RED SHOES MAGAZINE | Febbraio/Marzo 2023

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VLADO MICOV SHABAZZ NAPIER UNDER 19 ALLE FINAL EIGHT DAN
FEBBRAIO/MARZO 2023
PETERSON

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3 REDSHOESMAGAZINE 30 Next Generation 20 Shabazz Napier 28 Le 100 di Kyle Hines 4 Dan Peterson 14 Vlado Micov
Dan Peterson assicurandosi la PetersonLo portò Bogoncelli, Il suo legame Per

Per questo, il numero 36 verrà ritirato dal club

Peterson ha allenato l’Olimpia Milano per nove stagioni vincendo quattro scudetti, una Coppa dei Campioni, una Coppa Korac, due Coppe Italia.

Nella stagione 1986/87 l’Olimpia ha realizzato il cosiddetto Grande Slam, assicurandosi titolo europeo, titolo italiano e Coppa Italia. Peterson è nato il 9 gennaio 1936, stessa data di fondazione del club. L’Olimpia he deciso in suo onore di ritirare appunto la maglia numero 36. Ecco la sua storia a Milano.

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Peterson
Bogoncelli, se ne andò vincendo tre titoli in un anno inclusa la Coppa dei Campioni.
legame con l’Olimpia è scritto nella data di nascita.
Dan

Dan Peterson arrivò in Italia, a Bologna, quasi per caso: il prescelto della Virtus era il coach di origini siciliane Rollie Massimino, ma questi venne chiamato dalla Villanova University, dove nel 1985 avrebbe vinto il titolo NCAA, e si tirò indietro all’ultimo momento. La Virtus voleva lo stesso un americano. Richard Kaner, agente vecchio stampo, molto attivo a quei tempi, un grosso nome, propose Peterson che era libero. Fu Chuck Daly, che era stato all’università della Pennsylvania e ai 76ers (successivamente due titoli NBA con Detroit e l’oro olimpico 1992 con il Dream Team) a segnalare Peterson a Kaner durante una Final Four NCAA, il luogo in cui tutti gli allenatori americani convergevano spesso per fare mercato. La Virtus si fidò di Kaner e Peterson accettò la proposta. Fino a quel momento aveva avuto una carriera atipica: aveva allenato da capo allenatore un college di terza divisione, McKendree, e come assistente anche a Michigan State sotto Forddy Anderson, poi era stato eccellente coach dell’università del Delaware. Al termine di quella esperienza, era diventato il coach della Nazionale cilena consegnandola ai migliori anni della sua storia. “Da americano facevo tutto a cento all’ora, loro facevano tutto a due all’ora e un giorno il presidente mi chiamò e mi diede una lezione di vita: Dan, tu vai a cento, noi a due, ora andiamo a cinquanta all’ora e nessuno è contento”, dice. Adattarsi al contesto, all’ambiente: questa era stata la lezione, che il Coach mise a frutto a Bologna.

Per cinque anni svolse un grande lavoro a Bologna vincendo lo scudetto e consegnando al suo ex giocatore Terry Driscoll la squadra che avrebbe vinto altri due scudetti dopo la sua partenza. Il primo fu contro il Billy Milano in finale. La Banda Bassotti. La squadra di Mike D’Antoni. Fu quello l’anno in cui Mike esplose e diventò Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo. Successe a Roma, contro la Stella Azzurra di un tecnico emergente di nome Valerio Bianchini: D’Antoni rubando palla dopo palla riportò l’Olimpia in partita e la condusse alla vittoria. Era nata una leggenda. In semifinale, il Billy vinse due volte a Varese: in Gara 3, Peterson utilizzò i cinque uomini del quintetto per 40 minuti filati. Finirono tutti e cinque la partita con quattro falli. D’Antoni playmaker, Sylvester e Kupec gli esterni, Gallinari e Ferracini i lunghi. La panchina era composta dai due Boselli, Francesco Anchisi, più Paolo Friz e Valentino Battisti. “Battemmo Varese in Gara 3 con sei canestri dall’angolo di Kupec. Giocava il pick and roll con D’Antoni, eseguiva un taglio a banana e riceveva in angolo. Non sbagliò mai”, racconta Peterson. Anche se in finale l’allora Sinudyne si rivelò troppo forte per Milano, la “Banda Bassotti” aveva sfondato. “Ogni partita ho avuto la sensazione che facessimo più di quanto potevamo. Eravamo aggressivi, mordevamo le caviglie a tutti. Sono orgoglioso di quella squadra. Kupec anche. D’Antoni. Tutti sono orgogliosi di aver giocato in una squadra che pure non vinse”, ricorda Peterson.

Il Coach, a Bologna aveva conquistato tutti con i pantaloni a zampa d’elefante, il rapido apprendimento della lingua, il rispetto della cultura locale e la mente aperta. Non fece il colonizzatore ma assorbì tutto dell’Italia. Quando Milano chiamò era già un coach di successo, “ma per me, americano, andare ad allenare nella New York d’Italia, non aveva prezzo. Accettai subito”. Toni Cappellari, trevigiano alla corte di Bogoncelli, una carriera da allenatore abortita presto per diventare manager, modi rudi ma grande memoria storica, portò Peterson al cospetto del grande padrino Bogoncelli. Peterson pensava di

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Russ Schoene, due anni due scudetti Mike D’Antoni, il playmaker di Coach Peterson Joe Barry Carroll a Milano nel 1984/85 Bob McAdoo arrivò nel 1986

trovarlo a Milano invece i due presero l’aereo e volarono a Parigi.

