MSOI thePost - Ottobre 2019

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Ottobre 2019


O t t o b r e

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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Daniele Baldo, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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Redazione Direttore Editoriale Davide Tedesco Direttore Responsabile Giusto Amedeo Boccheni Vice Direttori Luca Bolzanin, Luca Rebolino Caporedattori Arianna Salan, Fabrizia Candido, Matteo Candelari, Pauline Rosa, Luca Imperatore Capiservizio Fabrizia Candido, Guglielmo Fasana, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Vladimiro Labate, Pierre Clément Mingozzi, Andrea Mitti Ruà, Giacomo Robasto, Arianna Salan Media E Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolini, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Alina Bushukhina , Fabrizia Candido, Federica Cannata, Daniele Carli, Debora Cavallo, Sabrina Certomà, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria Di Donato, Tommaso Ellena, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Vittoria Beatrice Giovine, Lara Amelie Isaia Kopp, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Mina, Pierre Clément Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Anna Nesladek, Virginia Orsili, Francesco Pettinari, Barbara Polin, Luca Pons, Jessica Prieto, Mario Rafaniello, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Federica Sanna, Martina Scarnato, Andrea Domenico Schiuma, Natalie Sclippa, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Diletta Sveva Tamagnone, Francesco Tosco, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner.


SPECIALE POLITICHE MIGRATORIE Migranti, profughi, rifugiati

Il concetto di migrazione, nella sua accezione più generale, indica l’allontanamento di una persona o di un gruppo da un dato territorio. Questa definizione generale accoglie, al suo interno, un insieme complesso ed eterogeneo di movimenti umani che si possono definire ‘migratori’. Pertanto, esso non riguarda solo gli spostamenti transnazionali e i reinsediamenti in un paese straniero ma anche, a titolo d’esempio, le ’migrazioni circolari’ di lavoratori pendolari attraverso il confine tra due stati, così come il percorso intrapreso dai ‘rifugiati interni’ (internally displaced persons), i quali, senza oltrepassare i confini dello stato, abbandonano la propria residenza originaria a causa di un conflitto o di un notevole evento climatico che metta a rischio la sopravvivenza

degli individui, della famiglia o della comunità. Per inciso, il termine ‘profugo’ rileva, all’interno del concetto di ‘migrante’, quella persona che abbandona il proprio paese d’origine non solo per motivi di discriminazione politica, razziale, religiosa, o per altri motivi di persecuzione individuale, ma per le più svariate ragioni, senza però che questo lo metta necessariamente in grado di richiedere protezione internazionale. In linea generale, l’accezione più diffusa nel discorso che ci è familiare del termine ‘migrazione’ racchiude in sé due elementi di significato: un flusso più o meno costante di spostamenti a lungo termine di gruppi di individui, in numero cospicuo e con conseguenze significative per il contesto

sociale, politico e demografico dei paesi d’origine, di transito e di arrivo; la ricerca più o meno premeditata, da parte del singolo individuo, dell’unità familiare o di una comunità, di un miglioramento delle proprie condizioni di vita. È questa la concezione di ‘migrazione’ che informa gran parte del nostro discorso pubblico e che sovente si riflette nella gestione dello Stato e della società, coinvolgendo inevitabilmente il regime delle frontiere territoriali e il controllo della popolazione. Il governo delle migrazioni è oggi giorno - e in buona misura è stato negli scorsi decenni presentato come una priorità politica per la sicurezza dello stato nazione. Ad ogni modo, va sottolineato che una codifica rigorosa di uno status

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giuridico del ‘migrante’ non figura in nessuna disciplina del diritto internazionale e, di fatto, l’ambiguità del concetto offre inevitabilmente un largo margine di interpretazione ai legislatori e ai decisori politici. Ciò che invece trova precisa definizione nel corpus giuridico internazionale è lo status di ‘rifugiato’, che sostanzialmente riceve e formalizza la ‘migrazione forzata’ e attribuisce al soggetto migrante un diritto all’asilo o, terminologia dal significato analogo, alla ‘protezione internazionale’. La Convenzione sullo status dei rifugiati del 28 luglio 1951 disciplina la normativa in materia di diritto d’asilo; al netto di alcune eccezioni, ad oggi è stata firmata e ratificata in tutte le sue parti dalla maggioranza degli Stati ONU (147 su 193). La Convenzione rappresenta un trattato vincolante per i paesi firmatari, che devono realizzare sul loro territorio e con risorse adeguate le procedure di tutela dell’individuo disciplinate secondo lo status di rifugiato, assicurando piena cooperazione con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Devono infine adeguare alla normativa internazionale le disposizioni del proprio ordinamento giuridico in materia di asilo. 4 • MSOI the Post

Le migrazioni nel mondo odierno Nella cornice delle politiche migratorie, la tutela dei diritti del rifugiato rappresenta, nel mondo di oggi, una questione di primaria importanza. Secondo l’UNHCR, la popolazione di rifugiati nel mondo alla fine del 2018 si attesta al livello più alto mai registrato: 25.9 milioni di persone L’opinione pubblica, i media e i governanti del globo sono sempre più sensibili a questi dati. Tuttavia, prima di approfondire il tema della protezione di quelle che saranno, nel futuro più prossimo, le categorie umane più vulnerabili, è senza dubbio necessario un approfondimento sui trend delle migrazioni umane. Da un punto di vista globale, i fenomeni migratori coinvolgono una popolazione nell’ordine delle centinaia di milioni; una stima ONU, ad esempio, ne registra 272 milioni per l’anno 2019. Ovviamente, i canali di spostamento che più attraggono l’attenzione dei media occidentali sono quelli che riguardano l’Europa e gli Stati Uniti, in quanto paesi d’arrivo per le rotte da, rispettivamente, Africa, MedioOriente e Asia Centrale o Messico e Sudamerica. Tuttavia, è necessario ricordare che

gli spostamenti umani non riguardano solo i movimenti dal Sud del mondo al Nord - quest’ultimo, generalmente, da identificarsi con l’Europa occidentale e il Nord America. Secondo le stime del Population Reference Bureau, già nel 2014 la direzione Sud-Sud costituiva il 36% del trend globale dei flussi migratori, coinvolgendo 82.3 milioni di persone, ovvero spostamenti di massa interni ai continenti Asia, Africa e Sudamerica. Se anche volessimo ridurre l’intero spettro dei molteplici fenomeni migratori alla sola questione delle migrazioni forzate (che nell’anno 2018, secondo le figure UNHCR, riguardavano circa 70.8 milioni di individui), vedremo che il ‘Nord globale’ è decisamente sottorappresentato nella scala delle destinazioni. Ad oggi, la Turchia accoglie la quota maggiore di rifugiati (3.7 milioni), seguita da Pakistan (1.4 milioni), Uganda (1.2 milioni) e infine da Sudan e Germania (1.1 milioni). Allargando la visuale dai rifugiati al più comprensivo insieme concettuale dei ‘migranti internazionali’, passano invece in testa gli Stati Uniti, che nel 2017, secondo il think tank statunitense Migration Policy Institute, ospitavano 49 milioni di migranti sul territorio nazionale. Conoscere l’immigrazione, per poterla governare Quanto illustrato finora serve a fornire un’immagine generale, e inevitabilmente riduttiva, dei fenomeni migratori: un intreccio concettuale di elementi pressoché eterogenei ma strettamente connessi tra loro come la tutela dei diritti umani, le definizioni di nazionalità e cittadinanza, gli interessi economici e geopolitici, lo sviluppo industriale e il cambiamento climatico, ma anche l’opinione pubblica e l’influenza dei mass media. Si rivela di


volta in volta fondamentale, pertanto, saper individuare con precisione il tema in oggetto d’analisi. Questa operazione è centrale per valutare con cognizione di causa le politiche migratorie messe in atto da autorità locali, nazionali e sovranazionali e per problematizzare e dunque governare gli spostamenti umani, sempre complessi e multidimensionali, che chiamano in causa importanti segmenti del sistema politicosociale.

e integrare i profili desiderabili - soprattutto in realtà, come quella europea, in cui si rileva un invecchiamento progressivo della popolazione e un bisogno crescente di manodopera. Da qui nasce la necessità di definire le politiche migratorie, in grado di individuare le categorie privilegiate all’ingresso nel paese e i loro diritti, ma al tempo stesso di politiche di integrazione, affinché gli immigrati siano assimilati nel mercato del lavoro a livello salariale e occupazionale.

