MSOI thePost Numero 136 - Edizione Estiva

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Settembre 2019


S e t t e m b r e

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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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Europa Occidentale Von der Leyen e immigrazione: primi passi verso l’Italia?

Di Jasmin Saric Determinazione e voglia di cambiare. Questi i due punti di riferimento presi dalla exministra della Difesa tedesca entrante alla carica di Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, confermata dai parlamentari europei il 16 luglio scorso. Le sue ambizioni si evincono dalla presentazione del suo programma politico per il futuro dell’Europa: di fronte ad un continente sempre più instabile e frammentato, l’obiettivo generale è rafforzare la collaborazione europea sui temi più caldi, in primis il cambiamento climatico e i flussi migratori nel Mediterraneo. Un approccio pienamente europeista e riformista, dunque, che ha creato delle spaccature nel Governo italiano già a partire dalla votazione: mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il Movimento Cinque Stelle hanno sostenuto la candidatura di Von der Leyen, il ministro dell’Interno Matteo

Salvini si è scostato dal voto del Parlamento europeo insieme agli altri membri del suo partito. Si può leggere il ‘no’ di Salvini come a un segno di diffidenz verso la neo-eletta. Ursula Von der Leyen, infatti, rappresenta l’orientamento europeista e moderato che è condiviso, tra gli altri, anche da Emmanuel Macron e Angela Merkel, figure importanti di un’Unione Europea che, secondo Matteo Salvini, sarebbe stata inefficiente nell’assistere l’Italia – in quanto stato di frontiera – negli ultimi anni. In realtà, in tema di gestione dell’immigrazione, Von der Leyen sembra seguire, in qualche misura, una linea non del tutto differente da quella sostenuta a parole dal ministro Salvini. Innanzitutto, sostiene che su un tema così delicato sia necessaria la più ampia collaborazione tra gli stati europei. Durante un’audizione al Parlamento europeo tenutasi a inizio luglio, l’allora candidata ha detto di voler ridare vita

all’Operazione Sophia per il salvataggio di persone in mare. Questa operazione era stata lanciata all’epoca della crisi migratoria del 2015, durante la quale la stessa Von der Leyen aveva deciso di inviare la marina tedesca per offrire aiuto umanitario assieme ad altri volontari europei. I l risultato, secondo stime ANSA, era stato il salvataggio di circa 44.900 vite nel corso dei successivi due anni. Collaborazione, dunque, ma anche rispetto dei principi europei e diritti fondamentali: nel 2015 Von der Leyen criticò l’Ungheria per l’uso di gas lacrimogeni contro i richiedenti asilo alla frontiera. «È molto importante che ci atteniamo al rispetto della dignità umana e dei diritti umani», riferì a CNN, «I rifugiati devono essere trattati decentemente». Questa linea di apertura si riflette anche in un’esperienza personale di Von der Leyen, che nel 2014 aveva ospitato temporaneamente un giovane MSOI the Post • 3


Europa Occidentale rifugiato siriano, aiutandolo anche a trovare un posto per un apprendistato. «Ha arricchito le nostre vite» aveva commentato lei a Der Spiegel. «Così tanti rifugiati vorrebbero arrivare sul suolo tedesco e farsi una nuova vita in Germania. Dovremmo perseguire e supportare questa strada, solo in questo modo l’integrazione avrà successo». Nel 2016, infatti, Von der Leyen annunciava dei piani di formazione di rifugiati nel Bundeswehr in aree tematiche quali la medicina e la tecnologia. Tuttavia, sarà necessario anche rafforzare la gestione degli arrivi al confine europeo. Nel programma stilato per la Commissione, oltre alla prioritaria ambizione di un’Europa più verde e digitalizzata, Von der Leyen afferma di volere anche un’Europa più sicura in tema di immigrazione controllata. Occorre quindi una duplice azione: da una parte stabilizzare le frontiere esterne, anche attraverso un potenziamento del numero di guardie costiere dell’Agenzia europea per le frontiere (FRONTEX); dall’altra, modernizzare il sistema comune di asilo. Bisognerà poi, sostiene sempre Von der Leyen, collaborare direttamente con i paesi di origine dei migranti per arginare l’attività dei trafficanti di esseri umani e cooperare con paesi terzi per gestire i flussi migratori. 4 • MSOI the Post

Ciò che resta da scoprire è l’impatto che questo duplice approccio avrà sulla situazione italiana. Da un lato, lo spirito democratico-conservatore e moderato della Von der Leyen non può essere compatibile con le politiche che il Governo italiano ha implementato negli ultimi anni: mentre la prima auspica una progressiva integrazione dei rifugiati, il cosiddetto Decreto Sicurezza del 4 ottobre 2018 ha imposto norme più restrittive per ottenere lo status di protezione internazionale e, circoscrivendo l’accesso allo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) solo ai rifugiati, non prevede percorsi più lunghi e articolati di integrazione dei richiedenti asilo. Inoltre, Von der Leyen ha criticato gli interventi italiani nel bloccare, in certe occasioni di particolare risonanza mediatica, l’accesso di alcune navi legate a ONG allo spazio marittimo italiano. Ha chiesto invece una maggiore diplomazia su queste materie: quando interrogata in merito alla vicenda della nave SeaWatch 3 e di Carola Rackete, ha sostenuto che salvare vite umane rimanga un obbligo morale e si è dissociata dalla politica dei ‘porti chiusi’. Tuttavia, per certi versi, la presidente sembra correre sullo stesso binario del ministro italiano. In primis, ha sostenuto

che il salvataggio di vite in mare «non risolve nulla del problema principale» e che siano necessarie misure di prevenzione degli sbarchi. Inoltre, in un’intervista ai giornali del consorzio Lena, tra cui La Repubblica, la neoeletta ha dichiarato che «i paesi del confine esterno dell’Unione meritano la nostra solidarietà». Secondo Von der Leyen, è indispensabile «una riforma del sistema disfunzionale di Dublino», che obbliga il primo paese di approdo ad essere responsabile delle richieste di asilo. Su questo punto c’è un evidente accordo, perlomeno a livello di dichiarazioni, con il ministro Salvini, che ha spesso criticato il sistema di Dublino (pur, come è noto, non presenziando a numerosi incontri mirati a modificarlo). Anche nel programma ufficiale stilato per la Commissione, uno degli obiettivi evidenziati da Von der Leyen è proprio modificare il sistema comune di asilo, ma ciò potrà essere fatto solamente attraverso una forte cooperazione fra gli stati membri. In generale, seppur con varie distanze in quanto a principi politici, l’UE di Ursula Von der Leyen si presenta come più comprensiva verso le esigenze italiane nel Mediterraneo: resta da vedere se in questo campo una sempre più stretta unione si realizzerà davvero.


Europa Occidentale Londra, Edimburgo, Dublino: i tanti volti della Brexit

Di Simone Massarenti 19 giugno 2017: una data tanto simbolica - per l’inizio dei negoziati dopo il voto sulla Brexit - quanto lontana dalla realpolitik di questi mesi. Ci si trova oggi attanagliati fra il rischio di un “No-Deal”, paventato dai più estremi sostenitori dell’uscita dal sistema-Europa, ed i timori della popolazione, ‘rea’ di aver portato il Paese sull’orlo di uno dei cambiamenti più epocali della propria storia. La notizia della chiusura del Parlamento britannico, richiesta da Boris Johnson il 28 agosto scorso e, per prassi, accordata dalla Regina Elisabetta II, aveva scatenato i malumori fra la popolazione: si rischiava, infatti, una pericolosa deriva istituzionale che avrebbe reso ancor più tortuoso il percorso verso il 31 ottobre, prossima deadline per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. La mossa, considerata “antidemocratica” dalle opposizioni, ed il conseguente allargamento della forbice tra Governo e Parlamento, hanno rappresentato l’apice della battaglia personale intrapresa da Boris Johnson nei confronti delle due Camere: chiudere per 5 settimane

il Parlamento (riapertura prevista il prossimo 14 ottobre) equivale, stando almeno alle parole dei rappresentanti della House of Commons, ad un colpo di Stato, perpetrato al fine di impedire alle Camere di svolgere il proprio dovere, in vista dell’imminente scadenza proveniente da Bruxelles. Come riporta il Corriere della Sera, secondo fonti di Downing Street il premier Johnson avrebbe invece optato per questa soluzione al fine di controllare il clima di tensione venutosi a creare nel Paese, attuando una sorta di “piano B” rientrante di pieno diritto nelle proprie funzioni, con il consenso della Regina. Il ruolo di quest’ultima nella questione è però saltato all’occhio dei più attenti osservatori della Corona, ritenendo la linea adottata da Buckingham Palace troppo “lassista” verso la situazione Brexit. Tali voci sono state prontamente smentite dalla Regina stessa, la quale, nell’ultimo giorno utile prima della chiusura delle attività parlamentari, ha firmato la “legge anti No-Deal”, che si oppone a qualsiasi uscita dall’Europa senza accordi. Tale azione politica impedirà al premier Johnson, alla ripresa

dei lavori, di procrastinare sulla posizione No-deal adottata in questi mesi. I riflettori mediatici puntati su Londra e sulle vicissitudini interne al numero 10 di Downing Street, però, hanno marginalizzato il resto della nazione, dove continuano lo scetticismo e le proteste per rimanere all’interno dell’Unione e poter garantire la stabilità non solo degli scenari internazionali, ma anche dell’equilibrio interno al Regno Unito, mai come ora minato da squilibri di potere. Negli ultimi giorni la disputa si è spostata in territorio scozzese, dove la Corte di Edimburgo ha etichettato la chiusura del Parlamento britannico come illegittima, accusando il Premier di aver “ingannato” la Regina al fine di procedere tranquillamente verso il NoDeal. Tali accuse sono state prontamente smentite dal Primo ministro. La Scozia, da anni protagonista di scontri politici con il governo britannico, pare porsi come primo partner “proEurope” sull’isola. The Press and Journal, testata giornalistica fra le più diffuse in territorio scozzese, ha dedicato un’intera sezione del proprio

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Europa Occidentale sito web alla questione Brexit, con aggiornamenti quotidiani circa lo stato d’avanzamento delle trattative ed i futuri scenari all’orizzonte. Alla luce dello storico antagonismo fra Inghilterra e Scozia, che sono lontane da una soluzione ai dissidi relativi all’indipendentismo scozzese, sembra naturale che la posizione ‘catastrofista’ relativa ad un “No-Deal” riecheggi tra le righe del quotidiano. Nella sezione “Scotland”, la linea dura del governo Johnson viene descritta come un ostacolo per la crescita della nazione. Viene citato l’ex-primo ministro Gordon Brown, il quale sostiene che il “No-Deal” potrebbe essere “devastante per cibo e medicinali”. Il rischio, secondo le parole di Brown, sarebbe quello di un blocco delle forniture, con ovvie conseguenze negative per la popolazioni e tensioni crescenti; per questo, il politico laburista ha formalmente richiesto al primo ministro Johnson di comunicare alle Camere i reali rischi di un’uscita dall’Europa senza accordi. Come riporta sempre The Press and Journal, ad alimentare la tensione ci sono anche le condanne, da parte del Premier britannico, nei confronti dei sostenitori dell’indipendenza scozzese, accusati di alimentare un sentimento intestino di odio che risulta dannoso in uno scenario già di per sé complesso. Il partito di governo scozzese, lo Scottish National Party (SNP), forte del risultato positivo delle scorse elezioni europee, cercherà di alimentare la richiesta per un nuovo referendum per l’indipendenza. L’obiettivo è “fare opposizione alla Brexit esercitando il diritto di decidere autonomamente il 6 • MSOI the Post

proprio destino”, come riferito dalla deputata del SNP Kirsty Blackman. L’ostilità nei confronti di un “No-Deal” sembra attraversare anche i corridoi dei palazzi del potere di Belfast, capitale dell’Irlanda del Nord: il Belfast Telegraph riporta un documento governativo considerato top secret che aumenta il timore di gravi conseguenze per la vita dei pazienti degli ospedali nel paese. Il Dipartimento per la Salute avrebbe stilato una sorta di elenco di “rischi” derivanti da un’uscita senza accordo, come ad esempio una carenza di medicinali, vaccini e medicazioni nei pronti soccorsi del Paese. L’area irlandese rimane ad altissima tensione. I 300 km di confine che separano Irlanda del Nord e Irlanda sono un punto cruciale del programma per la Brexit: come segnalato a pagina 585 del contratto fra Bruxelles e Londra sottoscritto da Theresa May, il confine è visto come un “hard border”, un confine ‘duro’, che tiene banco nelle trattative in corso in questi giorni. Ne parla diffusamente The Irish Times, quotidiano di Dublino. L’ipotesi è quella di un Halloween terrificante: con l’uscita dall’Europa senza accordi, la riapertura della questione irlandese rimetterebbe in discussione quel “Good Friday Agreement” che ad oggi permette ai cittadini dei rispettivi paesi di attraversare il confine senza difficoltà. Il ripristino di checkpoint posti al confine da parte della polizia nordirlandese, ad esempio, rappresenterebbe un pericolosissimo ritorno al passato, minando la stabilità di un’area che è stata per anni al centro dell’attenzione di Londra.

Proprio in questi giorni si è svolto a tal proposito un incontro fra il premier Johnson, per l’occasione volato a Dublino, e il Taoiseach (Primo ministro irlandese) Leo Varadkar. Durante il meeting istituzionale, definito da note ufficiali come “costruttivo”, i due omologhi si sono confrontati circa la necessità di trovare un accordo entro il prossimo 31 ottobre, mentre le rispettive delegazioni, impegnate nei negoziati, hanno lavorato sui nodi più importanti. Fondamentale in questa disputa il ruolo di Bruxelles, mediatore di primo piano e punto di congiunzione fra Regno Unito, Irlanda ed Europa. Al momento, rimangono distanze importanti, che sarà necessario sanare da qui ad un mese. La situazione sembra quindi essere sempre più complessa per Boris Johnson. Parafrasando il titolo di un articolo del corrispondente politico dell’Herald Scotland Alistair Grant, “The House of cards begins to collapse”, il castello di carte inizia a crollare. L’appello alla Corte Suprema britannica da parte del Governo a seguito della sentenza della Corte scozzese sarà sfida per l’esecutivo, che è stato accusato di aver ‘secretato’ tutte le carte inerenti alla decisione di sospendere le attività parlamentari. I documenti relativi alla “Operation Yellowhammer”, per una uscita senza accordi, sono solo l’ultimo passo di una battaglia che si preannuncia serrata. All’orizzonte, il portone di uscita sul cui ciglio ogni decisione potrebbe rappresentare un nuovo, fondamentale capitolo della storia e del Regno Unito e dell’Europa intera.