“Bogoncelli mi conquistò quando chiedendomi se immaginassi perché mi avesse scelto menzionai il lavoro di Bologna eccetera… Lui disse no, Peterson, l’ho scelta perché lei mi ispira fiducia”. Peterson veniva dalla scuola dell’avvocato Gianluigi Porelli a Bologna e si ritrovò a lavorare per Bogoncelli di cui sarebbe stato l’ultimo allenatore. “Mi chiese una cosa sola, Bogoncelli – ricorda Peterson -: non retrocedere”. Era ancora scottato per quanto accaduto nel 1976.

“Il mio primo giorno da allenatore di Milano – racconta Peterson – lo ricordo bene perché ero al Palalido con i miei assistenti Guglielmo Roggiani e Franco Casalini. Vidi i giocatori entrare uno alla volta. Tutti giovani. Roggiani mi chiese se volessi cominciare. Dissi: “Aspettiamo che siano tutti”. Eravamo tutti. Non mi ero reso conto di quanto fossimo giovani”. Secondo la stampa, Milano avrebbe lottato per non retrocedere. Invece arrivò in finale: era la squadra di D’Antoni, dei giovani, di Mike Sylvester italiano e di CJ Kupec. Ma l’anno seguente, cresciute le aspettative, la squadra si fermò in semifinale con Cantù dopo aver rischiato di finire fuori al primo turno contro Forlì. Sylvester e Kupec, che non erano mai andati d’accordo, vennero alle mani proprio alla vigilia dei playoffs. Ci fu un fallo di Kupec su Sylvester, banale. CJ la prese male, protestò con Franco Casalini e spintonò Sylvester per mostrargli cosa fosse un “vero fallo”. Mike non era un tipo facile. Volò un pugno. Alla fine, tutto venne circoscritto, ma solo fino al termine della stagione. Peterson abbozzò sul momento ma decise che a fine anno sarebbero andati via entrambi.

Dopo la Banda Bassotti e la delusione del 1980, l’Olimpia alzò notevolmente il livello del proprio roster portando a Milano John Gianelli. Quello fu l’anno maledetto della semifinale scudetto persa contro Cantù al Palazzone di San Siro con Antonello Riva che a 19 anni segnò 32 punti e pilotò la Squibb in finale e quindi allo scudetto contro la Virtus Bologna.

Ma in estate, Milano realizzò due tremendi colpi di mercato: Dino Meneghin e Roberto Premier. Il primo si infortunò subito, il secondo cominciò una lunga battaglia con Coach Dan Peterson con tema la difesa. E Peterson spremeva D’Antoni come un limone: mai un minuto di riposo. E mai un tiro in meno dei 12 che pretendeva per combattere l’indole altruista del suo playmaker. Il Billy ebbe un avvio di stagione catastrofico, a Pesaro contro il maligno bomber Dragan Kicanovic, l’Olimpia venne travolta, derisa, sbeffeggiata. 45 punti di scarto. Ma come avrebbe sempre fatto in carriera, D’Antoni annotò e non dimenticò. Al ritorno di Meneghin, la squadra si mise a giocare con le sue due torri Gianelli (più efficace al secondo anno a Milano) e appunto Meneghin.

L’Olimpia arrivò in finale nel 1982, sbancò Pesaro e poi resse l’urto in Gara 2 a San Siro. D’Antoni devastò Kicanovic – che il coach croato Petar Skansi tenne in panchina per tutto il primo tempo di Gara 2, una scelta che ancora oggi non è mai stata chiarita del tutto - con la sua difesa. Gianelli eseguì la stoppata decisiva su Mike Sylvester, un ex, e lo scudetto tornò a Milano. “Ricordo che Gianelli arrivò a Milano a poche ore dall’inizio del campionato – dice Peterson – e allora pensai di dovergli spiegare i nostri giochi. Ma

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Kenny Barlow, uno del team del Grande Slam Cedric Henderson vinse il titolo nel 1986 Roberto Premier, il bomber John Gianelli, Campione d’Italia 1982

come cominciavo a spiegare, lui anticipava le mie parole. Facevamo molte delle cose che aveva fatto nella NBA. Ed era abbastanza intelligente da ricordarle tutte”. Aveva solo un difetto: non credeva nella 1-3-1, la difesa che era il marchio di fabbrica di Peterson. “Diceva di non amare la zona e non riuscivo a spiegargli che non era una zona tradizionale. Poi in una gara di playoffs contro Mestre, lui esce per falli a metà ripresa, quando siamo sotto nel punteggio. Io chiamo la 1-3-1: c’era D’Antoni, c’era Gallinari, c’erano solo giocatori che credevano. Rimontammo e vincemmo. A fine partita mi disse che la zona aveva funzionato”. Peterson colse la palla al balzo: “John, non è una vera zona e funziona se chi la applica crede che possa avere successo”. Gianelli riconobbe il messaggio dell’allenatore: “Coach, adesso ci credo anche io”.

