REM-Anno V, n.1 del 23 aprile 2014 (I suoni della terra più giovane d'Italia)

Anno V, n. 1 del 23 Aprile 2014 | Euro

2,50

V O C I PER LA LIBERTÀ DELTABLUES

SCONCE

rtando

I suoni della terra più giovane d'Italia

In questo numero: Natalino Balasso | Nicola Berti | Francesco Campi | Nicola Chiarini | Guido Conti | Wanda Danuta Murach Tina De Stefani Bertizzolo | Tobia Donà | Lorenzo Donati | Cristiano Draghi | Maria Chiara Fabian | Camilla Ferrari | Daniela Gambaro Michele Lionello | Paolo Rigoni | Chiara Saccardi | Marina Senesi | Sergio Sottovia | Barbara Spaggiari | DaniloTrombin | Maurizio Zannato

Isola nel Parco del Delta del Po tra le piÚ eleganti ed attrezzate dell’Adriatico, dove la natura e la fauna sono uniche e irripetibili.

In questo splendido contesto proponiamo la vendita di una vasta gamma di: Ville a Schiera Sono bilocali, trilocali e quadrilocali su due piani, posizionati nella zona Fiordi protetti da una siepe vegetale, talvolta nei pressi della spiaggia di Mare Vostrum, Fiordo Diamante e nuovo Fiordo Acquamarina. Le case del Fiordo Diamante e del Fiordo Acquamarina sono di recente costruzione e accessoriate di ogni comfort.

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REM

Durden And The Catering a Voci per la LibertĂ - foto di Silva Rotelli 4

SOMMARIO

EDITORIALE

Veneto, bel suol d'amore ..................................................................................................................................................7 RUBRICHE

Taccuino futile - Natalino Balasso ..........................................................................................................................................9 Visti da lontano - Chiara Saccardi ......................................................................................................................................11 Flash & News - Sergio Sottovia ...........................................................................................................................................12 Visti da vicino - Wanda Danuta Murach...............................................................................................................................15 STORIA DI COPERTINA

Voci per la libertà - Una Canzone per Amnesty Dalla terra più giovane d’Italia si alza il canto dei diritti umani - Michele Lionello ....................................................18 Deltablues Tra i festival di maggior tradizione e longevità nel panorama europeo - Nicola Chiarini ........................................20 Sconcertando Il sogno rinasce con occhi più giovani - Maurizio Zannato.............................................................................................22

ATTUALITÀ

Ravenna 2019. Il cammino verso la “Capitale Europea della Cultura” diventa una grande occasione per ripensare nel profondo il presente e il futuro della città - Sandro Marchioro ...................................24 STORIE

I tempi in cui le donne cantavano... - Cristiano Draghi ...................................................................................................29 Miriam Meghnagi. Siamo tutti legati da un filo e, in ognuno di noi, c'è il cielo e la terra - Intervista di Chiara Fabian ................................................................................................................33

LUOGHI

Bacucco, il grido del Delta - Danilo Trombin.....................................................................................................................37

UN PO PIÙ IN LÀ

Isole nella corrente - Guido Conti ......................................................................................................................................41 Un'argonauta contromano. Pedalando sul Po da Milano a Senigallia - Marina Senesi ...........................................44 PAROLE

L'ordine innaturale degli elementi - Paolo Spinello e Sandro Marchioro.............................................................................49 Le Rime. Il versante lirico dell’opera grotiana, a cui il Cieco d’Adria attese assiduamente fino alla vigilia della morte ritornano in una nuova edizione - Barbara Spaggiari .....................................................53

PALCOSCENICO

Vito Alfarano. La danza è vita, è terapia, è espressione - Intervista di Francesco Campi .............................................56 Florindo Andreolli. Il lunghissimo itinerario musicale di un illustre adriese - Nicola Berti ........................................61

COLORE

Gabriele Grones. Dal doppio all’identità - Tobia Donà.................................................................................................64 Mauro Mazzali. Il fiume, la terra, il tempo - Tobia Donà ..............................................................................................68 FORME

Textures. Una realtà dinamica e coinvolgente - ..........................................................................................................72 IMMAGINI

Alberto Gambato. Un Polesine tutto da filmare - Daniela Gambaro ..............................................................................76 PASSATO REMOTO

PArSJAd. Il progetto del parco archeologico dell'Alto Adriatico - Camilla Ferrari .....................................................81 PROGETTI

La mia terra che suona. Il 2014 battezza il primo Festival del Delta dedicato all’Ocarina - Cristiana Cobianco....85 Una strada leggera come VENTO per pedalare da Torino a Venezia - Tina De Stefani Bertizzolo ............................89

Anno V, n. 1 del 23 Aprile 2014 Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010 Direttore Responsabile: Sandro Marchioro Editore: Apogeo Editore Coordinamento editoriale: Cristiana Cobianco, Monica Scarpari, Paolo Spinello Art Director: Michele Beltramini Grafica e Impaginazione: Sofia Boccato Stampa: Grafiche Nuova Tipografia - Corbola (Ro) Tel. 0426.45900 Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Apogeo Editore di Paolo Spinello - Via Zandonai, 14 - 45011 ADRIA RO, Tel.347 2350644, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03.

Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010 Copyright - Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze.

REM ringrazia gli autori per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo gratuito per l’inserimento nella rivista. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore.

Numero chiuso in redazione il 10/04/14 ISSN 2038-3428

STRISCE

El caballo Andaluz - Sofia Boccato ....................................................................................................................................94 SAPORI E SAPERI

I Bardella di Maistra guardiani di valle, beccari, osti e casolini - Paolo Rigoni .........................................................100 5

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EDITORIALE

Veneto, bel suol d'amore

S

olo a parlare di letteratura, di pittura e di musica il patrimonio veneto è certamente degno di una nazione, se quantità e qualità fossero un criterio per discriminare ciò che sarebbe opportuno diventasse nazione. I nomi sono di certo impressionanti e tanti: da Goldoni a Foscolo, da Casanova a Fogazzaro, e ancora Comisso, Piovene, Parise, Meneghello, Cibotto, Zanzotto. E poi Vivaldi, Marcello, Maderna, Nono; e Tiziano, Veronese, Tintoretto, Tiepolo. Sono solo alcuni, i primi che passano per la testa. La cultura ha impregnato questa regione da sempre, (non che non lo abbia fatto con le altre: un elenco consimile se lo ritrovano i siciliani, i piemontesi, gli abruzzesi) ed ha raccontato certamente un popolo, un paesaggio, un carattere. Ma lo ha fatto, come dire, “tra le altre cose”, perchè la grande cultura di questa regione non è mai stata chiusa in se stessa ed ha sempre percorso il profilo del mondo, e contribuito a disegnare quello dei sentimenti, della bellezza, o delle più o meno celate paure e ansie e angosce della vita degli uomini. Nessuno di questi artisti ha mai negato il suo essere veneto: chi nasce qui si nutre fin dai primi istanti di vita dei suoni della lingua veneta, della luce e delle forme del suo paesaggio, dei sapori dei prodotti che solo qui nascono. Succede qui e altrove. Tutte queste cose costruiscono un’identità che nessuno nega e che solo la globalizzazione economica e mediatica in parte stinge. Ma se c’è una cosa che la cultura veneta insegna, da sempre, è l’apertura, l’insofferenza per i confini e le barriere, per le chiusure in mondi piccoli che vegetano nell’anossia e poi muoiono. La rabbia del Veneto esiste, ha una giustificazione politica autentica ed una spiegazione razionale, implica e chiede una idea di cambiamento e riforma del tutto legittima. Ma la sua cultura, la sua grande tradizione di sapere e di comprensione del mondo indica chiaramente che lo stacco, la rottura, la chiusura dentro i propri confini (tanto più in un periodo in cui è evidentemente necessario il suo esatto contrario) portano con sé i germi della distruzione e non della costruzione. E i veneti sono sempre stati bravi a costruire, più che a distruggere. Noi vorremmo continuassero a farlo.

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Il bar che regala gioie gastronomiche Se avete intenzione di visitare il suggestivo parco del Delta del Po, mettete in programma anche una tappa nella bella Adria e passeggiando tra le vie del centro storico dirigetevi in galleria Braghin. Qui troverete il Liberty, un locale dall’offerta variegata.

Al mattino le classiche colazioni con espressi e cappuccini ben fatti e ricchi di aroma, da gustare insieme a brioches e altri dolci (krapfen, ventagli e fette di torta).

Per la pausa pranzo, il menu prevede, oltre ai classici snack (panini, piadine, tramezzini e toast), anche una serie di piatti caldi, oppure le ottime insalate preparate con prodotti freschi.

Il rito dell’aperitivo e’ celebrato con i vini al calice, gli spritz e altri drink, anche analcolici. L’ambiente e’ raccolto e curato e arredato con fantasia.

Il Liberty realizza anche buffet con servizio di catering.

Via Ruzzina, 9 - Adria (Ro) - Tel. 0426 41361

Taccuino futile

Foto di Nicola Boschetti

Il coraggio e la lucertola di Natalino Balasso

E

RUBRICA

ra il 1970. Non era passato molfreccia dalla punta di metallo (scatoto tempo da quando un adulto letta di tonno ritagliata con forbici da del paese aveva detto a me e a giardinaggio, lavoro approssimativo mio fratello che l'uomo aveva messo il ma nocività assicurata) e aspettavo. La piede sulla luna. Non avevamo capito lucertola stava dietro la pietra calda e bene chi fosse quest'uomo che aveva ogni tanto ci passava sopra per sparideciso di metter piede sulla luna, né re nei dintorni. come avesse fatto a finire lassù giacAl momento il coraggio consisteva ché i missili, si sa, erano roba da nell'uccisione senza scrupoli dell'anifilm. Ma ciò che non ci spiegavamo male, che nel mio immaginario cominera perché mai ci avesse messo un ciava a prendere dimensioni notevoli piede solo sulla luna, una volta fatto il e anche una inaspettata aggressività. viaggio tanto valeva Non sapevo se sarei restarci. Avevamo limai riuscito a scoccacenziato quindi la nore la freccia e in quetizia come una bufala sto consisteva il test. madornale. Ma queA dire il vero, nell'atPoco più in là, sta notizia nell'immatesa, avevo cominuna lucertola ginario degli amici di ciato a pensare che scuola aveva a che doveva fare davvero discuteva del più fare col coraggio. schifo il corpo di una e del meno con Era il 1970 e dovevo lucertola trafitto da qualche conoscente, provare a me stesso una freccia. Avevo ignara del il mio coraggio. Si cominciato a pensafosse potuto andare re che l'animaletto pericolo scampato sulla luna, sarebbe doveva pur avere dei stato facile, ma a Ca' parenti da qualche Venier non c'era omparte. Avevo anche bra di missili e come cominciato a sentirmi in tutti i paesi di campagna dell'epofesso ad aspettare al varco una lucerca il coraggio aveva a che fare con tola che tutto sommato non mi aveva gli animali. C'era chi si arrampicava fatto nessun torto. Tirai la freccia a sugli alberi a rubar le uova, c'era chi spuntarsi contro un sasso e me ne antirava i sassi alle galline, chi cavalcadai pensando che questa faccenda del va maiali, chi tirava calci ai cani, chi coraggio non era cosa per la quale si prendeva con le mani le lucertole e potesse esercitarsi. O ce l'hai o non chi aveva notevole confidenza con gli ce l'hai, ma soprattutto, se ce l'hai lo scarafaggi. E poi c'erano i fantasiosi, scopri solo in un inaspettato momento come mio cugino che ubriacava i tacdi necessità, il coraggio non aspetta chini. Le bimbe, salvo rare eccezioni, al varco nessuno. Poco più in là, una urlacchiavano dicendo "che schifo!" e lucertola discuteva del più e del meno questo sembrava dare conforto al cocon qualche conoscente, ignara del raggioso torturatore di animali. Era il pericolo scampato.

1970 e io mi ero costruito un arco con

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RUBRICA

Visti da lontano

Laboriosa terra di acque e tramonti di Chiara Saccardi

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redo che sia stata anche “colpa” dell’incessante scorrere delle acque del Po – che tanto ho osservato quando mi dilettavo con le mie biciclettate fuori porta – a farmi scorrere in giro per il mondo.

Il Polesine é fatto cosí: acque curiose, veloci, inquiete e movimentate ed orizzonti non disegnati, liberi, aperti. Ti ci siedi a contemplare la vita e puoi viaggiare; non trovi barriere nella distesa padana, te le devi inventare, immaginare e a volte la curiositá ti porta ad andare tu sola a scoprirle. Il Polesine é un tramonto

infuocato che bacia la terra, oppure una tenda di nebbia che adorna la finestra. Ed inizia il viaggio. Nel mio viaggiare spesso per luoghi diversi e remoti - la maggior parte delle volte tormentati da catastrofi naturali e/o umane - a volte è difficile rispondere ad una domanda così banale come “di dove sei?”. La risposta richiede saper ponderare il momento e la persona con cui si sta parlando. A volte rispondo velocemente con un “Venezia”, a volte porto le persone in viaggio per il Polesine e allora mi diverto nel raccontare che sono di Adria, forte della storia di antiche terre di Etruschi, popolo colto e laborioso, che solca il mare verso l’ignoto e l’avventura, tanto da dare il nome al mar Adriatico! Quando stavo in Burundi, dove il mio miglior passatempo era andare ai centri di accoglienza di bimbi e madri denutriti, distribuivo la “bouille” che tanto mi ricordava la nostra polenta, anche se la vera vicinanza e ricordo della mia terra la sentivo soprattutto nei momenti in cui il tramonto si affacciava sul lago Tanganika. Pensando al Congo, nonostante il periodo di profondo conflitto etnico, rivivo il periodo della prime loro elezioni democratiche del 2006: l’entusiasmo, la volontà di poter finalmente esprimere una opinione, le persone che credevano nel cambiamento, tanto da percorrere chilometri a piedi al fine di far valere il loro voto; tutto ciò si confrontava con la nostra difficoltà nel far rivivere un vero senso civico, la perdita di quei valori forti che potrebbero accompagnare la crescita del nostro Polesine e della valorizzazione di ciò che noi, a differenza dei Congolesi, diamo per scontato. Il 11

recente conflitto in Siria, trasportato al vicino Libano, mi fece toccare direttamente la realtà di come un disastro inaspettato possa toccare chiunque. Prima della guerra mi ci sentivo davvero “a casa”, passeggiando per i paesini di agricoltori e gente semplice, accogliente e curiosa. Le porte aperte e ogni persona che mi salutava benevolmente mi facevano ritrovare l’energia, le speranze e la forza di tanti polesani che sono partiti in cerca di fortuna e altri che sono rimasti a costruire ciò che ora è una laboriosa terra di acque e tramonti.

Con l’esacerbarsi del conflitto, ognuno degli sfollati e rifugiati che incontravo mi sembrava mio vicino, mio familiare: gente come noi che affronta le difficoltà con estrema dignità.

Fino a pochi giorni fa mi trovavo nelle Filippine colpite da un tremendo tifone. La laboriosità, la solidarietà, la forza che ho incontrato nella gente mi ha fatto rivivere quella solidarietà che ben caratterizza noi polesani, orgogliosi della nostra terra e dalla quale difficilmente ci vogliamo staccare. Ed anche per chi va, nella distanza il Polesine é comunque Casa. É il luogo dell’infanzia felice, é la mamma e la famiglia nella sua numerosa interezza, é la dimensione piccola, sono le amicizie che si chiamano “poche ma buone” e durature, é il conoscere ogni angolo e trovare gli angoli giusti per vivere l’avventura quotidiana d’adolescente. Quando torno è un tuffo al cuore ed è un ritrovare il grande fiume che, continuando a scorrere, per l’ennesima volta farà scorrere via anche me, verso nuove e sconosciute mete ma pur sempre con questa terra e i suoi abitanti nel cuore.

RUBRICA

Flash & News

di casa in tutto il Veneto by rugby. Bamuovere la candidatura della nostra sterebbe fare la somma degli scudetti Regione per i Campionati Mondiali di conquistati dalle più quotate società Rugby Under 20 programmati per il venete, leggi Benetton Treviso, Pe2015. Per una giusta valorizzazione trarca Padova, Rugby Rovigo, senza internazionale del nostro territorio, apcontare che sono altresì protagoniste punto by rugby. Insomma, adesso sono ai massimi livelli le venete Mogliano e in tanti a parlare sempre più di rugby.

San Donà.

Ve lo posso testimoniare tutte le volUn mondo by rugby che da qualche te che passo il “Terzo Tempo” a fine anno ho potuto conmatch nella Club statare direttamente House, insieme ai tra “campo e dintorgiocatori e ai dirigenni”, seguendo le perti della Rugby Rovigo formance della Vea Delta.

Personaggi Personaggi Femi-Cz Rugby Rovifamiliari i “Campioni familiari i go Delta in giro per della Rugby Rovigo”, " campioni l’Italia, da L’Aquila a sia quelli di ieri che di Roma, da Prato a Caloggi. Così, se ricordo del Rugby Rovigo", visano, da Viadana a i primi dialoghi storici sia quelli di ieri Parma, senza contacon Maci Battaglini che di oggi re una straordinaria & Doro Quaglio, e escursione in Inghilpiù recentemente coi terra coi Bersaglieri in Naas Botha e Tito campo vs London Irish Lupini, Checchinato, nella europea Coppa Raisi ecc. ecc. adesHeineken. so… scambio spesso due battute con Quanta passione nella vita! in tantissiStefan Basson, capitan Mahoney, Billy me tifoserie by rugby, da quella rodigiNgawini, e i tanti campioncini emerna griffata “Posse rossoblu” a quelle di genti nati in casa, nella Città delle casa Benetton, che al Monigo di TreviRose. so (ospite di capitan Antonio PavanelOltre che col simpaticissimo e prolo polesano doc) ho constatato anche fessionale tandem tecnico Frati & De quest’anno assistendo ad una “partitisRossi, nonché col presidente Francesco sima” valida (vs Munster) per la PRO Zambelli e relativo staff, dall’ad Nico12 DIRECT internazionale. Ecco, prola Azzi al ds Pietro Reale. Personaggi prio per i suoi valori ”fondamentali”, “trasparenti”, senza troppo parlar “poadesso… tutta l’Italia rimane incollata litichese”. ai televisori durante le partite valide Questo è il rugby del “Terzo Tempo”, per il “Sei Nazioni”, ma anche per i dove ogni tifoso si trova “alla pari” test match internazionali, specialmente col proprio idolo, affabile e familiare quando in campo ci sono team speanche nelle spiegazioni tecniche. Ma ciali come gli All Black neozelandesi dove nascono anche delle manifestao gli Aussie dell’Australia, oppure Sud zioni di solidarietà, che hanno poi Africa e Argentina. Anche per questo avuto come testimonial gli stessi “camha fatto bene la Regione Veneto a propioni” della Rugby Rovigo Delta, da

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Rugby Rovigo Delta griffato Vea Femi-Cz “bandiera & icona” del Veneto in the world di Sergio Sottovia

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a emblema a prototipo. Anche perché il “cuore” dello sport, visto dall’oblò della vita, è sempre più “ovale by rugby”. Ecco, rugby sempre più sinonimo di fair play, sia sul campo che nel classico “terzo tempo”; vale a dire “sudore e fango” nel rispetto dell’avversario sempre e comunque, per essere “testimoni” di quei valori sportivi e umani che sono

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La Vea Femi-Cz Rugby Rovigo Delta allo stadio ''Battaglini'' di Rovigo

Mirco Bergamasco a Ferro & Lubian e tutti gli altri. Storie quindi di valori sportivi e umani by rugby, da esportare dal Veneto in the world. E allora… eccoci qua a parlarvi di Rovigo “città in mischia”, sia nell’immaginario collettivo che nella fede che ogni sabato/ domenica si identifica coi mitici Bersaglieri, cioè con la storica squadra rossoblu fondata dal dottor Lanzoni nel 1935 e sempre più protagonista sia allo stadio Battaglini che in Italia e nel Mondo. Una storia, quella del Rugby by Rovigo, che quest’anno, dopo “Undici-Scudetti-Undici” e bando alla scaramanzia, può completare il… calendario con le 12 squadre “tricolori”,

giusto per essere certificata “capitale del rugby”. Insomma Rovigo by Rugby & Veneto by Rugby non sono soltanto “concetti promozionali” ma una valorizzazione del territorio che merita attenzione, come appunto ha “deliberato” istituzionalmente la Regione Veneto per i sopracitati Mondiali U20.

Ma nello specifico della Rovigo by Rugby, come comunicato ufficialmente dal Commendator Zambelli, la seguente importante novità per la squadra rossoblu: “Nella prima decade di giugno la VEA FEMI-CZ Rugby Rovigo Delta svolgerà una mini tournée sportiva in Russia, dove disputerà due partite, una con un club di Mosca e l'altra, speria13

mo, con la Nazionale russa.

Questamini tournée sportiva rappresenterà la bandiera di una missione economica in Russia degli sponsor della Rugby Rovigo Delta e di tutti gli altri attori, polesani e non, che vorranno partecipare.

Sarebbe mio desiderio che la squadra si presentasse con il massimo delle sue potenzialità e sarebbe bello creare così un precedente da poter ripetere”.

Per la cronaca, segnaliamo che tra gli “attori” che hanno già sostenuto l’iniziativa c’è appunto la Regione Veneto, quindi la Camera di Commercio di Rovigo, l’Associazione Industriali polesana e… il Rugby by heart.

RUBRICA

Visti da vicino

In Polonia i piccoli parchi giochi sono gramma per me. E un giorno ho visto praticamente dappertutto, i bambini lui - colpo di fulmine - l’uomo che mi ha giocano spensierati e i genitori stanno fatto passare la voglia di ritornare in tranquilli. I genitori polacchi sono tanto Polonia (ormai ero separata). Ero enpiù giovani di quelli italiani. Là, la gentrata in una trappola che non potevo te si sposa tanto prima, le donne anche immaginare, da una parte i miei amaa 20 anni, gli uomini a 23-24 anni, se tissimi figli, dall’altra… Per puro caso studiano all’università ho conosciuto una siun po’ più tardi… E si gnora, professoressa cerca subito di trovain lettere in pensione, re la casa in affitto. era sola e mi ha proMi sono accorta che In due è più facile posto di farle comqui è molto andare per la vita. pagnia. Non sapevo Qui invece prima lo cosa fare, abitava a “popolare” che le studio, poi la carriera Rovigo, distante 220 case le puliscono gli nel campo di lavoro, chilometri da Cortialtri, e le persone i soldi in banca, la na. Decisi di andare, anziane vengono casa e alla fine arrilui veniva a trovarmi badate da assistenti vano i 40 anni, e… ogni mercoledì e nei ci pensano ancora fine settimana, doveun attimo a fare figli? va bastare. Ancora Magari un altro po’, e non me ne rendevo poi arrivano le sorprese… non sempre conto, ma avevo cominciato una nuopiacevoli. Rovigo mi ha portato stabiva pagina della mia vita. L’inizio è stalità, amicizie e penso anche fiducia in to difficile, in quegli anni erano pochi me stessa. Una piccola città, che in un gli stranieri a Rovigo, allora ero una primo momento sembrava chiusa, alla curiosa novità, però questo l’ho capito fine mi ha aperto le sue porte, è badopo. Vedevo più spensieratezza, più stato saper bussare. Ma scherzando, sorrisi e rilassamento. Domeniche fuori Rovigo è chiusa davvero, è circondacasa, al mare, in montagna, nelle città ta dalle acque del Po e dell’Adige e d’arte, a mangiare al ristorante con la finisce con il mare. Ma nonostante le famiglia o con gli amici, non a fare le nebbie e il clima umido si sta bene qui. pulizie trascurate tutta la settimana o Tanti dicono che Rovigo offre poco, ma a stirare. Mi sono accorta che qui è io non sono d’accordo del tutto. Basta molto “popolare” che le case le puliguardarsi intorno, quanti spettacoli, scono gli altri, e le persone anziane quanti teatri, il conservatorio, lo stavengono badate da assistenti. Era una dio, le palestre, la piscina, le mostre, novità per me, in Polonia questo sistei musei, le fiere. Volendo, ognuno può ma è poco diffuso, là si fa da sé, in fatrovare qualcosa per sé, basta aprire miglia. Un'altra cosa che mi ha colpito gli occhi, e apprezzare la ricchezza è la mancanza di piccoli parchi giochi che sta davanti a noi. Da persona vecostruiti vicino ai condomini per far nuta da lontano dico “Ti voglio bene giocare i bambini vicino casa. Ho viRovigo”. sto stupita i bambini girare per strada solo accompagnati da persone adulte.

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I sogni possono diventare realtà di Wanda Danuta Murach

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ono nata il 6 maggio 1955 a Lutówko in Polonia, in un piccolo villaggio sperduto. Mia madre insegnava in una piccola scuola materna, mio padre, insegnante di matematica, era preside di una scuola di campagna. Da ragazza ho frequentato il Liceo Classico e poi, all’università, Economia Amministrativa. Ma il mio cuore era sempre attratto dalla cultura. In seguito alla visita di una ragazza polacca che viveva in Italia, mi sono presa una pausa… Due settimane dopo, ero a Cortina d’Ampezzo, con la decisione di rimanere in Italia per tre mesi, era il 30 marzo 1999. Il destino invece aveva tutto un altro pro-

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STORIA DI COPERTINA Durden And The Catering a Voci per la Libertà - foto di Silva Rotelli

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I suoni della terra più giovane d'Italia 17

STORIA DI COPERTINA

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Amnesty

Dalla terra più giovane d'Italia si alza il canto dei diritti umani di Michele Lionello

foto di Silva Rotelli

Mario Venuti

a Villadose, un piccolo paese della provincia di Rovigo, nel 1998, proprio in occasione del 50° anniversario della Dichiarazione universale. Nasce con lo spirito di fare qualcosa, soprattutto con e per le giovani generazioni, per far conoscere i diritti umani e le campagne di Amnesty International. Promosso inizialmente a livello locale, diventa nel giro di pochi anni un appuntamento significativo a livello nazionale, sia per la musica che per l’associazione, grazie alla particolarità del festival e alla qualità delle proposte artistiche: di manifestazioni musicali legate ai diritti umani ne esistono davvero molte, però che promuovano direttamente, attraverso i testi delle canzoni degli emergenti e degli ospiti, ne esistono ben poche… Amnesty International Italia ha deciso di credere e di investire in questa manifestazione, perché da sempre è consapevole della capacità della musica di produrre consapevolezza e cambiamento.

