sciacqua nella Sacca di Scardovari e me la porge.

L’esposizione delle ostriche al sole e all’aria è regolata e controllata

Vedi? L’esposizione al sole, ai raggi ultravioletti, all’aria e al vento, oltre che

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Tramite un’applicazione che ho anche sullo smartphone stabilisco quanto tempo i molluschi devono rimanere fuori dall’acqua e quanto devono stare in immersione. La scelta è dettata dalle condizioni atmosferiche, dal clima, dalla temperatura dell’acqua. Questi molluschi sono più sensibili al caldo che al freddo. Perché sono state chiamate “ostriche rosa”?

a smussare gli angoli e a eliminare i parassiti, conferisce questa colorazione unica alle nostre ostriche. Da questa deriva il nome. Le ostriche che vivono nelle nostre lagune non sono adatte a questo tipo di produzione? Si tratta sempre della stessa specie Sì, si tratta sempre dell’ostrica concava, una specie originaria dell’Oceano Pacifico. Ma questa varietà è selezionata per avere numerose caratteristiche vantaggiose, che la rendono diversa da quelle che crescono nelle nostre lagune. Ad esempio, le nostre, hanno delle sacche nel guscio che contengono una sostanza nera. Se aprendo l’ostrica, la sacca si rompe, allora devi buttare via tutto. Quelle di allevamento invece ne sono prive. E soprattutto il loro punto di forza è la carne. Ma per


capirlo le devi assaggiare. Tu mangi ostriche? mi chiede Alessio. Sì. Mangio tutto... Alessio estrae una grossa ostrica dalla rete a pagoda e la pulisce nell’acqua della Sacca. Poi la apre con cura, staccandola dalle valve, e me la porge. È bellissima. Il mollusco riempie quasi completamente la grande conchiglia. La metto in bocca e, lo giuro, comincia un’esperienza multisensoriale a più livelli che non dimenticherò mai e che voglio ripetere al più presto. Le carni del mollusco mi riempiono pienamente la bocca con la loro consistenza compatta. Non credo di aver mai mangiato una cosa così buona. Per prima cosa, mi investe un’onda di mare, di salso di terre esotiche eppure vicine che mi trasporta come in volo sopra il Delta del Po. Poi il sapore scende giù, e mi fa spalancare gli occhi per lo stupore, perché non capisco più se sono in mezzo al mare o in un bosco in mezzo alle montagne. Dolce, vellutata, fortissima eppure delicata nello stesso tempo. Un equilibrio che rasenta la perfezione e che permane nella bocca per molto tempo, accarezzando tutti i sensi: è bella alla vista, è piacevole il contatto fisico, il profumo è delizioso. È un peccato che non canti: ma di sicuro sa far cantare le corde interiori di chi l’assaggia. Sono rimasto assolutamente stupefatto. Confermo che non ho mai mangiato una cosa così buona.

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La carta, una storia Infinita... rivive La nostra carta ciclo: ri l a ie z ra g te n continuame auribile. s e in e o s o tu ir Un processo v voro, la l a , la o u c s a , A casa carta, ra u c n o c a r a sep ncino: cartone e carto econda vita! s a n u i a r a d li g

Cartiere del Polesine S.p.A., da oltre 60 anni, produce carte per il packaging utilizzando esclusivamente materie prime provenienti dalla raccolta differenziata e dal recupero di imballaggi. Sede Legale e Stabilimento Produttivo: Viale Stazione, 1 - 45017 Loreo (RO) Uffici Amministrativi e Stabilimento Produttivo: Loc. Cavanella Po - Zona A.I.A. - 45010 Adria (RO) 24 — IMMAGINI

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Figlio della terra tra l’Adige e il Po Francesco Permunian, il Polesine come condizione esistenziale

intervista di Maurizio Caverzan

«Sono figlio della terra tra l’Adige e il Po. Figlio di una periferia contadina, marginale, lontana dal circuito ufficiale dell’editoria e delle università. Questa provenienza è una condizione esistenziale. Attingo alle memorie familiari e dei luoghi, e le stravolgo per scagliarle in faccia ai signori della città. Non appartengo alla linea del Goldoni, della nobiltà e dei salotti veneziani, ma a quella del Ruzante e del contado più povero».

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r ati t u din e. È q u e s t a l a parola chiave, l ’hashtag direbbero i frequentatori dei social network, con la quale sintetizzare, almeno da parte mia, l’amicizia con Francesco Permunian. Ci conosciamo da qualche anno, da quando Il Giornale mi mandò a Desenzano del Garda per intervistarlo in occasione della pubblicazione di Ultima favola (Il Saggiatore, 2015), e fu per me una scoperta, sia umana che letteraria. Da allora abPAROLE — 25


biamo continuato a frequentarci, più per merito suo che mio. Gratitudine, dunque. Perché, poco alla volta, Permunian mi ha svelato e introdotto in un mondo che conoscevo solo dall’esterno, quello dell’editoria e della letteratura, di cui lui invece possiede molti segreti, pur mantenendo dallo stesso una ragguardevole e condivisibile distanza critica. Ancor di più, la gratitudine è motivata dalla ricchezza di questo rapporto prodigo di consigli, e dal piacere di confrontarci nella differenza delle rispettive sensibilità. Lui ateo ma curioso del cristianesimo, io “cattolico inquieto”, come ha scritto nella dedica di Sillabario dell’amor crudele, l’ultimo suo romanzo pubblicato con Chiarelettere, sul quale ho avuto l’onore di dialogare nella sala Cordella di Adria. Proprio questo Sillabario, uscito dopo una sofferta gestazione per evitare complicazioni giudiziarie, sancisce un salto di qualità nella 26 — PAROLE

narrazione del Veneto nero alla quale Permunian ci ha abituati. Originario di Cavarzere, nato nel 1951, anno della catastrofica alluvione, e legato al Polesine dove torna spesso anche se dopo due giorni deve fuggire per l’incombere di quello che chiama “paludismo psichico”, egli ha sempre dipinto un microcosmo tormentato e convulso. Quest’ultima opera, tuttavia, rappresenta il capitolo più lugubre del “Veneto d’ombra” di Guido Piovene, di cui il “malinconico, saturnino e intricato” Permunian incarna uno degli interpreti più sulfurei.

e di cui hanno parlato anche i media nazionali. La seconda ragione per cui non posso accontentarmi della cartolina è proprio la mia origine polesana. Sono figlio della terra tra l’Adige e il Po. Figlio di una periferia contadina, marginale, lontana dal circuito ufficiale dell’editoria e delle università. Questa provenienza è una condizione esistenziale. Attingo alle memorie familiari e dei luoghi, e le stravolgo per scagliarle in faccia ai signori della città. Non appartengo alla linea del Goldoni, della nobiltà e dei salotti veneziani, ma a quella del Ruzante e del contado più povero.

Un cambio di passo, dunque. È così. Innanzitutto, perché non voglio adagiarmi nelle formulette narrative, alla Andrea Vitali, per capirci, premette. Se volessi riproporre dipinti lacustri e pastelli polesani ne avrei a bizzeffe. Ci sono due ragioni che mi hanno spinto a queste pitture nere. La prima è aver cozzato con l’orrore di uno dei più tragici scandali della pedofilia clericale che si sono consumati dalle mie parti

Da una formazione come questa, dalle cascine del Polesine remoto, non può certo scaturire una letteratura rarefatta e consolatoria. Bensì il suo opposto: la rappresentazione grottesca, la provocazione estrema e la scrittura febbrile sono tutti affluenti della ribellione che fomenta la produzione di Permunian. E che, in questo romanzo, si rivolge contro il clero bigotto e pervertito, ma


«Di tutto il verminaio di dolore e di umiliazioni inflitte a bambini e a ragazzini molto poveri e sordomuti, ho cercato di fare un’ opera di fantasia letteraria ambientata dentro un orfanotrofio... la voce narrante è quella di un nano che, alle soglie della vecchiaia, rievoca la sua infanzia violentata». PAROLE — 27


anche contro le conventicole della cultura dei grandi editori. Sono le due chiese, le due accademie del potere. Ma nel Sillabario non me la prendo tanto con la Chiesa in se stessa, quanto piuttosto con la pedofilia che la sta divorando: chiariamolo bene, questo. Non a caso le uniche due figure positive del libro sono papa Francesco e padre Alfonso, un missionario nel Bangladesh. Non ho una visione manichea, non vedo tutto e solo nero come certi mangiapreti di fine Ottocento. Come disse il cardinale Carlo Maria Martini nella frase che pronunciò agli esercizi spirituali dei gesuiti del 2008, e che ho posto come esergo, “tutti questi peccati sono stati commessi anche nella storia della Chiesa. Da laici, ma anche da preti, da suore, da religiosi, da cardinali, da vescovi e

perfino da papi”. E io, da miscredente e cataro, frequentatore di figure un po’ eretiche come Sergio Quinzio e David Maria Turoldo, mi sono annotato queste considerazioni. Protagonista e vittima di questo girone infernale è un nano intelligente, un personaggio a metà fra il circo e il teatro, Teodoro Maria Baseggio, citazione del grande attore Francesco “Cesco” Baseggio, attorno al quale si agita un bestiario deforme di turpitudini. Per rendere il volto dei carnefici dell’infanzia, per far ascoltare le tante voci dall’inferno, ho dovuto usare la brutalità del linguaggio della pornografia. Solo attingendo la parola nella pece potevo trasmettere l’oscenità di questa storia. Poi, certo, bisogna stare attenti a non bruciarsi

perché il lettore va anche intrattenuto. Perciò mi sono servito anche di un registro grottesco, al fine di stemperare una materia tanto incandescente. Tuttavia non è la denuncia giornalistica l’obiettivo di Permunian. Io mi prefiggo la ricerca estetica. Se i miei romanzi non hanno dignità letteraria, fallisco. Noi scrittori veneti siamo periferici, ma abbiamo diritto di piena cittadinanza nella letteratura contemporanea nazionale. Lo so, visti da Roma abbiamo un tratto quasi esotico se non folcloristico. Invece io sono orgoglioso di appartenere alla scuola di Piovene e delle sue furie, saturnini, malinconici e visionari, snobbata dalla cultura ufficiale. Perciò, quando mi intervistano sbagliando gli accenti sul cognome o su Cavarzere non mi stupisco. Ricordo che una volta a un dibattito con Dacia Maraini quando dissi che venivo dal Polesine pensarono che fossi originario di Pola, in Slovenia. Molta più attenzione alla scrittura di Permunian c’è invece in Francia dove i suoi libri sono stati tradotti dall’editore che ha pubblicato anche Antonio Tabucchi nella prestigiosa collana “Dinamitardi e visionari”. Una diade che forse, dopo la pubblicazione del Sillabario dell’amor crudele può essere completata da un’alternativa come “Anarchici e dissacranti”, che ne dice Permunian? Mi va benissimo. Ho sempre frequentato il mondo degli anarchici. Il fotografo e caro amico Mario Dondero era un anarchico di sinistra, il suo collega Mario Giacomelli si collocava più nell’anarchia di destra. Lo stesso

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Turoldo era, a suo modo, un irregolare difficile da incasellare. Insomma, Permunian è uno scrittore, un letterato allergico alle catalogazioni. Dinamitardo e visionario, anarchico e dissacrante, anche cupo e trasparente come lo sono, a volte le acque del Lago di Garda. Basta visitare la biblioteca di Desenzano, una villa del Seicento che si riflette su quello specchio, per riconoscere la leggerezza nascosta di Permunian. Proprio lì, confida, in riva al lago, al mattino presto o dopo che avevo chiuso la biblioteca, ho scritto Camminando nell’aria della sera, uno dei miei romanzi più sereni. Anche ateo e religioso, se per senso religioso s’intendono le domande

fondamentali sulla vita, potrebbe essere una diade da aggiungere al profilo di questo autore. Lo ha segnalato il critico e storico della letteratura italiana Andrea Cortellessa nella fulminante introduzione alla poesia L’attesa dedicata ad Anna e Sergio Quinzio, e pubblicata da Kellermann, nel 2013, in tiratura limitata. Scrive Cortellessa: “Ecco, proprio questo cattolicesimo a più riprese abiurato e bestemmiato, ma che continua ad aleggiare come uno spettro persecutorio, è una chiave importante per capire le figurazioni ossessive di Permunian, uno degli scrittori più perturbanti oggi in circolazione”. Un’interpretazione che lui stesso ha sottoscritto: Da non credente quale sono e sono sempre stato, non potevo spingermi fino al

punto di oltrepassare i cancelli di quel “giardino” della fede che per me restano ermeticamente chiusi. Ma davanti ai quali anche un ateo ama a volte sostare in attesa, soprattutto quando si avvicina l’ora della sera e già s’intravvedono in lontananza le prime luci di un altro mondo.

