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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

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Le elezioni europee e il futuro del regionalismo: integrazione o disintegrazione?

Di Andrea Daidone e Mattia Elia Nella storia del Parlamento europeo le elezioni non sono mai state così sentite e, con il 50,97% dei votanti, partecipate. Per la prima volta le euro-elezioni non hanno rappresentato un mero referendum ‘pro’ o ‘contro’ i governi nazionali, tantomeno una sorta di mid-term election per gli stessi; al contrario, sono state l’occasione per delineare il nuovo e futuro assetto dell’Unione. Caratteristica peculiare di queste elezioni è stata la prorompente presenza di tematiche europee. Potrebbe sembrare scontato, ma raramente le euroelezioni hanno visto l’Europa e le questioni ad essa legate nel cuore del dibattito. Non potrebbe essere diversamente: politiche migratorie, cambiamenti climatici, Brexit, rallentamento dell’economia, gestione delle frontiere, commercio internazionale, sicurezza e welfare sono solo alcune delle principali tematiche che con sempre maggiore urgenza bussano alle porte dell’Unione. Al contempo, a causa dell’eterogeneità delle posizioni delle varie formazioni politiche in campo, la maggior parte di tutte le suddette questioni è rimasta, ad oggi, irrisolta.

Si pensi, a titolo di esempio, alla gestione delle migrazioni. È fuori di dubbio che, negli anni precedenti, le ondate migratorie che hanno investito l’Europa abbiano scosso nel profondo la sensibilità delle popolazioni europee e abbiano contribuito notevolmente alla distorsione della percezione oggettiva del fenomeno. Tale distorsione, assieme al perpetrato egoismo e alla assai poca lungimiranza di alcuni paesi, nonché all’oggettiva inadeguatezza della normativa europea, ha spianato la strada al conservatorismo, al nazionalismo e al sovranismo che oggi minacciano l’impalcatura stessa della Casa Comune. Ecco spiegato perchè, da più parti si paventava l’insurrezione degli euroscettici, nonché una minaccia per il futuro del progetto europeo. Al di là dei toni, i timori si sono rivelati tutt’altro che infondati. L’appuntamento elettorale può, a buon diritto, essere visto come un vero e proprio campo di battaglia nel quale si sono fronteggiati due opposti schieramenti: da un lato, gli europeisti, detti ‘eurofili’, che ritrovano in Emmanuel Macron e Angela Merkel i propri leader. Dall’altro, gli euroscettici

(conservatori, nazionalisti e sovranisti), guidati, sebbene non in modo uniforme, da diverse formazioni politiche in diversi paesi: la Lega in Italia, Rassemblement National in Francia, Vox in Spagna, Alternative fur Deutschland in Germania e la maggioranza nei paesi del famigerato Gruppo Visegrad. Gli elettori europei sono dunque stati chiamati ad esprimersi riguardo i progetti di entrambi gli schieramenti, che possono essere ben riassunti nelle proposte dei rispettivi principali rappresentanti. Emmanuel Macron, portabandiera del movimento europeista e liberale, ha proposto, fra le altre cose, di rafforzare i poteri dell’Unione in senso più sovranazionale, dotando altresì l’Eurozona di un bilancio proprio. In sostanza, gli eurofili rivendicano un maggior coinvolgimento dell’Unione nelle vite dei suoi cittadini, così come la prosecuzione e il rafforzamento del progetto europeo: un’Europa più unita, più interconnessa, con più competenze. Ciò, ovviamente, implicherebbe un’ulteriore cessione di prerogative da parte degli stati membri. Nel mezzo, alcuni partiti come i Verdi e ALDE sono perlopiù favorevoli all’introduzione di MSOI the Post • 3


un meccanismo che preveda la sospensione dell’erogazione di fondi comunitari di qualsiasi tipo ai paesi che non si mostrassero solidali con gli altri membri, o che violassero le basilari norme dello stato di diritto e altri valori fondamentali dell’UE. Su posizioni diametralmente opposte ai primi, il leader dei sovranisti, Viktor Orbàn, auspica una riduzione dell’Unione ad un grande mercato unico senza alcuna influenza sulle politiche nazionali. Un punto in grado di compattare il fronte sovranista sarebbe forse il desiderio di fermare i flussi migratori verso l’Europa, favorendo i respingimenti e i rimpatri. Tuttavia, le similitudini terminano qui. Infatti, il suddetto fronte, se concorde sull’urgenza e sull’importanza dell’argomento, è discorde sulle soluzioni da adottare. Da un lato, partiti al governo in Italia sottolineano l’importanza della revisione del regolamento Dublino III per rendere obbligatoria la redistribuzione dei migranti; dall’altro, i sovranisti di Ungheria, Polonia e Austria si oppongono con la

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massima forza a questa opzione. Posizioni più moderate su questo tema sono chiaramente quelle dei partiti europeisti. Il PPE, ad esempio, da sempre molto attento alla protezione delle frontiere, appoggia l’idea della revisione di Dublino III, sebbene rigetti le posizioni più radicali dei sovranisti. Vi è poi la posizione (comune) di Socialisti, Verdi e Liberali, i quali sottolineano la necessità di una condivisione di responsabilità dinanzi alle crisi umanitarie e pongono l’accento sull’integrazione. Al netto delle differenze di idee, il punto focale su cui bisogna porre l’attenzione è rappresentato dal fatto che, ad oggi, l’Unione Europea non ha fra le proprie competenze quella dell’immigrazione. Ciò, naturalmente, affossa a priori qualsiasi piano di gestione del fenomeno migratorio. Fino a quando non sarà l’Unione ad avere totale libertà di manovra nella gestione delle migrazioni e non si realizzerà una politica migratoria comune, questo problema continuerà sempre ad esistere e a soffiare sul fuoco dell’egoismo, del razzismo, della xenofobia e dell’ignoranza.

Non meno dibattuti sono poi gli altri ‘temi caldi’ che trovano spazio nelle agende delle istituzioni europee. Anche in questo caso, la visione delle fazioni politiche europee su come debbano venire affrontate queste tematiche è diametralmente opposta. La prima questione riguarda l’ambiente. L’Unione è l’istituzione con alcune delle più severe norme circa il controllo dell’inquinamento e la riduzione delle emissioni. L’obiettivo dei liberali e dei moderati, cui fanno capo i partiti dei paesi scandinavi e dell’Europa settentrionale, è procedere con la progressiva riduzione delle emissioni di CO2, sino ad arrivare al superamento dell’energia fossile e nucleare, in favore delle rinnovabili. Il tema dell’ambiente non riscuote altrettanto successo nelle fila dei sovranisti, i quali prediligono il perseguimento dello sviluppo economico, senza troppo riguardo per l’ecosistema. Alcuni di essi, come la Lega e l’AdF, hanno sposato le teorie più scettiche nei riguardi dei cambiamenti climatici, avvicinandosi ai pensieri del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.


Non manca, poi, il problema delle finanza pubblica. Il grande dibattito, in questo caso, si dirama fra un’Europa più attenta al sociale e meno ossessionata dall’austerità e una invece più dedita al rigore. La discussione non sembra intercorrere tanto fra europeisti e sovranisti, quanto più fra ‘Nord’ e ‘Sud’. Infatti, se da un lato i partiti dei paesi scandinavi e della Germania si mostrano più rigidi, dall’altro i partiti dei paesi mediterranei prediligono un approccio più flessibile. È interessante notare come questo tema fratturi il fronte sovranista, con la Lega favorevole allo sforamento delle regole europee (ad esempio, il rapporto deficit/PIL non superiore al 3%) e la tedesca AfD a sostenimento del rigore finanziario. Lo stesso primo ministro austriaco ha affermato che il rispetto rigoroso delle normative europee in tema di bilancio è garanzia di sviluppo e credibilità sui mercati. Non meno scottante è infine il tema del commercio internazionale. L’Unione Europea, negli anni precedenti,

ha intrapreso negoziati, poi conclusisi in un nulla di fatto, finalizzati alla stipula di due importanti accordi commerciali internazionali. Il primo era il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) con gli Stati Uniti, mentre il secondo era il Comprehensive Economic and Trade Agreement (CETA) con il Canada. Il tema degli accordi transoceanici è sentito lungo tutto l’arco politico europeo, sebbene con interessanti e per nulla scontati allineamenti fra fazioni opposte. Tanto l’estrema destra quanto l’estrema sinistra europea, infatti, si oppongono a questo tipo di accordi, pur per ragioni differenti. Per la prima, queste partnerships andrebbero in contrasto con il principio dell’autarchia, di cui i partiti sovranisti si sono fatti portavoce. La seconda, invece, li condanna come espressione del modello capitalistico ed ultraliberista. Scettici, se non addirittura contrari, sono poi anche i Verdi, che vedono in questo tipo di accordi una seria minaccia per gli elevati standard ambientali e sanitari dell’Unione. Di differente avviso sono

invece i popolari, i socialisti e i liberali, i quali spingono per la creazione di una nuova strategia commerciale per l’Unione, ritenendo come trattati di questo genere dovrebbero essere una priorità per lo sviluppo dell’economia europea. Quest’ultima, proprio in questi anni, è quanto mai sonnolenta e, per molti versi, patisce ancora gli effetti della crisi economica e finanziaria. In seguito alle elezioni svoltesi domenica 26 maggio 2019, gli equilibri del Parlamento sono stati indubbiamente ricalibrati, ma, di fatto, i rapporti di forza al suo interno non sono mutati di netto: il Partito Popolare Europeo (PPE) ha ottenuto 179 seggi, mentre il Partito Socialista Europeo (PSE) 158. Di conseguenza, si può ipotizzare che verrà riproposta la coalizione tra i due, con l’aggiunta dei Verdi oppure dell’ALDE. Inoltre, non può passare in secondo piano la grande crescita del Gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (ECR), così come del Gruppo Europa delle Nazioni e della Libertà (ENL), nel quale confluiscono la Lega di Matteo

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Salvini e il Rassemblement national di Marine Le Pen; questi ultimi hanno ottenuto ottimi risultati nelle rispettive nazioni ma, a livello europeo, non hanno i numeri e le prospettive di alleanza per proporre un’alternativa credibile al consolidato fronte europeista. La divergenza delle posizioni rende ben chiaro quale sarà il destino di questi (e altri accordi) fra l’Unione e altri ‘grandi’ della Terra. Il risultato delle elezioni, infatti, sembra suggerire che la tradizionale rotta verrà mantenuta per i prossimi 5 anni, verso quella che sarà un’Europa più aperta ed interconnessa, altrettanto disposta a tuffarsi nella marea sempre crescente degli scambi commerciali internazionali. In questo senso, la procedura dell’Unione per la stipula di accordi internazionali è disciplinata dall’articolo 218 TFUE, il quale stabilisce che il Parlamento debba preventivamente emettere un parere (non vincolante) sugli accordi che il Consiglio dell’Unione Europea intende realizzare. La conclusione è subordinata all’approvazione del Parlamento soltanto in casi specifici, riconducibili alle materie oggetto di procedura legislativa ordinaria e agli accordi che possono avere ripercussioni finanziarie considerevoli. Il Parlamento è invece totalmente escluso dalla politica estera e sicurezza comune (PESC), esercitando un controllo indiretto in questo settore, poiché annualmente deve approvare il bilancio dell’Unione e, di conseguenza, anche i fondi da destinare alla PESC. Tra gli obiettivi che maggiormente caratterizzano la politica estera dell’Unione vi è la promozione del regionalismo, sulla base del quale tre o più nazioni, appartenenti ad una stessa 6 • MSOI the Post

regione, cooperano per gestire la crescente interdipendenza tra stati, popoli, territori e società. Come Karen E. Smith ha sottolineato nel 2014 in European Union Foreign Policy in a Changing World, l’impulso nei confronti di questo fenomeno rispecchia l’attitudine dell’UE a relazionarsi con paesi tra loro confinanti, classificandoli come gruppi regionali, applicando strategie e politiche regionali e incoraggiando la cooperazione e/o l’integrazione. In tal senso, l’efficacia dell’impegno dell’UE dipende molto dalla volontà politica degli stati membri. Sulla scia dei risultati elettorali di cui sopra, la politica estera europea dovrebbe poter continuare nel solco tracciato nell’ultima legislatura. In particolare, stando al proprio Programma d’Azione 2014 - 2019, il PPE propone un potenziamento del Servizio Europeo per l’Azione Esterna, con una maggior controllo da parte del Parlamento europeo della politica estera e della difesa comune, così da accrescerne responsabilità e rappresentanza democratica. Per di più, rimarcando l’affinità tra Unione Europea e America Latina, nel programma si legge come L’Unione Europea dovrebbe continuare a incoraggiare e assistere i processi di integrazione e cooperazione nella regione”. Ancora, “l’Unione Europea dovrebbe rafforzare il proprio impegno politico ed economico con Messico, Cile, Colombia, Perù e America Centrale, nel tentativo di dare nuovo slancio a un accordo di associazione equilibrato e ambizioso con il MERCOSUR”. Il Partito Socialista, invece, nel proprio A New Social Contract for Europe si concentra maggiormente sull’importanza della politica migratoria, sulla lotta alla sfruttamento

e sulla tratta di esseri umani, proponendo lo sviluppo di un Piano di Investimenti Europeo per l’Africa. Infine, le forze emergenti nel panorama europeo, i partiti di Matteo Salvini e Marine Le Pen, in ossequio alle loro istanze sovraniste, si concentrano su una riduzione delle competenze dell’Unione in favore di un ri-ampliamento della sovranità degli Stati membri. La Lega suggerisce un ritorno allo status pre-Maastricht, ossia a una forma di libera e pacifica cooperazione tra stati di natura prettamente economica. Sul piano della politica estera, significherebbe tornare al sistema di cooperazione politica europea nel quale il Parlamento aveva il ruolo di esprimere un punto di vista, che sarebbe poi stato difeso dai singoli stati in seno alle varie organizzazioni internazionali, ma sicuramente non si precludeva alla possibilità dell’Unione “to speak one voice”. Volendo porre l’accento sulle relazioni tra l’Unione Europea e altre organizzazioni regionali, è utile soffermarsi sui due dei principali partner dell’Unione menzionati poc’anzi: l’America Latina e l’Africa. Per quanto riguarda la prima, la più importante relazione istituzionale con essa siglata è rappresentata dal partenariato con la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici (UE-CELAC), che riunisce 61 paesi - circa un terzo dei membri delle Nazioni Unite - e oltre un miliardo di persone - il 15% della popolazione mondiale. Un’ulteriore partnership stretta in America Latina dall’Unione è stata con il Mercosur. Istituita nel 1991 da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, mira alla l’organizzazione realizzazione di un mercato comune secondo il modello della Comunità Europea (CE).


Un primo punto di convergenza tra gli interessi di Bruxelles e i paesi del Mercosur è il commercio agroalimentare. Se però i secondi hanno un interesse specifico nell’esportare i propri prodotti agricoli e la carne, l’Unione guarda agli appalti pubblici e promuove regolamenti più stringenti in materia di diritti dei lavoratori, protezione ambientale e lotta al cambiamento climatico. Contrariamente a quest’ultima, però, i paesi del Cono non hanno imboccato la strada europea della sopranazionalità, bensì quella della più atomistica integrazione intergovernativa, scelta determinata essenzialmente dalla marcata qualità presidenzialista dei loro regimi interni. Nel 1999, infatti, hanno intrapreso il progetto di un accordo di associazione (il quale prevede, in genere, l’istituzione di un organo collegiale, il Consiglio di Associazione, formato da rappresentanti dell’UE e degli altri contraenti. Ad oggi, non è ancora stata formalizzata un’intesa; anzi, dopo l’elezione presidenziale in Brasile, la situazione sembra essersi complicata. Qualche mese fa, a poche ore dalla vittoria di Jair Bolsonaro, il ministro dell’Economia Paulo Guedes ha annunciato che: “Il Mercosur

non sarà più una priorità per il Brasile”. D’altra parte, i rapporti tra l’UE e l’Africa subsahariana possono contare sulla base formale dell’Accordo di Cotonou, che governa le relazioni tra l’UE e i 78 paesi del gruppo di stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP). Il Parlamento europeo si dota di delegazioni interparlamentari permanenti e coopera con l’Assemblea parlamentare paritetica ACP-UE. Ne L’Unione Europea e la promozione del regionalismo: principi, strumenti e prospettive, Giovanni Finizio nota come l’articolo 1 dell’Accordo individui la progressiva integrazione dei paesi ACP nell’economia mondiale quale fattore essenziale per lo sviluppo e la riduzione della povertà, per la realizzazione del regionalismo e, in particolare, per la costruzione di aree di libero scambio. In questo caso, però, l’UE si è maggiormente concentrata sulla penetrazione europea nei mercati africani, consentendo alle merci e ai servizi europei di accedere ai blocchi e di circolarvi liberamente, piuttosto che promuove effettivamente il commercio africano intraregionale.