Il 2003 è stato un anno senza dubbio fondamentale: “Voci per la Libertà” è diventata un’associazione e l’edizione del concorso musicale è stata premiata come festival dell’anno da parte del Meeting delle Etichette Indipendenti. Sempre in quel periodo, è stato istituito il Premio Amnesty International Italia, rivolto al big della musica Italiana che nel corso

«Dove iniziano i diritti umani universali? In piccoli posti vicino casa, così vicini e così piccoli che essi non possono essere visti su nessuna mappa del mondo. Ma essi sono il mondo di ogni singola persona; il quartiere dove si vive, la scuola frequentata, la fabbrica, fattoria o ufficio dove si lavora. Questi sono i posti in cui ogni uomo, donna o bambino cercano uguale giustizia, uguali opportunità, eguale dignità senza discriminazioni. Se questi diritti non hanno significato lì, hanno poco significato da altre parti. In assenza di interventi organizzati di cittadini per sostenere chi è vicino alla loro casa, guarderemo invano al progresso nel mondo più vasto. Quindi noi crediamo che il destino dei diritti umani è nelle mani di tutti i cittadini in tutte le nostre comunità» Eleanor Roosevelt

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ueste bellissime parole di una delle principali ispiratrici della “Dichiarazione universale dei diritti umani” illustrano perfettamente lo spirito di “Voci per la Libertà – Una Canzone per Amnesty”. Il festival, che quest’anno giunge alla sua diciassettesima edizione, nasce 18

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dell’anno precedente abbia scritto la migliore canzone sui diritti umani. Un altro momento di svolta è stato il 2010, anno in cui il festival è stato insignito della Medaglia di Rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e ha ricevuto un messaggio di stima ed incoraggiamento da parte del Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg. Dal punto di vista artistico, i momenti significativi sono stati davvero tantissimi: dalla consegna dei Premi Amnesty International Italia ai numerosi big della musica italiana, al coinvolgimento di numerosi ospiti che hanno raccolto l’invito del festival. Tuttavia, pur potendo contare sulla presenza di artisti di grande prestigio, “Voci per la Libertà” è soprattutto un luogo che permette agli esordienti di far conoscere la loro musica. Via via, la crescita del festival ha reso sempre più necessario cercare un’altra sede. “Voci per la Libertà” ha comunque deciso di rimanere legata al territorio dove il festival era nato. Siamo così stati accolti a partire dal 2012 da Rosolina Mare. Il festival, nella nuova location, ha avuto un forte rilancio su molteplici fronti: nella qualità della proposta, nella presenza di pubblico e nel ritorno mediatico a livello nazionale. La collaborazione con l’Amministrazione Comunale, con la Pro loco e con gli operatori turistici è stata ottima. Si è creata una sinergia che consente di poter lavorare assieme per raggiungere importanti obiettivi: la diffusione dei diritti umani attraverso la musica, il coinvolgimento dei giovani, la promozione del territorio. La qualità delle proposte musicali, il coinvolgimento di artisti noti, il continuo espandersi delle collaborazioni e delle partnership, il costante lavoro di comunicazione, hanno permesso al festival di crescere in maniera esponenziale. Nonostante questo, si è mantenuto quello spirito di volontariato che caratterizza la manifestazione e “Voci per la Libertà” continua a impegnare le proprie energie nella promozione dei diritti umani attraverso la cultura musicale e l'aggregazione giovanile. Appuntamento quindi dal 17 al 20 luglio, con i finalisti del Premio Amnesty International Italia Emergenti e del concorso di video arte per i diritti umani 3 minuti x 30 articoli, unitamente al vincitore del Premio Amnesty International Italia e a tanti prestigiosi ospiti, per una festa di musica e diritti umani senza precedenti.

Enzo Avitabile

Marta sui tubi

Leo Miglioranza 19

STORIA DI COPERTINA

s e u l b a t l e d

Tra i festival di maggior tradizione e longevità nel panorama europeo

di Nicola Chiarini

di Danilo Trombin

Screamin' Jay Hawkings - 1995 - foto di Carlo Chiarion

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ue Delta, un’unica passione musicale. E’ su questo intreccio che nel 1988 in Polesine inizia il percorso di Deltablues, tra i festival di maggior tradizione e longevità nel panorama europeo e, da sempre, attento a proporre con rinnovata freschezza lo spirito e le vicende del blues, che la Storia vuole siano iniziate nel 1903 a Clarksdale. Proprio in quella località, nel cuore del Delta del Mississippi, ha sede il Museo del blues che, tra le tante memorabilia, espone anche alcuni poster delle passate edizioni del festival italiano nato sulle rive del Po e divenuto, così, veicolo di promozione anche turistica del territorio polesano. Il blues non nasce come semplice intrattenimento, ma è la colonna sonora delle lotte delle popolazioni afroamericane, all’epoca ancora sotto il tallone della schiavitù e delle aperte discriminazio-

ni razziste. Negli stilemi del genere c’è, di sicuro, un punto di contatto tra questi mondi geograficamente lontani, ma ricchi di similitudini nella conformazione materiale, al confine tra terra e acqua, e nel carattere delle popolazioni, che hanno sempre dovuto guadagnarsi il pane col sudore della fronte, ma con l’orgoglio di chi nella dignità del lavoro vive la premessa per superare il limite dell’esistente, tendendo a un orizzonte di equità, liberazione, progresso. Giunto alla 27° edizione, Deltablues, anno dopo anno, ha portato in Polesine praticamente tutti i big della scena blues internazionale. Da Albert Collins, il “Master of Telecaster” il cui stile ispirò anche Jimmy Page e Keith Richards, ad Albert King, che sul palco di Rovigo fece uno degli ultimi concerti prima di morire, fino all’armonicista James Cotton e Bo Diddley, la cui lezione 20

REM

Lucky Peterson - 2003 - foto di Carlo Chiarion

ha influenzato, per ammissione dei diretti interessati, Buddy Holly, Jimi Hendrix, Rolling Stones. In questa carrellata di mostri sacri, non si possono dimenticare Screamin’ Jay Hawkins con la sua straordinaria presenza scenica, e John Mayall, il padre del british blues, Taj Mahal, Charlie Musselwhite, Bob Margolin, i Nine Below Zero. E poi i grandi vecchi del Mississippi come R.L. Burnside, Junior Kimbrough. Fino a Davide Honeyboy Edwards che nel 2003 a Rovigo festeggia i suoi 88 anni davanti a un pubblico numeroso come mai. Nella ricerca delle radici del blues, non poteva mancare la riscoperta dello zydeco, particolarissimo genere tradizionale della Louisiana suonato con la fisarmonica, quasi sconosciuto in Italia prima della performance rodigina di C.J. Chenier. Negli anni, soprattutto più recenti, la direzione artistica ha aperto anche a interpreti provenienti da altri percorsi come Al Di Meola e Scott Henderson, chitarristi di estrazione jazz, o grandi protagonisti della musica italiana come Eugenio Finardi, Raphael Gualazzi, Andrea Mingardi. Tra le operazioni di “apertura”, sicuramente riuscita è la sezione “Rock around the blues” che, da un paio d’anni, porta a Rosolina uno spaccato degli stili nati negli Usa degli anni ‘50. Un percorso ricco e articolato, insomma, che ha ottenuto importanti riconoscimenti anche Oltreoceano. Non a caso, Deltablues è partner di vecchia data e riferimento in Italia per la Blues Foundation di Memphis, che ha affidato al festival polesano l’organizzazione delle selezioni nazionali dell’International Blues Challenge (Ibc), il concorso mondiale per bluesmen emergenti che, in tutto il mondo, individua Paese per Paese i protagonisti che partecipano ogni anno alle finalissime nella prima città del Tennessee. Un percorso di rilievo che, nel tempo, si è avvalso della passione e delle competenze di tante persone. Tra queste, non hanno fatto mancare il proprio contributo anche l’attore Natalino Balasso, amico della rassegna fin dagli albori, e lo scrittore Massimo Carlotto che, lo scorso anno, realizzò uno spettacolo ad hoc per Deltablues, che fu portato in scena nella suggestiva cornice del Chiostro degli Olivetani a Rovigo. Cruciale, poi, la collaborazione con il conservatorio “Venezze” di Rovigo, con cui da diversi anni vengono organizzate clinics e iniziative di formazione per musicisti, con masterclass che coinvolgono alcuni tra i protagonisti della rassegna.

Bo Diddley - 1997 - foto di Carlo Chiarion

Lucky Peterson - 2003 - foto di Carlo Chiarion

Evento "Rock Around The Blues" all'interno dell'edizione di Deltablues 2013 - foto di Damiano Xodo 21

STORIA DI COPERTINA

o d n a t r e c scon

Il sogno rinasce con occhi più giovani

di Maurizio Zannato

Café Touba

G

iugno 1987. In quegli anni la cultura dello sballo aveva preso possesso della nostra provincia, con i suoi sogni e l’impossibilità di realizzarli. Stavamo sulle panchine della vecchia piazza di Ceregnano, eravamo sperduti, con voglia di creare e pochi mezzi e spazi per socializzare che non fossero i bar. Un anno prima avevamo organizzato una festa che chiamammo Party di fine estate, si era svolta nella palestra delle scuole elementari del nostro paese, lì si tenevano già altre serate, quella per gli amici dell’Aeronautica o feste di partito: noi pensammo ad una festa per i giovani, mettemmo uno schermo gigante che proiettava immagini di ogni tipo, fumetti, pezzi di vita, dj e musica di ogni genere. Quelle furono le prove generali e un anno dopo, nel giugno ‘87 ci ritrovammo a parlare di un festival di musica da fare a

Ceregnano, erano gli anni dei Litfiba, CCCP, Diaframma, ma ciò che volevamo di più era fare i Gang, un sogno per il nostro paesello, entrare in quello che era il fermento musicale italiano in quegli anni. Non avevamo risorse finanziarie, la festa dell’anno prima non aveva lasciato cassa, ma avevamo la passione e così chiedemmo alla festa di un partito - era la festa dell’Avanti! - di poter usare le loro “attrezzature”: uno stand in lamiera che faceva mille gradi, le cucine dove arrostivi sotto il sole ed un palco che abbiamo costruito con assi e ferri da carpentiere, con un albero in mezzo perché non vi erano alternative.

Le band si andavano a sentire e poi si giudicava, solo per i Rosegarden un’eccezione, loro erano la band di Rovigo che faceva strada, e loro volevamo far suonare: fu grazie a loro che imparammo che occorre un buon impianto, 22

REM

non improvvisato e ci consigliarono lo Zero Sound, il mattino dopo andammo a conoscere il fonico, il burbero (ma forse era l’alzataccia che gli avevamo fatto fare) Billy, che si dimostrò poi un grande, caro amico che ci consigliò e seguì in quel meraviglioso 1987 e negli anni a venire. Fu un’edizione fantastica, non sbagliammo quasi niente e i ragazzi dei paesi limitrofi capirono già di che pasta eravamo fatti. L’anno dopo, le domande e i dubbi che ci avevano pervaso un anno prima sulle panchine del centro avevano già le risposte: “Sconcertando” proseguì diretta il suo cammino verso l’edizione 1988, ma qualcosa andò storto, e fu una Caporetto a livello economico, anche se avemmo il privilegio di presentare al pubblico i Pitura Freska, band veneziana che in seguito… beh il resto lo sapete. Quell’anno finanziariamente fu un disastro e per due anni non facemmo più niente se non ritrovarci sotto i pini del centro a immaginare una ripartenza. Così siamo ripartiti, cambiando location: andammo alle scuole medie del paese, invitammo le bancarelle e i Marlene Kuntz (era l’epoca di “Catartica”), il pubblico arrivava da fuori provincia, sentivamo che il festival cresceva e così fu, per anni ed anni. Son passati 27 anni da quel giugno.

Ventisette. A “Sconcertando” son passate le migliori band italiane, giusto per citarne qualcuna: Zen Circus, Paolo Benvegnù, Moltheni, i Diaframma, Le Luci della Centrale Elettrica, Modena City Ramblers, Dente, One Dimensional Man, Estasia, Giorgio Canali, Brunori sas... abbiamo tenuto rapporti con il Cesvitem per le adozioni a distanza (rapporto che ancora continua con un’adozione in Perù), con Miloud e il naso rosso contro l’indifferenza per i bambini bulgari, aiutato il Piemonte con un raccolta fondi quando vi fu l’alluvione, mostre di Andrea Pazienza, di fumetti, abbiamo fatto cinema con i ragazzi della Tajant Picture col primo Nutriaman, ospitato giovani video maker, presentato libri con Andrea Signorini ed era un continuo crescendo: i concerti si tenevano su due palchi, uno grande che cresceva in qualità ogni anno, ed uno più piccolo per la notte, per la musica acustica, abbiamo aggiunto cinema, presentato iniziative, gemellaggi con festival, collaborato con fumettisti, fatto teatro, insomma eravamo diventati ciò che volevamo, un contenitore di cultura a 360 gradi. Con il passare degli anni abbiamo pensato ai giovanissimi, chiamando un acclamato dj, cosa che scontentò una fetta del pubblico del Festival, ma per molti era il momento della festa e del ballo e in

fondo aiutava a far crescere le mille altre idee di “Sconcertando”. Gli ultimi anni son stati difficili. La crisi, le normative imposte dalla legge, ci hanno costretto a ridurre le molteplici attività del festival, mentre parallelamente il nostro sogno aumentava, ed era quello di crescere una nuova generazione di giovani, entusiasti di portare avanti questa idea, che compiva 25 anni - che vuol dire che molti di noi che avevano iniziato ventenni andavano per i 50, e il lavoro, la vita ti portavano, necessariamente e comprensibilmente, a dover rivedere un po’ le tue forze.

Quest’anno, nel 2014, arrivati a quella che doveva essere la 25ma edizione (più i due anni fermi per mancanza di liquidità ma impegnati a progettare) si chiude l’esperienza di “Sconcertando” così come l’abbiamo conosciuta, così come è stata. Si chiude un sogno in cui abbiamo creduto e che abbiamo sviluppato in ogni suo modo. Ma si chiude per aprire una nuova porta, per non trascinare il nostro sogno alla deriva ma farlo rinascere con occhi più giovani, magari con una formula più consona ai tempi, più ridotta o solo più appassionata. Tra il trascinarci ed il rialzarci abbiamo scelto la seconda parte: quella di consegnare la staffetta ai più giovani, alcuni sono i nostri figli, e questa è la cosa migliore che potevamo scegliere, senza la pretesa di aver ragione, sempre e per anzianità, ma con l’umiltà e la gioia di vedere il nostro festival che parla ancora di Passione. L’Associazione Culturale My Way lo condurrà comunque, comunque saremo vicini a ciò che di nuovo nascerà, comunque attendiamo con speranza il nostro futuro!

Gamesh 23

ATTUALITÀ

Ravenna

2019

Il cammino verso la “Capitale Europea della Cultura” diventa una grande occasione per ripensare nel profondo il presente e il futuro della città intervista a LORENZO DONATI di Sandro Marchioro

Nella foto sopra: "We stand for Europe" azione coreografica in Piazza del Popolo a Ravenna 9 maggio 2013 foto di Luca Di Giorgio - Snaphoto

L

a domanda è semplice e non certo disinteressata: se Ravenna dovesse riuscire a diventare “Capitale della cultura” nel 2019, in quale modo la provincia di Rovigo potrebbe trarre qualche vantaggio? Dopo che è caduta la candidatura di Venezia – Nordest (per motivi che non conosciamo, e comunque perchè così ha scelto la giuria), il territorio polesano è quello geograficamente e culturalmente più vicino alla candidata Ravenna. Con la quale, forse, in qualche modo 24

potrebbe interagire. Per avere delle risposte dobbiamo capire prima di tutto cosa sia il progetto “Ravenna 2019”, al quale la città romagnola sta lavorando da tempo, senza lesinare né impegno né investimenti.

Ci siamo rivolti per questo a Lorenzo Donati, che di Ravenna 2019 è uno dei motori, al quale abbiamo chiesto di spiegare il progetto nel dettaglio e di darci anche qualche consiglio su come (brutto dirlo, ma potrebbe essere un’occasione anche per questo territorio) approfittarne.

REM

Cos’è Ravenna 2019?

Ravenna 2019 è la candidatura di Ravenna a “Capitale Europea della Cultura” nel 2019. Detto questo, per precisare la risposta, si potrebbero seguire due prospettive, cercando da una parte di descrivere in sintesi il percorso della candidatura, e dall’altra domandarsi per quali ragioni una comunità cittadina abbia scelto di intraprendere tale sfida. Cominciamo dal primo. Dal 1985 esiste un programma europeo denominato “Capitale Europea della Cultura”, istituito con lo scopo di contribuire a costruire il concetto stesso di cittadinanza europea.

Avvicinare l’Europa (le istituzioni, le popolazioni, le culture ecc.) ai diversi stati nazionali e coinvolgere un largo numero di cittadini sono i due principali assi di lavoro, in un percorso pluriennale che prevede una fase di preselezione e una selezione finale, oltre ai periodi preparatori precedenti e successivi.

Si tratta dunque di una competizione lunga, che va presa inevitabilmente sul serio: l’iter che porta una città a diventare Capitale può durare infatti da un minimo di sei anni (se consideriamo il tempo che intercorre dalla promulgazione del primo bando fino all’anno da Capitale) fino a oltre dieci anni (da noi se ne parla dal 2007). La “Capitale Europea della Cultura” diventa quindi una grande occasione per ripensare nel profondo il presente e il futuro della città. A Ravenna è andata un po’ in questo modo, attraverso iniziative “parallele” organizzate per accompagnare la candidatura: le “Prove Tecniche”, un cartellone di eventi che raccoglie gli appuntamenti

culturali ravennati e delle altre città romagnole che sostengono il percorso (bassa Romagna, Cervia, Cesena, Faenza, Forlì, Rimini); eventi ad alta partecipazione creati ad hoc nella darsena di città, il cuore simbolico della candidatura, vasta area di archeologia industriale sottoposta a un processo di riconversione a fini anche culturali; e poi rassegne di cinema all’aperto mai organizzate prima, concorsi per scuole superiori, giornate di street art, conferenze con scrittori e saggisti internazionali.

Oltre ovviamente al sostegno, anche economico, dato a raggruppamenti artistici, festival, rassegne che in qualche misura hanno potuto trovare una nuova interlocuzione con il Comune di Ravenna. Dovessimo rispondere invece tentando la seconda prospettiva, diremmo che Ravenna 2019 è la necessità di una città di non sentirsi “in pace con se stessa”. Ravenna possiede monumenti Unesco, formazioni artistiche contemporanee di livello internazionale, una vita notturna di qualità vicina al brulicare della riviera ma al contempo capace di esprimere una sua cifra. Eppure, la città ha deciso di mettersi volontariamente in difficoltà. Si sarebbe potuto godere della tranquilla vita di provincia, puntando sugli scambi culturali all’insegna del mosaico. Si è invece pensato che questo non poteva bastare, perché il percorso per avvicinare le nostre città ai fermenti avanzati del continente è ancora molto lungo e accidentato.

La “Capitale Europea della Cultura” nel 2019, non va dimenticato, sarà ospitata da un Paese profondamente in crisi, Paese in cui prevale un’idea 25

conservativa della cultura. In un Paese in cui probabilmente la maggioranza della popolazione è convinta che con la cultura non si mangi, e che quindi possa venire sacrificata in nome di altre priorità.

In un Paese che non è in grado di valorizzare il suo più grande patrimonio, divisa fra puristi della tutela (eppure i monumenti cadono a pezzi) e funzionari impreparati che hanno potuto fare il brutto e il cattivo tempo. Un Paese che, dunque, pare essersi fermato a un’idea di cultura ancorata solo sul passato, sulle tradizioni, con l’evidente rischio di restare impantanato in uno sterile tradizionalismo difficilmente in grado di parlare al presente. Per questi e altri motivi, la “Capitale Europea della Cultura” nel 2019 dovrà ripartire da un’interrogazione profonda sul senso stesso della parola cultura in relazione al mutamento delle città, dei territori comunali e provinciali.

Dovrà puntare molto sull’educazione come via per la partecipazione.

Quante possibilità ha Ravenna di superare la selezione?

Il 17%! Siamo rimasti gara con altre cinque città: Cagliari, Lecce, Matera, Perugia, Siena. Città agguerrite, che come Ravenna hanno fame del titolo, con alcune delle quali è in atto un percorso di collaborazione e scambio che ha già visto nascere il progetto di cooperazione “Italia 2019”. Il percorso “Capitale Europea della Cultura” ha storicamente contribuito al mutamento del tessuto urbano delle città che si sono aggiudicate il titolo.

Per questo, la svolta infrastrutturale che si riesce a imprimere al territorio gioca un ruolo decisivo, ovviamente

ATTUALITÀ

privilegiando il punto di vista culturale (musei, teatri, centri multidisciplinari, sale espositive e per concerti ecc.) ma senza tralasciare i trasporti, l’accessibilità, la ricettività. Tutti motivi che da una parte metterebbero in una posizione di vantaggio le città del sud Italia (quelle che, sulla carta, sono maggiormente in grado di fare leva sulla quantità del mutamento, partendo da una posizione di svantaggio), ma dall’altra possono favorire le città del nord. Ravenna, da questo punto di vista, ambisce a diventare l’avamposto dell’Europa in Italia, e promette di offrire un programma artistico-culturale di altissimo livello, costruito su relazioni di collaborazione già in atto e in via di ulteriore crescita. Ravenna 2019, dunque, non è una lista di sogni per una città da costruire nel futuro remoto. Non è l’utopia di una comunità in cui la cultura è al centro. Ravenna 2019 è il tentativo concreto di fare i conti con il futuro prossimo, disegnando i contorni di un “mosaico di culture” in cui tutti dovremmo sentirci chiamati a costruire una possibile idea di Europa quotidianamente. Consapevoli delle difficoltà che questa scommessa comporta, ma portando con noi il meglio di quanto siamo in grado di offrire, per dargli forza.

Lorenzo Donati

L’evento coinvolge, mi pare, tutta la Romagna, oltre a Ravenna. C’è la possibilità, secondo te, di agganciare l’occasione e di far ricadere qualcosa anche nel nostro Polesine? Se sì, in quale modo? Al di là del successo o meno della candidatura, cosa può lasciare sul territorio (anche sul nostro) un’esperienza come questa?

Silvia Naddeo, "qrcode Ravenna 2019"

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REM

"Osservatorio fotografico" - foto di Nicola Baldazzi

Concretamente, nei prossimi mesi, lo staff che si sta occupando della candidatura sarà chiamato a revisionare il dossier di preselezione, e a integrarlo con nuove suggestioni in vista della consegna del documento finale. Ogni nuovo stimolo che sappia far tesoro del lavoro svolto sinora è ovviamente benvenuto!

L’evento coinvolge effettivamente tutta la Romagna, ma è chiaro che se Ravenna dovesse diventare Capitale la portata delle sue azioni dovrà riguardare tutta l’Italia, a cominciare dalle regioni limitrofe, quelle con un’identità culturale affine. Abbiamo concepito un programma artisticoculturale suddiviso in cinque grandi tracce, che sarebbero le cinque

principali “scene” del nostro mosaico di culture. In particolare, la quinta scena riguarda la propensione delle popolazioni romagnole al fare insieme, partendo dalle radici storiche per arrivare all’oggi (l’abbiamo chiamata Trasformo, dunque siamo, cercando di guardare a tutte quelle comunità in movimento che hanno segnato la nostra storia).

Pensando alla vocazione alla trasformazione del territorio, alle bonifiche a cavallo fra i due secoli, ma anche all’industrializzazione successiva, si potrebbe individuare un asse di lavoro in grado di connettere progetti romagnoli e polesani intorno storia e politica (movimenti bracciantili, nascita 27

dei raggruppamenti sindacali e partitici ecc.), individuando anche un filone che possa condurci sino a percorsi che avvicinino il mondo delle imprese ai cosiddetti creativi.

Designer, grafici ma anche cineasti, teatranti, artisti visuali: quali percorsi ci immaginiamo per metterli in connessione con le imprese del territorio? Questa è solo una delle possibili suggestioni, una delle molte domande in atto collegata alla più generale questione con la quale potremmo riassumere l’intero senso della candidatura: come riportare vicino alla vita quotidiana delle persone una certa idea di cultura (e di Europa)?

STORIE

I tempi in cui le donne

cantavano...

foto di Cristina Finotto

di Cristiano Draghi

"Questa è una terra i cui fiumi scorrono portando verso il Delta le storie degli uomini, e laggiù, nel mare, si confondono con l’infinito".

Francesco Permunian

I

l racconto più inatteso, perché riemerso da un tempo che fu e di cui non pensavo ci fossero persone

viventi che lo avessero vissuto, è quello di Anselmo Scaroni. A sentire descrivere da lui la casa dov’è nato nel 1925, nei pressi di Adria, si fa un vero, profondo, tuffo nel passato: “Avevamo una casa piccola, di tre stanze. Una era la cucina, le altre due le camere da letto. In una dormivano i miei genitori, nell’altra 29

noi cinque fratelli. In muratura, di pietra cruda, c’erano solo le pareti e il camino, naturalmente. Il pavimento era di terra battuta e il tetto di canne, attraverso il quale si vedevano il sole di giorno e la luna e le stelle di notte. C’era un tavolo, mentre come seggiole mio padre aveva piantato in terra due pali per ogni parte, sopra

STORIE

ai quali aveva inchiodato un’asse: ed ecco fatta una panca. I letti erano due cavalletti e pertiche messe di traverso, sulle quali era appoggiato un sacco pieno di paglia. Il gabinetto era all’esterno, nel campo. Una buca e due assi in un piccolo capanno.

Quanto all’acqua c’era un pozzo a trecento metri di distanza, bisognava andare lì con il secchio”.

Non pare vero. Quando ho parlato con lui, nel gennaio 2012, una

persona come Anselmo era ancora fra noi, macchina del tempo umana in grado di riportarci a quando si mangiava polenta e scopeton, l’aringa maschio… quella leggendaria, che stava appesa ad un filo, con la quale insaporire a turno i bocconi. E poi patate americane, e qualche minestra, la sera… Tutto qui. Senza scarpe, scalzi dieci mesi all’anno e solo nel pieno dell’inverno con gli zoccoli. Così che la domenica 30

non si poteva neanche andare a messa, perché nella casa del signore non si era ammessi a piedi nudi… chissà cosa ne avrà pensato il signore stesso, lassù…

Di chiacchierate così, a poveri e ricchi, a operai e borghesi, ne ho fatte alcune decine. Di questa piccola epopea, ispirata anche da coloro che negli anni Sessanta si misero alla ricerca delle canzoni popolari (ricordate? un lavoro

REM

ma il 30 dicembre Ricci morì, a 93 anni e mezzo (perché a quelle età si contano anche i mezzi, di anni, come da bambini). Ebbene, furono i parenti a informarmi di questo, ma anche del fatto che quell’intervista sul passato lo aveva reso felice, gli aveva restituito un qualcosa sulla sua vita. Di quell’incontro ricordo la fatica che feci, cercando di capire ciò che Ricci diceva, per giunta con una fortissima inflessione ferrarese, perché mi è molto meno nota del polesano. Ma voglio ricordare anche una frase di profonda nostalgia del tempo perduto, anche se povero e difficile da vivere. “Lavoravo da un panettiere e quando partivo da casa era ancora notte. Lungo il canale guardavo in alto e vedevo le stelle.

Siccome a terra non c’erano certo le luci di oggi, a brillare erano solo loro e la Luna si rifletteva nell’acqua del Po: quant’era bella. Oggi non la vediamo più così chiaramente o almeno non la si guarda più con gli stessi occhi. D’altronde, quando l’hanno calpestata, povera Luna, le hanno portato via la poesia.

