Anno VII, n. 2/3 del 1 Dicembre 2016 | Euro
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Anno VII, n. 2/3 del 1 Dicembre 2016
Nello Santi
Nello Santi STORIA DI COPERTINA
23/ATTUALITĂ
29/STORIE
54/SUONI
84/RITRATTI
Il carcere dimenticato
Pierpaolo Guarnieri: dal Mediterraneo alla Groenlandia
Psycodrummers Un collettivo in evoluzione
Futurismo in Polesine
REM Ice Break!: foto di Pierpaolo Guarnieri in Groenlandia
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SOMMARIO
EDITORIALE
Via di qua...................................................................................................................................... 7 Anno VII, n. 2/3 del 1 Dicembre 2016
RUBRICHE
Taccuino futile - Natalino Balasso .................................................................................................. 9 Visti da lontano - Marco Tugnolo................................................................................................. 11 Opzione musica - Emy Bernecoli................................................................................................. 13 Visti da vicino - Mohammed Habib............................................................................................... 15 STORIA DI COPERTINA
Nello Santi - Nicla Sguotti............................................................................................................ 16 ATTUALITÀ
Il carcere dimenticato - Francesco Casoni.................................................................................... 23 STORIE
Pierpaolo Guarnieri: dal Mediterraneo alla Groenlandia - Intervista di Monica Scarpari........... 29 IMMAGINI
Fellini, Rossellini e la genesi di Paisà - Vainer Tugnolo............................................................... 34 Fotografi viandanti a Ca’ Cornera - Gianpaolo Gasparetto........................................................ 39
Autorizzazione del Tribunale di Rovigo n. 3/2010 del 23/02/2010 Direttore Responsabile: Sandro Marchioro Editore: Apogeo Editore REM è fatto da: Sandro Marchioro, Monica Scarpari, Paolo Spinello e Michele Beltramini e da: Francesco Casoni, Cristiana Cobianco, Martina Fusaro, Nicla Sguotti, Danilo Trombin, Vainer Tugnolo Grafica e Impaginazione: Marta Moretto Stampa: Grafiche Nuova Tipografia - Corbola (RO) Tel. 0426.45900
Il silenzio degli orfani - Sandro Marchioro................................................................................... 44
Il responsabile del trattamento dei dati raccolti in banche dati di uso redazionale è il direttore responsabile a cui, presso Paolo Spinello Diffusione Editoriale Via Zandonai, 14 - 45011 Adria (RO) Tel. 347 2350644, ci si può rivolgere per i diritti previsti dal D.Lgs.196/03.
PAROLE
Iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC) n.19401 del 14/04/2010.
LUOGHI
Anime galleggianti sul Tartaro-Canalbianco - Antonio Lodo...................................................... 49 SUONI
Psycodrummers. Un collettivo in evoluzione - Cristiana Cobianco............................................. 54 Do’Storieski. Qua no’ ghe xè gnente che no’ va - Danilo Trombin........................................... 59 FORME
Bruno Martinuzzi. Raccontare le storie, descrivere i ricordi - Intervista di Vainer Tugnolo.......... 64 STORIA
Copyright - Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in qualsiasi forma o rielaborata con l’uso di sistemi elettronici, o riprodotta, o diffusa, senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti. La redazione si è curata di ottenere il copyright delle immagini pubblicate, nel caso in cui ciò non sia stato possibile l’editore è a disposizione degli aventi diritto per regolare eventuali spettanze.
Le polpette della felicità - Mario Bellettato................................................................................... 78
REM ringrazia gli autori per la collaborazione e la concessione di foto pubblicate in questo numero. Tali foto sono date in utilizzo gratuito per l’inserimento nella rivista. Tutti gli altri utilizzi sono interdetti, ai sensi della Legge 633/41 e successive modifiche, e ai sensi del Trattato Internazionale di Berna sul Diritto d’Autore.
STRISCE
Numero chiuso in redazione il 10/11/16.
Com’era il Polesine nel Medioevo? - Marco Barbujani............................................................... 69 SAPORI & SAPERI
Polleggiao - Herschel & Svarion.................................................................................................... 80
ISSN 2038-3428
RITRATTI
Futurismo in Polesine - Sergio Garbato........................................................................................ 84
www.remweb.it In copertina: Nello Santi
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EDITORIALE
VIA DI QUA
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he molto stia crollando del nostro vivere quotidiano non lo attesta solo il terremoto. Ci sono faglie che scivolano e si scontrano e vengono giù e non è la crosta terrestre ma il panorama sociale, civile, culturale che i più maturi di noi erano abituati a vedere e non riconoscono più. Non c’è ambito del nostro stare insieme che non sia toccato da mutamenti profondi, talvolta devastanti, quasi mai migliorativi e quasi sempre deturpanti. Quella che chiamavamo, fino a poco tempo fa, “crisi” si sta rivelando una nuova modalità del vivere che pare assumere caratteri di stabilità e che non risparmia nessun settore: il lavoro, la scuola, la sanità, la cultura, la socialità e quant’altro. L’esito, scontato, di questa situazione è il diffondersi sempre più visibile, sempre più galleggiante, di uno stato d’animo preciso: la voglia di andar via, di mollare tutto e di trasferirsi altrove; chi ha figli dà quasi ormai per scontato che lo svolgersi del loro futuro debba realizzarsi altrove. È un altrove indistinto, non precisamente delineato ma molto concreto: non è una fantasia, è un desiderio quasi sempre mascherato da una necessità, da una impossibilità a fare altrimenti; e questo lo rende minaccioso, se non rovinoso. È anche strano, per un paese che generalmente non comprende e rigetta l’immigrazione, disegnare nella propria idea di futuro una spinta concreta all’emigrazione: cioè il diventare immigrati da qualche altra parte. Ma tant’è, il razionale non è il nostro forte e del resto nel paesaggio sociale abbandonato e spento che ci troviamo ad abitare non è nemmeno richiesto. Ci spiace, a noi che per statuto ci occupiamo di cultura in senso ampio, che il groviglio comunicativo in cui siamo immersi spenga voci importanti, da cui imparare qualcosa, da cui magari partire per dare la stura ad un pensiero nuovo, che immagini assetti nuovi, prospettive diverse, soluzioni possibili. Ma l’assordante rumore di fondo di qualsiasi forma di comunicazione contemporanea finisce per esaltare l’urlo e la bestemmia, che costruiscono solo odiose stupidaggini. Praticare il discernimento e l’attenzione è un metodo che le culture umanistiche e scientifiche della nostra ricchissima tradizione hanno sempre insegnato; peccato che oggi questo metodo sia considerato risibile e defunto; mentre invece dovrebbe essere il filo che segue chiunque si occupi di formare e informare qualcun altro. La fuga ha sempre avuto qualcosa di affascinante e stupefacente. Lo è e lo sarà sempre, se è praticata da un singolo che non smette di immaginarsi felice, magari in un altrove tutto da inventare. Ma quando è un’intera comunità a immaginarsi soddisfatta e satolla solo fuori dai propri confini vuol proprio dire che l’intero edificio sta crollando. E non sono scosse di assestamento. "Poe's Tales of Mystery and Imagination" (1935). Illustrazione di Arthur Rackham
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RUBRICA
Taccuino futile
Foto di Nicola Boschetti
La vita social. Consenso e cerchie di Natalino Balasso
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uel geniaccio di Charlie Brooker ha fatto uscire sei nuovi episodi di Black Mirror, la serie che ha affascinato mezzo mondo, che finora sfornava tre episodi l'anno e che quest'anno, prodotta da Netflix, ha raddoppiato il numero di puntate. Senza voler fare nessuno spoiler, voglio trarre spunto dal primo episodio che prova a spostare l'asticella del meccanismo del consenso oggi in voga nei social e, diciamolo, in tutto ciò che è pubblico. Vediamo tutti i giorni come il privato sia sempre più pubblico e come tutti cerchiamo consensi nella nostra cerchia, tentando di allargarla giorno dopo giorno. Brooker si chiede: cosa succederebbe se invece di avere i social che inva-
dono il mondo, avessimo un mondo derato molto di più quello citato dai interamente social, se il consenso o il colleghi (cioè che aveva una cerchia dissenso nei nostri confronti apparisdi consenso più ampia) rispetto al se immediatamente sul nostro cellulanuovo arrivato, anche se costui aveva re, ogni volta che facciamo la spesa idee interessanti da mettere in camo la coda alla posta? Spostando ai po. All'università i professori guardalimiti estremi la parte più rosea dei vano il libretto dell'esaminato e se i meccanismi social, tra cui il politically voti precedenti erano alti tendeva ad correct, l'uso di un linguaggio adeadeguarsi alla media (consenso preguato e bigotto, un comportamento cedentemente acquisito). Gli opinion sempre positivo, e, diciamolo pure, leader erano coccolati dalle aziende una massiccia dose di ipocrisia, e dagli investitori, i politici "affidabili" l'autore ci racconta una storia molto erano quelli di cui la "gente che conedificante. Ma ora vi ta" parlava bene. Che faccio una proposta: poi quegli opinion leatogliamo la tecnologia der si siano rivelati dei comunicativa da tutto cazzari o che quei poCosa succederebbe questo. Eliminiamo i litici si siano dimostrati se invece di avere grafici con le stellette ladri, poco ha influito o il numero che indica i social che invadono sul meccanismo del il mondo, avessimo il gradimento. Eliminiaconsenso che è rimasto mo gli smartphone. Nel identico, con la differenun mondo interamente racconto di Brooker, za che, nella frettolosa social? a un certo punto, un velocità del social, tutto uomo che ha un indice è diventato più nervoso troppo basso e al di e isterico. La bugia di sotto del 4 di sicurezieri è già dimenticata za, non viene nemmeno fatto entrare oggi e così, ancora tremanti dall'indidalla porta dell'azienda in cui lavognazione del giorno prima, cerchiara, i ristoranti di qualità non accettamo nuove bugie per cui emozionarci. no persone con bassi punteggi; ma Cerchiamo nuovi sodali da adulare trasferiamo questo alla vita prima del e nuovi nemici da disprezzare, le social, e ci accorgeremo che questo persone non contano, conta il ruolo meccanismo era già molto funzionanche rivestono nelle nostre classifiche te anche prima. Il cliente di riguardo colorate, conta il fatto di sfogarci per veniva salutato dal direttore di banca dimenticare l'abisso della nostra vita con grande cordialità, mentre il coquotidiana. mune lavoratore che operava col suo piccolo stipendio, veniva trattato con sufficienza. La persona ben vestita veniva accolta con mille salamelecchi nei ristoranti, mentre il tizio trasandato al massimo veniva fatto accomodare nei tavoli marginali e poco in vista. In campo intellettuale veniva consi-
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RUBRICA
Visti da lontano
co Tugnolo, ho 30 anni e dopo aver Dopo un profondo lavoro interiore e conseguito una laurea in Economia non poche crisi ho capito che nel mio aziendale nel 2010 e un’esperienza lavoro voglio aiutare le persone. Dubancaria di cinque anni ho deciso di rante le mie ricerche ho trovato un antrasferirmi in Australia, meta molto in nuncio per fundraiser. Con un po’ di auge in questi ultimi anni. Il motivo scetticismo e paure per le barriere linper cui ho scelto questa meta è molto guistiche ho deciso di provare. Oggi banale: tutti ne parlano e raccontano posso dire sia stata una delle migliori che la situazione economica è estrescelte della mia vita, mi ritrovo team mamente positiva. Si può facilmente leader di un gruppo di persone che, interpretare dalle mie parole che si ogni giorno, usa tutte le sue energie trattava di un “via da”. Via da una per raccogliere donazioni per aiutasituazione lavorativa non più soddire comunità in paesi in difficoltà per sfacente (anche se Childfund Australia, ritengo la mia poassociazione che sizione molto forha ottenuto riconotunata al tempo), scimenti per miglior Zaino in spalla, ma soprattutto via beneficienza 2014 working holiday visa per l’alta percenda un paese non e farm work per almeno più adatto a me. tuale di denaro erotre mesi, con un inglese Ancora ricordo gata direttamente maccheronico nonostante gli quanto eccitato ero alle comunità senza il mio primo giorno distinzione di razza studi universitari. in banca, ma con o religione. Durante il passare del temquesta esperienza po e la crisi tutto è sto incontrando percambiato. Sempre sone meravigliose; meno posti di lavopersone da tutto il ro e sempre più lavoro per i fortunati mondo che lavorano assieme, vivoche restavano. Dopo cinque anni ho no assieme e mescolano le loro vite iniziato a chiedermi il senso di lavorain modo indelebile. Un’esperienza re in quel modo, mi sono licenziato e che amplia la tua anima e ti cambia ho preso un aereo per l’Australia con per sempre. Ti rendi conto di quanto idee poco chiare di cosa volessi verapiccoli siamo nel mondo e quanto c’è mente. Zaino in spalla, working holida scoprire. A distanza di un anno day visa e farm work per almeno tre dalla mia partenza posso affermare mesi, con un inglese maccheronico che l’Australia non è la mia casa. La nonostante gli studi universitari. Posso mia famiglia, i miei amici e il mio paoggi affermare che il nostro sistema ese mi mancano ogni giorno, anche scolastico, relativamente alle lingue, se provo rancore verso l’Italia, che sia uno dei peggiori al mondo. Noi potrebbe avere tutto e invece sta mo“studiamo” la grammatica inglese rendo piano piano. Non so dove mi due volte a settimana, mentre per porterà questa esperienza, ma sicuesempio in India tutto il sistema scoramente la sento essere l’inizio della lastico superiore è in lingua inglese. mia strada.
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Ma l’Australia non è la mia casa di Marco Tugnolo
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uando parti per un viaggio senza data di ritorno devi chiedere a te stesso una cosa importante: “Via da o verso?” In questo modo puoi capire la tua leva motivazionale. Sostanzialmente una “via da” è lasciare qualcosa che non desideri più, che non fa più per te; “verso” è andare incontro a quello che desideri o pensi sia meglio per te. Ovviamente comprendere questo non è cosa da poco in quanto richiede un profondo lavoro interiore. Posso affermare che si tratta di un lavoro in progressione senza fine e lungo un tragitto pieno di sorprese, delusioni e cambi di direzione. Mi chiamo Mar-
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TEATRO COMUNALE DI OCCHIOBELLO
2016 / 2017
11.11.2016 25.11.2016 09.12.2016 20.01.2017 03.02.2017 17.02.2017 03.03.2017
COSTA / ARKADIIS FRATELLI DALLA VIA LUCIA CALAMARO FROSINI / TIMPANO BACCALÀ CLOWN CIVATI / CIOCCHETTI / GIAMMARINI ALESSANDRO BERGONZONI
COMUNE DI OCCHIOBELLO
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RUBRICA
Opzione musica
mo. Per cominciare il ‘’lettore’’ può stare qualche slancio Feroce e quasi BarAllegro o Allegretto oppure trovarsi baro. Calmato e un po’ Stralunato a dover subito fare Presto o Prestisinfine torna a un Tempo comodo ma simo. Nel peggiore dei casi potrebbe Deciso, Saltando Gaio in un Velovedersi costretto ad un inizio Rapido o cetto rotante. Al compositore a questo Precipitato, Scatenato o addirittura punto non resta che lasciarci andare libeAffannato, Bruscamente Agitato e ri con un ad Libitum, per raccoglierci magari anche Furioso. appena un attimo prima Durante il viaggio potrà del Finale proprio sugli vestire i panni di un Eroiultimi accordi Con fuoco Per cominciare co condottiero, Fiero e che strappano l’applauso il ‘’lettore’’ può Trionfante, che Martanto desiderato! Che sia stare Allegro o cia Solennemente atun viaggio diverso oppuAllegretto oppure re lo stesso per il ‘’lettotraverso un corteo di note trovarsi a dover Pomposo e Cerimore’’, che ormai ha preso subito fare Presto o nioso. In altri casi dovrà le sembianze di un viagPrestissimo costringersi a indossare giatore sentimentale, ogni un Oscuro volto Funevolta sarà cosa nuova. Direo e Lugubre precipiverso come ogni volta lo tando Vorticosamente sono felicità e tristezza o verso l’Estinto e il Senza vita per poi amore e furia. Diverso come ogni giorfinire con un ineluttabile Morendo. A no della vita, diverso perché toccato dal seguire potrebbe, date le circostanze qui Tempo. Se poi sulla strada il viaggiatore raggiunte, dover procedere Con spiintreccerà all’Agogica le indicazioni di rito cercando conforto in un Poetico Colore come Piano o Forte, Sussurrato o gioco di silenzi e respiri, Malinconico Declamato, Sotto voce o Più che fortissie Pensoso senza mai però diventare mo il viaggio non può che diventare più Patetico! Anche se Lacrimoso si avvia eccitante! ora più Leggero verso nuovi orizzonti e si addentra così nel Misterioso paesaggio Sonoro dimenticando via via il passato Drammatico. Magico e Parlante appare il nuovo mondo al quale il ‘’lettore’’ finalmente può affacciarsi Con abbandono e Con anima immerso nel calore Sognante di un tema Amoroso e Delicato. Con più passione accelerando e stringendo poi calando e trattenendo si abbandona Teneramente alle più alte vette di ciò che ha sempre cercato: l’Espressivo. Ecco che ora Gioioso e Vivace si lascia andare a qualche passaggio Capriccioso e Burlesco, esagerando purtroppo, a Gerrit Van Honthorst, "The Happy Violinist with a Glass of Wine" causa del suo pessimo carattere, con
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Sotto voce: messaggi dal pentagramma di Emy Bernecoli
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osì come nella vita ognuno di noi interpreta la realtà in modo assolutamente soggettivo così è in musica. Le sfumature e le variazioni espressive di un’interpretazione sono tanto varie quanto le sfaccettature di ogni singola personalità. Si piegano sotto il peso del tempo e si colorano dello stato d’animo del presente. Trovarsi davanti allo spartito musicale significa vivere una storia attraverso la quale il compositore ci accompagna per mano, mostrandoci qui e là con l’Agogica in quale stato d’animo vorrebbe ci trovassi-
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Libreria APOGEO di Sabrina DonegÃ
ad Adria in Corso V. Emanuele II, 147
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RUBRICA
Visti da vicino
Ho messo nuove radici in Italia Intervista di Francesco Casoni a Mohammed Habib
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onostante tutto, oggi in Iraq è meglio che all’epoca di Saddam Hussein”. C’è da restare stupiti a sentire pronunciare queste parole, specie se a farlo è proprio un iracheno. Nei nostri telegiornali, l’Iraq è oggi un paese devastato da una successione di guerre e malvagità: prima il conflitto con l’Iran, fomentato dall’Occidente, poi la prima guerra del Golfo, che ha distrutto le infrastrutture del paese, poi 13 anni di embargo, infine l’invasione americana, il caos e la violenza dell’Isis. Ma questo è ciò che vede un italiano. Mohammed Habib, nato in Iraq oltre quarant’anni fa, racconta un’al-
tra storia. “La Mesopotamia è la culdice con l’orgoglio e lo sconforto di la dell’umanità, il luogo in cui sono molti italiani: “Come in molti altri pasorte le prime civiltà e, con loro, le esi, la situazione economica non va prime leggi, le prime conoscenze bene. Ma altrove in Europa stanno scientifiche, i primi sistemi di scritturisolvendo i problemi, qui siamo ferra. Ospita alcune tra le città più immi”. lI legame con l’Iraq si mantiene portanti per il mondo islamico, come tramite i familiari e gli amici rimasti Najaf e Kerbala”. Prima delle guerre in Mesopotamia. Ed è un’occasione e della dittatura, l’università di Baghper farmi raccontare il suo paese da dad era tra le prime cinquanta al un punto di vista diverso dalla narramondo. Il paese aveva un sistema zione dei media occidentali. “Oggi, sanitario d’eccellenza, un’industria dopo la guerra del 2003, si parla di fiorente. Gli iracheni sono un popolo guerra civile tra sciiti e sunniti, ma con una storia milnon è corretto. La lenaria, istruito e situazione è molto aperto al mondo. più complessa: ci Non riesco a non sono zone in cui Gli iracheni sono un popolo tenerne conto, sciiti e sunniti concon una storia millenaria, scrivendo la storia vivono in pace e istruito e aperto al mondo. di Mohammed. torti commessi da Non riesco a non tenerne conto, La sua nuova vita fazioni diverse. Il scrivendo la storia in Italia inizia nel problema è che, di Mohammed. 2005, ferito. Una durante la guerra, bomba ha devale frontiere sono stato il suo ristorimaste aperte, rante a Baghdad, facendo entrare vicino all’ambaterroristi di ogni sciata italiana. Il Polesine lo accoglie nazionalità. A questi si è aggiunta come rifugiato politico. Mohammed l’opposizione al nuovo governo, non sta fermo: fa riabilitazione, viea maggioranza sciita, da parte di ne accolto e inizia a fare volontaquei sunniti che prima avevano poriato con i ragazzi disabili, insegna tere”. Oggi, con l’Isis, assistiamo arabo ai bambini immigrati e italiaa una nuova stagione di violenza. ni, aiuta la Croce Rossa, fa il mediaCome si fa ad affermare che oggi le tore culturale per Avvocato di strada, cose vadano meglio? La risposta di parte con l’Arci per Lampedusa. Il Mohamed è illuminante: “All’epoca lavoro se lo inventa: come docente di Saddam Hussein il nostro era un di arabo, in un ristorante, come interpaese chiuso, senza futuro e senza prete con le forze dell’ordine, come speranza. Oggi è un paese che ha operatore con i richiedenti asilo. Il perso una guerra, ma non ha perso sogno resta sempre quello di tornase stesso. Oggi abbiamo la speranre a lavorare in una cucina. Intanto za, sappiamo che le cose possono mette nuove radici: oggi in Polesine cambiare. Questo è importante”. ha la famiglia, un figlio, gli amici. “Sono italiano”, in due parole. Lo
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STORIA DI COPERTINA
Nello Santi L
di Nicla Sguotti
a perfezione esiste, capita talvolta di percepirla, piÚ di rado di coglierne una qualche impalpabile manifestazione e un privilegio assai raro è trovarsela di fronte, in tutta la sua incredibile essenza. Essa non nasce dal nulla, è frutto di un intenso percorso di vita, stupisce tuttavia mostrandosi senza preavviso, ti sceglie forse, lasciandoti senza fiato e privo di certezze quando realizzi di essere il destinatario di un suo rivelarsi.