L’Accordo è stato rivisto nel 2005, ed è stata riconosciuta la giurisdizione della Corte Penale Internazionale. Nel 2010, ne è stata discussa una seconda revisione e, nel giugno 2013, il Parlamento europeo ha dato il proprio consenso alla sua ratifica, esprimendo tuttavia alcune riserve in merito a talune parti dell’Accordo che non rispecchiano i valori dell’Unione. In particolare, il Parlamento ha contestato, la mancanza di una clausola esplicita sulla “non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale”. Sulla base dei partenariati di Cotonou pre-2020, l’UE figura quale il più grande donatore dell’Africa. La cooperazione allo sviluppo viene realizzata attraverso vari strumenti finanziari, il più importante dei quali è il Fondo Europeo di Sviluppo (FES), basato sull’Accordo di Cotonou ed escluso dal bilancio comune dell’Unione. Siffatta struttura finanziaria potrebbe cambiare in seguito ai negoziati sul nuovo quadro finanziario pluriennale dell’UE 2021-2028, i quali hanno avuto inizio nel maggio 2018 per l’APC, seguiti da quelli dell’Unione nel giugno dello stesso anno. MSOI the Post • 7


Europa Occidentale I TRASPORTI AEREI DAVANTI ALLA SFIDA DEL CLIMA

Di Gabriele Fonda Il cambiamento climatico pare essere uno degli avvenimenti che possono riuscire, per la loro gravità, ad unire numerosi attori diversi per natura, dimensioni, ideali e fini in un’azione che, pur con meccanismi e tempi diversi, è volta ad un unico obiettivo. Istituzioni, società civile e imprese, dinanzi alla crescente emergenza evidenziata da numerosi studi, hanno dato un esempio di ciò, convergendo verso il contrasto ai cambiamenti che interessano l’equilibrio climatico del pianeta, operando sia in generale, sia rispetto a singoli settori. Si può infatti dire che quasi ogni ambito dell’economia moderna sia fonte del problema e, al contempo, attore della sua risoluzione, tramite azioni per invertire la rotta grazie alla ricerca scientifica e ad innovazioni sia tecniche che di strategia, politica e obiettivi. In particolare, il settore del trasporto aereo è parte doppiamente interessata dal cambiamento climatico, in quanto causa non poco dell’inquinamento globale e, al contempo, è anche terreno di sviluppo di elementi fondamentali per fronteggiare la sfida climatica: la ricerca e 8 • MSOI the Post

le innovazioni tecnologiche. Le sue criticità possono essere sfruttate per determinare una linea d’azione che contribuisca, insieme a quelle di altri ambiti, all’azione generale nei confronti del cambiamento climatico. Finora, le principali compagnie aeree mondiali sembrano non essersi impegnate in modo e sufficient a garantire un effettivo calo delle emissioni inquinanti. Uno studio del Grantham Research Institute della London School of Economics pubblicato nel marzo 2019, infatti, esaminando le politiche ambientali di 20 delle più grandi compagnie aeree al mondo, ha evidenziato come gli obiettivi a lungo termine definiti da tali strategie siano molto inferiori agli obiettivi stabiliti dagli Accordi di Parigi del 2015. Lo studio, finanziato da un gruppo di investitori di compagnie aeree, ha anzi mostrato come queste compagnie non abbiano definito chiaramente il modo in cui intendano ridurre le emissioni dopo il 2025. Gli obiettivi posti, infatti, sono basati più che altro su compensazioni del carbonio, ossia sul finanziare progetti di vario genere volti a ridurre la CO2 presente nell’atmosfera per compensare la quantità di gas serra prodotta direttamente. Le emissioni nette dei voli, però, non vengono significativamente

ridotte; si stima che compongano il 12% delle emissioni di gas serra dovute al settore dei trasporti e il 2% del totale di CO2 prodotta al mondo. Queste percentuali rischiano di aumentare pericolosamente, in assenza di innovazioni. Gli investitori delle compagnie aeree sembrano essere consci della necessità di definire obiettivi a lungo termine per la riduzione delle emissioni. Sia sul versante tecnologico e scientifico, sia su quello istituzionale, questi attori riservano grande interesse a tutte le opzioni che possono permettere di articolare una risposta agli effetti del trasporto aereo sul cambiamento climatico. Nel campo tecnologico, una prima possibilità è quella di utilizzare maggiormente i biocarburanti che, miscelati con il cherosene normalmente impiegato, oltre a ridurre la quota di gas serra prodotta direttamente dai voli permetterebbero di ridurre le emissioni legate alla e raffinazion dei carburanti tradizionali. In un articolo di La “Repubblica” dell’ottobre 2018, Lucio Cillis citava, riferendosi ad uno studio dell’associazione Transport & Environment, l’esempio dell’“electrofuel”, un biocarburante ottenuto dall’unione di idrogeno, prodotto con energia elettrica


Europa Occidentale proveniente da fonti rinnovabili, e diossido di carbonio, prelevato direttamente dall’aria. Questo innovativo prodotto è già disponibile per l’utilizzo e può essere prodotto anche sinteticamente, risolvendo quindi i problemi legati alla coltivazione e alla lavorazione dei biocarburanti più diffusi. Tuttavia, proprio qui risiede la sua controindicazione. In quanto biocarburante sintetico, i costi di produzione sono più elevati di quelli di biocarburanti biologici e del cherosene tradizionale: il rischio è quello di far alzare il costo dei biglietti aerei del 58% rispetto ad oggi. Altra opzione è quella degli aerei a basso consumo, i quali permetterebbero di limitare la CO2 emessa riducendo, semplicemente, il carburante consumato: l’Airbus 320neo, equipaggiato con motori specifici, è in grado ad esempio di ridurre il consumo di carburante del 15% rispetto ai livelli attuali. Come riportato da Wired nel gennaio 2018, esso potrebbe potenzialmente arrivare al 20% già l’anno prossimo. Anche l’ibrido rappresenta una possibile risposta. Nello stesso articolo, Wired citava un’importante partnership fra Airbus, Rolls-Royce e Siemens per la realizzazione di un velivolo denominato E Fan-X, con propulsione turbofan ed elettroventole alimentate da turbine a gas. Si tratta di un progetto finanziato dall’estate 2018 anche dal governo britannico per 268 milioni di euro, a dimostrazione della crescente attenzione riservata al tema anche dai governi europei, già illustrata ad inizio aprile in un altro articolo di MSOI thePost.

Negli ultimi anni, infine, un gran numero di aziende hanno iniziato a sviluppare prototipi di velivoli elettrici. Ad ora, i primi test fanno pensare ad una prossima entrata in servizio di piccoli velivoli, denominati EVTOL (Electric Vertical Take Off and Landing) progettati da case automobilistiche come la RollsRoyce, o dal servizio di auto a noleggio Uber per il trasporto urbano. Tuttavia, il processo di progettazione interessa anche compagnie aeree come EasyJet, in collaborazione con la start up Electric Wright, per viaggi entro il raggio di 500 chilometri, e i colossi dell’industria aerospaziale Boeing e Airbus, che stanno lavorando alla realizzazione di vettori elettrici per il trasporto di merci e passeggeri su media e lunga distanza. Il principale problema, attualmente, sta nella realizzazione di batterie sufficientemente potent i ed i efficient , che consentano ai velivoli di sfruttare al massimo la loro autonomia e la loro capacità di carico. Nonostante i tempi per il primo volo di linea di uno di questi prototipi si prospettino lunghi, l’a.d. di EasyJet, Johan Lundgren, in un’intervista al Corriere della Sera, si disse comunque fiducioso di poter presto rendere la rotta Londra – Amsterdam la “prima tratta al 100% elettrica della nostra rete”. Questo permetterebbe di tagliare drasticamente le emissioni dovute ai voli, in particolare quelli a lungo raggio che costituiscono l’aliquota più rilevante del totale della CO2 prodotta dal trasporto aereo, e anche i crescenti costi per il combustibile tradizionale, dovuti alle quotazioni del petrolio. Le stesse infrastrutture sono

sempre più interessate dalle innovazioni anti-inquinamento. Nell’estate 2015, difatti, sono stati inaugurati, nelle Galapagos e nello stato del Kerala, in India, i primi due eco-aeroporti del mondo. Il primo, sull’isola di Baltra, è alimentato da un ibrido di energia elettrica rinnovabile di origine eolica e fotovoltaica, oltre ad essere stato realizzato all’80% con materiali riciclati. Il secondo, lo scalo internazionale di Kochi, è alimentato da un vasto impianto fotovoltaico che, secondo quanto riportato allora dall’Agenzia Ansa, dovrebbe permettere di risparmiare 300 milioni di tonnellate di emissioni di carbonio nei prossimi 25 anni. Infine, sul versante istituzionale e della definizione di politiche comuni, il cambiamento climatico e il movimento per contrastarlo hanno sortito effetti considerevoli. Con gli accordi di Copenhagen del 2009, i Paesi delle Nazioni Unite già cooperanti per l’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) del 1992, si impegnarono a dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2050. Nell’ottica di tali accordi, nell’ottobre 2016 l’omonimo UNFCCC ha promosso il cosiddetto CORSIA, o Carbon Offsetting and Reduction Scheme for International Aviation. Si tratta di uno strumento quadro delineato e approvato nel giugno 2018 dall’International Civil Aviation Organization (ICAO) che mira ad arrestare la crescita delle emissioni entro il 2020 e a procedere poi ad una loro graduale diminuzione. Dal 2026 tale programma coinvolgerà obbligatoriamente tutti gli stati aderenti l’ICAO. MSOI the Post • 9


Europa Occidentale DA VOX A BRUXELLES: L’AVANZATA DEL POPULISMO EUROPEO

Di Simone Massarenti Le elezioni generali spagnole, tenutesi il 28 aprile scorso, hanno posto un’ulteriore pietra miliare nella recente fase politica ‘sovranista’ del continente europeo: a soli 6 anni dalla propria fondazione, infatti, il partito di estrema destra Vox ha conquistato 24 dei 350 seggi alle elezioni generali, ponendosi come una delle forze di spicco nel panorama politico iberico. Nonostante i pronostici della vigilia prospettassero una ampia vittoria del fronte ultraconservatore rappresentato nella figura del candidato Santiago Abascal, i risultati hanno però riscontrato un sorprendente ritorno del Partito Socialista di Pedro Sanchez ed un crollo di consensi del Partido Popular (PP), partito di governo uscente dopo la crisi politica che ha attraversato il paese.

del PP, insoddisfatti dalla gestione politica territoriale del partito dell’allora premier Mariano Rajoy, soprattutto circa i temi dell’indipendentismo catalano e del Pais Vasco: mentre i partiti di Madrid cercarono una mediazione, dopo la decisione di Barcellona di indire un referendum popolare per l’indipendenza, Vox si pose subito a difesa dell’unità nazionale, definendo il governo catalano una “organizzazione criminale”, parole durissime pronunciate proprio a Barcellona da Ortega Smith, segretario del partito. La crescita esponenziale di consensi è nata quindi dalla sensibilità mostrata su temi di interesse nazionale che hanno alimentato proteste nel corso dei mesi passati. In questo contesto, Vox si è presentato come l’alternativa a governi considerati incapaci di gestire la crisi separatista che ha sconvolto il paese.

Il tema ricorrente nella retorica politica di Vox è, fin dalla sua nascita, quello di “Hacer Espana grande otra vez”, uno slogan che non può non ricordare quel “Make America Great Again” che è stato promosso oltreoceano da Donald Trump. Il partito nasce da una frangia di descontentos

Come riportato da un approfondimento nel quotidiano El Pais, fino a pochi anni fa Vox sembrava rappresentare una realtà “excepcionalmente española”, non associata all’estrema destra classica presente invece in altri stati europei come Francia, Italia e

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Germania: lo spettro franchista, ancora recente nella memoria collettiva, era considerato un deterrente sufficiente per tenere l’ultradestra lontana da un eventuale ritorno sulle scene politiche. Questa aspettativa si è però rivelata falsa: l’aumento dei consensi e l’allineamento ideologico ad altri partiti presenti nel resto del continente hanno fatto di Vox un emblema del ritorno di tensioni politiche e sociali che alcuni ritenevano superate. L’ostruzionismo nei confronti delle politiche governative su temi quali l’immigrazione ed il matrimonio omosessuale sono stati chiari segnali di radicalizzazione del pensiero del partito. Lo stesso articolo di El Pais riporta come, nelle settimane che hanno preceduto le elezioni, la situazione nella penisola iberica sembrasse simile a quella di Londra nei giorni precedenti al referendum sulla Brexit o a quella di Washington prima dell’elezione di Donald Trump: la classe politica precedente sembrava destinata alla sconfitta a causa di un’ondata di fervore popolare. Lo scenario offerto da Madrid può essere considerato come il riflesso dell’attuale


Europa Occidentale panorama politico dell’Unione Europea, ma ad oggi come si pone realmente l’avanzata del populismo nello scenario europeo? Con le elezioni continentali alle porte, appare fondamentale definire quali siano, ad oggi, i rapporti di forza nella politica europea. Utile in tal senso è l’indagine pubblicata dalla BBC a seguito dei risultati elettorali di Madrid, che traccia un vero e proprio quadro della distribuzione della ‘ondata’ populista sul suolo continentale, analizzando nel dettaglio le varie realtà. Al di là della già citata Spagna, dove parlamentari di estrema destra sono stati eletti per la prima volta dal 1975, anno di liberazione dal franchismo, l’articolo presenta diversi contesti nazionali. Particolarmente indicativa è una mappa politica che riporta le percentuali di voti ottenute da partiti nazionalisti nelle più recenti elezioni nazionali: in oltre il 70% degli stati europei, questi superano ampiamente la doppia cifra nella percentuale di consensi, arrivando a numeri comparabili a quelli dei tradizionali partiti di matrice liberale, quali ad esempio Forza Italia. L’Italia, in particolare, sta vivendo una fase di crescita del consenso popolare nei confronti del cosiddetto ‘sovranismo’, un fenomeno caratterizzato da una spinta nazionalista che si poggia anche su di una lotta sociale intestina legata a differenze sociali ed economiche sempre più marcate. In questo scenario, Matteo Salvini appare come un simbolo del rilancio di questa ideologia strettamente legata al concetto di ‘Nazione’, con stime recenti che assegnerebbero alla Lega oltre il 30% dei consensi nazionali.

In forte ascesa anche il partito tedesco Alternative für Deutschland (AfD), che in soli 6 anni di vita ha raggiunto il 12,6% dei consensi, ponendosi come primo partito di opposizione allo schieramento guidato dalla cancelliera Angela Merkel in occasione delle ultime elezioni per il Parlamento Federale. Sulla falsariga della Germania si trova Parigi che, anche a seguito delle vive proteste dei Gilets Jeunes, da mesi ormai vive situazioni di disordine che hanno permesso anche una rivalsa di movimenti di Rassemblement National, forti di un nuovo impulso contrario al governo dell’Eliseo, da mesi ormai sotto scacco in una profonda crisi istituzionale che vede il Presidente Macron come imputato principale. L’analisi della BBC fa riferimento anche sugli altri paesi facenti parte dell’Unione e ciò che salta all’occhio è l’incremento esponenziale della rappresentanza politica delle forze etichettabili come sovraniste: un incremento che in alcuni casi è stato di oltre il 100% rispetto alle precedenti elezioni. Leggi anti-immigrazione e politiche di controllo sulle proprietà degli immigrati paiono essere elementi caratteristici di molte delle declinazioni nazionali del populismo sovranista europeo. Anche in paesi dell’Europa centrale e orientale l’incremento delle simpatie per partiti di estrema destra ha visto dati in linea con il trend europeo: in Estonia il Partito Conservatore Estone (EKRE), in soli 4 anni, ha acquisito il 18% dei consensi, divenendo la terza forza politica. La Slovenia, nella figura del suo premier Janez Jansa, è una ferma sostenitrice delle politiche anti-immigrazione

del premier ungherese Viktor Orban e ad oggi il suo Partito Democratico Sloveno (SDS) ha la maggioranza assoluta nel paese, a seguito dell’ampia vittoria delle elezioni generali. Il quadro che si presenta oggi, alla vigilia della tornata elettorale europea, propone una grande varietà di proposte politiche. Considerando la narrativa anti-europeista promossa da molti partiti, lo scenario che si prospetta è quello di una vera e propria battaglia politico-ideologica che si giocherà tra i banchi di Bruxelles. Come riportato dal sito dell’Europarlamento, prenderanno parte a queste elezioni 10 partiti, composti al loro interno dalle varie realtà nazionali: PPE e PSOE, rispettivamente aree moderate di destra e sinistra del Parlamento, si presenteranno a queste elezioni con i sondaggi che, dopo anni di testa a testa, mostrano una incredibile incertezza anche in paesi come la Germania, dove il partito della Cancelliera Angela Merkel, Unione Democratica Cristiana (CDU), membro del gruppo PPE, non riuscirebbe a superare il 30%. Sarà particolarmente interessante osservare l’andamento del Movement for a Europe of Nations and Freedom, composto dai partiti di ultradestra nettamente euroscettici, che rappresenteranno la vera incognita del prossimo quinquennio europeo. Durante le elezioni che si terranno dal 23 al 26 maggio, gli occhi del mondo saranno puntati sul Vecchio Continente, più che mai ago della bilancia delle nuove tendenze politiche occidentali. MSOI the Post • 11