Non è più la Luna dei fidanzati, dell’amore”.

preziosissimo), ho ora tanti ricordi anch’io. Il più commovente è quello legato a Antonio Ricci, di Occhiobello, anno di nascita 1918, fornaio da ragazzo, invalido di guerra, poi per qualche anno vigile

urbano. Parlai con lui pochi giorni prima del Natale 2011, nella casa di riposo di Rovigo, parlava come poteva, respirava a fatica con una bombola ad aiutarlo. L’articolo era programmato per l’8 gennaio 2012, 31

D’altronde, come ci spiega Francesco Permunian, questa è una terra i cui fiumi scorrono portando verso il Delta le storie degli uomini, e laggiù, nel mare, si confondono con l’infinito. E’ lo spirito con cui ho percorso il Polesine entrando nelle case di questo e di quella.

Solo qualche immagine, per darvi un’idea. “Un uovo valeva un giro di giostra”, racconta Francesca Bergossi di Bergantino, a cui la madre pagava così un giro sui cavallucci

STORIE

aveva facile gioco a dire loro: “Troverai un ragazzo in divisa che ti vorrà tanto bene”. Così le mandava via felici.

in quella che sarebbe diventata la capitale proprio del distretto della giostra. “In farmacia vendevano le sanguisughe”, è il ricordo inciso nella mente di Paolo Trombetta, di Polesella. “I regali li portava la Befana”, dice Lucia Felisatti di Boara Polesine, che ci ricorda come le feste avessero un tempo una scansione diversa ed i regali fossero al massimo una bambola di terracotta e i dolci quelli fritti dalla mamma a forma di casetta, animaletti, bamboline, ometti e vecchiette e poi appesi a uno spago teso in cucina.

Sante Tugnolo di Adria (di cui è stato sindaco) torna sul tema dell’acqua ed evoca le donne che percorrevano le strade con il basolo, un legno ricurvo sulla spalla e due secchi in equilibrio alle due estremità.

“Straze, ossi e fero vecio” è il grido che sentiva Vielmo Duò, di Badia,

riportandomi e riportandoci al tempo in cui anche i vecchi ossi avevano ancora un valore, erano riutilizzabili per qualche lavorazione che non so, tanto da essere rivenduti allo straccivendolo di passaggio. E infine Giannina Giunta, di Rovigo, racconta quei tempi come quelli in cui “le donne cantavano”, cioè cantavano passeggiando, ma soprattutto cantavano lavorando o lavando i panni nell’Adigetto, che era peggio di un lavoro. E’ un ricordo difficile a descriversi e soprattutto a capirsi, legato com’è a un mondo troppo più semplice del nostro. Nel quale, ed è l’ultimo ricordo che vi offro in quest’occasione, una bella commerciante di profumi, detta la Pendona, la sera a casa sua leggeva la mano alle ragazze. Ed essendo un tempo in cui tutti i giovani erano costretti ad un lungo servizio militare, 32

Dalla mia memoria, di queste chiacchierate ed altro materiale simile – non pochi sono i libri di ricordi e i documenti che ancora circolano – ne ho tratto un’orazione teatrale, alla maniera di Marco Paolini, per capirci, che la compagnia Proposta Teatro Collettivo di Arquà ha avuto la bontà di adottare come testo per il 2014. L’idea è quella di raccontare il passato, di trattenerlo ancora un po’ con noi. Soprattutto perché ne emerge con evidenza quanto sia cambiato il nostro Paese in così poco tempo – la vita di un uomo – e già che ci siamo anche quanto sconsiderati furono i governanti di quegli anni, e sappiamo chi fossero, che mandavano i nostri soldati a morire in Africa sostenendo di voler portare la civiltà a coloro che vivevano nei tukul, e intanto avevano gente che qui viveva nelle capanne, così come a Matera si viveva nelle grotte.

filo

STORIE

Siamo tutti legati da un

LO e la TERRA e, in ognuno di noi, c’è il CIE

I

l 9 Agosto 2013 Miriam Meghnagi, nota interprete di musiche ebraiche e del Mediterraneo, ha tenuto un concerto a Ficarolo (Rovigo) in ricordo di Luciano Bombarda, fondatore dell'Associazione Il Fiume, che ha scelto l'acqua del Po per compiere un gesto tragico e ancora difficilmente spiegabile. La presenza dell'artista ha fornito l'occasione per l'intervista che segue.

Sei nata a Tripoli, una città di mare, il Mediterraneo che si mescola agli altri che si infilano tra l’Italia ed il resto dei paesi che si affacciano sul suo bacino, che rapporto hai con l’acqua?

L’acqua... è un elemento di cui da sempre so l’importanza e che da sempre fa parte del mio paesaggio mentale, onirico. Il mio nome Miriam include il mare, iam in ebraico.

Miriam cantava la salvazione del popolo ebraico per l’attraversamento miracoloso del Mar Rosso, Mosè era stato affidato alle acque del Nilo per salvarlo dall’editto egiziano che condannava a morte tutti i primogeniti maschi ebrei. L’acqua che scorre non è mai la stessa e racchiude infiniti segreti. l’acqua nomade che vive, nutre,trasforma e si trasforma, cura e salva. Come l’acqua del pozzo di Miriam che dissetò per 40 anni nel deserto, e l’acqua che Mosè fece scaturire dalle rocce. L’acqua amara nel deserto, come in “mir–iam”, e la manna composta di rugiada.

“Ima” madre in ebraico è anche inclusa nella parola Maim, acque in ebraico. Parole inscindibili con significanti multipli. Riparo e diluvio insieme, origine e profondità. L’acqua ha accompagnato tutte le nostre partenze in segno di augurio e di

intervista a MIRIAM MEGHNAGI di M. Chiara Fabian 33

STORIE

e la cittadinanza italiana, con effetto retroattivo…nessuno mai ci ha riconosciuto i danni morali, di proprietà, fisici, psichici... Il desiderio di viaggiare l’avevamo tutti, tutti noi che non eravamo liberi di viaggiare... e il viaggio per me era legato all’immagine della nave... all’acqua appunto. Noi siamo fatti anche di acqua e siamo nell’acqua prima di nascere. Dentro di noi c’è il cielo e la terra, siamo parte dell’universo, qualunque nostra azione ha delle conseguenze inaspettate.

Il concerto di Ficarolo

buon viaggio. “Va come l’acqua, va sano e torna sano”, l’acqua veniva gettata dietro coloro che partivano.

Nell’acqua della vasca sguazzavamo noi piccoli, talvolta con nostro padre.

L’acqua a Tripoli era scarsa, durante l’estate in particolare, ricordo che la sera venivano riempiti bacili e secchi e contenitori per le necessità del giorno dopo. Anche per accedere alla prima classe elementare dovetti superare degli esami, ricordo le mie mani sporche d’inchiostro. Il tema era il mare in cui misi una barchetta a vela.

A Tripoli la tua famiglia arrivò forse dopo la diaspora dalla Spagna, ma fu costretta a fuggire a causa dei pogrom nei paesi arabi dell’Africa del nord durante la “guerra dei 6 giorni”, sei diventata allora un’”ebrea errante” o questa irrequietezza è nel tuo dna?

Mah , i miei erano antichissimi abitanti della Libia, certamente qualcuno

era arrivato dopo la diaspora spagnola, ma una parte della famiglia proveniva da Gerusalemme.

Certamente i pogrom arabi ci hanno costretto a fuggire, ma l’ultimo quello del ‘67 non ci avrebbe permesso la fuga, perchè la Libia era ormai uno stato nazionale, i manifestanti promettevano il massacro di tutti gli ebrei... Irrequietezza sì , di necessità si fa virtù credo, per molti anni non avemmo possibilità di viaggiare... se non talvolta per motivi di salute o di studio lasciando in pegno come garanzia di ritorno, una forte cauzione e il resto della famiglia . La maggioranza non aveva nè cittadinanza nè passaporto, solo nel 1967 ci era stato fornito un documento di viaggio valido per un solo viaggio... e quel viaggio è stato verso l’Italia. Rimanemmo nella condizione di rifugiati politici sotto l’alto commissariato delle Nazioni Unite... ci vollero molti, molti anni per acquisire un passaporto italiano 34

Con Luciano Bombarda e l’Associazione Il Fiume il tuo incontro risale al 2009 quando arrivasti inaspettatamente alla prima festa del Fiume organizzata nell’imbarcadero di Stienta. In quell’occasione si allacciò un rapporto che ha poi portato al tuo concerto a Ficarolo. Fu quello il tuo primo incontro con il grande fiume o eri già stata tra le rive del Po? Se ricordo bene credo che quell’incontro sia stato il primo vero incontro con il grande Fiume. Se c’ero stata, è stato durante i primi viaggi in Italia, che tuttavia non erano dedicati in particolare al Fiume... quella volta, quel nostro primo incontro sul’imbarcadero ha segnato un mio nuovo rapporto con il fiume Po. Ero stata sul Danubio. ho viaggiato lungo il Danubio... ma non sul Po. Grazie alla tua voce e al contributo di musicisti eccezionali, il concerto è diventato il saluto che molti amici sparsi per il mondo volevano portare e dei quali hanno risuonato le lingue nelle canzoni in ebraico, yiddish, ladino e arabo che tu hai proposto.

Luciano in questi luoghi aveva ritro-

REM

Miriam tra i canali del Delta con la guida di Luciano Balasso - foto di M.C. Fabian

vato il passaggio di uomini e donne che erano fuggiti dalla persecuzione nazista e, seppure per pochi anni, ma in modo indelebile, si erano mescolati con la vita delle persone e dei luoghi, come solo i popoli, le acque e l’aria, sanno fare. Il tuo messaggio di fratellanza e unione è stato particolarmente sentito e pur essendo universale ha ben trasmesso una vocazione di queste terre. Dell’ospitalità hai avuto un piccolo assaggio nel breve giro sul Delta, che Luciano Balasso e la sua famiglia, con gli amici del Fiume, ti hanno organizzato, quali sono state le tue sensazioni?

Meravigliose sensazioni. E’ un paesaggio forte e simbolico, mi ricorda il deserto. La gente del Fiume mi ha accolto con affetto, mi sono sentita parte della famiglia. E’ stata una bella esperienza, che vorrei un giorno ripetere.

Un fiume il Po che, forse richiama altri fiumi, ma sicuramente ha anche una

sua unicità, ti vengono in mente paragoni con altri fiumi?

Il Nilo ad esempio, per citarne uno altrettanto ricco di simbolismi e magia.

E il Danubio come dicevo, così diverso per i paesaggi, ma così profondo e importante per tutti i villaggi e città che attraversa, per tutte le persone importanti che hanno abitato le città sul Danubio... il Giordano...

“Terra di sfigati, piena di zanzare”.

E’ un commento che abbiamo sentito sul Polesine, sei d’accordo con questa immagine?

Solo sulle zanzare, anche se non ricordo le zanzare in questo viaggio... ricordo solo la maestà degli uccelli, del paesaggio, del mare... io spero che venga protetto dagli abusi industriali...è la nostra terra e la nostra acqua, l’unica che abbiamo, dobbiamo preservarla e consegnarla pulita a chi verrà dopo di noi, perchè la terra ci è madre e nutrice e dobbiamo proteggerla 35

dagli attacchi distruttivi dei suoi figli. Quella parte del fiume che ho visitato su una barca, è ancora un territorio affascinante, protetto, spero che non si faccia quella centrale di carbone, che l’Enel sta progettando.

Certo, certo darà lavoro a tanti che non ce l’hanno e attiverà un indotto che apparentemente farà star meglio quei pochi o tanti che ci lavoreranno, ma provocherà danni non arginabili e di lungo periodo, di inquinamento e distruzione delle risorse ittiche e ambientali. Quelle stesse risorse che si potrebbero attivare per la cultura del Fiume, il turismo, le piccole attività artigianali, l’allevamento ittico e campestre, le scuole e la ricerca, per la salvaguardia di questo che è ancora un grande parco nazionale.

Nessuno ci restituirà la salute e la vita che noi, per pochi spiccioli vendiamo a chi lucra sulla pelle nostra, dei cittadini con promesse di sicurezza economica. Spero che le menti dei governanti si illuminino in tempo perchè chi distrugge l’ambiente distrugge la vita nostra e quella del presente e del futuro di questo pianeta. Tendiamo ad un mondo dove ci sia rispetto della vita , ovunque sia, della bellezza, del paesaggio, della terra, del mare, del cielo, degli angeli e della natura tutta, dei bambini e dei diritti umani.

Dove venga restituita al cittadino la gioia di vivere nelle città, e nelle campagne. Dove si metta un freno all’edilizia senza un piano umano, non disegnata per i bambini e per chi ci deve abitare, dove si ponga fine al saccheggio dell’ambiente. Siamo tutti legati da un filo e, in ognuno di noi, c’è il cielo e la terra. Voliamo alto.

Delta LUOGHI

Bacucco, il grido del di Danilo Trombin

foto di Danilo Trombin

“

Ma chi me l’ha fatto fare...”, pensi, mentre attraversi le sconfinate campagne di bonifica bassopolesane, perso anche se stai percorrendo interminabili rettilinei, ogni tanto intersecati dai nomi buffi e improbabili di agglomerati di casette sparse in gran parte abbandonate... “Chi me l’ha fatto fare di andare al Bacucco... con tutti i bei posti che ci sono in giro per il Delta...”, pensi, perchè ci vuole più di un’ora per arrivare laggiù, e intanto pesti sull’acceleratore,

sicuro come sei che non troverai anima viva fino alla fine di queste terre forzatamente emerse... Pochi sono i punti di riferimento che hai incontrato e che incontrerai lungo il tragitto, dentro una campagna che si ripete uguale a se stessa, in misure modulari, priva degli alberi e delle siepi di un tempo, e tirata liscia come un tavolo da biliardo, trafitta da un reticolo d’impianti di drenaggio che ne hanno eliminato le scoline, dove versano in stato d’abbandono tutte le minime pieghe, di questa 37

fotografia, che non hanno a che fare con l’interesse economico...

I rilevati arginali, uniche asperità di un territorio altrimenti piatto, limitano, a destra e a sinistra, il libero scorrazzare dello sguardo, imprigionandolo dentro gli angusti confini de l’Isola d’Ariano, terra dominata dalle ocre e dai gialli in tutte le stagioni, se si escludono, per l’appunto, gli argini, che sono verdi e fioriti in ogni periodo dell’anno. A nord contengono il Po di Gnocca, mentre a sud riservano la medesima

LUOGHI

sorte al Po di Goro, e ti scortano fino a dove la strada finisce e devi abbandonare le comodità dell’auto a favore delle incertezze della barca.

Proprio quando superi l’argine e appoggi il piede esitante sul fondo scivoloso ed instabile della batana, ritorni mentalmente alla domanda iniziale, e capisci chi te l’ha fatto fare di venire fin qua... sei qua perché volevi andare al Bacucco, e il Bacucco è uno dei luoghi più evocativi, assieme forse a Scano Boa, di tutto il Delta del Po, e tu, tu vuoi sempre andare al Bacucco, per quanto esso sia remoto...

Ora, son partito in quarta, come si suol dire, per raggiungere mentalmente questo luogo, che è, come ho detto, certamente il più remoto di tutto il Delta, ma adesso vi spiego per benino cos’è il Bacucco e anche il perché voglio sempre andare laggiù, forse più spesso di quanto ce ne sia veramente bisogno, perchè il resto delle volte sono io ad averne veramente bisogno. Il “Bonello Bacucco”, propriamente detto, è, per prima cosa, difficilmente definibile per chi non è avvezzo

alle lande deltizie, per il fatto che non è ancora terra emersa, ma non è più nemmeno una laguna, o un acquitrino, nè qualcos’altro di questo genere. In certi giorni emerge dall’acqua, lasciando intravvedere lo zoccolo fangoso tenuto insieme dalle radici rigogliose delle piante, in altri, invece, rimane completamente sommerso. Si tratta di un pezzetto di territorio di forma triangolare, che separa le due bocche del ramo del Po di Gnocca. Verso mare, un sottile lembo di sabbia protegge questo triangolo di melma e piante palustri dalle onde e dagli altri rigori invernali. Il paesaggio è dominato da un fitto e impenetrabile muro di cannuccia di palude, attraversato, di tanto in tanto, da alcuni canali che approdano a degli specchi d’acqua, chiamati “chiari”, privi di vegetazione, a formare un dedalo che, se non si ha la ventura di percorrere accanto a un barcaiolo esperto, rischia di farti perdere, specialmente durante le giornate di nebbia. Il Bacucco è il regno del silenzio, rotto soltanto dal vento che sussurra tra gli steli delle 38

canne, o dal frullio delle ali degli uccelli acquatici, che qui riesci ad avvicinare come da nessun’altra parte. Ma che tu conosca la strada o meno, il Bacucco ti porta comunque a perderti, ad assecondare quel silenzio che ti avvolge sovrano e che in qualche modo rappresenta il filo magico per uscire da questo labirinto, pur rimanendone, forse, irrimediabilmente intrappolato.

Ogni tanto, da qualche scorcio, si intravvede la lanterna del faro di Goro, perché qui sei nell’estremo lembo del Delta veneto, poco prima che inizi lo striminzito territorio effettivamente deltizio del grande parco emiliano-romagnolo. Avanzi lentamente lungo i canali che conducono alla spiaggia, con lo sguardo proteso in avanti e le braccia aperte, a sfiorare i due muri di canna che ti accompagnano ai lati e che spesso ti sovrastano, nascondendo anche il cielo, tanto sono stretti i canali e tanto è fitta la canna. Ogni tanto, da un angolo remoto arriva l’odore del mare.

Ho cercato a lungo quale fosse l’origine del suo nome, ma nessuna

REM

fonte mi ha soddisfatto in pieno.

Qualcuno lo fa derivare dall’ebraico, altri ancora dall’arabo, certo è che non si sa il perché questa zona venga chiamata in questo modo. Di certo si tratta di un epiteto dispregiativo, a sottolineare la precarietà di un sito che doveva essere inospitale e malsano, frequentato com’era soltanto da tagliatori di canna o forse da contrabbandieri e malviventi, nascosti dalle rotte dello Stato Pontificio o del Regno Lombardoveneto.

Ma il Bacucco, oggi, è diventato anche un simbolo, un grido di dolore che da sud a nord percorre tutta la costa del Delta. Il Bacucco, infatti, sta morendo, e con lui se ne andrà molto del nostro territorio e della nostra memoria, a paradigma di quanto potrebbe accadere all’intero Delta del Po. Un anno dopo l’altro, inverno dopo inverno, il mare mangia sempre più metri di,quella che una volta era

una lunga e vasta spiaggia. Ora, le onde sospinte dalle mareggiate invernali sormontano i resti delle dune e si spandono negli acquitrini retrostanti, portando con loro il sale che avvelena la prodigiosa struttura del canneto, ormai sofferente e in fase di regressione. L’airone rosso, che nel canneto nidifica, aveva qui, fino a poco più di dieci anni fa, una delle sue principali colonie riproduttive d’Italia, e ora ha abbandonato la zona, portandosi in altre plaghe, sensibile com’è ai cambiamenti ambientali si è innescato un processo difficilmente reversibile, che porterà all’inevitabile salinizzazione dell’area e alla conseguente scomparsa del canneto, sempre che lo scanno non venga spazzato via completamente da qualche mareggiata particolarmente violenta. Pare che tutto questo dipenda dal bradisismo negativo, originato dalle estrazioni di metano, che ha determinato l’abbassamento

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di tutta la cuspide deltizia. Inoltre, arrivano sempre meno apporti solidi, alle spiagge, da parte di un Fiume depredato dei suoi preziosi detriti lungo tutto il corso superiore. Le piene si disperdono nel mare sempre più rapidamente,impedendo al Po di costruire ancora territorio, come faceva una volta.

Pensi queste cose mentre la barca ti porta attraverso i canneti, lungo gli stretti canali, mentre appoggi il tuo peso sulla spiaggia piena di conchiglie, mentre cerchi di scorgere le sagome degli uccelli tra gli steli delle piante, mentre osservi ciò che resta della vegetazione che ricopriva le dune.

Vuoi sempre andare al Bacucco, nonostante la strada da percorrere, nonostante la disperata nostalgia che ti mette dentro, nonostante la paura che presto tutto questo non ci sia più.

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Villa Momi’s è il luogo ideale per matrimoni, cresime ed ogni altro tipo di ricor-renza. Per gli sposi e i loro invitati è riservata un’ospitalità particolare, con aree e intrattenimenti privati.

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UN PO PIÙ IN LÀ

Isole nella corrente di Guido Conti

foto di Rachele Claudio

I

sole, isolotti, isoloni, piccole e grandi isole create dal grande fiume Po. È meraviglioso pensare che in mezzo alla pianura padana ci siano città che devono fortuna e ricchezza al fatto di aver avuto un porto fiorente sul fiume, ma soprattutto che esistano delle isole che s’innalzano e resistono alla corrente del Po.

scaroli a San Daniele Po è un esempio. A Frassineto Po, proprio di fronte al paese, c’è un’isola alberata a forma di mezzaluna. Di fronte al canale Mortizza, nel Basso lodigiano, ce n’è una di sabbia bianchissima, dove Cacìn con la sua barca portava i villeggianti alle vacanze sulla spiaggia. Oggi, dopo le grandi secche del Po, vi crescono i pioppi. Le piene del fiume non riescono più a spazzar via i primi germogli e le radici attecchiscono.

Gli alberi resistono a correnti anche forti. A Piacenza, di fronte alla città, prima della grande isola Serafini c’è un isolotto selvaggio, chiamato isola Pinedo. Lo si raggiunge in barca e quando affondi i piedi nella sabbia sembra di sbarcare nel nuovo mondo.

Il fiume si allarga con le piene, si restringe con le secche, cambia direzione continuamente. Isole e isolotti si creano nel lungo viaggio dell’acqua dalle fonti al delta. Ci sono isole che appaiono e scompaiono, resistono qualche mese, altre che invece perdurano nel tempo, da decenni e da secoli. Anche i diversi rami del Po creano isole nella corrente. Alcune di esse, dopo bonifiche e costruzioni di argini, sopravvivono solo nella toponomastica. Isola Pe-

A Casalmaggiore s’incontra l’isola di Maria Luigia, che 41

UN PO PIÙ IN LÀ

prende il nome dalla moglie di Napoleone I. A Borgoforte, nel Mantovano, sorge l’isola Cialdini, a Ostiglia l’isola Boschina, a Castelmassa l’isola Bianchi, un lembo di sabbia bianchissimo, come solo si può vedere ai Caraibi. E i vecchi dicevano che la sabbia di Po, per bianchezza e purezza, non aveva rivali al mondo, anche se, a dire il vero, nelle isole del Pacifico e dell’Atlantico non c’erano mai stati. A Castelmassa sorge in mezzo alla corrente Santa Maria Maddalena e infine, di fronte a Piacenza, la più grande, la più famosa isola di tutto il Po, isola Serafini. Ospita una centrale idroelettrica grazie alle dighe e ai dislivelli che si creano nella lanca di fiume che la circonda. È un’area protetta dove possono riposare in tutta tranquillità uccelli di fiume e di passo, stanziali e migratori, come rondini di mare, falchi, gufi, picchi e gruccioni. Ricordiamo inoltre l’isola di Belvedere, di fronte a Ferrara, luogo delle delizie degli Estensi, e l’isola diventata, grazie al professor Salvini, la Repubblica

di Bosgattia. E infine l’isola di Ariano, nel delta, prima dell’ultima grande isola posta a nord, verso Venezia, l’isola Albarella, di proprietà privata, un luogo delle delizie di oggi, con campi da golf, centri ippici, ristoranti, alberghi tra la fine del Po e l’inizio dell’Adriatico, a segnare i confini tra terra e mare.

L’isola di Maria Callas L’origine dell’isola Boschina, tra Revere e Ostiglia, è un mistero per i geologi e gli storici. È una delle isole più antiche del fiume Po, nata probabilmente da una continua sedimentazione di materiale sabbioso. Qui però è stato ritrovato uno degli scheletri più interessanti della valle padana, un megacero, un cervide del Quaternario oggi scomparso, che daterebbe la nascita dell’isola e dei suoi sedimenti a diverse migliaia di anni fa. Quando nascevano nuove isole in questo tratto di Po venivano annesse 42

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come rendita alla Mensa Vescovile di Mantova. La proprietà dell’isola Boschina passò di famiglia in famiglia, dalla curia ai Gonzaga, dai Mainoldi ai Nonio, fino agli anni Settanta del secolo scorso, quando fu acquistata da Giovan Battista Meneghini, il marito della celebre cantante Maria Callas (solo dal 1987 è divenuta patrimonio della Regione). Più volte si racconta che abbiano visto la famosa soprano camminare sulla spiaggia del grande fiume, pensierosa, vestita di nero, e raccogliere i fiori gialli che nascono nella sabbia.

mondo nuovo, Celati racconta che a Ca’ Venier un fotografo scopre che le donne parlano al cimitero con quelli che continuano a vivere nell’aldilà. Stanno giorni interi di fronte alla tomba e parlano. Protagonista della storia è un vecchio magrissimo senza dito indice. Quella mancanza, si è accorto, è come una bussola, gli sa “indicare” quello che lui cerca o desidera trovare. Il fotografo fa richiesta di un luogo dove parlare con i morti e il vecchio senza dito lo accompagna con la barca in mezzo a un isolotto del delta, poi lo abbandona remando via velocemente.

Il dito aveva detto che il fotografo doveva andare nel Mondo Nuovo e che là restasse. Che il Po fin dalle origini fosse una tomba, un luogo dove i morti parlano, dove i vivi parlano con i morti, lo aveva scritto anche Guareschi nei suoi racconti del Boscaccio. I fantasmi sono più vivi dei vivi, come il ragazzo che due donne, in un altro racconto di Celati, Fantasmi a Borgoforte, prima raccolgono in macchina e poi rivedono sull’argine del Po.

L’isola dove si parla con i morti Nel delta, Zavattini invoca Angilèn, chiedendo dove sarà quell’uomo che si è preso la malattia che lui temeva tanto e che lo faceva vivere in piedi gli ultimi giorni. Nei quadri di Toni Ligabue i morti risalgono con la nebbia dalle crepe della terra e vagano come fantasmi galleggiando nell’aria. In Come un fotografo è sbarcato nel

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UN PO PIÙ IN LÀ

Un'argonauta contromano Pedalando sul Po da Milano a Senigallia

di Marina Senesi

M

i sono preparata per quasi 2 mesi e quell’11 maggio sono salpata dall’ultima darsena del Naviglio di Milano. La rotta: Ticino, Po, Po di Goro, mare Adriatico. Ho percorso 400 chilometri di fiume e 160 di mare. In fondo non ho fatto altro che seguire i più moderni dettami: local, slow live, reinvenzione, sostenibilità.