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REM
Un’arte pura e libera In un mondo che ci ha ormai abituati alla manipolazione di ogni situazione, anche delle manifestazioni artistiche nelle loro più diverse forme, è un evento constatare che esista ancora qualcosa, o meglio qualcuno, che non ha bisogno di applicare nessun ritocco per creare arte, un’arte pura e libera di mostrarsi in tutta la sua interezza, che appare sublime e pura. Ho conosciuto il maestro Nello Santi nell’aprile del 2014 quando stavo per completare la stesura del mio saggio su Tullio Serafin, accettò con estrema gentilezza di ricevermi a Zurigo, all’Opernhaus, dove si apprestava a dirigere Andrea Chenier. In quell’occasione il nostro fu un lungo ed estremamente interessante colloquio il cui argomento principale era il maestro Serafin, la sua vita dedicata alla musica e l’eredità artistica di questo grande direttore. Fin da subito mi fu chiaro che per me era stato un grande privilegio quel tempo trascorso con il maestro Santi, come lo fu il poter assistere alla prima di Andrea Chenier che quella stessa sera egli diresse all’Opernhaus. Un privilegio per tante ragioni, in primo luogo per le emozioni percepite, all’unisono con il pubblico del teatro zurighese, trovandomi ad ascoltare dal vivo il maestro Santi, la cui direzione di quella sera non si può definire con un termine diverso da “perfetta”. La sensazione era di ascoltare una di quelle registrazioni, dirette dai più grandi direttori del Novecento, di cui avevamo parlato in quel nostro pomeriggio dedicato a Serafin ma anche a Toscanini e ai loro più illustri colleghi. Un evento estremamente raro, quasi impossibile ai giorni nostri, spesso caratterizzati da attenzioni smisurate per regie e cast stellari, trascurando a volte l’essenziale di ogni rappresentazione operistica, ossia la parte musicale. La stessa identica sensazione ho avvertito alla Fenice di Venezia, il 6 settembre di quest’anno, quando mi è stato possibile rivedere sul podio il maestro Santi, stavolta per dirigere La traviata. Oltre sessant’anni di carriera alle spalle, trascorsa nei più prestigiosi teatri del mondo, a dirigere le orchestre della più grande tradizione e a stretto contatto con interpreti che sono passati alla storia, ottantacinque anni compiuti a fine settembre e una carriera che stupisce per la varietà di titoli diretti e per l’entità del contributo dato in termi-
ni di interpretazione. È questo in sintesi il maestro Nello Santi, un monumento vivente, che è nel mondo un’autorità in fatto di concertazione e direzione d’orchestra. Un fluire di ricordi Fu un Rigoletto, sentito a Recoaro durante le vacanze estive, ad accendere in Nello Santi, allora bambino, la scintilla musicale che fu subito incoraggiata dalla famiglia e in particolare dal padre. “Quando ho fatto i primi esperimenti – così il maestro – non avevo ancora quattro anni, imitavo i gesti del direttore d’orchestra ascoltando i dischi nella casa della mia famiglia ad Adria, non sapevo ancora leggere e incidevo dei segni diversi con l’unghia sull’etichetta dei dischi per poterli riconoscere. In famiglia hanno assecondato questa mia passione, tutti i Santi, originari di Rovigo, hanno fatto musica, mio padre suonava nella banda di Rovigo ed era tenore nella corale, quando sono nato ho trovato un ambiente favorevole”. Sono un fluire di ricordi le parole del maestro Santi, lo incontriamo in un pomeriggio di settembre a Venezia, ci accoglie con la simpatia e la gentilezza che gli sono proprie e rievoca momenti della sua giovinezza che si intrecciano con la storia di un’intera città, la sua Adria, ma anche di una nazione, l’Italia, negli anni difficili del 17
STORIA DI COPERTINA
Ventennio e del Dopoguerra. “Le cose di Adria – afferma – non si finisce mai di pensarle e di raccontarle, per certi aspetti rappresenta un’unicità, in tanti anni non ho mai trovato al mondo una città così. Adria è una piccola Italia, Cavarzere è un po’ diversa, la mia esperienza con i cavarzerani è sempre stata molto positiva, è una comunità che non cerca lo scontro e dialoga nel proporre iniziative”.
casa di mio zio, ricordo l’emozione per il pensiero di trovarmi di fronte un’intera orchestra. Poi sono andato a dirigere a Roma, avevo ventun’anni, e mio padre mi accompagnò, durante il viaggio si parlava del mio futuro. Gli dissi: cosa vuoi che faccia, il tuo mestiere? E lui mi rispose: no, tu devi studiare la musica. E così ho fatto. Sono partito da Adria nel ’58 per Zurigo, dovevo rimanere per sei recite e invece sono ancora là, l’anno successivo mi sono sposato, lì sono nati i miei figli e sono diventato zurighese. Oggi sono un cittadino svizzero, convinto di questa mia scelta”. La conversazione prosegue, si ricordano le collaborazioni del maestro con i più grandi interpreti, primi fra tutti Carlo Bergonzi e Aldo Protti ai quali lo legava una profonda amicizia, e si rie-
L’esordio, l’incoraggiamento della famiglia per la carriera direttoriale, le amicizie e i primi successi si intrecciano con fatti storici, vissuti in prima persona dal maestro. “Quando nel ’51 ho debuttato a Padova eravamo in piena alluvione – racconta – la mia famiglia era sfollata a 18
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voca l’età d’oro del melodramma, accennando a episodi che hanno per protagonisti Toscanini e Serafin – un altro grande maestro nato in terra veneta, a Rottanova, che dista appena una quindicina di chilometri da Adria – si arriva poi inevitabilmente al presente. “Il canto è musica, come diceva Serafin – così il maestro Santi – oggi non si canta legato perché è proibito, proibitissimo, dicono che non sia più di moda ma il canto è sempre stato così fin dall’inizio, basti pensare alle prime melodie e al gregoriano. Poi al giorno d’oggi la nota dolente è sempre più spesso la regia, mi chiedo chi abbia deciso che il regista ha il potere di cambiare tutto. Ho fatto delle liti con vari personaggi e ne faccio ancora, rifiuto di dirigere produzioni delle quali non condivido le scelte registiche, i musi-
cisti sono una categoria di persone che rispettano le idee degli altri ma questi hanno delle idee che sono proprio ‘asine’. Poi per fortuna ci sono le eccezioni, rappresentante da quei registi che chiedono la collaborazione del direttore musicale in vista di un allestimento, dialogando si crea sempre qualcosa di buono”. Chiediamo a Nello Santi, applaudito nei più prestigiosi teatri del mondo, se ve ne sia uno che gli è rimasto nel cuore, per le opere che vi ha diretto, per il pubblico o per l’atmosfera che lì ha respirato. “Ce ne sono molti – risponde – e tutti i pubblici sono buoni e gentili ma non posso dimenticare il Teatro di Adria, al quale mi lega il ricordo delle tante rappresentazioni alle quali lì ho assisti19
STORIA DI COPERTINA
to. La prima opera ad Adria l’ho vista nel ’37, era Tosca diretta da Antonio Guarnieri, dopo vi furono Mefistofele, Manon Lescaut e Carmen, poi Madama Butterfly con Toti Dal Monte e Lohengrin. Quando veniva l’Opera di Roma era una festa, Beniamino Gigli aveva cantato in due concerti all’aperto ad Adria, gli avevano costruito una casa tutta per lui in città, nella zona della stazione dei treni. Il Teatro di Adria è costato un milione e 250mila lire, una cifra enorme per l’epoca, pagata dal Comune, è una leggenda che lo abbia finanziato il Regime, perché lo stato fascista fece solo da garanzia. Tutte vicende che io conosco perché le ho vissute”.
vani direttori di oggi e a confidarci quale sia il segreto della sua lunga e prestigiosa carriera nonché dell’ottima memoria, che gli permette di affrontare la direzione quasi sempre senza partitura. “Un mestiere lo si impara facendolo – afferma – il consiglio è quindi di dirigere. Quello che manca oggi è l’umiltà, in tutte le arti, e quando arriva uno nuovo sembra sempre che si tratti del genio che tutti aspettavamo, ma non funziona così. I direttori devono conoscere bene tutti gli strumenti dell’orchestra e imparare a leggere la musica come si legge il giornale, è quello il segreto del maestro. La memoria credo sia anche una convinzione, come per un equilibrista che si appresta a camminare su una fune non ci deve mai essere il pensiero di poter cadere, così deve fare il direttore, pensare che
Invitiamo il maestro a indicare un suo consiglio per i gio20
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riuscirà ad arrivare fino alla fine”.
Oslo Philarmonic Orchestra e una tournée con la London Philarmonic Orchestra; è in Giappone con la NHK Orchestra nella Suntory Hall di Tokyo ed è impegnato in nuove produzioni dei Quatro rusteghi e della Gioconda all’Opera di Zurigo, dove dirige anche Tosca, Rigoletto, Nabucco, Il barbiere di Siviglia. All’Opera di Montecarlo dirige Nabucco e Don Pasquale. Seguono I Capuleti e i Montecchi e Don Carlo all’Opera di Roma, La bohème al San Carlo di Napoli nel giugno 2004, è ancora a Roma per la stagione estiva con Nabucco alle Terme di Caracalla. A settembre è a Tokyo per diversi concerti con la NHK Orchestra e in ottobre all’Opera di Zurigo per la nuova produzione di Manon Lescaut, dove gli vengono affidate anche Tosca, Falstaff, L’elisir d’amore, Rigoletto, Nabucco, Ernani. In estate dirige a Sapporo, Osaka, Nagoya e Tokyo, seguono le nuove produzioni della Forza del destino all’Opera di Zurigo e le riprese di Nabucco, Don Pasquale, Il barbiere di Siviglia, Tosca, Falstaff e ancora concerti con la NHK Orchestra a Tokyo. Tra gli impegni del 2006, Turandot al Teatro Massimo di Palermo, Nabucco al Liceu di Barcellona, concerti in Svizzera con l’Orchestra dell’Opera di Zurigo, concerti a Tokyo con la NHK Orchestra, la nuova produzione all’Opera di Zurigo del Segreto di Susanna e Gianni Schicchi e le riprese di Nabucco, Don Pasquale, Rigoletto. Ancora a Zurigo dirige Manon Lescaut e la nuova produzione di France-
Il maestro Santi, con la sua consueta cortesia, regala tanti preziosi spunti, da un incontro con lui non si può che uscire arricchiti e desiderosi di trasmettere ad altri le sue parole. Prima di salutarci ci parla dei suoi futuri impegni all’estero e in Italia, tra essi La traviata alla Scala del prossimo anno. Ci diamo quindi appuntamento a Milano, dove speriamo di avere un’altra occasione per salutare questo grande musicista e soprattutto per vedere coi nostri occhi cosa significhi affrontare la vita con quella “umiltà curiosa” che secondo Nello Santi rappresenta il segreto per arrivare lontano. La biografia Con una carriera lunga più di sessant’anni, Nello Santi ha diretto nei teatri più prestigiosi al mondo. Nato ad Adria nel 1931, studia a Padova con il maestro Coltro diplomandosi in Composizione. Debutta come direttore d’orchestra con Rigoletto nel 1951 al Teatro Verdi di Padova e nel 1958 debutta all’Opera di Zurigo, dove continua a dirigere stabilmente fino ad oggi. Nel 2001, anno in cui festeggia il suo cinquantesimo anniversario di carriera, è insignito dell’Ordine di Cavaliere della Repubblica Italiana, della medaglia “Georg Naegeli” della Città di Zurigo per meriti artistici e del Premio Stab. La sua carriera lo porta a dirigere nei teatri più famosi del mondo: La Scala di Milano, il Covent Garden di Londra, l’Opéra di Parigi, il Teatro Colòn di Buenos Aires, le Opere di Stato di Monaco, Vienna e Amburgo, la Fenice di Venezia e l’Arena di Verona, dove nel 1995 festeggia il suo venticinquesimo anniversario di direzione. Debutta al Metropolitan Opera di New York con Un ballo in maschera e nel 1997 dirige Tosca per la riapertura dell’Opera di San Francisco. Nel 2000, al San Carlo di Napoli, riscuote grande successo per I due Foscari. Per più di dieci anni è direttore principale dell’Orchestra Sinfonica della Radio Svizzera a Basilea. Oltre alla Oslo Philarmonic Orchestra, dirige annualmente le due principali orchestre giapponesi: la Yomiuri e la NHK Orchestra di Tokyo. Nell’estate del 2002 è per la prima volta al Festival di Avenches con Guglielmo Tell, dirige poi la Filarmonica di Dresda col Trovatore di Verdi, tiene concerti con la 21
STORIA DI COPERTINA
sca da Rimini di Zandonai, poi Turandot per la stagione estiva dell’Opera di Roma a Caracalla. Nella stagione successiva dirige all’Opernhaus di Zurigo Tosca, Andrea Chenier e riprese di Nabucco, Rigoletto e Don Pasquale. Seguono La bohème a Tokyo, Iris di Mascagni a Trieste e il Requiem di Verdi in Spagna. Nella stagione 20082009 è sul podio per Lucia di Lammermoor all’Opernhaus di Zurigo, poi al Teatro Verdi di Trieste con Aida e al Scala per I due Foscari. All’Opera di Zurigo dirige diverse nuove produzioni come Un ballo in maschera, Tosca, Rigoletto, Nabucco e L’elisir d’amore. Nell’estate 2011 riscuote grande successo per Nabucco al Festival di Peralada con l’Orchestra del Liceu di Barcellona. Nell’ottobre dello stesso anno, assieme all’Orchestra del San Carlo di Napoli, è per la prima volta in tournée in Russia al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo e a Mosca allo Stanislavskij. Nel 2012 è di nuovo sul podio del San Carlo di Napoli per Lucia di Lammermoor di Donizetti e per un concerto sinfonico, nel 2014 per Pagliacci e nel 2015 per Andrea Chenier. Sempre nel teatro napoletano, tra il 2015 e il 2016 ha diretto La traviata e Norma.
Teatro La Fenice
martedì 6 settembre 2016 ore 19.00 giovedì 8 settembre 2016 ore 19.00 domenica 11 settembre 2016 ore 15.30 martedì 13 settembre 2016 ore 19.00 giovedì 15 settembre 2016 ore 19.00 sabato 17 settembre 2016 ore 19.00 venerdì 23 settembre 2016 ore 19.00 domenica 25 settembre 2016 ore 15.30 giovedì 29 settembre 2016 ore 19.00 domenica 2 ottobre 2016 ore 15.30 martedì 4 ottobre 2016 ore 19.00 sabato 8 ottobre 2016 ore 19.00
Lirica e balletto Stagione 2015-2016
La traviata melodramma in tre atti
libretto di
Francesco Maria Piave dal dramma La dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio
musica di
Giuseppe Verdi prima rappresentazione assoluta: Venezia, Teatro La Fenice, 6 marzo 1853
versione 1854
Progetto
Assapora
Sogno un
8, 13, 15, 23 e 29 settembre 2016 per informazioni e prenotazioni:
www.teatrolafenice.it
personaggi e interpreti
Maria Grazia Schiavo (6, 8, 11, 13, 15/9) Francesca Dotto (17, 23, 25, 29/9,2, 4 , 8/10) Ismael Jordi (6, 8/9) Stefan Pop (11, 13, 15/9) Shalva Mukeria (17, 23, 25, 29/9, 2, 4, 8/10) Giorgio Germont Dimitri Platanias (6, 8, 11, 13, 15/9) Marcello Rosiello (17, 23, 25, 29/9, 2, 4, 8/10) Flora Bervoix Elisabetta Martorana Annina Sabrina Vianello Gastone, visconte di Letorières Emanuele Giannino Il barone Douphol Armando Gabba Il dottor Grenvil Mattia Denti Il marchese d’Obigny Matteo Ferrara Giuseppe Cosimo D’Adamo (6, 11, 15, 23, 29/9, 4/10) Bo Schunnesson (8, 13, 17, 25/9, 2, 8/10) Un domestico di Flora Antonio S. Dovigo (6, 11, 15, 23, 29/9, 4/10) Nicola Nalesso (8, 13, 17, 25/9, 2, 8/10) Un commissionario Emanuele Pedrini (6, 11, 15, 23, 29/9, 4/10) Enzo Borghetti (8, 13, 17, 25/9, 2, 8/10) Violetta Valéry
Alfredo Germont
maestro concertatore e direttore
Nello Santi Francesco Ivan Ciampa regia Robert Carsen scene e costumi Patrick Kinmonth (6, 8, 11, 13, 15, 17/9)
(23, 25, 29/9, 2, 4, 8/10)
coreografia Philippe Giraudeau light designer Robert Carsen e Peter Van Praet regista assistente Christophe Gayral
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti ballerini
Fabio Bellitti, Gianluca D’Aniello, Christian Di Maio, Kal Guglielmelli, Margherita Longato, Michele Mesiti, Rosalia Moscato, Giulia Mostacchi, Valentina Murante, Barbara Pessina, Alberto Piuzzi, Erika Rombaldoni, Antonio Sisca, Chiara Vittadello
con sopratitoli in italiano e in inglese
allestimento Fondazione Teatro La Fenice direttore musicale di palcoscenico Marco Paladin; direttore dell’allestimento scenico Massimo Checchetto; direttore di scena e di palcoscenico Lorenzo Zanoni; maestro di sala Maria Cristina Vavolo; altro maestro di sala Roberta Paroletti; altro maestro del Coro Ulisse Trabacchin; altro direttore di palcoscenico Valter Marcanzin; consulente artistico per la danza Franco Bolletta; maestro ripetitore Margherita Longato; drammaturgia Ian Burton; maestri di palcoscenico Raffaele Centurioni, Roberta Ferrari; maestro aggiunto di palcoscenico Alberto Boischio; maestro alle luci Gabriella Zen; capo macchinista Massimiliano Ballarini; capo elettricista Vilmo Furian; capo audiovisivi Alessandro Ballarin; responsabile dell’atelier costumi Carlos Tieppo; capo attrezzista Roberto Fiori; responsabile della falegnameria Paolo De Marchi; capo gruppo figuranti Guido Marzorati; scene Opera Scene Europa (Roma); attrezzeria Laboratorio Fondazione Teatro La Fenice (Venezia), Opera Scene Europa (Roma); costumi Laboratorio Fondazione Teatro La Fenice (Venezia); calzature Pompei 2000 (Roma); parrucche e trucco Effe Emme Spettacoli (Trieste); sopratitoli Studio GR (Venezia)
BIGLIETTERIE
I biglietti sono acquistabili in tutte le filiali della Banca Popolare di Vicenza nei punti vendita Venezia Unica di Teatro La Fenice, Rialto linea 2, Piazzale Roma, Tronchetto, Mestre un’ora prima dello spettacolo nella biglietteria del Teatro La Fenice biglietteria telefonica: (+39) 041 2424 biglietteria on-line: www.teatrolafenice.it (diritto di prevendita 10%)
PREZZI
platea da e 165,00 a e 210,00; palco centrale da e 120,00 a e 190,00 palco laterale da e 100,00 a e 115,00; galleria e loggione e 70,00
PARCHEGGIO GARAGE SAN MARCO - Piazzale Roma
Fino a esaurimento dei posti disponibili, tariffa speciale e 12,00 dalle ore 14.00 alle ore 04.00 presentando il biglietto d’ingresso dello spettacolo
Il M.o Nello Santi con Nicla Sguotti
call center Hellovenezia (+39) 041 2424 www.teatrolafenice.it
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Fondazione TeaTro La Fenice
ATTUALITÀ
Il carcere
dimenticato La casa circondariale di Rovigo è nata sui resti di un antico convento e di una chiesa
di Francesco Casoni
C La Città di Rovigo Capitale della Provincia del Polesine nel Dominio Veneto, 1751 (particolare), in "Rovigo. Terra tra due fiumi", Biblos 2011 23
’è una lunga crepa sul muro dell’ex carcere di via Mazzini. Come una cicatrice, riporta la memoria all’esplosione che, 34 anni prima, ferì la casa circondariale di Rovigo. L’assalto dinamitardo del 1982 è forse il fatto storico più conosciuto sul carcere di Rovigo.