Medio Oriente e Nord Africa Lo stretto di Hormuz: l’incubo dei naviganti

Di Andrea Daidone “Colui che controlla il passaggio tra gli oceani, si può considerare il signore del Mondo”. Così recita un vecchio e assai veritiero adagio della geopolitica. Nessuno meglio dell’Iran sembra esserne consapevole. Venerdì 19 luglio scorso, il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) ha dichiarato di aver sequestrato una petroliera, la Stena Impero, un vascello di proprietà svedese, battente bandiera britannica. La ragione ufficiale del sequestro è che la suddetta nave avrebbe violato le leggi marittime internazionali. Il sequestro è avvenuto alle ore 19:30 locali (15:00 GMT) nel temuto Stretto di Hormuz, che separa il Golfo Persico dal Mare Arabico. Attraverso questa strozzatura, larga poche decine di miglia, passa un quinto del petrolio mondiale, rendendola di fatto la via d’acqua più importante al mondo. Il sequestro è avvenuto attraverso l’impiego di un’imbarcazione e di un elicottero iraniani. La compagnia armatrice,

Northern Marine Management, ha dichiarato di non essere in grado di contattare l’equipaggio, composto da 23 persone, che attualmente risultano essere in stato di fermo presso il porto di Bandar Abbas. In quelle stesse ore, il Foreign e Offic londinese ha rilevato che una seconda imbarcazione, battente bandiera liberiana, è stata sequestrata dalle autorità iraniane nello Stretto. Il segretario degli Esteri inglese, Jeremy Hunt, si è dichiarato molto preoccupato per la situazione, sottolineando la necessità di trovare rapidamente un modo per liberare il prima possibile i due vascelli. Inoltre, ha affermato che “i sequestri sono inaccettabili e che è essenziale che la libertà di navigazione sia mantenuta e che tutte le navi possano muoversi in sicurezza e in libertà nella regione”. Secondo Richard Weitz, un analista di Wikistrat, un gruppo internazionale di consulenza sul rischio, il sequestro di venerdì 19 luglio sarebbe una ‘azione reciproca’ da parte dell’Iran, in risposta al sequestro,

stavolta da parte britannica, di una petroliera iraniana nello Stretto di Gibilterra, avvenuto il 4 luglio. In quell’occasione, la Royal Navy aveva intercettato il vascello iraniano, battente bandiera panamense, Grace 1, al largo delle coste meridionali della Spagna. L’equipaggio e il comandante erano stati arrestati. La ragione del sequestro fu che la petroliera iraniana avrebbe violato le sanzioni contro la Siria. Sabato 12 luglio, la Corte Suprema di Gibilterra ha esteso per altri 30 giorni lo stato di detenzione dell’imbarcazione e dell’equipaggio. Questa serie di episodi ha enormemente contribuito ad alimentare e accrescere le tensioni fra Teheran e Londra, la quale, peraltro, sta pianificando un pacchetto di sanzioni come atto di rappresaglia. In una lettera indirizzata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il Regno Unito afferma che la Stena Impero è stata approcciata dalle autorità di Teheran quando si trovava non in acque internazionali, ma nelle acque territoriali dell’Oman, dove MSOI the Post • 7


Medio Oriente e Nord Africa

il vascello stava esercitando il suo legale diritto di transito. Se quanto affermato fosse vero, l’azione del commando dell’IRGC si configurerebbe da un lato come interferenza illegale al transito marittimo e dall’altro come violazione della sovranità del Regno dell’Oman. In ogni caso, il sequestro sarebbe nullo, in quanto contrario alla Convenzione sul Diritto del Mare e alla Convenzione di Ginevra. Il ministro degli Esteri dell’Oman non ha commentato relativamente alla posizione della nave, ma ha spronato entrambe le parti a risolvere la disputa per vie diplomatiche. 8 • MSOI the Post

In attesa di sviluppi sulla vicenda, per tutelare il resto della Marina commerciale, Londra ha deciso di avvalersi della Marina militare per scortare le navi battenti bandiera inglese attraverso lo Stretto. La fregata HMS Montrose è stata dispiegata per offrire protezione alle imbarcazioni, individualmente o in gruppo. “La libertà di navigazione è cruciale per il sistema commerciale e l’economia globale e noi faremo tutto ciò che potremo per difenderla” così si è espresso il portavoce del Governo di Londra. In 5 giorni, la Marina ha già scortato più di trenta navi

mercantili, in diciassette transiti diversi. Mercoledì 24 luglio, il presidente iraniano Rouhani ha ventilato la possibilità di una risoluzione della crisi attraverso uno ‘scambio di prigionieri’, Grace 1 in cambio di Stena Impero, sostenendo che “se il Regno Unito farà marcia indietro dalle azioni sbagliate commesse a Gibilterra, riceverà un’appropriata risposta dall’Iran”. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e altre nazioni si incontreranno giovedì prossimo 1° agosto per discutere il passaggio.


Medio Oriente e Nord Africa Siria: un summit trilaterale per decidere le sorti del paese

Di Simone Innico Cinque anni sono trascorsi dal settembre 2014, quando gli Stati Uniti hanno avviato l’Operation Inherent Resolve in sostegno dell’Esercito iracheno e delle Forze Democratiche Siriane. Da allora, con la pressoché totale sconfitta dell’ISIS, il coinvolgimento americano si è progressivamente ridotto. Da tempo, la risoluzione del conflitto siriano non è più allineata alle aspettative statunitensi. Washington ha più volte reclamato, come condizione per la pace in Siria, la destituzione di Bashar alAssad che, pare ormai evidente, è invece scampato al confronto con la guerra civile. Un tempo al comando della coalizione occidentale, il Pentagono ha ora chiesto agli

alleati europei, nel giugno 2019, di colmare il ‘vuoto’ dovuto alla riduzione del suo contingente armato, da 2500 a sole 400 truppe. Una manovra che lascerà scoperte le milizie curde nel Nord del Paese e concederà spazio ad altri attori, in particolare Turchia, Russia e Iran. Queste tre nazioni hanno già dimostrato una forza diplomatica decisiva per gli esiti del conflitto siriano. Infatti, mentre i numerosi negoziati di Ginevra si sono rivelati inconcludenti, i colloqui organizzati da Turchia, Russia e Iran ad Astana (Uzbekistan) proseguono con risultati soddisfacenti. Si può affermare che qualsiasi scenario futuro per la Siria dipenderà dalla convergenza di interessi tra Ankara, da un lato, e Mosca e Teheran, dall’altro.

Nonostante la competizione per l’influenza nella regione, la Turchia ha dato prova di saper apprezzare la cooperazione sia con l’Iran (membro della stessa area di commercio preferenziale, l’ECO) che con la Russia. È statp molto criticato a livello internazionale, infatti, l’acquisto da parte di Ankara del sistema antiaereo “S-400 Triumph” di produzione russa. D’altro canto, non del tutto definita è la posizione del’esecutivo di Erdoğan riguardo ad Assad. Questo è un elemento di contrasto nei confronti di Russia e Iran che, fin dal 2015, hanno attivamente difeso il regime ba’athista. Secondo Teheran, il Governo di Assad è fondamentale per la sicurezza regionale ed è per questo che, nonostante il peso delle sanzioni internazionali, l’amministrazione iraniana ha

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Medio Oriente e Nord Africa impiegato al massimo le sue risorse militari, per un totale di €13 miliardi dall’inizio della guerra (Brookings Inst). Intanto, a partire dal mese scorso, la Turchia è impegnata in difficili trattative per la definizione di una safe zone sotto sorveglianza internazionale nel Nord-Est della Siria: Ankara preme per un perimetro di 30/40km, mentre Washington preferisce una demilitarizzazione di soli 5km, che non comprometterebbe la sovranità curda sul territorio. È facile intuire che sia proprio questo l’obiettivo della Turchia. È in questa intricata rete di interessi che si prepara il campo, a metà settembre, per un summit trilaterale ad Ankara tra i principali garanti dei colloqui di Astana. L’incontro tra Erdoğan, Rouhani e Putin sarà il quinto di una serie iniziata nel novembre 2017. All’ordine del giorno vi sarà la situazione della provincia di Idlib, dove, a partire dal 19 agosto, si è creata una pericolosa escalation, quando le truppe turche si sono ritrovate ostaggio delle forze siriane e hanno

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richiesto l’aiuto della Russia. A complicare ulteriormente la situazione, negli ultimi giorni di agosto, è stata un’offensiva degli Stati Uniti - dichiaratamente contro il gruppo armato Hurras al-Din (istituto da alcuni exmembri di al-Qaeda) - ma che ha compromesso il cessate-il-fuoco promosso dalla Russia. Non di minor importanza è la questione del rimpatrio dei 5.639.676 profughi siriani, di cui circa 6,2 milioni sfollati interni (cifre UNHCR). Ora che le ostilità sembrano avviarsi verso una risoluzione, la Turchia ha già avviato la ricollocazione di parte dei 3,657,694 siriani accolti: sembrerebbero essere numerosi i casi, a Instanbul e Gaziantep, di individui costretti con la forza alla compilazione dei documenti per il ‘rimpatrio volontario’ ed estradati in Siria, spesso in una provincia lontana da quella originaria (HumanRightsWatch). Infine, di particolare rilevanza sarà il tentativo di istituire un comitato per la redazione di un testo costituzionale in vista di future libere elezioni nella Siria post-conflitto. In seguito ad alcune speculazioni

riguardo l’apertura di un dialogo tra Turchia e USA riguardo al processo costituente in Siria, il Ministro degli Esteri iraniano Mohammad Zarif ha dichiarato che sarebbe un errore strategico, per Ankara, disattendere la linea dei colloqui di Astana (alMonitor). Ciononostante, dopo l’incontro con l’omonimo russo Sergej Lavrov il 2 settembre a Mosca, il Ministro Zarif ha ribadito che, al di là delle discordanze, i negoziati di Astana sono comunque un successo: Turchia, Iran e Russia sono unite sotto l’obiettivo di vedere risolto il conflitto e smobilitati i gruppi separatisti che minacciano l’integrità della Siria. Resta da vedere, una volta che il regime di Assad avrà ristabilito il suo controllo sul territorio nazionale, quanto a lungo resisterà tale comunione d’intenti. Soprattutto per quanto concerne la Turchia, che finora ha solamente perseguito una strategia di contrasto alla milizie curde, ma che in futuro potrebbe voler realizzare i progetti geopolitici di più largo respiro.


America Latina e Caraibi Portorico: lo scandalo ‘Chatgate’ ha portato al crollo del Governo

Di Tommaso Ellena Da metà luglio l’isola di Portorico è precipitata nel caos sociopolitico. Il governatore Ricardo Roselló, in carica da gennaio del 2017, è accusato di aver inviato ai suoi fedelissimi di partito una serie di messaggi, attraverso l’applicazione Telegram, contenenti insulti sessisti, omofobi e razzisti. Nelle chat incriminate verrebbero inoltre derise le vittime dell’uragano María, il quale ha devastato l’isola nel 2017 causando la morte di oltre 3000 persone. I messaggi sono stati resi pubblici il 13 luglio scorso dal Centro di Giornalismo Investigativo (CPI), una ONG con sede nella capitale San Juan, il cui obiettivo principale è quello di incrementare l’accesso all’informazione per tutti i cittadini del paese. L’indignazione popolare ha portato molti abitanti a scendere per le strade della

città, chiedendo le dimissioni dello stesso governatore. Le proteste sono state sostenute anche da personaggi rilevanti dello spettacolo, tra cui il cantante Ricky Martin, il quale ha postato sui propri profili social un video in cui ha criticato fortemente Roselló, promettendo di unirsi anch’egli alle manifestazioni. Dopo più di una settimana di tensione, il governatore ha presentato le scuse ufficiali. Ciò non ha però placato l’ira dei manifestanti, i quali hanno continuato ad occupare le vie di San Juan urlando a gran voce: “¡Ricky (Rosselló), renuncia!”. Il 25 luglio, Rosselló ha dunque annunciato le dimissioni attraverso un video pubblicato sulla propria pagina Facebook. La caduta del governatore era attesa da giorni; dall’inizio dello scandalo, ben 14 membri della sua amministrazione hanno presentato le dimissioni. Nel breve discorso, egli ha dichiarato: “Dopo aver ascoltato

le proteste, aver parlato con la mia famiglia, pensato ai miei figli, oggi annuncio che rinuncerò al ruolo di governatore dal 2 agosto”. Il successore designato, l’attuale ministro della giustizia Wanda Vázquez, è già diventata bersaglio di nuove accuse. I manifestanti sostengono infatti che il caso Rosselló sia solo la punta di un iceberg. Questo scandalo si somma difatti ad altri casi di corruzione che hanno riguardato questo governo: solo poche settimane prima dello scandalo Chatgate, un giudice federale ha accusato alcuni ex funzionari del Governo di Roselló di cospirazione a scopo di frode, truffa elettronica e riciclaggio di denaro sporco. All’inizio di luglio queste accuse hanno portato all’arresto dell’ex segretaria per l’educazione Julia Keleher e dell’ex direttrice dell’amministrazione sanitaria Ángela Ávila. Rosselló, in tal caso, ha criticato l’attività fraudolenta degli ex collaboratori, dichiarando che

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America Latina e Caraibi il suo Governo “non tollera la corruzione”. A queste problematiche si aggiunge la crisi economica che colpisce Portorico da più di un decennio. Nel maggio del 2017, Rosselló è stato costretto a dichiarare la bancarotta statale; il tasso di povertà aveva raggiunto quota 45%, con un saggio disoccupazionale pari al doppio rispetto alla media degli Stati Uniti. Rosselló aveva annunciato di volersi appellare al Titolo III della Ley para la Supervisión, Administración y Estabilidad Económica de Puerto Rico (Promesa), che contempla un processo di ristrutturazione del debito simile alle norme

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di protezione per bancarotta statunitense. Tale scelta era stata valutata positivamente, tra i vari, dall’agenzia Moody’s; tuttavia, gli effetti non sono ancora tangibili e la grande maggioranza della popolazione resta in condizioni economiche critiche. Dal canto loro, gli Stati Uniti osservano con molta attenzione la situazione politica di Portorico: l’isola, infatti, potrebbe ben presto diventare lo Stato numero 51 degli States. A tal riguardo, due anni fa si tenne un referendum a valore consultivo sulla modifica dello status giuridico del paese. Nonostante la scarsa partecipazione dei

votanti (solo il 22,7 degli aventi diritto si è recato alle urne), la gran maggioranza delle preferenze (97%) è stata a favore dell’annessione agli USA. La situazione è però tuttora in fase di evoluzione. Se da un lato la la crisi economico-politica rischia di rallentare questo processo, dall’altro anche lo stesso Trump non sembra disposto a sostenere con fondi pubblici statunitensi l’enorme debito accumulato dall’isola caraibica nel corso dei decenni. Spetterà quindi al nuovo Governo ristabilire ordine sociale e assicurare il rilancio economico.


America Latina e Caraibi Il ‘polmone verde del mondo’ brucia tra dispute e interessi geopolitici

Di Stefania Nicola Le immagini raffiguranti la foresta amazzonica avvolta da una coltre di fumo nero e da ingenti fiamme, diffuse dai media mondiali nelle scorse settimane, hanno scatenato una vera e propria mobilitazione sui social. Con l’hashtag #PrayforAmazonas, molte persone hanno denunciato lo scarso impegno politico per salvaguardare “la più grande foresta pluviale rimasta”. Nel mirino, in particolare, è finito il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, ritenuto responsabile di aver promesso all’attività mineraria e agricola nuove concessioni per lo sfruttamento di suolo e sottosuolo. Alcune foto della Foresta in fiamme sono state condivise su Twitter dal presidente francese Macron e da note celebrità, scatenando molte polemiche in quanto scattate in altri contesti e in anni precedenti. Questo sembrerebbe avvalorare, per i sostenitori di Bolsonaro, le accuse di sensazionalismo che quest’ultimo ha rivolto a

Macron. Inoltre, il presidente brasiliano ha più volte ribadito che “L’Amazzonia è del Brasile” e che nessun paese europeo ha il “diritto morale” di parlarne, soprattutto dopo aver distrutto gli ecosistemi del proprio territorio.

maggiore sembra essere legata alla ‘volatilità’ del tasso di deforestazione, caratterizzato da picchi e flessioni fortemente collegati ai cicli elettorali e, pertanto, difficilmente controllabile senza una politica comune in materia ambientale.

Appurato che la causa degli incendi non è una conseguenza diretta del cambiamento climatico ma di natura dolosa, come sostiene il quotidiano inglese The Times, occorre capire quali siano gli interessi in gioco e chi sia legittimato a prendere delle contromisure.

Gli incentivi fiscali dei governi che si sono susseguiti, secondo lo scienziato americano Philip Fearnside, hanno giustificato il disboscamento per costruire miniere, strade, campi di soia e allevamenti di bestiame; questi ultimi soprattutto per rispondere all’elevata domanda mondiale di proteine animali. Inoltre, dai suoi e altri studi, è emerso che investire nella deforestazione è anche un modo sicuro per riciclare i proventi del traffico di droga, di attività illecite o in generaleentrate non dichiarate. Dunque, la Terra do meio, un territorio delle dimensioni della Svizzera, sarebbe diventata da molti anni una sorta di terra di nessuno, fuori dal controllo del Governo brasiliano e in cui gli affari prosperano ai danni dell’ambiente e delle popolazioni indigene ivi stanziate.

La deforestazione dell’Amazzonia non è un fenomeno recente, ma documentato a partire dagli anni ‘70. L’attuale allarmismo, però, è giustificato da una nuova consapevolezza: come sottolinea il Sole24ore, se si procederà a questo ritmo sarà impossibile mantenere il riscaldamento globale “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali, come richiesto dall’Accordo di Parigi per il clima”. La difficoltà

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America Latina e Caraibi Come si potrebbe salvare l’Amazzonia e chi ha il potere di farlo? Il docente e politologo statunitense Stephen Martin Walt suggerisce di considerare uno scenario ipotetico. Immaginiamo che, dice Walt, nel 2025 una risoluzione delle Nazioni Unite evidenzi l’imminente rischio per la salute del pianeta a meno che non vengano attuate, nell’immediato, determinate contromisure da parte del Brasile. Cosa succederebbe a seguito del rifiuto del Governo brasiliano? Una potenziale coalizione guidata dagli Stati Uniti minaccerebbe il paese

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con sanzioni economiche, blocchi navali e bombardamenti su strutture sensibili? Si arriverebbe ad una guerra? Si tratta di un’ipotesi azzardata, riconosce lo stesso Walt, che però richiama l’attenzione su un quesito etico e politico molto attuale: in caso di beni comuni presenti nel territorio di uno Stato, prevale la sovranità nazionale di quest’ultimo o la comunità internazionale ha il dovere di intervenire? Per rispondere a questa domanda occorre però considerare, come si legge su Internazionale, che “dietro agli incendi e alla

deforestazione dell’Amazzonia non c’è solo [...] una leadership poco sensibile ai temi ambientali. C’è un sistema di produzione e di consumo”, a livello mondiale, non più sostenibile. Alla luce di tutto ciò, l’Amazzonia diventa un possibile esempio della ‘tragedia dei comuni’, per cui, quando l’assetto proprietario non è adeguatamente definito, risulta difficile fare in modo che chi ne trae benefici si preoccupi di salvaguardare le risorse. In questo e in ogni caso riguardante l’emergenza climatica, però, se non ci sarà un impegno globale, il rischio è la sopravvivenza dell’intera specie umana.