Quello dell’immigrazione non è un fenomeno recente. Già nel recente passato, i flussi migratori hanno raggiunto veri e propri picchi, in particolare tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Anche per questo, il tema dell’immigrazione ha trovato sempre più spazio al centro del dibattito nazionale, europeo, mondiale. Una prima spiegazione potrebbe derivare dalla sempre maggior rilevanza morale acquisita dal tema dei diritti umani. A ciò, si aggiunge la correlazione tra l’immigrazione e l’incidenza di guerre, conflitti armati e genocidi, fattore che ha inciso sulla limitazione e regolamentazione degli spostamenti. In altri casi, si è iniziato a parlare di ‘responsabilità collettiva’ nel fornire aiuto alle popolazioni colpite dagli effetti del cambiamento climatico - i cosiddetti profughi ambientali. Fondamentalmente, quando si tratta di migrazioni sembrano essere due gli approcci più spesso adottati. Da una parte, si pone l’obiettivo ideale di proteggere una comunità da quelli che dovrebbero essere gli effetti negativi comunemente considerati tipici e correlati all’immigrazione: aumento delle tensioni sociali, costi economici, perdita dell’identità culturale o della coesione sociale. Dall’altra, si riconosce il dovere morale di aiutare i bisognosi

Perché, però, quest’ultimo punto non sempre trova un riscontro nella realtà? Come sottolinea uno studio della Commissione europea, le cause sono attribuibili alla conoscenza linguistica, alla formazione scolastica e all’inserimento degli stranieri in molti settori in cui anche i nazionali hanno possibilità di far carriera (cura della persona, costruzioni e ristorazione). Se da una parte, dunque, tali normative dovrebbero ridurre i differenziali socio-economici, dall’altra è anche vero, si sottolinea nel report, che è necessario che qualcuno svolga queste mansioni poco qualificate. Come si legge in un approfondimento delle Nazioni Unite, gli immigrati ‘di lunga durata’, quando si stabiliscono in un paese ospite, ne aumentano i livelli di produttività demografica. Al contempo, però, sono a loro volta soggetti ad invecchiamento; di conseguenza, la loro presenza può solo ritardare l’aumento dell’indice di dipendenza strutturale degli anziani. Tuttavia, è con la ‘seconda generazione di migranti’, i figli di questi primi immigrati, che si può osservare un ‘riciclo’ di manodopera, più assimilata nel sistema scolastico, con una buona conoscenza linguistica e dotata di cittadinanza. Se analizzassimo più da vicino

le rotte migratorie presentate in apertura, una tra quelle occidentali più percorse è senza dubbio quella del Mediterraneo. Quest’ultimo è ormai noto quale il confine più pericoloso tra Stati che non sono in guerra tra loro. Al tempo stesso, questa rappresenta una delle tratte più complesse se si vuol ricostruire il profilo tipico del migrante irregolare, poiché comprende sia i migranti economici alla ricerca di opportunità di impiego (solitamente provenienti da Tunisia, Algeria e Marocco), sia quelli in fuga da persecuzioni o guerre e richiedenti asilo (che hanno come paesi di origine: Eritrea, Somalia, Afghanistan, Mali, Costa d’Avorio, Gambia, Sudan e Palestina). In particolare, in quest’ultima categoria si rileva la presenza di un ampio numero di donne e bambini. A ben vedere, uno dei problemi maggiori è che i dati in materia di immigrazione irregolare sono lacunosi, incompleti e non aggiornati per individuare quanti di questi migranti richiederebbero asilo e quanti sarebbero invece migranti economici. Se quindi non si conosce una realtà, come è possibile regolamentarla? Tornando nuovamente al ‘caso Mediterraneo’, vista la sua complessità, occorre sottolineare che, alla luce del recente Decreto migranti, sembrerebbe esserci un’intenzione politica di semplificare e velocizzare la gestione delle domande di protezione internazionale. Come spiegano i ministri firmatari Alfonso Bonafede (Giustizia) e Luigi Di Maio (Esteri) sul Corriere della Sera, con questo decreto è previsto che, una volta individuata la provenienza dei migranti, sia più agevole avviare procedure di rimpatrio qualora questi provengono da porti sicuri quali Algeria, Marocco, Tunisia, Albania, Bosnia, Capo Verde,

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Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Senegal, Serbia e Ucraina. Come riporta lo stesso articolo, “in mancanza di questi requisiti la domanda di protezione verrà subito respinta e avviata la procedura di rimpatrio”. La questione principale di questo decreto interministeriale è che “inverte l’onere della prova”. In tal senso, verranno rifiutate le richieste di asilo delle persone provenienti dai citati 13 paesi, salvo esse non presentino prove di un rischio reale per la propria incolumità in caso di ritorno in patria. Lo scenario italiano è soltanto una testimonianza di un’inversione di rotta nell’affrontare casi di emergenza umanitaria. Per avere una visione di più ampio spettro, prendiamo in esame tre casi a livello mondiale: il Venezuela, la Siria e lo Yemen. Altre gravi emergenze migratorie ed umanitarie: come vengono gestite Secondo i dati dell’UNHCR, a fine 2018 oltre 3 milioni di persone sono fuggite dal Venezuela, in quello che è il più grande esodo nella storia recente della regione. La catena di eventi che ha mobilitato migliaia di famiglie venezuelane è iniziata nel 2014, in seguito alla morte del presidente Cházev. La crisi economica devastante, l’inflazione che ha raggiunto la soglia del 50%, la mancanza di elettricità, la carenza di beni di prima necessità - i cui prezzi sono aumentati del 1000% -, la fame e la povertà sono tra i principali fattori del massivo esodo. Il sistema sanitario venezuelano è crollato, con una carenza di personale e di medicinali che ha causato la chiusura di molti reparti ospedalieri. In un solo anno, la mortalità materna è aumentata del 65%; quella infantile del 30%. “Quando mia figlia di nove mesi è morta a causa della mancanza di cure, ho 6 • MSOI the Post

deciso di portare la mia famiglia fuori dal Venezuela prima che morisse un altro dei miei figli”, testimonia, attraverso il report UNHCR, Eulirio Beas, della comunità indigena Warao, che si trova in un campo profughi del Brasile. La maggioranza delle persone parte senza documenti, in carovane, percorrendo a piedi centinaia di chilometri: per questo vengono chiamati caminantes. Francesca Matarazzi, Emergency Coordinator di INTERSOS, descrive tali migrazioni con queste parole: “Li vedi passare ogni giorno. Famiglie con bambini piccoli, anziani. Camminano senza riposo. Camminano senza scarpe. Camminano con la pelle bruciata”. Ogni mese sono oltre 15.000 le persone che attraversano il confine tra Venezuela e Colombia. Quest’ultima ha messo in atto politiche d’inclusione e d’accoglienza, con la priorità di evitare che i migranti intraprendano la strada della clandestinità. Il Governo colombiano ha concesso documenti temporanei che consentono ai venezuelani di entrare e uscire liberamente. Si potrebbe affermare che la Colombia abbia tentato di trasformare la questione migratoria da emergenza umanitaria a occasione di sviluppo. A onor del vero, questo esodo potrebbe rappresentare un’occasione di crescita economica per Bogotà. Tuttavia, gli arrivi sempre più numerosi stanno complicando la situazione. In un contesto in cui centinaia di persone sono costrette a vivere in case e campi profughi sovraffollati, le condizioni di vita diventano estremamente precarie. Il rischio di essere esposti ad abusi, sfruttamenti - minorili e sessuali - e di finire nei giri del o narcotraffic rimane elevato. Anche

in

Siria

si

sta

verificando un’emergenza umanitaria. Il 15 marzo 2011 il popolo è sceso in piazza per protestare contro il Governo di Assad, invocando maggior democrazia e libertà. L’anno successivo, le manifestazioni sono sfociate in una guerra civile. Secondo i dati raccolti dall’Ufficio delle Nazioni Uniti per gli Affari Umanitari, questa guerra ha provocato oltre 11 milioni di sfollati, 6.7 milioni dei quali sono scappati nei paesi limitrofi. Ma di questi ultimi che fuggono dalla Siria, solamente il 10% vive nei campi profughi dei paesi confinanti, perché troppo affollati. La maggior parte vive in piccoli alloggi di prima accoglienza, anche questi in condizioni precarie. La guerra ha raggiunto livelli talmente elevati che, nel 2014, l’Alto Commissario delle Nazioni Uniti per i Diritti Umani (OHCHR) ha annunciato che non avrebbe più registrato il numero delle vittime. Questa decisione è stata presa, secondo quanto dichiarato da Rupert Colville, portavoce OHCHR, a causa delle difficoltà riscontrate da organizzazioni indipendenti a entrare nel territorio siriano, insieme con l’impossibilità di verificare le fonti. La percentuale di civili uccisi è comunque molto elevata. Secondo diverse ONG, ad esempio, a Ghouta, durante un raid aereo del 18 febbraio 2018, sono rimasti uccisi oltre 1.400 civili, tra cui 280 bambini. Paolo Pezzati, di Oxfam Italia, denuncia che “è inaccettabile che la comunità internazionale stia voltando le spalle a oltre cinque milioni di siriani in fuga dall’orrore della guerra [...] La comunità internazionale resta a guardare, mentre milioni di persone sono bloccate in un limbo senza fine”. Un’altra regione afflitta dalla guerra e da una grave crisi umanitaria è lo Yemen, dove si contano oltre 3 milioni di profughi interni e 22 milioni di persone che necessitano


di assistenza. Tutto ebbe inizio nel 2015, quando l’Arabia Saudita, il paese più ricco del mondo arabo, ha attaccato lo Yemen, paese più povero del mondo arabo. In quattro anni di conflitto vi sono state oltre 20.000 vittime, più della metà delle quali risultano essere civili. La vita nello Yemen è difficilissima, tanto che si dovrebbe più propriamente parlare di sopravvivenza. Metà degli ospedali sono stati distrutti, il prezzo del carburante è aumentato del 200%, i prezzi dei beni di prima necessità e del cibo sono alle stelle. Ad aggravare le già precarie condizioni di vita, l’Arabia Saudita ha imposto un blocco alle importazioni nel paese. Secondo un articolo del 2017 di Internazionale, il think tank International Crisis Group affermava già al tempo che la fame che ha colpito gli yemeniti non fosse “dovuta a cause naturali, ma all’azione voluta dei belligeranti e dall’indifferenza e al ruolo complice della comunità internazionale”. Conosciuta come la ‘crisi umanitaria dimenticata’, a causa dello scarso interesse dimostrato dalla comunità internazionale, questa è indubbiamente una