ATTUALITÀ
In quell’occasione, il capoluogo polesano tornò al centro delle cronache nazionali per la spettacolare e sanguinosa fuga delle militanti di Prima Linea, Loredana Biancamano, Federica Meroni, Marina Premoli e Susanna Ronconi, che provocò la morte di un ignaro passante, Angelo Furlan. La sezione femminile che ospitava le quattro terroriste è chiusa dal 2013. La scorsa estate, tutti i detenuti maschi sono passati alla nuova struttura fuori città, realizzata deturpando un pezzo di campagna tra la Cittadella sanitaria e la tangenziale est. E il nuovo carcere di Rovigo è balzato presto agli onori delle cronache, soprattutto per le immancabili polemiche su lavori infiniti, difetti di costruzione e organico carente. Intanto, dell’ex casa circondariale di via Verdi - oggi un’area abbandonata in pieno centro storico - si discute e inevitabilmente si discuterà nei prossimi anni. Come per la caserma Silvestri, l’ospedale vecchio o il complesso del Maddalena, la domanda è sempre la stessa: che fine farà? Al momento, l’ipotesi più accreditata prevede l’utilizzo dei quattro edifici deserti per ampliare il tribunale di Rovigo. Qualunque sia la sorte del vecchio carcere, l’abbandono e i futuri lavori di recupero potrebbero essere l’occasione per riscoprire e conservare la lunga storia dell’area, una storia composta da molte storie, che si sono succedute in epoche diverse, mano a mano che cambiava fisionomia e natura.
Rovigo, via Mazzini: la lapide che ricorda il sacrificio di Angelo Furlan
Le monache della Santissima Trinità Immaginate un quartiere con case
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REM
perlopiù basse, a ridosso della cinta muraria. Un grande convento, con la chiesa, il tipico campanile a cuspide, piccole casette semplici addossate alle mura, il vallo medievale, appezzamenti di terreno coltivati, orti, alberi. Scomparso il fiume Adigetto, rase al suolo chiese medievali, inglobate le mura nelle case che sorgono sull’antico perimetro, le tracce della storia di Rovigo sono state cancellate in modo quasi sistematico dall’Ottocento e per tutto il secolo successivo. Così per via Mazzini e via Verdi: oggi sono due strade piuttosto anonime del centro storico, ma all’epoca della Serenissima dovevano avere pressappoco l’aspetto rurale appena descritto, immortalato nelle mappe di varie epoche. Il quartiere era diviso tra i terreni dei conventi e le ampie proprietà di famiglie locali. La casa circondariale è nata proprio sui resti di un antico convento e di una chiesa, intitolati alla Santissima Trinità e sorti negli anni Novanta del Quattrocento, ad opera di suor Filippa De Celerii da Rovere. A reggere il convento, le monache dell’ordine di Sant’Agostino, qui rimaste fino al 1810. La chiesa della Santissima Trinità sarebbe ritratta all’interno del tempio della Beata Vergine del Soccorso, ossia la Rotonda, nel telero dedicato al podestà Benedetto Zorzi. La citazione rimanda ad un episodio della biografia del podestà: la figlioletta Veniera, morta nel 1655, fu sepolta lì e forse frequentò il convento. In una mappa del 1828 è ancora visibile l’area del convento, da poco abbandonato, situato tra Strada del Soccorso e via del Teatro vecchio, sempre l’attuale via Mazzini. Una volta abbandonato dalle
Rovigo, mappa dell’estimo 1775, tavola 3 quartiere delle R.R. Monache della SS.ma Trinità e San Francesco (Archivio di Stato di Rovigo)
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ATTUALITÀ
ni”, degli operatori sociali, dei volontari. Un’area ricca di storia
Rovigo, tempio della Rotonda: telero di Benedetto Zorzi
monache, il complesso rimase deserto fino al 1871, quando fu ceduto dall'amministrazione provinciale al Demanio per la cifra di 24.000 lire, per costruire la Corte d'Assise, il futuro tribunale. La nascita della casa circondariale Due anni dopo, è il 1873, inizia la demolizione degli edifici. Il costo previsto per i lavori, 75.000 lire, in soli tre anni raddoppia, in particolare a causa dei lavori di demolizione della chiesa. L'aula della Corte d'assise è pronta nell’arco di un solo anno, ma i lavori di costruzione degli edifici attuali proseguono negli anni successivi. Gli edifici cambiano aspetto e funzione: al posto delle monache, le celle ospiteranno detenuti. Il verbale
di consegna al Ministero di Grazia e Giustizia è datato 15 luglio 1933. Le sezioni detentive sorgono sui resti della parte antica, mentre negli anni Sessanta verranno aggiunti gli uffici e la caserma, per il personale di guardia. Di lì in poi, il nuovo carcere seguirà il corso della storia, ospitando detenuti comuni e prigionieri politici durante il Fascismo e poi, dopo la Liberazione, divenendo sostanzialmente la casa circondariale che abbiamo conosciuto fino ai giorni nostri. Come altri luoghi di Rovigo, l’area dell’ex casa circondariale è stata testimone di epoche e storie tra le più diverse, mano a mano che gli eventi ne hanno mutato la funzione, la natura e l’aspetto. Ed è diventata a sua volta un pezzo di storia, in cui si sono incrociate le centinaia di vite delle persone recluse, dei “secondi26
Nonostante i radicali cambiamenti dell’intero quartiere, l’area dell’ex casa circondariale mantiene in parte la fisionomia del luogo com’era nell’antichità. Per comprendere quanto profondamente sia mutata l’intera area, basta uno sguardo ad una mappa relativamente “recente”, come quella dell’estimo del 1775. Lungo la “strada che conduce al Soccorso”, ossia l'attuale via Verdi che si collega all'area del tempio della Rotonda, la mappa ritrae perlopiù ampi appezzamenti di terreno. Poco distante, nell’area dove sorgono oggi la chiesa di San Francesco e quella del Cristo, erano presenti un altro convento di monache, le “muneghette”, e quello dei frati francescani, sorto intorno al 1300, entrambi sgomberato sotto Napoleone. Tutto questo è stato completamente cancellato. Delle estese proprietà dei conti Silvestri resta il richiamo nel nome della via che costeggia San Francesco e nell’omonimo palazzo. Della famiglia Rosetta, la testimonianza più nota è il triste rudere in piazzale D’Annunzio, celebre per l’affresco della facciata con una rara panoramica della Rovigo medievale e, purtroppo, per lo stato di abbandono e incuria in cui versa da anni. Del convento dei frati, si trovano tracce nel complesso della chiesa di San Francesco. Riutilizzare il vecchio carcere per ampliare il tribunale, anziché raderlo al suolo per tirare su palazzine, può essere un’occasione fortunata per non cancellare un altro
REM
pezzo della città. Concorda Chiara Tosini, del Fondo Ambiente Italiano: “Spostare lì gli uffici del tribunale è probabilmente la soluzione migliore. Così i lavori non avrebbero un impatto devastante e si potrebbe recuperare anche l’ampio spazio verde, valorizzandolo e magari rendendolo aperto ai cittadini”. Mentre gli edifici si preparano a cambiare nuovamente aspetto e funzioni, varrebbe la pena conservarla e raccontarla, questa lunga storia. Una storia composta da molti strati, che ci parla del passato recente, ma anche nelle epoche più remote della città di Rovigo. Rovigo, via Mure Soccorso: l'ex carcere
Rovigo, il nuovo carcere recentemente inaugurato alla periferia della città 27
STORIE
Pierpaolo Guarnieri: dal Mediterraneo alla Groenlandia
Hard life! Verso la vetta a Qeertartiip Saaliaqitaa (Latitudine 65º N) in Groenlandia Sud Orientale
Quello che porto dentro di me é l’estasi di quegli istanti, il loro suono, gli infiniti spazi, il vento e qualche volta una foto.
Intervista di Monica Scarpari
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a storia di Pierpaolo la conoscevo solo per sentito dire e a grandi linee e, poiché i grandi spazi incontaminati e la difficoltà a sopraggiungervi, la neve, il ghiaccio, il bianco, il freddo e la solitudine della Groenlandia mi hanno sempre affascinata
STORIE
indole ha guidato le scelte successive e forse il mio futuro da ricercatore. Dopo la laurea infatti mi sono trasferito in Sicilia (difficile da credere) e ho conseguito il titolo di Dottore di Ricerca (PhD) presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università degli Studi di Catania dove ho lavorato per più di dieci anni come ricercatore nell'ambito della Geologia Strutturale. In quel periodo ho avuto varie esperienze di ricerca in tutta la Sicilia, Calabria e fino all’Appennino meridionale, in Basilicata. Come sei finito a fare ricerca in Groenlandia? La ricerca in Italia era e purtroppo lo è ancora, stagnante e poco gratificante per diversi motivi (di cui si sente spesso parlare) ma soprattutto per l’esiguo ammontare dei fondi a disposizione. Cosí nel 2007 ho cominciato a pensare che forse era giunto il tempo di guardare altrove, di cambiare e cercare nuovi stimoli lavorativi. Nel 2008 si è presentata l’opportunità di trasferirmi all’estero, in Danimarca, dove stavano cercando un ricercatore le cui caratteristiche fittavano con il mio curriculum. Dopo una selezione internazionale che ha visto la partecipazione di più di trenta candidati, sono stato ritenuto idoneo a rivestire il ruolo di ricercatore senior presso il Servizio Geologico di Danimarca e Groenlandia. E sì, perché la Groenlandia è uno degli stati appartenenti al Regno di Danimarca ed è principalmente per questo motivo che
Qangilleq Fjord (Latitudine 71º30’ N) in Groenlandia Occidentale. Il puntino al centro é l’elicottero che sta per arrivare. Sullo sfondo il ghiacciaio Rink Isbræ
all’inverosimile, ho deciso di chiedergli di incontrarci la prima volta che sarebbe tornato ad Adria per farne uscire qualcosa per REM. Non è strano che un polesano diventi un “inuit” e finisca per fare il ricercatore in un posto così giusto per passione? Sentiamo lui che ha da raccontare… Perché hai scelto di fare il geologo ricercatore? Fin da piccolo ero incuriosito dalle cose che mi circondavano ed ero interessato a capire il loro funzionamento: mi piaceva guardarci dentro. Probabilmente questa mia
Traill Island (Latitudine 72º 30’ N) in Groenlandia Orientale, sullo sfondo Rold Bjerg 30
REM
ho accettato di trasferirmi a Copenaghen poiché l’offerta lavorativa prevedeva di partecipare a campagne di ricerca proprio in Groenlandia. I progetti di ricerca cui avevo partecipato in passato mi avevano permesso di girare in lungo e in largo l’Italia del sud e la Sicilia e a conoscere profondamente le loro caratteristiche geologiche e anche se la Magna Grecia mi era entrata nel cuore sentivo che la Groenlandia avrebbe aperto un nuovo capitolo nella mia vita, lavorativa e non. La Groenlandia è la più grande isola al mondo e anche la meno popolata. La gran parte del suo territorio è localizzato a nord del Circolo Polare Artico ed è ricoperta per l’80% dal ghiaccio che la rende inospitale; ma ha anche un grosso potenziale di risorse economiche come l’uranio e le cosidette terre rare tra i minerali “critici” ma anche metalli di base come zinco, piombo, ferro… e, non ultimo, il petrolio nell’offshore. Questo significa che l’intera isola, se isola si può chiamare, rappresenta la quintessenza dell’esplorazione e della ricerca applicata: ambiente estremo, zona artica, aree inesplorate… what else?
Wild life, un bue muschiato che fa capolino a ora di cena proprio di fronte alla nostra tenda nella Geographic Society Island (Latitudine 73º N) in Groenlandia Orientale
essere uno dei 55.000 abitanti (inuit) che vivono nella parte sud-occidentale dell’isola e che per trasferirsi da un villaggio all’altro usa trasporti locali quali l’elicottero e imbarcazioni varie oppure voli interni, dove sia disponibile almeno un piccolo aeroporto; 2) potresti essere uno dei pochi turisti che decide di raggiungere la Groenlandia con un volo diretto da Copenaghen a Kangerlussuaq (aeroporto internazionale nella costa sud-occidentale) e da lì un volo locale per esempio nella capitale Nuuk, oppure con un volo diretto da Reykjavik a Kulusuk nella parte sudorientale e da lì fare heliskiing sulla calotta glaciale; 3)
Come si svolge il tuo lavoro in Groenlandia? Se ti trovi in Groenlandia appartieni con molta probabilità ad una delle seguenti categorie di persone: 1) potresti
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STORIE
potresti essere un ricercatore che si occupa di esplorazione mineraria e petrolifera. La Groenlandia è praticamente priva di infrastrutture come strade e ponti. I collegamenti tra i singoli villaggi avvengono tramite elicottero o nave. Per quanto riguarda la parte orientale, quella affacciata sull'Oceano Atlantico, gli unici accessi sono garantiti da due minuscole piste di atterraggio in terra battuta che sono connesse attraverso voli di linea dall'Islanda. Quindi, per poter visitare qualsiasi altra località bisogna organizzare quel che in gergo viene chiamata spedizione.
Bufera di neve a Foldedal (Latitudine 82º30’ N) in Groenlandia Settentrionale. Dopo due giorni la tenda cucina (in arancione) collassa sotto il peso della neve e del vento. La mia tenda (a destra) per fortuna resisterà fino all’arrivo dell’elicottero
La spedizione consiste in una organizzazione logistica volta a garantire tutto il necessario per le persone che vi partecipano: trasporti, cibo, alloggio, armi e munizioni, soccorso, collegamenti radio e satellitare... Le spedizioni organizzate dal Servizio Geologico di Danimarca e Groenlandia (GEUS) iniziano prima di tutto con dei corsi di preparazione alle attività in ambiente artico quali: “man overboard” per imparare a gestire l’eventualitá di finire fuori bordo o di dover prestare soccorso in mare e a pilotare un gommone; "first aid" per imparare le basi del primo soccorso, nel caso di incidenti di vario tipo o di malori; "safety course" per la sopravvivenza in ambienti estremi quale la Groenlandia e l'Artico; "shooting course" al poligono di tiro per imparare l'uso di armi da fuoco in dotazione per autodifesa (contro l'orso polare e, raramente, il bue muschiato) quali il fucile, il revolver 44 Magnum e la pistola lancia razzi.
Qangilleq Fjord (Latitudine 71º30’ N) in Groenlandia Occidentale, l’elicottero sta per arrivare. Sullo sfondo la vetta di Umiamako Aufvâ (2180 m) coperta dalle nuvole
Le spedizioni per ricerche di tipo geologico si svolgono durante l'estate proprio per approfittare del disgelo e quindi la possibilitá di osservare e campionare le rocce in affioramento. Per raggiungere la Groenlandia del Nord si puó volare su Keflavik in Islanda e da lì con un volo interno verso Akureyri al nord e poi con un twin otter (bimotore con una dozzina di posti) attraversare l'Oceano Atlantico fino a raggiungere Constable Point in Groenlandia. Dopo aver rifornito l'aereo si prosegue verso nord con una serie di tappe volte a rifornire l'aereo e anche per consegnare materiale vario prima a Mestersvig e poi su verso Daneborg e ancora su a Danmarkshavn e su su fino ad atterrare a Station Nord, la base militare danese che si trova ad una Latitudine di 81º N. Un'altra rotta consiste
Con il gommone in mezzo ai ghiacci a Køge Bugt (Latitidine 65º30’ N) in Groenlandia Sud Orientale 32
REM
invece nel viaggiare attraverso la Norvegia, prima Oslo e poi su a Tromsø e da lì su su fino alle Isole Svalbard e, una volta atterrati a Longyearbyen, si sale a bordo del solito twin otter e via attraverso l'Oceano Artico fino a Station Nord. A questo punto si deve installare il campo base e si comincia a spedire i vari team di ricercatori nelle localitá studio usando l'elicottero. Le distanze sono imponenti e a volte ci si trova oltre 250 km dal campo base: soli in una tenda per quattro-cinque giorni e con soli due contatti radio giornalieri con il campo base e un telefono satellitare da usare solo in caso di emergenza. Pannelli solari per ricaricare le batterie e fornellino da campo per riscaldare un pochino d’acqua, raccolta direttamente dal fiume, da usare per il caffé e per il “real turmat”: pasta bolognese o pollo al curry liofilizzati... da vero gourmet. Finiti i rilievi geologici si impacchettano le tende e l’equipaggiamento in attesa che l’elicottero passi a prenderti per portarti nelle localitá successive e, tempo permettendo, dopo una serie di spostamenti per una durata di quattro-sei settimane si
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ritorna al campo base. Una volta lì, dopo un paio di giorni di relax e docce calde, si inizia il viaggio di ritorno che, nell’arco di 24 ore necessarie per coprire i 4000 km di distanza, ti riporta a casa. E ancora… Cosa lascia dentro di te la Groenlandia? Quello che porto dentro di me é l’estasi di quegli istanti, il loro suono, gli infiniti spazi, il vento e qualche volta una foto, che pur essendo piatta mi aiuta a ricordare. Mi capita spesso di sorvolare per chilometri aree inesplorate e di atterrare sopra le cime di montagne a 2000 o 3000 metri di altitudine, di camminare lungo fiumi impetuosi di cui non si vede né la sorgente né la foce o di attraversare tratti di calotta glaciale arrancando faticosamente sulla neve... ecco, in quei momenti pieni di adrenalina mi fermo, osservo ed ascolto in religioso silenzio la natura che mi circonda.
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Sono nato ad Adria nel 1965 e mi sono laureato in Scienze Geologiche presso l’Universitá di Padova nel 1991. Nel 1995 mi sono trasferito in Sicilia dove, nel 1999 ho conseguito il titolo di Dottore di Ricerca. Dal 2008 vivo a Copenaghen, sono ricercatore presso il Servizio Geologico di Danimarca e Groenlandia (GEUS) e docente di Geologia Strutturale presso il Department of Geosciences and Natural Resource Management (IGN) dell’Universitá di Copenaghen.