Asia Orientale e Oceania How does Hong Kong’s history affect its latest political revolution?

Di Paolo Santalucia Hong Kong’s relationship with China has always been complicated. Both the more recent protests against the extradition bill and the ones that took place in 2014, sparked by a decision regarding proposed reforms to the Hong Kong electoral system, are not fully comprehensible to an external eye, unless they are being read in the context of what is a much more rooted issue than single protests. Back in 1898, Hong Kong, a small peninsula and group of islands jutting out from China’s Guangdong province, was leased by China to Great Britain for 99 years. During this period, which had its fair share of inconveniences - such as the temporary Japanese occupation of Hong Kong during World War II -, Hong Kong flourished economically and got used to certain liberties.

What Hong Kong developed during its British ruling was a strong protesting tradition, based on pacific protests and demonstrations that were allowed by the British government thanks to the latter’s liberal legacy. That led, in 1982, to many worries in what would be the upcoming return of Hong Kong under Beijing’s wing. Those worries eventually brought China and the U.K. to sign a Joint Declaration which, defining the ‘One country, two systems’ principle, had the goal of securing Hong Kong’s capitalistic economy and partially democratic political system, for 50 years after the handover. The fifth subparagraph of Art. 3 of the Joint Declaration clearly states: “Rights and freedoms, including those of the person, of speech, of the press, of assembly, of association, of travel, of

movement, of correspondence, of strike, of choice of occupation, of academic research and of religious belief will be ensured by law in the Hong Kong Special Administrative Region”. Since 1997, the date in which Hong Kong was returned to China’s jurisdiction, many protests started to take place, for a variety of reasons, but mostly due to Hong Kong population’s fear of being fully subjected to China’s rigid ruling, despite the fact that theoretically Hong Kong could rely on a number of additional forms of freedom given by the ‘One country, two systems’ principle due to it being a so-called Special Administrative Region. In more recent times, what seems to be the spark of Hong Kong’s protest is the infamous extradition bill, whose birth was instigated by the murder of a pregnant woman, killed by her fiancé on a romantic getaway

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Asia Orientale e Oceania

in Taiwan. This situation forced Hong Kong’s court to face quite a challenging problem because both the killer and the victim were citizens of Hong Kong and given the absence of any joint agreement between Taiwan and Hong Kong regarding the extradition of criminals. That eventually led Hong Kong’s government to propose a bill that would serve as a regulation in all the situations in which there’s a lack of an extradition treaty, including China. Hong Kong’s population has though interpreted this bill as a step further towards Chinese full ownership of Hong Kong, which is set to happen in 2047, the date of the eventual expiry of the ‘One country, two systems’ principle. The protests haven’t stopped yet, despite the assurance of the suspension of the bill made by Chief Executive Carrie Lam on July 9, who pronounced the extradition bill dead. The affirmations made by Carrie Lam have caused many people to worry about the nature of the act of suspension itself. The refusal of the Chief executive to formally and definitively withdraw the extradition bill has been seen as an intention of proposing that same bill once again sometime soon. If the bill were to be proposed again, fighting back against its success would be a much harder task, especially given the structure of Hong Kong’s legislative body. Despite the 16 • MSOI the Post

nature of the ‘Basic law’ of Hong Kong, which is to eventually make all the seats that form Hong Kong’s legislative council eligible by universal suffrage, today that is yet to be the case. During the ‘Sixth Legislative Council’ (2016-2020), for instance, out of a total of 70 seats, only 35 are eligible via direct elections. The remaining 35 seats are eligible through the so-called ‘functional constituencies’, who represent different sectors of the community, such as the medical field, the financial services field, the accountancy field and so on, and are mostly elected by small groups of elites and companies. Given the strong influence of companies in the election of the functional constituencies, one could fairly assume, due to the irresistible interest that the Chinese market sparks all over the world, that Beijing would manage to affect the work of Hong Kong’s legislative council (LegCo). Despite the strongest popularity of pro-democracy political parties over pro-Beijing parties through Hong Kong’s citizens, the structure of its ‘LegCo’ would alone pre-determine the fate of the proposal of another extradition bill. That seems to be the exact reason of the ongoing protests made by pro-democracy parties, regardless of the suspension of the extradition bill due to the failure of the second reading of such act, which took place on June 12. “It’s time for her to end her politicalcareer”affirmsJoshuaWong, in regards to Carrie Lam’s involvement. Wong is currently one of the most relevant faces in Hong Kong’s political revolution, and according to

him, pro-democracy parties won’t back down until the extradition bill will have been fully withdrawn. The dramatic nature of Hong Kong citizens’ fear of being overruled by Beijing seems to be also having its effects on one of the main aspects that has always characterized the dynamics of Hong Kong’s protests, its pacific nature. The latest demonstration at China Liaison office, which took place on July 21, might mark an important shift in pro-democracy groups’modusoperandiduetowhat appears to be a significantly violent turn. During this occasion, in fact, protesters expressed their anger through the use of eggs, projectiles, laser lights and graffiti in order to vandalize Beijing’s ice off in Hong Kong, causing a shocked reaction from Carrie Lam herself, who on the other hand doesn’t seem willing to satisfy any of prodemocracies groups’ requests. As the situation gets more and more critical, Beijing’s aim to further expand its role in Hong Kong’s liberal and capitalistic economy is revealing itself to be quite the double-edged sword. In fact, while it’s apparent that the very same dynamic struck China’s interest, due to the augmented ties that the total control over Hong Kong’s economy would allow China to have with the capitalistic world, there is also another matter that Beijing’s government consequently has to face: the freedom that Hong Kong’s population is used to being able to exercise, which is not something that they will back down on fighting for anytime soon.


Asia Orientale e Oceania Dai deepfake in Cina alla (dis)informazione intelligente

Di Gaia Airulo Appena qualche ora dopo essere stata lanciata sul mercato, lo scorso 30 agosto, l’app “Zao” è diventata una delle forme di intrattenimento più popolare e controversa degli ultimi tempi. Gratuita e disponibile sul sistema operativo sviluppato da Apple (iOS), l’applicazione permette di sostituire il proprio volto con quello delle celebrità in scene di film, serie tv, clip musicali o sportive e di condividere online i video modificati. Per vedere la propria faccia protagonista di una scena cult o di un video noto, è sufficiente scegliere tra gli spezzoni proposti, scattarsi un selfie e autorizzare il software all’utilizzo dell’immagine per realizzare il face-swapping. A sollevare lo scontento degli utenti e della società civile, tuttavia, sono state le politiche sul trattamento dei dati, le quali prevedevano che, accettando i termini e le condizioni di utilizzo, venissero ceduti a Zao pieni diritti sull’uso delle immagini caricate sulla piattaforma. I numerosi commenti negativi apparsi nell’App Store hanno spinto la società produttrice Momo Inc, a scusarsi pubblicamente e a modificare le condizioni d’uso, eliminando la clausola sul libero utilizzo dei dati e promettendo di

rimuovere dai server i contenuti caricati e poi cancellati dagli utenti. Nonostante la controversia, Zao è rimasta una delle app più scaricate in Cina. Nei giorni successivi, WeChat, l’app cinese di messaggistica istantanea che oggi conta un miliardo di utenti, ha bloccato sulla propria piattaforma la condivisione dei contenuti realizzati con Zao, etichettati come “rischiosi per la sicurezza”. Lo stesso tabloid Global Times, prodotto dal quotidiano ufficiale del Partito Comunista, ha sottolineato i rischi legati alla violazione della privacy dei consumatori e ha dichiarato che il paese sta formulando una sezione speciale delle norme vigenti che si occupi delle dispute legali causate dalle tecnologie di face-swapping. A esprimersi anche Alipay, maggiore piattaforma di pagamenti online nel mondo, la quale ha rassicurato i consumatori che i video realizzati con Zao non possono essere utilizzati per frodare lo Smile to Pay system, sistema di pagamento effettuato attraverso il riconoscimento facciale. La violazione della privacy e il

furto dei dati che ne può derivare non sono gli unici rischi attribuiti alla nuova app. Zao, infatti, è diventata oggetto di dibattito anche a livello internazionale poiché classificata come un’applicazione in grado di produrre deepfake, ovvero di combinare, per mezzo dell’Intelligenza Artificiale, immagini o video originali sovrapponendone altri di diversa provenienza. Si tratta, in pratica, di quella che può essere considerata l’ultima frontiera della disinformazione, poiché permette la manipolazione di contenuti multimediali che appaiono originali agli occhi di chi li riceve. Il termine è apparso per la prima volta nel 2017 sul sito di intrattenimento Reddit, dove un utente chiamato, appunto, deepfakes ha pubblicato una serie di video erotici nei quali i volti delle attrici venivano sostituiti da quelli di celebrità di Hollywood. Dopo essere stato vietato per fini pornografici da piattaforme come Pornhub o Twitter, l’utilizzo del deepfake si è diffuso soprattutto a scopo di intrattenimento. Per farsi un’idea di come questa tecnica abbia la capacità di alterare completamente la percezione della realtà, si possono guardare i video realizzati dall’utente intervistato dal The Guardian, MSOI the Post • 17


Asia Orientale e Oceania il quale considera la creazione di video falsi un hobby con cui spera di poter aumentare la consapevolezza del pubblico sulle potenzialità di tale tecnologia. Oltre ad una forma di svago, però, l’alterazione di contenuti multimediali per mezzo dell’Intelligenza Artificiale rappresenta una minaccia reale alla sicurezza collettiva, per le conseguenze che essa può avere sia nella vita privata delle persone, sia nell’intera società. I rischi dei deepfake, peraltro, si affiancano a quelli prodotti da altre tecnologie di mimesi digitale. Esemplare è in tal senso la frode recentemente riportata dal Wall Street Journal ai danni di un amministratore delegato di una società energetica inglese, il quale ha versato una somma di €220.000 a quello che credeva essere il direttore generale della società madre tedesca. Le indicazioni gli erano state fornite da una telefonata che riproduceva, per mezzo dell’AI, il suono, la tonalità, e persino l’accento tedesco della voce originale del CEO. Per quanto riguarda i danni alla collettività riconducibili alla diffusione dei deepfake, il timore più diffuso è che essi possano diventare una fonte

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di disinformazione, ancora più potente delle fake news così come le conosciamo. Oltre a rendere virali contenuti falsi facilmente realizzabili, il rischio è che la tecnica possa essere utilizzata a scopi politici per condizionare i voti degli elettori, soprattutto in vista delle presidenziali americane del 2020. Nel report realizzato da Paul Barret, vicedirettore del New York University Stern Center for Business and Human Rights, i video deepfake sono indicati, infatti, come una delle maggiori minacce dalla quale dovrebbe difendersi l’industria dei social media. È proprio con lo scopo di farsi trovare preparati alle potenzialità dell’AI che Facebook, Microsoft e diversi accademici hanno lanciato il contest ‘Deepfake Detection Challenge’, finalizzato a sviluppare nuove tecniche di riconoscimento e intercettazione dei video deepfake. A partire dal prossimo ottobre fino a marzo 2020, i partecipanti lavoreranno su un insieme di dati ricavati da video falsi prodotti e diffusi in rete appositamente da Facebook, che ha contribuito a finanziare l’iniziativa con una cifra di $10 milioni. L’utilizzo

dell’Intelligenza

Artificiale nei social media era già stato segnalato come uno strumento in grado di alimentare la disinformazione online attraverso la creazione sempre più accurata di fake news e la sua distribuzione virale. Se, alla falsificazione delle informazioni date dalla parola scritta, si aggiunge la possibilità di creare facilmente falsi contenuti video e audio, le sfide per il mondo dell’informazione si infittiscono. Le priorità a livello globale per rispondere prontamente al fenomeno del deepfake riguardano, prima di tutto, la ricerca tecnologica per approfondire le tecniche di alterazione di contenuti multimediali e l’abilità nel riconoscerle. In secondo luogo, di fondamentale importanza è anche la dimensione normativa per l’implementazione di leggi che possano regolare l’utilizzo di tale strumento senza minare la libertà di espressione online. Infine, occorre aumentare la consapevolezza degli utenti su questa ormai diffusissima tecnica che, da forma di intrattenimento, può diventare uno mezzo di disinformazione capace di ingannare i nostri sensi, portandoci a dubitare non più solo di quel che leggiamo, ma anche di ciò che vediamo o sentiamo.


Economia e Finanza 5G: quando geopolitica e tecnologia si intrecciano

Di Alberto Mirimin Internet of things: connettere tutti i dispositivi attraverso le reti Internet. Per raggiungere questo obiettivo, negli ultimi anni, è stato sviluppato un insieme di tecnologie etichettato come 5G (ossia di quinta generazione), che vedrà ufficialmente la luce nel giro, ormai, di pochi mesi. Se il 2G ha accompagnato la diffusione dei telefoni cellulari, il 3G ha dato la spinta alla diffusione degli smartphone e delle app e il 4G ha dato maggior accessibilità a messaggistica e servizi di streaming, il 5G si propone di essere ancor più rivoluzionario. I nuovi standard tecnologici, in sostanza, aumenteranno la velocità di download dei dati di circa 45 volte rispetto alle tecnologie attuali, diminuiranno il tempo di latenza, ossia l’intervallo tra l’invio di un segnale a la sua ricezione, e aumenteranno la capacità delle reti di gestire il traffico dat i di 10-100 volte in numero di dispositivi connessi. Questa diminuzione dei tempi,

dunque, potenzialmente potrebbe avere implicazioni di enorme rilevanza in tutte quelle circostanze che richiedono immediatezza tra input e output: guida automatica, controllo di macchinari industriali, monitoraggio in tempo reale di infrastrutture e traffico, fino ad applicazioni mediche attraverso cui sarà possibile operare a distanza mediante l’uso di braccia robotiche e connessioni veloci. In senso pratico, quindi, se un paese detenesse il monopolio sulle tecnologie 5G, avrebbe un enorme potere non solo in ambito tecnologico ed economico, ma soprattutto in quello della sicurezza e dell’estrazione di dati sensibili e informazioni. Lo scenario di un monopolio, o quantomeno qualcosa di simile, non è molto distante. Infatti, Huawei, colosso cinese delle telecomunicazioni, possiede circa il 50% delle infrastrutture del 5G e ha dichiarato di aver già stipulato 50 contratti commerciali in tutto il mondo, di cui 28

in Europa. Fra i principali concorrenti, oltre agli europei Nokia ed Ericsson, vi è un’altra azienda cinese, la ZTE, che - a sua volta- ha dichiarato di aver già all’attivo 25 contratti a livello globale. Il periodo attuale, come noto, è quello della guerra commerciale a colpi di dazi fra gli Stati Uniti di Donald Trump e la Cina di Xi Jinping. Di conseguenza, se come detto la Cina si trova in una posizione di notevole vantaggio in alcuni segmenti del mercato rispetto agli Stati Uniti, i quali, al contrario, sono presenti sulla scena del 5G con aziende come Cisco, Intel e Qualcomm - leader mondiali nella produzione di componenti che vengono impiegate dalle quattro aziende sopracitate per creare le loro soluzioni infrastrutturali e software, che poi rivendono ai clienti business e carriers (gli operatori telefonici, ndr), ma focalizzate principalmente sul mercato business - ecco spiegata la ragione per cui negli ultimi mesi il 5G è diventato un tema decisamente caldo all’interno dibattito geopolitico del MSOI the Post • 19


Economia e Finanza mondiale. Non è un caso, infatti, che lo scorso maggio il presidente Trump abbia firmato un decreto con il quale ha posto un veto diretto alle compagnie statunitensi relativamente all’utilizzazione di strumenti di telecomunicazione prodotti da aziende straniere ritenute a rischio per la sicurezza nazionale: in parole povere, divieto per le aziende statunitensi di intrattenere rapporti commerciali con Huawei (e ZTE), in quanto definiti come pericoli per la sicurezza nazionale. A tal proposito, si è recentemente esposto Ken Hu, vicepresidente di Huawei, il quale, dal Mobile World Congress di Shanghai dello scorso giugno ha voluto rimarcare che la volontà aziendale non è quella di fare a meno dei fornitori americani, ma che se così dovesse essere, il livello di performance acquisito permetterebbe tranquillamente di farlo, confermando in tal modo una certa posizione di forza nei confronti del ‘nemico occidentale’. Intanto, all’appello di Donald Trump di sospendere le collaborazioni con la Cina, che ha immediatamente sortito l’effetto di irrigidire i rapporti tra Huawei e alcuni colossi del web come Google e Facebook, hanno subito risposto positivamente Australia, Nuova Zelanda e Giappone, mentre da parte delle potenze europee la reazione è stata nettamente più fredda, visto che a rompere con il gigante cinese al momento sono state solo alcune aziende private di telecomunicazioni, come la francese Orange. 20 • MSOI the Post