delle peggiori crisi umanitarie contemporanee. Al disinteresse generale contribuisce la grande difficoltà dei giornalisti stranieri ad entrare nel paese. Le Nazioni Unite hanno tentato di trasportare alcuni giornalisti inglesi su un aereo umanitario, ma le forze saudite hanno impedito il loro arrivo. In particolare, a seguito di questo episodio, Ben Lassoued, coordinatore delle questioni umanitarie dello Yemen presso l’ONU, aveva dichiarato che “il fatto dimostra perché lo Yemen, paese colpito da una delle più gravi crisi umanitarie al mondo, non riceva particolari attenzioni da parte dei media internazionali”. Nell’estate del 2017, il presidente Trump ha concluso un accordo di 110 miliardi per la vendita di armi all’Arabia Saudita. Così facendo, gli Stati Uniti hanno alimentano un conflitto che ha distrutto il paese yemenita, gettandolo sull’orlo di una gravissima carestia e ha dato luogo a gravi crimini di guerra. Tra crisi, patti globali e cuori chiusi Quelle

analizzate

in

questo

approfondimento sono soltanto alcune delle emergenze migratorie e umanitarie che si stanno consumando nel mondo. Secondo l’UNHCR, infatti, altrettante crisi si registrano in paesi quali Congo, Burundi, Iraq, Nigeria, Sudan e Myanmar, dove sono in atto fenomeni di migrazione forzata. Milioni di persone sono costrette a lasciare il loro paese, la loro casa, nella speranza di un futuro migliore lontano dai conflitti. In tal senso, tutte queste migrazioni devono essere trattate come una crisi planetaria. Come ha ricordato il segretario generale Antonio Guterres, il 24 settembre scorso, dinanzi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “In un epoca in cui un numero record di rifugiati e sfollati interni sono in movimento, la solidarietà è in fuga. Vediamo non solo le frontiere, ma i cuori chiudersi, mentre famiglie di rifugiati vengono distrutte e il diritto di trovare asilo fatto a pezzi”. Guterres ha posto l’accento sulle responsabilità condivise che gravano sulla comunità internazionale, sancite dai patti mondiali sui Rifugiati e sulla Migrazione, aggiungendo, con incedere lapalissiano: “All migrants must see their human rights respected”.

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Europa Occidentale Occorre proteggere lo “stile di vita europeo”?

Di Alessio Vernetti Non è ancora ufficialmente nata,malaCommissioneeuropea di Ursula von der Leyen è già stata bersaglio di critiche. In particolare, vi sono state molte polemiche sulla nomina di un commissario (grossomodo l’equivalente di un ministro) “per la protezione del nostro stile di vita europeo”. Si tratta del membro del Partito Popolare Europeo (PPE) e di Nuova Democrazia (partito greco di centrodestra) Margaritis Schinas, designato dal premier greco Kyriakos Mitsotakis. Ex-eurodeputato e funzionario di lunga data presso diverse direzioni generali della Commissione stessa, Schinas sarà peraltro anche uno degli 8 vicepresidenti che affiancheranno von der Leyen. Tuttavia, più del nome della carica in sé, è stato ciò che rientra nella sua sfera di 8 • MSOI the Post

competenza a suscitare critiche: il responsabile della protezione dello “stile di vita europeo” dovrà infatti guidare il processo decisionale in materia di immigrazione e sicurezza, oltre che di istruzione e occupazione. Il presidente uscente della Commissione europea, JeanClaude Juncker, ha espresso la propria opinione in un’intervista a Euronews, dicendosi in disaccordo con il titolo ufficiale dell’incarico e non trovando corrispondenza tra esso ed i valori di un esponente del PPE come Schinas. Juncker ha sottolineato che “accettare coloro che arrivano da molto lontano fa parte dello stile di vita europeo”, aggiungendo che il nome del portafoglio avrebbe dovuto essere precisato meglio. L’eurodeputata francese Karima Delli, a tal proposito, ha domandato ai colleghi europarlamentari di inviare

una lettera a von der Leyen per chiedere proprio una modifica del nominativo, affermando: “Ciò che è assolutamente inaccettabile è che questo nome, che crea un legame tra immigrazione e protezione di uno stile di vita europeo, legittima le idee dell’estrema destra per le quali gli immigrati sono barbari che minacciano il nostro stile di vita”. Tra coloro che hanno criticato la denominazione del portafoglio di Schinas c’è anche Claude Moraes, deputato britannico del partito laburista che, su Twitter, è stato esplicitamente critico: “La ‘protezione del nostro stile di vita europeo’ non avrebbe dovuto essere il nome di un portafoglio in una Commissione europea del 2019”. Anche l’eurodeputato francese Damien Careme, rappresentante dei Verdi, ha definito il nome del portafoglio “un abominio”, così come il ramo europeo di Amnesty


Europa Occidentale e uomini nei loro Paesi di origine”. Per quanto riguarda la sicurezza, la presidente ha inoltre dichiarato che la sua Commissione cercherà di “migliorare la cooperazione transfrontaliera per colmare le lacune nella lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo in Europa”.

International ha espresso preoccupazione sostenendo che “collegare la migrazione alla sicurezza nel portafoglio di un Commissario rischia di inviare un messaggio preoccupante”. Nella lettera di incarico destinata a Schinas, von der Leyen ha scritto che “lo stile di vita europeo si basa sul principio di dignità e uguaglianza per tutti”. Espressione già apparsa negli Orientamenti politici per la Commissione 2019-2024, pubblicati a luglio scorso. In questo documento, risalente a due mesi fa, l’ex-ministra della Difesa tedesca aveva scritto che l’UE avrebbe dovuto impegnarsi “di più quando si tratta di proteggere i nostri cittadini e i nostri valori”, definendo “il rispetto dello Stato di diritto” e “un nuovo inizio sulla politica migratoria” necessari per proteggere lo “stile di vita europeo”. Von der Leyen ha quindi proposto un nuovo accordo sull’immigrazione che includerebbe frontiere esterne più forti e un moderno sistema di asilo. Ha inoltre affermato che l’UE dovrebbe concentrarsi di più sulla cooperazione allo sviluppo per migliorare “le prospettive di giovani donne

Schinas, dal canto proprio, ha fatto sapere di essere “elettrizzato all’idea di essere nominato”, dicendosi “fiducioso di poter fare grandi passi avanti nei prossimi cinque anni per proteggere e valorizzare gli europei”. Al di là delle critiche, il nome della carica ha portato altresì a porsi una domanda fondamentale: esiste davvero uno stile di vita europeo? I Paesi dell’UE presentano differenze enormi sotto molti punti di vista. Basti vedere alcuni dati economici: in Svezia l’occupazione è superiore di oltre 20 punti percentuali a quella che si ha in Grecia. Sempre nel Paese di Schinas, più di un cittadino su dieci non può permettersi cure mediche per i costi eccessivi della sanità, mentre in Finlandia questo si verifica per circa un cittadino su

mille. Questo senza considerare che anche i contesti culturali possono differire enormemente da un Paese all’altro dell’Unione. La vita di un cittadino di Madrid differisce significativamente da quella di un residente a Vilnius, anche per la way-of-life che è intrinsecamente presente in ogni Stato (e notevoli differenze si potrebbero trovare certamente anche tra abitanti di Madrid e residenti delle più remote regioni del Nord della Spagna). Per una Unione che ha continuato a espandersi con costanza dalla sua fondazione e che ha accolto i suoi membri più “giovani” soltanto nel 2013 (Croazia) e nel 2007 (Bulgaria e Romania), con un passato che fino all’epoca della guerra fredda ha visto una profonda divisione interna al continente, sarebbe peraltro difficile aspettarsi una maggiore integrazione degli “stili di vita”. Considerato tutto ciò, si potrebbe concludere che prima di dedicarsi a proteggere uno stile di vita europeo sarebbe necessario individuarne uno o, in alternativa, prendere atto della sua inesistenza.

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Europa Occidentale Ci siamo accorti del cambiamento climatico

Di Jasmina Saric “Impossible is not a fact, it is an attitude”. L’impossibile non è un dato di fatto, ma un atteggiamento. Probabilmente non c’è espressione migliore di questa, utilizzata dal Segretario esecutivo dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), Christiana Figueres, per inquadrare il nuovo approccio sociale al tema più ‘caldo’ degli ultimi anni: il cambiamento climatico e i suoi progressivi effetti. Come teorizzato da molti, il riscaldamento globale è ormai un processo inarrestabile, con un impatto che è diventato sempre più visibile rispetto a decenni fa, quando la questione veniva considerata molto meno urgente dal grande pubblico. Non solo l’emergenza climatica è diventata una priorità nella società civile e nei programmi politici, ma ne è cambiata la nostra concezione: si è infatti sollevata un’ondata di proteste e manifestazioni per l’ambiente 10 • MSOI the Post

che pare, almeno in parte, alimentata da un ‘ottimismo’ di fondo. Per avere un termine di paragone basta pensare a circa dieci anni fa, quando, nel dicembre 2009, a Copenhagen si riunirono i capi di Stato per la 15° Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico, il cui scopo era quello di dar vita ad un accordo internazionale che stabilisse i nuovi parametri per la riduzione delle emissioni di gas. Ciò che ne emerse fu il cosiddetto “Accordo di Copenhagen”, che però venne considerato un risultato al limite del fallimento. “Un cattivo accordo è meglio di nessun accordo”, aveva sostenuto durante la conferenza stampa conclusiva l‘allora presidente della Commissione José Manuel Barroso. Tuttavia, la sua a poca efficaci fu evidente fin da subito: non solo si registrarono le opposizioni di numerosi paesi, soprattutto del Sud America, ma questo aveva carattere non vincolante, con

gli obiettivi di riduzione delle emissioni da esso stabiliti non erano traducibili in pratiche concrete. Il sostanziale fallimento dell’accordo di Copenaghen fu dovuto anche ad un diffuso disinteresse politico, manifestato, tra le altre cose, dalla ancora discreta percezione del problema ambientale da parte della maggioranza della società civile. Dai sondaggi condotti negli anni 20082009 dall’Eurobarometro sull’atteggiamento dei cittadini europei verso il cambiamento climatico, infatti, risultò che il 62% degli intervistati considerasse il cambiamento climatico al terzo posto tra i problemi più gravi del pianeta, una percentuale che si era abbassata del 12% alla fine del biennio considerato. Negli anni, però, sembra ci sia stata un’evoluzione progressiva nella percezione del fenomeno, trainata inizialmente da una maggiore attenzione da parte