Nei due anni successivi, l’Olimpia perse quattro finali su quattro: contro Cantù in Coppa dei Campioni di uno, dopo una furiosa rimonta spezzata nel convulso finale, in campionato contro Roma in tre partite, nella serie in cui Peterson utilizzò in Gara 2 i 208 centimetri di Gallinari sui 183 di Larry Wright bloccando l’avversario e vincendo la partita ma non il titolo; nella Coppa delle Coppe del 1984 contro il Real Madrid, ancora di un punto, giocando senza un americano perché Earl Cureton scappò dopo poche partite e Antoine Carr non era utilizzabile; infine in campionato contro Bologna, ancora in tre partite, giocando l’ultima senza lo squalificato Dino Meneghin.

Peterson avrebbe allenato l’Olimpia per altre tre stagioni, ritirandosi a 51 anni (salvo il breve ritorno nella stagione 2010/11), ma furono i tre anni migliori. Nel 1985, arrivò Joe Barry Carroll, Peterson tagliò un americano per la prima e unica volta in carriera, sacrificando Wally Walker all’ultimo momento per proteggere Russ Schoene che l’avrebbe ripagato trascinando la squadra alla vittoria in Coppa Korac contro Varese. In campionato, con Carroll a dominare, l’Olimpia vinse i playoff da imbattuta. L’anno successivo, in Coppa dei Campioni non riuscì ad arrivare in finale, beffata dalla classifica avulsa, ma vinse la Coppa Italia e lo scudetto contro Caserta usando un 20enne americano tuttofare, Cedric Henderson. Nel 1987, arrivò il Grande Slam. In tre anni sette trofei vinti.

La strada verso il Grande Slam del 1987 cominciò con una salita ripidissima, attraverso un’impresa che sarebbe entrata nella storia. Per vincere la Coppa dei Campioni, la Tracer doveva accedere al durissimo gironcino finale a sei squadre dopo un turno preliminare che a quei tempi era considerato quasi una formalità. Ma quell’anno non lo fu. L’Olimpia venne abbinata all’Aris Salonicco. “A quei tempi non c’era lo scouting di adesso, le informazioni erano frammentarie”, ha ammesso nel suo libro Franco Casalini, assistente di Dan Peterson ai tempi. In altre parole, l’Aris venne in parte sottovalutato. Poi era fine ottobre e Milano non era in forma.

Fatto sta che nella bolgia di Salonicco, l’Olimpia venne spazzata via, perse con uno scarto di 31 punti che suonava come una condanna. 98-67. Nick Galis, il primo grande giocatore greco, di scuola americana, nativo del New Jersey, laureato a Seton Hall, fece 44 punti. Per lui fu una sorta di introduzione nell’olimpo del basket europeo: nel corso della sua carriera Galis, con il compagno di avventure Panagiotis Giannakis, avrebbe portato la Grecia al titolo europeo e un anno dopo quella gara allucinante di Salonicco,

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Earl Cureton, la star della grande fuga CJ Kupec, uno della Banda Bassotti Vittorio Ferracini vinse lo scudetto dell’82 Vittorio Gallinari, la sentinella

l’Aris avrebbe giocato la semifinale ancora contro l’Olimpia. Quindi la squadra greca era a pieno titolo in grado di competere ai massimi livelli. Nessuno però avrebbe potuto immaginare una disfatta simile per una formazione come la Tracer che puntava dichiaratamente al titolo.

Sette giorni dopo il Pala Trussardi fu testimone di una delle più grandi imprese/sorprese della storia. L’Olimpia non giocò affatto con lo spirito di chi è rassegnato ad una clamorosa uscita di scena. Giorno dopo giorno, la sensazione che si potesse fare, senza alcuna spiegazione razionale, cominciò a serpeggiare. Dan Peterson indicò la strada: un punto al minuto e ce la faremo, non serve rimontare tutto in una volta. L’Olimpia giocò una buona partita offensiva ma soprattutto una grande partita difensiva, tenne l’Aris a 49 punti, vinse di 34, segnandone 83 e festeggiò in mezzo al campo come se la Coppa dei Campioni fosse stata vinta quel giorno. E forse fu davvero così.

Mike D’Antoni come aveva fatto in passato con Kicanovic o Petrovic, decise di sperimentare fino in fondo quanto forte fosse Galis. La sua difesa cancellò dal campo il Dio greco, come era soprannominato. L’Olimpia andò subito avanti di nove, poi l’Aris rientrò a meno quattro, all’intervallo era a più 14, abbastanza da poter sperare, non abbastanza da sentirsi vicina all’impresa. Ma gradualmente arrivò l’allungo, l’Aris si bloccò, la difesa sporcava ogni possesso greco e dove non arrivava la lucidità arrivava il cuore. Sul meno 34, palla Aris, Mike D’Antoni forzò la palla persa di Galis. Peterson chiamò time-out ma con 23 secondi da giocare e D’Antoni in campo non c’era più modo di “perdere”. La gente a bordo campo, sugli spalti, esultava in una di quelle scene di giubilo che di tanto in tanto hanno costellato la grande storia dell’Olimpia. Nell’immediato dopo gara, Peterson afferrò McAdoo e gli disse “Hai visto che miracolo abbiamo fatto?”. “Coach, quale miracolo? Eravamo tutti sicuri di farcela”. “Sicuri?”. “Certo, abbiamo visto il nostro allenatore così calmo che non avevamo dubbi”. In realtà, Peterson era stato zitto una settimana perché la depressione per l’imminente eliminazione l’aveva imprigionato. Dentro, era tutto ma non era sereno. “Bob dice che quella è stata la partita più fisica della sua vita e anche l’unica volta in cui ha pensato a stoppare ogni tiro, prendere ogni rimbalzo ma non a quanti punti avrebbe segnato e dice anche di non aver mai visto Meneghin così teso prima di una partita”, dice Peterson. Il 2 aprile 1987 a Losanna, contro il Maccabi, 71-69 il risultato finale, l’Olimpia completò il lavoro convalidando l’impresa compita a Lampugnano contro l’Aris. In seguito, vinse anche lo scudetto contro Caserta rimontando in Gara 3 da meno 18. Mike D’Antoni centrò i due tiri liberi della vittoria. Il tiro conclusivo di Nando Gentile su respinto dal ferro.