L’Unione Europea e i suoi membri sembrano realmente essere l’ago della bilancia della questione, dato che la relativa propensione a Occidente piuttosto che a Oriente muoverebbe, e non di poco, lo scacchiere geopolitico internazionale. La Commissione europea, dal canto suo, ha rimandato la decisione ai singoli membri. Infatti, in un rapporto relativo al tema della cybersecurity, ha affermato che non verrà messo in atto alcun veto nei confronti di Huawei a livello europeo, lasciando agli stati membri la libertà di agire sulla base del rischio rilevato autonomamente per la sicurezza nazionale. Tuttavia, nell’ottica di una politica comunitaria, la Commissione ha aggiunto che prima della fine dell’anno saranno stabiliti standard di sicurezza minimi che verranno applicati uniformemente. Se, da un lato, la rottura dei rapporti commerciali con la Cina per il Vecchio Continente implicherebbe rallentare il passaggio al 5G e costi di installazione delle nuove infrastrutture potenzialmente più elevati, dall’altro lato va tenuto in conto anche che la Cina, nella quale le comunicazioni sono filtrate da un firewall chiamato Golden Shield Project che non consente una comunicazione libera, sarebbe in minima parte assoggettata alle normative europee, e che di conseguenza questo fattore sarebbe un’incognita, senza considerare che i componenti cinesi sarebbero al centro di una guerra quotidiana che ha come rivale gli Stati Uniti. Dato che si sta parlando di geostrategie globali, un ruolo viene poi certamente

giocato anche dalla Russia di Vladimir Putin. Infatti, a margine dell’ottava visita istituzionale del presidente cinese Xi Jinping al Cremlino, utile per discutere i futuri piani strategici fra i due paesi, si è discusso anche dello sviluppo del 5G, soprattutto in ottica di un’ipotetica collaborazione contro le misure adottate da Trump. Non a caso, Huawei ha siglato un accordo con la compagnia di telecomunicazioni russa MTS per lo sviluppo della tecnologia 5G in Russia, che, stando a quanto fatto trapelare dall’azienda russa, potrebbe partire già tra il 2019 e il 2020. Huawei, in realtà, si è mossa con un raggio ancor più ampio. Lo scorso aprile, infatti, il CEO di Huawei, Ren Zhengfei, ha dichiarato la volontà di rendere il marchio un importante riferimento tecnologico in America Latina. Non a caso, in linea con le recenti evoluzioni geopolitiche, il presidente venezuelano Nicolas Maduro, ha annunciato un investimento congiunto con Huawei, ZTE e società russe per implementare una rete 5G nel il paese, scontrandosi così ancora una volta - in questo caso, indirettamente - con Trump. La battaglia, dunque, è nel pieno del suo svolgimento e sta coinvolgendo tutti i principali attori dell’arena internazionale. Temi come l’innovazione, la tecnologia e la sicurezza cibernetica sono ormai entrati a far parte dell’ordine del giorno dei più alti organi statali e internazionali, con il 5G che oggi appare esserne il tema centrale. Il futuro tecnologico è ad un passo e chi non riuscirà a coglierlo in tempo si ritroverà a concedere un grande vantaggio ai propri avversari.


Economia e Finanza Dalla guerra commerciale al cambiamento climatico: l’eredità del G7 di Biarritz

Di Giacomo Robasto L’incontro annuale dei capi di stato e di governo delle maggiori economie mondiali (più noto al con l’abbreviazione corrente ‘G7’), che quest’anno è stato ospitato dalla Francia nella suggestiva cornice di Biarritz, rappresenta da ormai 45 anni un’occasione di confronto imprescindibile nella formulazione delle strategie politiche ed economiche delle principali potenze mondiali. Infatti, benché il primo vertice fosse stato convocato nel 1975 dall’allora presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, con il solo intento di dare una svolta ai postumi della crisi energetica del 1973, negli anni successivi i temi oggetto del confronto multilaterale aumentarono rapidamente, così come mutarono in parte i paesi rappresentati. In questo contesto, sia la fine della Guerra Fredda, che nel 1991 ha posto fine a una visione meramente bipolare del mondo e ha aperto al libero mercato le

economie delle ex Repubbliche Sovietiche, sia l’intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali (globalizzazione), stanno offrendo ai leader dei paesi più sviluppati una moltitudine crescente di argomenti di dibattito, che quest’anno non si sono limitati alla crescita dell’economia e alla geopolitica. Sulla scia del tema ufficiale dell’incontro, che quest’anno è stato dedicato alla lotta alle diseguaglianze, l’agenda dei lavori ha visto tra i principali punti di dibattito il sempre più acceso confronto sul piano geoeconomico tra Cina e Stati Uniti (considerata da alcuni come una vera e propria “guerra commerciale”). Infatti, non sono certo passati in secondo piano le vicende inerenti la politica estera della Russia - esclusa dal gruppo (che, allora si chiamava G8, ndr) giá dal 2014, in seguito all’annessione della Crimea, considerata illegittima dalla comunità internazionale nonché il destino dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano. Il recente sequestro

di una petroliera britannica e l’abbattimento di un drone americano nelle acque del Golfo Persico, infatti, hanno inasprito la tensione nella regione. Inoltre, sia le temperature roventi che hanno interessato l’Europa a fine agosto, sia i vasti incendi che hanno coinvolto la regione amazzonica in America Latina hanno suggerito ai leader presenti un confronto sulla sempre più urgente questione del cambiamento climatico. In materia, tuttavia, l’esito dei colloqui è stato ben al di sotto delle aspettative, essendosi limitato allo stanziamento di un fondo comune da €20 milioni (sottoscritto dai soli paesi rappresentati al G7) per far fronte all’emergenza incendi in Amazzonia, su iniziativa della Francia. Nonostante l’ulteriore promessa da parte del premier britannico Boris Johnson di €11 milioni destinati alla riforestazione dell’area, difatti, il Gruppo non ha varato alcuna misura radicale per contenere l’aumento della temperatura media globale, che gli esperti

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Economia e Finanza prevedono in rapida ascesa nel futuro prossimo. Dinanzi a una tale molteplicità degli argomenti oggetto del dibattito, è chiaro che, da parte dei partecipanti, siano emerse posizioni diverse, talvolta molto distanti tra loro. Tuttavia, il presidente francese Emmanuel Macron è stato abile a trovare un comune filo conduttore tra le diverse poste in gioco, ottenendo in tal modo una leadership del gruppo che alla fine dei lavori si è rivelata indiscussa non soltanto per il suo carisma e l’entusiasmo, ma anche per l’assenza di potenziali rivali. Se è vero la sostanziale indifferenza al cambiamento climatico e i dazi commerciali ai danni della Cina hanno conferito a Donald Trump e agli Stati Uniti un’immagine poco credibile alla comunità internazionale, è altrettanto vero che il Regno Unito mira a

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una prossima uscita dall’Unione Europea, esternando un disinteresse implicito a influire attivamente sulle politiche europee comuni in materia di economia e difesa. Inoltre, con la Germania in recessione tecnica a causa del calo della produzione industriale nel primo semestre di quest’anno, e la cancelliera Angela Merkel ormai prossima alla scadenza del suo mandato, quella di Macron sembra essere al momento l’unica alternativa credibile per una leadership illuminata, almeno nel Vecchio Continente. Infatti, all’inquilino dell’Eliseo va riconosciuto non soltanto il merito di avere richiamato una maggiore attenzione sul cambiamento climatico, inteso come credibile minaccia per le generazioni future, ma anche una notevole lungimiranza diplomatica. Nelle settimane immediatamente precedenti il G7, la Francia si è impegnata per un incontro, a margine, tra il

ministro degli esteri iraniano Mohammad Zarif e il presidente degli Stati Uniti per degli nelle eventuali progressi relazioni tra i due paesi. Benché alla fine il colloquio tra i due non si sia materializzato, il lungo colloquio francoiraniano a ridosso del G7 su questa base è stato importante poter fare il punto della situazione, continuare a convergere e rendere operative le condizioni per giungere a una de-escalation delle tensioni Iran-Stati Uniti. Questi ultimi, infatti, essendosi ritirati unilateralmente dall’accordo sul nucleare iraniano nel maggio 2018, hanno rinnovato importanti sanzioni economiche ai danni dell’Iran, diversamente dai paesi dell’Unione Europea, che si sono impegnati a non sottoporre l’Iran a sanzioni economiche in cambio della rinuncia iraniana al programma nucleare. Se il G7 di Biarritz è stato almeno utile per ribadire l’importanza del multilateralismo, su iniziativa francese, è perché, oggi più che mai, i leader mondiali sembrano agire in ordine sovrano sparso, anteponendo i propri interessi a quelli della collettività internazionale (come dimostrano le scelte degli Stati Uniti). Oltre a qualche passo avanti nel confronto CinaStati Uniti e agli impegni sul clima, molto resta però da fare per dare una risposta alle disuguaglianze nel mondo, poiché le distanze tra i paesi membri in merito alle ricette proposte da ciascuno di essi per porre un freno o invertire il trend, non hanno fatto sì che dal vertice emergesse una risposta unitaria e di rilievo. Appuntamento nel 2020, a Miami (USA).


Europa Orientale e Asia Centrale L’Ucraina torna al voto: Zelenskij vince ancora

Di Davide Falcomatà Domenica 21 luglio, a tre mesi esatti dal secondo turno delle presidenziali, l’Ucraina si è recata ancora alle urne, questa volta per rinnovare il Parlamento. Previste per la fine di ottobre, ma anticipate tramite decreto presidenziale, queste elezioni politiche hanno segnato la seconda vittoria elettorale del neo-presidente Volodymyr Zelenskij e del suo partito Sluha narodu (‘Servo del popolo’). Forte dell’ampio consenso ottenuto in aprile, Zelenskij ha preferito non aspettare il 27 ottobre per procedere alle votazioni parlamentari. Attendere ottobre, difatti, avrebbe significato trascorrere

i primi mesi del suo mandato con un’assemblea parlamentare in mano alla maggioranza del presidente uscente, Petro Porošenko. Questa ipotesi di ‘coabitazione’, tipica dei sistemi semipresidenziali, avrebbe comportato per il neo-eletto un rischio concreto di perdita di consensi. Invece, con una data posta a così breve distanza, la scelta di Zelenskij si è rivelata strategica, avendo ottenuto un risultato ben al di sopra delle aspettative. Ad oggi, ‘Servo del popolo’ può contare su una maggioranza di 253 seggi sui 450 della Verkhovna Rada, l’assemblea monocamerale ucraina (in realtà 424, non potendosi considerare i 26 collegi uninominali delle aree separatiste del Donbass).

A rafforzare il successo del partito presidenziale è l’ampio distacco che lo separa dalle altre forze politiche. Soltanto altri quattro partiti sono riusciti a superare la soglia del 5% ed entrare in parlamento; il primo tra questi per numero di voti ha ottenuto il 13% dei consensi, di fronte al 43% di Servo del popolo. Si tratta di Opozycijna platforma - Za Žyttja (‘Piattaforma di opposizione Per la vita’), secondo arrivato di questa tornata elettorale. Comunemente considerato come filorusso e guidato da Viktor Medvedčuk, il partito ha ottenuto in totale 103 seggi. Non a poca distanza, con un consenso circa dell’8% e con 24 seggi ciascuno, si trovano

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Europa Orientale e Asia Centrale i due grandi sconfitti di queste elezioni: Petro Porošenko e Julija Tymošenko. L’ex-presidente e il suo partito, Evropejs’ka Solidarnist (‘Solidarietà Europea’), già pesantemente sconfitti alle presidenziali, passano così da essere forza di governo a partito di opposizione. Da parte sua, Tymošenko, alla guida di Bat’kyvščyna (‘Patria’), che già arrivava dal 5% delle politiche del 2014, sembra rimanere confinata a un ruolo politico marginale. Infine, ottenendo il 5,84% e 20 seggi, fa il suo ingresso nell’assemblea anche Svjatoslav Vakarčuk, cantante di una popolare band ucraina, a capo del nuovo partito Holos (‘Voce’). Rimangono fuori dall’aula diversi altri partiti e personaggi più o meno noti, tra cui la coalizione dell’estrema destra Svoboda - Pravij Sektor Natskorpus, fermatasi al 2,6%. Questo nuovo Parlamento consegna dunque a Zelenskij una maggioranza assoluta, che gli permette di non dover cercare per ora alcuna alleanza con altri partiti. Solo nel momento in cui vorrà procedere a una riforma della Costituzione, la nuova maggioranza dovrà cercare degli appoggi esterni per raggiungere i 2/3 dei seggi richiesti - che troverà molto probabilmente tra le fila di ‘Voce’ e quelle di ‘Patria’. E la possibilità di un progetto di riforma costituzionale non sembra certo così astratta, se si pensa al progetto politico alla base del successo di ‘Servo del popolo’. I punti principali potrebbero essere ridotti a due: rinnovamento del sistema politico e lotta alla corruzione. In particolare, si è finora parlato di abolizione dell’immunità parlamentare, di riforma del sistema elettorale (una proposta sull’abbassamento 24 • MSOI the Post

della soglia di sbarramento al 3% è già stata avanzata, ma invano) e di una legge per l’impeachment del presidente. Sul fronte della politica interna, di fronte a un elettorato deluso e frustrato, il progetto di Zelenskij si fonda su una promessa di novità, integrità morale e di una netta cesura rispetto a un passato di corruzione e malapolitica. Al di là di questa ambiziosa promessa di rinnovamento interno, sarà interessante osservare come l’Ucraina di Zelenskij si posizionerà rispetto alle due grandi questioni di politica estera: il conflitto con i separatisti del Donbass e i rapporti con l’Unione Europea. Sul fronte del conflitto in Donbass, Zelenskij ha più volte promesso la pace, e in piena campagna elettorale, circa un mese fa, si è rivolto direttamente a Putin in un videomessaggio su Facebook, dicendosi disposto a negoziare direttamente con il presidente russo. Una rapida soluzione del conflitto ad oggi appare inverosimile. Sembra tuttavia probabile che un nuovo ciclo di negoziazioni prenderà il via nei prossimi mesi, reiterando lo schema degli accordi di Minsk del 2015. Per ciò che invece riguarda i rapporti con l’Unione Europea e, conseguentemente, quelli con la Russia, Zelenskij si è più volte detto fermamente convinto che la via da seguire sia l’integrazione verso occidente. In un’intervista del 18 giugno scorso per il giornale tedesco Bild, il neopresidente ha affermato: “Ukraine is already a part of the European family. Ukraine seeks for European integration as the major demand of our people”, rassicurando anche i

membri dell’alleanza atlantica sull’affidabilità dell’Ucraina come partner esterno della NATO e sugli sforzi che saranno fatti per entrare nell’alleanza. Le stesse posizioni sono state confermate in sede ufficiale durante la conferenza stampa a seguito del 21° summit UcrainaUE, tenutosi l’8 luglio a Kiev. Se da un lato, dunque, l’apertura verso l’Europa appare ben chiara, dall’altro la volontà di negoziare direttamente con la Russia sul Donbass potrebbe essere intesa come una apertura verso est. Appare inoltre ragionevole pensare che di questa ambiguità approfitteranno le opposizioni dei due opposti schieramenti (filorussi ed europeisti), per attaccare presidente e governo dai due lati. Al di là delle speculazioni politiche, ciò di cui oggi si può essere più certi è che queste elezioni hanno segnato la fine di una campagna elettorale logorante, che ha monopolizzato la scena politica e mediatica per quasi un anno. Se questo sarà anche l’inizio di un nuovo capitolo per la politica ucraina dopo i cinque anni delle piazze dell’Euromaidan e del declino di Porošenko -, ancora non ci è dato sapere. Per ora, non si può che guardare ai primi segnali di cambiamento e al prossimo 24 agosto, anniversario dell’indipendenza del paese: su decisione di Zelenskij, la tradizionale parata militare non si terrà e i soldi non utilizzati andranno alle forze armate. Lo stesso giorno, sarà probabilmente fissata la data della prima convocazione della neo-eletta assemblea. Di lì in avanti, si potrà osservare se le promesse di Zelenskij saranno mantenute.