Europa Occidentale della politica internazionale. Dapprima, a livello europeo, quando la Direttiva 2009/29/ CE ha posto in essere, dal 2009 al 2013, il cosiddetto “Piano 20-20-20”: una serie di azioni volte a ridurre le emissioni del 20%, aumentare la quota di energia rinnovabile del 20% e ottenere un risparmio energetico sempre del 20% (da cui il nome). Di seguito, a livello internazionale, con i progressivi lavori per l’Accordo di Parigi del 2015, volto a contenere l’incremento della temperatura media al di sotto dei 2°C. A tal fine, l’Unione stessa ha optato per l’adozione di regolamenti e direttive più stringenti. Questa presa di coscienza è stata il preludio, negli ultimi due anni, di una generale “vitalità” da parte della popolazione riguardo al tema in esame. Alcuni sondaggi effettuati nell’anno corrente, difatti, hanno dimostrato un aumento della percezione della gravità della tematica: il 79% degli intervistati lo considera un problema molto grave, mentre il 93% lo ritiene una criticità significativa. La necessità di ottenere un cambiamento concreto nell’affrontare i problemi del nostro pianeta si è tradotta, altresì, in numerose manifestazioni per il clima. Tra queste, spiccano per risalto mediatico e numero di partecipanti i cosiddetti “Fridays for Future”, che hanno coinvolto soprattutto le giovani generazioni. Due fattori hanno contribuito a sensibilizzare così ampie fasce della popolazione: in primis, lo sviluppo tecnologico che, attraverso i social network e i media, rende contenuti riguardanti i disastri ambientali accessibili a tutti. In secondo luogo, l’impatto stesso del cambiamento della temperatura,

sempre più evidente anche nella quotidianità. Molteplici sono i fenomeni climatici anomali di cui siamo finora spettatori, dallo scioglimento del settecentenario ghiacciaio Okjokull in Islanda, all’aumento della frequenza delle precipitazioni e intensità dei venti: in queste ore, il Giappone si trova ad affrontare la furia del tifone Hagibis, mentre l’uragano Lorenzo, proveniente dall’Atlantico, si sta avvicinando all’Europa. Proprio la consapevolezza dell’urgenza della questione, espressa nelle proteste e nelle manifestazioni, ha spinto alcuni governi ad intraprendere azioni concrete al fine di innescare realmente un’inversione del corso delle cose, sia a livello europeo, sia nazionale. Una relazione della Commissione europea ha sintetizzato i traguardi raggiunti dall’Unione dall’Accordo di Parigi ad oggi, tra cui è inserito l’andamento dei dati registrati nei settori contemplati dall’ESD (EffortSharing Decision). La decisione congiunta del 23 aprile 2009 del Parlamento europeo e della Commissione sulla condivisione degli sforzi, ha fissato gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni in settori quali i trasporti, l’agricoltura e l’edilizia entro il 2020, esprimendo le variazioni in valore percentuale rispetto all’anno 2005. Secondo la relazione e la suddetta decisione, le emissioni sono diminuite dell’11% rispetto al 2005, superando l’obiettivo intermedio di riduzione di circa 4 punti percentuali (7%); nel 2020 dovrebbero diminuire al di sotto del 16% rispetto all’anno base, superando anche qui l’obiettivo del 10%. L’UE si è impegnata anche in termini di energie rinnovabili,

adottando la direttiva-quadro del 21 dicembre 2018. In questa, è fissato un target minimo del 27% della quota di energie rinnovabili che gli stati membri devono impegnarsi a consumare entro il 2030, per scoraggiare di converso l’uso dei combustibili fossili. D’altronde, a livello nazionale, proprio in quest’ultimo settore, c’è stata una riduzione sensibile a favore delle rinnovabili anche in stati quali Italia, Grecia, Romania e Estonia. Anche per quanto riguarda stati che si trovano ancora “in difficoltà”, è il caso della Francia, passi avanti sono stati compiuti in senso positivo: il presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, ha infatti lanciato un programma di riduzione sensibile delle emissioni di CO2 attraverso l’uso di energie alternative quali quella solare, eolica e delle biomasse, con lo scopo di rendere il paese carbonneutral (cioè in condizione di non emettere più CO2 di quanto ne consumi) entro il 2050. Nonostante la lunga strada da percorrere, negli ultimi dieci anni si è registrato un cambiamento di rotta effettivo. Questo ha coinvolto non tanto (o non ancora) l’impatto delle più recenti politiche sul clima, quanto il nuovo approccio della società civile, passata dal percepire in maniera distaccata il progressivo tracollo delle condizioni climatiche del pianeta al realizzare che si possa (e si debba) attivarsi e intervenire nell’immediato. Se è vero che l’impossibile è soltanto una questione di atteggiamento, possiamo concludere positivamente: l’atteggiamento è definitivamente cambiato.

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Medio Oriente e Nord Africa Politica migratoria: un vuoto normativo a creare le premesse per il ricatto

Di Giulia Galdelli Non si può più affrontare il tema migrazioni senza parlare di cambiamento climatico. Le relazioni tra questi fenomeni son già da tempo evidenti e si comincia a ragionare su quali siano e saranno le aree maggiormente interessate, sia in qualità di paesi ospitanti, sia in qualità di paesi colpiti dai mutamenti ambientali. Gli effetti sono già evidenti, ad esempio, nel Vicino Oriente. Qui, la pressione proveniente dalle nuove forme migratorie, prima fra tutte quella dettata dagli effetti del surriscaldamento globale, sinergicamente affiancata dal risorgere del conflitto in Siria e nel Rojava, 12 • MSOI the Post

potrebbe presto rompere la barriera di contenimento turca e costringere l’Unione a riesumare i propri scheletri nell’armadio. Il primato di maggior ospitante di rifugiati al mondo, la Turchia lo ha conquistato dopo lo scoppio della guerra in Siria. Secondo dati ufficiali, il popolo turco ha accolto 4 milioni di migranti, di cui 3,5 siriani. Paese di transito e barriera al contempo, la Turchia resta partner chiave dell’Unione Europea nelle vicende legate alle migrazioni. Rappresenta, d’altronde, un crocevia di popoli, attestandosi quale primo paese ospitante di rifugiati al mondo. Questa condizione si è d’altronde trasformata in arma di ‘ricatto’ nei confronti dell’Unione e dei paesi alla

Turchia limitrofi. L’offensiva di Ankara in Siria degli ultimi giorni è solo l’ultimo fardello posto sull’Occidente, a coronare il fallimento della politica migratoria comunitaria. Gettandosi nella metafora, la penisola anatolica è un corridoio per il flusso migratorio. Le regioni più occidentali della Turchia sono una porta verso l’Europa, mentre, a est e sudest, i suoi confini si aprono sul Caucaso, verso l’Asia centrale e il resto del Medio Oriente. A ciò si aggiungono i collegamenti aerei e le esenzioni dal visto, che consentono a molti migranti provenienti dall’Africa di affacciarsi in Turchia, la quale diviene così anche terra di transito per la migrazione irregolare. L’ambiguità