Le foto di Francesco Permunian sono state gentilmente concesse da Pino Mongiello, Salò. Quella di copertina è elaborata graficamente da Mimma Rapicano.

Nato a Cavarzere nel 1951, Francesco Permunian vive da anni a Desenzano sul lago di Garda. Ha pubblicato diversi libri, tra i quali Il principio della malinconia (2005), La casa del sollievo mentale (2011), Il gabinetto del dottor Kafka (2013). Nel 2017 Il Saggiatore ha pubblicato in un unico volume i suoi primi due romanzi (Cronaca di un servo felice e Camminando nell’aria della sera) sotto il titolo Costellazioni del crepuscolo. A cura di Andrea Cortellessa nel 2018 esce presso Aragno La plasmabilità artistica del cartone e il suo impiego nella scuola, con un racconto di Permunian e uno di Bruno Schulz. Infine le edizioni Theoria, nella collana di narrativa diretta da Andrea Caterini, oltre a Chi sta parlando nella mia testa?, hanno in programma di ristampare Nel paese delle ceneri.

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InstaMAAD Esperienze creative crescono di Cristiana Cobianco

Sono ragazzi ‘in viaggio’, con mille domande racchiuse in una conchiglia. Nel percorso ho visto sguardi cambiare, volti distendersi ed animarsi, mani cercare tra i materiali di recupero proposti, pennelli volteggiare creando mondi, fantasie e desideri prima sconosciuti.

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se le nuove tecnologie potessero essere strumento di socializzazione non virtuale ed alienante? Se fossero utilizzate solo come strumento di lavoro per la creazione artistica, la conoscenza reciproca e il divertimento? E se le impiegassimo in tal senso a ser vizio dell’educazione informale a contrasto delle povertà educative e del conseguente abbandono scolastico?

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InstaMAAD vorrebbe infatti diventare uno strumento da mettere a disposizione di insegnanti ed educatori, in un’alleanza che deve andare a combattere le povertà educative e l’abbandono scolastico.

A queste domande sta cercando di rispondere l’azione instaMA AD proposta dal MA AD (Museo d’Arte di Adria e del Delta), inserita nel progetto #sPOSTati finanziato dall’impresa sociale “Con i bambini”, nell’ambito del fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Le risposte giungeranno nell’arco del triennio, mettendo in campo azioni specifiche rivolte a ragazzi nell’età di passaggio tra i 10 e 14 anni, attraverso il lavoro di gruppo sia in ambito scolastico che extrascolastico. L’obiettivo è quello di far scoprire ai ragazzi, attraverso laboratori creativi di arte terapia, teatro, fotografia/scenografia e tecniche digitali audiovisive, nuove possibilità di utilizzo di tablet e smartphone, producendo opere digitali da allestire presso il MAAD di Adria assieme alle creazioni artistiche realizzate durante il percorso. 32 — FORME

Sandra Moda, Assessore al sociale del Comune di Adria, evidenzia l’importanza per l’ente locale ospitante di dare nuove e sempre più strutturate opportunità di crescita e confronto a bambini e giovani. Ciò vale soprattutto per quelli che vivono situazioni di isolamento sociale e culturale, che più di altri hanno diritto a luoghi sani di sperimentazione del loro essere uomini e donne di domani. Nel corso dell’estate la sperimentazione è cominciata in parallelo presso il Centro Estivo “Gioca Luglio” nella frazione di Baricetta e presso il MA AD con un gruppo di ragazzi, selezionato dal Comune per un’esperienza di animazione estiva pomeridiana. Entrambi contesti utili per lo studio delle diverse dinamiche di gruppo; da un lato nella dimensione rurale e dall’altro in quella museale e più urbana. Lavorare in gruppo, anche per gli esperti in campo, ha costituito un primo modello altresì per insegnare ai ragazzi a creare e star bene insieme diversamente da quanto avviene in ambito scolastico, soprattutto alle scuole medie, in cui ogni insegnante ha la “sua” cattedra e le “sue” ore.

“È stato per me un vero e proprio tuffo nei “ghiribizzi” dei ragazzi” scrive Andrea Zanforlin, responsabile del laboratorio teatrale: “È straordinario vedere come la magia del teatro, con i suoi giochi e in punta di piedi e con dolcezza, entra nei cuori...”. Un ragazzo scrive: “Ho imparato a sciogliermi con le persone: amici, coetanei e adulti. È un risultato che non si può ottenere da soli, lo si è raggiunto lavorando in un meravigliosa sintonia con Paola, Alberto e Tobia, i miei compagni di viaggio in questa avventura!”. Vero è che anche il “genius loci” dei ragazzi ha influito sull’esito positivo dell’esperienza. Tobia Donà, esperto di fotografia/scenografia, mi scrive: “Lavorare con i ragazzi nella cornice del Polesine mi ha dato modo di constatarne la diversa sensibilità rispetto ad altre esperienze che ho svolto in altre città. Permane in questi ragazzi una poesia speciale, che sono convinto provenga proprio dai ritmi di vita più attenti alle piccole cose, che li rende davvero unici”. Lo conferma anche Paola Cominato, che ha condotto i laboratori di arte terapia: “Curiosità, stupore, meraviglia, condivisione, timore, paura, ribellione, liber tà, espressione, cura, attenzione, felicità, imbarazzo, gentilezza. Queste le parole che hanno attraversato il laboratorio di arte terapia, raccontando quanto il periodo dell’adolescenza sia un momento di grande ‘turbolenza


emotiva’, dove l’identità appare un processo di ricerca ancora in via di definizione. Sono ragazzi ‘in viaggio’, con mille domande racchiuse in una conchiglia. Nel percorso ho visto sguardi cambiare, volti distendersi ed animarsi, mani cercare tra i materiali di recupero proposti, pennelli volteggiare creando mondi, fantasie e desideri prima sconosciuti. Credo che i ragazzi abbiano ricevuto da questi incontri il dono dell’affidarsi al processo creativo, così forte in ognuno di noi. Credo abbiano potuto condividere racconti e le esperienze attraverso piccole e timide parole, rafforzando il legame tra di loro. Penso abbiano sperimentato la fatica dello stare nel ‘qui ed ora’ che ogni relazione e lavoro su di sè richiede, allenando la capacità riflessiva. Per quanto mi riguarda, sono tornata spesso con il ricordo alla mia adolescenza, vissuta in questi stessi luoghi. Ho ripensato agli amici di un tempo, con i quali dipingevamo cartelloni e muri, scorrazzando lungo gli argini del Po in bicicletta. Osservando gli sguardi di ognuno di loro ho pensato che, in fondo, l’esperienza dell’infanzia e dell’adolescenza in questa zona del Polesine non è poi cambiata così tanto da allora. Vengono mantenuti legami molto forti con la natura e il territorio, con gli amici, i vicini di casa, la comunità. Ho pensato che questi ragazzi, malgrado internet ed i cellulari, abbiano una freschezza ed un desiderio di sperimentare che lascia molto spazio a laboratori di questo tipo”.

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Un altro aspetto messo in evidenza è stato quindi l’indagine nell’“età di frontiera” dei partecipanti. Alberto Gambato, filmmaker digitale che ha seguito i ragazzi per la parte di approccio al mezzo audiovisivo, racconta: “Lavorare sull’immagine in movimento, avendo come interlocutori ragazzi appena entrati nella fase dell’adolescenza, mi ha fatto pensare a come la loro fase evolutiva sia stata definita da qualcuno “linea d’ombra”. Demarcazioni, confini, differenze nette o più sfumate sono fattori emersi continuamente, in un processo a ritroso che ha puntato a togliere certezze, abitudini, banalità, in alcuni casi anche noia, riguardanti il rapporto con l’oggetto videofonino. Fin dall’inizio la traiettoria del progetto è stata dettata dall’adattamento al linguaggio dei destinatari, evitando di portare i ragazzi all’interno del lessico espressivo contemporaneo, ma cercando al contrario in quest’ultimo tratti distintivi, varchi, smagliature collegabili all’universo degli adolescenti. Strumento di gioco e comunicazione per loro spesso scontato, ma al contrario quasi mai contemplato come dispositivo di registrazione e/o falsificazione del reale, lo smartphone è diventato macchina da presa portatile e personalizzabile, occhio nella mano capace di aumentare le potenzialità sensoriali dei ragazzi. Nel dialogo con i formatori di espressività plastica e teatrale, il videofonino è stato utilizzato al fine di catturare pezzi di realtà per arricchirla – ren-

dendola iper – da un lato, ma percorrendo anche la strada opposta (o parallela?) che conduce al punto di costruire un mondo totalmente immaginifico”. Imparare a fidarsi delle persone, sciogliersi, divertirsi, rifare, conoscersi, sono i verbi più usati dai ragazzi nel raccontare l’esperienza vissuta. “Strano, ma molto fico” per entrare nel loro linguaggio, “vedere gli altri in un modo diverso”, “ ho ragionato molto sulle cose che abbiamo fatto e che nel quotidiano non si fanno”, “ in questi giorni mi sono divertita molto”. Si allestirà questa “strana esperienza” al MAAD nei prossimi mesi, e successivamente il metodo verrà portato in un ambiente scolastico nei mesi che seguiranno. L’allestimento multimediale coinvolgerà la cittadinanza, i genitori e il mondo dell’educazione scolastica e informale, al fine di condividere i risultati raggiunti anche con l’utilizzo delle nuove tecnologie digitali.

Tutte le foto sono state realizzate durante i laboratori del progetto InstaMAAD FORME — 35


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Un cielo pieno di stelle minori Il nuovo libro di Mattia Signorini intervista di Paola Piccolo e Annarosa Granata

Sono ritornato a Rovigo perché la provincia, con i suoi meccanismi sotterranei, continuava a chiamarmi ogni volta che mi fermavo anche solo per uno o due giorni. Poi, vivendoci, è capitato di dare vita a progetti come “Rovigoracconta” e la scuola “Palomar”, gocce in un mare che è la comunità.