Medio Oriente e Nord Africa LA ‘NUOVA PRIMAVERA’ DI ALGERI

Di Martina Scarnato L’esito delle elezioni europee che si terranno alla fine del mese sarà importante non soltanto per determinare il futuro della stessa Unione Europea, ma anche quello dei paesi che con essa intrattengono strette relazioni commerciali. L’Algeria, ad esempio, ha richiamato l’attenzione di Bruxelles in ragione delle recenti vicende interne. Dallo scorso febbraio, infatti, l’Algeria è stata teatro di proteste scoppiate a seguito dell’annuncio del presidente Abd al-‘Aziz Bouteflika di ricandidarsi per il quinto mandato consecutivo: data la massiccia partecipazione popolare, testate giornalistiche come il New York Times hanno ipotizzato l’inizio di “nuova Primavera Araba”. Nonostante Bouteflika abbia annunciato le dimissioni in data 2 aprile, le manifestazioni non sono cessate in quanto, questa volta, nel mirino 12 • MSOI the Post

non compare soltanto la ricandidatura dell’ex presidente, bensì l’intero sistema politico. Quest’ultimo è infatti considerato dai manifestanti tanto incapace di far fronte alle questioni economiche più urgenti, come l’alto tasso di disoccupazione giovanile, quanto altamente coinvolto in dinamiche di corruzione. In seguito alle dimissioni di Bouteflika, le elezioni che erano state previste per il 18 aprile sono state posticipate al prossimo 4 luglio. Nonostante l’esercito abbia dichiarato di non aver intenzione di lasciare che il paese sprofondi di nuovo nella guerra civile, lo scenario futuro rimane comunque incerto. Per l’Europa, è di fondamentale che la congiuntura politica algerina rimanga stabile per assicurare stabilità al commercio di risorse energetiche e affinché il paese nordafricano possa collaborare alla gestione dei flussi migratori, anche in virtù della

sua vicinanza con la Libia. Per quanto concerne i rapporti commerciali, come riportato da un briefing pubblicato dal Parlamento Europeo, l’Algeria è il terzo fornitore di gas naturale dell’Unione Europea; allo stesso modo, quest’ultima sarebbe il principale partner commerciale algerino. Nel 2002, Bruxelles e Algeri hanno siglato un Accordo di associazione, entrato in vigore nel 2005, che prevede, tra le altre cose, la creazione di una zona di libero scambio di beni e servizi e lo smantellamento graduale dei dazi sulle importazioni provenienti dall’Unione Europea verso l’Algeria. Secondo il succitato rapporto, però, non mancherebbero attriti tra le due parti, anzitutto a causa delle difficoltà algerine nel rispettare gli impegni assunti. Inoltre, a partire dal 2015, Algeri avrebbe introdotto delle restrizioni commerciali consistenti in licenze di importazione per alcune categorie di beni e nell’aumento


Medio Oriente e Nord Africa espulsioni messa in atto a partire dal 2017, l’Algeria si conferma un paese di transito per i migranti provenienti dai paesi subsahariani che sono diretti verso l’Europa. Algeri, infine, rimane per Bruxelles uno degli alleati più rilevanti nel campo della lotta al terrorismo islamico, data la vicinanza a paesi quali Libia, Mali e Niger, nei quali operano alcune organizzazioni terroristiche di matrice islamica.

delle tariffe doganali. D’altro canto, una delle critiche mosse dall’Algeria rispetto agli accordi del 2002 consiste nel fatto che essi non sarebbero percepiti come equi, siccome, per stessa ammissione di Bruxelles, l’UE ne trarrebbe maggiori benefici, se comparata alla scarsa diversificazione dell’economia algerina.

perseguire, nonostante gli aiuti finanziari ricevuti dall’Unione. Tra le priorità concordate figura anche la gestione dei flussi migratori. Difatti, secondo quanto affermato dall’Osservatorio Internazionale per la Migrazione (OIM), nonostante la campagna di

I punti per un dialogo non mancano ed è auspicabile che esso avvenga alla luce dell’importanza commerciale e strategica dell’Algeria per l’Europa. Tuttavia, al momento, il quadro è segnato da una vena di incertezza, sia per le elezioni che, a fine maggio, interesseranno Bruxelles, sia per la complicata transizione che Algeri dovrà affrontare dopo il 4 luglio.

Per quanto concerne le risorse energetiche, sebbene l’Algeria resti un punto di riferimento per l’Europa, gli scambi di idrocarburi con i paesi dell’Unione sono diminuiti a favore di paesi come Turchia e Cina. Nel 2017, peraltro, Bruxelles e Algeri hanno elaborato alcune partnership priorities da seguire nei campi di cooperazione, energia, sicurezza e sviluppo sostenibile, i quali continuano ad essere complessi da MSOI the Post • 13


Medio Oriente e Nord Africa QUALE SOLUZIONE PER UNA CRISI APPARENTEMENTE INFINITA?

Di Anna Filippucci Si accendono nuovamente le tensioni in una delle zone più ‘calde’ del Medio Oriente: il 3 maggio scorso, al confine tra la Striscia di Gaza e lo stato di Israele sono piovuti razzi e missili provenienti da entrambe le parti in causa. Secondo l’esercito israeliano (Internazionale, 10/16 maggio 2019) sarebbero più di 600 i razzi e i missili lanciati da Gaza, 150 dei quali intercettati dal sistema antimissile. Sempre secondo l’esercito di Tel Aviv, i missili palestinesi avrebbero fatto quattro vittime tra i cittadini israeliani. Dal lato palestinese si parla, invece, di 260 obiettivi colpiti, 25 persone uccise, di cui 14 civili. La violenza è scoppiata in seguito al ferimento di due militari israeliani, al confine, da parte di un combattente del Movimento per il Jihad islamico per la Palestina; in risposta, l’esercito israeliano ha ucciso quattro palestinesi. A 14 • MSOI the Post

seguire, raffiche di colpi di armi automatiche. Occorre, tuttavia, fare un passo indietro per comprendere le reali cause dello scoppio delle violenze. Attualmente, la Striscia di Gaza è governata da Hamas, gruppo dapprima considerato prettamente terrorista dal governo di Netanyahu, ma che, recentemente, ha aperto il dialogo con Israele ed è ora riconosciuto come legittimo interlocutore. Nello stesso territorio, negli anni, è andato affermandosi un altro attore che mira a conquistare il consenso del popolo palestinese: il già citato Movimento per il Jihad islamico, demonizzato da Israele in quanto alleato con l’Iran, nemico giurato dello stato ebraico. Entrambe le forze traggono la loro legittimità dall’opposizione con lo stato israeliano. Netanyahu ha tentato, considerati i notevoli impegni relativi a questioni interne - in particolare, nella costituzione

di un Governo dopo le ultime elezioni e nell’organizzazione dell’Eurovision Song Contest, che quest’anno si è tenuto a Tel Aviv (con non poche polemiche) - di mantenere calma la situazione al confine con la Striscia. Tuttavia, l’ostilità nei confronti del Movimento non ha mai cessato di crescere, così come l’intolleranza nei confronti di Hamas, giudicata incapace di limitare le infiltrazioni terroristiche. Episodio indice dell’aumento delle tensioni è l’omicidio mirato contro un comandante di Hamas, Hamed Ahmad al-Khodary (considerato responsabile del trasferimento di denaro dall’Iran alla Striscia di Gaza), commesso dalle forze di sicurezza di Israele il 5 maggio scorso. Dal lato palestinese, sembra invece che l’insofferenza nei confronti di Israele sia recentemente aumentata, in seguito a un ritardo nel trasferimento dei soldi che il Qatar invia regolarmente nella Striscia per pagare gli stipendi dei 400.000 funzionari di Hamas


Medio Oriente e Nord Africa e aiutare le famiglie povere. Il mancato arrivo nei tempi previsti dei versamenti, necessari per la sopravvivenza della popolazione della Striscia e per questo autorizzati da Israele, ha fatto crescere il sospetto di una responsabilità israeliana. Da 10 anni, vige sul territorio della Striscia un blocco militare ed economico che impedisce uno sviluppo autonomo e libero di uno stato palestinese, così come gli scambi con l’esterno. Risultato: un’ovvia dipendenza della Striscia dagli aiuti umanitari e l’insediamento di correnti ideologiche divergenti in lotta per il governo del territorio. Come abilmente riassunto da Muhammad Shehada (Id.), uno scrittore e attivista nato nella Striscia di Gaza: “Trattare i palestinesi come poveri (anziché impoveriti), miserabili (anziché immiseriti) e

dipendenti dagli aiuti (anziché in lotta per l’autonomia) sono tutti modi stupidi e paternalistici per curare i sintomi di un malessere invece di affrontare le cause alla radice del male”. Solo abbandonando il paradigma economico dominante e mirando alla riconciliazione palestinese sarebbe possibile risolvere la situazione. Per far ciò, sarebbe necessario individuare innanzitutto un partner legittimo per le negoziazioni. Attualmente, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale è l’Autorità palestinese, al governo in Cisgiordania. Tuttavia, la presa di direzione sopra descritta è in netta contrapposizione con quella recentemente intrapresa dall’amministrazione Trump, che, inoltre, si sta anche gradualmente disinteressando della questione. Per questo motivo come richiesto

formalmente in un appello firmato da 37 tra ex ministri degli Esteri ed ex funzionari di spicco europei e indirizzato all’alto rappresentante UE per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Federica Mogherini, e agli attuali ministri degli Esteri europei - l’Unione Europea dovrebbe porsi a guida del processo e “abbracciare e promuovere un piano che rispetti i principi fondamentali del diritto internazionale”. Un punto di svolta potrebbe essere rappresentato dal risultato delle elezioni europee, che si terranno alla fine del mese di maggio e che potrebbero portare a un rinnovato approccio alla questione israelopalestinese.

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America Latina e Caraibi VENEZUELA: FALLISCE IL COLPO DI STATO CONTRO MADURO

Di Tommaso Ellena L’ennesimo tentativo di golpe contro il governo venezuelano del presidente Nicólas Maduro è fallito. Nella mattinata del 30 aprile, il leader dell’opposizione Juan Guaidó, autoproclamatosi presidente ad interim del Venezuela lo scorso gennaio, ha lanciato un appello per la rivolta popolare in un breve video dalla base militare La Carlota, nella zona est della capitale Caracas. Al suo fianco appare il politico di opposizione Leopoldo López, il quale, infrangendo gli arresti domiciliari, mostra il proprio appoggio al colpo di stato. Nel video, Guaidó dichiara: “Quale presidente incaricato e legittimo capo delle forze armate, convoco tutti i militari perchè ci seguano nelle nostre azioni. Come sempre abbiamo agito nel segno della Costituzione e della lotta non violenta. Il momento è ora”. La maggioranza dei militari, tuttavia, è rimasta schierata dalla parte del successore di Chavez. Le proteste dei 16 • MSOI the Post

manifestanti, scesi in piazza per mostrare il proprio sostegno ai golpisti, sono quindi state contenute con la forza. Sono quattro le persone rimaste uccise nei tafferugli di questi giorni, mentre decine sono quelle ferite e arrestate. Maduro ha così commentato su Twitter: “L’impero e i suoi servi non comprendono che la coscienza, la volontà, il valore e il coraggio dell’eroico popolo di Bolivar e Chavez fanno del Venezuela una patria inespugnabile”. Le potenze mondiali hanno mostrato grande attenzione agli scontri nel paese latinoamericano. Il segretario di stato degli Stati Uniti d’America, Mike Pompeo, non ha escluso l’intervento dell’esercito allo scopo di riportare l’ordine. In particolare, gli USA vogliono difendere la figura di Guaidó, il quale, dopo il fallito golpe, rischia di essere incarcerato. Maduro, d’altro canto, può contare su un potente alleato: la Russia. Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov,

che ha infatti dichiarato “l’ingerenza di Washington negli affari del Venezuela è una flagrante violazione del diritto internazionale”. Lo stesso Lavrov ha poi continuato: “Solo il popolo venezuelano ha il diritto di decidere il proprio destino, reclamando il dialogo di tutte le forze politiche del Paese”. Nonostante il fallimento del coup, nelle ore successive alla diffusione del video girato a La Carlota Maduro non è apparso in televisione, a dimostrazione della forte tensione all’interno della compagine governativa. Secondo il giornale spagnolo nelle El Confidencial, settimane precedenti al tentato rovesciamento, il ministro della Difesa del Venezuela, Vladimir Padrino López, insiema al presidente del Tribunale Supremo di Giustizia, Maikel Moreno, e al direttore della Dirección General de Contrainteligencia Militar, Iván Hernández Dala, avrebbero negoziato un accordo con gli Stati Uniti per rimuovere Maduro. Il piano prevedeva che il Tribunale Supremo


America Latina e Caraibi pubblicasse un comunicato per conferire al golpe un carattere legale. L’appoggio di alcuni generali venezuelani, tra cui lo stesso Hernández Dala, avrebbe fatto sì che i militari abbandonassero Maduro, costringendolo alla fuga. A tal proposito, il segretario di stato USA Mike Pompeo ha dichiarato che Maduro era già salito su un aereo per Cuba ma che i russi gli avevano imposto di restare in Venezuela. Sempre secondo El Confidencial, l’azione sarebbe stata però prevista per il 2 maggio, dopo le manifestazioni del primo maggio. Guaidó avrebbe fatto fallire il piano anticipando l’azione al 30 aprile. La scelta di Guaidó di anticipare il coup ha colto di sorpresa i suoi stessi alleati:

la tempistica sarebbe stata dunque il fattore decisivo. Anche l’Unione Europea ha seguito con grande interesse i recenti eventi in Venezuela. Il 30 aprile il Consiglio dell’UE ha pubblicato una dichiarazione dell’Alta rappresentante per gli Affari Esteri, Federica Mogherini, la quale ribadisce come possa esserci solo una soluzione politica, pacifica e democratica alla crisi che colpisce il paese latinoamericano. Nel documento si legge che “l’Unione Europea respinge ogni forma di violenza e chiede la massima moderazione per evitare la perdita di vite umane e l’inasprimento delle tensioni”. Infine, si ricorda che l’obiettivo primario per il Venezuela resta quello di “ottenere il ripristino

della democrazia e dello Stato di diritto attraverso elezioni libere ed eque, in conformità con la Costituzione”. La figura di Maduro sembra tuttavia uscire non solo indenne, ma addirittura galvanizzata da questo tentativo di golpe. I militari si sono dimostrati fedeli al loro presidente e, sino a quando decideranno di appoggiarlo, difficilmente l’opposizione riuscirà a porre fine all’attuale governo.

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America Latina e Caraibi PROSUR: UTOPIA O PASSO DECISIVO VERSO L’INTEGRAZIONE DELL’AMERICA LATINA?

Di Stefania Nicola Lo scorso 22 marzo i presidenti di 8 Paesi dell’America Latina (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Ecuador, Perù, Paraguay e Guyana) hanno firmato la Dichiarazione di Santiago che ha sancito la nascita del Foro para el progreso de America del Sur (PROSUR). Come dai più sostenuto, il PROSUR nasce dalle ceneri della precedente Unión de Naciones Suramericanas (UNASUR). L’unione nacque nel 2008 per volontà del ‘polo socialista’ composto da Argentina, Brasile e Venezuela, ma entrò in crisi nel 2017 per la mancanza di consenso sulla nomina del segretario generale - l’organo esecutivo dell’organizzazione - e per divergenze sulla questione venezuelana. Si potrebbe dire che, ad un livello più profondo, la causa della differenza di veduta all’interno dell’ente sia da 18 • MSOI the Post

rintracciare nello spostamento dell’asse politico della regione sudamericana verso destra, in una posizione nettamente contrapposta all’ideologia che aveva animato l’UNASUR di Chavez, Lula da Silva e Kirchner. Per tale motivo i presidenti artefici dell’attuale progetto, il colombiano Iván Duque e il cileno Sebastián Piñera, avrebbero ideato un nuovo organismo meno legato alle retoriche politiche degli Stati membri e pertanto garante di un efficace coordinamento politico e sviluppo economico. Non tutti, però, concordano sulla neutralità dell’ente. Per esempio, non è passato inosservato che 7 degli 8 Paesi del PROSUR appartengano al Gruppo di Lima che, lo scorso agosto, ha annunciato la propria autosospensione dall’UNASUR per un anno poiché la presidenza pro tempore era stata assegnata al boliviano Morales.