Medio Oriente e Nord Africa normativa agevola nel paese anche il consumarsi delle persecuzioni e l’Unione non può facilmente negare le proprie responsabilità in tal senso. Il Medio Oriente, certo, è terra di conflitti, di petrolio, di integralismi, ma anche i cambiamenti climatici e l’incremento demografico sono da considerarsi fattori cruciali per riflettere con lungimiranza sulle politiche migratorie. Nel tappeto desertico che circonda Nord Africa e penisola arabica, una delle solitarie eccezioni è il fiume Nilo. Con i suoi 6.650 km, è il fiume più lungo del mondo, nonché la principale fonte d’acqua per le popolazioni dell’Egitto, ma anche del Sudan, dell’Etiopia e di altri paesi confinanti. Come evidenziato dal Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), l’Egitto soltanto dipende dalle acque del Nilo per il 95% del proprio fabbisogno idrico. L’85% delle acque fluviali proviene dal lago Tana in Etiopia (Nilo azzurro) e il resto dal lago Viktoria (Nilo bianco). A causa della crescita della domanda di acqua potabile, che supera il rifornimento del Nilo, il Governo sta incoraggiando la costruzione di impianti di desalinizzazione. Lo sviluppo economico e agricolo nei paesi lungo le sue sponde ha causato un incremento della domanda di acqua, mentre i progetti idrografici a monte stanno portando a controversie internazionali. L’Egitto insomma, che Erodoto chiamava, appunto, ‘Dono del Nilo’, comincia a affacciarsi su un potenzialmente catastrofico conflitto idrico per accaparrarsi

ogni goccia di quello che il presidente estromesso ha chiamato il ‘ sangue egiziano’. 450 milioni di persone in undici paesi vivono nel bacino del Nilo: Etiopia, Sudan, Sudan del Sud, Egitto, Ruanda, Tanzania, Uganda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea e Kenya. Tuttavia, al momento Il Cairo fa ancora la parte del leone nell’allocazione delle risorse del Nilo azzurro: 55 miliardi su 88 miliardi di metri cubi d’acqua, che scorrono ogni anno. Questo importo sta diventando scarso per una popolazione di 97 milioni, che è aumentata di 5 volte dal 1970 quando fu costruita la Diga di Assuan. L’aumento demografico, la crescente richiesta d’acqua di matrice industriale, energetica e agricola non sono i soli fattori scatenanti un conflitto che abbiamo definito idrico. A ciò si devono aggiungere i cambiamenti climatici. Come evidenziato dalla compagnia Eniday, piattaforma di informazione promossa da Eni s.p.a., un recente rapporto del Massachusetts Institute of Technology (MIT), ad opera di Elfatih Eltahir e Mohamed Siam, prevede che, a causa dei cambiamenti climatici, i livelli delle acque del fiume Nilo diventeranno sempre più imprevedibili. Un anno di inondazioni devastanti, avvisano gli autori, potrebbe essere seguito da una grave siccità l’anno successivo. Capire quali potranno essere le politiche per affrontare le imprevedibilità del cambiamento climatico è una sfida complicata peraltro dai cambiamenti sociali. I vuoti politici e normativi, infatti, sono altrettanto insidiosi e

impediscono la formazione di un fronte comune per affrontare problemi di portata sovranazionale. Per tornare al caso turco, ad esempio, la politica migratoria del contenimento, già fallimentare non potrà che peggiorare nei propri effetti, quando i migranti ambientali supereranno quelli che fuggono dai conflitti. Già nel 1990, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), comitato dell’ONU che si occupa dei cambiamenti climatici, aveva espresso un avvertimento, in parte passato inascoltato: la ‘crisi climatica’ sarebbe presto divenuta la principale causa di migrazioni nel mondo. Oggi, il problema è diventato tanto evidente che, più che discuterne la portata causale, sarà necessario imparare a gestirlo. In un mondo globalizzato e nel quale il diritto internazionale si è già spesso veementemente insediato nella vita delle persone, non dovrebbe esserci dubbio o esitazione nel dare una dignità formale ai milioni di rifugiati in fuga per cause ambientali. Eppure, i trattati internazionali ancora non riconoscono il diritto d’asilo per motivi ambientali e pertanto parlare di ‘rifugiati climatici’ non è formalmente consentito. Una loro definizione giuridica imporrebbe ai governi un piano concertato di gestione, ma un simile sviluppo pare restare nascosto al di là dell’orizzonte, così come è già stato per la ‘crisi’ del clima.

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Medio Oriente e Nord Africa FIFA World Cup 2022 in Qatar: i lati oscuri del più importante evento calcistico del mondo

Di Fiorella Spizzuoco

grandi campioni europei.

Da quando, nel 2010, è stato dato l’annuncio che il Qatar avrebbe ospitato la finale della FIFA World Cup 2022, il piccolo paese si è adoperato per promuovere un’immagine di sé impeccabile agli occhi del mondo intero. L’emirato, che ha poco più di due milioni di abitanti e confina con il Bahrain e l’Arabia Saudita, si è sempre dimostrato interessato al calcio europeo. La Qatar Foundation, compagnia del gas fondata dalla famiglia reale dell’Emiro Al Thani, è stata sponsor ufficiale della squadra del Barcellona e lo stesso Malaga ha potuto contare sui generosi fondi del Qatar durante la Champions League del 2013. Insomma, il ricchissimo paese ha cercato di compensare la mancanza di squadre calcistiche nazionali facendo il tifo per i

Nonostante gli sforzi del paese, la scelta della Fédération Internationale de Football Association (FIFA) è stata fortemente criticata su più fronti. La stampa internazionale, organizzazioni non governative per la difesa dei diritti umani ed esperti di sport si sono uniti per chiedere una revisione della decisione, ad oggi ancora non effettuata. Sono infatti la scarsa esperienza in ambito calcistico e la comprovata mancanza di tutela dei diritti umani ad aver fatto circolare voci circa la corruzione di alcuni membri del comitato esecutivo FIFA, specialmente attorno alla figura dell’ex presidente Blatter. A causa di queste supposizioni, molte figure chiave del Comitato hanno rilasciato dichiarazioni alla stampa, nel corso degli anni,

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sostenendo che la decisione di conferire l’organizzazione del torneo al Qatar è stato un “errore sfacciato” di Blatter. In aggiunta, nel 2011, l’allora vice presidente della FIFA, Jack Warner, dichiarò che era stata resa pubblica una email in cui si poteva leggere chiaramente che il Qatar aveva “acquistato” la World Cup 2022 grazie a ingenti tangenti pagate ad alcuni membri del Comitato esecutivo (che avrebbe dovuto votare per scegliere il paese ospitante dei Mondiali in questione), attraverso la figura di Mohammed bin Hammam, allora Presidente della Arab Football League e dello stesso comitato. Le affermazioni contenute nella email, poi andata persa, sono state riprese nel 2014 sia dal Daily Telegraph, sia dal Sunday Times, che dichiararono di aver rinvenuto materiale a testimonianza della


Medio Oriente e Nord Africa corruzione di bin Hammam e di Warner. Entrambi rinnegarono le accuse, così come la FIFA, che attraverso le parole di Scala (allora capo del comitato Audit and Compliance), dichiarò di rifiutare di dar credito a ipotesi non basate su prove schiaccianti. Tuttavia, lo scandalo nato nel 2011 e protrattosi fino al 2014 non ha fermato i lavori preparatori del Mondiale 2022. Nemmeno l’arresto dell’ex presidente UEFA, Michel Platini, (avvenuto lo scorso 18 giugno), o le diverse critiche relative alla possibilità che il torrido clima estivo del Qatar potesse essere nocivo per la salute degli atleti delle squadre. In un primo momento, Blatter rifiutò di credere alle dichiarazioni di alcuni medici dell’ospedale di Doha, preoccupati per le altissime temperature che raggiungono le estati nella regione. Per questa ragione, la World Cup 2022 sarà la prima ad essere giocata in inverno. Ma le organizzazioni per la difesa dei diritti umani non possono dirsi soddisfatte di tale compromesso. E’ infatti la preoccupante tutela dei diritti dei lavoratori impiegati nella costruzione del gigantesco stadio e di tutte le venue disegnate per ospitare le partite del torneo l’elemento più controverso della questione. Human Rights Watch e l’International Trade Union Confederation (ITUC), poco dopo l’elezione del Qatar quale paese ospitante dei Mondiali, hanno sollevato perplessità circa l’adeguatezza degli standard di lavoro per la manodopera migrante che, già in precedenza, si riversava nel ricco emirato. In effetti, nel paese vige il cosiddetto sistema della

Kafala, utilizzato per vigilare sui lavoratori stranieri che raggiungono il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Libano e tanti altri Stati del Golfo e non. Secondo questo sistema, i lavoratori sono obbligati ad avere uno sponsor, un garante, che li guidi nella firma del contratto già nel loro paese di origine, per favorire, teoricamente, un’integrazione efficace e veloce nel mondo del lavoro. In realtà, la Kafala rende i migranti vulnerabili a veri e propri soprusi da parte dei datori di lavoro, che possono confiscare passaporti e imporre loro tasse esorbitanti e orari lavorativi disumani. Nel 2010, Sharan Burrow, allora segretario Generale dell’ITUC, condusse personalmente dei sopralluoghi nei cantieri di Doha e dintorni, dichiarando che i lavoratori migranti vivevano in condizioni terribili di “similschiavitù”, senza alcuna tutela dei bisogni primari o della loro dignità. Nei report realizzati, Burrow e i suoi collaboratori scrissero che se, entro massimo due anni da quella data, il governo del Qatar non avesse fatto nulla per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, le accuse di violazione dei diritti umani sarebbero state più che fondate. In risposta a queste forti accuse, il Comitato Qatar 2022 dichiarò di “impegnarsi per cambiare le condizioni di lavoro, in modo da lasciare un’eredità migliore per il benessere di tutti i lavoratori a venire. Questo non può essere fatto in una notte. Ma sta di certo che i Mondiali 2022 hanno una forza unica per catalizzare un cambiamento positivo in questo campo”. Nel 2014, inoltre, il governo promise di discutere e far approvare leggi a tutela dei lavoratori migranti; tuttavia,

nel 2015 nulla ancora era stato effettivamente fatto. Nonostante alcune riforme siano state approvate, negli ultimi anni si è potuto osservare come il potere dei datori di lavoro continui ad essere indiscusso, con i migranti che lavorano per giornate intere in condizioni di scarsa sicurezza. Alcuni reportage condotti (si noti che, nonostante i lavori di costruzione delle venue è ancora in corso, molto del materiale raccolto si ferma al 2015 ca.), mostrano che la manodopera straniera, in maggioranza proveniente da India e Nepal, vive in veri e propri campi di lavoro, ed è spesso costretta ad accettare salari inferiori a quelli promessi prima dell’arrivo in Qatar (sempre a causa dell’influenza del sistema della Kafala). Quest’ultimo, ufficialmente abolito nel 2016, continua però ad essere praticato in molteplici circostanze; in particolare, nei confronti dei lavoratori nepalesi impiegati per la costruzione degli stadi per la FIFA World Cup 2022, come denunciato da Amnesty International nel 2018. Le ultime notizie provenienti dai cantieri di Doha risalgono al giugno scorso, quando un giornalista dell’emittente televisiva tedesca WDR, Benjamin Best, si è recato personalmente per raccogliere interviste ed immagini dell’attuale situazione dei lavoratori. Ancora molti raccontano di non aver ricevuto pagamenti per gli ultimi mesi di lavoro, di settimane lavorative di 70 ore ciascuna e condizioni di vita ben lontane dai miglioramenti millantati dal Comitato Qatar 2022.