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IMMAGINI
Fellini, Rossellini e la genesi di Paisà
Sopra e a pagina 36 due immagini di "Paisà"
Un film che cresce e si forma durante la sua stessa realizzazione, con un ordine mutevole, sovrapponendo liberamente documento e finzione. 34
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di Vainer Tugnolo
ll'inizio la squadra comprendeva quattro sceneggiatori: Sergio Amidei, già autore di “Roma città aperta”,
REM
Marcello Pagliero, che nello stesso film interpretava Manfredi, Alfred Hayes, con alle spalle già qualche esperienza a Hollywood e Klaus Mann, americano di origine tedesca e figlio di Thomas, l’autore del “Doctor Faustus” e de “La montagna incantata”.Questo il team creato da Roberto Rossellini e Rod Geiger, produttore americano ed ex soldato dell’esercito USA che aveva distribuito Roma città aperta negli Stati Uniti: a loro si deve la prima stesura del progetto che inizialmente si chiamava “Seven from the U.S.” (in italiano “Sette americani”) e che sarebbe diventato, di lì a poco, “Paisà”, una delle pellicole più importanti nella storia del cinema mondiale. Più tardi dissidi interni, creatisi in particolare fra Mann e Amidei, provocheranno la separazione fra il duo italiano e quello americano e spingeranno Rossellini ad avvalersi della collaborazione di Massimo Mida e Federico Fellini. “Paisà” è un viaggio a ritroso fatto attraverso l’Italia alle prese con la fase finale del secondo conflitto mondiale, condotto da Sud verso Nord, costruito con sei indimenticabili episodi: il primo collocato in Sicilia e le altre tappe ambientate a Napoli, Roma, Firenze e sull’Appennino Tosco-Romagnolo. L’ultimo è quello totalmente girato nel Delta del Po, l’episodio che inizia con la famosa immagine del corpo senza vita trascinato dalla corrente del fiume e identificato dalla scritta “Partigiano”. Paisà, secondo le sensibilità e il fiuto di Rossellini, diventa un film che cresce e si forma durante la sua stessa realizzazione, con un ordine mutevole, sovrappo-
Roberto Rossellini con Federico Fellini
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IMMAGINI
nendo liberamente documento e finzione: l’episodio dell’Appennino è in realtà girato per secondo, in ordine di tempo, sulla costa amalfitana, così come quello siciliano, che è il primo del film. L’episodio napoletano fu girato per terzo, quello sul Delta fu girato subito dopo quello fiorentino. Di quest’ultima storia il protagonista è Renzo Avanzo, cugino di primo grado di Roberto, poi protagonista della dolce vita romana e, insieme agli amici del Circolo della Vela di Palermo, dell’avventura con la Panaria
Film. La vicenda romana, raccontata nella terza tappa del film, fu girata per ultima. Per Federico Fellini fu un’esperienza quasi formativa, e come non riconoscere molto di lui, dei suoi sogni, del suo timbro di lettura del mondo, e delle sue prospettive visionarie di futuro regista, in queste parole usate per descrivere l’esperienza di Paisà: “un’avventura meravigliosa da vivere e simultaneamente da raccontare” con la felicità di essere “spettatore e 36
attore nello stesso tempo, burattinaio e burattino, come quelli del circo che vivono in quella stessa pista dove si esibiscono, in quegli stessi carrozzoni in cui viaggiano”. Fellini ricorderà spesso, anche a distanza di anni, storie e aneddoti riguardanti la lavorazione del film, compreso l’episodio del Delta: lo farà con la solita ironia e lasciando l’immaginazione e il tempo a lavorare insieme sulla dimensione e sul colore dei ricordi. Come quando racconterà del partigiano e della scena girata sul Po,
REM
verso la foce, fra Tolle e Ca’ Zuliani: ”Si chiamava Contarina. Immerso nell’acqua, di febbraio, veniva tirato con una corda verso l’obiettivo della macchina da presa. Per tenerlo caldo gli si passava della grappa. Finché si ubriacò. Allora divennero difficili le riprese perché, ogni volta, Contarina passava presso l’obiettivo ridendo e schiamazzando”. Il travaglio della fase preparatoria del film, i conflitti, le lungaggini, le incomprensioni, tutto si era ormai sciolto nel momento in cui Rossellini aveva iniziato a girare: gli ostacoli iniziali, le ruggini, non ultimi i punti deboli della scrittura, verranno risolti e superati in sede di realizzazione. Come se l’azione di Rossellini fosse il mezzo più limpido e più sicuro per stabilire, quasi senza appello, il primato della visione, e dell’osservazione, sulla sceneggiatura. Ricorda ancora Fellini: “Rossellini si muoveva tra questa gente come una specie di papà Natale. Generoso sul serio, distribuiva soldi, cibo, fece venire delle coperte. Roberto è uno di quelli che parlano subito il dialetto del luogo. In quel mondo tragico e favoloso del dopoguerra Rossellini mi sorprendeva perché sembrava che rifiutasse lo spettacolo, che volesse disinteressarsi, non cogliere tutti gli inviti. Poi, quando s’andava in proiezione a vedere le cose girate, si scopriva che aveva seguito un preciso discorso, soltanto suo, secco, senza frange, da vero cronista. In realtà il Neorealismo è Rossellini”. Dell’ultimo episodio, quello polesano, rimarrà la natura labile dei confini: quello fra il giorno e la not-
Cigolani in una scena del film
Roberto Rossellini con Federico Fellini e Vittorio De Sica
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te trascorsi sugli scanni, quello fra le fragili posizioni delle parti che si fronteggiano, e infine quello fra la vita e la morte che si parlano toccandosi, con una natura indifferente sullo sfondo. E rimarranno le vite e le facce incontrate sui luoghi, come quella di Cigolani, pescatore e barcaiolo che scompariva, come in un incantesimo, fra le acque delle lagune. Scenari che non potevano lasciare indifferente l’anima di Fellini che conservava impresse nella memoria, perdute dentro i confini sospesi di un paesaggio invernale, le sembianze di quelle sagome anfibie: “Ricordo
ancora il favolosissimo ritorno, sopra uno zatterone incatramato, carontesso, affondato nell’acqua fino alla tolda, con un motore diesel nella pancia. Non si vedeva niente: solo una lingua di terra che se ne andava. Quello che si allontanava era un paesaggio che non esisteva: un paesaggio di casupole basse, desolate”. Il Delta del dopoguerra, rimasto sullo sfondo, e le sue latitudini ai confini del sogno, lo incontrerà ancora, più tardi; per adesso porterà con sé, impresse sul cammino dell’esperienza, le tracce di incontri imprevisti con
abitanti così a loro agio su quelle pianure insicure: “Per conto nostro avevamo fatto molte promesse, raccolto petizioni. Poi, con la brutalità del cinema, li avevamo lasciati lì. Rividi Cigolani a Roma, per il doppiaggio del film. Là, nelle sue terre, col passamontagna nero, gli stivali alti, era un samurai, un personaggio di Kurosawa. A Roma, sperduto nella città, era diventato una specie di mendicante cieco”.
Cesare Zavattini con Roberto Rossellini nel Delta del Po (in "Ferrara. La Fortezza, il Territorio, la Piazza" a cura di Renzo Renzi, ed. Alfa, 1969) 38
REM
viandanti
Fotografi
a Ca’ Cornera
Dieci modi di guardare il Delta si sono incontrati, in tempi diversi, in un luogo suggestivo, restituendo la trama di un paesaggio unico e irripetibile.
F
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di Gianpaolo Gasparetto
otografare è un esercizio solitario e la sfida più affascinante, dicono, sta nel porsi in ascolto dei luoghi: vagare, perdersi, lasciarsi disorientare, effettuare sopralluoghi involontari, accompagnati soltanto dalla macchina fotografica che è
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parte vitale di ogni viaggio. Questi fotografi, come dei viandanti ormai dispersi e senza meta, che portano nella loro memoria qualcosa di già visto e che potrebbe riapparire, sono arrivati a Ca’ Cornera dove hanno deciso di interrompere per un po’ il loro cammino accanto al Grande Fiume, dove le cose appaiono di tanto in tanto e dove un attimo dopo non si vedono più, costringendo a ricominciare a camminare. Fondamentale è allora il dialogo con il visibile, con la realtà che è molto di più di qualsiasi invenzione. E qualcosa, i nostri viaggiatori, sembrano aver visto, qualcosa è veramente apparso loro, si sono fermati e hanno scelto Ca’ Cornera nella speranza che presto si sarebbe ripetuto e loro lì, fermi come nuovi punti cardinali, l’avrebbero indicato ad altri.
“Alti Cieli”
“La tentazione del colore”
Fabio Negri è mosso dalla necessità di trovare un ordine, un criterio, nella complessità del reale. Un ordine che spieghi a se stesso e agli altri gli spazi che viviamo e abitiamo. Egli fissa la realtà nelle sue bellezze e nelle sue grandiosità, ma ritrova anche nelle piccolezze e nelle brutture il sapore della scoperta che apre nuovi orizzonti. Nei progetti e nelle ricerche che porta avanti gli piace pensare di essere un alieno che racconta un fenomeno, una testimonianza da riportare a casa a chi, in quel momento, non era lì con lui…
“Archeologie del presente” Fabio Crivellaro riesce a catturare la forza cromatica del vero come un raggio teso a illuminare il presente in un rapporto empatico, condiviso, quasi fisico dove spesso si resta davvero magnetizzati. Tutti i suoi scatti, molto diversi tra loro per soggetti e situazioni, giocano spesso sul depistaggio, sulla deviazione dello sguardo, dando corpo a una inaspettata estetica delle cose: variopinti primi piani di oggetti d’ogni giorno, inusuali cromatismi di geometrie metropolitane, audaci interazioni colorate di materiali accostati per gioco, che egli trasforma in sensuali e ipnotiche immagini inseguendo, con il suo sguardo, il riscatto del colore come narrazione euforica e incantata del mondo.
Genni Albertin 40
racconta
la
fragilità
della
nostra
REM
“Prima della poesia”
esistenza, quasi fosse una rabdomante di visioni, e produce lavori in luoghi disabitati e silenziosi. Con un occhio personalissimo mira alla schiettezza della visione giocando con le simmetrie architettoniche, con la serialità degli elementi. Ogni dettaglio è perfettamente a fuoco producendo nell’osservatore uno strano effetto, a metà tra lo struggimento e la contemplazione. Certo c’è qualcosa di sacrale nelle sue fotografie, che trasmettono allo stesso tempo serenità e inquietudine dove gli spazi appaiono come luoghi in cui perdersi…
“Il respiro dei luoghi” Cristina Finotto nasce e vive tra l’Adige e il Po e in tutta la sua ricerca creativa porta i segni di un appassionato attaccamento alla sua terra/acqua nativa. Le immagini, per lo più di paesaggio, risultano dallo sguardo che compie il suo occhio – non l’occhio distratto del quotidiano che si adagia alla superficie delle cose – mescolando alla visione esteriore un vedere interiore, fissato attraverso il momento fotografico che inseguendo i fantasmi degli affetti e dei sogni trasforma il volto del mondo in poesia.
“Fotodipingere un Po”
Marco Bovolenta investe la sua fotografia di deboli e comunque crescenti implicazioni con la luce: si tratta sempre del confronto nudo e crudo con la propria esperienza e con i termini più elementari, basici, del rapporto con il mezzo fotografico. Il suo cammino di ricerca appare assolutamente solitario, come una cosa solo sua ed egli non cerca affatto di stupire. Al contrario, attraverso un’attenta conoscenza ottica, mette a fuoco gli spazi fino a cogliere il respiro dei luoghi. Nelle sue immagini c’è una forza che spinge e che si fa sentire, perfino al di là dei singoli risultati. Un dialogo con il paesaggio e con la natura intesi come sponda, ora per il chiaro ora per lo scuro, nella definizione di una ricerca che lo riconduce ad un linguaggio davvero fortemente emotivo, fisico e insieme spirituale.
Andrea Samaritani fissa con la fotocamera suggestioni 41
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“Ricerca di Infinito”
che poi successivamente rielabora a mano nella tecnica delle fotodipinte. Un’operazione nata dall’esigenza di rileggere a suo modo la rappresentazione fotografica di ciò che ci circonda svolgendo poi, con l’aiuto della pittura, una sorta di dichiarazione affettiva. Egli regala sembianze sorprendenti per il fascino compositivo, generando percezioni astratte della realtà, dai contorni incerti nei quali l’immagine si svapora. Davanti ai nostri occhi forme e figure vengono trasfigurate, le ombre si muovono nello spazio come particolari duplicazioni spettrali o anche reali, impronte della memoria, in un certo senso così preservate dall’oblio…
“Il valore dell’ombra” Daniele Soncin ci restituisce immagini caratterizzate da una grande energia e da una possente armonia, un piacere visivo e sensoriale, un’immersione nella luce e nello spazio che avvolge e accoglie. La scelta del bianco e nero genera meraviglia e il bagliore discontinuo di un aldilà misterioso, lontano ma anche terreno. Una ricerca di infinito che rivela che la poesia è ovunque, dentro di noi, appena fuori dalla nostra pelle e oltre ogni orizzonte, basta sedersi e guardare… e ascoltare il fruscio dei pensieri, le vibrazioni dell’anima.
“Nobili e dolenti Persone” Maurizio Callegarin nei suoi scatti, caratterizzati da tre tappe di luce, dai sovraesposti ai sottoesposti, rivela il ruolo della luce e dell'ombra. Il suo occhio si ferma maggiormente sull'ombra, perché nelle sfumature scopre una vita più segreta e ricca. Inutile cercare nelle sue immagini un qualche giudizio etico o morale, un attacco al post-industrialismo e alla distruzione prodotta sulla natura; il suo obiettivo è diretto a cogliere piuttosto l'umore delle cose. Assente è anche la bellezza come ricerca estetica. A lui non interessa realizzare belle fotografie di bei luoghi, il suo scopo è parlare di un luogo, della sua natura, della vita che si consuma come è nell'ordine delle cose. Duilio Avezzù ci propone un’esperienza visiva appagante 42
REM
di una bellezza che seduce per la sua semplicità, dove ogni scatto e ogni scena possiedono insieme la forza della verità e della poesia. Tutto ci fa pensare al Neorealismo italiano, a quell’Italia senza speranza e piena di miseria trasformata dal grande regista Roberto Rossellini in qualcosa di bello, eroico e prezioso. Chi guarda le sue “nobili e dolenti Persone” è convocato a “cambiarsi gli occhi”, ad assumere uno sguardo puro che sappia anch’esso custodire la semplicità di un mondo di cui non smetteremo mai di avere nostalgia.
fatte concrete. Altri viandanti arriveranno, si fermeranno un poco e chi non ha ancora visto forse vedrà. Il loro compito appare semplice come l’aria del cielo: sono certo che ancora una volta il Delta del Po, con le sue suggestioni, farà il miracolo creando le condizioni per farli sentire protetti e garantiti nella loro fantastica libertà.
“Restituirsi alla natura”
Barbara Munerato ci pone in simbiosi con l’elemento naturale: l’acqua, le piante, i fiori, sembra comunichino con noi spettatori, in un rapporto di scambio di percezioni dalle reminiscenze primordiali. Scatti di un’eleganza sommessa, privi dell’enfasi dell’impatto, nel voler intrappolare il momento fuggente. Per avvicinarsi alle sue immagini è necessario adottare uno sguardo più meditato, più attento. Spesso ci restituisce visioni senza tempo: questa la caratteristica prevalente dei lavori realizzati nei boschi e nelle golene del Po, sempre avvolti da una silenziosa, ipnotica poesia.
Ca’ Cornera è un’antica corte agricola, fatta costruire dalla famiglia veneziana dei Corner, signori di queste terre. Oggi è anche un luogo di ristoro, dove la cucina offre sapori della tradizione e dove la “sosta” potrà dare il piacere di un’avventura con itinerari da percorrere in un paesaggio dagli orizzonti senza fine.
Dispersi lungo l’orizzonte del fiume questi fotografi sono arrivati fin qui, dove finalmente le apparizioni si sono
cacorneradeltadelpo.it 43
LUOGHI
Il silenzio degli orfani
di Sandro Marchioro
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In un'epoca in cui le ingiustizie sociali tornano a suonare la grancassa è bene capire come in altri momenti si è affrontato un problema che torna a spaventare.
A
volte la storia ha un profumo: quella raccontata dagli orfanotrofi sa di refettorio, di camerate al matti-
REM
Nelle foto in bianco e nero alcuni momenti di vita all'Orfanotrofio di Adria
no, di cortili polverosi, di tanti altri odori che i più non sanno e che al massimo intuiscono se hanno letto pagine di Dickens, se hanno vissuto quell’esperienza attraverso il racconto di qualche conoscente; ma quella degli orfanotrofi è una storia per lo più sparita, sepolta o inglobata da storie sociali più complesse. Mentre invece di quei percorsi di vita collettiva sarebbe bello e utile riscoprire le vicende per diversi motivi. Primo, ricostruiscono un aspetto importante di una comunità, cioè il suo modo di reagire all’ingiustizia sociale che ha perseguitato i più fragili tra i fragili: i bambini. Secondo, raccontano una cultura educativa che non è più (per fortuna) ma con la quale non è mai male confrontarsi e fare i conti. Terzo, in una fase in cui le ingiustizie
sociali tornano a suonare la grancassa fa sempre bene capire (è questo il valore dello studio della storia, grande o piccola che sia) come in altre fasi si è affrontato un problema che torna a spaventare. Hanno fatto un gran bene quindi le iniziative organizzate dalla tarda primavera dall’Associazione Genitoriale di volontariato “Attive Terre – Sostegno e sviluppo di uomini famiglie culture e territori”, il cui presidente, Alessandro Andreello, ha cucito addosso alla città di Adria una serie di manifestazioni per riscoprire, studiare ed analizzare il ruolo degli orfanotrofi ad Adria in un periodo che, sommariamente, possiamo indicare nei primi ottant’anni del secolo scorso. Una storia che ha per protagoniste tre istituzioni di matrice religiosa, ma che 45
si sofferma soprattutto sulle vicende relative ad una di queste, forse la più famosa in città, quella conosciuta con il nome di Orfanotrofio “San Vincenzo de Paoli”, conosciuto da tutti qui come l’orfanotrofio delle “Angeline”, perché qui operavano le suore “figlie di Sant’Angela Merici”, con il ruolo subalterno tipico delle donne di allora, ma importantissimo ed amatissimo dai bambini dell’istituto: delle mamme, che seguivano accudivano nutrivano coccolavano e soprattutto stemperavano il rigore e la severità del personale maschile (dal direttore ai maestri). Benissimo ha fatto chi ha organizzato la serie di eventi (un convegno, una mostra, un sopralluogo a quella che fu la sede dell’Orfanotrofio, ancora oggi piuttosto ben conservata) a coinvolgere
LUOGHI
Sopra: il recente ritrovo dei Collegiali e, nella pagina successiva, i partecipanti al Convegno organizzato presso il Liceo "Bocchi-Galilei" e l'inaugurazione della Mostra in Sala Cordella ad Adria 46
delle classi del Liceo “Bocchi-Galilei”, indirizzo di Scienze Umane: è così che si insegna ai ragazzi non soltanto l’importanza della storia locale, facendola toccare loro con mano, facendo respirare i luoghi che furono protagonisti di quelle storie, in cui quelle vite si svolsero, e non solo costringere a studiare sulle pagine spesso amorfe dei manuali. Chi fosse interessato ad approfondire questi argomenti potrà trovare soddisfazione in un lavoro di ricerca svolto da Silvia Ingegneri, pubblicato nel 2004 ed intitolato: Il Basso Polesine e i suoi orfani. Un libro (che credo
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si possa trovare ormai solo nelle biblioteche pubbliche) che racconta con dovizia di particolari la storia dei tre orfanotrofi di Adria (l’Oriani, quello femminile delle Canossiane e, in particolare, quello delle “Angeline”): pur avendo un po’ troppo il sapore di tesi di laurea, con le rigidità tipiche di quel genere di ricerca, il lavoro della Ingegneri è fondamentale perché dà indicazioni e notizie molto precise sulla storia di quelle istituzioni e, soprattutto, perché ricostruisce il clima sociale in cui queste sono sorte. Ma il grande merito di questo lavoro sta nel fatto che fa venire voglia di approfondire, di cercare ulteriori notizie, di scavare e scovare ulteriori fonti per ricostruire in maniera ancora più dettagliata una storia importante per una comunità ben più ampia di quella locale (di Adria): un materiale importantissimo da cui uno storico potrebbe partire per ampliare ed approfondire: e, c’è da scommetterlo, ci sarebbe ancora molto da dire su queste istituzioni, sul lavoro che hanno svolto, sulla società dentro alla quale l’hanno svolto. Occuparsi della storia delle istituzioni educative, soprattutto di istituzioni educative di questo tipo, non significa raccontare e interrogare un mondo scomparso: si tratta, piuttosto, di interrogarsi su delle scelte che chi ci ha preceduto ha fatto e che possono costituire per noi un momento di conoscenza e confronto, non per guardare come strabici al presente, ma per essere coscienti (e la coscienza nasce solo dalla conoscenza) che il passato non passa mai del tutto: si nasconde, svicola, si inabissa ma qualcosa di esso in qualche modo e in qualche forma riemerge e ritorna.
Succede quasi sempre. Studiarlo, conoscerlo nei suoi stupefacenti (a volte stupidi) dettagli, può significare una 47
cosa importante: essere in grado di immaginare meglio, almeno nei suoi disegni essenziali, il nostro futuro.