O

gni nuovo libro che esce non è solo un’occasione di lettur a, di piacere, di crescita, di confronto: è anche una sfida, un nuovo modo per guardarsi intorno, per porsi delle domande nuove. Il nuovo libro di Mattia Signorini appena uscito da Feltrinelli non sfugge a questa regola. Si intitola Stelle minori, è da qualche mese nelle librerie ed ha riscosso un buon successo di pubblico e di critica. Non potevamo non PAROLE — 37


sentire Mattia, che, come si intuisce anche da questa intervista, non nasconde l’amore per la propria terra e non ha mai lesinato generosità nei confronti di essa: pur avendo lavorato per un periodo a Milano, i suoi sforzi di organizzatore culturale li ha voluti realizzare qui in Polesine e sono tra le iniziative di maggiore successo ospitate in questo territorio: la scuola di scrittura “Palomar” e il festival “Rovigoracconta”. L’intervista che segue è stata un’occasione per affrontare con Mattia molti aspetti della sua scrittura e della sua attività di operatore culturale; non solo, quindi, un modo per parlare del suo nuovo libro, ma una carrellata di domande, condita da risposte interessanti, su molti altri aspetti della scrittura, della lettura, del mondo della narrativa in Italia oggi. Giunto al suo sesto libro, Mattia Signorini si pone oggi come una voce da ascoltare della nostra narrativa, così come noi abbiamo fatto con grande attenzione. Ecco cosa ci ha detto. Quando hai deciso di scrivere questa storia? Da dove nasce l’idea? Due anni fa, dopo aver accantonato due storie di cui non ero convinto, ho scritto di getto il primo capitolo di Stelle minori. Nasce da un’urgenza che pulsa in ognuno di noi, il bisogno di indagare l’idea di verità anche se la verità oggettiva è irraggiungibile. Noi stessi, quando raccontiamo la nostra 38 — PAROLE

vita, la ricostruiamo dai ricordi. Come dice Zeno, il protagonista, i ricordi non sono altro che alcuni dei pezzi di stoffa che compongono l’intero vestito. Quanto c’è di biografico e quanto di fantasia? Quando inizio a scrivere un romanzo esploro mondi che ancora non conosco. Metto in fila domande di cui non ho la risposta. Il mio vissuto entra sicuramente nelle pagine, ma lo fa in modo inconscio, nel racconto delle urgenze, degli stati emotivi, ma non nella storia. Un personaggio, quando nasce, vive di vita propria. Cosa consiglieresti ora al te stesso che è stato un giovane esordiente? Di pensare solo a scrivere e di mettere sempre in dubbio ogni parola. Di buttare e di riscrivere. Di concentrarsi sul percorso e non sul singolo libro. Qual è l’elemento essenziale per creare una buona storia? Dare vita a personaggi veri, che pulsano, e avere ben chiaro dove uno scrittore vuole andare. Non pensare mai: “Intanto inizio a scrivere, poi vediamo cosa succede.” Il rischio è quello di fermarsi dopo poche pagine. Un romanzo inizia molto tempo prima della stesura. Va portato dentro di sé e fatto maturare per mesi. Quanto spazio c’è nell’editoria di oggi per i giovani esordienti? Quale un possibile percorso?

C’è molto spazio, anche se da fuori potrebbe non sembrare così. Quella che è aumentata, per quanto riguarda gli scrittori “puri” (che non hanno cioè alle spalle una community forte di qualche tipo) è la richiesta di qualità. Un romanzo deve arrivare in casa editrice già molto maturo. Ho fondato una scuola di scrittura, la “Palomar”, che in pochi anni è diventata in Italia la realtà che fa pubblicare il maggior numero di esordienti per i grandi editori. Quando dalla scuola esce un buon romanzo, gli editori non vedono l’ora di leggerlo. Tra 10 anni, come sarà l’editoria italiana? Spero sempre curiosa di pubblicare buoni libri. Viste le numerose citazioni di libri e autori presenti in Stelle Minori, quali sono libri che ti hanno segnato come persona? Quali come scrittore? Ho iniziato a scrivere seriamente quando alle superiori ho letto Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Lì erano citati Due di Due di Andrea De Carlo e Altri Libertini di Pier Vittorio Tondelli. Soprattutto quest’ultimo nella mia adolescenza è stato fondamentale: mi ha mostrato come fosse possibile creare un’epica narrativa delle piccole cose. Ma i libri che hanno segnato il me adulto sono Il Maestro e Margherita di Bulgakov e Cent’anni di solitudine di Marquez. Durante una presentazione del li-


bro hai fatto riferimento all’importante aiuto del tuo editor. Un paio di domande in merito: Cos’ha l’editor in più dello scrittore? Se lo stesso editor lavora per più scrittori, non si corre il rischio di omologazione? L’editor è una figura professionale fondamentale ed è presente in ogni casa editrice. Lavora con gli scrittori per dare definizione a un libro attraverso un processo maieutico, di confronto sui personaggi, sulla storia, sulle tematiche. È simile a un preparatore atletico. Quando ci si dedica a una storia per uno o due anni, si finisce per rimanerci troppo dentro. Un editor osserva il processo creativo dall’alto. Vorrei sfatare una convinzione comune: un bravo editor non interviene mai sul libro riscrivendone delle parti né prende decisioni al posto dell’autore. È piuttosto una guida saggia. Con Stelle minori ho avuto la fortuna di lavorare insieme a Laura Cerutti, la responsabile della narrativa italiana di Feltrinelli e tra gli editor più importanti in Italia. Mi ha aiutato ad alzare il tiro della sfida, anche quando il traguardo mi sembrava lontano o troppo faticoso da raggiungere Tu sei andato via, ma poi hai deciso di ritornare nella tua città d’origine: sei stato spinto dalla voglia di riscattarla? Sono ritornato a Rovigo perché la provincia, con i suoi meccanismi sotterranei, continuava a chiamarmi ogni volta che mi fermavo anche solo per uno o due giorni. Poi, vivendoci, è capitato di dare vita a progetti come “Rovigoracconta” e la scuola “Palomar”, gocce in un mare che è la comunità. La comunità della mia città e del Polesine è fatta di tante persone che si PAROLE — 39


danno da fare ogni giorno per portare bellezza. Quali sono secondo te le potenzialità di Rovigo e del Polesine? È un meraviglioso territorio di confine. È la nostra Camargue, potrebbe diventare un punto di riferimento in Italia per il turismo slow, ma c’è ancora molto da costruire a livello comunicativo e di servizi. Non siamo ancora in grado di avere una visione di ampio respiro. Nonostante tutto amo questa terra, anche per le sue contraddizioni. Cosa ti ha lasciato Milano da portare nella tua esperienza a Rovigo? Forse un approccio diverso al lavoro, soprattutto quello che mi riguarda: la cultura e la comunicazione. Quando mi trovo a sviluppare un nuovo progetto, mi domando sempre: “Cosa si può fare di più? Come si può portare l’asticella un po’ più in alto?” Parliamo un po’ del successo di “Rovigoracconta”, un festival che av vicina alla lettura moltissime persone, forse anche grazie ad interventi di “persone note”: è forse questa la chiave del suo successo? “Rovigoracconta” ha iniziato ad avere molto pubblico quando ancora c’erano pochi artisti conosciuti. I grandi nomi sono arrivati in seguito all’aumento degli spettatori. L’aspetto che mi rende felice è che vanno esauriti anche gli incontri di autori di grande talento, ma meno conosciuti. Credo che la sua forza stia nella cura che ci mettiamo, 40 — PAROLE


non solo io e i ragazzi che ci lavorano, ma soprattutto Sara Bacchiega, l’altra anima del Festival, senza la quale non sarebbe mai nato e non potrebbe continuare. Il ruolo della scuola sulla lettura: l’obbligo spinge gli studenti alla repulsione verso i libri? Gli obblighi non portano mai a niente di buono. Visto che per te è più importante leggere che scrivere, quali consigli hai da dare ai ragazzi per amare la lettura? Ne incontro tanti, quando vado nelle scuole o durante l’organizzazione di “Rovigoracconta”. Sono molto più

svegli e curiosi degli adulti. Il loro disinteresse verso il mondo è un falso mito. Come pretendiamo che un ragazzo legga libri se l’ecosistema intorno a lui non è denso di lettori? I primi grandi lettori dovrebbero essere prima i genitori e poi gli insegnanti. Ho conosciuto e continuo a conoscere insegnanti che amano i libri, che ne portano sempre uno con sé. Non impongono obblighi, ma mostrano passione. E molti dei loro studenti sono dei grandi lettori.

Le foto di Mattia Signorini sono di Andrea Verzola (p. 37) e di Sara Bacchiega (p. 40)

Le due autrici di questa intervista, Paola Piccolo e Annarosa Granata, hanno partecipato al Corso di Scrittura (e di Lettura) condotto ad Adria da Sandro Marchioro e organizzato da Apogeo Editore. Assieme a loro, altri 12 iscritti (Alessia Rizzo, Desy Pregnolato, Simone Bassato, Maurizio e Michela Baraldi, Roberta Paesante, Lorenza Bego, Chiara Galdiolo, Alessandra Borella, Danilo Trombin, Mario Bellettato e Monica Scarpari) hanno seguito le 20 “lezioni”, che ora stanno proseguendo con alcune serate tematiche dedicate ad alcuni dei più noti scrittori italiani: Pier Paolo Pasolini, Mario Soldati, Primo Levi, Giovanni Comisso, Natalia Ginzburg. Da questa esperienza è nata un’iniziativa editoriale dal titolo “Le seconde possibilità”, curata da Sandro Marchioro e pubblicata nella collana èstra di Apogeo Editore diretta da Daniela Rossi, che raccoglie in antologia 12 racconti di autori, quasi tutti esordienti. Il libro si può acquistare in alcune librerie e in tutti gli store online.

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Nato per divertire grandi e piccini Il Teatro Amico di Fratta Polesine di Cristina Sartorello

La compagnia, che vanta ormai un’esperienza trentennale, raggiunge le sue destinazioni con una Bianchina del 1968, completamente dipinta a mano: un’esplosione di colori che ad ogni occasione cattura l’attenzione di adulti e bambini.

L

a compagnia del Teatro Amico nasce nel 1984 a Fratta Polesine dalla passione per lo spettacolo dal vivo del suo fondatore Adriano Farinelli e di altre persone interessate al teatro d’animazione. Il nome della compagnia prende origine proprio dalla volontà di dar vita ad un gruppo affiatato di amici e collaboratori con il solo scopo di vivere il teatro nel modo più semplice possibile, divertendosi e facendo divertire. STORIE — 43


Conosco Adriano da allora, si andava insieme in piazza a Rovigo con i primi banchetti dell’Unicef. E conoscevo già i suoi burattini con i quali mia figlia ha tanto giocato. Adriano mi racconta che già a Milano, sua città di nascita, era viva la passione per il teatro. A 15 anni recitava in una compagnia teatrale, poi con lo studio di Goethe all’università ha approfondito la ricerca nel teatro e nei burattini. Ricevette in regalo un teatrino ed ebbe modo di sperimentare l’importanza della crescita psicologica nei bambini. Laureato in Lingue e letterature straniere, ha sempre lavorato in banca ed è un autodidatta nell’ambito teatrale. Con i suoi testi, sia di carattere storico sia favolistico, ha vinto numerosi premi. Le sue farse e le sue brevi produzioni ispirate alla tradizione popolare (con particolare riferimento ai repertori della famiglia Sarzi) hanno avuto nel tempo il merito di proseguire nel territorio rodigino la proposta del teatro di burattini Il suo percorso si è modificato negli anni, in origine i testi da lui scritti per la rappresentazione ludica, molti ex novo, altri come rielaborazione di favole classiche, potevano essere compresi da un certo tipo di pubblico, colto e selettivo, mentre nella provincia veneta, dove nel frattempo di era trasferito, questi testi non erano adatti perché di difficile lettura. Ha quindi dovuto renderne più scorrevole la narrazione, soffocando 44 — STORIE


così in parte le sue passioni. Il burattinaio colto lavora sull’ironia, ma anche su piccole drammatizzazioni storiche, rendendole più attuali. Ne sono un esempio i testi scritti per i fatti della Carboneria a Fratta Polesine o per la rievocazione “Arriva Garibaldi” a Lendinara; per ricreare in modo più autentico l’atmosfera del periodo risorgimentale, “Teatro Amico” ha dato vita a due spettacoli a sfondo storico, proprio come usava nel passato, che mostrassero al grande pubblico le gesta di eroi e personaggi. La compagnia è nata in famiglia ed è composta da Adriano, dalla figlia Selene, che si è laureata a Ferrara proprio con una tesi sui burattini (e ora è regista teatrale di opere liriche), che qui è voce femminile e curatrice degli aspetti scenici e dalla moglie Anna Chinarello, storica maestra di Fratta Polesine, che grazie alla sua laurea in pedagogia e alla sua esperienza con i bambini, è di prezioso aiuto nella preparazione manuale dei burattini e confeziona i vestiti adatti ai vari contesti. Fanno parte dello staff anche Gino, burattinaio con grandi doti performative, Tiziano, tecnico e voce e Adriana, seconda voce femminile. La compagnia, che vanta ormai un’esperienza trentennale, raggiunge le sue destinazioni con una Bianchina del 1968, completamente dipinta a mano: un’esplosione di colori che ad ogni occasione cattura l’attenzione di adulti e bambini: conserva le por-