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America Latina e Caraibi Il controllo migratorio nella regione centroamericana: l’accordo Messico-USA evita i dazi ma militarizza le frontiere

Di Marcello Crecco Il fenomeno dell’immigrazione irregolare dall’America Latina verso gli Stati Uniti non è certamente recente e ha origini socioeconomiche profonde. L’America Centrale, in particolare il N ​ orthern Triangle ​(Guatemala, Honduras ed El Salvador), è una delle regioni più povere e violente dell’intero emisfero americano, area d’origine di imponenti flussi migratori, difficilmente gestibili senza una coordinazione internazionale. La crisi migratoria attuale riguarda anche, e soprattutto, Messico e Stati Uniti. Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, in carica dalla fine del 2018, si è trovato di fronte all’arduo compito di gestire un fenomeno 16 • MSOI the Post

tanto complesso quanto delicato, in un momento storico segnato da spinte nazionaliste particolarmente sentite presso il vicino settentrionale: gli Stati Uniti. Le posizioni dell’attuale governo statunitense in materia di immigrazione sono note; in questa occasione, Donald Trump ha dimostrato di considerare i dazi non un’ultima ratio, bensì uno strumento politico con il quale arginare la diplomazia multilaterale e portare la risoluzione delle controversie internazionali su un piano bilaterale, dove gli Stati Uniti possano far valere la propria influenza. L’inquilino della White House ha minacciato più volte l’introduzione di dazi del 5% su tutti i prodotti messicani, fino ad arrivare gradualmente al 25%, se Città del Messico non si fosse impegnata a frenare

drasticamente i corridoi interni usati dai migranti entrati in Messico per giungere alla frontiera statunitense. Proprio facendo leva sulla forte dipendenza dell’economia messicana da quella statunitense, e viceversa, lo scorso 7 giugno Stati Uniti e Messico sono giunti a siglare un importante accordo bilaterale. A fronte della mancata entrata in vigore (per il momento) dei succitati dazi, l’accordo ha previsto il dispiegamento di circa 6.000 agenti della Guardia Nacional messicana al confine meridionale con il Guatemala e di circa 15.000 agenti alla frontiera statunitense per contenere i flussi migratori. Gli Stati Uniti hanno inoltre lanciato il programma Remain in Mexico, che prevede il soggiorno dei richiedenti asilo


America Latina e Caraibi nelle città frontaliere messicane durante l’elaborazione delle loro richieste. Circa 10.000 migranti si trovano al momento in questa situazione di limbo, e spesso sono vittime dei cartelli criminali messicani. Proprio questa situazione di grande insicurezza in Messico è stata essenziale per evitare di essere riconosciuto come paese terzo sicuro, vero nodo cruciale della trattativa. Tale denominazione è legata al principio di non-respingimento contenuto nella Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, e si traduce nella prassi secondo la quale uno stato può negarsi di accogliere un richiedente asilo che non sia arrivato direttamente dal paese d’origine, indicandogli uno stato terzo, da cui questi abbia transitato e che sia in grado di garantirgli gli stessi standard di vita. Il Messico non è però in grado

di garantire condizioni minime di alloggio, assistenza medica, lavoro, istruzione e sicurezza, oltre alla principale garanzia prevista dalla Convenzione: il diritto a non essere rimpatriati nel Paese d’origine. Secondo l’​Instituto Nacional Migración,​ infatti, il Messico nei primi sei mesi del 2019 ha dovuto gestire un flusso migratorio superiore del 232% rispetto all’intero 2018: si tratta di circa 460.000 migranti contro i 138.612 del 2018. Di questi, solo 71.110 sono stati rimpatriati nel primo semestre, ma AMLO ha annunciato di voler aumentare il numero. Il ministro degli Esteri messicano, Marcelo Ebrard, ha spiegato come la tutela della popolazione migrante sia un obiettivo primario del governo e di voler fare il possibile per evitare massacri come quello di San Fernando nel 2010,

dove furono uccisi 72 migranti dall’organizzazione criminale Los Zetas. La militarizzazione delle frontiere intrapresa da López Obrador ha portato a una significativa riduzione dei flussi migratori verso gli Stati Uniti, ma ha di fatto spostato la crisi umanitaria al versante messicano del Rio Grande. L’ultimo capitolo di questo braccio di ferro è andato in scena durante l’ultima Assemblea Generale dell’ONU, dove Donald Trump ha pubblicamente ringraziato AMLO per gli sforzi profusi in materia. D’altro canto, il ministro degli Esteri Ebrard ha ricordato che le politiche coercitive difficilment esono una soluzione efficace ;urge, piuttosto, sradicare le cause che provocano gli esodi.

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America Latina e Caraibi Cuba: 60 anni di migrazioni verso gli Stati Uniti

Di Tommaso Ellena Dalla conquista del potere da parte di Fidel Castro, nel gennaio del 1959, numerosi cubani hanno optato per lasciare il proprio paese: oltre 2 milioni in sessant’anni di governo, l’80% dei quali ha scelto gli Stati Uniti come terra di espatrio. La prima ondata migratoria, che si sviluppò negli anni della rivoluzione cubana, fu quella dei dissidenti politici, contrari agli ideali socialisti propugnati da Fidel quali la redistribuzione dei terreni e la nazionalizzazione delle grandi aziende. A questi, si aggiunsero i funzionari e gli stretti collaboratori del dittatore Fulgencio Batista, salito al potere nel 1952 e poi esiliato in 18 • MSOI the Post

seguito alla vittoria comunista. Secondo il Washington DHS Office of Immigration and Statistics, nei tre anni successivi alla rivoluzione, circa 250.000 cubani abbandonarono l’isola. L’influenza statunitense, impegnata ad indebolire il peso della forza lavoro a disposizione di Castro, fu decisiva nel favorire la spinta migratoria. Tra le mosse che fecero maggiore scalpore si annovera l’Operación Peter Pan, che si sviluppò tra il 1960 e il 1962. Essa ebbe come obiettivo quello di inviare oltre 14.000 bambini cubani negli Stati Uniti, accogliendo le richieste dei loro genitori, preoccupati che i propri figli venissero indottrinati dal sistema scolastico castrista. La stessa chiesa cattolica assunse una posizione forte, schierandosi a favore di questo intervento;

in tal senso, fu fondamentale la gestione del flusso migratorio da parte del sacerdote cattolico Bryan Walsh. La strategica interferenza statunitense ebbe l’effetto di generare una forte pressione mediatica contro la presidenza Castro. La seconda ondata, dal 1965 al 1973, fu caratterizzata dai cosiddetti Vuelos de la libertad (Voli della libertà): un accordo di cooperazione tra Stati Uniti e Cuba permise infatti a molti rifugiati cubani di raggiungere gli USA in modo sicuro e legale. Questa ondata era composta di migranti con alte qualifiche professionali, delusi dalle politiche attuate dal governo e dall’assenza di libertà politiche. Per favorire tale migrazione venne


America Latina e Caraibi creata la Legge di adeguamento cubano, la quale assegnava ai migranti lo status di rifugiati politici, stabilendo, inoltre, che questi potevano ottenere la residenza permanente dopo aver soggiornato per un solo anno negli States. Le autorità statunitensi sostennero questo progetto con un finanziamento notevole. L’obiettivo ufficiale era quello di aiutare coloro che fuggivano dal regime comunista; in realtà, lo scopo principale era quello di indebolire ulteriormente Cuba, sottraendo forza lavoro altamente qualificata al paese baluardo della sinistra legata all’URSS. La terza ondata migratoria avvenne negli anni ’90, in concomitanza con la peggiore crisi economica che dovette affrontare il regime comunista. La causa principale che scatenò tale recessione fu la dissoluzione dell’URSS, alleato fondamentale per Castro. Quest’ultimo, difatti,

faceva totale affidamento sul blocco orientale per resistere a una situazione internazionale già critica a causa dell’embargo commerciale e finanziario nei confronti dell’isola, indetto dal governo degli Stati Uniti nel 1962. La terza ondata migratoria, denominata crisis de los balseros (crisi dei barconi), raggiunse il suo apice nel 1994: nell’arco di pochi mesi, più di 35.000 cittadini cubani raggiunsero via mare le coste statunitensi. In anni recenti, con l’inizio del processo di pacificazione voluto dall’ex presidente statunitense Barack Obama, l’emigrazione cubana ha raggiunto picchi elevati, con quasi 70.000 migranti che hanno raggiunto gli USA tra 2015 e 2016, spinti dal nuovo clima politico instauratosi tra i due paesi. Atto fondamentale nel promuovere un così elevato numero di migrazioni legali è stato, ad inizio 2013,

l’eliminazione della cosiddetta tarjeta blanca, un permesso speciale prima rilasciato ai cittadini cubani che volevano lasciare l’isola. Oggi, infatti. per poter viaggiare all’estero è sufficiente possedere un passaporto. Questa decisione delMinisteriodeRelacionesExteriores ha ridotto notevolmente il costo dei viaggi e reso più flessibili i regolamenti in materia di politiche migratorie. Con l’ascesa di Donald Trump alla presidenza, però, il citato processo di pacificazione ha subito una brusca frenata: se, da un lato, il blocco economico tutt’oggi presente sta rallentando la crescita cubana, dall’altro lato si sta assistendo ad un inasprimento delle stesse politiche migratorie statunitensi. Spetterà dunque al nuovo presidente Miguel DíazCanel il compito di migliorare la situazione economica dell’isola, così da ridurre l’emigrazione e la conseguente perdita di capitale umano.