PAROLE
Anime galleggianti sul Tartaro-Canalbianco
Due musicisti, il racconto di un viaggio straordinario
Fotografie di Piergiorgio Casotti
C
di Antonio Lodo
osa spinge due musicisti rockettari, il giovane Vasco Brondi e il maturo Massimo Zamboni, a scendere su una zattera il Tartaro-Canalbianco dalla sorgente al mare? Chissà. Non lo sanno bene neppure loro, sanno solo che è un’idea curiosa, interessante anche senza sapere cosa cercare, in questo viaggio. Confidano entrambi, come poi scrivono, di “trovare senza cercare”; ma trovare che cosa? Beh, quello che c’è, quello che vedranno e incon-
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PAROLE
treranno. Perché lo fanno? “Perché sì”, dicono appunto: è una bella partenza, non c’è che dire…
per loro un’osservazione di Fernando Pessoa annotata dal grande fotografo Luigi Ghirri (uno dei due riferimenti essenziali per vedere le cose e la realtà; l’altro è - si capisce - Gianni Celati): “Dal mio villaggio io vedo quanto dalla terra si può vedere dell’universo. Per questo il mio villaggio è grande quanto qualsiasi altro luogo, perché io sono della dimensione di quello che vedo”.
E il loro “diario” di navigazione, steso a quattro mani sugli appunti presi durante l’andata e il ritorno, senza preoccuparsi più che tanto di un ordine “esterno” - cronologico o geografico che sia - registra paesaggi, cose, animali visti, personaggi incontrati, eventi minimi. È un mondo lento, quasi immobile in qualche tratto, ma è appunto un “viaggio”, e un viaggio in un “mondo”. Vale anche
Il racconto che ne esce, ben corroborato dalle belle immagini del terzo compagno di viaggio, il fotografo Pier-
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REM
giorgio Casotti, mostra il lento procedere “alla deriva” in un paesaggio delimitato e “tagliato” dalle sponde del canale, sincopato dalle soste e dagli slittamenti del corso d’acqua scanditi dalle chiuse, e accompagnato dalle varie sponde erbose delle arginature. E dal paesaggio sembrano offerti gli stessi personaggi via via incontrati (pescatori solitari, pescatori stranieri di siluri, osti e clienti di locande rivierasche…), spesso nella laconicità di un saluto, di qualche sguardo muto, nella recriminazione per i furti, perfino nelle figure di chi ha scelto di costruire
la casa e la propria vita in questo ambiente anfibio di elementi quasi primordiali. Il quadro del Tartaro, poi Canalbianco, fornisce, nella sua originale visuale, una suggestiva e convincente riprova che un viaggio né avventuroso né lunghissimo, anzi: poco più che una lunga passeggiata, può offrire la più avvincente delle avventure, quella mentale; oziosa e lenta, ma dentro la quale come in una “fessura del pianeta” (parole di Manganelli citate nel libro) il viaggio acquista
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PAROLE
un senso pieno, obbedendo al richiamo vero e profondo delle cose.
giunti da “un sole più alto” si può catturare la “durata”: delle cose, del mondo; quella “durata” che induce alla poesia…
Agli improvvisati navigatori si presentano luoghi dimessi, talora slabbrati o logori, per così dire rugginosi, privi dell’appariscente attrattività dell’oggi, e incastonati in un tempo estraneo, diverso dal convulso precipitare dei nostri giorni; sembrano anch’essi toccati dalle parole di Peter Handke (nel “Canto alla durata”), “non rifulgono di splendore”, segnalati appena sulle carte, da percorrere restando “cauti, attenti, lenti” ma in cui, sentendosi rag-
È così che Brondi e Zamboni, interrogandosi se il viaggio valga a “decifrare segni di qualcosa”, a “raccogliere segnali”, lasciano andare se stessi e i propri pensieri alla deriva (“vediamo cosa ne esce”), scoprendo di volta in volta, per esempio nel folto della vegetazione, “la pazienza infinita dell’ordine naturale”; o scoprendo che pur non essendo ”assaliti da niente” in questa lentezza, in
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REM
realtà anche “niente ci può raggiungere”. E se è inevitabile il riferimento alla metafora esistenziale dei rimandi fra porto e seno da cui si nasce, fra chiuse e norme o regole, diramazioni e scelte di vita, foce e fine della vita, adottano “la docilità con cui si accetta un richiamo” e scoprono in questa vita minore, “parallela” a percorsi e vie imponenti, che la luce uniforme che si sparge su ogni cosa rivela che “tutto è così com’è”; e che, come gli aironi, “non ha bisogno di noi per esistere, e questa è sensazione che sgomenta gli uomini”. Sgomento salutare, invero, per il protagonismo che ha pervaso i nostri giorni in forme incontrollate, se non dissennate.
mente bello, ricco delle riflessioni dell’intelligenza sensibile degli autori, un’intelligenza che si è fatta “cauta, attenta, lenta” nel rivelare – anche a noi polesani – un mondo che è “nostro”, fino nelle fibre profonde. Magari, temiamo, con la nostra inconsapevole noncuranza. Questo libro aiuta a “intercettare una evidenza trascurata, liberarla dalla miopia che la esclude, offrirla a chi non si è mai offerto di guardare”.
Per qualche approdo, più spesso di sguincio dal canale, compaiono i centri abitati, per esempio Canda, o Lama, o Adria (non raggiunta, e pretesto per una ironica divagazione di Zamboni), o Porto Levante, o la esclusiva e artificiale Albarella. Non sono descrizioni di sapore turistico, sono i luoghi che il canale fa comparire a chi ad esso si è affidato: ed è così che compare, per la sua lunghezza, un Polesine insolito, per la via di immagini e di visuali inconsuete, che sono spunti di osservazioni, pensieri, divagazioni, frutto di uno sguardo tanto più acuto e rivelatore quanto più libero da condizionamenti. Non solo un libro interessante e piacevole, ma singolar-
"Anime galleggianti" di Vasco Brondi e Massimo Zamboni è pubblicato da "La nave di Teseo" nella Collana "le Onde"
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SUONI
PSYCODRUMMERS Un collettivo in evoluzione
Uno spettacolo degli Psycodrummers
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di Cristiana Cobianco a prima sensazione incontrandoli nelle loro esibizioni è sicuramente visiva. Una spersonalizzazione dei singoli dietro maschere
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uguali, una divisa moderna ed elegante. Una sorta di iniziale presa di distanza del singolo dal pubblico per presentarsi come un unicum. E la divisa è quella dell'uomo medio che esce dall'ufficio omologato ai suoi simili così distante dalla libera espressione che i bidoni "tank" vogliono svegliare. Colui che indossa la maschera perde la propria identità per assumere quella dall’oggetto rappresentato. Una denuncia silenziosa del ruolo spesso imbavagliato che la società vuole per l'artista soprattutto quando l'artista vede oltre. Poi inizia il battito e il suono degli strumenti rimbomba nei corpi. Il pubblico viene agganciato e l'iniziale freddezza del look lascia il posto alla parte psyco, all'emotività e fisicità individuale dei singoli componenti del gruppo. Le maschere vengono abbandonate e il reciproco divertimento nell'esibizione fa emergere i virtuosismi, le acrobazie, la simpatia e l'empatia dei singoli che si potenzia nel coro di percussioni. È una performance che dal 2014 ha subito evoluzioni e che sta nell'ultimo periodo cercando un ulteriore sviluppo, come mi spiega Simone Pizzardo, compositore e musicista che si occupa dei live e del booking del gruppo. “Di performance in performance i singoli hanno sentito l'esigenza di far emergere ciascuno la propria parte psyco, e lo spettacolo che è stato portato in più di sessanta piazze nell'ultima stagione ha cominciato a veder cadere le maschere dopo 55
SUONI
Al Carnevale di Venezia nel 2015
i primi brani. L'esigenza di creare un maggior contatto con il pubblico, la voglia di lasciarsi andare e il voler giocare con le percussioni hanno trasformato lo spettacolo in un dialogo aperto. Poliritmie energetiche e
incalzanti, che spaziano dal funk, la samba, l’hip hop, la cultura giapponese, fino alle ritmiche africane sono la tavolozza messa a disposizione dai componenti del gruppo che riescono a portare, senza una gerar56
chia o un leader, ciascuno le proprie pennellate al quadro musicale. Ci sono molti percussionisti, un violinista, un pianista, compositori e anche chi ha cominciato con il bidone tank, non è facile organizzarsi in tredici
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ognuno con una propria carriera individuale da coltivare”, spiega Simone Pizzardo. Ma il lavoro che viene impostato da due/tre componenti viene condiviso in una chat prima delle prove e ognuno ha la possibi-
lità di metterci del suo. Lo spettacolo è molto teatrale e proprio per questo motivo il gruppo sente l'esigenza di evolvere in una versione non solo di strada. È in cassetto la voglia di una performance per spazi teatrali chiusi
A Ferrara Buskers nel 2015
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in cui poter sfruttare anche gli altri strumenti a disposizione di questa originalissima band, evolvendo l'idea di drum line che ne aveva caratterizzato le origini. Vero è che il gruppo nasce e cresce a Rovigo, ma
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in realtà non è affatto provinciale, e non per disprezzare la provincia. La città ha dato l'occasione di incontro, ma il gruppo da sempre guarda fuori e di strada in Italia nelle piazze ne ha fatta tanta in tre anni e molte sono le date già fissate per il prossimo anno anche all'estero. Un collettivo in evoluzione che si sta attrezzando per stupirci con nuovi sentieri sonori.
Alla manifestazione RoviGoto
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Psycodrummers è un progetto artistico creato da un gruppo di musicisti di Rovigo nel febbraio del 2014; ha all’attivo, oltre alle esibizioni locali e nelle principali piazze d’Italia, la presenza a importanti festival come il Ferrara Buskers Festival, il Carnevale di Venezia piazza San Marco Gran Teatro, RovigoRacconta, Mille Arti E Una Notte, Afro Festival Rimini, Puedes Ferrara, Faenza Buskers Festival, Primavera Marittima di Cervia, RoviGoto, Pianoro Buskers Festival, Magie al Borgo, Wired festival Milano, Valpolicella buskers, Tucogiò, Ritmi e Danze. I componenti del gruppo sono Alessandro Alfonsi, Alessandro Callegaro, Enzo Lavezzo, Luca Marcello, Marcello Martucci, Marco Masola, Alberto Polato, Simone Pizzardo, Davide Rigato, Nicola Rigato, Rossano Tamiazzo, Luca Vallese, Edoardo Visentin, Edoardo Rossetto. email: psycodrummers@gmail.com - facebook: Psycodrummers - youtube: Psycodrummers channel
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Do’Storieski Qua no’ ghe xè gnente che no’ va
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Il dialetto nei testi delle canzoni avvicina il pubblico a un mondo immaginifico proprio della cultura e della tradizione veneta.
di Danilo Trombin
utto comincia in una notte buia e tempestosa. Lo ricordo bene. Bighellonavo senza meta tra un bar e l’altro, perso per i vicoli del centro, ripetendo tra me e me “Qua no’ ghe xè gnente che no’ va”, quando incontro Luca. Lui mi chiede se avessi avuto da fare qualcosa di speciale, quella sera, ma io, come sempre, risposi di no. Allora mi invita
Foto di Giuseppe Brunello e Raffaella Vismara 59
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a passare al Pozzo dei Desideri, storico ritrovo dei disadattati dell’Etruria orientale, dove ci sarebbe stata una specie di cerimonia di consegna di una damigiana di vino, intrecciata con suggestioni musicali, alla presenza di due rock’n’roll band che intendevano avvilupparsi in un gemellaggio umano ed artistico. Qualche tempo prima, infatti, la band rodigina (nel senso di appartenenza provinciale) de La Marmaja, aveva vinto il concorso, indetto dalla trasmissione radiofonica di Radiodue Caterpillar, per realizzare la sigla della manifestazione “M’illumino di meno”, volta alla sensibilizzazione sul risparmio energetico. La Marmaja riesce a spuntarla anche grazie all’intervento di un’altra band veneta, i Do’Storieski di Treviso, che, accortisi di non disporre del numero di voti necessario a vincere la competizione, decidono di favorire i rodigini dirottando il consenso ottenuto proprio su di loro. Naturalmente, Maurizio & soci de La Marmaja son
tutt’altro che degli ingrati per cui, conoscendo la passione e l’attitudine del duo trevigiano, per altro ampiamente condivise, decidono di omaggiarli con una damigiana di 54 litri di Malbec. E la consegna avviene proprio nel corso di quella notte buia e tempestosa, per mano del Sindaco di Adria, donatore materiale del prezioso nettare, presso il Pozzo dei Desideri. Da autentici guasconi quali sono, i Do’Storieski quella sera improvvisarono un memorabile concerto mescolando canzoni, cabaret, teatro e ombre de vin che ipnotizzarono immediatamente gli astanti, che da quella notte non riescono più fare a meno della musica dei Do’ Sto. Quindi sì, non si tratta di un gruppo musicale polesano, bensì trevigiano, che nel corso del tempo ha avuto numerosi rapporti con la nostra terra, culminato con la recente vittoria al concorso “Voci per la libertà - Una canzone 60
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per Amnesty”, sezione gruppi emergenti, organizzato nel Delta del Po e giunto ormai alla diciannovesima edizione, tanto che loro stessi si sono definiti polesani d’adozione, visti ormai i numerosi concerti con i quali hanno deliziato la terra dei Grandi Fiumi. A questo punto è però doveroso premettere che non sono un critico musicale, che di musica capisco poco o nulla, e che le parole che seguono non hanno alcuna velleità o ambizione a essere più di ciò che sono: un tributo nei confronti di questo gruppo che io ammiro molto. Attualmente i Do’Sto sono di gran lunga la mia band preferita tanto che si può dire che da mesi io non ascolti altro che le loro canzoni, passione che per altro condivido con molti miei concittadini.
coinvolgere il pubblico grazie a un mix di canzoni molto divertenti, sarcastiche e ironiche, fumiganti, alcoliche e bucoliche, racconti, travestimenti e situazioni rocambolesche che strappano risate e applausi a scena aperta. Anche il frequente utilizzo del dialetto nei testi delle canzoni avvicina il pubblico a un mondo immaginifico proprio della cultura e della tradizione veneta, all’interno del quale è impossibile non riconoscere una situazione che ci ha visti protagonisti, un personaggio che abbiamo conosciuto, magari un amico, un parente, o mio nonno, o anche un pensiero, un’idea. O più facilmente è possibile incontrare sé stessi e ridere di noi, con noi e con loro, in un’epifania carnascialesca che non risparmia nessuno. Ma è dopo un ascolto più approfondito che emerge la vera grandezza di questo duo. Tanto per cominciare, gli accordi e le melodie non sono mai banali, e anche se spesso queste suonano all’orecchio come accattivanti e
Di primo acchito, ciò che rimane impresso dei Do’Storieski è la loro dimensione live. Si tratta, infatti, di due autentici animali da palcoscenico che sanno sapientemente 61
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immediate, in realtà sono complesse, ricercate e molto articolate. Anche gli arrangiamenti e il suono, ruvido e graffiante, hanno alla base un lavoro di ricerca che si sente e non lascia spazio a dubbi, per quanto concerne la loro preparazione anche a livello musicale. E questo credo sia un grande pregio. Io che amo cantare sotto la doccia per esempio faccio una fatica micidiale a imparare e ripetere le loro canzoni, che trovo difficilissime. Ad un primo ascolto è facile ricordare i brani più irriverenti e ironici, ricchi di doppisensi e divertissement, come “’Na jornada de merda” e “Me piase ‘a bira”, o “Mi no go mai”, o ancora “Milonga golarenga”, più immediati e anche più accattivanti nei live. Ma una volta assorbito questo aspetto è impossibile non cogliere anche una propensione rivolta ai grandi temi sociali, trattati comunque sempre con il tocco delicato che li contraddistingue, mai
scontato o banale. Molto forte, ad esempio, è l’attenzione nei confronti delle problematiche ambientali, come nel brano “Gnente che no va” e altri, che spesso si accompagna alla perdita delle radici rurali della società veneta, sempre più popolata da cow-boy arricchiti e ignoranti. Anche le questioni sociali contemporanee, come ad esempio l’immigrazione, sono fonte di ottime ispirazioni per i nostri eroi. Il loro terzo album si intitola “Disintegrati”, proprio nel senso della integrazione culturale molto difficile da realizzarsi, all’interno di un tessuto sociale che ormai si sta sfaldando sempre di più. In questo album i Do’Sto costruiscono dei testi imitando la parlata degli immigrati di varie provenienze. Qui troviamo, ad esempio, una trilogia di bei brani dedicati proprio a questo spinoso tema, uno dei quali, la bellissima “Tuto a contrari”, è
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valso loro il trionfo al concorso musicale “Voci per la libertà - Una canzone per Amnesty”. Nell’album “Osteria” invece le stesse tematiche sono trattate all’interno dello stupendo pezzo “Riva del mar” che “porta şente e a şente porta d’eà del mar”, dove il dialetto veneto diventa parte integrante della melodia, uno strumento musicale aggiunto che la trasforma in ritmo che scandisce il movimento della musica come quello delle onde, fino a diventare una nenia, un mantra da ripetere all’infinito come lo è soltanto il mare. Ma è nel momento in cui scoprono la loro parte più intima e personale che i Do’Storieski rivelano la loro autentica grandezza. Sia chiaro che sono tra quelli che distingue tra letteratura e musica leggera, che divide i cantautori dai poeti, ma devo dire che questo duo è spesso in grado di raggiungere vette molto poetiche nei loro testi. Con una manciata di versi riescono
a tratteggiare storie complesse ma complete, riescono ad evocare suoni, come quello del “Vento”, paesaggi, passeggiate notturne in compagnia di mostri e fantasmi, come in “Lumiera”, giusto per venir “fora da ‘sto labirinto, che gnanca me so incorto che ghe jero ‘rento”. Con un pugno di parole dipingono alla perfezione dei personaggi memorabili, le loro ricchezze e le loro miserie, il tempo che scorre lungo fiumi di vino, nel dualismo eterno tra “ostaria e cèsa”, toccando vette di una malinconia e di una dolcezza senza pari, come in “Bruno”, “Bepi e a Rosa”, “Germo”, “La mussetta Gina”, o il vecchio fruttivendolo “Toni da Rovigo”. E allora succede che certe sere io e mio figlio Elia, rincasando, ci guardiamo negli occhi e ci diciamo: “Ahi ahi ahi, che voja de folpi… che voja de folpi….” www.dostorieski.it
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Opere che spesso fondono assieme e descrivono la lotta fra gli estremi.
di Vainer Tugnolo Foto di Marco Bovolenta
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Bruno Martinuzzi Raccontare le storie, descrivere i ricordi
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runo Martinuzzi è originario di Turriaco in provincia di Gorizia. Dopo essersi trasferito a Milano incontra e sposa una donna originaria di Santa Maria in Punta, il luogo dove il Po di Goro abbandona il corso principale del fiume e inizia la sua solitaria discesa verso il mare. Proprio nel piccolo paese dove il Delta comincia a prendere forma Martinuzzi inizia a trascorrere le vacanze estive innamorandosi di questo strano borgo fatto di silenzi e di acque prigioniere. “Decisi di ritornarci tutti gli anni fino a quando, verso la fine degli anni ’70, non mi sono definitivamente trasferito qui. Ero finito a Milano per motivi di lavoro: come prima esperienza avevo iniziato a lavorare in una fonderia artistica dove si realizzavano colonne, piccole statue, lampadari e altri prodotti… poi ho approfondito la conoscenza dei materiali lavorando in una ditta che produceva per l’industria chimica e farmaceutica“.