A p. 43 Adriano Farinelli, nella pagina accanto alcuni dei burattini utilizzati negl i spettacol i (foto di Cristina Sartorello), qui sopra e nelle altre pagine l’insegna di una delle iniziative più recenti e la compagnia al lavoro. STORIE — 45


bre burattinaio di Parma), La sposa e la cavalla (farsa mutuata dal teatro di prosa) o Salacca ai bagni di Salsomaggiore.

te antivento, il clacson originale, è ammiratissima e trasporta sul tetto il teatrino per i burattini, costruito dallo stesso Farinelli, che è anche abile falegname. Il reper torio del “Teatro Amico”, frutto di anni d’esperienza, comprende storie divertenti della durata di 10/15 minuti ciascuna. Molte sono le farse dialettali ambientate nel mondo rurale, in cui i personaggi, diventate macchiette, riescono a dar vita a situazioni esilaranti. Molto ricco è anche il repertorio di fiabe tradizionali per le scuole dell’infanzia e per la scuola primaria, che si sviluppa in laboratori nel corso dei quali i bambini ascoltano un testo elaborato che conduce ad aspetti interattivi dello spettacolo quando, ad esempio, il lupo fa una domanda 46 — STORIE

al bambino, che rispondendo diventa a sua volta attore. Salacca è il personaggio di punta della compagnia. Creato all’inizio del ‘900 da un autore veneto, è un contadino rozzo e allo stesso tempo simpaticissimo che si caccia spesso in situazioni particolari e dà vita ad una comicità giocata sui suoi strafalcioni, soprattutto linguistici. Il suo burattino è stato realizzato su misura da uno scultore per rendere al meglio l’aspetto dello stupidotto. Tratti dalle storie e dalle farse del folclore incontriamo poi Sandrone e Polonia (che appartengono alla tradizione modenese), Fagiolino, Carolina, Pantuga e tante altre figure. Alcune trame sono estrapolate e riadattate da altre opere, come Il Merlo (ripreso da Italo Ferrari, cele-

Per gli spettatori più piccoli il “Teatro Amico” propone un repertorio che spazia dalle favole più conosciute a storielle tratte da tradizioni popolari: Cappuccetto Rosso, I tre porcellini e Pierino e il lupo rimangono le più richieste, ma anche avventure meno note catturano l’attenzione dei bambini. Ari ari ciuco mio butta denari è tratta dalla raccolta Fiabe italiane di Italo Calvino, Barba Sucon Suchela è una fola proveniente dalla civiltà contadina, Il pescatore e il pesciolino è tratto da una novella di Puskin. A Natale, infine, i bambini potranno ascoltare le storie di Babbo Natale e della Befana. Nel repertorio sono presenti anche alcuni testi sul tema dell’integrazione sociale: favole e musiche africane, che avvicinano i bambini attraverso il riso e il gioco alla conoscenza ed al rispetto di tutti coloro che nella società sono considerati “diversi”. Anche gli anziani hanno assistito, con spettacoli a Casa Serena a Rovigo, hanno assistito a spettacoli della compagnia. Ogni vicenda, pur essendo basata su un canovaccio, è giocata sull’improvvisazione e sull’interattività, nella consapevolezza di quanto sia importante per chiunque non essere considerati spettatori passivi bensì protagonisti di una forma di spettacolo rigorosamente dal vivo.


Nel corso della rassegna culturale di Fratta Polesine “Incontrare Carlo Goldoni tenutasi a Villa Badoer nell’estate 2008, il “Teatro Amico” si è fatto promotore e organizzatore di uno dei suoi spettacoli più ricercati e apprezzati “La Pelarina”, un testo per burattini scritto da un giovanissimo e ancora acerbo Carlo Goldoni e ritrovato attraverso le sue Memoires; nell’occasione si crearono costumi per i burattini in stile veneziano settecentesco a dar voce ai personaggi furono alcuni attori provenienti da Venezia che evidenziarono cadenze ed accenti propri del grande commediografo. Adriano porta i suoi spettacoli a Fratta Polesine, a Rovigo, ma anche in giro per l’Italia, nelle librerie Libraccio e non solo, sempre a bordo della sua storica Bianchina, che ormai fa parte della scenografia e che viene parcheggiata nei pressi della scena. Nel 2017 ha ricevuto il Premio nazionale “Ribalte di Fantasia” con questa motivazione: ”Arte e sentimento, una vita per i burattini” e nel 2018 il Premio alla tradizione in qualità di “splendido burattinaio cantastorie”. In un evento per l’Unicef a Rovigo dove era stato invitato il grande Mimmo Cuticchio del “Teatro dei Pupi” si era parlato con Adriano della magia della loro narrazione storica. Io penso che opera altrettanto meritoria abbia compiuto Adriano Farinelli con il suo “Teatro Amico”, contribuendo a portare gioia e stupore a tanti bambini, ma anche a tanti adulti, per la sua capacità affabulatoria nel raccontare storie popolari o epico cavalleresche, per riuscire a farci sognare e ritornare piccini.

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“La Casa-Rosa”, un’opera nata dal cuore Ricordo di Paola Giovanna Manzolli Modonesi di Enrica Zerbin

1992. Torreglia, Giovanna Manzolli Modonesi riceve il “Premio per la Cultura Veneta”

Nel ricordare Giovanna Modonesi non si può tralasciare il suo lavoro, o forse è più appropriato dire la sua “missione”. Era insegnante nel periodo più buio di Scardovari, quando bambini di 8 o 9 anni portavano sulle spalle il bagaglio pesante fatto di duro lavoro nei campi, nella mancanza dei giochi e in una infanzia rubata per dover crescere in fretta, cavarsela da soli e, spesso, dover accudire i fratelli più piccoli.

Q

uesto mio lungo racconto autobiografico è nato e cresciuto per desiderio dei miei figli: Stefano e Pierpaolo. Il quasi tutto ricuperato non so come, fra trambusti frenetici di alluvioni sciroccali ad ogni luna piena, con l’acqua che preme alla porta mentre cerchi alla rinfusa di salvare le cose più care, più necessarie. E ogni volta incertezze su ciò che è valido o no... Comincia così La Casa-Rosa di Paola PERSONAGGI — 49


Il modo migliore per ricordare Giovanna è condividere le sue riflessioni e le sue memorie. È con l’entusiasmo nel cuore che mi colloco sull’onda del passato e a favore di vento alzo le vele dei ricordi. Il pensiero di una giovane donna, già capace di traiettorie compassionevoli e filantropiche, prende consistenza negli anni a cavallo delle due grandi Guerre.

1952. Ettore Modonesi con la moglie Giovanna e i figli Stefano e Pierpaolo

Giovanna Manzolli Modonesi, un’opera scritta per raccogliere le idee, per non dimenticare. Tutte le narrazioni, le storie che si tramandano dai genitori ai figli hanno il potere di creare cultura e conoscenza. Questo libro autobiografico, tuttavia, scritto tra il ’62 e il ‘63, non racconta solo le “storie di una volta”, ma utilizza uno stile sentimentale e poetico per ricordare fatti che hanno preceduto e seguito la Seconda guerra mondiale, le tante alluvioni e l’esistenza, spesso aspra e combattuta, di tanti portotollesi in quegli anni di esondazioni del fiume. La nostra terra, lo sappiamo, ha una storia recente. Siamo i figli del Taglio di Porto Viro, l’imponente opera idraulica messa in atto dalla Repubblica di Venezia nei primi anni del 1600 che portò a bonificare ampi territori prima appartenuti al mare. 50 — PERSONAGGI

Giovanna Manzolli nasce a Papozze di Rovigo il 24 gennaio del 1917, quar togenita di sei figli, quattro femmine e due maschi. La sua vita iniziò dunque nel corso di uno dei conflitti più sanguinosi del cosiddetto “Secolo breve”. “Non andate alle canapaie, mi raccomando! Ci sono i disertori”. “Chi sono i disertori, Pasqua?” “I soldati che scappano in tempo di guerra”. “Perché scappano?” “Perché non vogliono fare la guerra”. “Ma se non vogliono fare la guerra non sono cattivi!” “La guerra gli uomini la devono fare, altrimenti gli altri soldati ci ammazzano tutti”. La logica della Pasqua non mi convinceva del tutto, e mi faceva perdere la mia.

“Lo spirito democratico, qui, è sempre stato vivo e operante come modo di vita, prima ancora se ne conoscesse nome, derivanze e significato. Democrazia! Sostantivo conteso e sbandierato oggi, anche con violenza dalle “multi-verità democratiche” ognuna delle quali si dichiara l’unica, la sola portatrice di tutti i beni, quando sarebbe tanto semplice seguire la piccola regola d’oro riportata da Matteo nel suo Vangelo: «[…] dunque, quello che vorreste che gli uomini facessero a voi, voi pure fatelo a loro» oppure «[…] non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi» che è molto meno, ma sufficiente per vivere meglio tutti. L’amicizia non è sentimento da citare quale tesoro o fiore raro, no! E solo una disposizione dell’animo a tutti congenita, poiché l’uomo è “animale” sociale, di gruppo. Dove si abbatte l’imprevisto, la sfortuna, lì è subito la catena dell’amore, senza aspettare chi di dovere e di competenza per dare una mano a rimettere in piedi ciò che la sventura ha prostrato. Non fa notizia, da noi, non è un eroe colui che si getta ancora vestito nel fiume per soccorrere l’incauto, o l’incosciente in


difficoltà per l’insidia dei gorghi e della corrente; oppure l’altro che si butta tra le fiamme per salvare il cane. Nel tempo della mia giovinezza, quando la miseria era miseria e basta, era naturale chiedere aiuto, ed elemosinare di casa in casa per le persone in difficoltà più grandi delle loro forze. E si andava di borgata in borgata con semplicità, senza corno né tromba, senza sentirsi missionari né diversi, con il cuore leggero e la carriola carica di testimonianze d’amore”. Svanisce in quello che scrive la linea sottile che separa il “racconto di una volta” dall’imprescindibile verità che dovrebbe essere di ieri ma anche di oggi e di domani; il tracciato del tempo perde i contorni e si cancella, come accade sulla battigia accarezzata dalle onde.