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Asia Orientale e Oceania Escalation di violenza durante la diciassettesima settimana di manifestazioni ad Hong Kong

Di Lara Kopp Isaia Tutto è iniziato a fine marzo, quando il capo esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, ha proposto un emendamento sulla legge sull’estradizione. Ad Hong Kong sono attualmente in vigore leggi sull’estradizione basate su accordi bilaterali con oltre venti paesi, tra i quali non rientra la Cina. La proposta di legge renderebbe possibile l’estradizione verso la Cina per determinati reati e l’applicazione delle pene previste dalla legge cinese. Questa legge ha sollevato le preoccupazioni dei cittadini, poiché essi temono che le richieste di estradizione verso la Cina violino i diritti umani e che possano essere usate come pretesto per raggiungere i dissidenti politici fuggiti a Hong Kong dal territorio cinese. Da oltre sedici settimane i cittadini di Hong Kong continuano a manifestare a sostegno della democrazia e della loro libertà e contro 20 • MSOI the Post

Pechino, che cerca di imporsi e di controllare sempre di più il governo locale. Nel mese di giugno scorso, le manifestazioni si sono moltiplicate, sino a portare quasi un milione di persone in piazza il 9 giugno. Le richieste dei manifestanti sono cinque: ritiro completo della legge sulle estradizioni verso la Cina; ritiro della definizione di “sommosse” per le proteste; rilascio delle persone arrestate durante le manifestazioni; inchiesta indipendente sulle azioni della polizia dimissioni della governatrice Lam; l’introduzione del suffragio universale.

sulla sicurezza nazionale, che avrebbe introdotto reati come il tradimento. Nel 2012, grazie ad un movimento studentesco non è passato il tentativo, da parte di Pechino, d’imporre un programma scolastico “patriottico”, ritenuto un mezzo di propaganda. Nel corso degli anni, gli episodi di censura, controllo e minaccia alla libertà sono diventati sempre più frequenti: nel 2016 un gruppo di attivisti eletti per delle cariche pubbliche sono stati dichiarati non idonei poiché si sono rifiutati di giurare lealtà alla Cina utilizzando espressioni offensive.

Non è la prima volta che gli abitanti di Hong Kong scendono in piazza per rivendicare i propri diritti e per la difesa della formula “un paese due sistemi” , in nome della quale, nel 1997, la Cina aveva promesso ad Hong Kong che avrebbe beneficiato di uno statuto d’autonomia fino al 2047. Nel 2003, centinaia di migliaia di manifestanti sono riusciti a bloccare una legge

Le paure e le preoccupazioni dei cittadini di perdere libertà e diritti si sono concretizzate con la legge sull’estradizione, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il movimento di protesta che stanno portando avanti i dimostranti, a differenza dei precedenti, prende di mira direttamente Pechino. Alle radici di queste proteste e del movimento, c’è il cambiamento


Asia Orientale e Oceania d’identità di Hong Kong, ex colonia britannica, avvenuto a seguito del sopracitato accordo firmato nel 1997 tra Inghilterra e Cina a proposito del destino del territorio in questione. Agli occhi dei cittadini della regione amministrativa speciale si prospetta un futuro con una Cina sempre più autoritaria, che soffocherà tutti i diritti di cui godono attualmente. Tra i vari mezzi messi in campo dai manifestanti, l’arte si è rivelata un’arma in più. Come gli artisti del Gruppo Trio durante l’assedio di Sarajevo, i quali ridisegnavano in chiave ironica i loghi più celebri per richiamare l’attenzione del mondo su ciò che stava succedendo in Bosnia, anche ad Hong Kong nel corso dei mesi sono stati creati slogan e poster artistici ironici e combattivi, al fine di attirare l’attenzione, il supporto dei paesi occidentali e dei media internazionali. Uno degli slogan delle proteste più celebri è stato “Be water!” (sii come l’acqua), espressione che invita alla flessibilità e alla creatività. Oltre a quelli, i imanifestanti realizzano graffit quali “Liberate Hong Kong, Revolution of our Times”, “I can lose my future, but HK must not”, in riferimento ai simboli della protesta. Di fronte alle proteste, Pechino ha inizialmente scelto di oscurare le notizie tramite la censura delle stesse, per poi mettere in atto un processo di disinformazione, tramite immagini e testi manipolati per far apparire i manifestanti come violenti e minacciosi. Il più alto funzionario cinese ad Hong Kong, Yang Guang, ha parlato di ‘terrorismo’. Qualora i disordini dovessero intensificarsi, il governo locale

potrebbe chiedere l’aiuto dell’esercito per “mantenere l’ordine pubblico”: i soldati cinesi presenti sull’isola sono oltre 10.000. Proprio nel mese di luglio, le proteste sono diventate più violente. Molteplici scontri con la polizia hanno provocato gravi feriti; una donna rischia di perdere un occhio dopo essere stata colpita da un proiettile di gomma. Un rapporto di Amnesty International ha denunciato l’uso estremo di violenza da parte della polizia. Nicholas Bequelin, responsabile di Amnesty International per l’Asia orientale, ha dichiarato che “le testimonianze lasciano poco spazio al dubbio. Gli agenti hanno ripetutamente usato la violenza prima e durante gli arresti, anche quando l’individuo era stato immobilizzato. L’uso della forza è stato pertanto chiaramente eccessivo e ha violato il diritto internazionale in materia di diritti umani”. Stando al rapporto, decine di persone sono state picchiate anche dopo essere state immobilizzate e ammanettate. Un dimostrante ha dichiarato di essere stato malmenato e minacciato per non avere collaborato durante un interrogatorio: “Sentivo il dolore nelle mie ossa e non potevo respirare. Ho provato a gridare ma non potevo ne’ parlare né respirare”. Il 1° ottobre, mentre la Cina festeggiava i 70 anni della Repubblica Cinese Popolare e a Pechino si svolgeva la più grande parata militare mai organizzata con 15.000 soldati, 500 mezzi militari e 160 aerei, ad Hong Kong 100.000 persone sono tornate a manifestare per la democrazia con i propri ombrelli, divenuti uno dei

simboli della protesta, utilizzati come scudo per proteggersi da fumogeni e lacrimogeni. In un’escalation di tensione e violenza, la polizia ha usato il pugno di ferro. Per la prima volta dall’inizio delle proteste, è stato sparato un colpo ad altezza uomo che ha gravemente ferito nella parte sinistra del petto un giovane manifestante di 18 anni, attualmente in condizioni critiche. A seguito di questo episodio, il direttore di Amnesty International di Hong Kong, Man-Kei Tam, ha dichiarato che “il ferimento grave di un manifestante rappresenta un allarmante sviluppo nella risposta alle proteste da parte della polizia di Hong Kong. Le autorità devono avviare un’indagine immediata”. In molte parti del corteo sono stati lanciati fumogeni, lacrimogeni, scontri con la polizia, feriti e arresti. Durante la cerimonia a Pechino, il presidente Xi Jinping ha pronunciato il discorso ufficiale, durante il quale ha affermato che “nessuna forza può neanche scuotere lo stato della Cina o fermare il popolo e la nazione cinesi dal marciare in avanti”. Mentre il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si è congratulato con Xi per il 70o anniversario della Repubblica Popolare, ad Hong Kong proseguivano le manifestazioni per la democrazia. In questa circostanza, l’attivista Lee Cheuk-yan ha dichiarato: “oggi scendiamo in piazza per dire al Partito Comunista che la gente di Hong Kong non ha nulla da festeggiare. Siamo in lutto perché in 70 anni di governo del Partito Comunista, i diritti democratici dei cittadini di Hong Kong e della Cina sono stati negati. Continueremo a combattere!”.