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L’incontro con Fausto Melotti “Facevo già delle cose mie, mi piaceva dipingere, ma a un certo punto cambia tutto grazie all’incontro magico con Fausto Melotti. Lui era venuto a sapere dell’attività della nostra azienda tramite il compagno della sua segretaria: era interessato soprattutto alla lavorazione dell’acciaio inossidabile, ci conoscemmo e lì iniziò la nostra collaborazione che durerà, a partire dal 1967, per circa un decennio. Nel periodo in cui gli stetti vicino frenai l’attività personale, non mi sembrava corretto andare avanti, ma fui molto contento quando Melotti insistette per vedere le cose su cui mi piaceva lavorare: aveva una forte necessità di conoscere cosa facevano i suoi collaboratori. Dopo averle viste mi disse solo due parole: ‘Puoi continuare’. E furono sufficienti. Lavoravo assiduamente nello studio di Lomagna dove Melotti aveva trasferito tutti i suoi laboratori, compreso quello per la produzione delle ceramiche. Fu lì che mi occupai della realizzazione di praticamente tutte le sue sculture, partivo dai progetti e dalle forme in miniatura e le riportavo su scala più grande. È quello che accadde anche per ‘La grande clavicola’, l’opera più alta di Melotti ora ospitata al Museo di Rovereto, che allora era stata acquistata dal Commendator Severi; andai personalmente ad installarla a S. Antonio, vicino a Sassuolo”. L’ambiente e gli artisti “Ogni sera mi recavo presso il laboratorio di Melotti, entravo nel
Direzione I, 1969
suo mondo, spesso ci si metteva entrambi a lavorare, uno da una parte e uno dall’altra dello studio, la musica classica a tutto volume. Di lì ho visto passare alcuni fra i maggiori protagonisti del Novecento italiano come Giovanni Carandente, che è stato direttore delle Arti Visive alla Biennale, Giò Ponti, Paolo Portoghesi, Gino Pollini, cognato di Melotti, e suo figlio Maurizio, pianista, e poi Arnaldo Pomodoro, con cui collaborammo per la Biennale del 1972, Pietro Consagra, Michelangelo Pistoletto e tanti altri...” Tanti altri come Carlo Belli, ad 65
esempio, cugino di Melotti e autore di quello che è considerato il manifesto dell’astrattismo italiano. La figlia Gabriella è stata direttrice del MART di Rovereto: il museo, oltre ad ospitare opere del grande scultore trentino, è anche dotato di un auditorium a lui intitolato. “Il mio unico cruccio è di non aver conosciuto Lucio Fontana, grande amico di Melotti, ma morto nel 1968, poco dopo che avevo iniziato a frequentare l’ambiente milanese. Fausto in Italia raggiungerà la notorietà come artista solo alla fine degli anni ’60, grazie anche al
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sostegno di critici come Maurizio Fagiolo dell’Arco, ma all’estero era già quasi una star: in Svizzera, dopo la mostra di Zurigo, e in Germania, ad esempio, era trattato come un grande esponente del Novecento italiano. A un certo punto Melotti si trovò di fronte alla decisione di trasferirsi a Londra o a Roma, dove la Galleria Marlborough gli aveva offerto lo Studio di Canova: io, padre di una bambina piccola, non me la sentii, rimasi a Milano e finii poco dopo con il trasferirmi in questo Paesino in riva al Po”. Le opere
Il Santo, 2000
Senza titolo, 1970
Camminando vicino alle realizzazioni di Martinuzzi non si avverte nulla dell’austerità e della chiarezza delle forme classiche, nulla che abbia a che vedere con il peso della tradizione, che rimandi al rumore degli scalpellini, ai ferri roventi del fabbro: tutto si presenta lieve come la figura di questo signore alto e magro che parla con calma soppesando parole leggere. Leggere come le sue sculture che nessuno pare abbia posato sui piedistalli: qualcuno, al contrario, sembra averle adagiate senza fare rumore. “Ottone e acciaio sono i due materiali che prediligo: li utilizzo insieme perché sono convinto che il caldo del primo compensi la freddezza del secondo, mi sembra che si sposino bene. Ma mi servo anche del gesso, della resina, che richiede una procedura più elaborata, del rame, e più raramente del piombo in fusione. Mi occupo personalmente 66
Tavolo per Artista I, 1970
La Venere nera, 1970
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e direttamente di tutte le fasi della realizzazione: dalla progettazione al reperimento della materia prima, dal taglio alla smerigliatura, alla saldatura”. Opere che spesso fondono assieme e descrivono la lotta fra gli estremi, la difficile, ma naturale convivenza fra gli opposti: il conscio e l’inconscio, il positivo e il negativo. “Esattamente come siamo noi, come è la vita”. Accade lo stesso con la precisione che Martinuzzi utilizza per raccontare le storie e per descrivere i ricordi; la stessa precisione che il suo sguardo assicura avere tenacemente impiegato per tutta la vita, lo stesso scrupolo che gli aveva permesso di conquistare la stima e la fiducia di Melotti e di altri grandi del Novecento: un’attitudine che, tuttavia, sembra abbandonare quando tradisce l’inquietudine di trovare la sintesi, l’ansia di recuperare in fretta l’origine di un pensiero.
una tecnica imparata con il lavoro, e di averla utilizzata, senza risparmio, in quella che rimane una grande stagione della sua vita. “Ricordo una delle prime volte che entrai nell’ufficio di Melotti e inciampai nelle catenelle di una scultura posata a terra, un leone in ottone e rame: «Che fai, mi distruggi il leone?», mi disse. Solo allora mi fermai ad osservarlo. «Cosa ne pensi? », mi chiese. «Non mi sembra Michelangelo» risposi quasi subito. «Ne riparliamo fra un anno» chiuse rapido Melotti.
Le Forche, 1968
“Ho bisogno che il risultato del mio lavoro sia pronto subito, che non passi troppo tempo dal momento dell’idea a quello della sua realizzazione: è il timore che qualcosa scappi, che mi sfugga”. Il moderno Felicissimo di vivere a S. Maria in Punta, Bruno Martinuzzi non nutre nessun rimpianto per quella che poteva essere una storia completamente diversa. È soddisfatto di aver nutrito il suo talento mettendolo al servizio di
Le Forche, installazione1968 67
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Le Finestre, 2001
B Beh, aveva ragione lui. Io ero ancora attratto da Canova, da S. Severo, dal figurativo. Oggi mi sento di dire che il classico è il mondo del quale riesco ad apprezzare il grande sforzo, l’abilità, la tecnica, il materiale. Ma rimane un lavoro fine a se stesso. Credo che solo nella scultura moderna, che non è definita, possa ritrovare le condizioni per vedere quello che mi piace, per ricavare quello che mi serve: è lì che trovo qualcosa in più, è lì che riesco a cogliere ciò che mi interessa, che intercetto un flusso, ininterrotto, che si muove verso di me”.
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Bruno Martinuzzi nasce a Turriaco nel 1946. Fin da giovane nutre una decisa passione nell’esprimersi attraverso il disegno e la lavorazione dei metalli. Trasferitosi a Milano, continua a coltivare la sua attitudine intraprendendo varie esperienze lavorative e dove nel ’65 incontra Fausto Melotti, diventando così suo allievo. Da qui ha inizio un rapporto di collaborazione che dura fino al 1977, anno in cui decide di trasferirsi nella provincia di Rovigo, dove tutt’ora si dedica alla realizzazione delle proprie opere. La sua arte in continua evoluzione lo porta a sperimentare negli anni l’uso di diversi materiali per la realizzazione delle proprie sculture tra cui legno (la Venere Nera, 1970), gesso (Conscio Subconscio), plexiglass (la Sfera,1970) e piombo fusione (le Forche,1968). In particolar modo dedica attenzione al dualismo ottone-acciaio (Gioco Ellittico, 1968, l’Attraverso 1968, Direzione II, 1981 e il Santo, 2000), arte o scultura astratta basata sul concetto del negativo/positivo in vari giochi di forme. Per approfondire la conoscenza di Fausto Melotti: fondazionefaustomelotti.org
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STORIA
Com’era
di Marco Barbujani
il Polesine
nel
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Medioevo ?
om’era il Polesine nel Medioevo, prima della completa bonifica? Una palude? Un bosco? Entrambe le cose? Le mappe storiche abbondano, ma spesso risalgono a dopo il 1600; e poi sono carte politiche, al massimo spunta qualche disegno di elementi fisici approssimativo e deforme. Tra l’altro il Polesine non era proprio al centro dell’attenzione: era la terra di confine tra i Veneziani, a nord, e i Ferraresi, a sud, e forse anche per questo non ci sono molti dettagli. Nell’estate di quest’anno è stata realizzata una mappa che riporta, forse per la prima volta, quali potevano essere i principali ambienti del Polesine e, soprattutto, dov’erano.
Dati storici e moderni si incontrano.
La ricostruzione del Polesine nel 1200: stagni a Cannuccia circondati da boschi umidi di ontano e, nelle aree più asciutte, dal bosco di olmo e quercia comune (farnia). A est, sul cordone di dune costiere, la farnia lasciava il posto al leccio. I fiumi avevano percorsi più sinuosi rispetto a oggi.
Questa carta fisica si riferisce al periodo a cavallo tra 1200 e 1300: il Po, non ancora deviato dai Veneziani, sfociava più a nord e i fiumi non erano ancora stati raddrizzati; il delta attuale non c’era, e la linea di costa 69
STORIA
(esclusa dallo studio) era subito dietro le dune di Rosolina e Porto Viro; non da ultimo, c’erano molte paludi, oggi tenute asciutte con la bonifica. Proprio queste zone umide hanno avuto un ruolo chiave nella ricostruzione. Tutto è partito con una domanda, poi diventata una tesi di laurea: quali sono le aree del Polesine più inclini ad allagarsi? Per scoprirlo sono stati usati i GIS, ossia software che possono sovrapporre diverse mappe digitali e svolgere calcoli e analisi geo-spaziali. Con i GIS è stata creata una mappa della propensione al ristagno dell’acqua, sovrapponendo la carta dei suoli alla mappa altimetrica del Polesine. Tra i fattori che favoriscono il ristagno, infatti, ci sono i suoli poco permeabili (limoargillosi) e la presenza di depressioni. Queste ultime in Polesine non mancano: i fiumi, tra un’alluvione e l’altra, tendevano a formare intorno a se stessi dei microrilievi (dossi) fatti di sedimenti; tra un dosso e l’altro si formavano così delle aree leggermente più basse, da cui l’acqua usciva difficilmente dopo una rotta. Perciò la mappa ha questa regola: tutte le aree che mostrano
suoli poco permeabili, e allo stesso tempo si trovano in una depressione, sono classificate con la massima propensione al ristagno. Al contrario, se mostrano una sola o nessuna di queste caratteristiche la loro tendenza è rispettivamente media o bassa. A questo punto occorreva dimostrare che la mappa era attendibile, verificando se le aree tendenti ad allagarsi fossero già segnalate in qualche corografia del passato come valli o paludi. Perciò alcune mappe storiche, raddrizzate digitalmente, sono state sovrapposte alla mappa del ristagno. Ne è risultato che quasi tutte le paludi antiche tendono a combaciare con le zone umide previste. Ad esempio, quelle ricostruite tra Melara e Trecenta non solo appaiono una ad una sulle fonti storiche, ma avevano addirittura un nome: Valli di Treccenta et di Sariano, Valle Ghirana, Palude Maggiore… Anche le Valli di S. Giustina, visibili su molte corografie tra Adria e Rovigo, sembrerebbero descritte dal modello nella loro vera forma e posizione. Il lungo elenco di riscontri
La mappa della propensione al ristagno del Polesine interno. I fiumi sono mostrati ancora nei loro percorsi originali, non rettificati. Da notare che i centri storici sono in aree poco inclini al ristagno (giallo), ma rischiano di espandersi in zone potenzialmente più soggette ad allagarsi (blu).
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La Chorografia dello Stato di Ferrara del 1603 (a sinistra, raddrizzata) riporta paludi simili a quelle “previste” dalla mappa della propensione al ristagno usata come modello (a destra). Da sinistra: Valli di Trecenta e Sariano, Cuora di Sariano e il sistema Valle Ghirana-Valle di S. Donato.
Nel 1801, 200 anni dopo la Chorografia, la Cuora di Sariano c’è ancora (a sinistra), insieme alle Valli Ghirana, di S. Donato e Precona. Sembrano scomparse invece le paludi più occidentali.
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culmina con la corrispondenza tra le paludi ipotizzate e quelle censite nel Catasto Austro-ungarico del 1842: queste aree, classificate come Stagno, Palude da canne o da strame, combaciano proprio con quelle previste. Tutto questo, insomma, sembra confermare che il modello può diventare davvero una traccia utile per ricostruire il paesaggio medievale.
eterogeneo, con boschi tendenzialmente asciutti sui dossi, paludi per lo più circoscritte alle depressioni e un’area di transizione caratterizzata da foreste che tolleravano la sommersione. È interessante notare che i centri storici sorgono in zone poco inclini al ristagno – o, se vogliamo, dove c’era il bosco di quercia. Forse queste aree, prima delle idrovore, erano quelle più al sicuro dall’acqua rispetto alle depressioni; perciò anche questo potrebbe confermare la validità della ricostruzione. Va detto però che l’insediamento prevalentemente sui dossi implica che l’uomo ha intaccato per primo soprattutto il bosco di quercia, poiché occorrevano spazi asciutti per l’agricoltura e l’allevamento. Le paludi invece, nonostante gli interventi a più riprese, solo da un secolo e mezzo vengono mantenute completamente asciutte. Perciò la mappa del paesaggio medievale può dirsi realistica in fatto di zone umide, mentre per quanto riguarda le aree boscate è soprattutto uno scenario potenziale – nel
Il passo finale è stato associare a ogni area il rispettivo ambiente, in base alla possibilità che si potesse allagare o meno. Le zone più propense al ristagno (in linea anche con il Catasto storico) ospitavano probabilmente canneti, allagati anche tutto l’anno. Le zone di media propensione potevano ospitare boschi tolleranti le sommersioni (probabilmente limitate a primavera e autunno), con specie come l’ontano nero, il salice bianco e i pioppi. Le zone a bassa tendenza al ristagno, infine, erano le uniche ad ospitare il querco-ulmeto, il bosco con olmo e quercia comune (farnia); la farnia, infatti, non tollera più di un mese di sommersione. Il risultato è un Polesine fisicamente
Il modello a destra indica un’ampia zona soggetta al ristagno di forma simile alle Valli di S. Giustina, riportate a sinistra in una mappa del 1721 (foto di Michele Barbujani, raddrizzata). Pur cambiando estensione a seconda degli anni, è probabile che le paludi avessero un nucleo permanente nella zona in blu, tra Fasana e Villadose.
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Medioevo il bosco di quercia doveva essere assai più frammentato rispetto alla ricostruzione.
spunto per delineare le aree più inclini ad allagarsi. Le applicazioni di una tale informazione non si limitano alla ricostruzione storica: questi dati potrebbero essere tenuti in considerazione anche nella pianificazione territoriale. Ad esempio, si può vedere che il quartiere Commenda (nord-est di Rovigo) si sta espandendo verso un’area ad alta tendenza al ristagno; la zona sud-est invece, a guardare la mappa, potrebbe essere più sicura per costruire…
Un altro punto significativo è il fatto che il dato storico concorda con quello moderno: ad esempio, da un lato la mappa prevede che a Zelo può formarsi un grande acquitrino di forma rettangolare, e dall’altro si scopre che fino all’Ottocento l’acquitrino esisteva, si chiamava Cuora di Sariano ed è stato misurato e disegnato. Questo perché le caratteristiche geomorfologiche che favoriscono l’impaludamento (come il tipo di suolo) non cambiano con il prosciugamento: le ex-paludi rimangono comunque le zone più propense al ristagno, nonché le prime ad allagarsi in caso di rotta. Però oggi almeno sappiamo dove sono.
Comunque sia, che ci si dedichi alla ricostruzione archeologica o degli habitat, o anche solo per sapere dove non comprare casa, il Polesine ora ha un’informazione in più. Speriamo di farne buon uso.
In questo lavoro sono stati usati solo dati ad accesso libero, raccolti nel GeoPortale della Regione Veneto. Tuttavia, seppure con poche risorse, sembra che l’incrocio di due sole mappe (litologica e altimetrica) offra già uno
Anche le paludi tratte dal Catasto 1842 sembrano concentrarsi proprio sulle aree più tendenti al ristagno. In Alto Polesine sono ancora visibili la Cuora di Sariano e le Valli Ghirana e di S. Donato, in parte già prosciugate. In Basso Polesine balzano all’occhio le Valli di Ariano, mentre altrove le paludi sono meno estese.
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MESSAGGIO REDAZIONALE
LA FONDAZIONE BANCA DEL MONTE DI ROVIGO
Il Monastero Olivetano di San Bartolomeo (1255-1755). Cinque secoli di storia letti attraverso la testimonianza di Don Alessandro Rossi, ultimo Abate di governo, nel suo Notabilium (1733-1765)
È
stato presentato nella Sala Flumina del Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo il progetto che ricostruisce gli ambienti, e non solo, e propone un percorso culturale come un viaggio nel tempo nel monastero Olivetano. Alla presenza di autorità e di un folto ed interessato pubblico la mattinata dedicata all’illustrazione del progetto è iniziata con la performance teatrale di Luigi Marangoni; è proseguita, dopo i saluti delle autorità, con la spiegazione, a cura dei promotori e dei soggetti partner, del progetto che nasce dalla ricerca storica di Stefano Turolla sul Liber Notabilium, un codice dove l’abate Rossi annotava minuziosamente tutti gli accadimenti
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(dalle questioni legali a quelle edilizie) inerenti il Monastero nel periodo compreso tra il 1733 e il 1765. Ed è proprio grazie agli scritti di Rossi che il Monastero si racconta, narra la sua storia, si descrive. Da qui il titolo del progetto che ha portato alla ricostruzione della distribuzione planimetrica originaria del complesso olivetano, oggi assai compromessa, e a moltissime informazioni sul ruolo della realtà socio-economica importante per il territorio, che nel Settecento viveva l’epoca di massimo splendore. Tutte le notizie meritavano di essere divulgate, in modo permanente, alla cittadinanza. La collaborazione tra CeDi e Fondazione Banca del Monte di Rovigo ha portato alla ponderata progettazione e alla realizzazione di un percorso culturale che raccontasse la storia dell’evoluzione architettonica del complesso monastico e individuasse gli “spazi ritrovati”, cioè la destinazione d’uso che i vari ambienti avevano alla metà del XVIII secolo. L’intento del progetto è, senza trascurare la funzione museale dell’edificio, quello di richiamare l’attenzione sul valore del “contenitore”, così ricco di storia e di cultura. Il progetto si concretizza sostanzialmente in diversi strumenti informativi e didattici: innanzitutto una pannellistica chiara ed esaustiva che sintetizza il lavoro di ricerca e propone la suggestione dei luoghi dell’ex complesso monastico. Un primo pannello informativo, collocato nell’androne d’ingresso, riporta le quattro fasi dell’evoluzione storico architettonica del Monastero dall’an-
L'intervento di Luigi Marangoni in Sala Flumina
no della sua fondazione (1255) al raggiungimento dell’impianto attuale (1755); la storia del monastero ricostruita da don Alessandro Rossi nel Notabilium con la riproduzione delle due pagine del codice e relativa trascrizione; la disposizione degli spazi interni del piano terra così come si presentavano a metà del ‘700. Un secondo pannello, posizionato sulla vetrata che chiude l’originaria porta di accesso al piano primo, riporta la destinazione degli spazi interni di questo piano sempre riferiti alla metà del XVIII secolo. Venti targhe costituiscono poi il percorso storico-culturale “Gli spazi ritrovati”. Posizionate in corrispondenza di altrettanti locali riportano le destinazioni d’uso dei singoli ambienti così come si presen75
tavano nel 1755. Inoltre, posizionato sul primo pannello, è stato predisposto un QR code che rimanda alla sezione “Il monastero si racconta”, ospitata nel sito web istituzionale della Fondazione Banca del Monte di Rovigo (fondazionebancadelmonte.rovigo.it), che ha partecipato alla fase progettuale e finanziato l’iniziativa. Qui è possibile accedere a notizie storiche sul Monastero e sulla sua evoluzione, oltre ad informazioni dettagliate sul progetto, le fasi di lavoro, i contenuti, gli attori coinvolti e le finalità. Dal sito si può scaricare anche l’audio-racconto “I ricordi che serbo nel cuore. Trent’anni di storia letti attraverso la testimonianza di Don Alessandro Rossi, ultimo Abate di governo, nel suo Notabilium
MESSAGGIO REDAZIONALE
Insegnanti e studenti dell'Istituto "De Amicis" di Rovigo
(1733-1765)”, a cura di Luigi Marangoni, Stefano Turolla e Donatella Girotto, un tuffo nelle atmosfere settecentesche del monastero. Infine, a completamento della finalità divulgativa del progetto è stato prodotto un depliant che come per la pannellistica descritta è stato ideato con il coinvolgimento dell’Istituto “De Amicis”, indirizzo Grafica e Comunicazione per la progettazione e la traduzione in lingua. L’Istituto “De Amicis” ha collaborato anche per la produzione
di un video, girato da alunni dell’indirizzo Turismo, rivolto ai coetanei per invitarli alla visita del sito storicoarchitettonico della città. Il progetto Il Monastero si racconta è stato realizzato grazie alla combinazione di diverse competenze: CeDi onlus, associazione molto attiva nella promozione e nella valorizzazione del patrimonio storico culturale polesano, e Fondazione Banca del Monte di Rovigo, da sempre impe76
gnata nel recupero e nella valorizzazione dell’identità storico-culturale polesana e negli interventi educativo-formativi. Proprio quest’ultima mission ha permesso la partecipazione della scuola e quindi dei giovani. Il programma di “Alternanza Scuola Lavoro” realizzato con l’Istituto d’Istruzione Superiore “Edmondo De Amicis”, con gli indirizzi di Grafica e Comunicazione e Turismo, ha consentito di unire due aspetti fondamentali del progetto: creare una gra-
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fica più giovane e una comunicazione turistica, con particolare riguardo verso le generazioni under 20, e coinvolgere attivamente i giovani studenti in una esperienza formativa che permettesse di avvicinarli al mondo del lavoro e di riappropriarsi del patrimonio culturale del proprio territorio. La scuola, infine, è stata coinvolta anche nell’evento finale di presentazione presso il Museo dei Grandi Fiumi. Gli alunni della classe V'A del “De Amicis”, indirizzo Turismo, hanno infatti curato l’accoglienza del pubblico in Sala Flumina mentre al termine della visita guidata, accompagnati da Stefano Turolla, direttore scientifico del progetto, gli intervenuti sono stati accolti dagli allievi di ENAIP nella sala delle Colonne con una degustazione di piatti ispirati alle ricette di Bartolomeo Scappi, cuoco del papa Pio V.