La stessa scelta di escludere il Venezuela, inoltre, sebbene motivata dalla mancanza di requisiti fondamentali economici e di diritto- pone dubbi sull’effettiva neutralità dell’organo e sulle possibilità di diventare un efficiente spazio di dialogo e collaborazione. Le perplessità aumentano se si considera l’altro grande assente, il Messico di Obrador e lo scarso coinvolgimento del brasiliano Bolsonaro che, a differenza del predecessore Lula da Silva, sembrerebbe più interessato a consolidare le relazioni con partner “esterni” che quelle con i vicini. Il presidente uruguayano Vázquez ritiene, inoltre, che la formazione di un nuovo blocco di integrazione non sia da salutare come segnale di unità e progresso, soprattutto se si considera che la precedente organizzazione è ancora in vigore. Nella regione, denuncia


America Latina e Caraibi Vázquez, sono già presenti numerosi organismi che si sono sovrapposti a tal punto da risultare i inefficient : il Mercado Común del Sur (Mercosur), la Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños (Celade) e la Asociación Latinoamericana de Integración (Aladi). In realtà, questi sono soltanto alcuni degli organismi esistenti in America latina e caraibica, che in totale ammontano a circa una quarantina. Se è vero che l’UNASUR non è ancora defunta, fa notare l’Economist, è innegabile che sia moribonda; la nuova organizzazione non sembra essere la strada giusta per unire il Sud America. Anche in questo caso, infatti, l’assenza del

Venezuela e la netta prevalenza di governi di destra è indice dei nuovi equilibri della regione, che potrebbero essere sconvolti, nei prossimi anni, da nuovi turni elettorali. In altri termini, si legge sul New York Times, la creazione del PROSUR conferma il corollario secondo cui in America latina è arduo avviare un processo di integrazione sul modello europeo, più verosimilmente si assiste alla formazione di “franchigie ideologiche dei governi di turno”. Sicuramente, il proficuo numero di enti dimostra il desiderio degli Stati di rispondere congiuntamente alle sfide e ricoprire un ruolo di maggior rilievo a livello internazionale. Non è un caso che 9 Costituzioni sudamericane su 12 menzionino

l’unità regionale, la quale, quindi, “nonostante il boom del nazionalismo è un’aspirazione che approssimativamente l’80% dei latinoamericani appoggia”. Tuttavia, senza la creazione di fondi comuni, organi giuridiciistituzionali e forze di polizia risulta difficile concepire un’Unione effettiva che non sia vittima dei cambiamenti di governo. Per arrivare a questo traguardo, però, sarà necessario ridurre considerevolmente il numero di organismi interregionali, aumentare gli sforzi finanziari e delegare parte della sovranità nazionale, come si è visto nel caso europeo. Bisognerà vedere, dunque, se i leader della regione saranno disposti a compiere simili passi, in quanto, allo stato attuale, la strada da percorrere sembra ancora lunga.

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Asia Orientale e Oceania LANCANG-MEKONG: WATER GOVERNANCE AND CHINESE HEGEMONY IN THE ‘AMAZON’ OF THE EAST

By Giusto Amedeo Boccheni Between April and June, in the Lancang-Mekong River Delta, 1.6 million hectares of rice fields are sowed by the Vietnamese people. This year, in spite of some preoccupations concerning droughts and saltwater intrusion in certain areas, the agricultural schedule is going to be respected, with help from the Ministry of Agriculture and Rural Development. This sort of problems will likely augment in proportions, together with a number of related issues, due to the construction of major hydroelectric dams along the river’s main channel and its tributaries. Such facilities have already caused significant socio-ecological changes, that are bound to continue in the decades to come. The Lancang-Mekong region extends from Tibet, in China, to southern Vietnam and encompasses parts of Myanmar and Thailand, as well as most 20 • MSOI the Post

of the territories of Laos and Cambodia. The basin is also the world’s largest inland freshwater fishery, yielding 13 times more fish each year than all of North America’s rivers and lakes combined. About 60 million people along its course rely for the majority of their protein intake on fish, which they also trade for a living. Furthermore, the area is extremely rich in terms of biodiversity and, for this reason, is often compared to the South American Amazon. Monsoons determine the river’s hydrology, as between June and November 80% of the river’s total discharge takes place, in a phenomenon dubbed ‘flood pulse’. According to the development experts Carl Middleton and Jeremy Allouche, by 2008 the dam storage capacity of the total flow of the river was 2%, but with hundreds of project for major and lesser dams underway, the percentage might increase tenfold by 2030.

The delicate balance of the dry and rainy seasons has for a long time been managed by minor interventions of land and hydro-engineering, like ditches and irrigation channels. The implementation of large hydropower facilities, though, aside from the grave impact on wild fisheries that need water-corridors for migration and spawning, will highly affect sediments deposition and transfer, and therefore the fertility of vast areas, as well as their ecosystem and human livelihoods. While, in the past, the business has been propelled by international economic institution such as the World Bank and the IMF, together with Asian development banks, the main drivers of the dambuilding effort today are investment-seeking national governments, trying to develop energetic potential, and Chinese financial institutions, aiming for profits and regional hegemony. Throughout the years, however,


Asia Orientale e Oceania a number of different actors emerged from civil society along the Mekong in order to protest against new dams and to raise awareness about their negative impact. Among others, the manifestations against the Xayaburi Dam and the Pak Mun Dam have been prominent examples of mobilization and captured worldwide attention. Some governments in the area provided an early endorsement for the concerns of academics, activists, and local communities with the formation, in 1995, of the intergovernmental body of the Mekong River Commission (MRC). Yet, Myanmar and, most importantly, China did not partake, and up to this day the two countries are classified as mere ‘Dialogue Partners’. This resulted in detrimental consequences with respect to the accountability and the bearing of the MRC. So far, Chinese companies appeared to be more concerned with profiting off their investments, than coming to terms with civil society advocates. Those investments,

however, born under the sign of ‘clean’ energy development, as opposed to fossil fuels, are today much more controversial, since, on the one hand, scholars and local communities keep dealing with their externalities and, on the other, China rapidly increases its economic and geopolitical influence worldwide, striving to attain a role of leadership. It is in this context that Beijing launched, in 2015, a parallel initiative to the MRC, under the name Lancang-Mekong Cooperation Mechanism (LMC). Surrounded by a resurgence of initiatives by other geopolitical actors, China made a move to retain control over hydropower development in mainland South-East Asia. The LMC is part of the Belt and Road Initiative, an immense infrastructural dream of geostrategic and economic expansion, backed by the Asian Infrastructure Investment Bank and brought into the world through the diplomatic enterprise of Xi Jinping’s administration.

China’s assertiveness, such as Laos and Cambodia, are slowly turning sides, as they see a flood of investments from the neighbouring superpower. In the first summit of the LMC, held on April 28, 2016 in the Chinese city of Sanya, under the title “Share the River, Share the Future”, the co-chair Chinese Premier Li Keqiang talked of nearly 100 ‘early harvest’ projects and offered ¥10 billion in concessional loans, $10 billion in credit line, $300 million for regional cooperation, and $200 million for operations to reduce poverty. This renewed Chinese interest has certainly earned Xi a privileged position with respect to his geopolitical adversaries in the region, the U.S. and Japan, while somehow captivating the ASEAN with promises to conclude negotiations on the Regional Comprehensive Economic Partnership. And yet, as of today, it is still unclear whether it will also turn out to be a step forward on the sides of consultations, sustainability, and multilateralism.

Countries once at odds with

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Asia Orientale e Oceania PATTI CHIARI, AMICIZIA LUNGA TRA GIAPPONE E UNIONE EUROPEA

Di Lara Aurelie Kopp-Isaia Il 25 aprile scorso si è tenuto il vertice UE-Giappone, durante il quale sono state approfondite e discusse diverse questioni, quali il commercio, la cooperazione strategica e i preparativi in vista del G20, che si terrà a fine giugno a Osaka. Il Giappone è stato rappresentato dal primo ministro Shinzō Abe e l’Europa dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Durante l’incontro, sono stati esaminati gli sviluppi dell’accordo di libero scambio UE-Giappone, approvato nel mese di dicembre dell’anno passato ed entrato in vigore il 1° febbraio. Si tratta del Japan-EU Free Trade Agreement (JEFTA), 22 • MSOI the Post

che prevede l’eliminazione del 97% dei dazi doganali sulle esportazioni dell’Unione verso il Giappone e la riduzione delle tariffe su alcuni prodotti enogastronomici italiani. Inoltre, lo stesso accordo stabilisce l’apertura del mercato giapponese ai principali prodotti agricoli dell’UE. L’attuazione dell’intesa di libero scambio è uno dei traguardi più importanti nelle relazioni UE-Giappone. A tal proposito, nella seguente conferenza stampa, Tusk ha dichiarato: “Il nostro legame si è approfondito ulteriormente con l’entrata in vigore dell’accordo di partenariato economico UE-Giappone, il più ampio accordo commerciale del mondo. Tramite la sua rapida attuazione, accresceremo la prosperità e la qualità di

vita dei nostri cittadini. È un chiaro messaggio al mondo che il Giappone e l’Europa restano fianco a fianco”. Il JEFTA - primo accordo a includere un riferimento esplicito all’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici - dedica un capitolo al commercio e allo sviluppo sostenibile, che contiene gli impegni non vincolanti delle parti, riconoscendo il diritto di entrambe le parti a seguire un approccio precauzionale nell’elaborare e attuare misure di tutela dell’ambiente e delle condizioni di lavoro. Dal momento che il Giappone non ha ancora ratificato due delle otto convenzioni fondamentali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) - la No. 105 sull’abolizione


Asia Orientale e Oceania del lavoro forzato e la No. 111 sulle discriminazioni al momento dell’assunzione e sul lavoro - l’accordo reitera l’obbligo di compiere progressi in tal senso. Le due parti si impegnano anche a rispettare gli obblighi degli accordi ambientali multilaterali, quali la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), l’Accordo di Parigi, la Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora e di fauna selvatiche minacciate d’estinzione (CITES), la Convenzione sulla diversità biologica (CBD). I leader si sono inoltre confrontati sull’Accordo di partenariato strategico (APS), il quale, entrato provvisoriamente in vigore il 1° febbraio come componente del JEFTA, in attesa della ratifica da parte degli stati membri dell’UE, rappresenta il primo accordo quadro bilaterale concluso tra UE e Giappone. Secondo il presidente Tusk “Il nostro partenariato strategico non è mai stato più solido. È basato sui valori condivisi della democrazia liberale, dei diritti umani e sul nostro impegno all’apertura, alla cooperazione nonché a un commercio libero ed equo”. Questo accordo inaugura un dialogo e una cooperazione più ampi su temi di reciproco interesse. In particolare, relativamente alla questione della protezione dei dati, Giappone ed Europa continueranno a collaborare per definire le norme globali.

al terrorismo, cybersicurezza, sicurezza marittima e gestione delle crisi. Il tema della sicurezza internazionale è molto sentito in Giappone, dove, nel mese di dicembre, come riporta Sicurezza Internazionale, il ministro della Difesa Onodera ha presentato al Parlamento le Linee Guida per la Difesa. Secondo la rivista, il 18 dicembre scorso, il segretario di Gabinetto Yoshihide Suga, ha dichiarato che, a causa dei cambiamenti in termini di sicurezza nella regione asiatica, “il Governo adotterà tutte le misure possibili per proteggere la vita e il patrimonio del popolo giapponese”. Il nuovo piano sarebbe stato redatto sulla base di un report del Ministero della Difesa risalente all’agosto 2018, nel quale venivano espresse preoccupazioni sulla potenza militare cinese: “Il rapido ammodernamento della Cina e dell’Esercito popolare di liberazione, il potenziamento delle capacità operative e l’escalation unilaterale delle attività nelle aree vicine al

Giappone stanno generando forti preoccupazioni per la sicurezza nella regione e nella comunità internazionale”. Il vertice di aprile è stato, infine, preparatorio del G20 che si terrà nel mese di giugno a Osaka; il Giappone sarà per la prima volta alla presidenza del foro internazionale. Durante il summit, il dibattito si concentrerà su temi quali la crescita economica, la riduzione delle diseguaglianze, le questioni ambientali di urgenza globale e l’economia digitale. A proposito dell’incontro, il presidente del Consiglio Europeo Tusk ha dichiarato: “Il Giappone può contare sull’UE. Faremo del nostro meglio per rendere il summit un successo per la nostra gente e per l’intero ordine globale, basato su regole”.

Sulle questioni della sicurezza e della politica estera i rappresentanti di ambedue le parti si sono impegnati a intensificare la cooperazione in diversi settori. Tra questi, lotta MSOI the Post • 23


Economia e Finanza FRANCIA, MACRON CONCEDE SGRAVI FISCALI ALLE FAMIGLIE, MA NON CEDE AI GILET GIALLI

Di Giacomo Robasto In Francia, i cosiddetti ‘Gilets Jaunes’ non mostrano alcuna intenzione di arrendersi Sabato 11 maggio è previsto l’Acte XXVI, la ventiseiesima manifestazione consecutiva del movimento, che, secondo gli organizzatori, vedrà l’adesione più alta a Nantes, nel dipartimento della LoiraAtlantica. Ridimensionati di numero nelle manifestazioni di piazza, i gilet gialli si sono contraddistinti in un crescendo di atti violenti: i deputati del partito del presidente francese Macron, La République en Marche (REM), denunciano ormai spesso minacce, intrusioni domestiche e auto incendiate, al punto che Patricia Gallernau, del Mouvement Démocrate (MoDem) di François Bayrou, 24 • MSOI the Post

alleato della maggioranza, ha persino trovato un muro eretto di notte attorno alla propria villetta. Il presidente Emmanuel Macron, nel corso della conferenza stampa tenutasi al Palazzo dell’Eliseo il 25 aprile scorso, a coronamento del cosiddetto ‘Grand Débat National’ avviato nel gennaio scorso per trovare risposte alle richieste dei Gilets, ha indicato una parziale correzione di rotta rispetto alle idee iniziali per fronteggiare il movimento. Gli obiettivi finali, però, non cambiano. Le parole dello stesso Macron hanno, infatti, confermato l’orientamento presidenziale di fondo: il Governo non intende cedere del tutto alle richieste dei manifestanti, le cui prime proteste sono iniziate giá negli ultimi mesi del 2018. Avendo infatti bloccato, nel

Novembre scorso, l’aumento delle accise sui carburanti giá previsto per il 2019, é chiaro che il Governo francese debba venire ulteriormente incontro allo scontento del ceto medio, che i Gilets Jaunes rappresentano. Il presidente francese, tuttavia, ha categoricamente escluso sia il ripristino della cosiddetta impôt de solidarité sur la fortune, un’ampia patrimoniale per incentivare il risparmio, sia l’aumento generale del carico fiscale sui salari alti, per rendere il paese appetibile ai grandi gruppi industriali, in vista dei possibili trasferimenti legati alla Brexit. Più in sordina, Macron ha altresì annunciato un Plan pauvreté per aiutare 8,8 milioni di poveri, pari a circa il 14 % della popolazione francese, a partire dal 2020. Sarebbe bastato questo,


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sommato a qualche commento poco lusinghiero, per definirlo il “presidente dei ricchi”. Il presidente, però, ha anche riveduto tutti i contributi sociali, aumentandoli per i pensionati. Oltre alle misure a sostegno del potere d’acquisto dei cittadini d’oltralpe, infatti, il presidente francese ha inoltre annunciato, a partire da gennaio 2020, la piena indicizzazione delle pensioni inferiori a €2.000 lordi, innalzando così la soglia del salario minimo per ogni lavoratore a €1.000 lordi mensili. Macron si è mostrato soddisfatto in merito al piano d’azione proposto. Secondo il suo progetto, la classe media vedrà aumentare il proprio potere d’acquisto: a titolo d’esempio, i dipendenti hanno visto i loro contributi sociali ridotti. I fatti, però, nel tempo, si sono rivelati

più complessi del previsto. Diverse aree rurali d’oltralpe, su cui già gravava il désert médical, ossia la carenza di servizi sanitari, sono state le destinatarie di ulteriori tagli alla spesa pubblica legati alla necessità di portare i conti pubblici in ordine, in particolare per ciò che concerne gli ospedali e le scuole. Tagli analoghi, voluti in Gran Bretagna già dall’ex primo ministro David Cameron, hanno alimentato il malumore poi sfociato nella Brexit. Era prevedibile un esito analogo anche in Francia, e così è stato. L’esperienza d’oltremanica suggerisce quindi che, qualora necessario, si debba procedere con tagli alla spesa pubblica oculati, che minimizzino gli sprechi e, al contempo, garantiscano servizi ai cittadini efficienti per quantità e qualità. Proprio da qui trae ispirazione la proposta di Macron di

snellire la funzione pubblica francese tagliando 120.000 posti riservati ad alti funzionari entro la fine del suo mandato, che scadrá nel 2022. Se portato a compimento, questo piano contribuirebbe senz’altro a contenere il famigerato debito pubblico francese che, nel 2017, ha raggiunto il 98,5 % del PIL. In un paese ancora scosso dall’incendio alla Cattedrale parigina di Notre-Dame, sembra dunque che lo scontro sociale interno non si sia ancora ricomposto. Al momento, l’unica certezza è che l’esito delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, che si terranno a fine mese, fornirà un importante aggiornamento sul giudizio dell’opinione pubblica, alla quale, il presidente Macron e il Governo in carica non potranno sottrarsi. MSOI the Post • 25


Economia e Finanza L’ITALIA, CAPOFILA TRA I PAESI EUROSCETTICI, MIRA AD AMMORBIDIRE LA PROSSIMA COMMISSIONE EUROPEA

Di Michelangelo Inverso Le elezioni europee del prossimo 26 maggio sono ormai alle porte e a questa tornata si deciderà il futuro dell’Unione stessa. I partiti in corsa hanno esplicitato nei rispettivi programmi elettorali la propria posizione in merito all’assetto dell’UE, schierandosi a favore o contro lo status quo. Come sottolineato da The Atlantic, alcuni guardano alla tornata come a una seconda Brexit: una scelta netta tra un ’Sì’ e un ’No’ sul futuro dell’Unione. Tuttavia, è forse più calzante il parallelo con le elezioni politiche del 4 marzo scorso in Italia. Il nostro paese sta infatti vivendo, da ormai più di un anno, l’esperimento politico del cosiddetto ‘Governo del cambiamento’: un nome che, 26 • MSOI the Post

almeno nelle intenzioni, rimarca la differenza con le esperienze politiche passate. Finora le politiche economiche perseguite dai singoli stati prima, e dall’Unione Europea poi, sono state ispirate dalla volontà di favorire il comparto industriale e finanziario, ovvero quei comparti comunemente descritti come ‘gli investitori’. Di qui, la necessità di mantenere una politica economica rigorista. L’esperienza ‘populista’ italiana, che è la prima tra i grandi paesi europei e funge da apripista per tutti i candidati anti-establishment, ha, seppur debolmente, cambiato gli obiettivi delle politiche economiche italiane favorendo non più gli investitori, bensì le classi meno abbienti, tramite una politica economica maggiormente redistributiva.