A fine stagione, Dan Peterson decise di ritirarsi. Aveva tanti interessi fuori del campo, anche qualche piccolissimo problema di salute, forse era stanco mentalmente. “Forse se avessimo aspettato un po’ di tempo, forse avremmo fatto le cose diversamente”, ammise in seguito Peterson. “La vittoria della Coppa dei Campioni penso abbia convinto Peterson che era giunto il momento di smettere”, avrebbe detto Mike D’Antoni. “Diceva da anni di volersi ritirare – fu il racconto del fedele scudiero Franco Casalini – ma alla fine non si ritirava mai. Quell’anno, mi chiamò al telefono e con due parole capii che era vero”. “Franco, adesso sono cazzi tuoi!”

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Gianmario Gabetti, il presidente dello Slam Franco Casalini, assistente storico La vittoria di Losanna con l’eroismo di Dino Meneghin, in campo con i crampi

VLADO MICOV L’INTERVISTA

“Milano è stata casa mia. Posso dirlo sinceramente dal profondo del cuore. Non ho rimpianti, ho giocato sempre e solo per vincere senza preoccuparmi delle statistiche. Neanche quando ho segnato i canestri decisivi. Ero libero e ho fatto quello che potevo. Certo, è stato tutto incredibile”

È stato come ai vecchi tempi. È stato come entrare nella macchina del tempo, solo che questa volta Vlado Micov non ha indossato la canotta numero 5 dell’Olimpia Milano. Al Mediolanum Forum si è presentato con la moglie, i due figli vestiti con la sua canotta, ed è stato come se il tempo non fosse mai passato, perché Vlado Micov ha lasciato un segno molto oltre le vittorie (uno scudetto, una Coppa Italia, tre Supercoppe di cui una da MVP, le Final Four conquistate nel 2021). Ha finito per rimanere quattro anni a Milano, mettendo le radici a San Siro, chiamando questa città la sua seconda casa dopo Belgrado. Quattro anni intensi, indimenticabili. Quando è stato inquadrato sul maxischermo, ha sorriso, ed è partito il coro. “C’è solo un Professore”. Era il suo soprannome. Era venuto a Milano e sembrava un giocatore in declino a fine

carriera. Nei primi due anni ha giocato oltre 30 minuti a partita in EuroLeague, leader spesso silenzioso, che sapeva colpire quando pronunciava due parole, qualche volta le più scomode, ma non ammettevano repliche. Aveva parlato e aveva ragione. Lo sapeva lui, lo sapevano tutti.

Ricordi Vlado le circostanze che accompagnarono il tuo arrivo a Milano? “Negli anni precedenti avevo giocato a Cantù. Tanti buoni giocatori stavano passando da Milano in quelle stagioni. Milano e Siena avevano le squadre migliori. Noi a Cantù siamo cresciuti passo dopo passo, abbiamo anche giocato buone partite contro Milano. Dopo i tre anni spesi al Galatasaray, quando è arrivata la chiamata di Milano, ho detto al mio agente di trovare un accordo. Non

voglio dire che era il mio sogno venire a Milano, ma era una delle mie destinazioni preferite. Firmare per Milano, vivere a Milano”.

Il primo anno ci sono stati tanti alti e bassi, poi però è arrivato lo scudetto. “Succede sempre ogni stagione, ogni squadra, quando cambi l’allenatore, tanti giocatori serve tempo per comporre il puzzle, per mettere tutti i pezzi del mosaico a posto. Quell’anno avevamo tanti stranieri e poi tanti giocatori che in Europa non avevano tanta esperienza ad alto livello. Questo è il motivo per cui non abbiamo giocato i playoff di EuroLeague. Ma abbiamo vinto lo scudetto: a fine stagione, è sempre duro vincerlo. Infatti, in seguito non ci siamo riusciti. Però quando è arrivato Ettore tutto è cambiato immediatamente”.

Nel 2018 sei stato MVP delle Final

Four di Supercoppa. Per una volta l’uomo squadra per eccellenza è stato premiato per quello che ha fatto individualmente.

“Durante tutta la mia carriera non ho mai giocato o inseguito traguardi individuali. La mia filosofia di gioco è sempre stata la stessa per tutta la mia vita: il basket è uno sport di squadra. Quando la squadra vince sono felice, è tutto qui. La Supercoppa si gioca all’inizio della stagione, molte squadre non sono in grado di arrivarci in forma o non sono in grado di giocare come vorrebbero. In quell’edizione di Brescia le condizioni erano ideali perché vincessimo con una certa facilità. Il titolo mi ha sorpreso, sapevo che avevo giocato bene, ma non mi ero tanto preoccupato di quanto avevo giocato bene. E’ come nelle Final Four: non so quanti giocatori nel corso della loro carriera

hanno vinto e l’hanno fatto da MVP. Mio figlio mi ha portato alla sua scuola, mi ha chiesto di mostrare le mie clip, qualche canestro vincente, i trofei. E poi mi ha domandato quante volte sia stato MVP. Ho spiegato che è molto difficile, perché tutto deve essere allineato. La squadra deve giocare abbastanza bene da vincere, e un singolo giocatore, in aggiunta a tutto ciò, deve giocare così bene da essere il migliore tra quelli che hanno vinto. È veramente difficile riuscirci”.