Il Monastero si racconta è stato promosso e realizzato da Cedi onlus e Fondazione Banca del Monte di Rovigo con la collaborazione di Comune di Rovigo, Museo dei Grandi Fiumi, Fondazione Rovigo Cultura, Turismo e Cultura, CTG Centro Turistico Giovanile Veneto, Istituto Istruzione Superiore “De Amicis” di Rovigo e con il patrocinio della Provincia di Rovigo.
Visitatori al Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo
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SAPORI & SAPERI
Le polpette
della felicitĂ
Bartolomeo Passerotti, Macelleria, 1580 ca.
di Mario Bellettato
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i sono cibi che rendono felici, rincuorano l’animo o che almeno riescono a stemperare il peso di una giornata difficile. Per quanto mi riguarda uno di questi piatti miracolosi cui associo il ricordo della famiglia, della con-
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divisione e della convivialità è costituito dalle polpette, le umili polpette ottenute dai resti del bollito o dell’arrosto. Senza nulla togliere alle più nobili polpette fatte con il macinato, quelle di carne cotta hanno il fascino dei piatti straordinari ottenuti da ingredienti poveri, scarti, avanzi. Amo le ricette dove creatività e tecnica giocano un ruolo fondamentale, sono un omaggio alla passione con cui tante madri e tante nonne facevano di necessità virtù, assicurando alla famiglia un pasto gradevole e sostanzioso. Erano un cibo comune nelle osterie di paese, dove accompagnavano il quarto di vino, meno impegnative di un piatto di trippe o di baccalà, ma decisamente più sostanziose di uno “spuncion” o di un “cicheto”.
La carne di manzo bollito macinata dovrebbe costituire il 55-65% del totale dell’impasto, potete aggiungere un po’ di pollo o lingua, tenendo conto che tendono a ridurre la consistenza della polpetta, che deve rimanere soda (deve “impigossàre” è il termine dialettale). Aggiungete il 10% di mortadella di qualità (non affettata), parmigiano grattugiato, sale a piacere, un filo di olio extravergine, pepe, un po’ d’aglio, un uovo intero ogni 3/400 g di impasto e circa il 25% di pane grattugiato, un pizzico di noce moscata e prezzemolo tritato. amalgamate accuratamente fino ad ottenere un impasto omogeneo e compatto. Il pane grattugiato può essere sostituito in tutto o in parte da patata bollita, in questo caso la consistenza della polpetta cambia e diventa più morbida, il liquido contenuto nella patata ne riduce la conservazione.
Come per ogni ricetta popolare le varianti sono infinite e le ricette originali erano in qualche modo flessibili, per adattarsi agli ingredienti concretamente disponibili di volta in volta. Ho scelto la ricetta di mia madre, che è il risultato della contaminazione tra la cucina romagnola della mia nonna paterna e quella della nonna materna, veneziana. La base è costituita dal magro di manzo bollito, talvolta si aggiungeva anche pollo o lingua di bovino, quando erano disponibili. Tradizionalmente, nella mia famiglia, la domenica si preparava il brodo e a pranzo si serviva la minestra, che prevedeva pasta ripiena, o tagliatelle all’uovo fatte rigorosamente il giorno precedente. Il bollito si serviva come secondo e dopo un primo piatto sostanzioso c’era sempre una discreta quantità di carne che languiva sulla fiamminga. Molto spesso il mercoledì a pranzo la carne rimasta, che avrebbe avuto poca fortuna riscaldata o proposta in insalata con la giardiniera, si trasformava in una pila di polpette croccanti, uno dei piatti che preferisco.
Il segreto della preparazione sta nella macinatura della carne e della mortadella, che deve essere effettuata con un tritacarne e non con un food processor: le lame riducono la carne in poltiglia e si ottiene una sorta di patè che, anche se di sapore gradevole, non offre la piacevole consistenza che la vera polpetta deve avere. Se non disponete di un tritacarne chiedete al vostro macellaio che ve la macini usando la piastra a fori grossi, quella che si usa per la salsiccia. In generale l’impasto deve essere piuttosto sodo e consentire di ottenere polpette appiattite della dimensione di un hamburger (circa 180/200 g) alte due dita. Una volta ottenute le polpette si passano nel pane grattugiato e si friggono in abbondante olio d’oliva o strutto ben caldi finche assumono un colorito bruno, in genere sono sufficienti pochi minuti. L’accompagnamento ideale è costituito da patate bollite condite con vinaigrette classica ed un po’ di prezzemolo, cavolfiori o broccoli anch’essi bolliti o patate fritte tagliate grossolanamente e cotte con la buccia (previa accurata pulizia). Si possono servire anche con una salsa di pomodoro simile a quella che si usa per condire la pasta, assolutamente da evitare il ketchup. Da accostare ad una buona birra non filtrata o a un rosso giovane, merlot, pinot nero o raboso. Fine pasto con caffè forte e un dito di grappa bianca.
Scegliete le parti magre del bollito avanzato, in mancanza potete acquistare dei tagli di manzo meno pregiati, non eccessivamente grassi, e farli bollire per circa tre ore in un po’ d’acqua salata con cipolla, sedano, carota e pepe. C’è chi usa la pentola a pressione che abbrevia i tempi ma sfibra la carne e la consistenza finale cambia. Se volete conservare il sapore nella carne immergetela quando l’acqua bolle, se volete ottenere anche del brodo saporito mettete metà della carne con l’acqua fredda e metà quando bolle. Qualche buon osso (coda, ginocchio, ossobuco) aiuta il brodo ma è ininfluente per le polpette. 79
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Herschel & Svarion
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RITRATTI
Futurismo in Polesine
Sopra da sinistra: Nello Voltolina, "Autoritratto", 1932 Angelo Prudenziato, "Autoritratto con benda", 1929 Leonida Zen, "Autoritratto"
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Tre artisti di grande vigore e ispirazione ci hanno lasciato opere straordinarie che vale la pena ricordare
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di Sergio Garbato
l Polesine ha avuto una sua non breve stagione futurista, della quale si è persa memoria, a dispetto di una benemerita mostra a palazzo Roncale con tanto di catalogo, che risale ormai a ventiquattro anni fa. Tre gli artisti polesani che avevano aderito al movimento futurista, o meglio a quella sua seconda fase che avrebbe occupato gran parte degli anni Trenta, non evitando le contaminazioni con il fascismo. Stiamo parlando di Nello Voltolina originario di Donada, del rodigino Angelo Prudenziato e dell’adriese Leonida Zen. C’era stato, però, una sorta di preludio, senza opere d’arte e senza fascismo, anche se quest’ultimo appare inconsapevolmente prossimo, o addirittura preannunciato. Il tutto, specialmente, nella figura anomala (e non solo in Polesine) di un giovane animato da uno spirito di rivolta incontenibile, che sarebbe poi stato un fascista della prima ora, fedele per sempre allo squadrismo e proprio per questo incapace di venire a patti con quanto sarebbe successo dopo, finendo per essere in qualche modo segnato a dito per la sua irriducibilità. Stiamo parlando di Pino Bellinetti, gran giornalista e agitatore di indubbia efficacia. Proprio Pino Bellinetti, quando era ancora giovanissimo studente, ebbe i primi contatti con il Futurismo, a Padova nel 1912, portandosi dietro una gran voglia di cambiamento, che comunicò e diffuse ad amici e conoscenti. Grandi propositi e progetti, ma due anni dopo, Bellinetti e i suoi sodali erano già arruolati nelle file dell’interventismo. Se nel 1919 troviamo Telesforo Lanzone, che sarebbe poi stato l’ultimo direttore del Corriere del Polesine, iscritto al Fascio futurista di Ferrara (e i rapporti con il fascismo ferrarese, tramite Umberto Klinger di qua dal Po e Italo Balbo dall’altra parte, sarebbero diventati se non fraterni assai stretti, ma è un’altra storia), sarà solo nella seconda metà degli anni Venti, vale a dire dopo l’affermazione definitiva di Mussolini e del suo partito e addirittura dopo il delitto Matteotti che sparigliò le carte del potere in Polesine, che Filippo
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RITRATTI
Tommaso Marinetti approderà ad Adria e a Rovigo, accompagnato dai futuristi padovani. Ma perché i futuristi di casa nostra offrissero i loro primi contributi artistici al movimento di avanguardia, che era entrato ormai nella sua fase più matura e meno aggressiva, bisognerà aspettare, appunto, gli anni Trenta.
Nello Voltolina, Glorificazione della terra, 1934, olio su tela 158x133 collezione privata Rovigo
Nello Voltolina, Aeropittura: Palude da 1000 metri o Paesaggio, 1935, olio su tavola 44,5x33,5, collezione privata Roma
Infatti, Marinetti si era premurato di enunciare una nuova fase del Futurismo, solennemente, con un apposito manifesto, pubblicato sulla Gazzetta del popolo il 28 dicembre del 1930. Proprio in quel torno di tempo, infatti, esordiva il futurismo polesano che si può condensare, appunto, intorno alla giovinezza operosa di Nello Voltolina, Angelo Prudenziato e Leonida Zen. Artisti fra loro diversissimi, per formazione e stile, i tre parteciparono a quella ripresa del Futurismo, voluta e capeggiata dallo stesso Marinetti, animato da un nuovo entusiasmo. Ecco nel 1931, a Padova, appunto, nella mostra dedicata ai «7 futuristi padovani» capeggiati da Carlo Maria Dorvàl, l’esordio di Nello Voltolina, che ritroveremo due anni dopo alla prima Mostra Nazionale Futurista a Roma con una personale di dieci opere. Ma in quell’occasione ci sarà anche l’esordio del rodigino Angelo Prudenziato. E nel Salone del Grano di Rovigo, appunto, nel 1936, i nostri due futuristi parteciperanno alla seconda Mostra d’arte sindacale Polesana. La mostra successiva, che avrà luogo nel 1939 nel salone Bocchi ad Adria, vedrà, infine, l’esordio di Leonida Zen, «tenuto a battesimo» dallo stesso Prudenziato. Ma tutto finirà lì, perché la guerra travolgerà ogni cosa: Nello Voltolina morirà nella chiesa degli Eremitani a Padova durante il tragico
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bombardamento del marzo 1944, Leonida Zen passerà nelle file della Resistenza per poi, dopo un soggiorno in sanatorio, trasferirsi a Bassano del Grappa dove si spegnerà nel 1962, mentre Prudenziato si rintanerà in Polesine. Quanto al contributo di questi tre artisti (ma bisognerebbe parlare anche di Bruno Munari, che nel 1929 aveva lasciato Badia Polesine per Milano, dove l’anno dopo aveva aderito a sua volta al Futurismo con le “macchine inutili”) è, sì, limitato nel tempo, ma importante, perché quella giovanile stagione futurista resterà un momento fondamentale nello sviluppo della loro opera, riaffacciandosi più volte, sia pure in modi diversi. Nello Voltolina, che non a caso si firmava “Novo” ed è stato forse il più grande dei tre, punta soprattutto sulla aeropittura, aderendo in maniera personalissima al Manifesto del 1929 redatto da Marinetti, Balla, Depero, Prampolini e altri. Voltolina, come ha scritto Diana Barillari, “elimina l’esaltazione tecnologica del mezzo e la fantasmagoria dei panorami in virata-picchiata acrobatica, preferendo utilizzarne le potenzialità di sistema di rappresentazione del paesaggio, che non è una sintesi simultanea di vedute, quanto una ricognizione zenitale, che permette ancora di seguire la topografia dei luoghi”. Si tratta di una inconscia necessità di realismo, che l’amico Silvio Marchesani aveva rilevato fin dal 1933 (“è nato in un paese di palude, dall’orizzonte piatto, tra acquitrini e dune sabbiose”). Tra i molti quell’Aeropittura datata 1935 e initolata “Palude da 1000 metri”, esposta nello stesso anno alla Quadriennale di Roma e, nel 1936, alla Seconda Mostra d’Arte Sindacale Polesana di Rovigo. In quello stesso 1936 si laurea in
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Angelo Prudenziato, Semaforo, 1933, olio su tavola 59x43, collezione privata Rovigo
Angelo Prudenziato, Bolide o Bolide luminoso-strada o Bolidestrada, 1934, olio su tela 80x60, collezione privata Rovigo
RITRATTI
scienze economiche e l’anno dopo viene assunto dall’azienda aeronautica Savoia Marchetti nell’ufficio di Roma e progressivamente l’attività pittorica si dirada fino a interrompersi o quasi nel 1940.
Leonida Zen, Pesci, 1938-1957, olio su tavola 40,5x41, collezione privata Roma
Leonida Zen, Autoritratto, 1940, olio 84x66, collezione privata Roma
La stagione futurista di Angelo Prudenziato si riassume, per la verità, in poche opere, risalenti al triennio 1931-34 nel segno di Balla e Prampolini, tutte però di vivida presenza e forte suggestione, soprattutto perfette e concluse in se stesse, come è il caso dei due «semafori». Troppo varia e divagante (ma con costrutto e sovente con risultati straordinari) l’opera di Prudenziato per ritrovare le tracce di quella stagione, alla quale tuttavia aveva continuato sempre a volgersi. A sfogliare i giornali di quegli anni lontani, ci si rende conto che il Futurismo polesano aveva in sé una ipoteca adriese. Già quei paesaggi cittadini con il canale e le campagne attraversate da corsi d’acqua e delimitate da alberi finivano per digradare in un impianto che sacrificava al futurismo, non sempre convinto ma di sicura efficacia. Per la verità, il futurista più creativo e autentico era Leonida Zen, che era di fatto un autodidatta e aveva coltivato nella prima giovinezza quel paesaggismo tipicamente adriese, che lo aveva fatto avvicinare a Boccato. La sua adesione al movimento di Marinetti, pronubo lo stesso Prudenziato, era arrivata con la mostra dei futuristi veneti (aeropittura e aeroscultura, gastroplastica, inagurata da Marinetti nel 1938 ad Adria). Come aveva sollecitamente scritto il corrispondente del Polesine Fascista: è presente “un nucleo di pittori adriesi che per la prima volta, attratti dall’ideale futurista , si cimentano nell’arte della velocità, della sintesi e della simultanei-
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tà, primo fra tutti e già affermatosi, il pittore Leonida Zen, assai ben affiancato dai giovanissimi Carlan e Chiaratti”. Purtroppo, ci sono pervenute pochissime prove di Zen che non permettono di dare una valutazione precisa, anche se si nota una adesione personalissima al futurismo, che passa attraverso il divisionismo. Ma la stagione futurista è ormai agli sgoccioli e la guerra cambia tutto. Zen, che pure non aveva mancato nelle sue opere di omaggiare Mussolini e il fascismo, passa nelle file della Resistenza e abbandona il Futurismo. Nel 1952 si trasferisce a Bassano del Grappa, dove morirà dieci anni dopo.
Le immagini in queste pagine sono tratte dal catalogo "Futuristi in Polesine" pubblicato nel 1992 dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo
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MESSAGGIO REDAZIONALE
BANCADRIA: OTTAVA EDIZIONE DEGLI “APPUNTAMENTI IN CORTE”
Monselice, danza a Villa Duodo
Bosco Mesola, "Ensemble musica nova" Conservatorio "A. Buzzolla" di Adria Chioggia, "Piccola Orchestra Balthazar"
Attenzione al bello e al buono 90
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ella presentazione del librettoprogramma della Rassegna il saluto di Giovanni Vianello, Presidente di Bancadria-Credito Cooperativo del Delta, così concludeva: “…un ringraziamento è d’obbligo a quanti hanno messo a disposizione le loro qualità per far sì che l’edizione 2016 venga ricordata come una tra le migliori di questa Rassegna estiva”. Ora che l’ottava edizione è terminata si può dire che gli auspici del Presidente sono stati centrati! Infatti “Appuntamenti… in Corte”, che si è svolta presso diciassette municipalità facenti capo al territorio di competenza della Banca, nell’anno del 120° anniversario dalla Fondazione, è stata ricca di spettacoli, di intrattenimenti, di momenti di degustazione enogastronomica, a suggello di una accresciuta attenzione “al bello e al buono” per tutto ciò che riteniamo rappresentino per la nostra cultura e le nostre tradizioni locali.
Lusia, Corte Barison
Tutte le Amministrazioni hanno apprezzato il rinnovato invito della Banca e si sono fortemente impegnate a fare del loro meglio proponendo con qualità e gusto le loro serate nelle splendide cornici delle Corti. Tra le novità sono venute “alla luce” due Corti prima sconosciute: una a Stanghella, l’altra a Vescovana. Un’altra novità ha riguardato l’introduzione tra gli spettacoli della danza e ciò grazie alle proposte delle municipalità di Porto Viro e di Monselice. La Rassegna è iniziata con Adria il 4 giugno ed è terminata il 18 settembre a Stanghella, proponendo diciassette spettacoli suddivisi in sette rappresentazioni teatrali, cinque concerti musicali o lirici, cinque tra spettacoli di danza e proposte varie. Un panorama che ha accontentato gli oltre cinquemila presenti alle serate.
Loreo, Gruppo folkloristico "Bontemponi"
L’iniziativa ha visto la partecipazione, in sequenza temporale, dei seguenti Comuni: Adria, Granze, Porto Tolle, Vescovana, Lusia, Rovigo, Mesola, Chioggia, Badia Polesine, Porto Viro, Monselice, Rosolina, Cavarzere, Pettorazza Grimani, Taglio di Po, Loreo e Stanghella. Questa edizione sarà sicuramente ricordata come una delle migliori della Rassegna estiva di Bancadria-Credito Cooperativo del Delta.
Stanghella, Corte Trevisan
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Giuseppe Pastega
Gli anni tra il 1914 e il 1918 sconvolsero la politica, l’economia, la società intera a livello internazionale, ma anche la vita di ogni singola città e di ogni persona di quel tempo. In questo libro l’autore descrive i fatti accaduti ad Adria in ambito politico e civile, i dibattiti che precedettero e accompagnarono il conflitto, l’azione della Amministrazione civica e l’organizzazione degli enti e dei gruppi sociali di fronte alle esigenze della guerra, ai sacrifici imposti, ai problemi di ogni ordine.
Giuseppe Pastega
Giuseppe Pastega è nato a Pederobba (TV) nel 1938. Laureato a Padova in Lettere ha iniziato ad insegnare nel 1961 nelle scuole medie e superiori. Trasferitosi ad Adria nel 1964 è stato docente di Lettere presso l’I.T.C. “G. Maddalena” e poi Preside per 25 anni in vari Istituti di Adria, tra cui il Liceo “C. Bocchi”. È stato presidente della Fondazione Scolastica “C. Bocchi”. Negli ultimi anni si è particolarmente dedicato alla ricerca storica e d’archivio, pubblicando presso Apogeo Editore, nella Collana “Le Radici”, nel 2003 Il Ginnasio liceo “Carlo Bocchi” di Adria. La prima scuola superiore ad Adria tra cronaca e storia, nel 2006 et vadi alla bona ventura. Trecento anni di storia dell’Ospedale Civile di Adria, nel 2010 Gli Annali Guarnieri-Bocchi (1745-1848). Un secolo di cronaca e storia adriese e nel 2013 Il piacere delle “memorie”. Francesco Girolamo Bocchi Erudito, storico e archeologo adriese (1748-1810). Nel 2016 l’Amministrazione Comunale gli ha conferito la benemerenza “Adria riconoscente”.