Europa Orientale e Asia Centrale La calda estate di Mosca, tra arresti e proteste anti-Putin

Di Mario Rafaniello Con il voto dello scorso 8 settembre si è conclusa la difficile estate vissuta da Mosca. Nella capitale russa gli elettori erano chiamati a rinnovare la composizione del consiglio comunale. L’esclusione a metà luglio dei candidati indipendenti oppositori di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, ha scatenato accese proteste. Arresti di massa e numerosi episodi di violenza tra manifestanti e forze dell’ordine hanno provocato la ferma reazione anche delle istituzioni europee e delle associazioni per i diritti umani. In luglio, il Comitato elettorale centrale aveva respinto

56 delle 228 candidature ufficialmente registrate per concorrere al rinnovamento del consiglio comunale di Mosca. La maggior parte degli esclusi erano candidati presentatisi come indipendenti, ma legati all’opposizione. Questo tipo di candidatura richiede una raccolta firme (circa 5.000) presso l’elettorato, pari al 3% dei votanti del distretto in cui ci si intende candidare. La decisione di respingere molte candidature contestando proprio il numero delle firme raccolte ha provocato le proteste degli esclusi dal voto di settembre. Tra questi ultimi i nomi più noti sono quelli del presidente del municipio di Krasnoselsky Ilya Yashin, dell’oppositore Dmitry Gudkov e dell’avvocatessa

Ljubov Sobol. Quest’ultima è stata, insieme al noto dissidente Alexey Navalny, tra i promotori della serie di manifestazioni antigovernative iniziate il 14 luglio scorso. Migliaia di persone da allora si sono riunite regolarmente ogni fine settimana per chiedere la riammissione dei candidati esclusi e trasparenza nelle elezioni. Una delle più imponenti proteste si è svolta il 27 luglio: sono stati arrestati oltre 1.300 manifestanti, secondo la ONG Ovd-Info. Inoltre, più di 50.000 persone avrebbero partecipato ai cortei del 10 agosto, come riporta la ONG White Counter. Secondo Konstantin Gaaze, studioso del think tank Carnegie Moscow intervistato da una testata russa, la massiccia aderenza “invia un segnale

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Europa Orientale e Asia Centrale molto forte”. Tuttavia bisogna tener conto della reale portata di queste cifre, considerando i 12 milioni di abitanti della capitale russa. Il voto di Mosca si è svolto durante una più ampia tornata elettorale, che ha coinvolto gran parte della Federazione. Oltre alla Duma moscovita, si è votato per il rinnovo di 16 governatori e di 13 deputati regionali. Mentre nel resto del territorio russo la leadership di Putin non è stata messa in discussione, nella capitale il suo partito ha perso terreno. Mentre i seggi occupati dai consiglieri vicini a Russia Unita sono scesi da 38 a 25 sui 45 totali, le forze d’opposizione sono salite da 7 a 20. I seggi persi sono stati assegnati al Partito Comunista, al partito Jabloko e a Russia Giusta. Ufficialmente Russia Unita non ha partecipato alle elezioni per il consiglio comunale: si sono presentati come indipendenti almeno 43 candidati legati al partito di Vladimir Putin. La scelta è dovuta probabilmente ai sondaggi negativi nei confronti degli esponenti di Russia Unita. Tra questi, uno riportato dalla testata Meduza vedeva solo il 22% degli abitanti di Mosca favorevoli a un candidato espressione dell’attuale governo. Un altro sondaggio proposto da Levada Center indicava al 28% la percentuale di gradimento verso il partito di Putin. Un risultato probabilmente figlio dei duri mesi di protesta che hanno animato le strade di Mosca prima del voto. Un contributo decisivo è stato fornito anche da Alexey Navalny. Arrestato durante le proteste estive e poi rilasciato, 26 • MSOI the Post

negli ultimi anni è diventato l’esponente principale delle forze antisistema. Si deve a Navalny l’idea del ‘voto intelligente’, strategia con la quale era possibile suggerire all’elettore (tramite un’applicazione) il candidato che avrebbe potuto danneggiare quello legato a Putin. Nell’arco dei mesi di protesta anche altre personalità di spicco della scena politica e sociale russa sono state arrestate. Ilya Yashin, presidente del municipio di Krasnoselsky e tra gli esclusi al voto per la Duma moscovita, ha subito una serie di arresti consecutivi, denunciati anche da Amnesty International. La nota organizzazione per i diritti umani, nella medesima occasione, ha riportato anche la situazione dell’attivista Konstantinov Kotov, condannato a quattro anni di reclusione per aver partecipato a proteste non autorizzate. L’indagine riguardo le accuse a Kotov è durata solo pochi giorni. È stato scarcerato invece il 20 settembre l’attore Pavel Ustinov, inizialmente condannato a tre anni e mezzo di reclusione per aver lussato la spalla a un poliziotto, al momento dell’arresto. Suo malgrado è diventato simbolo delle proteste Yegor Zhukov, giovane studente arrestato ad agosto per alcuni video pubblicati sui social che, secondo le autorità, istigherebbero ad atti di estremismo. Subito dopo il provvedimento, è partita una petizione promossa sia studenti che da professori universitari, nella quale si chiede anche il rilascio di tutti gli altri attivisti incarcerati. I manifestanti, da allora, hanno fatto propria la causa di Zhukov, scendendo in

piazza con migliaia di volantini per reclamarne la libertà. “Tutte le persone private della libertà per aver partecipato alle proteste di quest’estate sono prigionieri politici”, ha affermato in una dichiarazione Oleg Orlov, direttore del Centro per i Diritti Umani, a proposito di questo complicato scenario. Le proteste di luglio e agosto hanno registrato un bilancio di migliaia di detenuti e di numerosi procedimenti penali. Alcuni dei manifestanti arrestati, come Ljubov Sobol, hanno iniziato anche scioperi della fame. Nei confronti di numerosi manifestanti sono stati intentati dei procedimenti penali da parte del Comitato investigativo. Alcuni media russi hanno ribattezzato questa preoccupante situazione come ‘Moskovskoe delo’, il ‘caso Mosca’. Le violenze avvenute negli scontri tra manifestanti e polizia hanno suscitato la reazione delle istituzioni europee. La presidentessa dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa Liliane Maury Pasquier, a ridosso degli avvenimenti, ha definito gli arresti di massa una “reazione sproporzionata”. Il Servizio di Azione esterna dell’UE, in un comunicato del 27 luglio, a altresì espresso la propria preoccupazione. Il 6 settembre, Amnesty International ha parlato di “attacchi senza precedenti” ai diritti umani avvenuti nel periodo pre-elezioni. La direttrice della sezione russa di Amnesty, Natalia Zviagina, ha denunciato in una dichiarazione gli oltre 2.600 arresti avvenuti, nonostante le proteste fossero state “sostanzialmente pacifiche”.


Africa Subsahariana Sudan uprising

Di Desideria Benini The International Crisis Group defined what is happening in Sudan as “the most sustained protest movement in Sudan’s modern history”. Starting from December 2018, Sudanese people have massively protested for months. Initially, with the aim of overthrowing the 30-yearslong dictatorship of Omar alBashir. Once fulfilled their ambition, their demonstrations continued; this time against the military council, who took power after having ousted al-Bashir and refused to transfer it to a civilian-led government. With the help of international mediators, protesters and the army seem to have finally reached an agreement, paving the way for Sudan to become a democracy. Protests began more than eight months ago, triggered by a rise in the cost of bread and fuel. After starting in the provinces, demonstrations quickly spread across the country, fueled by a general discontent over the economic crisis.

Day after day, the peaceful demonstrations were gaining momentum as all the different segments of society joined the movement. While farmers and shepherds were marching in rural areas, the middle class was walking down the streets of the capital Khartoum, led by the Sudanese Professionals Association (SPA). The New York Times regards this “semi-secret alliance of doctors, lawyers, journalists, engineers and teachers” as the actual leader of the revolution, able to organize and consolidate a “coherent movement”. Women are also playing a pivotal role in enhancing the revolution, accounting for twothirds of the protesters. In spite of their differences, all Sudanese people gathered together in a united revolutionary front called Forces for Freedom and Change (FFC), with one single goal: get rid of the long-lasting dictator Omar al-Bashir. Despite being accused by the International Criminal Court for genocide, crimes against humanity and war crimes, the army commander Omar alBashir had remained in power for 30 years after the

1989 military coup, facilitated by the civil war. When this domestic conflict ended in 2005 with the secession of South Sudan, al-Bashir was facing a new crisis in the Darfur region. The atrocities ordered against the rebels “left between 200,000 and 300,000 people dead and 2.7 million displaced”. Eventually, under relentless pressure from the civil society, the security forces betrayed their leader and overthrew him on 11 April 2019. After the initial excitement for the deposition of the cruel dictator, protesters plunged into anguish again as they felt as if “They just replaced one thief with another”. In fact, the newborn Transitional Military Council showed no intention to hand over power to a civilian-led government, struggling to reach an accommodation with the FFC. Consequently, demonstrations not only continued but grew in participants and intensity. On June 3, the security forces fired against a peaceful sit-in in Khartoum, leaving 118 people dead and many more wounded. It is widely agreed that Gen. MSOI the Post • 27


Africa Subsahariana Mohamed Hamdan, known as Hemeti, should be held accountable for the violence. Regarded as the real leader of the military junta, Hemeti is the head of the Rapid Support Forces, a branch of the Sudanese security forces accused of perpetrating the horrific crimes ordered by al-Bashir in Darfur. Protesters believe that the violent crackdown was encouraged by Egypt, Saudi Arabia, and the United Arab Emirates, who support Hemeti to rule the country.

a petition to stop the attacks.

A wave of international condemnations and strong indignation followed the bloody crackdown. Both the UN Secretary General Antonio Guterres and the High Commissioner for Human Rights Michelle Bachelet deplored the violence, while Amnesty International’s Secretary General Kumi Naidoo launched

According to this powersharing deal, a sovereign council composed of six civilians and five army generals will be in place for three years and three months, until the holding of “free and fair elections”. This transition committee will be chaired by an appointed army member for the first half term, and by a civilian for the second

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On its part, the African Union decided to suspend Sudan’s membership while sending mediators to the country in order to start a “facilitation process” to “support the Sudanese people resolve the crisis in Sudan”, alongside the Ethiopian Prime Minister. Eventually, these joint efforts resulted in the signature of an agreement between the prodemocracy protesters and the ruling military on July 17.

one. Furthermore, the FFC will set up a cabinet of ministers; afterward, a legislative council will be established. The most controversial point of this deal is “the launch [of] a transparent and independent investigation” into the events of the third of June. The probe, which has found that three RSF officers acted in violation of the orders, exonerating Hemeti from all responsibility while lowering the death toll to 87, has already been rejected by the democratic forces. Despite persistent civilian protests, the negotiation process continues and a constitutional declaration has been agreed in the last few days. Signs of division between the two sides are already visible. Only time will tell if this settlement is durable and a democratic Sudan will finally be born.


Africa Subsahariana Mugabe: eroe nazionale o dittatore?

Di Corrado Fulgenzi Il 6 settembre 2019, a Singapore (presso una clinica privata), è morto Robert Gabriel Mugabe, una delle personalità politiche più influenti della storia dell’Africa post-coloniale. Si conclude così un ciclo lungo 40 anni in cui l’ex presidente, il quale viene ricordato anche per essersi ampiamente battuto per i diritti dei neri contro la discriminazione razziale dei bianchi, è riuscito prima a conquistare il potere e poi a trasformare lo Zimbabwe in uno stato a partito unico di stampo socialista, impedendo la transizione democratica che la popolazione sperava di ottenere dopo l’indipendenza. Nel 1980, infatti, con la nascita dello Zimbabwe come stato indipendente (precedentemente

Rhodesia Meridionale), Mugabe ottenne il suo primo incarico ufficiale come primo ministro del Governo del capo di stato Canaan Banana. Dopo 7 anni in carica, successe a quest’ultimo. L’obiettivo delle politiche di Mugabe era finalizzato a costituire un nuovo Zimbabwe, in cui la maggioranza nera contasse in quanto tale. Nel paese che si avviava a diventare uno stato socialista, infatti, la minoranza bianca esercitava ancora una forte influenza, in quanto fortemente presente in ruoli dirigenziali strategici. Se, da un lato, la lotta per i diritti dei neri andava a marcia spedita, dall’altro il regime di Mugabe acquisiva col tempo tratti autocratici, non mantenendo così le speranze post-coloniali, promosse dai paesi occidentali, di una transizione democratica. Nel

primo

decennio

del

proprio incarico, lo Zimbabwe ottenne la nomea di ‘Svizzera dell’Africa’, grazie ad accordi con vari investitori e alla realizzazione di politiche socialiste che permisero il raggiungimento di una discreta soddisfazione economica e sociale. D’altro canto, però, una caratteristica che ha fortemente contraddistinto il mandato di Mugabe è stata la persistente accusa di corruzione. Più volte gli osservatori internazionali hanno esternato il sospetto di brogli elettorali e di elezioni manipolate. La figura di Mugabe è dunque passata da quella di un leader, o meglio un’icona, del movimento anticoloniale capo del partito politico Zimbabwe African National Union (ZANU), a quella di un capo assuefatto dal potere e restio a cederlo. Così facendo, Mugabe ha altresì danneggiato la propria immagine e quella MSOI the Post • 29


Africa Subsahariana di un paese che lottava contro l’apartheid. La carriera di Mugabe come capo del regime è terminata nel novembre 2017, a seguito di un colpo di stato, sostenuto dai militari, che ha deposto l’ultranovantenne presidente a favore di Emmerson Mangangwa. Quest’ultimo, dopo un periodo di transizione, ha ottenuto la vittoria nelle successive elezioni presidenziali con il 50,4% dei voti, divenendo così il terzo presidente nella storia dello Zimbabwe. Ad oggi, si può osservare come Mugabe abbia ottenuto ciò per cui aveva fin dal principio lottato: una maggioranza nera che fosse padrona di se stessa

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e possidente di quei diritti che le erano stati riconosciuti con una minoranza bianca al potere. Tuttavia, a discapito degli obiettivi raggiunti sul piano politico, dal lato economico l’ormai ex presidente contribuì in prima persona alla profonda e prolungata crisi economica in cui sprofondò il paese. Durante il processo di transizione democratica dello Zimbabwe, tramite violazioni dei diritti umani, la nazionalizzazione dei terreni agricoli a partire dal luglio 2000, l’appropriazione degli aiuti internazionale, Mugabe innescò un processo che condusse lo Zimbabwe incontro ad un collasso economico senza precedenti, lasciando in eredità ai suoi concittadini una situazione di iperinflazione.

Se si può dibattere sulla figura politica di Mugabe, sopravvissuta per 37 anni, è indubbio che lo Zimbabwe abbia perduto uno dei personaggi più importanti della propria storia. Dopo la sua morte, è stato proclamato il lutto nazionale, seguito dalla ‘beatificazione’ dell’ex-leader. Quanto allo Zimbabwe, dopo il soft coup d’état del luglio 2017, è difficile attendersi un radicale cambiamento. L’attuale élite politica è fortemente legata al recente passato e difficilmente vorrà abbandonarlo per allinearsi ad un sistema basato sui criteri delle democrazie occidentali o verosimilmente a società protodemocratiche.


Nord America Gli Stati Uniti si dotano di una United States Space Force

Di Nicolas Drago La decisione di Donald Trump di istituire la United States Space Force, formalizzatasi il 19 febbraio con la firma della Space Policy Directive-4, ha suscitato un certo fervore all’intero del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. La Direttiva definisce la Space Force come una nuova branca delle Forze Armate; la sesta insieme ad Army, Navy, Air Force, Coast Guard, e National Guard, che, nella sua fase di incubazione, sarà incorporata al Dipartimento della Air Force, in prospettiva di un futuro disgiungimento in un dipartimento indipendente. Il Dipartimento della Space Force, che secondo il rapporto del Pentagono dovrebbe essere operativo entro la fine dell’anno fiscale 2024, potrebbe trasformare radicalmente l’attuale assetto militare statunitense, dal momento che vi si prevede la sintetizzazione di tutte le funzioni spaziali convenzionalmente condivise dalle altre agenzie militari.