Nella stagione 2019/20 tre volte hai segnato la tripla della vittoria. Qualcuno ci riesce una volta in carriera, molti mai, tre volte in un anno non succede mai.

“Sì, è un numero incredibile, tre volte in una stagione. È successo con Cremona, a Venezia e a Valencia. Non so cosa dire, la cosa più importante è aver vinto quelle partite. In quel particolare momento mi sono sempre trovato nella posizione giusta. Contro Cremona ero liberissimo. A Venezia, Chacho ha eseguito una penetrazione in mezzo all’area, poi ha scaricato fuori e ho segnato. Ma il più significativo è stato quello di Valencia, era il periodo del Covid, sarebbe stata la nostra ultima partita dell’anno, a porte chiuse. Quello è stato il modo in cui in pratica abbiamo chiuso la stagione di EuroLeague, con quel canestro. Sono stati tutti grandi momenti”.

Tre volte hai raggiunto le Final Four di EuroLeague. Ti è mancato il successo pieno. Sono più i rimpianti o l’orgoglio di esserci stato tre volte?

“Non rimpiango nulla, di tutto quello che ho fatto nella vita. Sfortunatamente, non le ho mai vinte, tre volte ci sono arrivato e tre volte ho perso subito la semifinale

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Con Kyle Hines ed Ettore Messina alla sua celebrazione Vlado Micov durante l’intervista

e tutte e tre le volte l’allenatore era Ettore Messina, due volte a Mosca e una volta a Milano. Se devo guardare a tutta la mia carriera, tracciare un bilancio, l’unico aspetto negativo è questo: non essere riuscito a vincere l’EuroLeague. Ma in generale sono super felice di come è andata la mia carriera, non ho alcun rimpianto”.

A Milano ti chiamavano il Professore.

“I tifosi mi hanno chiamato così. Per tutta la carriera ho giocato mostrando pochissime emozioni e a qualche allenatore non è piaciuto, volevano vedere più emotività, delle reazioni in campo. Chi di loro mi conosceva sapeva che sono fatto così. Qui credo sia stato Dan Peterson a dire che giocavo come un sottomarino. Giocavo bene, ma restavo sempre immerso sott’acqua. Facevo tante cose buone, ma nessuno riusciva a vederle.

Ho sempre fatto quello che serviva alla squadra per aiutarla a vincere. Ci sono state cose che non si vedono nel foglio delle statistiche, che non appaiono, ma sono fondamentali. Mi viene in mente Kyle Hines, perché non voglio parlare di me stesso: ci sono tante cose che fa in campo, ti fanno vincere, ma non appaiono da nessuna parte. È quello che ho cercato di fare per tutta la carriera. E per tutte queste cose, in campo e fuori, con un tipo di vita molto riservato, alla fine hanno cominciato a chiamarmi così, il Professore. Lo trovo divertente, ed è anche un grande onore che la gente mi abbia chiamato così”.

Cosa ha significato Milano per te?

“Tanto. Conosco molti giocatori che cambiando squadra, città, paese hanno potuto dire di sentirsi a casa, con la loro famiglia. Di sicuro è vero, dipende molto da quanto peso dai ad una frase del genere, ma per me trascorrere quattro anni qui, è stato particolare. Sono cresciuto con la squadra, ho giocato bene, abbiamo raggiunto le Final Four dopo oltre vent’anni che il club non ci riusciva. Sono stati anni felici, la mia famiglia si è divertita, è stata bene, e come ho detto nella mia ultima intervista comprare un appartamento a Milano è la prova migliore di quanto mi senta a casa. Ora con mia moglie abbiamo la chance di cominciare una nuova vita a Belgrado, dove non abbiamo avuto modo di vivere davvero per circa 17 anni. Ma Milano rappresenta sempre un’altra possibilità. Tante cose mi piacciono di Milano. Ho avuto un grande rapporto con la tifoseria, con la gente di Milano, con il club e con l’Olimpia in generale. Onestamente, dal profondo del cuore, posso dire che questa è casa mia”.

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Vlado con il figlio durante la celebrazione La tripla della vittoria a Venezia, ancora nella stagione 2019/20 La tripla della vittoria contro Cremona, a Milano, stagione 2019/20

SHABAZZ NAPIER

Nato e cresciuto nei sobborghi di Boston, il playmaker dell’Olimpia ha raggiunto l’apice della propria storia quando ha portato Connecticut al titolo NCAA del 2014. Lo aveva vinto anche tre anni prima ma da riserva. Ecco la storia di quel trionfo e di come Napier l’ha costruito prima… e dopo

Tutto cominciò dopo una sconfitta a Louisville nell’ultimo impegno della stagione regolare, stagione 2013/14. Shabazz Napier segnò appena nove punti quella sera. Sarebbe stata la sua ultima prova in singola cifra della sua esperienza di quattro anni all’università del Connecticut. La settimana successiva fu quella del torneo di conference in cui gli Huskies vinsero due partite e persero la terza sempre contro Louisville. Dopo una stagione da otto sconfitte in 32 gare, UConn venne ammessa al Torneo NCAA come una delle teste di serie numero 7 del tabellone. Di norma significa che se sei bravo arrivi al secondo weekend di marzo con poche chance di valicare il primo ostacolo

