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VLADO MICOV L’INTERVISTA
“Milano è stata casa mia. Posso dirlo sinceramente dal profondo del cuore. Non ho rimpianti, ho giocato sempre e solo per vincere senza preoccuparmi delle statistiche. Neanche quando ho segnato i canestri decisivi. Ero libero e ho fatto quello che potevo. Certo, è stato tutto incredibile”
È stato come ai vecchi tempi. È stato come entrare nella macchina del tempo, solo che questa volta Vlado Micov non ha indossato la canotta numero 5 dell’Olimpia Milano. Al Mediolanum Forum si è presentato con la moglie, i due figli vestiti con la sua canotta, ed è stato come se il tempo non fosse mai passato, perché Vlado Micov ha lasciato un segno molto oltre le vittorie (uno scudetto, una Coppa Italia, tre Supercoppe di cui una da MVP, le Final Four conquistate nel 2021). Ha finito per rimanere quattro anni a Milano, mettendo le radici a San Siro, chiamando questa città la sua seconda casa dopo Belgrado. Quattro anni intensi, indimenticabili. Quando è stato inquadrato sul maxischermo, ha sorriso, ed è partito il coro. “C’è solo un Professore”. Era il suo soprannome. Era venuto a Milano e sembrava un giocatore in declino a fine carriera. Nei primi due anni ha giocato oltre 30 minuti a partita in EuroLeague, leader spesso silenzioso, che sapeva colpire quando pronunciava due parole, qualche volta le più scomode, ma non ammettevano repliche. Aveva parlato e aveva ragione. Lo sapeva lui, lo sapevano tutti.
Ricordi Vlado le circostanze che accompagnarono il tuo arrivo a Milano? “Negli anni precedenti avevo giocato a Cantù. Tanti buoni giocatori stavano passando da Milano in quelle stagioni. Milano e Siena avevano le squadre migliori. Noi a Cantù siamo cresciuti passo dopo passo, abbiamo anche giocato buone partite contro Milano. Dopo i tre anni spesi al Galatasaray, quando è arrivata la chiamata di Milano, ho detto al mio agente di trovare un accordo. Non voglio dire che era il mio sogno venire a Milano, ma era una delle mie destinazioni preferite. Firmare per Milano, vivere a Milano”.

Il primo anno ci sono stati tanti alti e bassi, poi però è arrivato lo scudetto. “Succede sempre ogni stagione, ogni squadra, quando cambi l’allenatore, tanti giocatori serve tempo per comporre il puzzle, per mettere tutti i pezzi del mosaico a posto. Quell’anno avevamo tanti stranieri e poi tanti giocatori che in Europa non avevano tanta esperienza ad alto livello. Questo è il motivo per cui non abbiamo giocato i playoff di EuroLeague. Ma abbiamo vinto lo scudetto: a fine stagione, è sempre duro vincerlo. Infatti, in seguito non ci siamo riusciti. Però quando è arrivato Ettore tutto è cambiato immediatamente”.
Nel 2018 sei stato MVP delle Final
Four di Supercoppa. Per una volta l’uomo squadra per eccellenza è stato premiato per quello che ha fatto individualmente.
“Durante tutta la mia carriera non ho mai giocato o inseguito traguardi individuali. La mia filosofia di gioco è sempre stata la stessa per tutta la mia vita: il basket è uno sport di squadra. Quando la squadra vince sono felice, è tutto qui. La Supercoppa si gioca all’inizio della stagione, molte squadre non sono in grado di arrivarci in forma o non sono in grado di giocare come vorrebbero. In quell’edizione di Brescia le condizioni erano ideali perché vincessimo con una certa facilità. Il titolo mi ha sorpreso, sapevo che avevo giocato bene, ma non mi ero tanto preoccupato di quanto avevo giocato bene. E’ come nelle Final Four: non so quanti giocatori nel corso della loro carriera hanno vinto e l’hanno fatto da MVP. Mio figlio mi ha portato alla sua scuola, mi ha chiesto di mostrare le mie clip, qualche canestro vincente, i trofei. E poi mi ha domandato quante volte sia stato MVP. Ho spiegato che è molto difficile, perché tutto deve essere allineato. La squadra deve giocare abbastanza bene da vincere, e un singolo giocatore, in aggiunta a tutto ciò, deve giocare così bene da essere il migliore tra quelli che hanno vinto. È veramente difficile riuscirci”.