Per l’edificazione del nuovo Dipartimento, il Pentagono ha chiesto al Congresso uno stanziamento di $149 milioni, predisponendo la creazione di quattro componenti: una Space Development Agency, una Space Operation Force, uno Space Command, e la nomina di un segretario della Difesa per lo Spazio. Le ragioni che hanno spinto il governo statunitense a mobilitare risorse così ingenti orientate alla riforma del sistema della difesa risultano più chiare se si considera che il settore spaziale si sta rivelando sempre più funzionale alla potenziale conduzione dei conflitti tra grandi potenze. Infatti, le informazioni raccolte dai satelliti in orbita permettono la geo-localizzazione delle minacce missilistiche e la comunicazione istantanea con le agenzie terrestri. Nonostante la tecnologia militare spaziale statunitense sia considerata tra le più avanzate al mondo, recenti simulazioni belliche hanno dimostrato che eventuali rivali, come la

Russia e la Cina, potrebbero strumentalizzare le lacune dell’attuale sistema di difesa satellitare per lanciare attacchi informatici o per manomettere e inceppare gli impianti. In linea con la National Defense Strategy, che enfatizza l’importanza del dominio spaziale, la Space Development Agency è stata ideata proprio per rispondere all’esigenza di porre rimedio a tali lacune che rischierebbero di far perdere alle Forze Armate degli Stati Uniti il vantaggio comparato di cui ancora riescono ad avvalersi rispetto ai loro competitori. La sua istituzione, patrocinata dall’ex segretario della Difesa Patrick Shanahan, risale al 12 marzo scorso, ma a meno che il Congresso non approvi lo stanziamento dei fondi avanzato dal Pentagono, l’organizzazione non sarà in grado né di dare avvio a programmi concreti né di assumere personale. Il futuro operato della Space Development Agency si concentrerà sullo sviluppo di nuove capacità indispensabili quali una sorveglianza globale MSOI the Post • 31


Nord America permanente, la realizzazione di sistemi di deterrenza efficienti e la costruzione d i infrastrutture terrestri di supporto spaziale reattive e resilienti che nel lungo termine possano essere riconvertite in sistemi tecnologici più all’avanguardia. Il nuovo direttore dell’Agenzia Derek Tournear, subentrato a seguito delle dimissioni del suo predecessore per motivi non del tutto chiari, ha pubblicato, lo scorso 1 luglio, la prima sollecitazione, Request for Information, rivolta agli appaltatori interessati a presentare proposte innovative per la messa a punto di un piano di evoluzione della nuova architettura spaziale. La strategia dell’organizzazione prevede anche uno stretto

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coordinamento tra la Space Force e le altre agenzie governative che continueranno ad essere coinvolte nelle operazioni spaziali, per evitare che le competenze e le operazioni si sovrappongano tra un’agenzia e l’altra. Tuttavia, nonostante l’entusiasmo dei dirigenti che ne hanno difeso tenacemente la nascita, la Space Force è stata anche bersaglio di critiche; sin dal principio, il segretario della Air Force, Heather Wilson, ha infatti ribadito la sua contrarietà, motivandola con la previsione di una perdita sostanziale di numerosi posti di lavoro e di un accavallamento delle operazioni tra le diverse agenzie. Nei suoi ultimi giorni in veste di più alto ufficiale della Air Force, prima della

scadenza del suo mandato, Wilson ha rincarato la dose di critiche sostenendo di avere grossi dubbi circa le operazioni e l’organizzazione strutturale della Space Force. Dubbi esternati in occasione di un’intervista, chiedendo provocatoriamente ai giornalisti in che modo la nuova organizzazione potrebbe fare la differenza rispetto alle altre agenzie. Mike Griffin, da parte sua, ha replicato in termini più diplomatici che i sostenitori della Space Force non hanno mai desiderato promuovere “guerre territoriali” contro gli altri servizi militari e che, invece, la cooperazione tra agenzie è indispensabile affinché le carenze tecnologiche e organizzative del settore spaziale vengano pienamente soddisfatte.


Nord America Da Flynn a Bolton: tutti i problemi di Trump con i Consiglieri alla Sicurezza nazionale Di Domenico Andrea Schiuma Il primo mandato di Donald Trump volge ormai al termine. Tuttavia, lo scorso giugno, a Orlando, in Florida, l’attuale presidente degli Stati Uniti ha annunciato la propria ricandidatura per le elezioni del 2020. A più di tre anni dal suo ufficiale insediamento alla Casa Bianca, avvenuto il 20 gennaio 2017, una cosa si può affermare con certezza: i rapporti di Trump con i propri consiglieri alla Sicurezza sono stati molto complicati. Lo scorso 10 settembre Donald Trump ha, infatti, annunciato, tramite un tweet, le dimissioni del consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton. Le dinamiche che hanno condotto a tale esito non sono però chiare. Trump sostiene di aver chiesto le dimissioni dell’ex consigliere a causa dei continui e reciproci contrasti. Tuttavia, secondo la versione sostenuta da Bolton, la vicenda si sarebbe svolta in modo diverso, rivelando di avere offerto le proprie dimissioni al presidente la sera del 9 settembre. Trump, a quel punto, avrebbe rimandato la discussione al giorno seguente. Secondo la CNN, la causa della rottura fra Trump e Bolton sarebbe da rintracciare nel profondo disaccordo circa l’opportunità di ospitare a Camp David alcuni leader dei talebani. Il litigio su quest’ultima questione sarebbe stata solo l’ultima goccia. Come sostenuto da Peter Bergen e come sottolineato dallo stesso Trump, le visioni del presidente e di John Bolton sulle principali questioni di politica internazionale, come

la crisi in Venezuela, i rapporti con l’Iran e con la Corea del Nord, erano ormai inconciliabili. In particolare, gli atteggiamenti e le proposte bellicose di Bolton si sarebbero scontrate troppo spesso, e troppo intensamente, con le diverse posizioni di Donald Trump.

la longa manu armata degli Stati Uniti in Medio Oriente. Un’azione di questo genere, concludeva Bolton, avrebbe dovuto essere “combinata con un vigoroso sostegno americano alle opposizioni iraniane, appoggio finalizzato a un cambio di regime”.

Bolton viene comunemente considerato un “falco” nell’ambito della politica estera. La descrizione appare quanto mai adeguata. Un eloquente esempio è rappresentato dall’articolo che il 26 marzo del 2015 pubblicò sul New York Times con il titolo: “Per fermare le bombe iraniane, bisogna bombardare l’Iran”. Nello scritto, Bolton criticava l’atteggiamento che l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, aveva con l’Iran, affermando che avesse incentivato quest’ultimo ad avanzare sempre maggiori richieste a Washington. Ritenendo inutile sperare di poter giungere a un compromesso con l’Iran, la soluzione avanzata è molto drastica: “La verità scomoda è che solo un’azione militare come l’attacco israeliano al reattore iracheno di Osirak del 1981 o la distruzione del 2007 sempre da parte israeliana di un reattore siriano progettato e costruito dalla Corea del Nord, può realizzare gli obiettivi prestabiliti”. Un attacco, spiegava Bolton, che non avrebbe dovuto distruggere tutte le infrastrutture iraniane legate al nucleare, ma avrebbe dovuto limitarsi a spezzare le connessioni chiave nel ciclo della produzione del nucleare, in modo da ritardare il programma di tre o cinque anni. Israele avrebbe quindi potuto “fare quello che è necessario”, costituendosi come

Le ipotesi di Bolton furono, tuttavia, smentite dai fatti. Proprio nel 2015, infatti, venne siglato il Joint Comprehensive Plan of Action, meglio conosciuto come l’accordo sul nucleare dell’Iran. Nessuna meraviglia, dunque che, 3 anni dopo, quando Bolton era ancora in carica, Trump abbia deciso di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo con l’Iran affermando: “Era un accordo terribile, che non si sarebbe mai dovuto sottoscrivere”. Tuttavia, nei mesi successivi, Trump si è reso protagonista di alcuni gesti conciliatori nei confronti dell’Iran, discostandosi da Bolton. Anche riguardo i rapporti con la Corea del Nord, le posizioni del Presidente e di Bolton erano diventate ormai inconciliabili. Un mese prima che entrasse in servizio alla Casa Bianca, Bolton, ricostruisce Bergen, aveva pubblicato un articolo sul Wall Street Journal in cui suggeriva delle teoriche giustificazioni legali per una guerra preventiva contro la Corea del Nord. Si sarebbe trattato di replicare il modello dell’operazione del 2003 contro l’Iraq. Qualche settimana dopo, invece, Bolton dichiarò che l’amministrazione stava valutando la possibilità di applicare alla Corea del Nord il “modello libico”. Il “modello libico” prendeva a riferimento il modello di MSOI the Post • 33


Nord America gestione dei rapporti tra gli Stati Uniti e, appunto, la Libia guidata da Moammar Gheddafi. Quest’ultimo, all’inizio degli anni 2000, aveva accettato di interrompere il proprio programma di costruzione di armi di distruzione di massa in cambio della revoca delle sanzioni che erano state comminate al suo regime. Nel 2011, nel contesto delle cosiddette “Primavere arabe”, Washington finanziò gruppi di ribelli che rovesciarono il regime di Gheddafi e, infine, lo uccisero. Per questa ragione, quando a Kim Jong-Un vennero riferite le dichiarazioni di Bolton, la reazione del dittatore nord-coreano non fu delle più moderate. Egli, infatti, interpretò le esternazioni di Bolton come una manifestazione di volontà, da parte degli Stati Uniti, di rovesciare anche il regime nordcoreano. Kim Kye-Gwan, primo vice-ministro per gli Affari esteri della Corea del Nord, affermò, in un comunicato ufficiale del 16 maggio 2018:“Non nascondiamo il nostro senso di ripugnanza nei confronti di Bolton”. La Casa Bianca prese subito le distanze dalle posizioni di Bolton. Sarah Huckabee Sanders, dell’ufficio Stampa della Casa Bianca, dichiarò:“Non ne abbiamo mai discusso, quindi non credo che quello sia il modello che stiamo usando con l’Iran”. A febbraio del 2019 Trump incontrò Kim ad Hanoi, in Vietnam, ma si ritirò subito dalle discussioni quando si accorse che il suo collega nord-coreano non aveva molto da offrire sulla denuclearizzazione. A maggio, la Corea del Nord lanciò dei missili a corto raggio. Bolton protestò, dicendo che quei lanci violavano le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’organizzazione per le Nazioni Unite. Ancora una volta, Trump contraddisse 34 • MSOI the Post

il segretario dell’epoca, affermando che quell’operazione non lo preoccupava. In ogni caso, che si sia trattato di un licenziamento da parte di Trump o di dimissione avanzate da Bolton, la sostanza non cambia e una cosa si può di certo affermare: i rapporti di Trump con i propri Consiglieri alla Sicurezza nazionale sono stati molto difficili fin dall’inizio del suo mandato. Altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di nominarne ben quattro. I rapporti tra il Presidente e il dimissionario (licenziato?) Bolton sono stati ricostruiti. Cosa dire allora dei suoi due predecessori, Michael T. Flynn e Herbert R. McMaster? Il primo rimase in carica meno di un mese, dal 20 gennaio 2017 al 13 febbraio dello stesso anno. Fu costretto a dimettersi in quanto accusato di aver ingannato alcuni importanti membri dell’amministrazione, tra cui il vicepresidente Mike Pence, sui suoi contatti con Sergej Kislyak, all’epoca ambasciatore russo negli Stati Uniti. Da quel momento collaborò con le autorità giudiziarie americane all’inchiesta riguardante le interferenze russe nella campagna elettorale per le elezioni del 2016. L’1 dicembre 2017 Flynn ammise di aver mentito al Federal Bureau of Investigation sulle sue conversazioni con Kislyak. L’importanza delle discussioni tra Flynn e quest’ultimo risiede nel fatto che esse, come riporta il New York Times, sarebbero state parte di un piano congeniato dai collaboratori di Trump per impostare delle linee di politica estera prima che il Presidente eletto iniziasse ufficialmente il proprio mandato. Quando, quindi, formalmente era ancora in carica l’amministrazione Obama.

I motivi che hanno portato all’allontanamento di McMaster sono, invece, più simili alle ragioni che hanno condotto al licenziamento (o alle dimissioni) di Bolton. McMaster, come si ricostruisce Alex Ward, trovò subito in contrasto con l’amministrazione Trump. Il più grande dissidio riguardò l’invio di ulteriore contingente militare in Afghanistan, idea cui McMaster era favorevole e che invece Trump respingeva con disgusto. Il sito della BBC riporta la seguente dichiarazione di Trump: “McMaster vuole spedire più truppe in Afghanistan, allora manderemo lui”. McMaster, inoltre, dichiarò che esistevano prove incontrovertibili delle interferenze russe nelle elezioni del 2016. Un’esternazione che, ovviamente, Trump non apprezzo, e alla quale il Presidente controbatté subito: “McMaster ha dimenticato di dire che i risultati delle elezioni del 2016 non sono stati cambiati dai russi”. E ancora una volta, anche i rapporti con la Corea del Nord furono oggetto di discordia fra Trump e il suo Consigliere dell’epoca. McMaster infatti suggeriva un approccio più militaristico nei confronti di Pyongyang. Più in generale, McMaster avrebbe avuto difficoltà ad avere a che fare con Trump, anche a livello personale. Soprattutto, il carattere umorale del Presidente e i suoi continui cambi di decisione avrebbe reso impossibile per McMaster l’impostazione di una politica coerente. In ogni caso, il 18 settembre 2019 Trump ha nominato il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale: si tratta di Robert O’Brien. Riuscirà, almeno a lui, a mantenere il proprio incarico prima della fine, quasi imminente, del mandato di Trump?


Sud e Sud Est Asiatico Pakistan: il popolo in rivolta

Di Virginia Orsili A un anno esatto dalle elezioni che hanno portato al potere l’attuale primo ministro Imran Khan e il suo partito, il Tehreeke-Insaf (PTI), in migliaia hanno conquistato le strade delle maggiori città del paese per protestare contro l’operato dell’esecutivo. Dietro le quinte delle manifestazioni si trovano i principali partiti d’opposizione, tra cui spiccano il Muslim League-Nawaz (PML-N) e il Jamiat Ulema-e-Islam-Fazl (JUI-F). A tal proposito il 25 luglio, giorno in cui sono scoppiate le proteste, è stato ribattezzato ‘Black Day’. Bilawal Bhutto Zardari, figlio dell’ex primo ministro Benazir Bhutto e dell’ex presidente Asif Ali Zardari, ha dichiarato: “Oggi è il giorno più nero nella storia del Pakistan. Perché non solo il Parlamento, ma la democrazia stessa è minacciata. Perché non solo i politici, ma la politica stessa è minacciata. Perché non solo i media, ma la stessa libertà dei media è minacciata nel nostro paese”.

Sebbene poco più di un anno fa l’ex campione di cricket avesse incentrato la sua campagna populista sulla lotta alla corruzione e al nepotismo, l’opposizione sostiene che il primo ministro abbia piegato il sistema giudiziario alle proprie esigenze politiche, procedendo in questo modo all’eliminazione dei rivali e di qualunque personalità dimostratasi critica nei suoi confronti. “Abbiamo dovuto trasformare tutte le istituzioni, in passato distrutte da ladri con il solo obiettivo di saccheggiare il Pakistan” ha ribadito Khan durante un incontro a Washington lo scorso 22 luglio.

nome su tutti spicca nell’elenco delle personalità sotto esame: Maryam Nawaz, figlia dell’ex primo ministro Nawaz Sharif, che nel 2017 fu costretto ad abbandonare il suo incarico in seguito alla decisione della Corte Suprema per un affare di corruzione. All’inizio del mese di luglio il suo partito, il PML-N, ha reso pubbliche alcune prove che dimostrano che il giudice responsabile della sentenza sarebbe stato ricattato. La stessa Maryam Nawaz è stata in seguito condannata per corruzione in un processo connesso, ma tale sentenza è stata in seguito sospesa in attesa dell’esito del ricorso.