1954. Giovanna con gli alunni Stefano e Loredana

Oltre alle grandi guerre anche il Po, in quegli anni, non ancora messo in sicurezza nelle arginature, spesso invadeva interi borghi e gli abitanti finivano travolti dal fiume, complici i cicli lunari e il vento. Il mistero allora si impadroniva dei racconti degli anziani e le loro parole trovavano terra fertile negli occhi lucidi d’emozione. “[…] una specie di lago di circa otto-novemila metri quadrati, lasciato da una furiosa rotta del Po dopo aver sepolto in quel posto, raccontavano i vecchi, un intero borgo col suo campanile. La frazione sorta attorno allo stagno stesso si chiamò Rotta. Ogni tanto affiorava qualche utensile; una volta sulle acque lisce vidi galleggiare

1959. Scuole elementari di Scardovari PERSONAGGI — 51


1963. Scuole elementari di Scardovari, VII classe. La maestra con i suoi allievi una culla. Ogni oggetto sorgeva insieme a mille leggende. Di giorno era uno stagno, ma… la notte c’era chi assicurava si sentisse il tocco della campana sepolta e i lamenti di coloro che erano morti in peccato. Non si poteva pescare nella Rotta, l’acqua era benedetta e maledetta insieme, c’era però il figlio dei Gorgo che rideva di queste storie. Aveva quattordici-quindici anni… e un giorno il vento portò a riva la barca, sola. Vuota...” Nel ricordare Giovanna Modonesi non si può tralasciare il suo lavoro, o forse è più appropriato dire 52 — PERSONAGGI

la sua “missione”. Era insegnante nel periodo più buio di Scardovari, quando bambini di 8 o 9 anni portavano sulle spalle il bagaglio pesante fatto di duro lavoro nei campi, nella mancanza dei giochi e in una infanzia rubata per dover crescere in fretta, cavarsela da soli e, spesso, dover accudire i fratelli più piccoli. Per quei figlioli, Giovanna Modonesi rappresentò una luce. Educarli alla cultura era uno dei suoi obiettivi; erano per lei persone che stavano crescendo e andavano guidati con attenzione nella scoperta dei loro talenti, nascosti tra debolezze e dif-

ficoltà, in una vita che lasciava poco spazio ai sogni e ad una fanciullezza spensierata. Li aiutava con amore a diventare adulti informati, capaci di maturare un pensiero autonomo e cercava di insegnare loro la bellezza dei sogni e del pensiero creativo. “Nel cinquanta la vita mi portò nel cuore del Delta, a Scardovari. Sull’estremo confine del mondo mi sentii, appena giunta… Dario da Pellestrina, nove anni, tanta paura, sì, del vento paron, ma portava la barca fra nebbie, intemperie e vortici delle piene e delle alte maree con tocco sicuro e senza


tremore, tutti i giorni di scuola. Nell’isola non c’erano le classi del II ciclo. Bambini, e bambine, specialmente! Di dieci anni appena, con esperienze da far rabbrividire. Un mondo piatto senza richiesta di elevazione, né culturale né spirituale. Le scuole (scuole?) sulla lissiara di don Aldo, finché non venne costruito l’attuale grande edificio. Eppure i nostri bimbi, a casa, insegnavano alle loro mamme a sillabare Grand-Hotel e Bolero”. Il figlio Pierpaolo la descrive come una guida all’emancipazione femminile, con un pensiero così nuovo per il piccolo paese. Ecco le sue parole: “L’essere femminista derivava dal suo grande senso della libertà e dal rispetto per gli altri, inteso come considerazione dei diritti di tutti gli es-

seri umani, senza distinzione alcuna. Per lei era fondamentale l’istruzione dell’individuo, intesa come capacità di capire il mondo per poi, di conseguenza, migliorarlo”. Pierpaolo volle fortemente pubblicare “La Casa-Rosa” provvedendo alla stampa e alla distribuzione. Tutte le copie, circa 1500, furono date solo a chi lo desiderava sinceramente, con allegato un bollettino postale di 18.000 lire. Il ricavato sarebbe andato a beneficio della Ricerca contro il cancro, in accordo con il dottor Siviero di Rovigo. All’associazione arrivò una cifra di circa 25 milioni di lire. Era questo il proposito della famiglia Modonesi, fare del bene con

un’opera nata dal cuore, creare condivisione e aiuto concreto con un libro che voleva essere una dichiarazione d’amore alla vita. Giovanna Modonesi scrisse un numero impressionante di poesie, veramente tantissime!, raccolte in due volumi: uno contenente le poesie in dialetto e uno quelle in italiano. Eccone una, nel suo struggente ricordo. UNA ROSA DI GENNAIO Non è vero che tutto finisce quando i capelli non sono più neri e i sogni muoiono nell’alba bianca. Ho visto soltanto ieri fiorire una rosa. Una rosa di gennaio.

Nel sito del Comune di Papozze è riportata una testimonianza del dott. Dino Felisati su Giovanna Paola Manzolli Modonesi che qui riassumiamo: “Era dotata di una intelligenza e di una sensibilità che ne hanno fatto una poetessa e una scrittrice di qualità straordinarie, ampiamente riconosciute. Ho avuto la fortuna di avvicinarla e conoscerla attorno al 1970 e subito si è stabilita con lei una intesa perfetta, basata su una stima profonda e sulla comunione di interessi culturali. Ne è nata una amicizia intensa. Giovanna ha cantato in mille modi il Po, le alluvioni, i suoi abitanti, la Casa Rosa dov’era nata e vissuta, fino a quando aveva sposato Ettore Modonesi che fu medico condotto a Scardovari per una vita; Giovanna fu insegnante elementare prima a Panarella, poi a Papozze, a Pettorazza, a Scardovari e infine a Rovigo. La sua produzione poetica è enorme: oltre 400 composizioni che trattano una infinità di temi: la scuola, i figli, l’amore, la maternità, la bellezza del creato, Dio… E sempre parla di sentimenti, di pulizia interiore, di forza d’animo e spesso si chiede: perché? Perché il fine – e non solo per il poeta – è la ricerca della verità. Per la sua opera poetica ha avuto numerosissimi riconoscimenti, premi letterari, giudizi estremamente positivi espressi da autori del calibro di Diego Valeri, Manara Valgimigli, Biagio Marin”.

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Serenella Antoniazzi FANTASMI Storie di uomini e donne invisibili 168 pagine euro 15,00 isbn: 978-88-99479-49-7 La grande fuga delle trote inglesi, 11

“[...] Ѐ brava l’autrice a immergersi in vite che non sono la mia, come direbbe Emmanuel Carrère. E a consegnarle al lettore dando voce a chi non l’ha mai avuta. I fantasmi, appunto. Danneggiati da anni di orrori”. Francesca Visentin, Corriere del Veneto

Agnese racconta a Serenella, durante un pranzo di famiglia, episodi della sua vita professionale di infermiera, iniziata quarant’anni prima in una Casa di Riposo. Agnese prende per mano Serenella e la conduce dentro vite che non possono essere dimenticate. Serenella, a sua volta, accompagna il lettore in punta di piedi dentro queste storie, trasformando in parole le emozioni che ha sentito nascere dentro di sè. Conosciamo così Violet, Paolo, Silvano, Angela, Matilde, Maria, Odilia e, con loro, tutti gli altri protagonisti di questo libro.

apogeoeditore.it 54 — PERSONAGGI


TTramandare la Memoria Storie inedite di internamento coatto tra Asolo e Adria intervista di Daniela Rossi

Un percorso di ricerca approfondisce una pagina di storia locale ancora sconosciuta e ha come protagonisti 80 ebrei croati che vennero confinati nella città di Asolo. Nel loro peregrinare alcune di queste famiglie transiteranno per i territori del Delta.

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oi siamo la nostr a memoria. L a memoria è l’anima. Non solo individuale, ma collettiva: la memoria è sempre memoria dell’umanità”, affermava Umberto Eco. Oggi però pare che la tendenza sia quella di rimuovere o ignorare le vicende storiche del nostro passato, e il rischio di ripetere errori fatali è sempre più concreto. I progetti di recupero storico per tramandare la memoria STORIE — 55


sono occasioni di riflessione per le nuove generazioni, perché non basta limitarsi a una giornata che celebri avvenimenti o ricordi fatti per raccogliere il testimone della storia di un Paese, la conoscenza della propria storia sta alla base dell’evoluzione di una società. Divulgare e far conoscere libri o studi che riportino alla luce eventi caduti nell’oblio significa fare Memoria, come in una particolare ricerca storica, condotta da Vittorio Zaglia, che parte dalla Croazia, passa per Asolo e transita anche per Adria. È uscito nella collana saggistica di Cleup la prima pubblicazione dell’Academia dei Rinnovati di Asolo dal titolo Messaggi in bottiglia. 56 — STORIE

Ebrei stranieri ad Asolo, un libro di Vittorio Zaglia, nato a seguito di un incontro sul tema dell’internamento coatto tenutosi lo scorso mese di febbraio. L’iniziativa, promossa proprio dall’Academia asolana, è la conclusione di un percorso di ricerca condotto da Emmanuele Petrin e Vittorio Zaglia che approfondisce una pagina di storia locale ancora sconosciuta, e ha come protagonisti 80 ebrei croati che vennero confinati nella città collinare. Nel loro peregrinare alcune di queste famiglie transiteranno per i territori del Delta. Ho intervistato Vittorio Zaglia, autore di questo interessante testo, per approfondire il legame tra due territori, l’asolano e l’adriese, che hanno condiviso le tragiche vicende legate a uno dei momenti più bui della storia del Novecento.

Come si è riuscito a ricostruire il viaggio e la storia di questi ottanta ebrei croati che trovarono rifugio ad Asolo? L’avvio della ricerca è stato assolutamente casuale. Qualche anno fa, leggendo dell’attribuzione del titolo di “Giusto fra le nazioni” alla memoria di Monsignor Oddo Stocco – parroco di San Zenone degli Ezzelini negli anni della Seconda Guerra Mondiale – ero venuto a conoscenza che ad Asolo erano vissuti per quasi due anni, in internamento libero, circa ottanta ebrei croati, scampati alle persecuzioni naziste nel loro Paese. Il numero mi sembrava eccessivo. La conferma mi arrivò dall’amico storico Daniele Ceschin che mi suggerì di consultare il faldone di documenti


relativi a quegli avvenimenti, presso l’archivio del Museo di Asolo. Da qui partì la mia ricerca. Un successivo passo fondamentale fu il contatto con Emilio Drudi, un giornalista che aveva pubblicato per l’editore Giuntina nel 2012 il libro Un cammino lungo un anno. Gli ebrei salvati dal primo italiano “Giusto tra le nazioni”. In questo volume vengono ampiamente trattate le vicende di un gruppo di ebrei croati, nascosti tra Bellaria, paese della riviera romagnola, e Pugliano, nel Montefeltro, da settembre 1943 a giugno 1944. Ebbi la conferma proprio da Drudi che si trattava proprio di una trentina di ebrei fuggiti dal campo di internamento di Asolo, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. A questo punto coinvolsi Emmanuele Petrin, profondo conoscitore di

storia asolana, cercando di ottenere una testimonianza diretta dai pochi Asolani superstiti dagli anni di guerra, ormai ultra novantenni. Il nostro scopo era soprattutto quello di capire come fosse il clima ad Asolo in quegli anni, e la natura delle relazioni con la popolazione locale. Volevamo anche identificare le abitazioni dove avevano alloggiato gli internati. Quello che ci colpì immediatamente fu l’assoluto vuoto di memoria relativo a questi episodi fra gli abitanti di Asolo. Possibile che nessuno avesse avuto qualche notizia in proposito dai propri genitori? Che nulla fosse stato loro raccontato di quegli anni? In realtà, ci rendemmo conto che questa specie di damnatio memoriae era stata voluta dal regime fascista, che aveva imposto a queste persone di vivere nel più

totale isolamento, obbligandole a non aver alcun contatto con la popolazione locale. Ci fu, ovviamente, anche fra gli Asolani chi cercò di rendere meno dura la vita quotidiana degli internati (che non potevano lavorare, né sedersi in un locale pubblico, né mantenere rapporti di buon vicinato), in generale, gli episodi di intolleranza nei confronti degli ebrei croati non furono molti e vi fu anche chi cercò di aiutarli, addirittura allestendo una scuola per i ragazzi del gruppo. Questa quotidianità di vita negata è forse l’emblema che più ci ha colpiti nel ricostruire l’intera vicenda. Nella sua ricerca emerge che Adria fu una tappa determinante per alcuni nuclei familiari di questi ebrei asolani. Mi può dare qualche dettaglio? STORIE — 57


mente il memoriale scritto da Joseph Konforti nel 1995, il quale racconta che – giunti nella cittadina – gli ebrei asolani si rivolsero al capitano della locale stazione dei carabinieri, che fornì un lasciapassare per giungere fino a Rimini. Ad Adria, dove gruppo restò un paio di giorni, riuscirono a noleggiare un automezzo, che li portò fino a Bellaria.