Nella stagione 2019/20 tre volte hai segnato la tripla della vittoria. Qualcuno ci riesce una volta in carriera, molti mai, tre volte in un anno non succede mai.
“Sì, è un numero incredibile, tre volte in una stagione. È successo con Cremona, a Venezia e a Valencia. Non so cosa dire, la cosa più importante è aver vinto quelle partite. In quel particolare momento mi sono sempre trovato nella posizione giusta. Contro Cremona ero liberissimo. A Venezia, Chacho ha eseguito una penetrazione in mezzo all’area, poi ha scaricato fuori e ho segnato. Ma il più significativo è stato quello di Valencia, era il periodo del Covid, sarebbe stata la nostra ultima partita dell’anno, a porte chiuse. Quello è stato il modo in cui in pratica abbiamo chiuso la stagione di EuroLeague, con quel canestro. Sono stati tutti grandi momenti”.
Tre volte hai raggiunto le Final Four di EuroLeague. Ti è mancato il successo pieno. Sono più i rimpianti o l’orgoglio di esserci stato tre volte?
“Non rimpiango nulla, di tutto quello che ho fatto nella vita. Sfortunatamente, non le ho mai vinte, tre volte ci sono arrivato e tre volte ho perso subito la semifinale e tutte e tre le volte l’allenatore era Ettore Messina, due volte a Mosca e una volta a Milano. Se devo guardare a tutta la mia carriera, tracciare un bilancio, l’unico aspetto negativo è questo: non essere riuscito a vincere l’EuroLeague. Ma in generale sono super felice di come è andata la mia carriera, non ho alcun rimpianto”.



A Milano ti chiamavano il Professore.
“I tifosi mi hanno chiamato così. Per tutta la carriera ho giocato mostrando pochissime emozioni e a qualche allenatore non è piaciuto, volevano vedere più emotività, delle reazioni in campo. Chi di loro mi conosceva sapeva che sono fatto così. Qui credo sia stato Dan Peterson a dire che giocavo come un sottomarino. Giocavo bene, ma restavo sempre immerso sott’acqua. Facevo tante cose buone, ma nessuno riusciva a vederle.
Ho sempre fatto quello che serviva alla squadra per aiutarla a vincere. Ci sono state cose che non si vedono nel foglio delle statistiche, che non appaiono, ma sono fondamentali. Mi viene in mente Kyle Hines, perché non voglio parlare di me stesso: ci sono tante cose che fa in campo, ti fanno vincere, ma non appaiono da nessuna parte. È quello che ho cercato di fare per tutta la carriera. E per tutte queste cose, in campo e fuori, con un tipo di vita molto riservato, alla fine hanno cominciato a chiamarmi così, il Professore. Lo trovo divertente, ed è anche un grande onore che la gente mi abbia chiamato così”.
Cosa ha significato Milano per te?
“Tanto. Conosco molti giocatori che cambiando squadra, città, paese hanno potuto dire di sentirsi a casa, con la loro famiglia. Di sicuro è vero, dipende molto da quanto peso dai ad una frase del genere, ma per me trascorrere quattro anni qui, è stato particolare. Sono cresciuto con la squadra, ho giocato bene, abbiamo raggiunto le Final Four dopo oltre vent’anni che il club non ci riusciva. Sono stati anni felici, la mia famiglia si è divertita, è stata bene, e come ho detto nella mia ultima intervista comprare un appartamento a Milano è la prova migliore di quanto mi senta a casa. Ora con mia moglie abbiamo la chance di cominciare una nuova vita a Belgrado, dove non abbiamo avuto modo di vivere davvero per circa 17 anni. Ma Milano rappresenta sempre un’altra possibilità. Tante cose mi piacciono di Milano. Ho avuto un grande rapporto con la tifoseria, con la gente di Milano, con il club e con l’Olimpia in generale. Onestamente, dal profondo del cuore, posso dire che questa è casa mia”.