Una scommessa dietro queste elezioni europee, almeno sul piano economico, diventa dunque quella di cambiare i beneficiari delle politiche economiche dell’Unione e dimostrare che è possibile avere una buona crescita economica anche non seguendo le ricette tradizionali. Questa prospettiva - uscire dalle regole alla base della globalizzazione e dell’internazionalizzazione ha chiaramente dato origine a più proposte politiche, che spaziano da destra a sinistra, da Trump a Corbyn, da Lega e Movimento 5 Stelle in Italia ai Verdi in Germania. Non si tratterà, quindi, di un referendum sull’Europa, quanto di un riassetto dell’agenda politica europea. La situazione italiana è in questo senso emblematica.


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Da una parte, il Nuovo Centrodestra di Salvini-Meloni, pesantemente euroscettico e nazionalista; dall’altra, il centrosinistra, che sostiene un progetto di riforme pienamente liberal-democratico, nel solco delle precedenti grandi riforme europee. Infine, il Movimento 5 Stelle, che si pone in una posizione di compromesso sulla necessità di cambiare le politiche economiche europee, senza rinnegare l’unione. Quest’ultimo progetto incarna una posizione molto pragmatica, poiché fa riferimento all’eventuale successo economico della ‘manovra del popolo’, cioè alla propria politica economica. Occorre, dunque, analizzare quali siano i nostri dati economici alla vigilia delle elezioni. Sostanzialmente stabili, a livello di PIL nominale rispetto all’anno precedente. A certificarlo è l’ISTAT, che, nella propria stima preliminare, ha assegnato un +0,2% per il primo trimestre del 2019, rispetto allo stesso periodo del 2018. Su base annua, invece, l’ISTAT prevede un +0,2%, un magro risultato rispetto all’1% previsto dal Governo. Quest’ultima soglia è associata dal ministro dell’Economia Tria alla sfavorevole congiuntura internazionale, indicando come

la media UE, per Eurostat, sia solo di +0,4% (la Francia, ad esempio, ha una crescita stimata del +0,3%). Dal canto suo, il premier Conte ha ribadito in più occasioni la fiducia nella crescita a partire dalla seconda metà del 2019, quando si dovrebbe dispiegare appieno la manovra del 2018. Altro tema cruciale in Italia, su cui Governo e partiti di maggioranza hanno scommesso con il Decreto Dignità, Quota 100 e Reddito di Cittadinanza, è quello del rilancio dell’occupazione e della sua qualità. Sempre stando ai dati ISTAT, nell’ultimo anno, l’occupazione è aumentata di +0,5%, specialmente a tempo determinato, con le partite IVA, rispettivamente +61.000 e +51.000 lavoratori, rispetto all’anno precedente. Dati che concedono un sospiro di sollievo ai membri del Governo, che, nel frattempo, prepara una grande offensiva politica per il prossimo Europarlamento e, soprattutto, per la Commissione europea. La maggioranza spera infatti in un buon risultato in Italia tra le due forze politiche, puntando a imporre un proprio uomo alla Commissione (tra i nomi papabili, vi è anche Enzo Moavero Milanesi, attuale

inquilino della Farnesina), in modo da avere un alleato nell’organismo che decide le sorti delle politiche economiche dei paesi membri dell’Unione. Nel dicembre scorso si è assistito a una guerra mediatica tra Commissione europea e Governo italiano su pochi decimali di deficit (dal 2,4% al 2,04%). Un buon successo dei partiti euroscettici potrebbe, in un certo senso, riavvicinare l’Italia, oggi isolata politicamente, all’Europa, passando dallo sforamento dei vincoli di bilancio e dall’archiviazione della politica di austerity. Sembra, però, che il terreno di avvicinamento tra euroscettici sia di carattere superficiale, specialmente su temi caldi come immigrazione e sicurezza. Di tutt’altro avviso si mostrano sulle ricette economiche da applicare (per alcuni, come il Governo austriaco, ancora più rigide delle precedenti). Per questo motivo potrebbe anche accadere che, dopo tutta la retorica elettorale di questi partiti, il risultato rimanga affine a quelli precedenti, con il rischio che “si cambi tutto affinché nulla cambi”, come recita la famosa citazione de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

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Europa Orientale e Asia Centrale EUROPEAN ELECTIONS 2019: WHAT ARE KREMLIN’S PLANS?

The whole international community is waiting for the forthcoming European Parliamentary elections Taking place on 23-26 of May, the elections are expected to be rather complicated for the participants, as far as the traditional balance of political powers is challenged by internal problems and contradictions. However, apart from the internal factors which can affect the results of the future elections, there are external players that also have their own particular interests to promote.

Ukrainian crisis led to a chill in relations between Russia and the Western countries, whereas the EU and the US have taken several restrictive measures against Russia, establishing sets of economic and political sanctions against Russian governing elites. Since these sanctions isolated Russia politically and negatively affected its economy, one of the main objective for Moscow will be ending that regime and normalizing its relations with the European countries, though without modifying anyhow its political attitude of assertiveness.

The recent years were characterized by a particular tension in relations between Russia and the EU. Regular human rights abuses and active participation of Russia in the

However, in spite of particular isolation from the mainstream political forces of the West, Russia has still got supporters in Europe. Having in mind the active role the Kremlin usually

By Alina Bushukhina

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takes in supporting its ‘friends’ in elections abroad, it is likely that the European elections won’t eschew Moscow’s glare. These days European politicians and experts are signaling the increasing probability of Russia to meddle in European elections, even though the Kremlin has kept a much lower profile since it was exposed attempting to affect US presidential elections in 2016. In February, during an interview with POLITICO on the sidelines of the Munich Security Conference, former NATO Secretary-General Anders Fogh Rasmussen warned that “there is no doubt that Russia will be a major malign actor”. EU member states secret services share this fear, declaring that Russia aims at boosting support for parties that are either eurosceptic or


Europa Orientale e Asia Centrale friendly to Russia. Obviously, Russian attempts to make European parliamentary system more suitable to their interests are nothing new. In addition, nowadays Russia is putting efforts to build a pro-Russian political bloc of Eastern and Central EU member-states, such as Hungary and Bulgaria, which seem to be ready to support Russia even at the expense of relationship with European countries. In case of victory, this bloc will be supposed to promote pro-Russian positions. Some of pro-Moscow European politicians have already mentioned the negative effect that anti-Russian sanctions bring to European countries, hinting at the better option of

ending sanctions regime and normalizing relations. So did, for example, Hungarian prime minister Viktor Orban. Right-populist parties, such as Italian Lega, Freedom Party for Austria, Alternative for Germany, French National Rally, competing with the main player, European People’s Party, aspire to get the majority in the upcoming elections, in order to create the largest coalition in the European Parliament. These parties are also well-known for their particularly close relations with the Russian Government. Not all the European countries’ legislations imply restrictive measures against parties that receive financial support from foreign governments. According to the Fiinancial Times,

some sources purport that such parties indeed received financial support from the Russian Administration. For instance, the leader of the far-right party National Rally, Marine Le Pen, has taken loans from Russian banks and has repeatedly praised Putin. Essentially, if Russian-backed parties will acquire support on these elections, Russia will try to use the advantage to reverse the consequences of the Ukrainian crisis and the annexation of Crimea. Moreover, the prospect of a pro-Russian bloc’s victory caused serious concern among Western s security official , as far as they tend to assess such victory as a potential threat.

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Europa Orientale e Asia Centrale IDENTITÀ NAZIONALE O ‘BORDER CORRECTION’?

Di Lucrezia Petricca A distanza di un anno e mezzo dalla chiusura del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, il 17 maggio scorso il Parlamento del Kosovo ha approvato una risoluzione di condanna del ‘genocidio’ commesso dalla Serbia in Kosovo durante la guerra del 1998-1999, chiedendo, inoltre, l’istituzione di un nuovo tribunale che giudichi i crimini di guerra. In questi anni, molti esponenti politici e membri delle forze armate degli Stati dell’exYugoslavia sono stati indagati con l’accusa di aver violato il diritto internazionale umanitario e sono stati dichiarati responsabili di aver commesso crimini contro l’umanità. L’organo competente a giudicare i reati commessi durante i conflitti avvenuti nella 30 • MSOI the Post

regione balcanica era il Tribunale Penale Internazionale per l’exJugoslavia (TPIJ), istituito all’Aja nel 1993 con la Risoluzione 827 delle Nazioni Unite. Dopo 25 anni di attività e dopo aver emanato quasi 90 sentenze di condanna, il Tribunale ha chiuso i battenti nel dicembre 2017. In molti hanno parlato di fallimento, qualificando il TPIJ come un “tribunale politico” che, indirettamente, ha nobilitato gli imputati presentandoli alle opinioni pubbliche come “eroi nazionali”. Altri hanno invece sostenuto che il Tribunale abbia raccolto un importante numero di memorie e testimonianze del tragico conflitto. Quale che siano le opinioni, si può sostenere che il TPIJ abbia avuto una funzione di ‘corte temporanea’; tant’è che ha passato il testimone al Meccanismo Internazionale Residuale per i Tribunali Penali (MICT), il quale ha il compito di

definire i giudizi pendenti. Nonostante quindi l’attività giudiziaria abbia fatto il suo corso, riconoscendo colpevoli molte forze politiche e militari serbe, il Kosovo ha deciso di risollevare la questione dopo vent’anni e di denunciare la Serbia per ‘genocidio’. Per contro, Milovan Drecun, il capo della commissione per il Kosovo al Parlamento serbo, suppone che la risoluzione sia stata invece un tentativo di adombrare i delitti eseguiti dall’UCK, l’Esercito di liberazione del Kosovo, di cui ha fatto parte anche l’attuale presidente kosovaro Hashim Thaçi. Le relazioni tra Belgrado e Pristina non fanno quindi altro che inasprirsi e lasciano poco spazio alla diplomazia. Ulteriori tentativi falliti di riconciliazione sono emersi nel vertice di Berlino del 29 aprile scorso, a cui hanno partecipato, oltre


Europa Orientale e Asia Centrale

all’alta rappresentante Federica Mogherini, i presidenti di Montenegro, Bosnia, Kosovo, Serbia, Macedonia del Nord, Croazia e Slovenia, invitati dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Macron, nella veste di mediatori.

Il summit di Berlino ha avuto come esito un totale stallo dei negoziati per l’integrazione europea dell’Albania e la stabilità della regione balcanica, minacciata dalle recenti tensioni tra Kosovo e Serbia. La scorsa estate, il Kosovo ha imposto dei dazi al 100% sui prodotti serbi e bosniaci, con la minaccia di revocarli soltanto dopo il riconoscimento della propria indipendenza da parte della Serbia. In particolare, il presidente serbo Aleksandar Vučić si è detto scontento per la decisione assunta dall’omologo di voler rinunciare all’idea di una demarcazione (uno scambio) territoriale tra Serbia e Kosovo. Tale prospettiva nacque nell’ottobre del 2018, durante una conferenza in Austria, quando i negoziati tra i due paesi sfociarono nel proposito di uno scambio di territori, in inglese ‘border correction’, che coinvolgerebbe il nord del Kosovo e alcuni distretti serbi con minoranza albanese. Il piano è stato duramente criticato dalla Germania, la quale auspica il mantenimento dell’unità nazionale di entrambi i paesi, e

dagli altri paesi balcanici, i quali temono si possano verificare conseguenze negative in tutta la regione. Al termine del vertice di Berlino, Vučić ha sostenuto che la Serbia non vanta nessun appoggio né sul fronte interno né su quello estero. Il presidente serbo biasima sia il Governo, incapace di fare pressione sulla questione del Kosovo e far approvare la propria linea, sia i propri oppositori. Sul piano internazionale, l’UE e gli Stati Uniti si astengono da un intervento pressante sulla questione e mantengono una posizione comune, come ha affermato Palmer, vice assistente del segretario di Stato statunitense: “La visione degli Stati Uniti, ma anche quella dell’UE, è rimasta uguale ed è molto semplice: la prosperità e la pace nei Balcani; una regione che vive in pace con se stessa e con i suoi vicini, una regione ben integrata nell’Europa”. In attesa del prossimo vertice a Parigi, l’UE e gli USA vogliono evitare qualsiasi influenza russa e cinese sulla regione.

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Africa Subsahariana AFRICAN WOMEN STAND UP FOR THE PLANET AND EQUALITY

By Desideria Benini Climate change seriously affects our planet, transforming the landscape. These changes in the ecosystem have had a huge impact on the lives of millions of people, particularly on poor farmers living in the ‘Global South’ of the world, whose livelihoods primarily depend on natural resources. Studies from the UN and the World Bank show that a specific group among these agricultural communities is especially threatened by climate change, namely women. In its paper ‘The role of gender in climate smart agriculture’, the UN Food and Agriculture Organization (FAO) claims that climate change’s effects hit women harder than men. This is both a reflection of the gender-differentiated structure of society and a contributor to these inequalities. Female labour in agriculture is huge, making up 43% of the world’s food production. 32 • MSOI the Post

However, because of gender discriminations, women have fewer assets, entitlements and economic opportunities compared to men, resulting in a greater dependence on natural resources, hence an increased exposure to climate-related risks. As women are usually less educated than men, they are excluded from the decision-making process, and are denied access to improved technologies. Consequently, women’s adaptive capacity to climate change is particularly low. Moreover, women are 14 times more likely than men to die in case of natural disasters, due to cultural and religious norms: the burden of household work, caring for children and the elderly, and even their clothes may hinder their ability to escape when emergencies occur. Against this backdrop, a big step forward has recently been made at a global level to include gender in climate change mitigation planning. Key international players such as

FAO and the International Fund for Agricultural Development (IFAD) have implemented new strategies focused on developing climate-smart agricultural practices with a gender-responsive approach. In other words, their action is twofold. First, it intends to enhance food security through the introduction of agricultural methods resilient to climate change. Second, it tackles gender-inequality by ensuring the same benefits and opportunities for men and women, as well as increasing female representation on public institutions. In its research ‘The Power of Parity’, the McKinsey Global Institute found out that reaching full gender parity would add up to $28 trillion to the annual global GDP, comparable to the current economies of China and the U.S. combined. Despite their weak position, women do not give up to climate change. Hindou Oumarou Ibrahim has been working for 20 years with the association she


Africa Subsahariana and urban planning, she wants to “transform Freetown”, enhancing its resilience to climate change. It should be borne in mind that the Global Facility for Disaster Reduction and Recovery (a grant-funding mechanism managed by the World Bank) ranked Sierra Leone as the third most vulnerable country in the world to natural disasters.

founded in 1999, Association des femmes peules Authochtones du Tchad (AFPAT), to defend both the environment and women’s rights within the Chadian Mbororo nomadic community, where she was born and raised. In fact, Chad is seriously experiencing the impact of climate-change: Lake Chad’s surface has been reduced by 95%, according to the UN Environmental Programme. Half of this dramatic diminution is due to severe droughts driven by climate variability, which has also contributed to the loss of tons of fish and the decrease of pasture for the cattle. Hindou’s association aims at fighting the ecosystem degradation by relying on the expertise of Mbororo’s native women who are an invaluable source of knowledge when it comes to Sahel’s environment, as their entire lives depend on it. Promoting the integration of women into the community and enhancing their role in men’s eyes represent a big step forward on the road to equality. AFPAT also helps women become less vulnerable to climate change by involving them in new economic activities with the aim of reducing their dependence on the land products while diversifying

their revenues. In 2017, for her untiring commitment to Chad’s people and ecosystem, Hindou Oumarou Ibrahim was awarded with the Prix spécial Danielle Mitterrand France-Libertés, a price given to remarkable projects realized by civil society actors. The following year she held a conversation with exVice President Al Gore during The World Economic Forum in Davos. Today, more and more African leaders have joined forces with ordinary women in their everyday battle against climate change. Yvonne Aki-Sawyerr, the first female mayor of Freetown, Sierra Leone, is a noteworthy example. She ran for office in March 2018 under the banner of environmental action; engaging the citizens in a process of housing development

The importance of Aki-Sawyerr’s work has been internationally recognized as she was invited to speak at the third Annual Women4Climate Conference, held in February 2019. Mayors, business leaders, and change makers from all over the globe attended the Paris conference “to showcase how women are taking the lead when it comes to climate action”. It is now widely agreed that women play a central role in climate change-related issues. Not only because they are disproportionately experiencing its effects, but especially because they are moving to the forefront of the challenge for building a greener world and a better future. The ambitious, yet righteous goal of the challenge is perfectly presented by the following motto: “When we join our voices together, we are unstoppable. We are powerful. We are Women4Climate”.