In una parola sola: pedalare! All’inizio di questo progetto, l’espressione della maggior parte delle persone a cui dicevo che avrei percorso in pedalò il tragitto Milano-Senigallia è stata di attonita incredulità. Non incredulità: attonita incredulità. In quel sorriso a mezza bocca non c’era giudizio o comunque non ancora. C’era reminiscenza. Perché la maggior parte di noi è dall’esame di quinta elementare che non si fa domande sul Po e quindi nessuno giura sull’e-

satto percorso del Grande Fiume. Al contrario, in coloro che vivono vicino al Po la reazione è stata immediata e molto precisa. Elencavano i pericoli nefasti cui sarei andata incontro, sciorinavano dati, raccontavano episodi fatali che rimandavano al giorno prima o al secolo scorso. Ho capito dopo che si trattava di insegnamenti impartiti fin dall’infanzia, tramandati da generazioni e ora partecipati all’incauta navigatrice. A nulla valeva elencare a mia volta tutti i gradi di preparazione e di messa in sicurezza: prima veniva l’atavico elenco. Ma poi, ecco l’espressione di meraviglia infantile sul viso di omoni in giacca e cravatta, convinti a salire con me sul pedalò anche solo per un breve tratto…

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REM

11 maggio, la partenza Il mio bellissimo pedalò galleggia sulle acque del Naviglio, assicurato ad un anello di ferro con una corda gialla, ton sur ton. “Si dice cima, non corda!”. Oggi i pescatori, a causa mia, non tirano su un bel niente perché a salire e scendere dal pedalò spavento i pesci, così mi sibilano nozioni tecniche di base, tanto per farmi capire – eventualmente fossimo in una vignetta della settimana enigmistica - chi sia l’intrusa. Osservo i pedali che per effetto della corrente girano da soli: devo ricordarmi, quando fa così, di non lasciarci le caviglie e in ogni caso di non lasciarcele ora davanti a tutti! Prometto un saluto durante la diretta con Caterpillar e i pescatori sintonizzano una radiolina su Radiodue. Carico gli zaini, controllo i salvagente, isso le bandiere, sciolgo la corda, pardon, la cima. E via! In un attimo la riva si allontana e sono in viaggio. Le piogge dei giorni scorsi hanno alzato il livello dell’acqua e la corrente, dicono, mi porterà senza neanche bisogno di toccare i pedali. Io però pedalo lo stesso e soprattutto ostento padronanza: dalla riva mi stanno guardando! Questione di pochi minuti e l’ultima darsena del Naviglio scompare dietro la linea curva di una lunga infilata di pioppi. Sono in viaggio!

scorsa dall’aereo sulla tratta Milano-Palermo. Allora avevo una vaga idea dell’impresa che avrei voluto compiere e ricordo che nel guardare giù pensai: “Si fa!”. L’alveo è diventato immenso, ho la sensazione di essere talmente lontana dagli argini da non essere più neppure visibile.

Pedalo istintivamente verso la sponda: noto molti sacchetti di plastica impigliati tra i rami che si affacciano sull’acqua. Non è un bel vedere, riguadagno il centro.

13 maggio, la via Francigena Tutti fanno riferimento al Cammino di Santiago, eppure la via Francigena era una delle tre vie principali di pellegrinaggio, insieme alla Terra Santa e, appunto, a Santiago di Compostela. Comunque Danilo, detto Caronte del Po, a fare del suo meglio ci prova: traghetta i pochi pellegrini da una riva all’altra, mette a disposizione casa sua per rinfrescarsi o per dormire e prepara con la moglie piatti di pastasciutta; il tutto in cambio di un’offerta a piacere, ma ci tiene a precisare che non si arricchisce, anzi, alla fine ci mette del suo. Danilo/Caronte è un uomo corpulento e un po’ burbero; assicura frettolosamente il mio pedalò tra due pali di legno che spuntano dall’acqua, poi però ci ripensa, torna indietro e fa passare un’altra cima anche tra le sbarre laterali (“…che la corrente, di notte, gioca scherzi”). Imparo a non tendere troppo le cime e a lasciare gioco sufficiente al moto ondoso. Non vuole soldi per il ricovero del pedalò, ma mi avverte che domani lui non ci sarà, quindi per ripartire dovrò arrangiarmi da sola. Va via senza nemmeno aspettare il collegamento con Cater-

12 maggio, il Po Ora il greto del fiume è solo una lingua di terra e ghiaia oltre la quale le acque del Ticino si immettono nel Po. Alzo lo sguardo verso il cielo e sorrido perché so benissimo dove sono: l’ho visto, questo punto esatto, l’estate 45

UN PO PIÙ IN LÀ

pillar, nonostante la pubblicità che gli avrebbe fruttato.

Mi rimane quella sensazione di calore un po’ straniato che si prova quando uno sconosciuto ti fa un regalo, gratis davvero.

15 maggio, l'ufficio sul Po

Dopo l’ultima ansa, il fiume si è di nuovo allargato e la corrente si è fatta più lenta. Mi viene in mente che da qualche giorno sto trascurando alcune questioni sia personali che lavorative, allora apro lo zaino e tiro fuori cellulare, penne, agende, bloc-notes, post-it. Un vero e proprio ufficio a cielo aperto in mezzo al Po. Dispongo tutto sul ripiano centrale del pedalò e inizio a telefonare mentre dall’altro capo i miei interlocutori mi rimandano all’idea di una Milano lontanissima. In realtà siamo a mezz’ora di distanza. Ma io sono in viaggio da tre giorni e allora siamo a tre giorni di distanza! Vorrei anche cercare di rispondere agli sms degli ascoltatori. Paola raccomanda:”Quando passi da Ostiglia fermati all’isola boschiva”. Franco avverte: “Sono un camionista, a Cremona fai attenzione alle chiatte da trasporto.” Marco incita: “Dai, dai, dai…”, Simone indaga: “Siamo sicuri che non sia tutto finto?”, Maurizio vaticina: “Domani ti sentirai molto stanca!”. Giovanni gufa: “Ho fatto i calcoli e sei già in ritardo, non credo che ce la farai”.

14 maggio, l'incanto

Una bella dormita ha spazzato via la stanchezza e non vedo l’ora di riprendere il viaggio. Ecco il mio bel pedalò che dondola sull’acqua. Lo raggiungo e salto sulla prua piatta che affonda e subito riemerge. Faccio questo con consumata nonchalance solo perché ieri ho imparato a governare il contraccolpo applicando una tecnica semplice e poco costosa: tenersi! Con la mano pulisco il sedile dalle foglie umide e dai piccoli ramoscelli che si sono depositati nella notte. L’abitacolo è pieno di lanugini di pioppo che si sollevano in aria appena mi muovo.

Dall’argine maestro qualcuno mi guarda con la serafica fissità dei preoccupati. Sciolgo la cima e mi sbraccio per salutare con l’irritante fisicità degli entusiasti. Guadagno subito il centro del fiume e inizio a sperimentare varie forme di pedalata, fino a convincermi che la più lenta sia la più efficace. Festeggio la scoperta smettendo di pedalare del tutto: cessa il rumore delle pale e comincia l’incanto. Sola, al centro del fiume, in un silenzio caldo di primavera inoltrata, lascio che il pedalò prenda uno, due, tre cerchi d’acqua. Nel bagliore riflesso del cielo, circondata da ogni possibile gradazione di verde, giro.

Senza toccare il timone, senza più sentire il bisogno di controllare la direzione, mi affido alla corrente. Sono una foglia, un tronco, una lanugine di pioppo, un pedalò giallo, una cosa del fiume che scivola verso il mare.

21 maggio, Melara

Ecco in lontananza, sulla sponda sinistra, l’attracco comunale di Melara. Era prevista la presenza di un funzionario comunale per aiutarmi nell’attracco, ma non vedo nessuno. C’è un forte moto di corrente e non posso fare altro che lasciarmi trasportare oltre, verso una piccola rientranza dove l’acqua è ferma. Arriva di corsa il funzionario e pure l’assessore, dispiaciuti per il ritardo ma divertiti dalla scenetta che si para davanti ai loro occhi: il pedalò nel canneto e io ricoperta di spighe! Lo racconto 46

REM

durante il collegamento con Caterpillar e mi arrivano a raffica gli sms degli ascoltatori: “Marina, sei sicura che si chiami Melara il posto?”, “Forse volevi dire Mesola?”, “Melara? Sei sicura?”, “Probabilmente sei a Melara”.

“Cara Marina, erroneamente hai detto Melara”. Ma che gli prende oggi agli ascoltatori? Melara è un paese di quasi duemila abitanti, in provincia di Rovigo. Ha il suo municipio, la sua chiesa, i suoi eroi al valor civile e militare, è citata negli scritti di Plinio il Vecchio e in agosto ospita pure il Festival della Zucca. Una curiosità: proprio qui il Po ritorna ad essere linea di confine regionale, quindi d’ora in poi alla mia sinistra avrò il Veneto e alla mia destra la Lombardia. Approfitto dell’ultima luce del giorno per farmi una foto accanto al cartello stradale. Invio la foto in redazione con la didascalia: “Melara c’è!”

23 maggio, confini di regione Sono rientrata in Lombardia ma duecento metri fa ero in Veneto e ci tornerò fra altri duecento metri. Per un attimo considero l’omissione del tratteggio di confine della mia cartina fluviale un’imprecisione grave. Poi ci ripenso e mi sembra molto meglio così: il Grande Fiume è il Grande Fiume: la mera geografia politica non è mica affar suo.

Procedo sconfinata!

27 maggio, Mesola Sul pontile di Mesola sono pervasa da un sentimento nuovo: l’impazienza. Nuovo ma non nuovissimo: ho provato qualcosa di simile ieri pomeriggio quando, sbagliando, ho creduto che in giornata sarei riuscita a raggiungere il mare. Le previsioni del tempo segnalano peggioramenti ma non me ne curo. Sciolgo la cima e vado mentre il passaggio sotto il ponte della Romea saluta la mia nuova pedalata in solitaria. Pedalo canticchiando, mentre in lontananza sfilano le risaie. Stamattina i pescatori mi hanno confermato che da adesso in poi gli argini più stretti mi aiuteranno ad andar veloce, ma mi hanno anche avvertito che, se sbaglio orario, l’alta marea mi spingerà indietro: una prospettiva che fa molto ridere la redazione…

Il tempo si sta definitivamente guastando. Movimenti ondosi sollevano la prua. Un’improvvisa raffica investe il pedalò. Mi ripeto che sono su un mezzo inaffondabile e se sento il bisogno di ripetermelo, qualche motivo c’è!

Un’altra folata fortissima mi fa imbarcare acqua. Onde color terra si accavallano controcorrente e io sono su un 47

UN PO PIÙ IN LÀ

minuscole ondine grigio chiaro che mi vengono incontro.

Folate di vento leggero muovono i canneti: mi sorprende l’odore del fiume e del mare insieme! Accelero ma fatico molto: non ho più la spinta della corrente e, anzi, un leggero moto ondoso mi riporta indietro. Mi chiama la redazione: oddio, non mi sono accorta che è già ora!

Dalla regia mi mettono in collegamento ma non me l’aspettavo e sono completamente impreparata. Non ho la lucidità necessaria, sento le voci dei due conduttori che mi rimbalzano in testa. “Dove sei?”, rispondo con l’affanno della pedalata e nient’altro. Due, tre secondi che, radiofonicamente parlando, sono un’eternità. Dall’inizio del viaggio, durante la dirette con Caterpillar, ho sempre vissuto una specie di scollamento temporale: da un lato i tempi della radio e dall’altra i tempi del fiume. Ora si mischiano, come l’acqua, e anche se è assurdo pensare di riuscire a percorrere queste ultime centinaia di metri in pochi secondi, ci provo. E’ una piccola trance che forse contagia anche i due conduttori: mi tengono in linea senza incalzare. Poi la lucidità: “Vi chiamo dopo”. Alle 19,28 avverto la redazione che ho attraccato al porto di Gorino, sta già andando in onda la sigla di chiusura.

Sento le voci dei conduttori che utilizzano gli ultimi secondi per annunciare: “E’ entrata nell’Adriatico!”

mezzo inaffondabile, sì, ma non irribaltabile! Mi porto velocemente verso la sponda. La riva è cosparsa di rovi, fogliame umido, radici. Mi infilo in una rientranza e alcuni rami sporgenti impigliano il pedalò. Meglio così: almeno mi tengono dritta! Una stratificazione di terreno sembrerebbe l’unico passaggio per la terraferma. Faccio una prova: immergo il remo d’emergenza che però affonda in un substrato molle. No, non c’è modo di scendere. Potrei tentare di farmi largo in mezzo ai rami ma rischierei di rimanere impigliata coi lacci del giubbotto salvagente e i movimenti per liberarmi potrebbero farmi cadere in acqua. Se lo togliessi? Sarebbe un azzardo idiota. Non so che fare, non faccio niente. Galleggio nel mio guscio giallo e aspetto, tenuta dai rami, sferzata dal vento.

(Il testo è tratto dal libro "Un'argonauta contromano" edito da Il Sole 24 Ore).

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" Marina Senesi Attrice, autrice, voce radiofonica. Nella primavera del 2009 a seguito di una scherzosa sfida con i due storici conduttori di Caterpillar RaiRadio2, ha raggiunto la città di Senigallia, partendo da Milano, in pedalò! Un’ avventura di 28 giorni a impatto ambientale zero che non ha precedenti nella storia della navigazione fluviale e che Marina ha voluto dedicare all’Associazione LIBERA contro le mafie. Tra chiuse, correnti, secche, oasi ecologiche, isole incontaminate, il viaggio è stato raccontato quotidianamente su Caterpillar.

Il Diario di bordo è stato infine pubblicato dal Gruppo Il Sole 24 Ore: Un (‘) Argonauta contromano - Diario di un viaggio in slow economy.

28 maggio, il mare

Il fiume è tornato percorribile. Voglio entrare in mare durante la diretta con Caterpillar, mi rimangono due ore di tempo, posso farcela. Mi concentro e pedalo. Ora il paesaggio si apre in una serie di isolotti lunghi e stretti: depositi e sedimenti che la corrente non ha più la forza di distribuire lungo gli argini. Gli specchi d’acqua che fino a ieri riflettevano interi pezzi di cielo sono infranti in

" 48

PAROLE

Caro Sandro,

elementi

L'ordine innaturale degli Due lettori si confrontano sul romanzo d’esordio di BARBARA BUOSO foto di Anna Casazza, dal progetto "Conjunctio"

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ho imparato ad amare la musica di un pianista norvegese leggendo questo romanzo d’esordio di Barbara Buoso proprio con quelle note di sfondo; da quel momento in poi, queste si intrecciano al ricordo delle parole del suo libro e affiancano la storia di Caterina, accompagnandola lungo le vicende che vi sono raccontate.

Ho conosciuto Barbara, nata in Polesine ma da tempo residente a Padova, attraverso un suo scritto che rivela il suo affetto e la sua riconoscenza per Gian Antonio Cibotto, uno dei maggiori scrittori e critici che la nostra terra abbia avuto in tempi recenti. E’ stato nel corso di quei primi contatti con lei, poi fattisi sempre più sporadici, che ho saputo che aveva scritto un libro che sarebbe dovuto uscire qualche mese dopo da Baldini & Castoldi. L’ho poi letto in una sera quel libro e, dopo qualche settimana, ti scrivo cercando le parole, che da subito non venivano, per parlartene. Inusuale per me, che preferisco leggere gli altri e lasciarmi interessare da quello che dicono, andando a cercare quei libri, quella musica, quei quadri di cui parlano…

La prima cosa che mi viene da dire è questa: con quali occhi stiamo imparando a vedere la realtà che ci circonda? …la rivista è patinata, distribuita in edicola da un editore di quelli grossi in allegato al proprio quotidiano, in copertina l’immagine di un uomo con una pistola puntata alla tempia e il titolo: “Processi sommari, in Ucraina gli interrogatori si fanno così”. Apri, e da pagina 2 a pagina 10 inizia la sequela delle

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immagini di glamour e l’articolo che cerco, anche questo inframmezzato di visi efebi e silouhette di modelle magrissime, è a pagina 27. Nello scoprire Barbara, invece, e quello che aveva da dirmi, prendo in mano un volumetto tascabile, con un’immagine di copertina che mostra un albero a testa in giù, con radici che superano per dimensioni quelle della pur folta chioma. E’ facile scambiarlo per un romanzo qualunque, ma quanto, una volta letto, al di là del “contesto”, siamo disposti a digerire come se nulla fosse? Ecco, il “contesto”. Si è

parlato poco, in fondo, fino ad oggi, del libro di Barbara, e quando se ne è parlato (Carlino del 18 febbraio) si è dato molto spazio al “contesto”: la vita nel Polesine dal 1970 al 1985, il filone della letteratura padana, l’uso del dialetto e così via. Ma questo tende solo a sviare, perché se ci fermiamo al “contesto” andiamo fuori strada, ci fermiamo alla cornice.

Scrive Emanuele Trevi su “La lettura” del Corriere del 9 marzo: “Mettendo in campo delle generalità, si finisce sempre con l’oscurare ciò che è più importante: l’unicità e l’irripetibilità 50

di chi subisce una violenza fanno del suo caso particolare qualcosa di diverso da ogni altro. Ogni volta che si fa ricorso ai famosi “contesti”, non importa se per accusare o difendere, percepisco una intollerabile svalutazione della vittima, una incapacità, intellettualmente gravissima, di ragionare dal suo punto di vista”. Allora sarà pure importante il fatto che nel romanzo il Polesine si vede e si sente, attraverso usi e consuetudini che hanno riempito libri di cultura contadina in anni a noi anche così vicini, ma l’importante qui è come Caterina, lei, nata femmina nel 1972, ha vissuto la sua infanzia e la sua adolescenza, costretta a subire le angherie di uomini che con gli animali avevano più somiglianze d’abitudini che pratiche di cortile o di stalla. Fosse solo per l’uso del dialetto che ce l’avvicina, fosse solo per i richiami ad aspetti anche della nostra stessa infanzia, perché nel 1970 il Polesine era tutta campagna ed in parte lo è ancora adesso, questo “L’ordine innaturale degli elementi” non direi oggi che è un libro bellissimo scritto benissimo, ma l’avrei finito controvoglia e già dimenticato.

Ancora Trevi: “I contesti storici sono comodi per tutti: non uccidono e non proteggono. (…) I malvagi sono sempre in agguato, aspettano il loro momento, e si aprono i loro varchi in ogni situazione. La pedofilia è l’esempio più lampante di questa semplice e brutale considerazione”. In Ucraina gli interrogatori si fanno così e, sopra, la cornice glamour di una rivista di moda. La violenza perpetrata su

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Caterina avveniva nella sua casa e, sopra, anche qui, la cornice, quasi coprente, di un ambiente, quasi di una predestinazione.

Vittime qua e là, come ovunque nel mondo, da sempre, e i nostri occhi scrutano, ma hanno bisogno di una protezione, quasi a dover lenire il dolore. Anch’io. La colonna sonora è questa, che suonava mentre lo leggevo e che suona adesso, è un pianista norvegese, e viene da chiedersi cosa c’entra con il Polesine e con la campagna attorno, ma il libro l’ho letto con la sua musica nelle orecchie e non riesco più a staccarmene, quasi che l’ascoltare possa togliere un po’ di negatività, come se le note, accartocciando le parole più brutte, provassero a mettere un po’ di bellezza negli angoli più bui delle pagine, ancora oggi increspate delle lacrime scese e lì inevitabilmente cadute.

Paolo Spinello

Caro Paolo, sto dedicando molto tempo interiore a questo lavoro della Buoso. Ci penso mentre lavoro, mentre guido, mentre parlo con qualcuno. Faccio altro, ma sono lì, dentro a quel testo. E il tempo scorre, e non so decidermi se questo romanzo (ma é davvero un romanzo?) l’ho amato oppure no. Mi sforzo di essere il piú possibile didascalico e provo a dirti, elencandole, le cose che mi sono piaciute e quelle che invece mi hanno infastidito. Mi é piaciuta la lingua innanzitutto: un italiano

pulito ed espressivo, ricco e preciso.

A tratti sa un po’ troppo di editor, ma il fondo magmatico e generante di questa lingua si percepisce chiaramente come suo, di Barbara Buoso. Mi é piaciuta la tensione, che dura dalla prima all’ultima pagina e che rende il testo leggibilissimo: se sono riuscito a leggerlo in poche ore senza distrarmi, un motivo ci sará. Mi é piaciuto il distacco dalla storia, che permette a Barbara di raccontare senza farsi coinvolgere nel flusso di dolore che narra: tant’é che quel flusso riesce a guardarlo e quindi a narrarlo, coinvolgendo noi 51

lettori. Non mi sono piaciuti i troppi inserti dialettali, che rendono il testo indigeribile a chi non é polesano (e spero siano in tanti); il suo dialetto non descrive un mondo ricreandolo a partire dalla lingua (come accade in Meneghello, ad esempio); qui parole e frasi dialettali sono i residui marci di un mondo, sono post-it infamanti appiccicati ai personaggi e mai amalgamati al tessuto linguistico che hanno attorno. Infastidiscono, mentre Meneghello faceva sognare pensando. Non mi é piaciuto il modo in cui diluisce la storia, in cui gestisce il racconto: poca fluiditá,

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salti incomprensibili e poco proficui dal punto di vista narrativo (l’ultimo capitolo che risolve la storia con Caterina adulta, di colpo, in un centro psichiatrico: troppo facile, troppo scontato).

del mio personaggio. Io questo lo trovo un limite di prospettiva, un limite “ideologico”; quel mondo ha prodotto dolore e follia tanto quanto altri mondi, altre realtá storiche e sociali.

Non mi piace l’incertezza tra la descrizione di un mondo e la narrazione della storia: ci sono molte pagine in cui la narrazione si ferma a descrivere i personaggi di una volta che passavano da casa (venditori ambulanti ed altre figure): pagine che sembrano un volumetto di storia locale e che c’entrano poco con la storia. O, peggio, c’entrano per “tenere” l’assunto generale su cui si fonda quel libro: quel mondo era cosí, tutto e sempre, ed ha generato solo il dolore e la follia

Quando ci siamo scambiati le prime impressioni di lettura, tu mi parlavi di Cibotto: io Cibotto qui non lo vedo da nessuna parte. Credo che la figura storica di Toni abbia avuto un ruolo importante nell’aspirazione al riscatto attraverso la scrittura dell’autrice. Ma i suoi libri qui non ci sono (e non è né un bene né un male). C’é molto di piú “Padre padrone”, di Gavino Ledda, che ovviamente non so neanche se sia stato tra le sue letture. Ecco, questo é quanto, d’impulso e senza metodo,

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mi viene in mente su questo libro.

Un’ultima considerazione: in ogni pagina ho la netta impressione che questo libro nasca da un forte dolore esistenziale; ma non sono sicuro che stare accucciati sul proprio dolore sia stato proficuo: se quel dolore l’avesse gestito e avesse guardato altrove, sarebbe stato meglio, secondo me. Perché mi pare che il piglio della scrittrice Barbara ce l’abbia, eccome. Credo però che se può essere probabile che dal dolore sgorghi un romanzo, é praticamente certo che dal dolore non nasce quasi mai un buon romanzo. E questo é l’inghippo più grave, secondo me.

Sandro Marchioro

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Rime

Il versante lirico dellâ&#x20AC;&#x2122;opera grotiana, a cui il Cieco dâ&#x20AC;&#x2122;Adria attese assiduamente ďŹ no alla vigilia della morte, ritornano in una nuova edizione di Barbara Spaggiari

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er un curioso paradosso, è più facile incontrare il alquanto bizzarro. Senza dubbio, in patria Luigi Groto nome di Luigi Groto nelle pagine di studiosi stranon ha mai goduto di buona stampa, a cominciare dal nieri piuttosto che italiani. Le migliori monografie giudizio limitativo e supercilioso espresso dai primi critici dedicate alla sua opera provengono dalle università tesettecenteschi. Eppure, presso i contemporanei e durante desche; e si debbono a studiosi inglesi, americani e spabuona parte del Seicento, la fama del Groto era diffusa gnoli le numerose e puntuali indagini intese a valutare nell’Europa intera, e il suo nome celebrato fra i migliori l’influenza che il Cieco d’Adria ebbe, da un lato, sulla letterati e poeti dell’epoca. Nel 1589, Tomaso Garzoni drammaturgia elisabettiana, e lo cita nella sua Piazza univerdall’altro, sulla lirica iberica sale fra gli autori da cui non fra XVI e XVII secolo. si può prescindere («i soneti Non è un caso che chi scrive del Petrarca, le rime del Cieabbia iniziato le proprie rico d’Adria, l’Arcadia del Sancerche sulle Rime di Luigi Groto nazaro»). E questo giudizio incuriosita da una lapidaria afè ribadito nel Volpone di Ben fermazione («alla maniera del Jonson (1605), dove la pretenGroto») del filologo spagnolo ziosa Lady Would-Be elenca i Dámaso Alonso a proposito poeti a lei noti perché considi un certo tipo di sonetto arderati indispensabili alle comtificioso, composto in quattro petenze culturali di una donna lingue. Ora, la presenza del raffinata; e, dopo aver citato Groto lirico nella bibliografia nell’ordine Petrarca, Tasso, italiana è limitata ad uno scarDante, Guarini, Ariosto, l’Aso manipolo di poesie, sempre retino e, da ultimo, il «Cieco le stesse, che si trovano riprodi Hadria», conclude: «I have dotte in varie antologie, a coread them all». minciare dai Commentarj del Crescimbeni (1731) per finire Verso la metà del XVII secoad un recente volume sui Lirici lo, Girolamo Ghilini dedica a europei del Cinquecento (AA. Luigi Groto un lungo capitolo VV., Classici BUR, 2009). In alprodigo di elogi, definendotri termini, per leggere le Rime lo fra l’altro «maraviglioso, e del Cieco d’Adria occorreva singolare, e dottissimo» (Teafinora consultare una delle dietro d’huomini letterati, 1647); ci stampe antiche, uscite fra il Jean-François Sarrazin lo in1577 e il 1610: non esisteva, serisce fra i migliori autori di infatti, un’edizione recente sonetti e madrigali (Pompe dell’opera, completa o parfunèbre 1649); Emanuele Teziale che fosse. sauro, all’interno del suo inRitratto di Luigi Groto (precede la prima parte delle L’edizione critica delle Rime, ventario di argutezze e ingeRime edite nel 1610 a Venezia). Rovigo, Accademia dei ora pubblicata in due volumi gnosi concetti (Il cannocchiale Concordi (Conc. E.3.1.12) da Apogeo Editore in Adria, aristotelico, 1654), lo descrive viene dunque a colmare un vuoto protrattosi per oltre «amenissimo e frizzantissimo nelle singolarità»; infine, il quattro secoli, e rimette al centro dell’attenzione la progrande teorico Juan Caramuel lo ricorda come «Poeta duzione lirica di quello che viene spesso considerato, più celeber», che seppe eccellere nei metri italiani e in tutto o meno benevolmente, solo un poligrafo cinquecentesco paragonabile, con pieno merito, ai migliori scrittori clas54

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sici (Metametrica. Primus calamus, 1663). Questa breve rassegna dei giudizi espressi da vari letterati, attivi in Europa tra la fine del Cinquecento e una buona metà del Seicento, mostra come il Groto fosse stimato essenzialmente per le sue rime, non tanto o non solo per le opere teatrali che pure furono imitate, tradotte e rielaborate da drammaturghi del calibro di Shakespeare e di Molière.