La ricerca storica relativa alla Shoah ha approfondito, negli ultimi anni, molti aspetti specifici della persecuzione degli ebrei, trascurati forse inizialmente da una storiografia rivolta esclusivamente al dramma dello sterminio. In realtà, non tutti i campi gestiti dalle truppe naziste e dai loro alleati prevedevano strumenti di morte di massa come le camere a gas e i forni crematori. Molti fuggirono dai territori occupati dalle truppe italiane e da città come Spalato e Lubiana arrivarono migliaia di profughi, che i comandi militari italiani non sapevano come gestire. Ufficialmente Mussolini non consentì mai al trasferimento di questi prigionieri ma – di fatto – lasciò fare. Arrivarono in Italia tutti coloro che potevano dimostrare di avere mezzi sufficienti 58 — STORIE

per sostenersi. Nacque così l’istituto alquanto anomalo dei “campi di internamento libero, entro i confini della razza”. Molti furono allestiti in Veneto, vista la vicinanza con i territori occupati, e le province maggiormente interessate furono: Treviso, Rovigo e Vicenza, dove quasi ogni amministrazione comunale fu costretta ad accoglierli. Degli ebrei croati arrivati ad Asolo tre di loro i fratelli Hirschl: Cwijet, Mirko e Ljerka scapparono da Asolo, dopo l’8 settembre 1943, per andare ad Adria a cercare la sorella Blanka, ma non la trovarono, perché era già fuggita verso sud con il marito. I quattro fratelli si riunirono solo qualche tempo dopo a Bellaria (in provincia di Rimini), dove rimasero nascosti fino al 1944. Della sosta ad Adria tratta diffusa-

Per molto tempo queste vicende sono state avvolte da un pesante oblio, il progetto Messaggi in bottiglia, come lo definisce lei, vuole essere un atto di riparazione che non si concluderà con questa pubblicazione. La sua ricerca proseguirà? Magari ripartendo proprio da quelle tracce lasciate dalle famiglie nei territori del Delta? Il titolo Messaggi in bottiglia mi è stato suggerito dalla lettura di un’ode ad Asolo, scritta da Jasha Levi, uno degli internati, che poi divenne scrittore e giornalista negli Stati Uniti, essa racconta della sua abitudine di scrivere messaggi, prevalentemente di speranza, che poi inseriva in bottiglie interrate nei campi intorno ad Asolo. Da quando ho iniziato la ricerca, oltre un anno fa, l’obiettivo di sapere cosa ne è stato degli internati ad Asolo dopo la guerra è divenuto per me un obiettivo prioritario, e mi piacerebbe continuare a seguire le tracce di quelli che lasciarono Asolo. Sono a conoscenza di molti studi, alcuni già pubblicati, sull’internamento libero in Polesine e che a Stienta è


attiva l’Associazione “Il Fiume”, che raccoglie notizie sugli ebrei residenti nella provincia di Rovigo durante il periodo bellico, mi farebbe piacere costruire un legame di collaborazione con gli storici locali per continuare a “fare Memoria”.

a p. 56 Joseph Maya e Leopold Asolo a p. 57 Ziga Bella Neumann, Leopold e Charlotte a p. 58 Gente di Pugliano a p. 59 Pen Browning e la copertina del libro di Vittorio Zaglia Messaggi in bottiglia pubblicato da Cleup STORIE — 59


Michela Fregona LA CLASSE DEGLI ALTRI 308 pagine euro 15,00 isbn: 978-88-99479-51-0 èstra insomnia narrativa

«9 marzo 2006. Oggi compio 5123 anni: l’età di tutti i miei studenti, meno uno. È mattina, pioggia e freddo. Venerdì. Sul ponte hanno iniziato i lavori. Tolgono l’asfalto a trapanate. Andare a scuola con la luce è strano. Per tutto l’inverno anche il venerdì mattina è buio: è giorno solo quando esco, alle dodici − se non piove, o se non nevica. Ma a quel punto galleggio sul ponte all’indietro, pensando solo al letto. A marzo, però, la stagione cambia. E io non sono preparata. Alla luce. C’è il recupero del compito. Il venerdì mattina è per i turnisti. Anita non si è presentata di nuovo. Dovrò chiamarla. Di nuovo. Oggi compio 5123 anni per sottrazione. Ma non lo so ancora. Avrebbero dovuto essere 5140».

Teresa ha un rossetto ciclamino e viene dalla Sicilia. Miscél dal Brasile, e i turni la uccidono. Vito vuole una rosticceria solo sua. Matteo ha 16 anni, Aicha 19. Anita è sempre assente e sogna un nuovo figlio. Goran ha un ergastolo da scontare. Niko non diventerà maggiorenne. Leutrim ha lasciato il Kosovo in autostop, Lulavera attraversando un fiume. Mattia parla solo dialetto. Caterina perderà il sorriso. Per alcuni la scuola è un approdo, per altri una necessità; c’è chi ci arriva per caso, chi portato di peso dalle famiglie; chi per desiderio. Questa è la storia di un anno – da marzo a dicembre, con un’estate in mezzo. Una storia di resistenza quotidiana nelle aule del Centro Territoriale Permanente per l’educazione degli adulti: l’ultima delle istituzioni scolastiche nate in Italia. La classe è ancora il laboratorio dell’umanità possibile, un terreno di avverabile riscatto. Non è il diploma. È la strada per conquistarlo che diventa, insieme, l’esperienza di sapere essere altro: da sé, dal proprio passato, dalle proprie ferite. La classe degli altri non è un libro che prende posizione; è un libro per prendere posizione. Ognuno la sua. Io, la mia, l’ho presa scegliendo di raccontare.

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Carbonari in Polesine Gli indagati di Polesella di Maria Lodovica Mutterle

Venezia, Palazzo Ducale, carcere dei Piombi

Tutti, ripetutamente interrogati, descrivono la Carboneria come un’associazione filantropica basata sulla fratellanza e la solidarietà e per nulla politica; affermano di non avervi aderito ufficialmente anzi, concordando la linea di difesa con il Foresti, che la vendita carbonica era stata sciolta ben un anno prima del loro arresto cioè nel 1818.

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on furono soltanto Fratta, Crespino, Rovigo, e Calto a fornire un apporto consistente al Risorgimento italiano. Anche Polesella condivise l’anelito indipendentistico e nazionale con Natale, Luigi e Vincenzo Maneo, Carlo Greppi e Girolamo Lombardi nella “fase della Carboneria”, l’organizzazione segreta che coagulava persone pronte a sacrificare anche la vita per l’indipendenza e l’unità nazionale. Ideali messi in atto in forPERSONAGGI — 61


ma embrionale, non senza qualche contraddizione, ma con impegno e dedizione, nonostante il ferreo controllo della polizia asburgica. Tutti, eccetto Vincenzo, consegnatosi nel 1823 e incarcerato a Santa Margherita a Milano, furono arrestati nei primi giorni di gennaio 1819, due mesi prima della visita di Francesco I imperatore d’Austria a Rovigo e imprigionati prima ai Piombi di Venezia e poi nel carcere nell’Isola di San Michele. Gli interrogatori (costituti), conservati all’Archivio di Stato di Milano, furono condotti dal giudice Salvotti secondo il sistema inquisitoriale introdotto dal nuovo Codice penale universale austriaco in vigore dal 1° luglio del 1815. Polesella ai primi dell’800, è un comune che fa parte per la prima volta, con il nuovo compartimento territoriale introdotto dagli Austriaci nel Lombardo Veneto, della Provincia del Polesine, ha un proprio consiglio comunale e comprende territorialmente Raccano ferrarese, Raccano veneto, Selvatico e Presparola e, col riassetto delle parrocchie, rientra nella diocesi di Adria-Rovigo. Questi cambiamenti amministrativi e religiosi non mutano la natura di una terra di confine legata per storia, cultura ed economia con Ferrara tanto da indurre alcuni possidenti e borghesi di Polesella legati da vincoli parentali ed amicali, a condividere gli ideali carbonici diffusi in Polesine dal pretore di Crespino Felice Foresti, da Cecilia Monti d’Arnaud e da tanti altri che abitavano 62 — PERSONAGGI

nella cosiddetta Transpadana. Natale e Luigi Maneo, cugini, nel loro primo interrogatorio così si presentano: «Io sono Natale Maneo del vivente Giuseppe e di Paola Mantovani, abitante alla Polesella, di anni 32 circa, ammogliato con Marianna Mantovani ed ho 3 figli: il maggiore di 7 anni, convive con mio padre il quale è possidente. Io poi esercito la professione di ingegnere civile. Sono di religione cattolica, sono stato arrestato nel 1814 presso il Tribunale di Rovigo. Venne in appresso questa ingiunzione affidata alla Corte di Giustizia di Padova ed anche vi venni tradotto in quelle carceri, dopo 8 mesi circa mi venne comunicato un decreto governale che dichiarando l’ insussistenza del concepito sospetto ordinava la mia dimissione dall’arresto. Io però non ho saputo il titolo della mia imputazione ed in Padova non solo non fui mai esaminato ma non ho nemmeno mi veduto il mio Giudice. (…) Più volte ho ricercato una copia della mia sentenza ma non la ho potuto ottenere giammai. Io subii un solo costituto e alle fattemi interrogazioni ho argomentato che se mi si avesse data qualche accusa forse per malversazioni nell’impiego di segretario comunale che allora occupavo». Luigi Maneo: «Sono figlio di Angelo e di Angela Roversi, nativo e domiciliato alla Polesella. Di anni 27, nubile, vivo in famiglia col frutto della nostra industria la quale consta principalmente nel prendere in affitto campagne altrui; ho due fratelli e due sorelle tutti

in età maggiorenne; sono di religione cattolica e sono stato due anni fa arrestato presso il tribunale di Rovigo per una calunniosa imputazione riservatami da Silvestro Camerini». Dopo 8 giorni di arresto fui rimesso in libertà». Il fratello di Luigi, Vincenzo, è il più compromesso della famiglia perché conservava delle carte carboniche consegnategli dal Delfini di Ferrara dopo i primi arresti di carbonari av venuti nello Stato pontificio. All’arrivo dei gendarmi nella sua proprietà pensa bene di disfarsene bruciandole o, come lui afferma, lanciandole nel Po. Di conseguenza sceglie la latitanza fino al 15 marzo 1823 quando si presenta dall’arciprete Antonio Guarnieri pregandolo di accompagnarlo dal commissario distrettuale Angelini per consegnarsi alle Autorità austriache per potersi difendere dalle accuse. Non sarà incriminato. La documentazione giudiziaria ricorda la sua descrizione fisica: «Uomo d’apparenti anni 43, corporatura complessa, statura ordinaria, fronte, capelli misti, sopracciglie uguali, occhi castani, colorito bruno, bocca media, naso lungo, mento tondo, viso ovale. Veste con un portait di panno color verde, fazzoletto al collo nero, gilet a piccole righe a fondo bianco, pantaloni panno bigio, stivali di vitello nero». L a sua autobiogr afia continua: «Sono figlio del vivente Angelo Maneo ed Angela Roversi, nativo di Frassinelle, ho 40 anni ammogliato con Maria Greppi, ho 5 figli di cui il maggiore ha


Sentenza del 22 dicembre 1821 (Archivio Comunale di Fratta Polesine)

PERSONAGGI — 63


Il Monastero dell’Isola di San Michele a Venezia trasformato in carcere politico in epoca austriaca

16 anni compiuti, il minore 6, nacqui a Polesella, provincia di Rovigo, dove ho anche il mio domicilio, attendo alla coltura della campagna della quale cioè siamo affittuari e faccio anche qualche traffico di bestiame e in grani e in tutto quanto possa presentarsi occasione di un onesto guadagno per meglio sostenere la mia famiglia. Io vivo nella famiglia paterna, ho altri due fratelli di cui uno si chiama Luigi 64 — PERSONAGGI

e l’altro Antonio, fui due volte arrestato uno sotto il governo Italiano in Ferrara e accusato di aver ammazzato un certo Riccardo Merlini nell’occasione del brigantaggio del 1809, (…) di questo venni assolto e liberato; la seconda volta venni arrestato 7 o 8 anni fa in Padova ed io personalmente mi presentai alla polizia di Venezia quando seppi che si stava costituendo una procedura che rivolse mio padre

ed i miei cognati Carlo e Giuseppe Greppi, mio cugino Natale Maneo sopra calunniose denunce presentate contro di noi e dopo sei o sette mesi di detenzione e di alcuni anni è risultato che le accuse risultarono destituite di ogni fondamento (…). Sono di religione cattolica». Un altro carbonaro di Polesella è Girolamo Lombardi, sposato con


Carlotta Bottazzi del luogo, da cui ha avuto cinque figli; è un dipendente dell’Intendenza di Finanza di Ferrara con l’incarico, dal 1814, di dispensiere di Sali e Tabacchi a Polesella, incarico da cui viene destituito il 10 gennaio 1822 dopo essere stato accusato di grave trasgressione ai danni dello Stato ed essere stato condannato a sei mesi di carcere rigoroso ai Piombi di Venezia. Carlo Greppi, (compare con queste risultanze processuali negli Elenchi dei compromessi o sospettati politici a cura di Annibale di Alberti, 1936) piccolo possidente di Polesella, cognato di Vincenzo Maneo, aggregato alla carboneria dal Foresti. Fu Capitano della Guardia Nazionale Controllore alle Provviste per le II.