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Africa Subsahariana ELEZIONI EUROPEE: L’AFRICA CON IL FIATO SOSPESO

Di Francesco Tosco

L’Africa e l’Unione

La scorsa settimana, 400 milioni di cittadini europei sono stati chiamati alle urne per decidere della composizione del Parlamento europeo (PE), il cui mandato durerà fino al 2024. Con un’affluenza intorno al 51% degli aventi diritto, la più alta degli ultimi vent’anni, le elezioni europee 2019 hanno visto confermarsi ai primi posti (a livello aggregato) il Partito Popolare e, subito a seguire, i Socialisti e Democratici.

I rapporti tra l’UE e l’Africa subsahariana sono governati attualmente dall’Accordo di Cotonou, che costituisce la base per le relazioni tra l’UE e i 78 paesi del gruppo ACP (Africa, Caraibi, Pacifico). L’accordo affonda le radici nelle Convenzioni di Lomè (I-IV) che, tra il 1975 e il 2000, consentirono al 99,5% dei prodotti degli stati firmatari di accedere al mercato europeo. L’evoluzione delle relazioni tra UE e stati ACP ha portato a Cotonou, siglato nel 2000 con durata ventennale, quindi in scadenza il prossimo anno. Questa è, dunque, una delle partite più importanti che il Parlamento europeo e lo stesso continente africano dovranno giocare nei prossimi mesi.

Durante le ultime settimane di campagna elettorale, le più contraddittorie della storia europea, il mondo è rimasto in attesa, col fiato sospeso. Tra i partner commerciali e politici dell’Unione, il mondo africano è stato sicuramente quello più attento, conscio dell’opportunità o del rischio che si sarebbero potuti presentare. 34 • MSOI the Post

Un anno di tempo Il nuovo Parlamento europeo non si troverà allo sbaraglio: le

discussioni sul ‘post-Cotonou’ sono già state avviate nel 2015, con un processo di valutazione degli obiettivi raggiunti. Nel 2016, sono state proposte varie ’opzioni strategiche’ per il futuro; una proposta in particolare è stata discussa e approvata dal PE nel primo semestre del 2018 con la risoluzione 2634. La Commissione europea ha così dato avvio ai negoziati che dovranno necessariamente portare ad un accordo entro la scadenza del 2020. Nonostante la volontà del Parlamento, gli ostacoli da superare sono costituiti direttamente dai paesi dell’ACP, restii al cambiamento e fedeli allo status quo. Secondo un dossier del 2017 del Centro Europeo per la Gestione delle Politiche per lo Sviluppo (ECDPM), think tank finanziato da alcuni stati europei, quello che manca, da parte loro, è una visione più ampia e matura delle dinamiche regionali e


Africa Subsahariana continentali, nonostante gli interessi in gioco siano altissimi. L’importanza cooperazione

della

L’accordo getta le fondamenta giuridiche di tutti gli strumenti finanziari che l’Unione Europea destina alla cooperazione e allo sviluppo in questa porzione di mondo. I più importanti sono il Fondo Europeo di Sviluppo (FES), il Programma Panafricano (PANAF), e i vari Accordi di Partenariato Economico (APE). Con ordine: il FES, con un budget di circa €29 miliardi, finanzia in tutti gli stati firmatari politiche e programmi di cooperazione nazionali e regionali. In assoluto, è lo strumento di cooperazione più influente. Il secondo, con €845 milioni di contributi finanziari, sostiene le strategie congiunte e le attività nazionali e transnazionali. Infine, ci sono gli APE, volti a promuovere scambi commerciali tra l’Unione e le varie regioni africane. Questi accordi commerciali, compatibili con l’OMC, non hanno sortito gli effetti desiderati, tanto da indurre l’UE a istituire un regolamento di accesso al mercato valido fino

al 2014, poi prorogato. Tutti questi strumenti, con l’Accordo di Cotonou agli sgoccioli, potrebbero mutare sia nella forma sia nel contenuto. Dai qui, l’importanza di una visione per il futuro dei rapporti UE-Africa. Le critiche a Cotonou Il problema di fondo risiede nello sfasamento tra i principi ambiziosi dell’Accordo e la loro reale applicazione pratica. Come recentemente evidenziato su Osservatorio Diritti, infatti, c’è un netto prevalere dell’agenda politica europea sui reali bisogni degli stati firmatari. La maggior parte dei fondi destinati alla cooperazione internazionale, anziché essere allocati per progetti economico-sociali, sono spesso stati investiti nella sicurezza e nel controllo dell’immigrazione: temi più cari agli europei che utili agli stati su cui si attuano queste politiche sebbene con importanti risvolti politici. Da parte loro, i paesi, soprattutto africani, non riescono a creare una reale agenda politica in grado di modificare i meccanismi di allocazione

delle risorse. L’ECDPM, nel dossier di cui sopra, sottolineava che “La rivitalizzazione tanto attesa, non è avvenuta. Semmai, le fondamenta politiche e istituzionali delle relazioni EUACP sono diventate ancora più fragili”. I nuovi negoziati Commissione europea, La nell’ottica di controllare maggiormente l’allocazione e la programmazione dei fondi, ha deciso di portare avanti una proposta di un sistema ‘a ombrello’. Un accordo diviso in moduli, con una parte valida per tutti, costituita dai principi base, unita a tre distinte partnership regionali. Le discussioni sul futuro delle relazioni tra paesi dell’Unione e paesi africani sono ancora in corso e saranno presto all’ordine del giorno del nuovo Parlamento europeo. Quest’ultimo si riunirà per la prima sessione ufficiale il 2 luglio 2019 e dovrà eleggere la nuova Commissione, organo di fondamentale importanza nella definizione della linea di azione delle istituzioni comunitarie.

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Nord America PAPA FRANCESCO E LA PEDOFILIA: DAL CASO MCCARRICK ALLA LEGGE CONTRO GLI ABUSI SESSUALI

Di Jennifer Sguazzin I primi mesi del 2019 hanno visto la Chiesa Cattolica affrontare scandali legati a casi di pedofilia, accuse di insabbiamenti e un pontefice che sta cercando di affrontare questa crisi prendendo dei provvedimenti inediti contro gli abusi sessuali. Alla vigilia del summit vaticano sulla protezione dei minori tenutosi a fine febbraio, papa Francesco ha dimesso dallo stato clericale, con sentenza inappellabile, l’ex arcivescovo di Washington Theodore McCarrick. Una decisione che conta un unico precedente, risalente a 90 anni fa. Il caso McCarrick è esploso lo scorso giugno, quando un’indagine interna promossa dalla Chiesa aveva ritenuto credibili le accuse di molestie ai danni di un ex chierichetto 36 • MSOI the Post

di 11 anni, risalenti agli anni Settanta. Nonostante McCarrick si sia sempre dichiarato innocente, questo scandalo ha gettato un’ombra sull’intera Chiesa Cattolica americana che, stando a quanto sostenuto dal Rapporto Viganò e da diversi media statunitensi, non era all’oscuro della condotta sessuale dell’ex arcivescovo, rivolta anche nei confronti di giovani seminaristi e sacerdoti. Il caso McCarrick ha attraversato 3 pontificati prima di giungere alla sua conclusione. Dopo la pubblicazione dell’indagine, lo scorso 28 luglio, il papa aveva accettato le sue dimissioni disponendo “una sospensione dall’esercizio di qualsiasi ministero pubblico, insieme all’obbligo di rimanere in casa” per dedicarsi a “una vita di preghiera e di penitenza”, in attesa dell’esito del processo canonico. Sette mesi dopo, a conclusione di un processo

penale, è arrivata la decisione definitiva di spretarlo: la massima pena nel diritto canonico. Kurt Martens, docente di diritto canonico presso l’Università Cattolica Americana (CUA), ha definito la laicizzazione di McCarrick “rivoluzionaria”: l’eccezionalità di tale decisione trova le proprie ragioni nell’alto rango dell’ex arcivescovo, nella gravità delle accuse rivolte e nelle indiscrezioni che hanno portato allo scoperto insabbiamenti decennali sulla sua condotta. Theodore McCarrick è stata una delle personalità più influenti della Chiesa Cattolica. Dopo essere stato vescovo ausiliare di New York e successivamente arcivescovo di Washington, nel 2000 è stato nominato cardinale presbitero dei santi Nereo e Achilleo da Giovanni Paolo II. Inoltre, è stato co-fondatore della Papal


Nord America Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro che ogni anno eroga ingenti donazioni alla Santa Sede. La Congregazione per la Dottrina della Fede ha riconosciuto McCarrick colpevole “dei delitti di sollecitazione in confessione e violazioni del sesto comandamento del decalogo con minori e adulti, con l’aggravante dell’abuso di potere”. Accuse molto gravi corroborate dalla testimonianza di James Grein riguardo le molestie sessuali dallo stesso subite da ragazzo durante il rito della confessione. La risonanza mediatica nei confronti dell’ex arcivescovo ha avuto inizio con la pubblicazione del dossier curato da Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico di Washington. All’interno del documento si legge che i vertici ecclesiastici sono stati accusati di omertà nei confronti della nota condotta sessuale di McCarrick. Viganò ha sostenuto che l’ambiente ecclesiastico fosse a conoscenza degli abusi perpetrati all’interno dei seminari e che lo stesso papa Francesco ne fosse stato personalmente informato. I media hanno iniziato così ad interessarsi ad uno dei casi

più controversi della storia della Chiesa americana. In un editoriale di America, gli stessi gesuiti statunitensi hanno lanciato un’invettiva contro McCarrick e la fitta rete che lo ha coperto: “La Chiesa non può fingere che si tratti di un incidente isolato. Sono molti i probabili rapporti simili che coinvolgono altri vescovi e leader della Chiesa che hanno abusato della loro autorità o hanno commesso reati sessuali che sono stati ignorati negli ultimi decenni”. Il caso McCarrick ha innescato un effetto domino che sembra non aver fine. Ultime, la condanna per pedofilia del cardinale australiano Pell e la pubblicazione da parte della diocesi di Brooklyn di un elenco contenente i nomi di oltre 100 preti, accusati di abuso ai danni di minori. Scandali che travalicano i continenti per investire violentemente il Vaticano. Nonostante il papa stia attuando provvedimenti senza precedenti, non sono mancate le critiche, soprattutto dalle stesse vittime. Le grandi aspettative che le associazioni delle vittime di

pedofilia avevano riposto nel summit contro gli abusi sono state disattese: “Questo doveva essere il summit della tolleranza zero e invece direi che siamo alla zero credibilità. Molti vescovi dopo questi quattro giorni sarebbero dovuti uscire senza abito talare. Dal discorso del papa ci aspettavamo molto di più” ha dichiarato Francesco Zanardi, presidente della Rete l’Abuso. I riflettori sono ora puntati sulle prossime mosse di Bergoglio. La strada non sarà facile, ma se la Chiesa vuole riacquistare la propria credibilità e risollevarsi dalla profonda crisi che la sta colpendo è necessario che vengano presi dei provvedimenti concreti. Sembrerebbe questa la strada intrapresa dal pontefice con la pubblicazione del motu proprio “Vos estis lux mundi”, che prevede l’obbligo per chierici e religiosi di segnalare gli abusi alle autorità ecclesiastiche preposte. La sensibilità di papa Francesco è l’occasione che la Chiesa deve sfruttare per non lasciare impuniti i casi di pedofilia.

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Nord America IL GRANDE VUOTO: LA STAMPA USA E LE ELEZIONI EUROPEE

Di Domenico Andrea Schiuma

Sull’importanza delle elezioni appena svoltesi per il rinnovo del Parlamento europeo sono state spese, nel corso delle ultime settimane, molte parole. Lo scorso 2 maggio, il portavoce del Parlamento europeo, Jaume Duch Guillot, aveva dichiarato che la tornata elettorale appena trascorsa sarebbe stata “la più importante dall’inizio dell’Unione Europea”, perché in tale circostanza i cittadini avrebbero scelto se “andare avanti con l’integrazione europea”. Sergio Mattarella e altri 21 capi di Stato europei avevano infatti firmato un appello intitolato È la migliore idea che abbiamo avuto, nel quale era scritto: “La nostra Europa unita ha bisogno di un voto forte da parte dei popoli, ed è per questo che vi chiediamo di esercitare il vostro diritto a votare. È un voto sul nostro comune futuro europeo”. E ancora: “Le elezioni del 2019 hanno un’importanza speciale: siete voi, cittadini europei, a scegliere quale direzione prenderà l’Unione Europea”. Le elezioni conclusesi il 26 maggio hanno riguardato, secondo i dati Eurostat, un’entità politica popolata nel 2018 da 512 milioni di cittadini (incluso il Regno Unito), e fonte, nel 2015, del 23.8% del prodotto interno lordo mondiale. Nonostante l’eventuale uscita del Regno Unito, l’UE resterà una delle regioni politicamente e culturalmente integrate più importanti del pianeta. Stupisce, allora, dover constatare come non sia stato riservato grande spazio al tema delle elezioni europee sulle pagine web della stampa americana. Non se ne sta occupando in 38 • MSOI the Post

modo molto approfondito il New York Times, che nel periodo compreso tra il 26 marzo e il 26 aprile ha dedicato al tema un numero non significativo di articoli. L’attenzione ha iniziato a ridestarsi solo, indicativamente, dal 12 maggio scorso, ossia due settimane prima dell’evento. Lo stesso discorso può essere fatto per il Wall Street Journal. Potranno le elezioni europee avere ripercussioni sull’economia americana? Forse. Certamente rappresenta un tema del quale uno dei principali quotidiani al mondo di economia e finanza si sarebbe potuto - o dovuto – occupare. Invece, se si replica per il Wall Street Journal la stessa ricerca effettuata per il New York Times, i risultati saranno altrettanto scarsi. Nulla a che vedere, quindi, con la febbre che colpisce, per esempio, la stampa italiana, quando negli Stati Uniti è in corso la campagna elettorale per le presidenziali oltreoceano. Quali potrebbero essere le ragioni di un tale disinteresse? In primis, bisogna sottolineare come, oggi, gli Stati Uniti siano poco attratti dalle relazioni con l’Unione Europea. In A postAmerican Europe and the future of U.S. strategy, pubblicato nel 2017 dalla Brookings Institution, Thomas Wright scrive: “Negli ultimi 10 anni, a partire dall’amministrazione Obama e ancora di più con la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti si sono diplomaticamente e politicamente ritirati dall’Europa”. E aggiunge: “Mentre il Continente affronta una vasta gamma di problemi - le relazioni con la Russia, la crisi dei rifugiati, l’erosione della democrazia nell’Europa centroorientale, la Brexit, i separatismi regionali, le difficili relazioni

con la Turchia, e il terrorismo - Washington è notevolmente avulsa dagli sforzi per risolverli”. Si potrebbe quindi dedurre che l’Unione Europea, non essendo, fin dai tempi di Obama, una priorità nell’agenda politica dei governi americani, non riesca, di conseguenza, a trovare spazio tra le notizie della stampa a stelle e strisce.