Euro 15.00
Giuseppe Pastega
Adria negli anni della Grande Guerra Tra cronaca e storia Dai verbali del Consiglio Comunale e dalle pagine del Corriere del Polesine
Adria negli anni della Grande Guerra
“Non posso raccontarti tante cose, ti dico solo che sono caduto nell’inferno senza morire”
La Grande Guerra vissuta, sofferta e affrontata in una città del Polesine. “Adria negli anni della Grande Guerra” racconta la vita politica, sociale ed economica, i dibattiti che precedettero e accompagnarono il conflitto, l’azione dell’Amministrazione civica, l’organizzazione dei vari enti e gruppi sociali di fronte alle esigenze straordinarie imposte dalla guerra e le vicende del primo dopoguerra. Tutto viene minuziosamente analizzato in una “microstoria locale” continuamente intrecciata con i grandi avvenimenti nazionali e internazionali che per lunghi anni sconvolsero la società mondiale. La vita di guerra, i sacrifici imposti ai singoli e alla comunità, i lutti che colpirono indistintamente quasi tutte le famiglie, la percezione che nel territorio si ebbe degli avvenimenti del fronte, tutto viene raccontato in una “cronaca” che ha come fonti privilegiate i verbali del Consiglio Comunale di Adria e le pagine del Corriere del Polesine, il quotidiano allora più diffuso a livello locale. “Adria negli anni della Grande Guerra” è un libro piuttosto unico nel suo genere, di facile e scorrevole lettura, vivo ed interessante per il lettore che troverà la Grande Guerra narrata dal particolare punto di vista: quello di Adria e della sua gente. Due brevi saggi, sulle lettere dal fronte, con alcuni inediti di combattenti adriesi, e sulle donne e la guerra, completano la narrazione. L’appendice è dedicata alla memoria dei caduti adriesi, quasi tutti giovani e giovanissimi.
Carlo Piombo
Terra e Cielo Euro 15.00
In copertina: calco di uno dei due leoni in bronzo opera di Gaetano Samoggia (v. foto a pag. 208) collocati ai lati dell’ingresso della chiesa di San Nicola da Tolentino ad Adria, oggi Monumento ai Caduti di tutte le guerre.
ISBN 978-88-99479-11-4
EURO 15,00 (i.i.)
Carlo Piombo
Carlo Piombo
Terra e Cielo Pensieri in libertà nei luoghi dove porta la vita
1946 - 2016
Biografia
C’è adesso un Paese di poca memoria che ancora non ha saputo cogliere l’eredità della storia.
Caterina Zanirato
rossoblù. Da Dino Lanzoni, che portò la prima palla ovale in città, nel 1935, al commendator Francesco Zambelli, attuale patron della società, passando per i grandi atleti e tutte le persone che con passione e coraggio hanno dedicato la loro vita a uno sport che da sempre vive nell’anima di un’intera città. Ma questa non è solo la storia di una squadra e di uno sport. È molto di più. È un insegnamento di vita. La storia della Rugby Rovigo si intreccia e si fonde con quella di un territorio, il Polesine, e dell’Italia intera. Dalle linee di meta al Fronte della seconda guerra mondiale, dai campi di gioco alle distese d’acqua durante l’alluvione del 1951, quando i giocatori si sono fermati per aiutare la popolazione in difficoltà, fino ad arrivare ai giorni nostri. Tra successi e delusioni, vittorie e sconfitte, arresti e ripartenze, Il cuore sotto la maglia è il racconto entusiasmante di un viaggio lungo ottant’anni, di una passione che brucia ancora oggi, che Caterina Zanirato, giornalista rodigina, ha ricostruito scoprendo le anime, le idee e gli slanci delle persone che hanno dato forma al grande sogno della Rugby Rovigo: una squadra che è diventata il simbolo di una città.
ISBN 978-88-99479-07-7
Il cuore sotto la maglia EURO 15,00 (i.i.)
Euro 15.00 Questa non è solo la storia di una squadra e di uno sport. È molto di più. È un insegnamento di vita. La storia della Rugby Rovigo si intreccia e si fonde con quella di un territorio, il Polesine, e dell'Italia intera. Tra successi e delusioni, vittorie e sconfitte, arresti e ripartenze, questo libro è il racconto entusiasmante di un viaggio lungo ottant’anni, di una passione che brucia ancora oggi.
Ci sono France presto alla vita, diviso la dura e stata di fatica e Giacomo emigr nico e Piero na morti in guerra città. Per ognun giuste, lasciand pianto che è il chiedersi, alla fi voce. Ma ci so lontanissimi, che storia antica, ch to. Poco o niente ma la certezza ai corpi ritrovati te di Rovigo. I c ni sposi etrusch rivolti verso la v Piombo ne ricos e il viaggio, co tenerezza. Ci so ha logorato e m scibili, ma nella la loro carica d
da
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il cuore sotto la maglia
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Il cuore sotto la maglia non racconta solo il sogno di una squadra che da ottant’anni vive e pulsa dentro ognuno di noi. È molto di più: è un libro che ci insegna a non fermarci di fronte alle difficoltà, a entusiasmarci, a essere noi per primi i protagonisti della nostra vita. Mattia Signorini
C’era una volta un Paese di grandi ideali che uomini e donne, ad armi deposte, hanno saputo tradurre in regole nuove per un mondo migliore.
Carlo Piombo è nato a Pontecchio Polesine nel 1943. Ha operato per quasi cinquant’anni, con diversi incarichi, nel campo della bonifica e dell’irrigazione, concludendo la sua attività lavorativa come direttore generale del Consorzio Polesine Adige Canalbianco, il più esteso della provincia di Rovigo. È stato sindaco di Rovigo, presidente dell’Usl n. 30 e cofondatore dell’Orchestra RegioLa Rugby Rovigoper non un è solo una squadra, è un sonale Filarmonia Veneta, di cui è stato presidente decennio. Caterina Zanirato gno. tecniche È il sognosulla di generazioni giocatori, tifosi, È autore di numerose pubblicazioni bonifica,didel e tecnici che per ottant’anni hanno messo racconto Stefano dal violino e del dirigenti romanzo Una vita in 56 giorni, le loro energie e le loro idee al servizio della maglia pubblicato nel 2014.
Rugby Rovigo, ottant’anni di sogni da Lanzoni a Zambelli
«L’immortalità nasce dal ricordo che lasci, non dalle vittorie in campo»
il cuore sotto la maglia
Caterina Zanirato è nata nel 1982 a Rovigo ed è laureata in Scienze della Comunicazione con specializzazione in Giornalismo. Ha lavorato nelle redazioni de Il Resto del Carlino e della Gazzetta di Parma. Ha collaborato con Il Fatto quotidiano e cura l’organizzazione di eventi e l’ufficio stampa di realtà foto di Emanuele Morini sportive e imprenditoriali. Conduce il programma di approfondimento Reporter Doc per Delta Radio. Ha pubblicato con Leonardo Raito il libro-intervista Rovigo, 3 gennaio 1982 (Apogeo Editore) sul famoso attentato terroristico al carcere negli anni di piombo.
Caterina Zanirato
I LIBRI DEL 2016
Adria negli anni della Grande Guerra
Da oltre quindici anni Carlo Piombo si dedica, quando qualcosa che ha dentro lo preme e lo incoraggia, alla scrittura. A spingerlo c’è, presumibilmente, il desiderio di non perdere nelle nebbie della memoria momenti importanti (e forse anche determinanti), gioie e tristezze, affetti e, più di tutto, uno sguardo personale, che è frutto dell’esperienza vissuta, ma anche e specialmente senso della propria presenza nel mondo.
A cura di Francesca Visentin
Io sono il Nordest
rittrici, le voci più del Nordest, territorio e rinascita, raccontano ndimenticabili
io sono il nordest io sono il nordest
nza, lavoro, famiglia, potere, vendetta
Voci di scrittrici per raccontare un territorio a cura di Francesca Visentin
di scrittrici sostiene il Centro Veneto nlus, che aiuta donne italiane e straniere e di violenza e maltrattamenti.
dalla prefazione di Marina Salamon
Se ne va nel fresco mattino il miele compatto della notte ai raggi del sole tenero e sciolto zucchero pronto a lenire la fame o solo addolcir le papille del cuore se nella gerla non v’è più pane.
osonoilnordest.it
Ambra Guzzon
D’amore e lotte
Euro 15.00 Ci sono Francesca e Barbara strappate troppo presto alla vita, il nonno Vittorio che aveva condiviso la dura esperienza degli scariolanti impastata di fatica e malattia, il compagno di giochi Giacomo emigrato in Argentina, i fratelli Domenico e Piero nati e cresciuti tra i Colli Euganei e morti in guerra, Marcello innamorato della sua città. Per ognuno Carlo Piombo trova le parole giuste, lasciando scivolare tra le righe quel rimpianto che è il prezzo per l’onore di vivere e chiedersi, alla fine, cosa rimane nel sussulto della voce. Ma ci sono altri personaggi, misteriosi e lontanissimi, che hanno i nomi e le forme di una storia antica, che è quella del Polesine tanto amato. Poco o niente si sa, ipotesi e speranze oscure, ma la certezza e la forza dei sentimenti davanti ai corpi ritrovati negli scavi archeologici alle porte di Rovigo. I corpi di Cneve e Sathanei, giovani sposi etruschi, sepolti l’uno accanto all’altra, rivolti verso la vagheggiata città di Adria. Carlo Piombo ne ricostruisce, quasi in sogno, la storia e il viaggio, con parole intrise di straordinaria tenerezza. Ci sono, infine, i luoghi, che il tempo ha logorato e mutato, rendendoli talora irriconoscibili, ma nella memoria sono rimasti intatti, con la loro carica di affetti e suggestioni. (...)
A cura di Stefano W. Pasquini
Elia. Artista
ISBN 978-88-99479-14-5
EURO 15,00 (i.i.)
D’amore e lotte
a cura di Francesca Visentin
e di Marina Salamon
giovane autrice una forma poetica nella quale il senso si salda alla melodia; soprattutto, la ricerca di un significato e di un valore del nostro vivere attraversa costantemente il ritmo di queste poesie, regalando al lettore emozioni non sempre facili ed elementari di cui, in un mondo complesso e confuso, abbiamo tutti una grande necessità.
Ambra Guzzon
rslan, Isabella Bossi Fedrigotti, Tolusso, Gabriella Imperatori, ederica Sgaggio, Michaela K. a Diano, Elena Girardin, Anna lisa Bruni, Antonella Sbuelz, Maria Pia Morelli, Serenella Vella, Francesca Visentin
Questo è un libro bellissimo, non solo per il valore di ognuno dei racconti, ma perché contiene tanti riferimenti alle nostre storie individuali, a ciò che sta accadendo intorno a noi... Leggerlo è stato come incontrare nei racconti altre persone, attraverso le loro piccole, ma importanti storie. Le storie individuali compongono la grande storia del mondo, che non è fatta di date e battaglie, ma di vite vissute... Credo sia tempo di fare emergere le nostre storie di donne: non certo in contrapposizione agli uomini, ma per ricostruire insieme una società nuova, che rilegga insieme passato e presente. È l’unica strada per proiettarci verso un futuro più equilibrato, oltre gli anni del mitico boom economico e quelli successivi, attuali, della paura del cambiamento... Ho ritrovato in questo libro le storie di uomini e donne irrisolti e di ragazzi in crisi, dentro una società (la nostra) malata di benessere e solitudine.
Talento, impegno, dolore, amore, resistenza nonostante prevaricazioni e discriminazioni. La forza inesauribile, la positività e la voglia di futuro, le piccole e grandi battaglie vinte ogni giorno, sono una ricchezza femminile unica, che emerge in questo libro attraverso i racconti delle scrittrici del Nordest. Nella loro scrittura c’è profondità. Un’umanità intensa, un’energia unica. Sono persone bellissime, ancora prima che scrittrici. Sanno raccontare, suscitano emozioni. www.iosonoilnordest.it
Ambra Guzzon
D’amore e lotte
Nelle librerie e online
Ambra Guzzon è nata a Rovigo e vive in campagna vicino a Cavarzere. Pratica la scrittura da molto tempo, come uno strumento per conoscere se stessa e il mondo. Alla poesia ed alle sue particolarità espressive si è avvicinata più di recente sperimentando, attraverso molteplici variazioni di linguaggio e di misura, un modo di intensità nuova per conoscersi, per conoscere e per cercare di spiegare e di spiegarsi le gioie e le ansie, i piaceri e i dolori del nostro rapporto con la vita di tutti i giorni. Molti di questi testi nascono da domande che ci poniamo costantemente, i cui tentativi di risposta, necessariamente profondi e complessi, trovano nei versi di questa
Euro 15.00 La ricerca di un significato e di un valore del nostro vivere attraversa costantemente il ritmo delle poesie di questa giovane autrice, regalando al lettore emozioni non sempre facili ed elementari di cui, in un mondo complesso e confuso, abbiamo tutti una grande necessità.
dalla prefazione di Sergio Garbato
Elia (Alessandro Greggio) nasce ad Adria (RO) il 26 agosto 1968. Frequenta il Liceo Scientifico di Rovigo per poi iscriversi alla Scuola di Pittura di Giovanni D’Agostino all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Da subito il suo modo di dipingere, impetuoso e innovativo, riscuote l’approvazione di molti professori dell’Accademia, ed Elia vince numerosi premi negli anni di studio. Nel 1992 partecipa al Progetto Erasmus e passa tre mesi a Berlino, esperienza che lo influenzerà profondamente. La sua ricerca pittorica, basata sull’amore degli Oggetti d’Affezione di Man Ray e i Combine Paintings di Robert Rauschenberg, spesso fa uso di oggetti per sfociare alle volte nella vera e propria scultura. Eppure essa rimane ricerca pittorica, come dimostreranno le opere degli ultimi anni. Dopo il 1992 Elia tornerà brevemente ad Adria per poi trasferirsi definitivamente a Bologna fino al 2005, anno della sua morte. A Bologna Elia dipinge incessantemente e si guadagna da vivere come decoratore, designer e restauratore di mobili. Dal 2001 affianca Stefano W. Pasquini, poi Stefano Questioli, nell’organizzazione delle mostre espositive alla galleria Sesto Senso, che aveva ospitato una sua mostra personale nel 2001. Precedentemente le sue personali erano state Gift for an Enemy, alla Tacheles di Berlino, e a “Le Stanze” a Bologna. Nel 2002 Marco Mango inaugura alla Galleria 42 Contemporaneo di Modena una personale di Elia, che lo porterà ad esporre anche a Mantova e Reggio Emilia. Le sue mostre collettive includono la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, l’Accademia dei Concordi di Rovigo, Oxfam di Londra, il Palazzo Comunale di Ortisei. Lo stile di vita libero e confusionario di Elia non ha mai contrastato con la sua ricerca pittorica astratta, che era sentita, gestuale, strettamente al passo con i tempi. Il suo fare leggero e curioso, al di fuori dei grandi circuiti dell’arte, non ha permesso di avvicinare il grande pubblico alla sua pittura, malgrado un certo numero di collezionisti amassero il suo lavoro. La prematura morte di Elia lascia un’incognita sul suo fare pittorico: la sua ricerca gestuale, cerebrale, caparbia e motivata, si interrompe. Il suo agire in territori altri viene ricordato da Silvia Evangelisti, sua ex-professoressa ed amica, che ha scritto: “La città perde una figura emblematica di un certo clima che non è nostalgia, ma un’esigenza”.
ISBN 978-88-99479-10-7
€ 15,00
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Elia (Alessandro Greggio) nasce ad Adria nel 1968. Frequenta la Scuola di Pittura di Giovanni D'Agostino all'Accademia di Belle Arti di Bologna. Da subito il suo modo di dipingere, impetuoso e innovativo, riscuote l'approvazione di molti professori dell'Accademia, ed Elia vince numerosi premi negli anni di studio. Nel 1992 partecipa al Progetto Erasmus e passa tre mesi a Berlino, esperienza che lo influenzerà profondamente. La sua ricerca pittorica, basata sull'amore degli Oggetti d'Affezione di Man Ray e i Combine Paintings di Robert Rauschenberg, spesso fa uso di oggetti per sfociare alle volte nella vera e propria scultura. Eppure essa rimane ricerca pittorica, come dimostreranno le opere degli ultimi anni. Dopo il 1992 Elia tornerà brevemente ad Adria per poi trasferirsi definitivamente a Bologna fino al 2005, anno della sua morte.
Paolo Spinello Diffusione Editoriale Apogeo Editore www.psde.it paolospinellode@gmail.com 0426 23783 347 2350644
I COLLABORATORI DI QUESTO NUMERO
Natalino Balasso è attore, comico e autore di teatro, cinema, televisione e libri. È nato a Porto Tolle nel 1960. Ha debuttato in teatro nel 1990, in televisione negli anni '90, nel cinema nel 2007 e pubblica libri dal 1993. È collaboratore di Rem fin dal primo numero. Marco Barbujani è nato ad Adria nel 1992. Laureato in Scienze Forestali, si occupa di analisi cartografiche su GIS, consulenza ambientale e comunicazione della scienza. Collabora con la rivista scientifica per ragazzi PLaNCK! Mario Bellettato è nato ad Adria nel 1956. Dopo gli studi classici e la laurea in giurisprudenza ha intrapreso una carriera manageriale che lo ha portato a lunghe permanenze all’estero. Ha lavorato come copywriter per alcune agenzie di pubblicità e si è occupato di formazione per l’Unione Europea. È attualmente responsabile commerciale di un’azienda del settore energie rinnovabili. Ha pubblicato il romanzo “Il sognatore”. Emy Bernecoli, violinista adriese, si è diplomata con 110 e lode al Conservatorio di Musica di Adria e all’Accademia Nazionale
di S. Cecilia di Roma col massimo dei voti. Incide per la casa discografica internazionale Naxos le musiche degli autori italiani del ‘900 e pubblica le sue revisioni per le edizioni Suvini Zerboni di Milano e Ut Orpheus di Bologna. Negli ultimi due anni ha pubblicato alcuni preziosi inediti di Fiorenzo Carpi e Ottorino Respighi; i suoi dischi hanno suscitato gli entusiasmi della critica nazionale ed internazionale, ricevendo la Nomination agli ICMA 2014. www.emybernecoli. com
re dell’Associazione “Ca’ Cornera, dove il Po si fa cultura”. Mohammed Qassim Habib è nato in Iraq. Ha vissuto e lavorato come cuoco, con una propria attività a Baghdad fino al 2005, quando si è trasferito in Italia. Qui gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Ha lavorato come insegnante di lingua araba, mediatore, operatore sociale e molto altro. A livello locale, ha svolto numerose attività di volontariato con persone disabili, bambini stranieri, persone senza casa. Ha collaborato con l'Arci ad un progetto di accoglienza dei migranti a Lampedusa.
Sergio Garbato, laureato in lingue e letterature straniere, ha insegnato nelle scuole superiori. È socio dell’Accademia dei Concordi. Collabora con articoli e saggi a riviste e periodici, cura programmi di sala e presentazioni di mostre d’arte. Da più di trent’anni è collaboratore de “Il Resto del Carlino” e per l'edizione di Rovigo si occupa quotidianamente della pagina dedicata alla cultura e agli spettacoli. Ha curato mostre ed esposizioni e pubblicato numerosi saggi su teatro, arte, musica, storia e alcuni volumi dedicati a Rovigo e al Polesine.
Herschel & Svarion, né il primo, né il secondo ricorda come si sono conosciuti, ma nel 2015 un incidente del destino li ha portati a lavorare a quattro mano al libro “Scarafaggi”, un libro di vignette ideate da Herschel e disegnate da entrambi. Entrambi abbondantemente trentenni, entrambi di Rovigo, entrambi dediti a mille progetti, Herschel & Svarion si sono facilmente ritrovati nell’idea di usare il fumetto come strumento per parlare, con toni leggeri, di temi quali politica, diritti civili, immigrazione, ingiustizie socia-
Gianpaolo Gasparetto è promotore e curatore di eventi culturali, fondato94
li. Temi che appassionano entrambi, vuoi per spiccato senso civico, vuoi per il gusto di essere fastidiosi. Con “Polleggiao”, di cui presentano quattro tavole in esclusiva in questo numero, stanno lavorando a un progetto completamente nuovo per temi e stile narrativo, che dovrebbe vedere la luce nel 2017. Antonio Lodo è nato e vive ad Adria. Ha lavorato nella scuola come docente e, per molti anni, come dirigente scolastico. Si occupa da sempre di temi culturali, con ricerche, conferenze, presentazioni di libri e autori. Marco Tugnolo, 30 anni, laureato in Economia e gestione delle imprese e degli intermediari finanziari nel 2010, esperienza bancaria di quasi cinque anni in Banca Adige Po di Lusia e Bcc Polesine tra gennaio 2011 e agosto 2015. Licenziato nell’agosto 2015, ha lasciato l’Italia a settembre 2015. Lavora adesso come fundraiser raccogliendo fondi e donazioni per comunità di paesi in via di sviluppo per Childfund Australia.