Eppure, a causa della prospettiva parziale instauratasi precocemente nella storia della critica letteraria italiana, finora è rimasto in ombra proprio il versante lirico dell’opera grotiana, quelle Rime a cui Groto attese assiduamente fino alla vigilia della morte.

finalmente di restituire al Cieco d’Adria il ruolo che storicamente gli compete quale interprete esemplare del Manierismo e importante precursore del Barocco. Al tempo stesso, questa edizione permette di reintegrare un aspetto tanto essenziale, quanto finora marginalizzato nella produzione del Cieco d’Adria: che non fu solo drammaturgo di successo, con le sue tragedie e commedie più volte rappresentate ed imitate; non fu solo oratore di fama e solerte epistolografo, come testimoniano le due raccolte a stampa di Orationi volgari (1586) e Lettere Famigliari (1601). Fu anche poeta e autore di un libro di rime in cui ben si riconoscono la propensione allo sperimentalismo metrico-formale, il desiderio di prendere le distanze da un certo petrarchismo ripetitivo e stucchevole, il riferimento costante a determinati modelli (Boiardo, Ariosto, Domenico Venier); e, infine, la collocazione ideale entro i due poli culturali di Ferrara e Venezia, su una linea di cui Adria è il virtuale centro geografico.

Si tratta di oltre mille e trecento poesie in volgare, più una trentina di Carmina latina di buona fattura. Una Prima Parte di questa produzione lirica uscì in due edizioni curate dall’autore stesso, rispettivamente, nel 1577 e nel 1584. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1585, altre ristampe seguirono presso gli Zoppini di Venezia fino al 1601, poi presso gli editori Giovanni Bazachi in Piacenza (1602) e Daniel Bissuccio in Venezia (1605). Più volte, nei suoi scritti, Groto aveva accennato ad una seconda parte di rime che stava preparando in vista della stampa; ma non arrivò a concretizzare il progetto. A venticinque anni dalla sua morte, Ambrogio Dei riesumò questo piano editoriale, cercando di riunire l’intera produzione lirica attribuita al Groto. La sovrabbondanza dei materiali, da lui faticosamente raccolti, lo indusse a suddividerli in una Seconda e Terza parte, pur mantenendo l’unità del volume, in cui ciascuna delle tre parti appare con un frontespizio e una paginazione proprî. Il risultato è una silloge per più versi benemerita anche se farcita di errori, come riconosce lo stesso Dei nella prefazione. All’edizione di Ambrogio Dei (1610), la decima e l’ultima finora data alle stampe, è legato lo straordinario successo del Groto lirico fra i poeti iberici del tardo Cinquecento e del Seicento. Di fatto, se l’Inghilterra elisabettiana e la Francia di Molière offrirono un terreno propizio all’acclimatarsi delle opere teatrali del Cieco d’Adria, fu invece tra i manieristi portoghesi e tra i poeti spagnoli, prima del Siglo de Oro, poi del Barocco, che le rime del Cieco trovarono una schiera di imitatori: oltre al Camões lirico, autentico e apocrifo, si debbono citare Lope de Vega e Góngora, la scuola di Antequera e Quevedo.

L’edizione critica delle Rime, ora pubblicata, permetterà

La copertina del libro pubblicato da Apogeo Editore A pag.53: Tintoretto (bottega), 1582, ritratto di Luigi Groto, Comune di Adria, inv. 672 55

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Vito Alfarano

La danza è vita, è terapia, è espressione intervista di Francesco Campi 56

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resenza fissa sui palchi cittadini e nome imprescindibile nelle stagioni di balletto: oggi a Rovigo Vito Alfarano non è “un” danzatore , ma “il” danzatore. Eppure, la sua storia inizia a molti chilometri di distanza dalle Due Torri, 36 anni fa sotto il sole di Brindisi, il cui mare porta ancora negli occhi.

Dal Salento al Polesine è un bel salto, anche per un danzatore provetto: com’è che sei arrivato a Rovigo?

Ho partecipato ad un bando per un corso di formazione per ballerini non professionisti che si teneva proprio a Rovigo dalla compagnia di danza Fabula Saltica, che mi ha permesso non solo di studiare sotto la guida di grandi maestri, ma anche di ottenere i primi lavori importanti con coreografi come Mauro Bigonzetti e Fabrizio Monteverde. Qui, poi, ho trovato persone che hanno creduto molto in me, come Claudio Ronda direttore della compagnia, ed ho avuto la possibilità di crescere come professionista, scoprendo che più che la danza classica, molto schematica, la mia dimensione ideale era quella della danza contemporanea, che, invece, apre infinite possibilità espressive.

Quando è nata la tua passione per la danza?

In realtà è nata tardi, anche se è stato subito un amore a prima vista. Da ragazzo facevo ginnastica artistica, mentre al liceo mi ero fatto travolgere dalla passione per il teatro. Per la danza nutrivo un’attrazione che ho deciso di seguire in un momento particolare: mentre facevo il servizio militare. E’ stato solo allora che ho deciso di iscrivermi ad una scuola di danza e, appena un anno dopo, sono arrivato a Rovigo.

Nella tua carriera hai collezionato importanti riconoscimenti ed hai danzato sui palchi di tutta Italia e di mezza Europa, ma quali sono stati i passi che hanno segnato una svolta?

Una delle esperienze più forti è stata sicuramente il laboratorio con Ricci e Forte di teatro sperimentale.

L’essere stato selezionato inizialmente mi ha messo molto a disagio, perché sapevo a cosa sarei andato incontro.

Il contatto con l’estremo, però, mi ha offerto l’occasione di superare molti limiti personali, morali e fisici. Un’altra esperienza che mi ha cambiato, umanamente e professionalmente, è stato il superamento di altre barriere:

Il mio grido - foto di Giulio Cesare Grandi 57

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l’ingresso nella casa circondariale di Rovigo per il laboratorio Oltre i confini, un seminario artistico che puntava ad offrire ai detenuti, attraverso il movimento, la musicalità e la teatralità, gli strumenti per una maggiore conoscenza di se stessi e un modo nuovo di relazionarsi con gli altri. La base è stata un mio studio coreografico sulla storia dantesca di Paolo e Francesca: entrare dentro all’inferno del carcere per parlare di amore e danza era una sfida forte.

Ma la risposta è stata ancora più forte, proprio perché in un luogo di privazione sono emerse storie emozionanti. Gli stessi detenuti si sono sorpresi nello scoprire aspetti nascosti l’uno dell’altro e ci sono stati lacrime e silenzi che hanno raccontato, meglio di mille parole, l’universalità dei sentimenti e la lacerazione di chi si sente privato prima di tutto del suo essere riconosciuto come persona.

Da questa esperienza in carcere è nato lo spettacolo Il rumore dell’amore, che con la danza su Paolo e Francesca ti ha visto ottenere un importante riconoscimento come coreografo: il Gran Prix al IV International Sergei Diaghilev Competition of choreographic art e che sta mietendo successi ovunque...

Non solo. Il rumore dell’amore è un progetto che ha riunito tutta la produzione che, insieme agli altri artisti che mi hanno accompagnato in questo percorso, abbiamo portato fuori dal carcere. Come l’installazione video Autoritratti dal carcere e come il clip di videodanza Il mio grido, con suoni, sguardi e pelle estraniati dal contesto, che

è stato trasmesso dalla Lituania al Perù, passando per Londra,Colonia e Bruxelles, e per il quale il filmmaker David Hinton mi ha inviato una mail di elogio sia per gli aspetti tecnici sia per gli aspetti sociali della prima opera del genere ad essere stata realizzata interamente in carcere.

Il culmine di tutto questo percorso, che ancora continua, è stato senza dubbio la rappresentazione de Il rumore dell’amore all’interno del carcere di Rebibbia. Era la prima volta della danza su quel palco ed eravamo tutti un po’ intimoriti.

L’applauso interminabile e le lacrime di molti reclusi sono stati la più grande forma di gratificazione.

Ballerino, coreografo, attore, regista: un percorso di crescita continua.

Quali sono state le persone che più di altre ti hanno insegnato ed alle quali ti senti maggiormente debitore?

Tutti e nessuno: ogni artista con il quale ho lavorato mi ha lasciato qualcosa e, nel bene o nel male, mi ha insegnato cosa fare e cosa non fare. Se devo fare un nome, comunque, non posso non citare Simona Atzori con la quale ho danzato nel passo a due Legami: Simona è la dimostrazione che nulla è impossibile e la sua è stata prima di tutto una lezione di vita. Debitore mi sento alla città di Rovigo, perché mi ha dato tanto. Qui, fra l’altro, oltre alla mia compagnia Fabula Saltica, ho trovato un gruppo di artisti con i quali da anni formiamo una sorta di squadra che lavora con generosità e sintonia.

Barriere fisiche e mentali, un tema ricorrente nei tuoi lavori, insieme 58

Il rumore dell'amore - foto di Nicola Boschetti

all’amore.

Quanto della tua sensibilità e della tua anima porti in scena?

Molto. La danza è vita, è terapia, è espressione, è un mezzo di comunicazione e di integrazione.

Quasi sordo... Mi piacciono i maiali, progetto finalista al Premio Giovani Danz’Autori Puglia 2011, lega la danza al tema della sordità e nasce dalla comprensione delle difficoltà vissute da un mio cugino.

Con Il rumore dell’amore ho cercato di sviscerare l’universalità dell’amore e la tematica della reclusione. Nel mio ultimo spettacolo di teatrodanza, Testa o Croce, ho sviluppato ulteriormente il tema dell’amore a partire da una vicenda personale dove l’abbandono è il tema conduttore. E gli oggetti di scena sono reali: il toccarli fa rivivere sensazioni e sentimenti forti.

Nella mente attualmente ci sono due progetti diversi, che riguardano entrambi sempre questioni delicate relative alle discriminazioni, in questo caso di genere.

Se dovessi tirare le somme di quello che hai fatto in questi anni con una frase?

Sono molto contento ma non mi accontento.

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Vito Alfarano È nato a Brindisi il 15 gennaio 1978, ha frequentato dall’età di dieci anni corsi di ginnastica artistica e, successivamente, ha studiato teatro, danza classica, moderna e contemporanea. Dopo aver preso parte al Corso di Perfezionamento professionale per Danzatori, cofinanziato dalla Regione Veneto, svoltosi presso il Teatro Sociale di Rovigo e diretto dall’Associazione Balletto Città di Rovigo, è entrato nel 2000 a far parte della compagnia Fabula Saltica. Dal 2000 ha iniziato la sua attività professionale come danzatore freelance ed ha lavorato con vari coreografi, tra i quali Fabrizio Monteverde, Nicolas Musin, Mauro Bigonzetti, Ismael Ivo, Claudio Ronda, Benjamin Millepied, Karl Alfred Schreiner, Yaron Shamir. Nel 2008 ha iniziato la costruzione di un percorso coreografico che vede la danza svilupparsi anche attraverso varie argomentazioni legate alle problematiche sociali come detenzione e sordità. Dal 2009 al 2011 ha preso parte a Choreographic Collision, corso di formazione coreografica diretto da Ismael Ivo presso la Biennale Danza di Venezia. Con le sue coreografie ha vinto primi premi coreografici nazionali e internazionali come in Polonia il Granprix al “The IV International Sergei Diaghilev Competition of Choreographic Art”, con la giuria presieduta da Vladimir Malakhov. Dal 2008 al 2010 è stato ideatore e docente del laboratorio di movimento corporeo e teatralità Oltre i confini svoltosi con i detenuti nella Casa Circondariale di Rovigo. Dal 2013 è membro del “coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere”. Ha creato le coreografie per lo spettacolo “Il rumore dell’amore... Ispirato a Paolo e Francesca e agli innamorati contemporanei” prodotto dalla compagnia Fabula Saltica, per il video musicale How About della cantante americana Isis Gee, per Moving the City progetto dell’Arsenale della Danza della Biennale di Venezia con la Direzione di Ismael Ivo e Quasi sordo... Mi piacciono i maiali progetto finalista al Premio GD’A Puglia 2011. Ha creato la regia del reading L’unico me stesso che conosco per la Caporetto Production e per il video danza Il mio grido realizzato con i detenuti del carcere di Rovigo ricevendo, al Premio Letterario Nazionale “Carlo Castelli” per la solidarietà, una menzione speciale dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Nel 2007 è stato selezionato per le rassegne Percorsi d’Autore curata da Tocnadanza e nel 2014 per Progetto supporter di Arteven nate per promuovere e sostenere le nuove generazioni di autori e interpreti della danza italiana. Quest’anno la stagione di Balletto del Teatro Sociale ha inserito in cartellone la sua ultima creazione di teatrodanza Testa o Croce prodotta dalla Fabula Saltica.

Quasi sordo - foto di Alberto Gandolfo

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Testa o croce - foto di Alberto Gandolfo 59

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enore lirico di innata musicalità e d’una vocalità tecnicamente solidissima: questo il giudizio, sintetico ma molto eloquente, emesso dalla critica più attendibile sul tenore adriese Florindo Andreolli (Bellombra, frazione di Adria, 24 settembre 1925 - 18 aprile 1995). Più dettagliatamente si può aggiungere ch’era un cantante di grande espressività, frutto di uno studio continuo e di un tenace esercizio. La sua voce era estesa, chiara, agilissima, valorizzata, oltre tutto, dal piglio tipico della sua estrosa personalità; la dizione era eccellente con un timbro ricco di armonici sorretto sempre da un eccellente controllo del fiato. In un’intervista rilasciata allo scrittore americano Bruce Duffie pubblicata nel dicembre 1982 su Opera Scene Magazine, Andreolli racconta come si preparava per ogni evento musicale: “[...] come la divina, Maria Callas, studiavo più volte lo spartito al pianoforte ponendo tutto sullo stesso piano, dall’aria più difficile al piccolo intervento di poche battute”. Il tenore adriese possedeva il senso di quello che Verdi definiva parola scenica con mezzi puramente musicali e per far questo, nell’arco di un vasto ed eterogeneo repertorio (121 melodrammi di 61 autori diversi, da Monteverdi a Henze, cantati anche in lingua originale, per un totale di 152 personaggi, tenendo presente che in diverse opere interpretava più di un personaggio), occorreva un bagaglio tecnico, musicale e temperamentale davvero eccezionale. Si accorse presto, purtroppo, che la sua bassa statura non gli avrebbe permesso il ruolo da protagonista (o primo tenore), così ripiegò sul ruolo di comprimario indirizzando ogni suo sforzo, ogni sua risorsa per perfezionare la voce. “Un comprimario – scrive Bruce Duffie - di grande levatura e un eccellente tenore nei concerti o recital, perché aveva ampia libertà di sfoggiare le proprie non comuni caratteristiche”. Oltre a ciò, si distingueva nella recitazione come un vero personaggio di teatro. Sulla scena, si muoveva con la massima disinvoltura e come recitava in teatro, spesso lo faceva nella vita: erano tratti salienti della sua brillante ed entusiasmante personalità, che affascinava sia i colleghi che incontrava nelle numerose tournée sia la vasta schiera degli amici adriesi pronti ad accoglierlo ad ogni rientro. Un vero istrione, al quale non è mai mancata la volontà di perfezionarsi tanto da prediligere le interpretazioni in lingua originale rispetto alle (brutte) traduzioni italiane. Alcuni esempi tra

Il lunghissimo itinerario musicale di un illustre adriese di Nicola Berti 61

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Da sinistra: il tenore Renzo Casellato, Ferrante Mecenati, Florindo Andreolli dopo una rappresentazione de "Il flauto magico"

Un'altra immagine di Florindo Andreolli

tutti: nel Boris Godunov di Modest Musorgskij, Andreolli ricopriva il ruolo di Misail e diverse sono state le versioni in lingua italiana preferendo, però, la versione autentica russa come pure in Khovanshchina (nel ruolo di scrivano) o tedesca nel ruolo di David nei Maestri cantori di Norimberga di R. Wagner.

di D. Cimarosa: in seguito, nel 1949, Gianni Schicchi di Puccini a La Fenice di Venezia. Nel 1953 iniziò la collaborazione con la Rai di Milano che si protrasse sino al 1977. Dal 1955 al 1993, cantò al Comunale di Firenze in un repertorio di 17 opere per un totale di 98 rappresentazioni. Nel 1953 ancora al Massimo di Palermo e poi nei principali teatri italiani. Le sue prime uscite all’estero furono un successo (10 recite de L’Elisir d’amore a Tel Aviv con l’Orchestra Filarmonica d’Israele diretta da Ettore Gracis, e il debutto al Grand Théâtre di Lione con Pagliacci diretti dall’adriese Nello Santi). Nell’ottobre del 1956, a Napoli, iniziò l’attività discografica con l’incisione de Il filosofo di campagna di B. Galuppi, proseguendo fino al 1987 con La fanciulla del West diretta da Lovro von Matacic con i complessi

Allievo del soprano Rosetta Pampanini e di Gilda Dalla Rizza, lavorò per molto tempo col tenore Tito Schipa diplomandosi nel 1953 al Conservatorio B. Marcello di Venezia. Ad Adria fece la sua prima comparsa nel 1948 in un concerto lirico al Teatro Contardo Ferrini. Nel 1950 vinse il concorso nazionale Voci nuove per la Lirica.

Nell’intervista richiamata afferma di avere debuttato a Palermo nella parte di Paolino ne Il Matrimonio segreto 62

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del Teatro alla Scala. Dal 1968 al 1990 numerose le presenze alla Civic Opera House di Chicago (285 rappresentazioni). Diretto dai più importanti direttori d’orchestra e registi, si affermò a Londra e a Parigi, a Lisbona e Ginevra, e in Sudamerica, soprattutto al Teatro Colon. Calcò nel ’68 il Metropolitan di New York. All’Arena di Verona, debuttò in Turandot nel 1975 ritornando nel 1991 con Boris Godunov, La forza del destino, Carmen e La fanciulla del West. Dal 1979 al 1991, fu uno dei protagonisti del Festival pucciniano a Torre del Lago, con Tosca, Manon Lescaut, La Bohéme, Il Tabarro e Turandot. Considerato il migliore Bardolfo nel Falstaff verdiano, notevole la sua interpretazione dell’opera L’Ormido di Francesco Cavalli (1602-1676) registrata nel 1971 e rappresentata al Teatro La Fenice di Venezia nel 1975-1976, nella quale ricoperse il ruolo di Erice. Il critico Elvio Giudici scrisse in proposito: “Bravo cantante e spiritoso interprete si conferma il veterano Andreolli nei panni della vecchia nutrice – secondo la prassi dell’epoca - che affidava appunto al tenore parti comiche di zitelle o mature serve pettegole…”.

Unica presenza al Comunale di Adria, in un concerto tenutosi nel giugno del 1951. Il 20 marzo 2005, nella hall del Teatro Comunale, è stato posizionato un busto in bronzo, opera dell’artista adriese Luciano Berti, raffigurante il tenore adriese. Dal 1999 al 2009 era attivo in città il Forum di cultura musicale intitolato a suo nome. Negli ultimi anni di attività, non tralasciò il repertorio oratoriale cimentandosi pure in melodrammi di compositori contemporanei. Un lunghissimo itinerario vissuto intensamente da un illustre adriese. I traguardi raggiunti e la fama conseguita non intaccarono mai la sua personalità. Ritornava ad Adria pieno d’allori, senza mai, però, ostentazioni o vanti: un esempio di vera umiltà.

Per le fonti si rinvia a Melodramma-I protagonisti adriesi e polesani di Nicola Berti in Numero Unico del Settembre Adriese, a cura della Pro Loco, anno 2009.

Locandina del "Boris Godunov" alla Fenice nel 1972

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“Tutto ciò che è umano non può essere compreso dall’uomo se non sotto forme che siano a lui famigliari”.

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asta la biochimica, il DNA, la fisica quantistica, le teorie sul Big Bang, a spiegare l’uomo? E’ forse il prodotto di un casuale processo materiale o è depositario di un destino che s’intreccia con le sorti stesse dell’universo?

In un saggio del 1963, Charles Percy Snow, notava come la maggior parte delle problematiche del mondo non potevano essere spiegate, se non attraverso il dialogo di due culture; quella umanistica delle arti e quella scientifica. E anche se oggi, mille sono i fili che ci tengono legati alla realtà, essi ci rimandano continuamente al suo mistero, e poco sembra allora essere cambiato nel nostro sapere, dal tempo in cui Leonardo Da Vinci praticava autopsie a lume di candela, scegliendo le notti più buie per non essere scoperto. Restituire un significato al misterioso e profondo dramma dell’uomo resta il fulcro, il fine ultimo di ogni ricerca, che a svolgerla sia lo scienziato o l’artista. L’operazione che, con l’abilità del chirurgo, sta svolgendo Gabriele Grones, ha i connotati di un intricato teorema scientifico. Non è possibile, infatti, limitare la definizione delle sue opere a semplici ritratti, poiché la definizione stessa che la critica dà del “ritratto autonomo” non può contenerle, almeno non completamente. Il ritratto di un soggetto, per essere tale in arte, deve contenere solo se stesso, nell’espressione che meglio lo rappresenti e soprattutto tale soggetto dev’essere colto in posa. Le opere di Grones percorrono invece un territorio diverso, ideologico e dichiaratamente simbolista, che evita ogni mitica idealizzazione. A colpirci, ad attrarci maggiormente, non è la realtà, ma l’iper-realtà, che travalica ogni naturalismo e che ci mostra, non il pieno di un’atmosfera, ma un suo piccolissimo estratto. Scomponendo il reale, Grones sembra ricomporre il DNA di una nuova vita, rinunciando a ogni pretesa di sintesi. Schiacciati tra il mondo e la tela, in uno spazio piccolissimo, soffocato ed esaurito nelle due dimensioni, i suoi soggetti fuggono il tempo e la storia. Li guardiamo con lo stupore con cui si guardano gli alieni. Sono uomini, con tutte le loro passioni, creature quanto mai vive e vere, portate a un’intensità tale da presagire un’imminente esplosione.

Nei loro volti vi leggiamo una singolare mescolanza di

Dal doppio all’identità di Tobia Donà

foto di Roberto Muraro

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Forse l’identità è solo uno sguardo, forse è la mano che accarezza le rughe di un viso.

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Elisa, cm 40x30, olio su tela, 2013 - Esposta ad aprile 2014 alla Bernarducci Meisel Gallery, New York, alla mostra "First Look Group Exhibition"

allegro e malinconico, sembrano capaci di realizzare le più straordinarie utopie, i più eccentrici desideri di sfida.

Com’è accaduto a Dorian Gray, siamo tentati a riconoscerci in loro, desidereremmo scambiarci di posto, per vivere una vita senza complessi, senza tormenti nevrotici, senza rimorsi e senza paura. Non so dove realmente stia l’incantesimo creato da Grones, se nell’incarnato del

volto, rappresentato così plastico, così vero, o nella scelta di stagliare bruscamente la figura dallo sfondo, che appare neutro e costretto a scomparire per evidenziare e lasciare vivo il soggetto nella sua unilateralità, nel suo egocentrismo; certo è che in questi dipinti vi ritroviamo un “Io” straordinariamente autosufficiente e senza lacune.

Comprendere il loro silenzio, il mutismo assoluto che spri65

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Autoritratto, cm 40x30, olio su tela, 2012

Matteo, cm 30,5x41,5, olio su tela, 2009

Reflections, cm 40x30, olio su tela, 2012

Immagine di allestimento delle mostre "Identità #2" e "Identità", entrambe alla Galerie MZ di Augsburg, Germania, 2012

giona dai loro volti, equivale a comprendere noi stessi, a perdere tutte le maschere che ci accompagnano nella vita. Tuttavia, siamo costretti a precipitare nel complicato teorema scientifico che Grones ha abilmente intessuto per noi, e all’improvviso esserne parte concreta: Si può essere davvero se stessi, o la vita ci obbliga inevitabilmente a impersonare un ruolo? Diventa quindi per noi imprescindibile cercare di dare una risposta alla domanda che, sin

dalla prima pennellata, Gabriele ci rivolge: “Che cos’è l’identità?”. Forse l’identità è solo uno sguardo, forse è la mano che accarezza le rughe di un viso. O forse, rispetto alla non perfettibilità del mondo, la dimensione asettica, priva di giudizio, capace di “cristallizzare” le lievi apparenze dell’esistenza, abilmente dipinta da Grones, è l’unica risposta possibile.

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Gabriele Grones É nato ad Arabba nel 1983. Nel 2009 ha conseguito il diploma di II livello in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia.Nel 2014 tiene la sua mostra personale First look: Gabriele Grones alla Bernarducci Meisel Gallery di New York; in seguito, ha partecipato alle collettive The Portrait Gala, National Portrait Gallery di Londra; Chiamata a raccolta, Mart - Galleria Civica di Trento, Group exhibition Van Campen & Rochtus Gallery, Anversa; BMG First Look Group Exhibition, Bernarducci Meisel Gallery, New York. Nel 2013 espone a Oceans: under the skin of the sea, Berlino; Figurativas, Museo Europeo di Arte Moderna, Barcellona; In risonanza, Mart, Rovereto; Rivers of A.I.R., Rovigo; Hyper, Galleria Restarte, Bologna; Identità 2, personale alla Galerie MZ, Augsburg. Nel 2012 si tengono tre sue mostre personali: Identità, Galerie MZ, Augsburg; Self-portrait, St. Peter am Perlach, Augsburg; Ichnos, Badia (Bolzano). Tra il 2010 ed il 2012 viene selezionato tra i finalisti dei concorsi Premio Francesco Fabbri (Treviso); Orientalmente (Mantova); Premio Arte Laguna (Venezia); Royal Society of Portrait Painters (Mall Galleries, Londra) Premio Celeste (Catania). Nel 2011 viene invitato a partecipare alla 54ma Biennale di Venezia, Padiglione Accademie. Tra il 2008 ed il 2012 ha partecipato a numerose mostre, tra le quali: Play by the rules, Cortina d’Ampezzo; Small is beautiful, Galerie Maier, Innsbruck; Lost in Painting II, Treviso; Iconica, Galleria RezArte Contemporanea, Reggio Emilia; Dolomiti Contemporanee - paint/one, Belluno; Art Stays, Ptuj (Slovenia); I fought the x and the x won, Muzeul de Arta, Cluj-Napoca (Romania) e National Museum of Fine Arts, Valletta (Malta); Vertigo, Rovigo; The Mystery Portrait, National Portrait Gallery, Londra; Gabls, Belluno; 46|09, Galleria Biagiotti, Firenze; Devozioni Domestiche, Galleria Contemporaneo, Mestre. Nel 2008 è selezionato al concorso BP Portrait Award, ed espone alla National Portrait Gallery, Londra; alla Wolverhampton Art Gallery; alla Aberdeen Art Gallery ed alla Aberystwyth Arts Centre (Regno Unito). Nel 2005 partecipa a: Atelier Aperti, evento della 51ma Biennale di Venezia.