UConn venne spedita a Buffalo per il primo concentramento e liquidò subito St. Joseph’s. Napier segnò 24 punti con

otto rimbalzi in quella partita. Due giorni dopo, una terribile avversaria di fronte, Villanova, una delle superpotenze del college basketball. Di quella squadra facevano parte giocatori NBA come Josh Hart e Ryan Arcidiacono, un veterano di EuroLeague quale Darrun Hilliard. Non importa: Napier segnò 25 punti con cinque rimbalzi, quattro triple, 9/13 dal campo. Quel weekend a Buffalo, Shabazz fu il miglior giocatore in campo. L’accesso al secondo weekend della March Madness era garantito.

Shabazz Napier viene da Roxbury che è una cittadina praticamente attaccata a Boston. Chi viene da Roxbury sostanzialmente è un bostoniano. A scuola andava a Charlestown, una località “blue collar” immortalata in diversi film da Ben Affleck, che è originario di quella zona, ad esempio “Will Hunting” con Matt Da-

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mon o la serie televisiva “City on a Hill”. Napier imparò a giocare a basket nel programma “No Books No Ball”, niente libri niente sport di Roxbury. Dopo due anni a Charlestown andò a giocare alla Lawrence Academy per mettere a posto i voti e guadagnarsi il diritto di ricevere una borsa di studio da un college importante. Considerate le caratteristiche fisiche, Napier era scarsamente considerato dalle grandi università fino a quando Jim Calhoun, uno degli allenatori più importanti degli ultimi trent’anni non cambiò tutto. I suoi assistenti lo portarono a vedere altri giocatori, ma lui venne attratto dallo spirito e la velocità di Napier. Gli ricordava la sua stella Kemba Walker. Così decise di portarlo a UConn e farlo diventare il suo nuovo grande point-man.

Giocare una partita del Torneo NCAA al Madison Square Garden di New York è speciale. E’ come correre il finale di una maratona nello stadio olimpico di Atene, come correre in auto a Indianapolis o giocare a calcio a Wembley. Per gli Huskies di UConn però il terzo turno del Torneo NCAA del 2014 sembrava somigliare ad un’ascesa impervia. Davanti avevano Iowa State, una squadra da Top 10 del ranking, una testa di serie numero 3, con il playmaker attualmente dei Washington Wizards, Monte Morris, e giocatori di EuroLeague quali Matt Thomas e il nostro Naz Mitrou-Long (oltre a Dustin Hogue e Melvin Ejim). Ma UConn, nonostante il pronostico sfavorevole, dominò quella partita costruendo anche 16 punti di vantaggio nel secondo tempo prima di vincere di cinque. Napier ebbe 19 punti, cinque assist, 4/6 nel tiro da tre. Battendo Iowa State, UConn approdò alla cosiddetta finale regionale,

ovvero i quarti di finale, quindi ad una vittoria dalle Final Four.

Nella sua prima stagione a Connecticut, Napier era stato l’eccellente riserva di Kemba Walker. UConn arrivò al titolo NCAA, il terzo per Coach Calhoun, battendo in finale Butler University, guidata da Shelvin Mack. Walker fu l’MVP, la grande star di quelle Final Four, disputate a Houston, Napier ebbe il consueto spazio in finale, 27 minuti, con quattro punti. Ma due sere prima, per battere Kentucky e avanzare alla gara per il titolo, UConn aveva dovuto soffrire fino alla fine, fino a quando a otto secondi dal termine, Napier, con due tiri liberi su due e gli occhi degli Stati Uniti addosso, aveva aperto quattro punti di margine rendendo vano l’ultimo possesso dei Wildcats, forti di ben quattro futuri giocatori NBA. Era il 2011. Il primo momento di gloria nazionale per il giovanissimo Shabazz.

Per raggiungere le Final Four del 2014 serviva un’ultima vittoria al Madison Square Garden in una situazione di obiettivo vantaggio del fattore campo, perché UConn è molto più vicina a New York di quanto lo sia Michigan State, l’avversaria, guidata da Gary Harris, attualmente agli Orlando Magic. Gli Spartans guidarono nel punteggio per tutto il primo tempo, ma a inizio ripresa Shabazz prese fuoco. Un jumper dopo l’altro (17 punti nel secondo tempo) portò gli Huskies avanti e poi persino in fuga. Michigan State rispose. A 50 secondi dalla fine, ritornarono a meno due. Palla a UConn. Usando un blocco alto, Napier sprintò verso il gomito destro della lunetta per alzarsi in sospensione e segnare il canestro del più quattro. Michi-

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REDSHOESMAGAZINE Napier con la
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Shabazz con il trofeo di MVP
Il momento della gioia in cui Shabazz Napier festeggia la vittoria del Torneo NCAA 2014

gan Stae rispose ancora. A 30 secondi dopo aver congelato la palla, Napier si alzò in sospensione attirando il contatto di Keith Appling, eccellente playmaker degli Spartans. Fallo. Tre su tre dalla lunetta, 25 punti a fine gara e trionfo degli Huskies. Tre anni dopo il primo viaggio alle Final Four da riserva, Napier tornava sul palcoscenico più prestigioso del college basketball da star.