Nell’ultimo anno, diverse personalità dell’élite dell’opposizione sono entrate nel mirino del National Accountability Bureau, agenzia federale del Governo pakistano incaricata di prevenire e combattere la corruzione nel paese: secondo l’esecutivo, tali azioni di controllo sarebbero state intraprese per il bene dello stato, mentre - secondo l’opposizione - agevolerebbero solamente il partito al potere. Tra i numerosi indagati, un

All’inizio del mese di giugno, il capo del Pakistan People Party ed ex-presidente Asif Ali Zardari è stato, invece, arrestato con l’accusa di riciclaggio di denaro. L’accusa è quella di conti bancari fasulli per occultare il trasferimento di tangenti. Nonostante il controverso leader politico sia stato più volte accusato e condannato per corruzione, in molti sostengono che la sua condanna faccia parte di un più ampio piano di epurazione

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Sud e Sud Est Asiatico politica. Lo scorso 18 luglio, infine, anche l’ex primo ministro Shahid Khaqan Abbasi è stato arrestato dal corpo nazionale anticorruzione con l’accusa di aver favorito un’impresa della quale era azionista nel contratto per la costruzione di una centrale elettrica. Oltre a quanto detto, l’opposizione accusa Khan anche di non essere in grado di fronteggiare la crisi economica che il paese sta attraversando. Nell’ultimo anno, il Pakistan ha, infatti, dovuto fare i conti con l’aumento dei prezzi del carburante e dei generi di prima necessità a causa della forte inflazione che sta investendo il paese (la moneta ha perso un quarto del suo valore), che peraltro non ha corrisposto a un altrettanto sostanziale aumento delle esportazioni. Nel mese di luglio, il tasso di inflazione annuale è passato da 8,9% del mese precedente ad un preoccupante 10,3%. Si tratta del tasso più elevato da novembre 2013. Imran Khan, dal canto suo, incolpa i precedenti governi della situazione economica attuale, rei di un’errata gestione delle finanze pubbliche. Inoltre, l’élite economica e politica dei precedenti governi sarebbe ritenuta colpevole di aver trasferito all’estero ingenti quantità di denaro, fondi destinabili all’istruzione, allo sviluppo e alla sanità, privando così il paese di risorse importanti. Sebbene sia vero che all’arrivo al potere di Imran Khan la possibilità di una crisi economica si profilava all’orizzonte, la situazione è ben peggiorata da allora. Nell’ultimo mese, il Fondo Monetario Internazionale ha 36 • MSOI the Post

accordato un ulteriore prestito di €5,2 miliardi, a condizione della messa in atto di un programma di austerità, che prevede misure come l’aumento delle imposte fiscali e tagli alle sovvenzioni. Il 13 luglio numerosi uomini d’affari hanno deciso di tenere chiusa la propria attività in segno di protesta contro le misure, che potrebbero ostacolare i consumi e quindi le vendite. Sebbene il Governo abbia preso alcuni provvedimenti al fine di far scendere il rapporto deficit/ PIL al di sotto del 12%, come ad esempio la decisione di tassare l’importazione di prodotti di lusso, quello che si registra tra i commercianti è un generale sentimento di malcontento e di ‘resistenza fiscale’. Nonostante alcune proteste siano state riprese dai principali canali televisivi nazionali, gran parte degli eventi organizzati dall’opposizione sono stati oggetto di censura. All’inizio del mese di luglio, infatti, il Governo ha emanato un provvedimento che proibisce la copertura mediatica di eventi di personalità politiche sotto investigazione. Secondo la Pakistan Broadcaster’s Association, sono tre i canali a essere stati bloccati per aver trasmesso la conferenza stampa di Maryam Nawaz: Channel 24, Abbtak News, e Capital TV. Proprio durante questa conferenza, Nawaz ha reso pubblico il video in cui il giudice che aveva condannato suo padre ammette di essere stato ricattato. Diversi attivisti per i diritti umani hanno accusato l’esecutivo di promuovere una spudorata censura non solo verso i membri dell’opposizione, ma anche di chiunque faccia prova di un pensiero critico

nei confronti del Governo. “Si tratta di una violazione assolutamente inaccettabile dei principi di pluralismo e indipendenza dei media”, aveva dichiarato Daniel Bastard, a capo della sezione AsiaPacifico di Reporters Without Borders. “Questa rivelazione era chiaramente nell’interesse pubblico del Pakistan”. Una vicenda analoga riguarda il celebre conduttore televisivo Hamid Mir, la cui intervista ad Asif Ali Zardari è stata trasmessa solamente per qualche minuto. Qualche giorno dopo l’accaduto, l’esecutivo ha reso pubblico un provvedimento secondo il quale personalità politiche sotto accusa non possono rilasciare conferenze stampa o interviste. Mir ha in seguito dichiarato su Twitter di “non vivere più in un paese libero”. La richiesta di libertà di espressione e della tutela dei diritti dei giornalisti è stato, quindi, uno dei capisaldi delle recenti proteste. Attualmente, il Pakistan è il 142° paese su 180 per libertà di stampa nell’apposito indice di Reporters Without Borders. Tali accuse contrastano con l’immagine che l’esecutivo Khan ha tentato di costruire a livello internazionale, specialmente in merito alle relazioni con India, Stati Uniti e Afghanistan. Sebbene il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si sia complimentato con il primo ministro per il ruolo da mediatore nelle trattative con i talebani afghani, Nawaz ha accusato il primo ministro di essersi volontariamente piegato alla “dittatura” della super-potenza americana.


Sud e Sud Est Asiatico Le risorse dell’artico protagoniste del quinto Eastern Economic Forum

Di Sabrina Certomà “Continuiamo a puntare in alto. Se qualcuno, cinque anni fa, all’epoca del primo Eastern Economic Forum, mi avesse chiesto di indovinarne il futuro non penso avrei risposto 1800 progetti”, ha affermato Yuri Trutnev, vice primo ministro della Federazione Russa, plenipotenziario presidenziale inviato al Far Eastern Federal District. “La politica economica preferenziale lanciata su iniziativa del Presidente della Federazione russa funziona. Migliora la vita delle persone e il Far East migliorerà di anno in anno. L’economia è in rialzo, si diffonderanno più teatri, scuole, musei, librerie e centri scientifici”. La Russia, organizzatrice dell’evento, ha dichiarato che il quinto Eastern Economic Forum (EEF), svoltosi a Vladivostok dal 4 al 6 settembre, è stato il più fruttuoso dalla creazione del Forum stesso: 270 contratti sono stati firmati con investitori stranieri e 8.500 ospiti (da 65 paesi, rappresentanti 440 compagnie globali) si sono presentati all’evento. Tra i visitatori, particolare attenzione mediatica hanno

suscitato Abe Shinzō, premier giapponese, l’omonimo malese Mahathir Mohamad, il primo ministro mongolo Khaltmaagiin Battulga e l’indiano Narendra Modi, oltreché, ovviamente, lo stesso Vladimir Putin. Assente, invece, la delegazione cinese - nonostante la Cina sia il maggiore investitore nella zona. L’Artico e i progetti economici nell’estremo nord della Russia sono state le due questioni al centro della discussione. Nel proprio discorso introduttivo, Putin ha sottolineato che la regione della Russia dell’est e quella artica hanno ricevuto €8,5 miliardi in investimenti, implementando 242 nuovi programmi e creando 39.000 posti di lavoro. Secondo il presidente, “dal primo Forum, la rappresentanza è cresciuta più del doppio. Crediamo che ciò sia un indice rilevante dell’interesse crescente nel Far East russo e nelle opportunità di cooperazione offerte da questa regione enorme”. Sulla scorta di quanto emerso alla Arctic Circle Conference di Shanghai, invece, la città norvegese di Kirkenes - che si affaccia sul mar di Barents, uno degli snodi portuali più

importanti della rotta artica sarà al centro di un progetto per sostenere lo sviluppo high-tech russo nella regione. Si tratta di un nuovo cavo a fibra ottica per connettere il Giappone e l’Asia orientale all’Europa attraverso l’Artico. Il cavo dovrebbe aumentare enormemente la velocità di trasmissione dei dati tra Europa e Asia, andando a rispondere ai bisogni dei nuovi metodi di comunicazione. “La parte sommersa del cavo sarà costituita da una connessione di circa 10.500 km. Da Kirkenes attraverserà la Lapponia finlandese e giungerà all’Europa centrale”, spiega un report redatto da Paavo Lipponen e Reijo Sevento. A causa delle conseguenze del riscaldamento globale e dello scioglimento dei ghiacci, l’Artico è improvvisamente diventato il “nuovo Nuovo mondo, l’ultima delle ultime frontiere del pianeta” (Norvegia, The Passenger, 2019). È un luogo di opportunità e tensioni, lotte ambientaliste e progetti avveniristici. La sua militarizzazione sembra essere una difesa per le risorse di gas naturale e petrolio che si stanno avvicinando sempre più alla superficie a causa dei cambiamenti climatici.

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Sud e Sud Est Asiatico Secondo The Passenger, complessivamente si tratta della regione con la maggiore crescita economica al mondo (+11% all’anno), con un ammontare di ricchezze calcolate dalla Guggenheim Investment di San Francisco sui €16.450 miliardi. Durante il forum, l’India si è interessata particolarmente alla zona artica, come ha annotato Boris Volkhonsky, dell’istituto dei paesi asiatici e africani alla Lomonosov Moscow State University. Per Nuova Delhi - uno dei maggiori consumatori di idrocarburi - la diversificazione delle fonti è infatti un fattore molto importante. Ecco perché l’Artico, ricco di petrolio e riserve di gas naturale, sta acquistando un nuovo ruolo nell’economia globale, così come chi ne possiede le piattaforme di estrazione. Non a caso, recentemente, l’India ha chiesto di essere ammessa come stato osservatore

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Consiglio Artico (il forum internazionale che discute dei problemi dei governi artici e della popolazione indigena dell’Artico, creato nel 1996, ndr). La crisi venezuelana e le tensioni nella zona iraniana hanno, inoltre, influenzato drammaticamente l’economia indiana negli ultimi mesi, tanto che il suo tasso di crescita è attualmente del 3% più basso di un anno fa. Durante il forum di Vladivostok, la delegazione del paese più popoloso al mondo ha quindi ipotizzato di investire almeno €1 milione nell’est della Russia. Anche la Corea del Sud ha rivolto particolare interesse nello sviluppo di progetti nell’Artico. In tal senso si può leggere l’accordo tra la Far East Investment and Export Agency russa e Kogas, una corporation di gas coreana, per portare avanti progetti congiunti nell’estremo nord. Anche il Giappone, la cui sicurezza

energetica è attualmente un elemento fondamentale per il mantenimento della sicurezza nazionale, ha dimostrato la volontà di prendere parte a una di queste iniziative regionali nel prossimo futuro. Commentando sul risultato del quinto Eastern Economic Forum, i media conservatori russi hanno sottolineato con forza come la Russia sia stata capace di dare forma all’agenda politica mondiale. Tuttavia, Dmitry Kobylkin, ministro per le risorse naturali e l’ecologia, ha sconsigliato di lasciarsi andare a un ottimismo prematuro. Le ancora limitate capacità economiche del paese, infatti, potrebbero scoraggiare potenziali investitori stranieri da grandi investimenti nel futuro, soprattutto per l’assunto che “tutto ciò che riguarda l’Artico è davvero costoso”. Per ora, comunque, l’EEF 2019 può essere considerato come una vittoria diplomatica per


Diritto Internazionale ed Europeo Il trattato Deng Xiaoping – Jiang Zemin: sarà rispettato?

Di Debora Cavallo Cesare Beccaria non è mai stato a Pechino e forse per questo in Cina i tribunali non prendono la presunzione di innocenza molto sul serio. Il processo penale nella Cina sovrana è profondamente diverso da quello utilizzato ad Hong Kong. Come denunciato nel 2015 da Zhu Zhengfu, vice presidente dell’Associazione nazionale degli avvocati in Cina, nella realtà dei fatti e a dispetto delle garanzie formali, l’imputato è presunto colpevole, salvo prova contraria: una prova molto difficile da fornire a un pubblico ministero cinese. Il problema, che in Cina esiste da tempo, ha improvvisamente assunto una speciale rilevanza

per i cittadini di Hong Kong, che dal luglio 1997 han goduto di un certo isolamento istituzionale in virtù della propria indipendenza amministrativa. L’Ufficio della Sicurezza, branca del Governo locale, ha infatti avanzato nel febbraio 2019 un progetto di legge per l’estradizione dei cittadini con il Governo centrale cinese, suscitando numerose proteste. Quel che finora ha impedito agli hongkonghesi di essere giudicati dalle autorità di Pechino era l’accordo per la cessione dell’ex-colonia inglese alla Cina firmato nel 1984 dalla Lady di Ferro, la signora poi baronessa Thatcher, con l’allora presidente cinese Jiang Zemin, che garantisce ad Hong Kong altri

trent’anni circa di sostanziale democrazia e indipendenza dalle leggi, dal sistema giudiziario, dall’economia e dalla totale mancanza di rispetto dei diritti umani di Pechino. La decolonizzazione rappresenta spesso non una semplice vittoria su un campo di battaglia, ma bensì, un lungo processo insidioso e spesso difficoltoso. Un processo lungo che Hong Kong sembrava aver intrapreso, a suo tempo, proprio quando lo scenario generale era di imposizione, da parte delle maggiori superpotenze, delle proprie linee guida. Hong Kong conquistò così indipendenza e sovranità economica. La contestatissima proposta di legge sta mettendo a dura prova MSOI the Post • 39


Diritto Internazionale ed Europeo il Governo. La riforma vorrebbe consentire la possibilità di estradare qualsiasi cittadino di Hong Kong colpevole di una vastissima serie di reati, anche futili, in Cina. La rivolta civile che ne è seguita ha visto protagonista una massiccia porzione del popolo di Hong Kong. Se approvata, la legge potrebbe non solo tradursi nella fine dell’indipendenza di Hong Kong che finora le ha permesso di prosperare grazie al sistema un Paese, due Sistemi, garantito dall’accordo Thatcher-Deng Xiaoping, ma anche come centro d’affari internazionale, perché nessuno a Hong Kong sarebbe al sicuro dalla longa manus della giustizia cinese, che potrebbe verosimilmente essere strumentalizzata per fini politici. Molto probabilmente, per Hong Kong significherebbe peraltro una minaccia ai valori ereditati dall’esperienza coloniale, che i residenti hanno nel tempo fatto propri. La proposta di estradizione consentirebbe alle persone ricercate di Hong Kong di essere inviate nella Cina continentale, oltre che a Macao e a Taiwan. La norma potrebbe colpire chiunque a Hong Kong, sia che si tratti di residenti, lavoratori stranieri, investitori o addirittura semplici turisti in visita. La scusa formale

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per introdurre la necessità di un trattato di estradizione con la Cina, i burocrati di Pechino l’hanno trovata nel febbraio 2018, quando, secondo la Polizia cinese, un uomo di Hong Kong ha ucciso la sua ragazza (anche lei cittadina di Hong Kong) mentre si trovava a Taiwan. Dopodiché si è sbarazzato del corpo, per poi tornare in patria prima che la polizia di Taiwan potesse arrestarlo. Dopo l’arresto del sospettato da parte della polizia locale, le autorità del Porto Fragrante si sono trovate di fronte a un dilemma legale, visto che Hong Kong e Taiwan non hanno mai firmato un accordo di estradizione. “Poiché la legge ha causato molte preoccupazioni e differenze di opinioni, non andrò avanti fino a quando queste paure e queste ansie non saranno adeguatamente affrontate”, ha detto martedì 18 giugno il capo esecutivo di Hong Kong Carrie Lam in conferenza stampa. Parole che non hanno soddisfatto i suoi critici né evitato un ritorno di fiamma, incassando la solidarietà di manifestanti anche in Taiwan. Quasi due milioni di persone hanno occupato ancora le strade per dare vita a una manifestazione senza precedenti. Centinaia di migliaia di cittadini sono scesi

nelle strade della città-stato asiatica per chiedere il ritiro definitivo della proposta di legge che avrebbe facilitato la consegna di ‘sospetti’ alla madrepatria cinese. La rivolta è esplosa il 9 giugno, quando le strade dell’ex colonia britannica sono state invase dalla più imponente manifestazione di piazza negli ultimi tre decenni. Le

scuse

pubbliche

di

Lam

avrebbero dovuto calmare le proteste, riportando una situazione di calma e pace. Così non è stato. I cittadini di Hong Kong, infatti, hanno continuato la loro impresa, tornando come un fiume in piena ad invadere le strade. Non solo una protesta contro la proposta di legge per chiederne il ritiro immediato, ma anche per le dimissioni di Lam, invocate a gran voce. La protesta ha peraltro ospitato un già famoso volto implicato nella rivoluzione degli Ombrelli del 2014, fallita negli intenti, ma capace di risvegliare l’interesse dei media di tutto il mondo. Scarcerato il 17 giugno, il giovane Wong è subito tornato protagonista dinanzi ai microfoni, inveendo contro la proposta di legge e incitando i cittadini di Hong Kong a non cedere.


Diritto Internazionale ed Europeo La Responsabilità Internazionale dei Contingenti di Mantenimento della Pace:la sentenza della Corte Suprema olandese Stichting Mothers of Srebrenica

Di Nicola Ortu Il 19 luglio scorso, la Corte Suprema olandese ha emesso la sentenza relativa alla controversia fra l’Aia e la fondazione (stichting) Mothers of Srebrenica, che riunisce le madri delle vittime dell’eccidio avvenuto nel luglio del 1995 nella cittadina bosniaca di Srebrenica, nel corso del quale furono massacrati oltre 7000 bosniaci musulmani. La Cassazione ha per molti versi ribaltato la precedente sentenza di appello, soprattutto per quanto concerne l’attribuzione di responsabilità del battaglione Dutchbat - inviato a proteggere le enclavi di Srebrenica e Potocari - riducendola dal 30 al 10 per cento. Il presente articolo tratterà l’attribuzione della responsabilità internazionale per atti illeciti dei contingenti di mantenimento della pace - i caschi blu o peacekeepers prendendo spunto da quest’ultima pronuncia.