Identità, cm 21x21, olio su tela, 2010

Immagine di allestimento della mostra “Sedimentazioni”,Villa Angeli, Adria, 2013

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www.gabrielegrones.com

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COLORE

MAURO MAZZALI

Il fiume, la terra, il tempo di Tobia DonĂ

foto di Nino MIgliori

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Still life 2000 gomma siliconica

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l Po è il grande fiume. I territori che attraversa hanno caratteristiche particolari, non solo geologiche, ma anche antropologiche.

Queste ultime forse non sono più facilmente percettibili come in passato, ma continuano ad esistere e diventano più persistenti mano a mano ci si avvicina al delta del fiume, dove la terra e l’acqua si mescolano dando vita a un territorio incerto ed indefinito, carico di fascino e di mistero.

Chi come me è nato in quei luoghi certo può meglio immaginare come potevano apparire in passato. A tal proposito Tonino Guerra raccontava che ai suoi tempi sentir parlare del Po era come sentir parlare dell’Africa. Luoghi avvolti nella nebbia e pieni di zanzare. Luoghi nei quali il Po aveva mantenuto lo spazio come una zona franca in cui la natura era rimasta libera di crescere, selvaggia ed antica, dove era ancora possibi-

le “toccare l’infanzia del mondo”.

Mauro Mazzali è nato nel 1948 a Castelmassa, un piccolo paese bagnato dal Po. Un territorio, questo, che se ci nasci non puoi più toglierti di dosso. Qui è nata la metafisica, qui l’Ariosto ha immaginato di viaggiare sulla luna, di inviare lassù l’Astolfo a recuperare il senno che Orlando aveva perduto. Sarà forse la paura del grande fiume, sarà che la gente di lì porta con sé, nelle proprie membra, i simboli dell’acqua e della terra che il Po copre e riscopre nel suo continuo espandersi e ritirarsi.

La stessa acqua del ventre materno, nella quale il nascituro si forma, e la terra, dove l’uomo si trova ad affrontare la vita. Mauro è tutto questo, la sua arte è imbibita di questi elementi. Tutto ruota intorno alla percezione, l’acqua non è acqua, la terra non è terra, tutto è indefinito e la certezza non è mai assoluta. Per lui la realtà non è palese ma bensì colta in modo diverso da ognuno di noi. “Terra degli avi” è il titolo di una grande scultura in silicone del 2005.

Rappresenta un lembo di terra, un rettangolo di otto metri quadrati.

Beatrice Buscaroli scrive a proposito dell’opera: “Terra vera calpestata e lavorata, zolla sudata e sofferta ma egualmente finta, artificiale. Paradossalmente ancora più vera, tra una verità negata e un’altra rimpianta. […] La gomma di Mazzali è terra. Non ne ha il colore perché non ne ha più bisogno, è un cuscino cavo e concavo insieme. Calco e rilievo, memoria e nostalgia”. La “percezione” stessa dovrebbe, secondo Pascal, far riflettere sulla nostra fragilità e incapacità di penetrare i segreti della vita dell’uomo, il quale dovreb69

be farsi guidare dal “cuore” più che dalla ragione. Di fronte alle opere di Mazzali non siamo chiamati a guardare con gli occhi, ma a percepire con il cuore. Ecco che come lui stesso mi spiega “…se la tocchi, rivive per un attimo, ti ricorda che è stata fisicamente, inconsapevolmente si riconosce nella spazialità, dell’essere forma nello spazio”. E che cos’è lo spazio, se non il vuoto? Quello stesso vuoto che sta intorno a Prigioni di Michelangelo, lo stesso vuoto che la cultura orientale non esprime come assenza, ma come spazio di interposizione tra le cose e strettamente connesso con il tempo. Anche quel tempo in cui Mazzali, bambino, calpestava la terra bagnata nella golena del Po e i fienili erano cattedrali a tre navate con le colonne in marmo rosso di Verona.

Still life 2000 gomma siliconica

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“Purtroppo tutto è fugace come gli anni”, e ne sono passati quasi quaranta, quando, nel 2005, con questa citazione proustiana egli conclude l’intervista rilasciata in occasione del Premio Marconi, che la Fondazione e l’Università di Bologna hanno voluto conferire non solo all’artista, ma anche al concittadino. “Poi un giorno guardando un campo di grano falciato, ridotto a balle di paglia, ho avuto una grande emozione: la natura veniva ciclicamente “solidizzata”. Il parallelepipedo, metafora del blocco di marmo, di una dimensione geometrica artificiale, frutto di un’azione umana, stava lì, disteso, serialmente composto nello spazio.

La presenza dell’uomo era forte, era la sua assenza, visivamente connotata dall’oggetto, o meglio ancora dall’atto che l’aveva prodotto”.

Nascono da questa folgorazione le opere in silicone, balle di paglia poste d’innanzi a noi, scarnificate dalla loro pelle originale, bianche e grigie, “riprodotte come nella televi-

Monografia Skira dedicata a Mauro Mazzali

sione in bianco e nero”, scrive Graziano Campanili, nel bel volume su Mazzali edito da Skira. Non è facile raggiungere una tale astrazione. Le sue sono opere semplici, immediate, eppure tanto espressive, dove tutto il superfluo è stato eliminato per mantenere solo l’essenza. Egli è prima di tutto un intellettuale, uno “scultore vero”, disse di lui Philippe Daverio.

L’arte altro non è che una forma di percezione, il significato che le cose assumono nella testa, nel cuore, nel corpo delle persone che le guardano. Egli crea le sue opere con le mani, con un gesto antico, “allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” [Genesi 2,7]. Ancor prima del silicone ha plasmato la terracotta, il bronzo, creando opere sacre memorabili custodite nelle chiese e consegnate all’eternità.

Ho passato un’intera giornata a Bologna con Mauro Mazzali, negli stessi luoghi che hanno attratto professori e studenti da tutto il mondo, dove nel 1160 Irnerio teneva le sue lezioni di Diritto all’Accademia delle Scienze dell’Università di Bologna, la più antica del mondo. Città in cui Carlo V nel 1530 fu incoronato e lo stesso anno Papa Gregorio XIII si laureò in giurisprudenza e stipulò, nel 1580, quel calendario che per sempre scandirà il nostro “tempo”. Mazzali mi ha condotto prima nel suo studio all’Accademia di Belle Arti della quale è direttore, che fu la biblioteca del poeta Enrico Panzacchi. Poi al museo di Palazzo Poggi, che ospitò nel settecento, insieme ai laboratori dell’Istituto di Scienze, l’Accademia 70

Still life 2000 - gomma siliconica

Terra degli avi particolare - 2005

di Belle Arti, che per iniziativa del generale Luigi Ferdinando Marsili, fautore del connubio tra anatomia medica e anatomia artistica fu promotore dell’idea dell’università moderna. E poi, ancora, nella chiesa di San Procolo, per vedere la sua opera sacra più importante e visitare il campanile con la scala elicoidale ed i gradini in pietra, bucati perchè attraversati dalle corde delle campane. Poi, a casa sua, mentre suonava una sinfonia al pianoforte e i suoi occhi si sono inumiditi per l’emozio-

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ne, il mio sguardo si è posato su un piccolo disegno, una china monocroma che Mazzali ha intitolato “Fuochi d’artificio sul Po”. Ho chiuso gli occhi ed ho rivisto l’acqua scura e nera, le ombre improvvise generate dai lampi colorati che la superficie

scura rimanda agli argini. Ho pensato alla sua insegnante delle elementari, che ha convinto il padre a fargli proseguire gli studi e agli abili ebanisti alla scuola d’arte di Castelmassa, che hanno gettato un seme oggi germogliato nel corso di restau-

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ro voluto da Mazzali all’Accademia di Bologna… intanto le dita correvano agili sulla tastiera del pianoforte e ho capito che esistono ancora buoni maestri. Questo scritto doveva essere un’intervista ma per le domande… non vi è stato il tempo.

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Mauro Mazzali È nato nel 1948 a Castelmassa. Vive e lavora a Bologna, dove ha conseguito il diploma presso l’Accademia di Belle Arti della quale è direttore. Ha tenuto mostre personali nazionali e internazionali. Ha realizzato moltissime opere pubbliche in particolare di committenza religiosa, come ad esempio come lo Stemma Papale che orna la Sala Stampa del Vaticano; le sue opere sono presenti in importanti collezioni private e pubbliche, tra le quali la Fondazione Giacomo Lercaro per la quale ha coniato la medaglia commemorativa dell’inaugurazione. E’ inserito nel X Catalogo della Scultura Italiana edito da G. Mondadori. Mauro Mazzali è un esemplare autore di arte plastica in quanto sa coniugare sapienza e gesto. Pregevoli sono le terrecotte i bronzi, le sculture in bronzo e cemento. I suoi lavori sono contrassegnati da un continuo processo di movimento. Nel 2005 ha vinto il prestigioso “Premio Marconi” di Pittura Scultura e Arte Elettronica che annovera tra gli insigniti i maggiori artisti contemporanei. Tra le esposizioni, ricordiamo le più recenti: nel 2011 per la 54° Biennale d’Arte di Venezia, Padiglione Emilia Romagna, Palazzo Fava Bologna a cura di V. Sgarbi e sempre per la 54° Biennale d’Arte di Venezia, a Torino, Palazzo delle Esposizioni, Sala Nervi; nel 2012 “Il paesaggio necessario”, Fienili del Campiamo, Grizzana Morandi a cura di E. Frattarolo. Una delle caratteristiche del suo lavoro di scultore è quella di aver ricercato modi e tecniche per realizzare opere con la gomma siliconica, una materia “tenera” che chiama ad essere creata, trasformata in forme.

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" Terra degli avi - 2005 71

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All together - Eco Homo ad Abilmente con il Centro di Riuso Creativo di Verona 72

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TEXTURES

Una realtà dinamica coinvolgente

Peppez - I Peppez Filum e Panniculus en plain air

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mpresa tutta declinata al femminile, TEXTURES è frutto della creatività di quattro giovani donne, professioniste dell immagine. Il percorso formativo di ciascuna porta all approfondimento di un peculiare ambito e linguaggio artistico, che si traduce poi nell applicazione pratica nei più diversi contesti: dai progetti espositivi, all elaborazione di proposte didattiche, dalla decorazione di interni - nella gamma dei soggetti più vasta immaginabile all illustrazione, soprattutto per l infanzia. Nascono così trompe-l’oeil e decorazioni parietali nello stile classico, sempre rivisitato con originalità ed eleganza, ma anche visioni libere che citano grandi maestri dell arte contemporanea, narrazioni in chiave Pop, ambientazioni fantastiche e surreali, atmosfere da fiaba.

La consuetudine con il binomio Museo-Scuola si traduce in laboratori didattici a tema, con un’attenzione particolare per i contenuti educativi di ogni progetto, nella migliore accezione dell’idea di edutainment.

TEXTURES nasce dall’idea di intervenire con quattro diverse superfici nel mondo della comunicazione artistica e dal piacere di tesserle in risposta ai contesti di lavoro e alle competenze richieste.

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TEXTURES FACCIAMO ACQUA – installazione e gioco interattivo per la Giornata mondiale dell’Acqua – Verona, Piazza Erbe – 22 marzo 2012 ECO-HOMO – installazione ad Abilmente (con il Centro del Riuso Creativo del Comune di Verona) - Vicenza, 18/21 ottobre 2012; ECO-HOMO in Biblioteca Civica (con Associazione A.D.A) – Verona, novembre 2012 ECO-HOMO per l’Unesco (con Associazione A.D.A) – Verona, Gran Guardia per la Settimana dello Sviluppo Sostenibile – 19/25 novembre 2012 I PEPPEZ AL TOCATI’ – installazione e gioco interattivo per il Festival Internazionale dei Giochi in strada – Verona, Cortile del Tribunale – 20/21 settembre 2013 I PEPPEZ A FARFILO’– allestimento in vetrina e PeppezLab – dicembre 2013 ALPHABET – illustrazioni e installazioni – Rovigo, Sala Celio 8/11-8/12 2013 I TESORI DI SAN ZENO - guida per bambini sulla basilica di S.Zeno (ed. Quiedit 2014) GENITORI-LETTORI, pubblicazione bibliografica illustrata per la sezione ragazzi della Biblioteca Civica (Comune di Verona) – 2014, Progetto Nati per Leggere TEXTURES si occupa inoltre di decorazione e riqualificazione di spazi abitativi e appartamenti di prestigio in centro storico a Verona.

Piramide di tazze infrangibili per il tè di ALPHABET a Rovigo

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Tweedledum ad ALPHABET in mostra a Rovigo

Peppez - I Peppez in vetrina in Biblioteca civica a Verona 74

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TEXTURES Sofia Festi vive a Verona. Si diploma in Pittura, lavora in uno studio d’architettura, frequenta un corso per art director e si inoltra nel mondo dell’infanzia. Segue un master in illustrazione e pubblica due libretti tutti suoi.

Giovanna Gazzi studia a Verona e lavora alcuni anni in quella città.

Illustra libri e riviste, si occupa di didattica e formazione, di atelier di pittura e d immagine e crea fondali e oggetti per scenografie.

Chiara Raineri fa le sue prime esperienze artistiche e lavorative in Italia e in America, insegna computer grafica e pubblica libri illustrati; incontra altre belle persone con cui progettare laboratori, decorazioni, mostre…

Stefania Vianello studia a Roma, si muove all’interno di spazi teatrali progettando scenografie e costumi; pubblica un libro, conduce laboratori e veste con allestimenti ad hoc spazi espositivi, palazzi storici, stand fieristici, vetrine e sale dei musei.

Pesci e bolle d'acqua nel percorso del gioco

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Decori Etoile du jour interno di abitazione privata Verona

Una protagonista di acquAmì acquAtì 75

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ALBERTO Un Polesine tutto da filmare di Daniela Gambaro

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l Polesine e la sua rappresentazione cinematografica, spesso troppo malinconica. Una vocazione per il cinema della realtà. L’entusiasmo di diffondere il cinema d’autore in una zona non proprio facile. Alberto Gambato, giovane cineasta rodigino, racconta il suo rapporto con il territorio e con il cinema.

Quando hai cominciato a pensare di fare cinema?

Il mio primo corto (“luce fioca”, realizzato con Barbara Marangon) è del 2001. La voglia di girare qualcosa mi era venuta dopo tre edizioni da curioso spettatore della Mostra di Venezia, attraverso una realtà preziosissima come CinemAvvenire, voluta da Gillo Pontecorvo e sostenuta dall’Enel e dal Ministero della

Pubblica Istruzione per riportare i giovani a Venezia all’inizio degli anni novanta.

Quali possibilità vedevi nella narrazione cinematografica?

Nei primi tentativi mi interessava fotografare i momenti di passaggio, sperimentando l’espressività dei personaggi, obbligandoli a cercare modalità comunicative diverse dalla parola e concentrandomi sui dettagli.

La svolta vera è arrivata nel 2006, quando mi sono sentito appagato ed ho cercato nuovi stimoli. La Regione Emilia Romagna aveva promosso un Corso di Alta Formazione in Regia Cinematografica della durata di un anno, presieduto da Marco Bellocchio a Bobbio. Al termine dei colloqui sono stato tra i 15 selezionati ed ho vissuto 12 mesi a contatto con Bellocchio stesso, Francesca Calvelli, 76

Sergio Ballo, Mario Gianani, Carlo Crivelli e Gaetano Carito.

Una bella esperienza per “annusare” l’ambiente…

Un’esperienza che mi ha lasciato molto, ma che mi ha anche messo faccia a faccia con un ambiente che ho trovato e trovo troppo spietato per i miei gusti. Non essendo una persona competitiva ne ho sofferto, ma ho anche capito che la cosa giusta da fare era portare nel mio luogo di origine quello che avevo imparato. Per tentare di raccontare il mio territorio.

Il Polesine è stato più volte oggetto di racconto al cinema…

Sì, ma trovo che abbia sempre sofferto cinematograficamente di cliché specifici: persone scostanti, la nebbia che tutto ammanta ed il Delta a farla sempre da padrone. Dunque

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ho messo nel cassetto le due sceneggiature da lungometraggio che stavo definendo e sono approdato al documentario per questa urgenza di raccontare Rovigo ed il Polesine in modo più trasparente possibile, oltre che per questioni produttive.

“La lunga marcia dei 54” è un documentario sull’eccidio di Villamarzana. Come è nato il progetto?

Devo ringraziare Laura Fasolin per avermi coinvolto nel progetto di documentazione sull’eccidio di Villamarzana, un’esperienza che mi ha arricchito tantissimo. Undici testimonianze raccolte e visibili nel neonato Centro di Documentazione, poi il documentario, che in tre anni siamo riusciti a portare abbondantemente in giro per l’Italia, per un intento di divulgazione extra-polesano che già nel 2010 ci eravamo dati come prioritario.

Ti si può definire un documentarista quindi?

Amo moltissimo la fase di pre-produzione, sopralluogo ed “ascolto” delle persone e degli spazi. Prediligo questo - oltre alla grande quantità di tempo che trascorro sui luoghi in fase di ripresa ed alla mole di girato che accumulo - rispetto allo strutturare una sceneggiatura troppo dettagliata. Il cinema della realtà è qualcosa che sento molto nelle mie corde e che continuerò ad approfondire nei prossimi anni, anche perché i progetti in cantiere iniziano ad essere parecchi.

Tra cui quello di diffusione cinematografica tramite CineGap, un cineclub molto attivo sul territorio…

Proponiamo gratuitamente ogni lu-

Rodijinos

nedì sera film inediti, locali e/o dimenticati, rigorosamente in lingua originale e sottotitolati in Italiano.

Nati come associazione nel 2011 (ma informalmente esistevamo anche prima), nel 2014 siamo arrivati a 92 soci. Un numero significativo per una città come Rovigo.

Si continua a dire che il pubblico cinematografico non c’è più. Io continuo a pensare che c’è e che bisogna solo stanarlo… Tu cosa ne pensi?

E’ una questione complessa, che per me ha origine nella scarsa cultura dell’immagine in movimento nel nostro Paese. Trovo inconcepibile che nel 2014 in Italia ci si possa diplomare conoscendo a menadito la Divina Commedia, ma ignorando totalmente chi sia Roberto Rossellini.

Ricordo che qualche anno fa eravamo a pochi passi dall’inserimento del cinema come materia scolastica per gli istituti superiori, grazie al grande lavoro di Lino Micciché, una persona che ha lasciato un vuoto enorme 77

nella cultura italiana. Purtroppo non è andata così ed a tutt’oggi ne paghiamo le conseguenze.

Si investe poco sulla cultura cinematografica dei giovani e dall’altra si perdono gli spettatori adulti…

Basta dare un’occhiata alla programmazione in generale dei cinema della penisola, alle classifiche degli incassi, alla reputazione di cui il cinema d’autore ed italiano “godono” presso lo spettatore medio ed ai termini (ma anche allo spazio) che i media generalisti dedicano al cinema. Penso anche che i cambiamenti sociali vadano in controtendenza rispetto al cinema come atto di fruizione collettiva. C’è una ricerca dell’intimità (o della solitudine?) che si accorda molto bene alla possibilità di vedere un film sul proprio computer.

Finirà così? Ognuno davanti al proprio computer?

Il punto è che il cinema a mio parere

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è fatto per essere fruito in un certo modo e che ridotto ad un sistema “cuffia + monitor 15 pollici” perde la maggior parte del proprio potere audiovisivo, di coinvolgimento e

comunicazione. E’ forse per questo che ultimamente sono nate e resistono realtà come i microplex: grazie a tecnologie a basso costo - e di ottima qualità - reinventano una fruizione ci-

nematografica collettiva per le persone che ancora la desiderano. Il Kino a Roma ne è un esempio famoso, a Rovigo cerchiamo di fare qualcosa di simile proprio con CineGap.

La lunga marcia dei 54

Progetto Habitat - laboratori urbani di arte pubblica - Viale Porta Adige

Progetto Habitat - laboratori urbani di arte pubblica - Luci in corso 78

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Alberto Gambato È nato a Rovigo nel 1978. Dal 2001 realizza documentari, visuals e cortometraggi. Con i corti “velleità” (2003), “dopo chi” (2004) ed “uno in più” (2005) - scritti con Paolo Rossi e per i quali si rivela prezioso il sodalizio con il sound designer Diego Stocco - ottiene molteplici selezioni e svariati riconoscimenti a festival sul territorio nazionale tra 2003 e 2007. Oltre alle sinergie con Teatro del Lemming (“Inferno” - 2004), i londinesi Pacitti Company (“Finale” - 2007) e Minimi Teatri (“Bach Visual Concert” - 2010), consegue nel 2007 il diploma in Regia Cinematografica presso la Scuola decimestrale di Alta Formazione, diretta da Marco Bellocchio, dove realizza il lungometraggio corale “I Passi di Alice”. Collabora anche con Giuliano Marrucci (Report - RaiTre), Sky Sport Italia, RugbyClub e le agenzie di comunicazione Alchimi-E (AL), Digital-Ink (RO) e Try Ent. (FC).

Dal 2010 cura con Andrea Trombini la produzione audiovisiva della Rugby Rovigo Delta. Tra novembre 2009 e febbraio 2010 conduce a Rovigo il laboratorio per filmmakers “Io abito qui” (SpazioXY). Nel 2011 ha realizzato “La lunga marcia dei 54” (Comuni di Villamarzana e Castelguglielmo, Provincia di Rovigo), documentario sull’eccidio di Villamarzana che ad oggi conta circa 50 proiezioni in Italia e “Rodijinos”, dedicato alla generazione rugbystica argentina e rossoblù tra 2001 e 2011. Nel 2013 a Rovigo coordina il Laboratorio Documentari per il Progetto Habitat - Laboratori Urbani di Arte Pubblica (progetto Culturalmente), realizza la serie di documentari sull’archeologia industriale polesana “Il paesaggio dimenticato” (Arci Rovigo) ed il documentario “Lo sguardo di Lucia” (CSV Rovigo). vimeo.com/albertogambato

Progetto Habitat - laboratori urbani di arte pubblica - Biennale spazio pubblico Roma

Lo sguardo di Lucia

" Il paesaggio dimenticato - Lama 79

PASSATO REMOTO

timediali a tutto vantaggio di quel bacino archeologico e storico disseminato lungo l’intera area costiera che da Ravenna, Adria, Este, Altino, Concordia Sagittaria, attraversa Oderzo, Aquileia, Socerb fino a Izola. Questi insediamenti, cruciali e significativi nell’antichità, non sono mai stati oggetto di un’analisi congiunta, tale da inserire le evidenze storiche e archeologiche in un tessuto unitario, finalizzato ad una conoscenza più approfondita del territorio e ad una sua fruizione mirata e razionale. In particolare, sono in corso di ultimazione le ricostruzioni virtuali dei siti archeologici e la realizzazione di una App che, attraverso il sistema Gps per la geolocalizzazione, permetterà ai visitatori dell’area di vedere il sito con realtà aumentata. Nel primo caso, attraverso il web, sarà possibile vedere come si presentava l’area nelle diverse epoche, orientando così potenziali visitatori, mentre nel secondo caso i visitatori in loco potranno visualizzare sui più comuni mobile devices la mappa del luogo com’era in origine. L’App sarà scaricabile dal sito di PArSIAd da aprile 2014, in italiano e sloveno. Ricostruzioni virtuali e App sono sempre implementate sotto rigoroso controllo scientifico da parte degli archeologi.

Ecco che così, in questo unitario progetto che ha appena visto la sua conclusione, sarà contestualizzata all’interno del Parco archeologico virtuale dell’Alto Adriatico anche la significativa area archeologica di S. Basilio.

S. Basilio è una piccola frazione, in comune di Ariano nel Polesine, situata in quel tratto di antica area deltizia nota come Isola di Ariano, fra il Po di Venezia a nord e il Po di Goro a sud. L’antico centro di S. Basilio si imposta su una di quelle dune, ormai livellate, che nell’antichità sorgevano numerose lungo il territorio e che rappresentavano le uniche linee asciutte nel mezzo di un contesto idrogeologico dall’equilibrio assai precario. L’origine di S. Basilio risale davvero ad un’epoca lontana, il cordone dunoso sul quale sorge sembra corrispondere alla linea di spiaggia attiva in età arcaica. Le campagne di scavo, svolte agli inizi degli anni ottanta, hanno messo in luce l’insediamento più antico ascrivibile ad un periodo che va dalla seconda metà del VI sec. a.C. ai primi decenni del V sec a.C. I dati emersi testimoniano, oltre ovviamente ad una intensa e significativa attività antropica all’interno dell’abitato, anche la probabile convivenza di tre popolazioni differenti, costituite da un nucleo di residenti

Adria, un reperto del Museo Archeologico Nazionale

PArSJAd

Il progetto del parco archeologico dell'Alto Adriatico di Camilla Ferrari

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ene, allora lasciate in garage la DeLorean di “Ritorno al futuro” perché sta per terminare la lunga e faticosa impresa del progetto PArSJAd, il Parco Archeologico dell’Alto Adriatico.

PArSJAd è un progetto volto alla valorizzazione del patrimonio archeologico dell’area costiera dell’Alto Adriatico, che si snoda dal litorale emiliano a quello sloveno.

Il progetto PArSJAd, di cui è capofila la Regione Veneto, è finanziato dal Programma per la Cooperazione Transfrontaliera Italia-Slovenia 2007-2013. PArSJAd è un percorso nella storia, un parco vero e proprio, che prevede e permetterà non solo la riqualificazione delle molteplici aree archeologiche dislocate lungo il litorale, ma anche una fruibilità innovativa dei beni archeologici. Il progetto, infatti, intende impiegare le moderne tecnologie mul81

PASSATO REMOTO

paleoveneti, uno di mercanti greci e un ulteriore gruppo di imprenditori e artigiani etruschi, ai quali probabilmente si deve anche lo sviluppo dell’abitato successivo. Furono i romani che in seguito fecero di S.Basilio (individuata nella Tabula Peuntingeriana dal toponimo Radriani) uno snodo essenziale della Via Poppilia (132 a.C.) che da Rimini si dirigeva verso Aquileia, diventando così un punto d’incontro per i traffici di diversa provenienza.

E’ infatti riconducibile a questo periodo l’origine di un vasto e ricco complesso architettonico messo in evidenza dalle campagne di scavo svolte negli anni settanta presso Tenuta Forzello. Le tre fasi individuate circoscrivono l’attività del complesso all’interno di un arco di tempo, senza soluzione di continuità, che va dal I sec. a.C. al V sec. d.C. Inoltre le tracce di un grande complesso architettonico paleocristiano comprendente una chiesa, il battistero a pianta ottagonale e un piccolo sepolcreto con tombe alla cappuccina, testimoniano la presenza di uno dei più antichi centri di culto cristiano della provincia di Rovigo, oltre a sottolineare una volta di più l’intensa e continuativa frequentazione dell’area.