Certo, la stampa americana non sarebbe obbligata a ignorare quello che accade nell’Unione Europea solo perchè lo fa il Governo. L’atteggiamento dei giornali statunitensi nei confronti della politica europea sarebbe, dunque, la conferma di quanto si paventa ormai da tempo: dal punto di vista geopolitico, l’Unione Europea conta sempre meno. Già nel 2014, Pietro Grasso, ai tempi presidente del Senato, dichiarò: “L’Unione Europea non ha finora espresso il potenziale politico, umano ed economico che deriva dalle nostre dimensioni, dalla nostra storia e dai nostri doveri nei confronti della comunità internazionale”. Grasso, inoltre, proseguiva: “Nelle due aree della nostra politica di vicinato, il Grande Mediterraneo e i confini orientali, dovremo sapere rispondere con processi politici strategici pragmatici e attenti al nostro interesse, superando per sempre l’epoca dell’attendismo e conferendo forza e sostegno, in ogni tema e quadrante, all’azione politica della nuova alta rappresentante [Federica Mogherini] e del Servizio di Azione Esterna”. In caso di mancato adempimento di questi compiti, la conseguenza sarebbe stata, appunto, l’“irrilevanza geopolitica”. Il 14 aprile 2018, parlando dell’attacco portato alla Siria da Stati Uniti, Regno Unito e


Nord America Francia, Giuseppe Vatinno, ex deputato per Alleanza per l’Italia e per l’Italia dei Valori, scrisse: “L’attacco [...] segna e ribadisce un fatto ormai evidente da anni: l’Unione Europea non conta nulla a livello internazionale”; aggiungendo che l’Unione Europea è percepita dai cittadini come “una produttrice di veti, un organismo puramente burocratico che in casi importanti, come quello siriano, semplicemente non esiste”. Un’altra possibile spiegazione risiederebbe nelle diversità che caratterizzano il sistema politico statunitense e quello dell’Unione Europea. Le elezioni negli Stati Uniti si caratterizzano per uno scontro tra due soli partiti, quello Democratico e quello Repubblicano, capeggiati da due candidati solitamente in grado di catalizzare l’attenzione della popolazione e dei media. Nell’Unione Europea, il contesto partitico-leaderistico appare, invece, molto più frammentato. All’interno di ogni stato membro dell’Unione, si presentano i partiti ‘tipici’ di quel Paese e ogni ‘corrente’ (quella sovranista, quella liberale, quella socialdemocratica) si caratterizza per la presenza di più di un leader in grado di rappresentarla. A mero titolo esemplificativo, per i sovranisti potrebbero venire in mente personalità come Matteo Salvini, Marine Le Pen, Viktor Orban e Nigel Farage. La scarsa rilevanza geopolitica, unita al contesto partitico frammentato e caratterizzato da troppe correnti, troppi leader di riferimento e bassa polarizzazione del dibattito per gli standard americani, renderebbe scarso l’appeal che i media statunitensi provano per le elezioni europee. Appare, inoltre, opportuno evidenziare un’altra rilevante

circostanza. La nuova Commissione europea inizierà il proprio mandato il primo novembre 2019. Il 3 novembre 2020 si terranno negli Stati Uniti le elezioni per eleggere il nuovo presidente, il quale potrebbe essere ancora una volta Trump, un altro repubblicano (a lui politicamente più o meno vicino), o un democratico. Le relazioni fra l’attuale amministrazione americana e la nuova composizione della Commissione europea potrebbero, quindi, durare solo un anno. Perché, allora preoccuparsene così tanto? All’analisi sin qui effettuata, occorre aggiungere una precisazione. Se è vero che la stampa statunitense non sembra essersi preoccupata particolarmente delle elezioni europee, per le possibili ragioni ricostruite, tuttavia, anche la grande stampa del Vecchio Continente, in passato, è apparsa ‘allergica’ alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Marinella Belluati, docente di Sociologia della comunicazione presso l’Università degli Studi di Torino, ha studiato come e quanto cinque importanti giornali europei (La Stampa, Le Monde, El Paìs, The Guardian e Süddeutsche Zeitung) abbiamo seguito le elezioni europee del 2014. L’analisi ha preso in considerazione “tutti gli articoli in cui era presente un riferimento esplicito alle elezioni europee 2014”. I risultati sono raccolti in un saggio intitolato Elezioni europee 2014: verso l’europeizzazione dello spazio pubblico? Le principali conclusioni alle quali giunge il paper sono le seguenti. In primis, l’attenzione dei quotidiani nei confronti delle

elezioni europee è cresciuta lentamente, raggiungendo l’apice solo la settimana prima del voto, segno che “le campagne elettorali europee, in un contesto giornalistico sempre più affollato di notizie, mantengono una capacità limitata di catalizzare interesse”. In seconda battuta, i contenuti della maggior parte degli articoli analizzati erano declinati in chiave nazionale. Ciò, soprattutto, a causa della circostanza per cui “molto del dibattito si è concentrato sulle ricadute che i partiti euroscettici di matrice populista avrebbero avuto sul piano nazionale”. In terza istanza, la visibilità dei leader candidati alla presidenza della Commissione europea è stata scarsa, anche se più alta del previsto. Sebbene, nel complesso, si sia potuta maggiore constatare “una apertura verso contenuti europei”, si è dovuto ammettere “che il livello di approfondimento è ancora piuttosto scarso come il fatto che la leadership europea eserciti ancora poca attrattiva per il discorso giornalistico”. Difficile, in conclusione, predire se l’esito delle elezioni europee possa attirare l’attenzione dell’amministrazione Trump e della stampa americana. I partiti euroscettici, ideologicamente più vicini a Trump, hanno ottenuto ottimi risultati in Italia, Francia, Regno Unito e Ungheria, ma nel complesso non hanno trionfato. La prossima maggioranza che si creerà all’interno del Parlamento europeo sarà, salvo sorprese, composta dalle forze mainstream appartenenti ai popolari, ai socialisti e ai liberaldemocratici. Nulla, forse, di giornalisticamente interessante per la stampa statunitense.

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Sud e Sud Est Asiatico IL FUTURO DELL’INDIA Di Virginia Orsili Narendra Modi sta concludendo il suo primo mandato di governo. In questi anni, il “guerriero nazionalista indù”, come lo si apostrofa dalle pagine del New York Times, votato a combattere i ‘nemici’ del paese, ha profondamente influenzato la politica nazionale, sotto il segno dell’accentramento del potere federale e della comunicazione politica, concentrati sulla figura del primo ministro. In questa elezione, i programmi elettorali sono passati in secondo piano rispetto alla figura del leader. L’intensa personalizzazione dell’informazione è stata possibile grazie ai mass media e in particolare al favore dei principali canali televisivi privati, nei quali l’immagine di Modi è diventata pressoché onnipresente. Il Partito Popolare Indiano (BJP) si è dotato di un’applicazione, la NaMo App, e di un canale televisivo, la NaMo TV, entrambi dedicati alla figura di Narendra Modi. Il premier ha, in più occasioni, dato prova di voler ‘bypassare’ i quotidiani tradizionali per comunicare direttamente con i cittadini indiani ed evitare così che i propri messaggi fossero filtrati da una classe giornalistica da lui più volte accusata di parzialità disonesta. Lo stile personalistico di Modi riporta alla memoria vecchi fantasmi della politica indiana. Il premier è infatti stato più volte accostato all’ex prima ministra Indira Gandhi, la quale, seppure laica, cosmopolita, amante delle arti e con importanti legami con gli intellettuali dei paesi stranieri e quindi, in un certo senso, agli antipodi rispetto a Modi, fu oggetto di un analogo culto della personalità. Nessun politico dopo di lei 40 • MSOI the Post

aveva raggiunto una celebrità paragonabile agli occhi del popolo indiano. Dopo aver partecipato alla guerra contro il Pakistan nel 1971, ci fu persino chi associava la leader alla dea indù Durga, la cacciatrice di demoni. Inoltre, tra il 1975 e il 1977, Gandhi dichiarò lo stato di emergenza a causa dell’instabilità interna, in nome della quale fu autorizzata a governare per decreto e a limitare le libertà individuali. Quando poi, nel 1977, ordinò le elezioni nazionali, confidando nell’approvazione del popolo indiano, quest’ultimo si espresse ampiamente a favore di un cambio di rotta. Gandhi perse il suo posto nel Lok Sabha e, per la prima volta dall’Indipendenza, non fu più il Congresso a tenere le redini del paese. Saranno però i risultati di questa tornata a rivelare se Modi sarà accostato alla sua predecessora non solo nel momento dell’ascesa, ma anche in quello del declino. Sul fronte istituzionale, d’altronde, dopo l’elezione di Modi con un’ampia maggioranza nel 2014, l’Esecutivo ha puntualmente aggirato il controllo del Parlamento, mettendo in atto le proprie politiche sotto forma di ordinanze. Le organizzazioni nate in seno alla società civile sono più volte state oggetto di inchieste, il lavoro dei magistrati è stato sempre più sorvegliato e numerosi oppositori di Modi sono stati intimiditi e puniti per aver espresso il proprio dissenso. Dal 2014, si è assistito all’applicazione di alcune leggi controverse per ostacolare ogni forma di dimostrazione e insurrezione, soprattutto nel delicato territorio del Kashmir. Secondo un rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, le forze di sicurezza indiane avrebbero

usato una violenza eccessiva nel tentativo di placare le proteste del 2016 nello Stato del Jammu e Kashmir. In base all’Atto sui Poteri Speciali delle Forze Armate (1990), i militari hanno ad esempio facoltà, in designate ‘aree disturbate’, di sparare e usare la forza che ritengano necessaria contro chi si riunisca o porti armi e esplosivi in contravvenzione a leggi o ordini vigenti e di procedere ad arresti senza garanzia. Si tratta, in realtà, di norme già previste dalla Costituzione nel 1950. Alcune sono un retaggio delle leggi coloniali inglesi del 1870, come quella sulla sedizione. Sebbene elementi autoritari e antidemocratici esistessero già da tempo, questi hanno goduto di nuova linfa sotto il Governo di Modi. Sulla scacchiera politica, la sua strategia è stata quella di opporsi alle élite di sinistra ‘cosmopolite e senza radici’. Più in particolare, si possono principali individuare due nemici ricorrenti nei discorsi di Modi. Il primo, esterno, sarebbe il Pakistan, legato all’obiettivo del primo ministro indiano di dominio sul Kashmir. Il secondo, interno, è rappresentato dagli indiani musulmani. Come afferma The Diplomat, storicamente gli indiani musulmani sono stati chiamati a dimostrare la propria lealtà al paese e a prendere le distanze dal vicino Pakistan. Tuttavia, la pressione sociale in tal senso si è accentuata sotto Modi. In seguito all’attacco dello scorso 14 febbraio, infatti, nel quale un gruppo terrorista islamico proveniente dal Pakistan ha fatto esplodere un convoglio delle forze di polizia indiane in Pulwama, nel Kashmir, gli indiani musulmani sono scesi in piazza per ribadire il loro disappunto verso il Pakistan. I manifestanti sono


Sud e Sud Est Asiatico ricorsi a atti simbolici estremi. Ad esempio, le bandiere del Pakistan sono state bruciate, così come le effigi del suo primo ministro, Imran Khan. Inoltre, il think tank All India Muslim Unity Front ha affermato che “non c’è posto per il terrorismo nell’Islam”. Metodi di espressione diversi, ma uniti da una medesima volontà: ribadire la loro appartenenza alla nazione indiana, illegittimamente messa in dubbio. In seguito a tali contestazioni, gli episodi di discriminazione e violenza contro i musulmani sono aumentati. A tal proposito, la risposta di Modi è però risultata tardiva, evidenziando il disinteresse del Governo verso la tutela delle minoranze, a scapito di una più marcata volontà di saziare le rivendicazioni degli estremisti induisti. Il voto del segmento musulmano, che costituisce un 13% della popolazione indiana, potrebbe rivelarsi determinante per Modi. Probabilmente, però, proprio per questo motivo, un gran numero di elettori musulmani vedrà preclusa la possibilità di esercitare il proprio diritto di voto. Foreign Policy riporta che, secondo Missing Voters, un’applicazione che conta il numero di interdizioni al diritto di voto, circa 120 milioni di aventi diritto potrebbero risultare mancanti dalle liste elettorali. Tra questi, i principali gruppi sociali colpiti sono i Dalits, la casta più bassa nella gerarchia induista, e i musulmani. La discriminazione non è limitata all’elettorato attivo, ma passa anche per i rappresentanti politici. Ad esempio, il BJP ha scelto di presentare solamente 7 candidati musulmani su 437, mentre il Congresso Nazionale Indiano (CNI), principale partito di opposizione, solamente 32 su 423. L’opposizione, peraltro, non è stata colpita solo sul fronte istituzionale. Diversi giornalisti e

intellettuali diffidenti rispetto alle politiche del BJP sono stati uccisi da estremisti indù, l’altro volto di una retorica nazionalista e populista che produce ed è rinvigorita da continui attacchi, materiali e simbolici, alle minoranze etniche e religiose. Come spiega il Times, per comprendere l’ascesa al potere di Modi occorre infatti scavare nel passato dello stato indiano e indagarne la storia multiculturalista. Una volta ottenuta l’indipendenza dall’Impero britannico nel 1947, sotto l’egida dell’allora primo ministro Jawaharlal Nehru, l’India divenne uno stato secolare, prendendo le distanze dal vicino Pakistan, nato invece come terra legittima degli indiani musulmani. Se, nel progetto di Nehru, il secolarismo precedette l’uguaglianza di ogni credo, nei fatti la popolazione musulmana non ha mai beneficiato di un trattamento egualitario. L’amministrazione di Modi non ha rappresentato, dunque, solamente un punto di rottura con un’ideologia politica dominante, ma con valori, come il secolarismo, il liberalismo, l’indipendenza della stampa, per anni dichiarati pilastri della nazione indiana. In una società in cui la religione segna una linea di confine netto tra l’Io e l’Altro (musulmani e cristiani, caste inferiori, élite cosmopolita) la questione identitaria è centrale. In particolar modo, i musulmani sono tacciati di aver mantenuto il loro dominio sulla maggioranza induista, la quale ha visto nell’arrivo di Modi un’opportunità. Quando però il nazionalismo diventa estremo, diventa anche un tutt’uno con violenza e criminalità. Un esempio si può riscontrare nel profilo della candidata del BJP per il distretto di Bhopal in Madhya Pradesh, Sadhvi Pragya Thakur, accusata di essere l’ideatrice di un attentato a una moschea nella quale hanno perso la vita sei

persone. L’iper-rappresentazione della questione identitaria è, in realtà, anche una strategia per occultare i fallimenti dal punto di vista economico e sociale. Come messo in evidenza da Reuters, la crisi economica della zona rurale persiste e gli agricoltori non sono l’unica categoria professionale colpita. Il loro malcontento è, in effetti, sintomo di un problema più ampio: più della metà della popolazione indiana - circa 700 milioni di persone - è legata all’economia rurale. La riduzione dei salari ha generato una conseguente caduta del potere di acquisto dei braccianti, che ha colpito a cascata diversi altri settori dell’economia, in particolare i lavoratori con uno stipendio giornaliero come muratori, barbieri o proprietari di negozi alimentari. Rappresentando il vero motore dell’economia del paese, la forte riduzione delle spese e del denaro in circolo hanno condotto a un calo delle opportunità di lavoro e, quindi, di guadagno per le altre categorie professionali. Non a caso, la crescita economica resta una promessa centrale nel programma elettorale del partito di Modi. Nel suo ultimo manifesto, il BJP dichiara ambiziosamente di voler rendere l’India la terza potenza economica al mondo entro il 2030. Secondo le stime attuali, per realizzare ciò sarà necessario immettere liquidità per un valore di $5.000 miliardi entro il 2025 e altri $10.000 miliardi per i sette anni successivi. Ma ad aumentare le probabilità di rielezione di Modi è in particolare la debolezza dell’opposizione, per la quale il principale obiettivo in agenda è la sconfitta dell’avversario. Tutto ciò che il CNI ha da offrire è la continuità rispetto alla precedente amministrazione, incarnata da Rahul Gandhi e da sua sorella Priyanka, discendenti di Nehru. MSOI the Post • 41