Gli eventi del Massacro di Srebrenica I fatti che hanno avuto luogo fra l’11 ed il 21 luglio del 1995 nella cittadina di Srebrenica costituiscono “il più ampio massacro sul suolo europeo dalla fondazione delle Nazioni Unite”. La situazione nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia iniziò a incrinarsi a partire dal giugno 1991, quando le dichiarazioni di indipendenza di Slovenia e Croazia - due delle sei repubbliche che costituivano la federazione - scatenarono un conflitto etnico senza precedenti nella storia europea del secondo dopoguerra. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ormai libero dalle briglie della Guerra Fredda, approvò la Risoluzione n.743 nel febbraio 1992, creando la forza di mantenimento della pace UNPROFOR. Quest’ultima era incaricata di far rispettare gli accordi di cessate il fuoco firmati a Ginevra nel novembre del 1991 e a Sarajevo

del gennaio 1992. Le violenze si estesero rapidamente anche alla BosniaErzegovina, ormai la terza repubblica costituente a proclamare il proprio distacco da Belgrado ai primi di marzo del 1992. La Bosnia-Erzegovina, a differenza delle altre due repubbliche secessioniste, presentava una situazione etnica del tutto peculiare. Infatti, seppure in tutto il territorio della ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia fossero presenti sacche di minoranze etniche, queste ultime erano spesso inscritte in zone - relativamente - ben delineate. Diversa era la situazione bosniaca, che presenta tutt’oggi tre distinte etnie al suo interno, e senza una obiettiva soluzione di continuità territoriale fra esse. Con l’intento di formare una Grande Serbia, i serbi di Bosnia cercarono di conquistare il più ampio territorio possibile, proclamando a loro

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Diritto Internazionale ed Europeo volta, il 27 marzo, la nascita della Republika Srpska. Questi ultimi procedettero contestualmente ad un processo di pulizia etnica, di modo che si potesse affermare sui territori da loro conquistati una maggioranza di popolazione serba senza l’interposizione di minoranze nazionali. Era il principio di nazionalità portato al suo estremo. La parte orientale della Bosnia fu il teatro di sanguinosi scontri fra gli indipendentisti bosniaci, da un lato - che compresero ad un certo punto sia la minoranza croata che i bosgnacchi, di religione musulmana - ed i serbobosniaci dall’altro. Si formarono così delle enclavi nel territorio della Bosnia orientale, con l’intento di proteggere i musulmani dagli attacchi dei serbo-bosniaci. L’intento dei serbi era quello di ottenere, manu militari, un confine etnico che separasse i serbi dalle altre etnie della Bosnia. L’ONU corse ai ripari approvando, nel 1993, le risoluzioni 819 e 836 del Consiglio di Sicurezza, con le quali si provvedeva, tramite un’ulteriore estensione del mandato di UNPROFOR, alla protezione delle enclavi musulmane in territorio bosniaco, designandole quali “zone sicure”. Gli sforzi dal Palazzo di Vetro non riuscirono comunque ad evitare il massacro di Srebrenica, avvenuto nel luglio 1995. A protezione della zona sicura di Srebrenica si trovava il contingente messo a disposizione dal Regno dei Paesi Bassi, il cosiddetto Dutchbat. Essendo la città caduta in mano serba l’11 luglio, il battaglione decise di istituire 42 • MSOI the Post

una mini safe-area attorno a Potocari, senza avere successo nel proteggere i rifugiati, ed anzi finendo per alimentare l’azione serba che portò alla separazione degli uomini in età compresa fra i 18 e i 60 anni. Un preludio al genocidio che sarebbe costato la vita ad almeno 7000 bosgnacchi, uccisi in esecuzioni sommarie e gettati in fosse comuni, in flagrante violazione degli obblighi sanciti dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. Sulle operazioni mantenimento della pace

di

Prima di soffermarci sui dettagli della sentenza della Corte Suprema olandese, è necessario, in via preliminare, richiamare alcuni principi giuridici alla base del peacekeeping. Le operazioni di peacekeeping si inseriscono nel quadro delle lecite eccezioni alla regola generale del non-uso della forza, enunciata all’Art. 2(4) della Carta delle Nazioni Unite. Nonostante il peacekeeping non sia esplicitamente previsto dalla Carta, quest’ultima attribuisce al Consiglio di Sicurezza, all’Art. 24, la responsabilità primaria per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Deriva da tale competenza generale il fatto che il Consiglio possa istituire un’operazione di mantenimento della pace. In altre parole, è proprio il perseguimento del fine del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ad autorizzare, come risposta, l’uso di mezzi coercitivi da parte dell’ONU.

Le operazioni per il mantenimento della pace sono spesso adottate ai sensi del capitolo VII della Carta, rendendole così, ex Art. 25 della stessa, vincolanti per i membri dell’organizzazione, i quali “agree to accept and carry out the decisions of the Security Council in accordance with the present Charter”. Si potrebbe dunque affermare che il peacekeeping si sia sviluppato come prassi successiva all’adozione di un trattato multilaterale. Tale possibilità ricade fra quelle enumerate all’Art. 31(3) della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, che dispone di tenere in conto, ai fini dell’interpretazione di un testo pattizio, di “(a) Any subsequent agreement between the parties regarding the interpretation of the treaty or the application of its provisions; (b) Any subsequent practice in the application of the treaty which establishes the agreement of the parties regarding its interpretation”. Sembra dunque lecito poter interpretare l’Art. 24 della Carta alla luce di una pratica sviluppatasi successivamente all’entrata in vigore del trattato. Va inoltre aggiunta una doverosa distinzione fra le operazioni di mantenimento della pace, da un lato, che si svolgono sotto l’egida del Segretario Generale e, dall’altro, l’autorizzazione all’uso della forza in legittima difesa accordata dal Consiglio di Sicurezza ai singoli stati membri dell’ONU o a coalizioni di essi (come fu il caso della Prima Guerra del Golfo, con la risoluzione 678 del 1990), anche se nemmeno questa seconda misura trova esplicito riscontro nelle disposizioni della Carta.


Diritto Internazionale ed Europeo Si possono qui distinguere tre generazioni di operazioni di peacekeeping, aventi compiti di natura incrementale. La prima, il cui modello originario è rappresentato da UNEF I (il contingente inviato a seguito della Crisi di Suez dell’ottobrenovembre 1956), consiste in operazioni finalizzate al mero rispetto degli accordi di cessate il fuoco. Per questo motivo, le operazioni di peacekeeping tradizionali presentano quattro importanti caratteristiche: 1) necessità del consenso dello Stato; 2) neutralità fra le parti; 3) uso della forza circoscritto alla legittima difesa; 4) reperimento di contingenti militari tramite accordi fra le Nazioni Unite e i singoli stati membri. La seconda generazione espande le mansioni dei peacekeepers alla sfera civile, includendovi, inter alia, il rimpatrio e la protezione dei rifugiati, l’assistenza umanitaria, il controllo sul rispetto dei diritti umani. Infine, le operazioni di terza generazione prevedono un vero e proprio mandato di peace-enforcement, ovvero il raggiungimento della pace attraverso l’uso della forza. L’operazione UNPROFOR è ascrivibile, secondo la migliore dottrina, a questa terza generazione di peacekeeping. È evidente già da questa breve trattazione che i contingenti di mantenimento della pace sono lungi dall’essere ascrivibili ad una precisa categoria di organi per quanto concerne l’attribuzione delle loro condotte. Se, da un lato, l’ONU sostiene che essi siano suoi organi sussidiari, le cui azioni implicano quindi la responsabilità

dell’organizzazione, dall’altro non può negarsi la duplice natura di tali contingenti, che rimangono pur sempre organi dello Stato di invio. Quest’ultimo punto è testimoniato dal fatto che lo stato di invio del contingente mantiene delle importanti prerogative rispetto ai propri peacekeepers: un controllo su questioni disciplinari, la giurisdizione in materia penale e, infine, la facoltà di ritirare unilateralmente le truppe. Quest’analisi ha spinto la maggior parte della dottrina a ritenere che si sia in presenza di un regime di corresponsabilità per le azioni dei peacekeepers, imputabili, a seconda del fatto concreto, allo stato d’invio, all’Organizzazione delle Nazioni Unite, o a entrambi. Da questo regime ibrido di responsabilità deriva che le cause contro i presunti illeciti delle forze di mantenimento della pace - intesi qui non come illeciti derivanti dalla responsabilità penale dei singoli membri del contingente - vengono spesso intentate all’interno delle corti degli stati che mettono a disposizione dell’ONU i propri militari. Complice l’immunità dalla giurisdizione di cui le organizzazioni internazionali godono a livello interno, i ricorrenti tentano così di provare la responsabilità dello stato d’invio delle truppe per le condotte illecite, essendo questo in molti casi l’unico modo di ottenere una riparazione. A ciò, si aggiunga che le organizzazioni internazionali, per loro stessa natura, non possono essere adite in Corti sovranazionali, in quanto queste ultime non ne prevedano la legittimazione

attiva in materia contenziosa, o perché queste non sono parti (o non possono esserlo) del trattato istitutivo. Per ogni operazione dovrebbe essere istituita, secondo l’accordo-modello di Status of Forces Agreement dell’ONU per le operazioni di peacekeeping, una standing claims commission per la risoluzione delle controversie che, tuttavia, ad oggi, non ha mai visto la luce. E’ in tale contesto che viene in rilievo la questione dell’attribuzione delle condotte dei peacekeepers. La sentenza della Corte Suprema olandese una critica ai criteri di attribuzione delle condotte dei peacekeepers La Corte Suprema è entrata nel merito dei criteri per l’attribuzione delle condotte illecite di Dutchbat, il contingente di soldati olandese facente parte di UNPROFOR. Paradossalmente, pur trattandosi di un organo sussidiario dell’ONU, la Corte Suprema si è astenuta dall’utilizzare i criteri di attribuzione delle condotte elaborati negli Articoli sulla Responsabilità delle Organizzazioni Internazionali (DARIO), preferendovi gli Articoli sulla Responsabilità degli Stati (ARSIWA). Per la Corte, è pacifico che, essendo i peacekeepers organi sussidiari dell’ONU, le loro azioni siano di norma attribuibili all’organizzazione, ex Art. 6 DARIO. Tuttavia - continua la sentenza - non si tratta in questo caso di statuire su una eventuale “dual attribution” delle condotte; semmai, di vedere in quali casi tali

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Diritto Internazionale ed Europeo condotte siano attribuibili allo Stato olandese. A tal fine, il ragionamento della Corte si basa essenzialmente sull’Art. 8 ARSIWA, che recita: “[t]he conduct of a person or group of persons shall be considered an act of a State under international law if the person or group of persons is in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct”. Secondo il commento della Commissione di Diritto Internazionale, lo standard di controllo richiesto dall’Art. 8 è quello individuato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso “Attività Militari e Paramilitari in Nicaragua”, secondo il quale: “while the United States was held responsible for its own support for the contras, only in certain individual instances were the acts of the contras themselves held attributable to it, based upon actual participation of and directions given by that State. The Court confirmed that a general situation of dependence and support would be insufficient to justify attribution of the conduct to the State”.

difetto”, ad essa attribuita.

In altri termini, l’attribuzione delle condotte allo Stato - a differenza del più flessibile criterio di overall control elaborato dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia nel caso Tadić - è possibile solo quando queste sono effettivamente state perpetrate sotto il controllo diretto di quest’ultimo, essendo il contingente di peacekeepers un organo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, la cui responsabilità va, “per

Tuttavia, questo ragionamento della Corte olandese omette del tutto che le coordinate generali per l’attribuzione delle condotte dei peacekeepers sono esplicitamente sancite all’Art. 7 DARIO, che tratta i casi di Conduct of organs of a State or organs or agents of an international organization placed at the disposal of another international organization. Secondo tale articolo: “The conduct of an organ of a State or an organ or agent of an international organization

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Per riassumere, ancora, l’intricato ragionamento su cui si fonda la sentenza della Corte. Se si ammette che i peacekeepers siano organi sussidiari delle Nazioni Unite, così come sancito dalla stessa organizzazione, ogni loro atto, anche ultra vires - cioè in eccesso delle istruzioni - è in principio attribuibile, secondo i DARIO (Art. 8), alle Nazioni Unite. Al contrario, le nazioni che forniscono i contingenti militari sarebbero responsabili per le condotte solo nel caso in cui esercitino un controllo effettivo, ex Art. 8 ARSIWA. Si arriva così ad una finzione giuridica, secondo la quale i contingenti di mantenimento della pace, una volta messi a disposizione dell’ONU, cessano di essere contingenti militari dello Stato d’invio. In altri termini, si dà per scontato che, indossati i caschi blu, i soldati siano interamente sotto il controllo - e dunque, sotto la responsabilità - delle Nazioni Unite. Solo un controllo effettivo da parte dello Stato d’invio da dimostrare - potrà dunque attribuirne le condotte ad esso.

that is placed at the disposal of another international organization shall be considered under international law an act of the latter organization if the organization exercises effective control over that conduct”. Devono quindi essere soddisfatti due requisiti, fra essi cumulativi, per l’attribuzione delle condotte di tali organi all’organizzazione internazionale alla quale sono i affidat . In primo luogo, che tale organo sia stato messo a disposizione dell’organizzazione; in secundis, che l’organizzazione stessa eserciti un controllo effettivo sulle condotte dell’organo. Si giunge così ad un rovesciamento della responsabilità per difetto rispetto al ragionamento perpetrato dalla Corte Suprema: è infatti solo in caso in cui l’Organizzazione eserciti un controllo effettivo che le condotte degli organi ad essa trasferiti le sono attribuibili. In caso contrario, gli atti di organi statali messi a disposizione di un’organizzazione internazionale restano attribuibili allo Stato di appartenenza. Questi ultimi, dunque, non cessano, come vorrebbe la visione della Corte dell’Aia, di essere al contempo organi statali quando vengono messi a disposizione dell’ONU per le operazioni di mantenimento della pace. Va tuttavia tenuto a mente che il criterio di controllo effettivo menzionato all’Art. 7 DARIO non può considerarsi della medesima natura di quello applicabile all’Art. 8 ARSIWA, poiché la condizione di attribuzione delle condotte così come sancita nel Caso Nicaragua implicherebbe


Diritto Internazionale ed Europeo che la maggior parte degli atti dei peacekeepers siano ascrivibili allo stato di invio. A tal proposito, Palchetti spiega (Palchetti, 2015, ‘International Responsibility for Conduct of UN Peacekeeping Forces: the question of attribution’) che ciò “would significantly complicate attribution of an act to the organization, as in many cases it would be extremely difficult to prove the existence of such an ‘effective control’. This could lead to the unreasonable result that in many cases the sending state could risk bearing responsibility for acts of its national contingent in the performance of functions of the organization. This would be so because attribution of the conduct to the state would not depend on proof that that state exercised effective control over the conduct at issue. Once it is determined that the conduct of a national contingent cannot be attributed to the organization for lack of effective control, attribution to the sending state would be justified by the status of the contingent as organ of that state”. Nel caso di specie, la responsabilità dello stato olandese emerge solo in quanto quest’ultimo, secondo la Corte, ha esercitato un controllo effettivo sulle condotte dei

peacekeepers nel lasso di tempo successivo alle ore 23:00 dell’11 luglio 1995, dopo che la città di Srebrenica fu conquistata dai serbi e fu deciso di evacuare i bosgnacchi verso la mini safe area creata a tale scopo. Viene, in altri termini, semplicemente soddisfatto il requisito di attribuzione dell’Art. 8 ARSIWA. È per questo motivo che le condotte illecite sono ascrivibili (anche) all’Olanda, ma tale approccio al sistema di responsabilità per atti illeciti rischia di creare un limbo lungo il quale, per via dell’immunità dalla giurisdizione accordata alle Nazioni Unite nelle corti nazionali, può risultare del tutto impossibile intentare qualunque azione risarcitoria per atti illeciti compiuti durante le operazioni di peacekeeping. I casi Saramati e Behrami alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ben testimoniano le insidie di questo costrutto giuridico. Infine, questa sentenza della Corte suprema olandese - di cui quest’articolo non si propone di essere un riassunto esaustivo ha diminuito la percentuale di responsabilità per gli atti illeciti dello stato olandese dal 30 al 10%, in ottemperanza ai criteri di attribuzione sopra analizzati. La Corte d’Appello, nella sentenza

cassata, afferiva che Dutchbat avrebbe agito in modo illecito non offrendo ai rifugiati bosgnacchi la possibilità di rimanere all’interno del compound, all’interno del quale, al paragrafo 68 “the chance that the men would have escaped the inhumane treatment and execution by the Bosnian Serbs if they had remained in the compound was 30%”. La Corte Suprema, invece, pur riaffermando che Dutchbat ha agito in modo illecito con le proprie condotte, ha ridotto la percentuale di responsabilità per l’atto illecito dal 30 al 10%. Sancisce, infatti, il paragrafo 4.7.9 della sentenza della Corte Suprema che “It must be ruled that the chance that the male refugees, had they been offered the choice of remaining in the compound, could have escaped the Bosnian Serbs, was indeed small, but not negligible. In view of all of the circumstances, the Supreme Court estimates that chance at 10%”. Questa decisione viene però solo labilmente articolata e non sembra essere sorretta da un’attenta indagine dei fatti. La differenza fra i due gradi di giudizio si esplica, in ultima analisi, meramente in una diversa interpretazione degli eventi, in un ipotetico what if.

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