La Pieve di San Basilio è un ulteriore e interessante complesso architettonico, di probabile origine altomedievale, che si aggiunge al già ricchissimo bacino archeologico dell’area. Quest’ultima sorge su una piccola altura, si tratta di un edificio a capanna costituita da mattoni faccia a vista, a navata unica con un abside poligonale, decorata sulla facciata da una bifora.

Ecco dunque spiegata l’importanza estrema che questo piccolo centro che è S.Basilio riveste nell’ambito del progetto PArSJAd. Proprio per questo, oltre all’inserimento nel contesto virtuale del parco archeologico, PArSJAd ha previsto anche la realizzazione della copertura dell’intera area archeologica, battistero e necropoli di età paleocristiana e struttura di età romano-imperiale.

La nuova copertura sostituirà le due precedenti tensostrutture, inadatte a salvaguardare tutti i reperti da avverse condizioni meteorologiche e che lasciavano completamente scoperti il pozzo e la vasta struttura di età imperiale protetta semplicemente da geotessuto. Gli agenti atmosferici, nel corso del tempo, hanno causato anche il dissesto di parte dei marciapiedi che corrono attorno allo scavo. L’opera di copertura è stata realizzata dal Genio Civile regionale (da poco Sezione Difesa Idrogeologica

Area di San Basilio prima dell'intervento della Regione Veneto

Copertura realizzata dalla Regione a San Basilio nell'ambito di PArSJAd 82

REM Cartina dell'area progetto PArSJAd

di Venezia), mentre il progetto architettonico è dall’architetto Giovanni Scarpari.

I lavori di posa della copertura con volta a botte sono iniziati a settembre 2013 e ultimati a novembre del 2013.

Stanno per terminare anche le ultime attività di sistemazione dell’area circostante.

Buon viaggio a tutti voi.

http://parsjad.regione.veneto.it L'intervento illustrato è frutto di una convenzione tra Regione del Veneto, Soprintendenza per i Beni archeologici del Veneto (per la direzione scientifica), Parco regionale del Delta del Po e Comune di Ariano nel Polesine.

La chiesetta di San Basilio 83

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PROGETTI

La mia terra che suona

Ocarina

Il 2014 battezza il primo Festival del Delta dedicato all' di Cristiana Cobianco

P

er chi non lo sapesse, l’ocarina è uno strumento a fiato di terracotta e appartiene alla famiglia dei “flauti globulari”. La sua forma ovoidale è simile a quella di un’oca, da cui deriva il nome “ocarina”, cioè “piccola oca”. L’origine dei “flauti globulari” è antichissima e riprende miti e leggende legati ai quattro elementi di base: terra, acqua, fuoco e aria; la terra, materiale

primo per la creazione di questo strumento, l’acqua, necessaria per dare forma alla terra, il fuoco, per la cottura ed infine l’aria, senza la quale lo strumento a fiato non avrebbe vita.

Esiste in quel di Grillara, località vicina ad Ariano nel Polesine, “L’ocarina”, il museo laboratorio-fattoria didattica di Benvenuto Fecchio che ha avuto ed ha un ruolo di

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PROGETTI

primaria importanza nel parto del progetto. Oltre ad essere il luogo in cui viene costruita l’ocarina del Polesine, grazie alla disponibilità, alla gentilezza e alla professionalità della famiglia Fecchio, è anche il posto in cui musica e tradizione artigianale si incontrano in un connubio meravigliosamente contagioso!

Proprio presso il museo, nel 2012, si era svolto uno stage a cura di Fabio Galliani, solista del Gruppo Ocarinistico Budriese, che ha coinvolto e contagiato i musicisti locali fino a convincerli a fondare il Gruppo Ocarinistico di Grillara formato da: Andrea Smiderle (do settima), Gildo Turolla (sol sesta), Paola Bellettato (do cinque), Milena Fusetto (sol quattro), Mario Marafante (do tre), Silvia Camisotti (sol due), Chiara Parolo (do uno), Paolo Andreolli (do cinque); alla chitarra, preziosa la collaborazione di Antonio Roman. Tutti suonano le ocarine in terracotta costruite da Benvenuto Fecchio.

Questi sono i protagonisti del progetto, che si sono impegnati nella ricerca di collaborazioni istituzionali, di finanziatori, ma soprattutto a fertilizzare il nostro territorio di una musica che, anche in senso letterale, arriva direttamente dalla nostra Terra. Dal mese di ottobre 2013 le classi quarte delle scuole primarie degli Istituti comprensivi di Ariano nel Polesine e di Taglio di Po sono impegnate in un percorso settimanale di apprendimento dell’ocarina, durante tutto l’anno scolastico, accolto con entusiasmo dai bambini. Anche al Conservatorio di Adria è stata organizzata una giornata di stage rivolta agli studenti con i maestri Emiliano Bernagozzi e Fabio Galliani di Budrio.

Il progetto non intende quindi limitarsi ad un evento di quattro giornate, ma vuole insinuare humus creativo proprio grazie al coinvolgimento degli alunni delle scuole primarie, secondarie di I grado e dei giovani musicisti dei conservatori. Si vogliono creare legami tra diversi tipi di musica, ma anche tra il nostro territorio e quello di Budrio, in cui l’ocarina è nata, pur differenziando l’evento dal festival dell’ocarina che si tiene attualmente in Emilia.

Sono stati coinvolti giovani artisti di fama internazionale, per rendere consapevoli i nostri giovani musicisti delle potenzialità insite in questo piccolo strumento. Il progetto “La mia terra che suona” punta a creare un grande evento culturale nel Delta dedicato all’ocarina, che si inserisca nella sensibilità dei suoi abitanti come consapevolezza di una cultura antica che si proietta nell’oggi. Il tutto, con l’obiettivo primario di creare una cultura musicale autoctona, che non dimentichi la tradizione, ma che grazie alla contaminazione di giovani artisti si proietti nella contemporaneità.

Apice del progetto è senz’altro il Festival, il cui programma si svilupperà tra il 24 e il 27 aprile. Si terranno concerti presso la Chiesa romana di S.Basilio nel comune di Ariano, presso il museo idrovora di Ca’ Vendramin e alla sala “Europa” nel comune di Taglio di Po e poi ancora nell’ambito della manifestazione del “parco in bici” presso Ca’ Mello, nel comune di Porto Tolle. Il pomeriggio del 25 aprile sarà dedicato all’esibizione dei bambini delle scuole primarie di Ariano nel Polesine e di Taglio di Po, che incontreranno i coetanei delle scuole musicali di Budrio; per l’occasione suoneranno circa 100 ocarine di 86

REM

Benvenuto Fecchio! Durante le giornate del Festival si terranno mercatini dell’ocarina e del fischietto in terracotta, accompagnati da gruppi di buskers provenienti da tutto il mondo. Il pomeriggio del 26 aprile l’ocarina incontrerà la musica popolare, con ospiti gruppi di musica e ballo presso l’Idrovora di Ca’ Vendramin. Il 27 aprile sotto le mura del Castello Estense presso il comune di Mesola, in occasione della Fiera dell’asparago, il mercatino proseguirà e ritroveremo i buskers. Gli ospiti, durante le quattro giornate, potranno approfittare di gite in bicicletta, in motonave, di visite guidate, di laboratori di lavorazione dell’argilla, esperienze di nordic walking e di degustazione ed acquisto di prodotti gastronomici locali.

Ma proprio perché l’unione fa la forza e la cultura può rappresentare il volano anche per la nostra economia turistica, le sedi di riferimento del progetto sono luoghi che fanno parte del patrimonio storico, artistico e naturalistico del nostro Delta. Sono stati coinvolti gli operatori turistici locali per invitare il pubblico presente a scoprire il territorio grazie a pacchetti turistici dedicati ai giorni dell’evento. La diffusione dell’iniziativa sarà a livello nazionale e internazionale, per portare a conoscenza di un ampio pubblico le nostre strutture ricettive quali alberghi, ristoranti, agriturismi, bed & breakfast, campeggi. Inoltre i prodotti gastronomici ed artigianali della nostra terra andranno ad affiancare l’offerta musicale degli artisti, che stimolati da uno scenario internazionale, sono certa, daranno il meglio di se stessi!

Promotori: Associazione “Città della Musica” e museo laboratoriofattoria didattica “L’ocarina” di Benvenuto Fecchio In collaborazione con: Provincia di Rovigo, Ente Parco Regionale Veneto del Delta del Po, Comitato Cittadino di Grillara, Sistema Museale Provinciale, Comuni di Ariano nel Polesine, Taglio di Po, Mesola e Budrio, Pro loco di Ariano, Taglio di Po, Mesola, Porto Tolle, Istituti Comprensivi di Ariano nel Polesine e di Taglio di Po, Coldiretti, Fondazione Ca’ Vendramin, Co.se. del Po, Aqua e Deltapool service, media partner REM. Con il patrocinio della Regione Veneto 87

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REM

Torino Venezia

Una strada leggera come VENTO per pedalare da

a

di Tina De Stefani Bertizzolo di Comitato Turismo Italia

I

l progetto di dorsale cicloturistica Vento (VENezia–TOrino) è la realizzazione di un sogno di Paolo Pileri (ideatore e responsabile scientifico) e Alessandro Giacomel (curatore dell’aspetto tecnico) che da anni seguono la loro passione per il ciclismo trascorrendo le vacanze attraverso l’Europa. Lungo le ciclabili europee scoprono il piacere della mobilità lenta che fa scoprire

ambienti e culture e assaporare il piacere di un turismo naturale e sostenibile. Pileri e Giacomel progettano di collegare le piste già esistenti creando un percorso di 679km lungo il corso del fiume Po, che si snoda lungo un’asse relativamente lineare: è un percorso agevole che non presenta significative difficoltà tecniche ed è quindi accessibile anche a gruppi e 89

PROGETTI

famiglie con bambini. Quest’opera monumentale ha un costo relativamente modesto (80 milioni di euro già assegnati) ma è in grado di sviluppare un indotto economico di grande interesse. Poiché l’Italia è un paese attraente per varietà di paesaggi, cultura, cibo, ricchezze artistiche e offre un clima mite, una rete ciclabile di queste dimensioni può proporsi a un mercato turistico internazionale in continua crescita.L’idea progettuale, presentata dall’allora Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano (oggi Dipartimento di Architettura e Studi Urbani) passa la selezione di un Bando della Regione Lombardia finalizzato a Expo 2015 e nel 2011, cofinan-

ziata dal dipartimento stesso e da una generosa impresa (la BLM GroupSpa), diventa attività di ricerca. Diana Giudici e Luca Tomasini, già impegnati presso il Politecnico su un’altra ricerca in campo ambientale, supportano il team nell’elaborazione dei dati geografici e di tracciato; viene poi creata la prima versione del sito web. Al gruppo nel 2013 si unisce per uno stage Chiara Catarozzolo, mentre Luca Tomasini, pur rimanendo grande sostenitore di Vento, coglie un’altra opportunità professionale. Il VENTO biciTour 2013 è stato organizzato anche grazie ad un contributo giunto dalla Scuola di Architettura e Società, dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani (DAStU)

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REM

che ha sostenuto parte delle spese dei materiali per la comunicazione, e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano. Da novembre 2013 VENTO beneficia di un contributo di Fondazione Cariplo che ha permesso di dare nuovo slancio alla ricerca e allargare il gruppo di lavoro a tre nuovi stagisti: Lorenzo Cozzi e Giulia Viganò e Flavio Pellegrini. La prima uscita pubblica di VENTO risale all’11 maggio 2012, quando al Politecnico di Milano viene ufficialmente presentato facendo parlare di sé in Italia e all’estero. Il team percorre nel 2013 l’intero percorso, genera interesse, curiosità e partecipazione e piovono adesioni e sostegni al progetto: oggi 3164 cit-

tadini e oltre un centinaio tra associazioni e istituzioni hanno aderito a VENTO. Nel corso dell’estate 2014 sarà organizzata la seconda edizione di VENTO bici tour, per percorrere a tappe tutto il tracciato attualmente esistente. Comitato Turismo Italia sta lavorando per collegare al bici tour eventi a sfondo culturale, enogastronomico, artistico e sportivo.

L’articolo è comparso sulla rivista HB MAGAZINE di febbraio/marzo 2014.

www.progetto.vento.polimi.it

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MESSAGGIO REDAZIONALE

Le giornate dei bambini, imparare l’igiene dentale può essere divertente Un percorso formativo che coinvolge anche i genitori Clinica Odontoiatrica Biscaro Poggio, Adria – Rovigo “Tutti i denti sono importantissimi, anche i dentini da latte. Il nostro lavoro con i bambini – ci racconta la Dottoressa Paola Poggio – parte dall’informazione dei genitori: occorre sfatare miti, eliminare vizi e insegnare corrette abitudini igieniche e alimentari, per evitare danni futuri”. Molti di noi purtroppo se ne sono accorti tardi, anche perché la cultura odontoiatrica non era poi così avanzata e diffusa, decenni fa.

Ma se tutti avessimo praticato una corretta igiene dentale fin da neonati La dottoressa Valeria Zovi compila i diplomi la necessità di interventi odontoiatrici sarebbe oggi drasticamente ridotta. È questa consapevolezza a guidare Paola Poggio si fa periodicamente la Clinica Biscaro Poggio in promotrice di speciali giornate un’intensa attività nel dedicate ai più piccoli, campo dell’igiene e nelle quali piccoli della profilassi dentale, pazienti e genitori “La regola rivolta in particolar coinvolti alleaurea è sempre vengono modo ai più piccoli. La gramente in attività e quella: meglio percorsi di animazione regola aurea è sempre quella: meglio prevenire prevenire che che insegnano come che curare. E le buone trattare bene la propria curare” abitudini vanno prese il bocca. più presto possibile. “È importante che Ma i bambini, si sa, il primo incontro del imparano molto meglio giocando. bambino con il dentista sia sereno, Ecco allora che la Dottoressa affettuoso, giocoso” – sottolinea la 92

Dottoressa Poggio – “quante ansie e paure risparmiate nell’età adulta!”

“Noi consigliamo comunque una prima visita pedodontica non appena la dentizione decidua è completata. Si tratta di un momento fondamentale anche sotto l’aspetto curativo, perché ci permette di identificare precocemente eventuali anomalie nella posizione dei denti e nello sviluppo scheletrico del cranio del bambino. In molti casi solo l’intervento precoce, con un adeguato programma correttivo, può essere veramente risolutivo”.

REM

La storia di Lino il Dentino Avete presente i libri pop-up? Quelli che, quando si aprono, fanno salire dalle pagine tante magiche e sorprendenti figure di carta?

Una delle più seguite Giornate dei Bambini organizzate dalla Clinica Biscaro Poggio ha insegnato ai piccoli partecipanti come costruirne uno. Ogni libro per bambini, si sa, racconta una storia: in questo caso, la storia di Lino il Dentino. La costruzione del libro si è trasformata in un vero happening, con giochi, animazioni, riprese audio e video.

E Lino il Dentino, natuLino il Dentino ralmente, ha pensato bene di insegnare ai bambini insegna ai bambini quanto sia importante usare quanto sia importante spazzolino e dentifricio.

Al termine della giornata usare correttamente ogni bambino ha portato a spazzolino casa il lavoro svolto, e una e dentifricio storia che sicuramente non dimenticherà.

I prossimi incontri dedicati ai bambini si terranno:

venerdì 30 maggio venerdì 27 giugno Per prenotazioni e maggiori informazioni potete telefonare al numero 0426 40014

Via Monsignor Pozzato 20/A, Adria (RO) www.biscaropoggio.it La dottoressa Paola Poggio risponde alle domande dei bambini 93

Strisce

Andaluz

El caballo

illustrazioni e testo di Sofia Boccato

E' sufficiente osservare lo sguardo di un cavallo Andaluso per rendersi conto della fierezza e dell'antichità delle origini di questa creatura. L'Andaluso, da sempre definito il cavallo del Re per eccellenza, è un cavallo pregiatissimo, che ha saputo mantenere nei secoli le sue peculiarità, diventando così la cavalcatura preferita di Sovrani, Condottieri e Generali che lo sceglievano per la sua imponenza, bellezza, docilità, forza e coraggio.

La teoria più attendibile sulle origini di questa creatura di indomita bellezza, lo vuole frutto dell'incrocio tra fattrici indigene spagnole e stalloni berberi introdotti dai Mori che regnarono nell'ottavo secolo nella penisola iberica. L'allevamento sistemico di questa razza ebbe però inizio solo nel 1500 quando Filippo II di Spagna fondò le scuderie reali di Cordoba, rendendo ancora più pregiate e caratteristiche le peculiarità di questa razza, che contribuì a sua volta allo sviluppo conseguente di molte altre famose razze ad oggi ancora conosciute ed allevate tra le quali il Lipizzano, il Kladruber, l'Hannover, L'Hostein e i purosangue inglesi. Ci fu un momento, corrispondente a tutta l'epoca barocca, in cui ogni Casa regnante e Nobilità di alto o basso rango possedevano cavalli Andalusi o derivati addestrati secondo i canoni dell'alta scuola spagnola. La grande richiesta di questa razza e la conseguente mescolanza che si stava creando, spinse ad un certo punto il Re di Spagna a vietarne l'esportazione considerandola reato. Nel 17° e nel 18° secolo la razza infatti si può dire quasi estinta in termini di purezza. La dominazione francese con Napoleone e l'incrocio con cavalli più pesanti, prevalentemente Napoletani, contribuirono in maniera decisiva al decadimento della razza. Fortunatamente, grazie alla volontà di un gruppo di monaci certosini del monastero di Cartjca a Jerez de la Frontera, che si opposero alla mescolanza della pura razza spagnola con altro sangue, l'Andaluso rimase intatto nelle sue caratteristiche storiche originarie. Così in Spagna,

Formazione Cobra

anche grazie alle profonde tradizioni equestri, l'Andaluso tornò a nuova vita e dopo anni di assenza fece la sua ricomparsa, insieme ai tori e alle vacche, nelle fazende dei proprietari terrieri del sud della penisola iberica. Ed è proprio il suo crescere in simbiosi con il toro che ne ha forgiato alcuni aspetti caratteristici come il coraggio e l'imperturbabilità di fronte a qualsiasi situazione. Il lavoro quotidiano con il bestiame delinerà quella che ad oggi è definita Doma Vaquera, cioè monta da lavoro iberica, considerata una vera disciplina ed arte equestre. Il cavallo, per poter lavorare con tori e vacche, doveva essere agile, scattante, coraggioso... doveva riuscire ad inseguire le mandrie anche nei terreni più impervi. Nel 1973, infine, a Jerez de la Frontera, Alvaro Domecq Romero, uno dei più grandi rejoneador, cioè toreador a cavallo, fondò la ''Real Escuela del Arte Equestre'', oggi uno dei punti di riferimento fondamentali dell'Alta Scuola e del Dressage. Attualmente il nome di Andaluso è stato sostituito con quello di PRE (Pura Raza Espanola) per distinguere i cavalli Spagnoli da quelli Lusitani, che in realtà appartengono sempre alla grande famiglia degli Andalusi, in quanto in origine per Andalusia si è indicata quasi tutta la penisola iberica e perciò anche il Portogallo.

Il cavallo Andaluso non si muove, ma danza. Ad ogni passo sembra ergersi in volo. Eleganza e fierezza sono peculiarità imprescindibili che lo distinguono. Le sue andature sono elevate, con anteriori che si innalzano fin sopra il petto. Il suo movimento risulta riunito, esteso verso l'alto, barocco e particolarmente elastico. Tutto ciò è reso possibile, con molta probabilità, anche grazie alla sua conformazione morfologica che lo vede dotato di collo possente, inarcato; di corpo ben proporzionato e particolarmente tondeggiante. Caratteristiche di questo cavallo sono il ''paso de andatura'', dove l'animale fa letteralmente dondolare gli anteriori e il passo spagnolo che in tempi passati veniva utilizzato in battaglia per intimorire il nemico.

DENTRO LE ILLUSTRAZIONI Il mio percorso vuole rendere omaggio al cavallo spagnolo, che da tempo ispira le mie tavole, e alle antiche tradizioni che lo accompagnano. All'interno di ognuno di questi disegni c'è la memoria tramandata da questi maestri di vita, un'antica storia di fiducia e simbiosi tra cavallo e cavaliere. Davanti alla saggezza di queste creature siamo nudi, davanti alla loro potenza ci rimane solo l'umiltà. Eppure, nonostante la loro superiorità fisica, si affidano a noi e si donano come il più fedele dei compagni.

Non so se sarò mai abbastanza per loro.

"

L'arte equestre è il perfezionamento delle cose semplici.

"

Nuno Oliveira

Monta Vaquera

MESSAGGIO REDAZIONALE

SEPTEM MÀRIA MUSEUM E OSTELLO AMOLARA Due realtà, tra passato e presente, nel Delta del Po

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l Septem Mària Museum è un museo che racconta la civiltà delle acque, dalla protostoria all’attualità, all’interno di un edificio nato in funzione dell’acqua.

La denominazione di “sette mari” (Plinio ricorda che gli antichi così chiamavano il territorio tra Adria e il mare) giustifica appieno la localizzazione in quest’area di un museo che ripercorra la storia delle acque, cioè del rapporto che le varie civiltà hanno instaurato con l’acqua, intesa come risorsa e come problema per l’uomo.

Dall’età protostorica, ai greci, agli etruschi, ai romani, al medioevo, fino all’età moderna e contemporanea: quali insediamenti, quali attività economiche, quale governo del territorio? L’attuale allestimento cerca di rispondere a queste domande, in modo semplice e divulgativo, per capire e valutare la realtà di oggi, ma deve considerarsi un punto di partenza rispetto ad un previsto percorso esterno per lo studio delle tecniche di ingegneria naturalistica.

L’edificio dell’Amolara è di grande dignità architettonica ed è considerato uno degli esempi più significativi dello stile neoclassico in Polesine. Fu progettato nel 1853 dall’ing. Cesare De Lotto di Cavarzere, edificato nel 1854 dal Consorzio di Campagna Vecchia e modificato in epoca successiva. L’elemento più singolare è l’alta ciminiera, mentre anche il corpo principale, su due piani e sottotetto, si fa notare per le linee armoniche e severe della facciata. Nel 1997 hanno avuto luogo dei lavori di restauro conclusi nel 2000. Ha sede ad Adria, in località Capitello, all’inizio della strada provinciale Adria-Romea.

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REM

L

’Ostello Amolara è una moderna struttura alle porte della città di Adria, con una sala convegni attrezzata con 90 posti a sedere, un ristorante con 120 coperti dove è possibile consumare i piatti tipici polesani, l’alloggio per 44 persone. L’Ostello funge anche da ufficio informazioni per chi desidera visitare e conoscere la zona di Adria e del delta del Po. La sala da pranzo dell’Ostello è caratterizzata da un soffitto e da pareti molto alte, una delle quali decorata da un affresco realizzato nell’anno 2000 da Elvio Mainardi, pittore di fama internazionale, cresciuto proprio nell’idrovora oggi adibita ad ostello. L’opera, che misura poco più di sette metri per quattro, rappresenta una suggestiva sintesi della storia polesana, poiché nelle varie fasce pittoriche si susseguono: il paesaggio antico, con lagune e acquitrini, le prime bonifiche (a metà dell’ottocento), in parte realizzate grazie al duro lavoro degli “scariolanti”, proprio nell’epoca in cui sorge l’idrovora. Poi l’età contemporanea, con scene di vita familiare, ed infine, nell’ultima fascia, i due quartieri storici di Adria, il Castello e la Tomba.

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valle,

SAPORI E SAPERI

I Bardella di Maistra beccari, osti e casolini guardiani di di Paolo Rigoni

I

buona, sì, altrimenti non se ne parla. Per fare il magasso, è semplice perché il segreto è quello del dosaggio degli ingredienti. Comunque, se proprio volete, vi dico come lo faccio. Il giorno prima lo si deve spennare con cura, passarlo alla fiamma per bruciare le piume più resistenti e pulirlo dalle interiora. Poi lo si mette a bagno con vino brusco, un po’ d’aceto e i suoi aromi. Da piccola, al casone, ricordo che ne mettevano tanti. L’indomani lo prendo, lo passo alquanto al fuoco perché perda tutta l’acqua, lo faccio a quarti e pongo nel tegame con aglio, cipolla, carota, rosmarino, alloro, olio, lardo e vino abbondante.

Adesso si impiega l’olio d’oliva per cuocere, una volta invece si usava lo strutto ed i cibi erano forse più buoni.

Faccio andare piano, piano. Il segreto della cucina è tutto qua: bisogna impiegarci del tempo. A cottura quasi ultimata, metto magari del succo di limone, posso anche aggiungere una spolverata di spezie per coloro che le gradiscono ed infine bagno con una spruzzata di brandy che conferisce quel particolare sapore che piace. E dopo il germano e al termine della cena, per tutti l’èsse da intingere nel vino. Un dolce che va sempre bene perché da noi si preparava nelle date principali dell’anno: Capodanno, Pasqua, Natale, Epifania”.

In seguito Venerino d’ Dorin, stanco di Panarella, cambiò valle cercando pascoli migliori. Il viaggio non fu lungo perché a Ca’ Cornera l’erba era veramente buona. Ma ora sembra annusare un vento che sembra far presagire nuove valli da dissodare.

n principio fu Gigi. Gigi generò Doro, Doro generò Venerino, Venerino generò Gigi, Gigi generò Doro.

Non è un passo biblico, ma l’albero genealogico dei Bardella di Maistra, da secoli guardiani di valle, beccari, osti e casolini che, nel più assoluto ossequio alla tradizione, imponevano i nomi dei nonni ancora in vita ai nuovi nati. Una dinastia di valligiani a servizio del conte Persico, proprietario di beni sino a tre onde in mare e di valli, ove si allevavano anguille, orate, branzini e si catturavano di quei cefali che avevano delle braciole gustose e più di quelle del maiale.

Nel 1967, Luigi di Isidoro, Gigión d’Doro, alla ricerca di nuove terre, prese la moglie Onorina, i figli Onorino, Filidea e Venerino d’ Dorin, che s’era già portato a casa la Mendina di Ca’ Zuliani, caricò tutto sul carro e si spostò a Panarella a fare, tanto per non cambiare, mettendo in pratica la consuetudine con i selvatici di valle e con il pesce che, la vigilia di Natale, sfrigolava in continuazione sulle graticole fumanti. L’arte che Venerino e Mendina, continuatori della stirpe, hanno messo da parte, si è formata nei casoni di valle e dai casoni hanno travasato nell’osteria la dimestichezza nell’imbandire quelle dolcissime anguilline del Po, chiamate siriòle, o la cacciagione.