Con Kemba Walker nella NBA, Napier venne promosso titolare da Calhoun dopo il primo titolo NCAA. Aveva una squadra fortissima, con Jeremy Lamb e il centro Andre Drummond, due giocatori NBA, l’ultimo uno dei migliori rimbalzisti dell’ultimo decennio. Ma la stagione da sophomore di Napier fu complicata. Non rispose alle aspettative. Le cifre (13.0 punti per gara, 5.8 assist) non erano male, ma il rendimento della squadra fu pessimo, perse ben 14 partite e finì addirittura nona nella propria conference. Nel frattempo, successero due cose tremende. Il coach che lo aveva reclutato, Jim Calhoun, decise di ritirarsi e il programma venne squalificato per un anno dai Tornei post-stagionali. Napier e i suoi compagni erano condannati ad una stagione di secondo piano. La squadra venne ereditata da Kevin Ollie, ex playmaker di discreto livello, ma al primo anno da capo allenatore, finì 2010, non poteva comunque partecipare al Torneo NCAA e Napier segnò 17.1 punti e 4.6 assist di media. Le condizioni erano perfette per lasciare il college con un anno di anticipo.

Le Final Four del 2014 si svolsero a Dallas. UConn in semifinale era accoppiata a Florida. I Gators avevano in squadra Dorian Finney-Smith, ora a Brooklyn,

Scottie Wilbekin, ora al Fenerbahce, Patric Young tra gli altri. A quella gara arrivarono con un record di 36 vittorie e due sconfitte, soprattutto con una striscia aperta di 30 vittorie consecutive. In più, partirono 16-4. Sembrava il preludio ad una gara a senso unico, invece Connecticut rispose con un parziale di 11-0 in meno di tre minuti e quella sera per vincere non ebbe bisogno di eroismi. Neppure di Shabazz, che segnò 12 punti, in 38 minuti, con sei assist e ben quattro palle rubate. La difesa degli Huskies fece la differenza e Connecticut vinse di dieci. Tre anni dopo il titolo era in finale.

Napier pensò seriamente di tentare la strada della NBA dopo la stagione da junior. Ma il nuovo coach degli Huskies, Kevin Ollie, si assicurò di stabilire un rapporto stretto con Shabazz. E inoltre, lui si sentiva in debito con Connecticut. Era la scuola che l’aveva voluto, permettendogli una via di fuga per lui e la famiglia (la mamma single ha cresciuto tre figli, Shabazz è il più giovane), che gli aveva permesso di vincere da freshman un titolo NCAA e non aveva esitato a rinnovargli la fiducia dopo un secondo anno zoppicante. In quel momento, con un allenatore semi debuttante, dopo una squalifica, UConn aveva bisogno di Napier più di quanto Napier aveva bisogno di UConn. E così restò.

Ventidue punti. Quattro triple su sei. Sei rimbalzi. Tre assist. Tre palle rubate. Trentanove minuti in campo. Shabazz Napier lunedì 7 aprile 2014, in Texas, aveva deciso che quella sarebbe stata la più grande serata della sua carriera. Come aveva fatto il suo maestro Kemba Walker tre anni prima, con la stessa ma-

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Napier qui in entrata fino in fondo Napier in lunetta con la maglia dell’Olimpia

glia, aveva soverchiato i limiti di statura per dominare la partita più importante del palcoscenico universitario. Era già stato nominato giocatore dell’anno di conference, primo quintetto All-America e aveva vinto il Premio intitolato a Bob Cousy ovvero miglior point-man del paese. Ma mancava il trofeo più grande e se lo andò a prendere contro Kentucky, la stessa avversaria contro cui tre anni prima aveva segnato i tiri liberi della vittoria in semifinale. Kentucky era costruita attorno a Julius Randle, un All-Star nella NBA attuale. Quella sera UConn comandò nel punteggio per tutti i 40 minuti. Nel secondo tempo quando Kentucky tornò a meno uno, Napier con una tripla avviò l’allungo conclusivo.

Nel 2014 UConn diventò la squadra con la peggiore collocazione nel tabellone a vincere il titolo NCAA dal 1985 (Villanova). Napier usò la platea mondiale per un appello che poi avrebbe avuto un peso decisivo nel cambiare le cose. Shabazz fece notare come la sua presenza, e quella di altri giocatori, per quattro anni avesse fruttato alla NCAA e all’università milioni di dollari in diritti televisivi, biglietti, pubblicità, merchandising. A lui non era andato neppure un dollaro. Fin qui un concetto noto, per nulla nuovo. Ma Napier aveva aggiunto che in quelle condizioni c’erano studenti-atleti secondo la dicitura della NCAA che non sapevano come nutrirsi al di fuori dei pasti scolastici. E non parlava per metafora. Intendeva letteralmente. Si scatenò un vespaio di polemiche. Perché questa volta – e Napier ne era la prova – la situazione dimostrata andava ben oltre i limiti delle decenza (adesso esiste un programma in cui gli

atleti del college possono guadagnare attraverso lo sfruttamento personale del proprio nome e della propria immagine).