RR. Armate. Nel 1814 viene arrestato per attività criminose commesse all’epoca del brigantaggio e dopo due anni assolto. Mantiene uno spirito d’avversione ma si comportò con prudenza tanto che non fu inquisito. Tutti, ripetutamente interrogati, descrivono la Carboneria come un’associazione filantropica basata sulla fratellanza e la solidarietà e per nulla politica; affermano di non avervi aderito ufficialmente anzi, concordando la linea di difesa con il Foresti, che la vendita carbonica era stata sciolta ben un anno prima del loro arresto cioè nel 1818. Negano di aver parlato di temi rivoluzionari al pranzo tenutosi, durante la fiera di ottobre, alla Locanda Ponzetti di Ro-

vigo o di aver partecipato a riunioni all’oratorio di San Ludovico a Ferrara e tantomeno di possedere carte e distintivi carbonici. La sentenza del 21 dicembre 1821 condanna Girolamo Lombardi, Luigi e Natale Maneo a sei mesi di arresto rigoroso ai Piombi per gravi trasgressioni di polizia ma non di delitti contro lo Stato cioè di alto tradimento.

Ha collaborato Maurizio Romanato.

Ampia documentazione sui fatti della Carboneria in Polesine si trova nel libro di Maurizio Romanato e Maria Lodovica Mutterle “Un Imperatore a Rovigo (1819)”, pubblicato da Apogeo nel 2019. Francesco I, l’Imperatore nato a Firenze, costretto a combattere per un ventennio Napoleone al quale ha sacrificato in sposa la figlia Maria Luisa, con il Congresso di Vienna ha consolidato l’egemonia austriaca sulla Penisola. Durante il viaggio in Italia nel 1819, diretto a Roma e Napoli per i colloqui con il Papa, il Sovrano visita per due volte la città di Rovigo. Partendo dagli appunti di Francesco I sui soggiorni rodigini, questo libro intreccia i giudizi e le impressioni dell’Imperatore con le cronache dell’epoca. Il Sovrano, accreditatosi come “buon padre” dei suoi sudditi e ben accolto in città, diventa persecutore dei Carbonari condannati a lunghe pene detentive allo Spielberg e a Lubiana. Terrorizzato dalle possibili rivoluzioni, in Francia la zia Maria Antonietta era stata decapitata, Francesco mostra il volto paranoico del potere.

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Marco D’Angelo IL MONACO E LA FARFALLA Storie di un monastero 36 pagine euro 9,50 isbn: 978-88-99479-52-7

Il peso e la leggerezza, la memoria e la bellezza divengono coordinate che portano a Rovigo al monastero di San Bartolomeo apostolo: sono necessarie al nostro futuro, altrimenti non si vive, senza di esse non sappiamo chi siamo né chi desideriamo essere. Ecco allora questa graphic novel, un viaggio attraverso il tempo e lo spazio, perché possiamo assaporare quanto ci è stato donato dalle generazioni precedenti e quale futuro tale bellezza può indicare.

Disegni: Marco D’Angelo Testi: Marco D’Angelo e Andrea Varliero Consulenza scientifica: Adriano Mazzetti Colorazione tavola di copertina: Camilla Giunta Progetto grafico e impaginazione: Claudia Biasissi Fancy grafica sas, Rovigo Si ringrazia per il sostegno la Fondazione Banca del Monte di Rovigo Il libro esce nella Collana “I tigli” dell’Accademia dei Concordi di Rovigo

Le date, i nomi, le parole prendono la forma del fumetto, diventando visibili e reali, amici e compagni di viaggio in questo splendido viaggio nel tempo.

apogeoeditore.it 66 — LA VIGNETTA DI HERSCHEL E SVARION


Risoto de sbari (risotto di persico-sole) Un eccellente piatto della cucina popolare

di Mario Bellettato

Generalmente il pesce d’acqua dolce è considerato meno pregiato di quello di acqua salata, in realtà esso offre carni sapide e molto gradevoli a patto che provenga da acque non contaminate e sia preparato con cura. Senza scomodare sua maestà lo storione, basti pensare ai menù dei tanti ristoranti che si affacciano sui nostri laghi: le proposte sono varie e molto interessanti.

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l persico-sole (alias sbàro) era un pesce molto comune nelle acque dei canali e dei fossati dell’Italia settentrionale, purtroppo l’inquinamento ambientale, la pesca dissennata e la competizione con specie non autoc tone immesse nel suo habitat originale ad opera dell’uomo, ne hanno ridotto molto la presenza. Al suo posto la modernità ci ha regalato veri e propri mostri, come i siluri: immigrati clandestini fluviali molto più pericolosi di quelli SAPORI & SAPERI — 67


che tentano la traversata del Mediterraneo e che, restando in tema di immigrazione, attirano bande di pescatori di frodo che stanno depauperando in modo criminale il patrimonio ittico della Valpadana… ma non lasciamoci rovinare l’appetito da queste vicende, almeno non adesso. In mancanza del persico-sole potete preparare questo piatto utilizzando anche altri pesci della famiglia dei percidi, oppure cavedani, lavarelli, magari un luccio o comunque qualsiasi pesce d’acqua dolce con carni magre, sode e che preferibilmente si cibi di altri pesci. Evitate carpe, tinche e simili: spesso hanno un sentore di fango piuttosto marcato, sono più adatte ad altre preparazioni e comunque andrebbero stabulate in vasca ed alimentate adeguatamente prima del consumo. Generalmente il pesce d’acqua dolce è considerato meno pregiato di quello di acqua salata, in realtà esso offre carni sapide e molto gradevoli a patto che provenga da acque non contaminate e sia preparato con cura. Senza scomodare sua maestà lo storione, basti pensare ai menù dei tanti ristoranti che si affacciano sui nostri laghi: le proposte sono varie e molto interessanti. Uno degli aspetti che amo di più della cucina popolare, cui appartiene il risoto de sbari, è la straordinaria capacità di creare piatti eccellenti utilizzando ingredienti poveri e tecniche di preparazione codificate 68 — SAPORI & SAPERI

da esperienze secolari. Le massaie erano depositarie di una cultura ricchissima, tramandata di generazione in generazione e con una solida base empirica. I cibi venivano preparati tenendo conto della stagionalità, dell’esigenza di evitare lo spreco e con l’obiettivo di ottenere una pietanza gradevole nonostante le ristrettezze. Tempi di cottura, utensili di cucina, temperature, cicli di preparazione, spezie e dosaggi assicuravano risultati eccellenti con poco, la sole risorse abbondanti erano il tempo e la generosità di mamme, sorelle, zie e nonne che mettevano nella pentola anche il loro affetto. Questo non significa che la famiglia contadina patriarcale fosse l’eden, ma senza dubbio consumismo e società neoliberista hanno imposto modelli e stili di vita che hanno fatto scomparire una cultura originale senza comprenderne il valore profondo e senza preservarne gli elementi positivi: siamo orfani e lo sperimentiamo anche a tavola, quando fissiamo con malinconia i surgelati sputati nel piatto dal microonde, l’elettrodomestico che si guadagna quotidianamente ogni singolo euro del suo prezzo. Questa ricetta tradizionale di base permette di valorizzare pesci di poco pregio ed elimina uno dei problemi fondamentali che ne ostacola l’impiego: la presenza di spine e di lische nella polpa, elemento che scoraggia i miopi, i bambini (viziati), i meno pazienti e che spinge inesorabilmente il popolo dei seguaci di food-blogger (devo subire anch’io

qualche adeguamento lessicale) verso il famigerato filetto di pangasio, che a mio parere rappresenta la resa, la bandiera bianca gastronomica. Al contrario, seguendo poche e semplici regole si può ottenere un eccellente “risotto di lago” che non teme il confronto con le preparazioni analoghe che usano pesce di mare. Per 4 persone servono quattro sbari di media grandezza o in alternativa 6/700 grammi di pesce d’acqua dolce, assolutamente non eviscerato e non decapitato (è un indizio della freschezza e comunque le teste sono fondamentali per ottenere un fondo saporito), 400 grammi di riso Carnaroli o Vialone Nano, due cipolle medie, una carota, una gamba di sedano, aglio, prezzemolo, sale, pepe, chiodi di garofano, vino bianco, EVO, burro e brodo di pesce o, ma il sapore ne risente, brodo vegetale. Vi suggerisco di preparare da voi il brodo di pesce, che potete usare per i risotti, per i sughi da unire alla pasta e anche per “dare corpo” a primi piatti che usino pesci di sapore delicato. Aggiungendo un po’ di brodo di pesce all’acqua di cottura della pasta potete, per esempio, accentuare il sapore di uno spaghetto con le telline, o di un tagliolino ai gamberoni, è uno stratagemma che conferisce sapidità e ricchezza al piatto. Teste spine, lische, pinne a parti di scarto (con la sola eccezione di fegato ed intestino) vanno fatte sobbollire per circa un’ora in poca acqua insieme a


sedano, cipolla, carota, sale, pepe e un po’ di prezzemolo, filtrate e fatte congelare in uno stampino a cubetti, così otterrete un ottimo bouillon che potete dosare facilmente al bisogno. Torniamo a noi: pulite il pesce (eliminate con cura fegato e intestino, lasciate tranquillamente la vescica natatoria e le sacche delle uova se sono presenti) e fatelo bollire in

che colano attraverso il canovaccio e che utilizzerete in seguito. L’acqua di cottura va conservata e aggiunta al brodo di pesce (o di verdura), servirà per il riso. Assaggiate il brodo, è l’ingrediente più importante per il sapore del piatto: deve risultare gradevole, con un sapore di pesce marcato ma senza le note oleose del fegato e dell’intestino.

talia settentrionale l’acidità dei piatti si correggeva con l’aceto, il limone era quasi sconosciuto ed inoltre un risotto ben bilanciato al massimo richiede un po’ di vino in più, se vi sembra che il sapore di pesce (il freschin) sia troppo marcato esso va probabilmente imputato al fatto che il pesce non era freschissimo o che nella fase di eviscerazione il fegato

poca acqua salata dove avrete preventivamente fatto cuocere per circa 20 minuti due chiodi di garofano, qualche grano di pepe, una cipolla, la carota e il sedano tagliati grossolanamente. Bollite il pesce per 15 minuti e scolate tutto in un colapasta su cui avrete disposto un canovaccio pulito a trama non troppo sottile. Poggiate il colapasta su di una casseruola per trattenere le sostanze