Uno dei piatti ricercati dagli avventori è sicuramente il magasso, di cui Mendina acconsente a rivelare la ricetta. Ma è come levarle un dente: “Voglio fare piatti genuini e, se non sono sicura, io il germano non lo prendo in considerazione. E così tutti gli altri piatti. Se trovo roba 100

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illustrazione di Sofia Boccato

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MESSAGGIO REDAZIONALE

il festival si avvale della nuova associazione capofila del progetto, vincitrice del bando Culturalmente della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo: Voci per la Libertà, che vanta un’esperienza ventennale in materia di festival e di musica. Forte di questa rodata macchina organizzativa, il programma è stato notevolmente incrementato per movimentare l’offerta culturale della primavera/estate sul Delta del Po: dal 4 aprile al 29 settembre 2014 vi attende un fitto calendario di mostre itineranti, concerti, performance, escursioni, presentazioni di film inediti quali VenTo- L’Italia in bicicletta lungo il fiume Po e Supra Natura – un film di Seth Morley e DEM.

LA NUOVA ROTTA DELLA CREATIVITÀ CONTEMPORANEA

GEOGRAFIE AD ALTO POTENZIALE CREATIVO La seconda edizione nasce all’insegna di nuova tematica: le “geografie ad alto potenziale creativo”. E’ questo il fil rouge del progetto curatoriale, mediante il quale si cercherà di sviscerare il camaleontico potenziale che talune geografie contemporanee ai margini, come il Delta del Po della provincia di Rovigo, racchiudono quale scrigno di radici e contenitore di idee caratterizzante per il futuro prossimo, latore di significazione per il presente.

Un’indagine sociale a 360 gradi, insomma, che dal contesto locale investe la percezione collettiva, sia di chi ogni giorno percepisce taluni territori passivamente e con scarsa attenzione verso i particolari, sia di chi di questi luoghi ignora sovente l’esistenza, in quanto collocati al di fuori delle usuali vie di comunicazione del turismo globale. Ancora una volta sarà la creatività giovanile a giocare il ruolo chiave del progetto, la valorizzazione della particolare e complessa geografia del Delta del Po, eleggendola come nuova rotta della cultura contemporanea. In questo meccanismo di indagine, riappropriazione culturale dei luoghi periferici del Delta e creazione di nuove rotte mediante le strategie culturali messe in atto dai nostri artisti, la creatività under 35 anni diventa un faro per permettere, ad abitanti e pubblico, di avvicinarsi all’arte, spostando anche di poco la propria rotta quotidiana, servendosi come bussola di un punto d’appoggio alto nell’orizzonte: il valore intrinseco della conoscenza. Gli artisti stanno lavorando in stretta armonia con istituzioni, associazioni, popolazione e specialmente con ciò che il territorio può loro offrire, per cui molte opere saranno realizzate con materiali

Sonikasik, Gola, fotografia e acrilico su tela, 2010. Courtesy dell'artista

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in grande fermento il cantiere artistico di DeltArte: in questi giorni stanno arrivando un po’ da tutta Italia e anche da oltralpe i 20 artisti protagonisti della nuova edizione del festival, per allestire le imminenti mostre, idearne gli interventi site-specific e per attingere inediti spunti creativi dal territorio. Quest’anno 102

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ambientali dei luoghi: idrovore che sono diventate musei dalla disarmante bellezza e maestosità, siti archeologici che custodiscono la millenaria storia di antichissime popolazioni nomadi, delicatissimi ecosistemi in continua evoluzione, isolotti e scanni che affiorano dalla vastità silente della laguna, alberi secolari come la Rovra - alla quale è dedicata questa seconda edizione- orti che l’uomo ha saputo lavorare con costanza e pazienza, labirintiche valli da pesca. DeltArte si propone al pubblico - generico e specialistico- quale esposizione qualificata di opere d’arte e soprattutto processo creativo in itinere, da vivere in prima persona durante le giornate del festival: l’opera nasce, infatti, nel contesto del delta ed è seguita quotidianamente nella sua crescita e nel contatto con la società di riferimento e l’intervento dell’artista, che trae ispirazione e stimolo dall’ambiente, esprime il personale rapporto con l’ambiente, basato sul rispetto della memoria e sulla fiducia delle potenzialità della creatività per sviluppare un rinnovato presente.

Raffaella Rosa Lorenzo, "Volo" - opera esposta alla 54a Biennale di Venezia, Padiglione Repubblica del Costa Rica. Courtesy dell'artista

ecologici di scarto, trovati in loco - rami, reti, boe, conchiglie, pietre. I materiali rifiutati dalla società di massa, che la terra è in grado tuttavia di conservare e che l’arte può riabilitare, sono portatori di valore, oltre che di significato, proponendo una tipologia di creazione artistica basata sull’attenzione per la naturalità della materia invecchiata e corrosa dal tempo.

Per la creazione di un museo diffuso La passata edizione ha rappresentato il primo tassello di un più articolato e graduale progetto, di cui DeltArte è capofila, per la creazione di un museo diffuso sul Parco del Delta del Po. L’idea è stata accolta positivamente non solo dalla Fondazione Cariparo all’interno del bando Culturalmente, ma anche da istituzioni ed enti di riferimento locali, nonché dagli abitanti, che dopo un primo momento di disorientamento, ora stanno gradualmente abbracciando una simile opportunità, specie per implementare l’offerta turistica e il settore terziario. Secondo questa linea di pensiero, l’arte contemporanea è decontestualizzata rispetto ai luoghi convenzionali - musei, gallerie, collezioni, raccolte inserendosi in un territorio esteso, carico di varietà, dai confini mobili e in continuo divenire. Il simbolo della scorsa edizione è stato, per l’appunto, l’intervento di Hitnes, street artist di fama internazionale, sulla torre piezometrica di Rosolina Mare, che ha riscosso grande successo sia tra i locali sia tra i turisti, che si fermano tuttora ad immortalarlo nelle loro foto ricordo.

Le nuove rotte della contemporaneità Un articolato percorso artistico accoglierà le opere e gli interventi di Alarc’h, Beat Addected, Emma Dawson, DEM, Andrea Dodicianni, Valentina De’ Mathà, Giovanni Lami, Francesco Mancin, Andrea Magnani, Leo Miglioranza, Raffaella Rosa Lorenzo, Gaia Lionello, Emmanuele Panzarini, Matteo Sauli, Silva Rotelli, Sonikasik, Textures, Roger Weiss, tra le terre, le acque, gli scanni, le idrovore di Adria, Ariano nel Polesine e San Basilio, Loreo, Porto Viro, Porto Tolle e Pila, Rosolina Mare, Taglio di Po e Ca’ Vendramin, rivelando ai visitatori le inedite connessioni e le vitali potenzialità del connubio arte/natura per un cambio di rotta qualitativo nel futuro prossimo del Parco del Delta. Tra i punti forza del progetto, è il percorso itinerante a infondere il carattere di unicità alla manifestazione, permettendo al visitatore di vivere un insieme di esperienze sensoriali e culturali sempre differenti e allo stesso tempo di godere delle particolarità

Melania Ruggini Ideatrice e curatrice di DeltArte

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MESSAGGIO REDAZIONALE

BANCADRIA Il "non ricambio"

delle conoscenze, rispetto degli interlocutori, capacità di elaborare strategie di impresa. Aspetti che oggi la scuola tocca in misura solo marginale. Paradossalmente è solo l’affiancamento alle generazioni precedenti, ai padri ed alle madri, alla famiglia, che permette di costruire un ambiente di rispetto, di tolleranza e di comprensione, un coaching al nuovo ingresso del ricambio generazionale. In questo ambito, anche la Banca ha una responsabilità e, per questo, deve attrezzare i propri prodotti con strumenti che le consentano di fare la propria parte, che è appunto quella di agevolare i processi di sostegno, di formazione e di trasmissione della cultura di impresa.

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l tessuto economico del territorio di competenza della nostra Banca è costituito, prevalentemente, da piccole e medie imprese, per lo più agricole ed artigianali. Quelle stesse imprese risultano essere le realtà più colpite dal fenomeno del “non ricambio”, un fenomeno che può determinare, nella peggiore delle ipotesi, il fallimento di un numero non trascurabile di aziende con la conseguente perdita di posti di lavoro, oltreché la dispersione di un ineguagliabile patrimonio di conoscenza, di capacità manuali, di tradizioni, di legami con il territorio.

Quali le cause di questo “non ricambio”? Noi pensiamo che una grossa incidenza sia data dalla mancanza di una vera cultura d’impresa. In effetti, i giovani, quelli che potrebbero essere i futuri titolari di un’attività paterna, si imbattono oggi contro una realtà non condivisa, nel senso che il sacrificio, gli sforzi e l’impegno dei padri non vengono più capiti. E questo perché non vengono più trasmessi. Molti giovani sono impauriti dall’avvenire, senza sogni da realizzare, senza speranze da esaudire. Troppo illusori gli uni, troppo pericolose le altre.

Allora meglio il rifugio in un impiego modesto, purché sicuro. E così si distrugge la parte migliore di un giovane: l’amore per la libertà, una libertà che va cercata anche nella precarietà. Anche la scuola, e con essa tutti i soggetti educativi, dovrebbero essere chiamati a svolgere un ruolo di accompagnamento nel costruire la figura di un “nuovo imprenditore”. Il ruolo dei formatori dovrebbe diventare un pilastro portante per il ricambio generazionale. Formazione però vuol dire utilizzo responsabile

Giovanni Vianello Presidente del Consiglio di Amministrazione di Bancadria

La fusione procede secondo il piano e con buone prospettive di rilancio Intervista a Giovanni Vianello di Federica Morello, responsabile Ufficio comunicazione della Federazione Veneta Banche di Credito Cooperativo.

Presidente, la fotografia della crisi in Veneto ci fornisce segnali di criticità evidenti…

Purtroppo è vero. Basta osservare le

aziende che hanno chiuso i battenti, creando situazioni drammatiche per le famiglie dei lavoratori che hanno perso il lavoro. Anche le banche sono coinvolte in questa spirale di difficoltà diffusa, a maggior ragione quelle banche come le BCC che nel territorio e nel tessuto imprenditoriale locale hanno investito e hanno creduto, concedendo finanzia104

menti e aprendo linee di credito. Le BCC hanno da sempre continuato a svolgere l’attività bancaria in modo tradizionale, non facendosi coinvolgere nelle attività finanziarie che sono la concausa dell’attuale crisi: quindi, niente derivati, niente cartolarizzazioni di mutui subprime, niente attività speculativa, ma investimento esclusivo nei territori di competenza.

REM

Come procede la fusione?

Bancadria è un pilastro fondamentale per il nostro territorio: conta 23 sportelli in 17 Comuni e copre un territorio di competenza di 65 Comuni, estendendosi nella provincia di Rovigo e raggiungendo le province di Venezia, Padova e Ferrara. Dal momento in cui è entrata a regime l’operazione di fusione con Banca Adige Po, abbiamo lavorato per mettere in atto un riassetto completo della struttura organizzativa, con obiettivi molto selettivi, in linea con quanto previsto dal piano industriale. Questo ha significato, nel breve termine, migliore qualità nei processi organizzativi e nei controlli interni e quindi, di conseguenza, nei servizi alla clientela. Nel concreto, questo ci ha permesso di operare con chiarezza nei ruoli, di essere attenti alle esigenze del territorio, aumentando il livello di trasparenza interna e di attribuzione delle responsabilità nei processi. L’operazione è stata ben pianificata e i risultati, grazie ad un monitoraggio costante, già si vedono.

Avete mantenuto i livelli occupazionali?

Per prima cosa ritengo sia importante sottolineare l’impegno per garantire l’occupazione a fusione avvenuta. I servizi e le aree sono state rimodulate, è stata strutturata una rete commerciale per rivitalizzare alcune potenzialità della Banca e abbiamo riconvertito in una visione di efficientamento risorse che in una logica prettamente industriale sarebbero state in esubero. Questo ci ha consentito di valorizzare il lavoro di tutti e di non licenziare nessuno. Anche questo è un aspetto che va apprezzato nel progetto BCC. Quali risparmi e quali risultati per l’esercizio 2013?

Abbiamo operato dei consistenti rispar-

mi, sull’ordine del 20% in meno, anno su anno, alla voce dei costi degli organi sociali e delle spese amministrative.

La fiducia dei quasi 3.500 soci e dei clienti di Bancadria dopo la fusione ha ripagato i nostri sforzi. Le masse amministrate superano a fine 2013 il miliardo e mezzo di euro. Le sofferenze sono il vero punto dolente, in questo momento, per una banca locale. Nel nostro caso, lo posso anticipare, abbiamo deciso di privarci anche di una parte di utile, che pur avremmo raggiunto anche quest’anno già con il primo bilancio post-fusione, e di accantonare risorse per far fronte ai rischi sui crediti erogati. Questo atteggiamento prudenziale, suggerito da policy adottate dalla Vigilanza, ci permette di essere tranquilli e di guardare al futuro con maggiore serenità.

Avete strutturato dei prodotti e dei servizi innovativi…

Bancadria ha strutturato prodotti innovativi e attenti alla valorizzazione del merito e dell’etica, come il portale ambientale, dove le aziende che presentano interessanti progetti di riqualificazione sono valutate con un punteggio più elevato e possono godere di maggiori linee di finanziamento e di un tasso di interesse sugli affidamenti ancor più agevolato.

Recentemente, abbiamo messo a punto un ottimo prodotto di finanziamento per la ristrutturazione degli immobili. Contiamo che questo potrà rimettere in moto l’economia a livello locale e rivitalizzare le imprese.

Come sono organizzati i Comitati locali?

Nel tempo abbiamo creato otto Comitati locali, composti da soci imprenditori e da soci rappresentativi dei diversi ambiti territoriali in cui opera la Banca: esponenti della società civile, dell’associa105

zionismo, dell’universo femminile. Una cinquantina di persone tra Porto Tolle, Porto Viro, Rosolina, Cavarzere, Chioggia, Lusia e naturalmente Adria. Stiamo lavorando per attivarne altri due a Badia Polesine-Rovigo e nella Bassa Padovana, dove vogliamo coinvolgere persone che possano dare energia e uno spirito rinnovato al modello della cooperazione di credito. I Comitati locali sono i primi avamposti della Banca e contribuiscono a portare sul tavolo del Consiglio di Amministrazione di Bancadria non solo istanze dal territorio, ma anche proposte a problematiche comuni. Sono una voce dal basso che arriva direttamente al cuore della Banca: un segnale di democrazia, ma anche di disponibilità al dialogo e di scambio di informazioni, idee, esperienze, soluzioni, di relazione e confronto, anche in prospettiva formativa. Io conto che proprio facendo funzionare e lavorare nella qualità questi comitati otterremo la linfa per gli amministratori di domani.

Sul versante della socialità e della cultura. Quale futuro dopo la crisi?

Manteniamo ben viva la relazione con le Amministrazioni comunali, con i Consorzi e con le Associazioni di categoria e cerchiamo di essere sempre presenti a tutti gli appuntamenti e alle iniziative che vengono promosse nel territorio di nostra competenza… Stiamo investendo molto nella scuola, per dimostrare che dai bambini parte l’educazione al risparmio, anche quello, energetico verso le famiglie e verso la società. A breve partiremo con un ciclo di iniziative con le donne, in collaborazione con un Istituto Superiore di Adria: questo per noi significa lavorare insieme e far crescere la nostra Comunità.

I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO Natalino Balasso è attore, comico e autore di teatro, cinema, televisione e libri. E’ nato a Porto Tolle nel 1960. Debutta in teatro nel 1990, in televisione negli anni ‘90, in cinema nel 2007 e pubblica libri dal 1993. E’ collaboratore di REM fin dal primo numero.

Nicola Berti è nato nel 1945 ad Adria. Ha svolto attività di funzionario in più enti pubblici terminando il proprio cursus lavorativo quale responsabile del Teatro Comunale di Adria. Eletto consigliere comunale, è stato nominato assessore alle finanze e bilancio (1975-1980). E’ stato presidente della Pro Loco adriese dal 1982 al 1986, del “Forum di cultura musicale Florindo Andreolli” dal 1999 al 2010 e del “Circolo artistico Orfeo”. Ha svolto un’intensissima attività di cronista per testate sia quotidiane che periodiche, quali rubriche per il Resto del Carlino, Corriere di Rovigo, La Voce nuova di Rovigo, La Settimana, La Piazza, La Città. lmpegnato nella realizzazione di concerti e serate culturali, è stato più volte premiato. Negli ultimi anni si è qualificato come critico musicale esprimendo al meglio le ricerche in cui è impegnato da decenni.

Francesco Campi è nato a Firenze dove si innamora presto del giornalismo iniziando a collaborare con quotidiani locali. L’amore cresce e lo porta a fare follie, come l’abbandono della città natia per Rovigo, dove, divenuto professionista, fra collaborazioni e uffici stampa, ha messo radici da ormai sette anni. Anche se a sentirlo parlare non si direbbe...

Nicola Chiarini è nato a Ferrara, è giornalista professionista e collabora con il “Corriere del Veneto”, edizione regionale del “Corriere della sera”. E’ impegnato nell’organizzazione di Deltablues dal 2000, occupandosi dell’ufficio stampa della rassegna.

Guido Conti è nato a Parma nel 1965, è uno dei più noti scrittori italiani. La sua attività editoriale, di promozione della lettura e della scrittura è vastissima. Con il volume di racconti “Il coccodrillo sull’altare” ha vinto il premio Chiara nel 1998.

Con “Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore”, edito da Rizzoli nel 2008, ha vinto il premio Hemingway per la critica 2008. Insegna tecniche della scrittura presso biblioteche e università. Ha fondato riviste letterarie e settimanali. Nel 2012 ha pubblicato “Il grande fiume Po” (recente Premio “Carlo Levi”), un vero e proprio viaggio attraverso i luoghi, le poesie ed i racconti che affiorano lungo il corso del grande fiume.

Wanda Danuta Murach è nata Lutówko, in Polonia. In quel paese ha frequentato prima il Liceo Classico e poi ha studiato Economia Amministrativa. Ha lavorato per anni negli organi dell’ amministrazione pubblica, ed in seguito, attratta in genere dal mondo dell’arte, ha avuto esperienze teatrali su testi dei più importanti autori polacchi e non solo. Dopo il crollo del Muro di Berlino, si

trasferisce in Italia, dapprima con l’intento di rimanerci per poco tempo, poi (dopo aver conosciuto una persona che diventerà sempre più importante per lei) decidendo rimanere qui. Da Cortina d’Ampezzo si è trasferita a Rovigo, dove ancora oggi risiede.

Tina De Stefani Bertizzolo è imprenditrice nel settore turistico alberghiero. Dal 1969 ha iniziato un percorso qualificante seguendo, attraverso l’Associazione Italiana Sommelier, i cambiamenti alimentari nei consumi degli italiani. Ha maturato esperienze dirette nella gestione di attività diversificate quali enoteca, american bar, ristoranti, alberghi e bed&breakfast. Pubblicista free-lance, scrive su quotidiani e periodici, tiene seminari e corsi di formazione, è coordinatrice e referente lombarda dell’associazione “Polesani nel Mondo”, si occupa delle attività alberghiere di famiglia, ha recentemente fondato Comitato Turismo Italia, un’associazione nata con lo scopo di promuovere e di sostenere il sistema turismo del nostro paese.

Tobia Donà è nato ad Adria nel 1971, è laureato in architettura allo IUAV, i suoi articoli sui temi di arte e architettura, sono pubblicati in diverse riviste, è docente a contratto presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna.

Lorenzo Donati è nato nel 1981. Giornalista e critico teatrale, ha collaborato con alcune riviste di settore nazionali come “Hystrio”, “La Differenza”, “Exibart” e a livello locale con il settimanale “Ravenna & Dintorni” e con Radio Città del Capo di Bologna. Ha fatto parte di molte giurie di premi e concorsi legati alle arti sceniche sul territorio nazionale. È membro della giuria dei Premi Ubu e collabora con la rivista “Lo Straniero”. È tra i fondatori e i coordinatori del gruppo critico Altre Velocità (www.altrevelocita.it), con il quale ha cofirmato il libro “Un Colpo”, Longo Editore Ravenna, 2011.

Cristiano Draghi è fiorentino. Una laurea in pedagogia, di formazione politica libertaria, ha scritto i primi articoli per giornali come il settimanale anarchico Umanità Nova. Nell’80 ha iniziato a lavorare al quotidiano fiorentino La Città dove diventa giornalista professionista e si occupa di un po’ di tutto: da cronista (ai tempi del mostro di Firenze) a caporedattore centrale delle edizioni emiliano romagnole. In quegli anni, fino al 1992, è anche corrispondente di alcuni quotidiani, come La Stampa, il Corriere della Sera e Il Tirreno.

Agli inizi degli anni Novanta è a Roma, vice capocronista di Paese Sera. Inizia anche a scrivere per Prima Comunicazione, nella cui redazione milanese lavora dal 1993 al 1998. Dopo un’esperienza al gruppo Giunti, nell’aprile del 2005 è alla direzione della Voce Nuova di Rovigo, che lascia nel febbraio 2008 e dove ritornerà qualche anno più tardi per rimanervi fino a qualche mese fa.

Maria Chiara Fabian è nata a Cavarzere nel 1961. Si è laureata in architettura a Venezia con

un anno di specializzazione all’ETH di Zurigo.

Autrice di numerosi interventi di progettazione degli spazi pubblici. Ha coltivato interessi culturali sulla storia della “Shoah” e dell’ebraismo e, come animatrice dell’Associazione Il Fiume di Stienta, interviene nelle scuole per approfondimenti su questi temi. Dal 1991 ha fondato e diretto l’Associazione Sportiva Gordige Calcio Ragazze che è cresciuta nel numero di atlete e collaboratori fino a diventare una delle maggiori realtà sportive del territorio tra Adige e Po. Dal 2004 è volontaria del gruppo Emergency di Rovigo. Nel 2007 ha avuto il privilegio di partecipare in Sudan all’inaugurazione del Centro Cardiochirurgico “Salam”, progettato e costruito da Emergency nel paese africano.

Camilla Ferrari, cantante e attrice, è nata a Rovigo. In giovane età si è avvicinata al teatro e non se ne è più allontanata. Nel frattempo, formatasi musicalmente come cantante, ha scelto il jazz. Insieme ad altre quattro cantanti ha fondato il gruppo vocale a cappella “Le Bruit” con il quale gira l’Italia in lungo e il largo, collaborando con Banda Osiris, Swingle Singers e Zap mama. E’ laureata in archeologia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e collabora per la pagina culturale del quotidiano RovigoOggi.it. E’ cantante solista nel “Cami’s Trio”, con cui si è aggiudicata il primo premio al Concorso di musica jazz per giovani talenti “Jazzup Newgeneration” di Viterbo. Tiene laboratori di vocalità e frequenta il terzo anno di canto jazz presso il Conservatorio “Venezze” di Rovigo.

Daniela Gambaro Nata a Adria nel 1976, vive a Roma dove lavora come sceneggiatrice cinematografica. Tra i lungometraggi sceneggiati: “Cosimo e Nicole”, vincitore del premio Prospettive Italia al Festival Internazionale del film di Roma nel 2012, la serie tv “I liceali”, Zoran, il mio nipote scemo” che, presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, ha vinto la Settimana Internazionale della Critica.

Michele Lionello è nato a Rovigo nel 1972. E’ ideatore e direttore artistico del Festival Voci per la libertà – Una Canzone per Amnesty dal 1998. E’ stato presidente della Rete dei Festival del Meeting delle Etichette indipendenti. Dal 2005 al 2010 è stato assessore alla cultura del Comune di Villadose. Attualmente segue la produzione degli eventi di Deltarte 2014.

Paolo Rigoni è nato ad Adria nel 1949. Tra i fondatori del Centro Etnografico Adriese, è insegnante di lettere, studioso delle tradizioni locali, amante dell’enogastronomia. E’ tra i più impegnati sostenitori di Slow Food Rovigo di cui è stato fiduciario di zona.

Chiara Saccardi è nata ad Adria e si considera cittadina del mondo. Ha studiato al Liceo Scientifico “G.Galilei” di Adria e si è laureata in Economia e Commercio a Verona. Dopo un master in Gestione d’impresa si è dedicata a lavorare per la coo-

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perazione internazionale, prima in Italia seguendo progetti per l’America Latina con il Mlal; poi come cooperante in Burundi con GVC; in Repubblica Democratica del Congo con Coopi, dopodichè a Madrid con ACF–Spain seguendo Oriente Medio, Caucaso ed Asia e poi ancora come cooperante in Libano ed in Siria. Attualmente lavora come responsabile del pool di emergenza di Acción Contra el Hambre/ACF International.

Sergio Sottovia è nato a Crespino nel 1946.

Pubblicista dal 1990, ha respirato l’aria sportiva dei campi di calcio come giocatore e dirigente della Fulgor Crespino. Benemerenza sportiva della FIGC, del Coni e della Provincia di Rovigo, è stato cronista e cantastorie per “Il Resto del Carlino” e per “Areasport” Rovigo. Ha pubblicato con Apogeo la trilogia “Polesine gol” (100 personaggi del calcio polesano) e la storia degli “Olimpionici & Gentlemen” nel libro edito per i 50 anni del Panathlon Rovigo. E’ l’animatore del sito www.polesinesport.it, straordinaria banca dati dello sport polesano e non solo.

Barbara Spaggiari è professore ordinario di Filologia Romanza, si dedica attualmente alla ricerca nell’ambito della critica testuale e dell’edizione di testi. Fra i volumi più recenti, si ricordano Il «Testamentum» alchemico attribuito a Raimondo Lullo (ms. Corpus Christi College 244), [in collab. con M. Pereira], Firenze, SISMEL, 1999; C. Pessanha, Clepsidra. Intr. e trad., Torino, Einaudi, 2000; Fundamentos de crítica textual, [in collab. con M. Perugi], Rio de Janeiro, Lucerna, 2004; Obras de André Falcão de Resende, 2 vols., Lisboa, Colibri, 2009. Da alcuni anni lavora all’edizione e al commento di autori cinquecenteschi (Bernardo Tasso, Luigi Groto; Luís de Camões, Diogo Bernardes, André Falcão de Resende; i sonetti di Shakespeare).

Ha da poco curato l’edizione critica delle Rime di Luigi Groto (1541-1585), detto il Cieco di Adria, ora pubblicata da Apogeo Editore di Adria in due volumi dopo quattrocento anni dall’ultima stampa del 1610 (In Venetia, per Ambrogio Dei).

Danilo Trombin vive ad Adria, dove è nato nel 1972. Lavora come tecnico faunista nel settore del monitoraggio e della ricerca, soprattutto nel territorio del delta del Po. Ha pubblicato numerosi articoli scientifici sull’avifauna e collaborato alla stesura di opere divulgative su fauna e flora del delta del Po. Ha pubblicato con Apogeo, con Emiliano Verza e a cura dell’Ente Parco, il volume “Le Valli del Delta del Po”.

Maurizio Zannato è nato a Rovigo nel 1960, vive da sempre a Ceregnano. Operaio alla Bassano-Grimeca, delegato Fiom. Ora lavora alla Cgil.

Tra gli organizzatori di Sconcertando, per 25 anni riferimento della organizzazione del Festival. Da oltre venti anni, voce e cuore dei Marmaja. E’ anche autore dei testi della band, tra le più longeve tra quelle in attività nel Polesine.

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