Sud e Sud Est Asiatico RETE 5G: “GRANDE BALZO IN AVANTI” PER LA CAMBOGIA? Di Sabrina Certomà Lo scorso 28 aprile, a Pechino, la Cambogia ha siglato un memorandum d’intesa con l’azienda cinese Huawei per il futuro sviluppo del 5G nel paese. In particolare, il colosso cinese e il ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni cambogiano hanno discusso un accordo che coinvolge l’operatore telefonico Telecom Cambogia e che prevede l’aumento della velocità della rete mobile e il miglioramento della connettività digitale. “Il 2019 sarà il primo anno dello sviluppo 5G della Cambogia”, ha affermato Huawei in una nota in cui si impegna a collaborare con l’operatore telefonico per “creare un buon ecosistema per lo sviluppo delle nuove reti, e aiutare la Cambogia a diventare un pioniere del 5G nella regione ASEAN”. Allo stesso tempo, alcuni paesi occidentali stanno decidendo di chiudere le porte al colosso cinese delle telecomunicazioni. In seguito al caso diplomatico tra Stati Uniti e Cina dovuto all’arresto di Meng Wanzhou, direttrice finanziaria di Huawei e figlia del presidente e fondatore dell’azienda, anche in Polonia un cittadino cinese dipendente di Huawei è stato incarcerato con l’accusa di spionaggio. Per tale motivo, il governo polacco chiede ora all’UE e alla NATO che Huawei venga esclusa dalla costruzione delle infrastrutture europee per la nuova rete 5G. Ma quali sarebbero le ragioni di tale ostilità da parte dei paesi occidentali? Dal 1982, quando fu diffuso il 42 • MSOI the Post

primo standard tecnologico per la trasmissione dei dati mobili, si sono susseguite svariate nuove generazioni di reti telematiche sempre più rapide. Così, nel 2020, Pechino prevede di sostituire le reti 4G con quelle di quinta generazione. Tale operazione potrebbe rappresentare un “grande balzo in avanti” nel settore delle telecomunicazioni, delineando uno stacco netto rispetto a quello segnato dalle precedenti innovazioni. Si prevede, infatti, che la velocità di trasmissione dei dati via internet sarà di almeno 100 volte superiore a quella attuale: una progressione che consentirebbe la diffusione su scala globale di molti progetti innovativi, quali le auto a guida automatica o l’automatizzazione delle industrie, o ancora le smart cities. Da qui, l’attenzione che a livello geopolitico si sta ponendo nella diffusione delle tecnologie 5G: si teme, infatti, il loro impatto sui trasporti, sull’industria e su altri settori chiave per la sicurezza nazionale, oltreché la possibilità che dati e informazioni personali possano essere intercettati e manipolati (cfr. La geopolitica del 5G). La richiesta di Washington di sospendere le collaborazioni con Huawei nello sviluppo delle infrastrutture 5G è stata accolta dai cinque paesi del Five Eyes, l’alleanza tra Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda che ha dato vita al sistema di intercettazione delle comunicazioni più vasto al mondo. Tra questi, l’intelligence neozelandese ha fermato l’anno scorso un appalto con Huawei e l’ex primo ministro australiano, Malcolm Turnbull, ha vietato

alle aziende locali di collaborare col colosso cinese. Per ora, in Europa solo alcuni grandi operatori privati - come la compagnia Orange in Francia hanno rotto le loro relazioni con l’azienda, poiché il 5G resta un’idea allettante a dispetto dei rischi (Il Foglio, 17/05/2019). La Henry Jackson Society un think tank britannico - ha recentemente pubblicato un rapporto riguardante Huawei e la sicurezza nazionale, sottolineando come alcune aziende cinesi siano emanazioni del Partito comunista stesso. Tuttavia, il gigante asiatico delle telecomunicazioni continua a ribadire a gran voce la propria indipendenza, nonostante se ne conoscano le somme ingenti - circa €80 miliardi - prese in prestito dalle banche di stato cinesi per espandersi all’estero. Tralasciando le dichiarazioni di sorta, è comunque da sottolineare che, negli ultimi anni, la dottrina militare cinese ha spinto verso una maggiore collaborazione con le aziende civili; una legge del 2017, infatti, obbliga Huawei e altre aziende a cooperare in Cina e all’estero qualora l’intelligence nazionale lo richiedesse. La compagnia statale coinvolta nel memorandum d’intesa è stata, in passato, coinvolta in svariati scandali per corruzione e attualmente controlla solo una linea telefonica fissa e una linea Internet. Secondo il Ministero delle Poste, la domanda di reti mobili è in aumento nel paese: con 16 milioni di abitanti, si contano 19,3 milioni di SIM registrate a gennaio 2019 (120% della penetrazione). Molte persone possiedono,


Sud e Sud Est Asiatico dunque, più di un apparecchio. Il ministero ha, inoltre, stimato 12,9 milioni di connessioni online nel 2018, con una crescita del 22% rispetto agli anni precedenti. Infine, circa 13,6 milioni di abitanti usano internet - l’82% del totale - e circa 7 milioni hanno un account Facebook. Tuttavia, se da un lato il governo e gli investitori privati puntano alla trasformazione dell’intero paese come effetto immediato delle tecnologie superveloci, gli esperti del settore si mostrano più cauti: anche i network già presenti sono sottoutilizzati. “Avremo un insieme di reti 4G molto veloci unite a reti 5G solo nelle città principali e nelle aree chiave” ha detto Ian Watson, CEO di Cellcard, una delle principali compagnie di telecomunicazioni della Cambogia. In questo modo si punterebbe a un miglioramento degli hotspot turistici come Angkor Wat un tempio khmer nel nord del paese, eletto a luogo storico più apprezzato al mondo nella top 10 stilata da TripAdvisor nel 2017. “Vogliamo entrare nel sistema, farlo funzionare per poter dire «Siamo qui anche noi». Credo che ci sarà un’enorme crescita della domanda nel settore”. Il primo passo dovrebbe includere l’impianto di circa 1.000 stazioni 5G attorno Phnom Penh, Siem Reap e Sihanoukville, per un investimento di circa €224 milioni nei prossimi tre anni da parte di TC. “Questo è il primo passo, un importante passo, di quello che sarà un viaggio molto lungo”, sostiene Marc Einstein, chief analyst di ITR, compagnia giapponese di ricerca sulle tecnologie. Si stima che la copertura delle maggiori

città potrebbe impiegare “qualche anno”, mentre la diffusione dei servizi nei centri rurali addirittura un decennio. “Il 5G farà delle cose davvero meravigliose, incredibili e cambierà totalmente un paese come la Cambogia, ma penso che dovremmo essere realistici con le tempistiche”, aggiunge Einstein. David Li, CEO di Huawei per le operazioni in Cambogia, promette “un miglioramento delle tecnologie digitali, della produttività sociale e dell’economia nazionale”. Oltre agli aiuti in campo tecnologico, la Cina, a gennaio 2019, aveva già stanziato €528 milioni in sostegno alla Cambogia, rinnovando il già forte legame tra Pechino e Phnom Penh. Hun Sen, primo ministro cambogiano, aveva incontrato Xi Jinping per domandare maggiori investimenti, soprattutto nel settore industriale. La cooperazione politica ed economica tra i due paesi, nonché un loro maggiore coordinamento alle Nazioni Unite e all’ASEAN è, infatti, tra i principali obiettivi del dragone. Dal canto loro, gli Stati Uniti sono stati molto chiari con gli alleati: non lasciare che Huawei costruisca le sue reti 5G sul territorio. Una tale spaccatura potrebbe, però, portare allo sviluppo di due standard tecnologici differenti e, forse, in parte incompatibili. I paesi terzi si troverebbero così a dover scegliere e, soprattutto quelli storicamente vicini agli statunitensi, sarebbero portati a distanziarsi da Huawei, rallentando il loro passaggio al 5G, a fronte di un aumento dei costi. In Africa, Sud America e Medio Oriente, dove i costi di realizzazione di infrastrutture e

servizi saranno il nodo principale della questione, molti stati si affiderebbero, invece, ai cinesi. Un caso emblematico è proprio il Sud-est asiatico, in cui l’avvertimento statunitense non sembra aver attecchito: anche in Thailandia Huawei sta già testando i nuove reti i cui costi sono più vantaggiosi rispetto i corrispettivi europei. Inoltre, secondo Nguon Somaly - laureata in legge e tecnologia all’Università delle Tecnologie di Tallinn ed esperta sulla privacy dei dati in Cambogia -, gli utenti dei social media cambogiani non hanno la stessa percezione della privacy dei dati che si ha negli Stati Uniti e in Europa. La studiosa si riferisce alla European Union’s General Data Protection Regulation (Regolamento UE 2016/679), in vigore dal 25 maggio 2018. “Sono in ballo denaro e guadagni. La Cina non è un paese libero e la privacy non è tra le priorità del governo. La priorità è, invece, generare più business e più guadagno”. Non è, comunque, escluso che tra le due superpotenze si possa trovare un accordo. Invero, il 23 maggio, mentre annunciava un nuovo piano di aiuti a favore degli agricoltori statunitensi colpiti dai dissidi commerciali con la Cina, il presidente Donald Trump ha lasciato trapelare alcune indiscrezioni in tal senso. “È possibile che Huawei possa persino essere inclusa in un accordo commerciale”, ha affermato il presidente statunitense, pur non perdendo occasione di rimar i rischi provenienti dall’azienda: “Dal punto di vista della sicurezza, dal punto di vista militare, Huawei è qualcosa di davvero pericoloso”.

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Diritto Internazionale ed Europeo IL PARLAMENTO EUROPEO INTERVIENE NELLA GIG ECONOMY

Di Mattia Elia L’evoluzione del mercato del lavoro ha comportato la creazione di una nuova categoria di impiego, conosciuta come gig o platform economy (economia ‘dei lavoretti’ o ‘dei lavori su richiesta’). È caratterizzata da lavoratori assunti con contratti a breve termine, i quali svolgono le proprie mansioni per mezzo dell’intermediazione di piattaforme online. Per fare qualche esempio, rientrano in queste categorie i riders di Glovo, Foodora, nonché i lavoratori domestici o basati su voucher. Secondo la Commissione europea, sono 273 le piattaforme in Europa che offrono questo tipo di impiego. Una ricerca dell’agenzia europea Eurofound afferma che in Italia il 22% delle persone dichiara di aver lavorato almeno una volta 44 • MSOI the Post

tramite piattaforme online, contro il 12% in Germania e il 9% in Gran Bretagna. Sono molteplici le questioni controverse che contornano questa nuova categoria di lavoratori, una su tutte la qualificazione dei lavoratori della platform economy: questi ultimi non vengono identificati in modo univoco, ma sono considerati quali self-employed (lavoratori autonomi) o come dipendenti della piattaforma. Definire lo status di questi lavoratori digitali è fondamentale per determinare l’ambito d’applicazione della protezione sociale ad essi applicabile come, ad esempio, i periodi di malattia o di vacanza, la stipula di assicurazioni e l’accesso al sistema previdenziale. Nonostante le dimensioni della gig economy siano ancora ristrette, è sotto gli occhi di tutti che si tratti di un fenomeno in rapida e costante diffusione.

In Italia non esiste una specifica regolamentazione dei platform worker. Il Jobs Act ha introdotto una figura particolare di lavoro detta ‘collaborazioni organizzate dal committente’, in cui chi ordina la prestazione di lavoro (es. la piattaforma online) organizza parte dell’attività, come tempi e luogo di lavoro, e alla quale si applica la disciplina tipica del lavoro subordinato. Taluni lavoratori digitali potrebbero rientrare in questa categoria, così da ottenere un maggiore accesso ai sistemi protezione sociale. Tuttavia, la sentenza 778/2018 del tribunale di Torino, riguardante sei riders di Foodora, ha ribadito che questi lavoratori non sono subordinati ma parasubordinati, ossia a metà fra lavoratore dipendente e autonomo. Lo

scorso

16

febbraio

il


Diritto Internazionale ed Europeo Parlamento europeo ha approvato una direttiva avente l’obiettivo di fissare uno standard minimo di condizioni a favore dei lavoratori dipendenti. In particolar modo, facendo rientrare nel medesimo coloro i quali vengono assunti con contratti di lavoro atipici: lavoro a chiamata, lavori parttime, e via dicendo. Al contrario, vengono esclusi dalle nuove norme i lavoratori puramente autonomi. La parola d’ordine della direttiva è trasparenza. All’articolo 4, infatti, vengono elencate numerose informazioni, quali il luogo, la durata, le condizioni di lavoro e la remunerazione, che il datore di lavoro è obbligato a comunicare individualmente ai neo assunti, entro la prima settimana di lavoro. L’articolo 8, invece, dispone che il periodo di prova non potrà eccedere i 6 mesi e comunque dovrà essere proporzionato

alla durata del contratto di lavoro. È altresì stabilito il divieto di esclusività: dovrà essere permesso al lavoratore di accettare altri impieghi con diversi datori di lavoro. Un’ulteriore importante novità va rilevata all’articolo 10, il quale detta uno standard minimo di prevedibilità del lavoro: qualora l’organizzazione dell’impiego svolto dal lavoratore sia prevalentemente imprevedibile, il datore di lavoro non potrà assegnare mansioni che non siano conformi con quanto comunicato al momento dell’assunzione, in ossequio alla trasparenza paventata dalle altre disposizioni. Inoltre, dovrà sempre informare il lavoratore entro un termine ragionevole. Infine, l’articolo 11 stabilisce alcune misure specifiche inerenti i soli lavori a chiamata, al fine di limitare le pratiche abusive, con l’obiettivo di limitare l’uso delle ore a chiamata e prevedere, nella

legislazione nazionale, misure volte ad evitare pratiche abusive. Una volta assunte, tali misure dovranno essere comunicate alla Commissione europea. In conclusione, queste nuove disposizioni dovranno essere applicate ai lavoratori così come definiti dalla legge e dai contratti collettivi degli stati membri. Pertanto, l’inquadramento delle nuove categorie di lavoratori dovrà avvenire, in primo luogo, a livello statale. Ancora, all’articolo 1 è previsto che la nozione di rapporto di lavoro dovrà essere stabilita “with consideration to the caselaw of the Court of Justice of the European Union”. Non è quindi da escludere che, attraverso talune pronunce in via pregiudiziale, possa essere la stessa Corte di Giustizia ad attrarre nel campo d’applicazione della direttiva i lavoratori che, per la legislazione nazionale, non vi dovessero rientrare.

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Diritto Internazionale ed Europeo LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE VUOLE APRIRE UN’INCHIESTA PER CRIMINI CONTRO I MIGRANTI IN LIBIA

Di Debora Cavallo

Sicurezza.

Da guerra-lampo a guerra interminabile. È stallo in Libia. Non c’è modo che qualcuno primeggi. Dopo diversi giorni di calma relativa, a sud della capitale libica sono stati sparati colpi di artiglieria pesante. Gli scontri, secondo quanto ha riferito l’agenzia France Presse, sono i più violenti dal 6 maggio scorso, inizio del Ramadan.

Il conflitto militare non è l’unica piaga che affligge la Libia. Ai colpi di arma da fuoco, infatti, si aggiunge il conflitto economico tra Tripolitania e Cirenaica. Il generale Khalifa Haftar, a capo della Cirenaica, la parte orientale della Libia, aveva cominciato l’avanzata militare con il placet dei suoi numerosi alleati: quelli ‘dichiarati’ (Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Russia) e quelli ‘segreti’ (Francia, su tutti, anche se ormai lo schieramento è molto fluido, con un sostegno saltuario da parte degli Stati Uniti). Al momento, però, il consenso intorno alla leadership di Haftar sta scemando, anche tra chi, tradizionalmente, lo ha sempre sostenuto. Gli ultimi partner internazionali, difatti, minacciano di scaricarlo per il fallimento della campagna a sud di Tripoli. Lo conferma l’improvvisa estradizione in Egitto di Hisham al-Ashmawy, uno dei terroristi più ricercati da Il Cairo, che il generale

A Tripoli sono ripresi i combattimenti, che potrebbero presto trasformarsi in una ‘guerra civile’ in grado di contagiare il resto della Libia. Hanno riguardato in particolare il quartiere di Salaheddin, dove le truppe fedeli al Governo di accordo nazionale sembrano guadagnare terreno. “Il flusso delle armi, in flagrante violazione dell’embargo, non fa che aumentare il forte rischio di una lunga e sanguinosa guerra civile che porterà a un’insanabile frattura del paese”, ha dichiarato l’inviato speciale dell’ONU in Libia, Ghassan Salamè, nella sua relazione al Consiglio di 46 • MSOI the Post

tratteneva in custodia dalla fine dell’anno scorso. Dal canto suo, Haftar, sempre più in difficoltà per lo stallo della succitata campagna, cerca di non perdere il sostegno dell’Egitto. Certo è che, dopo quasi due mesi di combattimento, l’impasse sul piano militare sta moltiplicando i fronti del conflitto. L’intermediazione delle Nazioni Unite, il cui rappresentante in Libia, peraltro, è tra le parti in conflitto, non ha finora contribuito in modo definitivo a raggiungere un cessate il fuoco. Lo scenario più cupo che si delinea all’orizzonte è quello, già anticipato nell’introduzione, di una guerra continua, che potrà concludersi solo con l’annientamento di una delle due parti. Un costo insostenibile per la Libia, la quale sembra proprio non riuscire a giungere a un periodo di pace. La Corte Penale Internazionale (CPI) è un tribunale per crimini internazionali, con sede all’Aia, nei Paesi Bassi; la sua competenza è limitata ai più


Diritto Internazionale ed Europeo che si consumano nei centri di detenzione libici. Bensouda si è detta “costernata per le informazioni credibili secondo le quali la Libia è diventata un mercato per il traffico di esseri umani”.Hapoiaggiuntoche“laCorte Penale Internazionale, dunque, sta valutando attentamente se aprire un’inchiesta sui crimini legati ai migranti in Libia e, soprattutto, se tali casi rientrino

gravi crimini che riguardano la comunità internazionale nel suo insieme, quali il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra. La corte sta analizzando la ‘situazione migranti’, intenzionata ad aprire un’inchiesta. È allarme per i legami tra il traffico di migranti e lo sviluppo della criminalità organizzata e le

reti terroristiche: in tal senso, la Libia è divenuta un vero e proprio ‘mercato’ per la tratta di esseri umani. Lo stesso procuratore Fatu Bensouda lo ha ufficialmente confermato dinanzi al Consiglio di Sicurezza, aggiungendo che la CPI sta raccogliendo elementi su presunti crimini, quali omicidi, abusi e atti di tortura,

nella competenza del giudice della Corte”. Constatando come la situazione della sicurezza in Libia sia deteriorata in modo significativo rispetto allo scorso anno, Bensouda ha dapprima denunciato le relazioni tra il traffico di migranti e lo sviluppo della criminalità organizzata e, di seguito, richiesto l’arresto dell’ex capo della sicurezza di Gheddafi, Al Touhami Khaled, da parte delle autorità libiche. Secondo il procuratore, l’uomo, che attualmente risiede in Libia, è soggetto dal 2013 di un mandato di arresto della CPI per crimini di guerra.

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