Preparate un soffritto con aglio in camicia (che toglierete dopo qualche minuto) e con la seconda cipolla tritata finemente (trattandosi di un piatto rustico lascerete la cipolla nel fondo di cottura), ultimate la preparazione sfumando con un po’ di vino bianco e resistete alla tentazione o al consiglio malizioso di aggiungere in qualsiasi momento della cottura il succo di limone: è un errore. Nell’I-

non sia stato asportato completamente o abbia contaminato la carne (ricordate l’olio di fegato di merluzzo “ricostituente”?). Quando la cipolla è imbiondita potete iniziare la cottura del riso rammentando di tostarlo un paio di minuti a fuoco medio prima di iniziare ad aggiungere il brodo. Iniziata la mantecatura, potete procedere aggiungendo al riso la purea di polpa e succhi di pesce che otterSAPORI & SAPERI — 69


rete strizzando in modo energico il canovaccio sopra la pentola: le parti morbide usciranno attraverso la trama grossolana del tessuto mentre le carcasse saranno trattenute all’interno. Questo è lo stratagemma fondamentale per trasferire sostanza e sapore al riso trattenendo le spine che in alcuni pesci sono così piccole e diffuse nella polpa che eliminarle completamente senza “filtrare” è impossibile. Di tanto in tanto versate un mestolo di brodo caldo sulle carcasse nel canovaccio per reidratarle e poi strizzate di nuovo, ripetete l’operazione 5/6 volte, in pratica ogni 2/3 minuti circa, mescolando continuamente per favorire la mantecatura. Cercate di estrarre dal canovaccio tutte le sostanze possibili, il sapore del piatto se ne avvantaggerà in modo proporzionale. Mia nonna utilizzava una vecchia federa di canapa (na intimèla in dialetto veneziano) che aveva la tramatura ideale allo scopo ed era già cucita a sacco rendendo l’operazione più facile, ma con un po’ di buona volontà qualsiasi strofinaccio funziona egregiamente. Vi suggerisco di indossare un grembiule e di usare guanti da cucina: eviterete macchie, scottature e discussioni con il/la consorte. Questa tecnica è solo apparentemente complicata e, vi assicuro, il risultato vale lo sforzo. È comunque un’operazione desueta e se l’organizzate in modo scenografico, magari pronunciando formule esoteriche, farete colpo sui commensali e/o sulla ragazza/o che state corteggiando. 70 — SAPORI & SAPERI

Non distraiamoci: “The risotto must go on”! Aggiustate di sale e pepe a piacimento e ultimate la cottura aggiungendo 100 g di burro e una dose generosa di prezzemolo tritato. Un capitolo a parte riguarda l’uso o meno del parmigiano, esistono due scuole di pensiero fieramente opposte e ciascuna difende tesi ragionevoli: personalmente sono favorevole alla contaminazione casearia, da un lato per la maggiore rotondità del piatto e dall’altro per l’autorevole “precedente” del formaggio utilizzato nella ricetta classica del risotto di ghiozzi dell’isola di Burano, si tratta di pesci di laguna abbastanza simili al pesce di acqua dolce. In ogni caso non eccedete, deve essere comunque un piatto di pesce. Non asciugate troppo il riso, tenetelo “all’onda”, o meglio “al cucchiaio”. Servite caldissimo con vino un bianco gelato: un Friulano (ex Tocai, grazie Unione Europea!), un Sauvignon o, ancora meglio, un buon Verdiso. Se volete completare l’esperienza con una full-immersion nella capsula del tempo gastronomica dovreste accompagnare il risotto con del pane. Fino agli anni ’60 non era concepibile mangiare un primo piatto (del resto spesso NON c’era il secondo) senza pane. El ga magnà la minestra s-ceta! (“ha mangiato la minestra schietta-senza pane!”) era un’esclamazione di rimprovero nei confronti di chi, ad esempio i bambini, mangiava il companatico trascurando il pane. È vero che il pane

di un tempo non era quello di oggi: erano diverse le farine, i lieviti e le tecniche di panificazione, ma provate ad accostare al risotto un paio di “bossolà” chioggiotti, un “cornetto” ferrarese o una mantovana polesana: completerete l’esperienza e mi sarete grati. Le ricette che propongo non hanno finalità dietetiche o salutistiche. Ma guidano esclusivamente il sapore e la tradizione, sono consapevole che per molti aspetti esse non rappresentino l’ideale per i nutrizionisti. Credo però che di tanto in tanto il piacere di piatti così ricchi di sapore e significato abbia comunque un’influenza positiva sul nostro benessere. Del resto, come diceva Wilde “quello che mi piace è illegale, immorale o mi fa ingrassare…”. Esiste anche una versione (deliziosa) di questo risotto che utilizza le carni dell’anguilla di fiume (alias “bisato”), in questo caso scegliete un’anguilla che non superi i 400 g, tagliatela a segmenti (“morèi”) lunghi un dito e rosolate la polpa in padella con EVO invece di bollirla! Tirate il riso con brodo di pesce ed aggiungete i filetti di bisato ben cotti, spellati e diliscati a 2/3 di cottura del riso, aggiungendo anche un cucchiaio dell’olio in cui avete rosolato il pesce. Naturalmente in questo caso accompagnate con un rosso giovane: un Sangiovese, un Pinot Nero, un Lambrusco secco o magari un Fortana del Bosco Eliceo. Abbondate con il pepe macinato fresco, che sposa perfettamente l’anguilla.


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Gabbris Ferrari (foto Biasioli)

LA FONDAZIONE BANCA DEL MONTE DI ROVIGO

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Gabbris Ferrari e i Grandi Fiumi Il progetto del Museo rodigino compie 20 anni


I

disegni originali di Gabbris Ferrari sono protagonisti del progetto “Un Museo per i Fiumi”. A vent’anni dall’idea concepita dall’artista rodigino, che è stato anche assessore alla cultura del Comune di Rovigo, giunge un riconoscimento al ruolo che egli ebbe nei confronti del museo rodigino, alla sua concezione e al suo allestimento, con un omaggio alla creatività dell’artista e al suo impegno civile. Fortemente voluto da Meri Veronese Ferrari e realizzato da Claudia Biasissi, il progetto si è av valso della collaborazione e del sostegno della Fondazione Banca del Monte di Rovigo che ha prestato per l’esposizione i disegni di Gabbris, ricevuti in donazione, e che ha sostenuto l’allestimento della mostra e la pubblica-

zione del libro. La duplice iniziativa “Un Museo per i Fiumi” è stata realizzata nell’ambito del programma del “Maggio Rodigino” edizione 2019. Il volume “Un Museo per i Fiumi”, pubblicato da Antiga Edizioni, è stato presentato lo scorso 8 maggio in Accademia dei Concordi. Esso costituisce una interessante opportunità di approfondimento della figura di Gabbris Ferrari e del progetto del Museo dei Grandi Fiumi da lui elaborato. La pubblicazione fa comprendere lo straordinario lavoro creativo che il maestro ha riservato alla collettività al fine di costituire un riferimento per la città capoluogo e per l’intero territorio polesano. Al Museo il maestro non ha soltanto riservato il suo estro inventivo

in funzione didattico-divulgativa, conferendogli la sua inconfondibile impronta artistica, ma ha contribuito alla sua creazione nell’intento di sviluppare un grande progetto culturale a favore della città di Rovigo. L’evento di presentazione in Sala Oliva ha ospitato gli inter venti di Raffaele Peretto, primo direttore scientifico del Museo dei Grandi Fiumi, e di Giuseppe Marangoni, promotore e coordinatore del Simposio Internazionale “Verso il Museo dei Grandi Fiumi”. Nei loro interventi il racconto della nascita del Museo dei Grandi Fiumi: “Gli importanti ritrovamenti archeologici sul finire degli anni ‘70 del Novecento hanno stimolato l’amministrazione comunale a recuperare, grazie a insperati finanziamenti pubblici, la struttura

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dove oggi è allestito il Museo, attivando una proficua sinergia tra forze politiche e intellettuali, diverse nelle idee ma accomunate dal desiderio di fare il bene della città. Grazie alle trovate originali, innovative e interattive di Gabbris, vi hanno trovato spazio i resti e i miti della nostra terra”. A tracciare il profilo umano e artistico di Gabbris Ferrari sono stati rispettivamente Massimo Contiero, già direttore artistico del Teatro Sociale di Rovigo e Ivana D’Agostino, storica e critica d’arte, che ha messo a confronto i disegni per il Museo con documenti d’archivio. La presentazione del volume è stata anche l’occasione per un excursus su alcuni degli elementi del pano-

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rama culturale rodigino, che hanno costituito il substrato favorevole all’elaborazione e alla realizzazione di una così complessa iniziativa museale. La genesi, la descrizione, l’evoluzione del progetto museale sono descritte nel volume, che è arricchito, oltre che dalla riproduzione dei bellissimi disegni, da documenti, testimonianze e contributi di varie personalità. L’iniziativa “Un Museo per i Fiumi” ha messo in luce le felici intuizioni e le poliedriche competenze dell’artista, che si è cimentato nelle molte forme dell’arte, dalla pittura alla scultura, dalla regia alla scenografia, materia di cui è stato docente all’Accademia di Belle Arti di Urbino e all’Accademia di Venezia. Con la sua realizzazione museale Gabbris

Ferrari ha ispirato collaboratori scientifici e tecnici coinvolti nel progetto, delineando il profilo caratterizzante dell’innovativo allestimento museale, che nell’idea originaria doveva diventare il luogo più rappresentativo e inclusivo della città. Collegata alla presentazione del libro è stata allestita, nella Sala delle Mappe in Accademia dei Concordi, la mostra di circa venti grandi disegni originali di Gabbris Ferrari. L’esposizione è rimasta aperta l’intero mese di maggio per consentire ai rodigini di apprezzare, contemporaneamente, le visioni progettuali del museo elaborate dal maestro ed esplicate nella piacevolezza cromatica e nei tratti precisi e sicuri delle tavole esposte.


Per tutto il periodo di aper tura della mostra la Fondazione Banca del Monte di Rovigo ha messo a disposizione, grazie alla preziosa collaborazione di Raffaele Peretto, un servizio di visita guidata per le scuole superiori del territorio provinciale, ad attestare l’importanza

del ruolo che Gabbris Ferrari ha rivestito nell ’ambito ar tistico e culturale della città, riservando ai giovani, soprattutto, quella stessa attenzione che il maestro condivideva e praticava con la sua affabile sapienza.

Alle pp. 73 e 74 alcuni momenti dell’iniziativa in Sala Oliva dell’Accademia dei Concordi. Gli interventi di Raffaele Peretto, del presidente della Fondazione Luigi Costato e di Claudia Biasissi. Due foto del pubblico presente. In questa pagina due foto della mostra allestita e la copertina del libro.

La Fondazione Banca del Monte di Rovigo è presente nel tessuto polesano attraverso progetti ed interventi a favore della formazione e dell’educazione dei cittadini ed in particolare dei giovani, riservando particolare attenzione al mondo della scuola. In quest’ottica la Fondazione promuove la distribuzione della rivista REM Ricerca Esperienza Memoria presso tutte le biblioteche degli istituti scolastici secondari di primo e di secondo grado del territorio polesano, nella convinzione di offrire uno strumento di approfondimento e di consapevolezza identitaria. Allo stesso tempo, questa opera di diffusione a cura della Fondazione rappresenta un sostegno ad una rivista che valorizza il territorio e mette in luce la vivacità culturale del Polesine affrontando diversi aspetti e caratteristiche. Il pregio della rivista, oltre ai contenuti, va sicuramente riconosciuto anche per lo spazio riservato a molte firme giovani della provincia. Fondazione Banca del Monte di Rovigo

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