Dopo aver vinto il titolo NCAA, esaurita la propria eleggibilità universitaria, Napier entrò nei draft NBA. A sceglierlo fu Charlotte ma per conto di Miami. Quella sera LeBron James lo accolse tra i compagni di squadra indicandolo come il suo point-man preferito del draft e poi aggiungendo che nessun pari ruolo poteva essere scelto prima di lui. Tutto documentato su Twitter. Nella NBA, Napier ha giocato per cinque anni, a Miami, Orlando, Portland, Brooklyn, Minnesota. 345 partite, 2433 punti segnati. Nel suo ultimo anno NBA ha segnato 10.3 punti per gara, aggiungendo 3.8 assist di media. Ha avuto una media di 17.4 minuti di utilizzo in carriera. Solo un anno, il primo a Portland, ha giocato meno di dieci minuti di media. Ha anche debuttato con la Nazionale portoricana (la mamma Carmen è portoricana) con 35 punti in due presenze, 12 assist e sei triple. Avversarie Bahamas e Messico alle qualificazioni di Americup nel 2021. A San Pietroburgo, dove aveva ritrovato Alex Poythress, uno dei membri della squadra di Kentucky battuta nella finale NCAA del 2014, segnò 33 punti nella semifinale della Supercoppa VTB prima di infortunarsi il giorno successivo e rimanere fermo per mesi senza riuscire a debuttare in EuroLeague (quando era pronto il conflitto russo-ucraino ha fermato la squadra di San Pietroburgo). Era in Messico, ma nella G-League, quando è arrivata la chiamata dell’Olimpia.

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Al lavoro prima di una partita
Napier esegue un assist contro Baskonia in EuroLeague

NUMBERS olimpia

100 volte Kyle Hines

La partita giocata da Kyle Hines contro il Panathinaikos è stata la centesima in maglia Olimpia in EuroLeague. Hines è il quarto giocatore nella storia del club ad aver tagliato questo traguardo parziale. La classifica “all-time” è guidata da Kaleb Tarczewki con 156, Nicolò Melli lo insidia ogni giorno di più (adesso sono 142) Vlado Micov è a quota 115. Hines ha superato Sergio Rodriguez che è apparso in 99 gare di EuroLeague.

Detto che la classifica penalizza i campioni di una volta, quando la competizione viveva di un numero ridotto di partite, quello che rende l’impresa di Hines è speciale è che, a dispetto dell’età (37 anni nel 2023), del chilometraggio (381 presenze in carriera nella sola EuroLeague, con oltre 8200 minuti trascorsi in campo), Kyle non ha mai saltato una partita da quando è arrivato a Milano. Ne ha giocate 105 su 105, al momento di scrivere queste righe.

Non si è mai fermato, non c’è riuscito il Covid, non ci sono riusciti gli infortuni o magari l’influenza, non si è mai preso un turno di stop.

Il caso più eclatante si è verificato quest’anno ad Atene, partita contro il Panathinaikos, in cui la mattina si è svegliato con una mano gonfia come un pallone per un colpo subito in allenamento. Non ha partecipato allo shootaround, è andato in ospedale, hanno fatto una radiografia, hanno visto che non c’era frattura e anche se il gonfiore permaneva e il dolore era probabilmente insostenibile, Hines ha giocato.

Nel frattempo, oltre a diventare il terzo rimbalzista della storia europea del club, è diventato il primo per canestri da due punti, superando Kaleb Tarczewski. Hines è il leader di ogni epoca dell’intera lega nei canestri da due. Ora lo è anche della storia dell’Olimpia

Kyle Hines con la targa delle 100 partite

Olimpia pronta alle Final Eight di Napoli

Dopo il secondo posto nel girone B conquistato nelle tappe di Pesaro e Trento, l’Under 19 dell’Olimpia Milano si prepara all’atto conclusivo delle Final Eight della IBSA Next Gen Cup a Napoli.

E’ stata infatti definita la programmazione della fase finale che si terrà al PalaBarbuto di Napoli dal 10 al 12 aprile 2023. La prima giornata, in programma lunedì 10 aprile, sarà dedicata ai quarti di finale; la seconda, martedì 11 aprile, prevede le semifinali mentre la finale si disputerà mercoledì 12 aprile. In base ai piazzamenti e agli incroci definiti al termine della prima fase, Olimpia Milano giocherà la prima partita valida per l’accesso alle semifinali lunedì 10 aprile alle 18.00, confrontandosi sul parquet contro la terza del girone A, la Bertram Yachts Derthona Tortona. Gli altri accoppia-

menti sono Trento-Trieste; Treviso-Verona; Pesaro-Venezia. La competizione, organizzata dalla Lega Basket, in sintonia con la Federazione, ha l’obiettivo di valorizzare e promuovere i vivai dei club di Serie A, pronti a formare i grandi campioni di domani, gli staff tecnici ed i prospetti emergenti della classe arbitrale. L’Olimpia schiererà la squadra che ha giocato la fase trentina della competizione, classificandosi al secondo posto nel proprio girone, con una sconfitta (a Pesaro nella prima parte della competizione) contro Trento e un’altra contro Brescia che peraltro non si è qualificata per le Final Eight. L’Olimpia, diretta da Michele Catalani, avrà la propria squadra Under 19 fortificata dai tre elementi in doppio tesseramento che giocano nel campionato di Serie B, ovvero Francesco Gravaghi, Lionel Abega e Marco Restelli.

Francesco Gravaghi, che gioca in Serie B in doppio tesseramento
REDSHOESMAGAZINE 32 PALLACANESTRO OLIMPIA MILANO S.S.R.L. Via G. di Vittorio 6, 20090, Assago (MI) Tel +39 0270001615 - Fax +39 02740608 - olimpia@olimpiamilano.com olimpiamilano.com FOLLOW US

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