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Asia Orientale e Oceania Migrazione nella migrazione: la regionalizzazione australiana

di Rebecca Carbone Alla fine del maggio scorso, il Governo australiano ha confermato la volontà di apportare sostanziali riforme ad alcune vecchie tipologie di visti e di negoziare accordi migratori in aree designate, designated area migration agreement (DAMA), per incentivare la popolazione a migrare nelle zone periferiche della nazione. Tali riforme entreranno effettivamente in vigore il prossimo 16 novembre, con la sostituzione di due tipologie già esistenti e l’introduzione di un nuovo e vantaggioso visto per la residenza permanente. L’Australia si avvale ormai da tempo di un sistema selettivo 22 • MSOI the Post

di immigrazione basato sull’acquisizione di punti in determinate categorie. Fu introdotto alla fine degli anni ‘90 per incrementare le risorse intellettuali dello Stato e ridurre la opprimente forbice lavorativa. I punti vengono assegnati agli aspiranti migranti, considerando le caratteristiche più o meno desiderabili dalla nazione, quali l’età, il livello di educazione, le esperienze lavorative e linguistiche e, ovviamente, il livello di inglese. I soggetti che acquisiscono più punti sono invitati dal Governo stesso a fare domanda per un visto, senza il bisogno di avere già un’offerta di lavoro sul territorio. Ogni anno l’Australia fissa un tetto massimo di possibili accoglienze. Nell’ultimo anno,

questo è passato da 190.000 a 160.000 posti, concessi con un visto permanente. La scelta è stata dettata dalla necessità di arginare l’esponenziale crescita che sta interessando città come Sydney, Melbourne e Canberra, senza adeguati mezzi per far fronte all’aumento della densità della popolazione. Le riforme saranno efficaci dal prossimo mese e rappresenteranno il rimedio legislativo alla congestione urbana che il paese si trova ad affrontare. Ad essere modificati e sostituiti saranno i visti di tipologia 489 e 187, rispettivamente dai visti lavorativi sottoclasse 491 e 494. Il primo dei due visti prevede 14.000 posti disponibili annuali. Per ottenerlo bisogna


Asia Orientale e Oceania essere nominati dal Governo stesso, con il metodo dei punti spiegato precedentemente, o essere sponsorizzati da un familiare che vive nella zona regionale designata. Il secondo invece, esige maggiori requisiti e consta di solo 9.000 posti. Il soggetto richiedente deve essere sponsorizzato da un datore di lavoro con un’offerta di impiego di almeno cinque anni consecutivi. In più, sono richiesti almeno tre anni di esperienze lavorative e un buonissimo livello di inglese. Per poter ottenere entrambi l’età limite è 45 anni. Visti regionali di questo genere già esistevano precedentemente, ma la vera novità risiede nella possibilità di fare domanda per un visto permanente dopo aver posseduto per tre anni queste due tipologie di visto. Un’opportunità molto vantaggiosa, se confrontata con le normali modalità di accesso ad un visto permanente basate sulla necessaria presenza di un parente australiano o sull’avvio di un’impresa. Un’altra modifica volta a incentivare gli studenti internazionali ad iscriversi e a frequentare le università nelle aree regionali, oltre che nelle affollate metropoli, prevede l’estensione del visto studentesco di un anno dalla fine degli studi, per godere di diritti lavorativi post-laurea. A comunicare la notizia di queste riforme è stato il ministro australiano per le Infrastrutture, Alan Tudge, sottolineando le positività di questa iniziativa alla luce dei successi di una politica migratoria simile in Canada: “Questo programma è l’esempio di un rapporto ascendente alla migrazione”. Sostenendo questa tesi, il Ministro non ha mancato di menzionare i dati concreti

che il paese nordamericano è riuscito a raggiungere: prima della riforma degli anni ‘90, solo il 10% dei migranti in Canada si stabiliva al di fuori delle città principali; ad oggi, la percentuale è salita al 34%. Al contrario, in Australia solo il 14% di 1 milione e mezzo di migranti si è stabilito nelle regioni rurali. Per questo motivo lo Stato aspira ad ottenere un livello di integrazione simile a quello canadese, attraverso programmi di supporto, una rete comunitaria e centri per l’impiego. Il Canada non è l’unico paeseesempio che l’Australia mira a emulare. Infatti, nel suo discorso, Alan Tudge ha fatto riferimento anche a Germania e Francia per i modelli di infrastrutture che sono riusciti a costruire, aggiungendo: “Un ulteriore passo è quello di realizzare connessioni ferroviarie rapide tra le grandi capitali e i centri regionali che le circondano”. Inoltre, il ministro mira a creare maggiore collaborazione tra lo Stato e le regioni, che sono le prime responsabili dell’equilibrio tra trasporti, concessioni abitative e fornitura di servizi in funzione di un miglioramento dello sviluppo demografico. Alcuni esperti in migrazione hanno accolto positivamente le nuove modifiche, ma hanno sottolineato come alcuni precedenti tentativi di incentivare la popolazione a stabilirsi in aree non urbane siano falliti nel lungo termine poiché, terminato il periodo obbligatorio di permanenza di tre anni, le persone tendono a tornare nelle città. In contrapposizione a questa considerazione, il ministro Tudge ha affermato: “Nonostante non vi sia nessuna costrizione nel rimanere nelle

province, l’evidenza dimostra che la maggior parte decide di rimanere dove si è costruita la propria vita”. Inoltre, egli ha aggiunto che l’ambizione di questo progetto è di collegare le principali città-satellite con Brisbane e Sydney entro 20 anni, citando uno studio che suggerisce come, entro il 2050, un milione di persone vivrà nella regione periferica di Victoria, collegata da treni ad alta velocità con Melbourne. Nonostante abbia un tetto massimo di richieste da accettare, il sistema australiano si pone in maniera molto flessibile nei confronti dei migranti, permettendo loro di acquisire punti non solo per le loro esperienze lavorative precedenti, ma anche attraverso l’impulso del governo o di un familiare. In altri stati, il Regno Unito ad esempio, ciò non è possibile: per poter ottenere un visto è necessario ricevere già un’offerta di lavoro in loco. Ciononostante, ultimamente i programmi post-Brexit del Regno Unito mirano a instaurare una politica migratoria simile al paese oceanico, con i politici britannici pro-separazione che si riferiscono all’Australia senza considerare come le scelte australiane siano molto più aperte di quelle inglesi. In Australia, difatti, un coniuge può far immigrare l’altro senza bisogno di un minimo salariale annuo e vi è un piano di accoglienza per rifugiati di regioni in conflitto dieci volte più grande di quello anglosassone. Ad oggi, l’Australia conta più del 30% della sua popolazione nata oltreoceano; presto potrebbe incrementare questa percentuale con l’obiettivo di sviluppare le proprie periferie.

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Economia e Finanza Firmato l’accordo Tokyo - Bruxelles: ecco l’alternativa alla nuova Via della Seta

Di Alberto Mirimin Unione Europea e Giappone sono sempre meno distanti. Lo scorso 27 settembre, infatti, nell’ambito del Forum europeo per la connettività di Bruxelles, il presidente uscente della Commissione europea, JeanClaude Juncker, e il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, hanno congiuntamente annunciato la stipula di un accordo. Basato su 10 punti strategici, esso si pone l’obiettivo di costruire una rete di infrastrutture comuni che, partendo dalla regione Indo-pacifica, possa arrivare all’Africa, attraversando i Balcani occidentali. Questo accordo, in realtà, altro non è che un ulteriore passo in avanti nei rapporti fra UE e Giappone. Infatti, già nel luglio del 2018 le due potenze hanno siglato a Tokyo un Partenariato 24 • MSOI the Post

strategico che, attraverso alcuni cruciali interventi, ha dato il via a una nuova stagione commerciale euro-asiatica. Ad esempio, l’accordo ha previsto la rimozione di gran parte dei dazi fissati sulle esportazioni, l’apertura del mercato agricolo europeo e il futuro avvio del progetto PNR (Passenger Name Record), ossia un piano per la sicurezza internazionale basato sul trasferimento dei dati dei passeggeri e finalizzato alla lotta al terrorismo. L’accordo siglato la scorsa settimana non mira solamente al raggiungimento di una connettività sostenibile legata ai trasporti, ma guarda anche all’implementazione del settore digitale, nonché alla costruzione di grandi opere. Sul piano economico, tuttavia, il progetto porta con sé un certo grado di rischio. Se è vero, infatti, che sono già stati stanziati per la sua realizzazione circa 60

miliardi di euro ripartiti tra fondi europei, banche per lo sviluppo e investitori privati, la reale speranza, nemmeno troppo velata, è che tale somma possa innescare un significativo effetto leva sugli investimenti privati, potenzialmente capace a quel punto di mobilitare una liquidità ancor più rilevante. C’è un fattore, però, che avvalora ancor più la rilevanza del recente accordo euronipponico. Il progetto si pone più o meno esplicitamente come un’alternativa alla Belt and Road Initiative della Cina, il celebre e mastodontico progetto infrastrutturale lanciato dal presidente Xi Jinping nel 2013, mediante cui si mira alla creazione di una fitta rete di rotte commerciali terrestri e marittime, finalizzate alla connessione delle due estremità dell’Eurasia, Cina ed Europa. Per dare un’idea della


Economia e Finanza euro-nipponica vengono esplicitamente promossi “investimenti e commercio internazionale e regionale liberi, aperti, basati sulle regole, non discriminatori e prevedibili” basati su “pratiche di appalto trasparenti” e caratterizzati dai “più alti standard di sostenibilità economica, fiscale, finanziaria, sociale e ambientale”.

grandezza del progetto basti pensare che esso prevede un finanziamento pari a circa 1000 miliardi dollari e coinvolge 120 paesi. In realtà l’UE, fino ad ora, non iha assunto posizioni ufficial nei confronti della BRI, tanto che i suoi membri hanno adottato politiche differenti nei confronti dell’iniziativa. Se Francia, Olanda e Germania non hanno espresso pareri positivi sulla Nuova Via della Seta, altri Paesi come Italia, Portogallo, Grecia e Ungheria hanno invece già siglato alcuni documenti ufficiali con Xi Jinping. Tuttavia, l’annuncio dell’accordo con il Giappone si è anche rivelato quale occasione per Juncker di parlare indirettamente ai massimi dirigenti del governo cinese. Il Presidente della Commissione Europea ha infatti messo in luce che l’obiettivo è quello di “creare interconessioni tra tutti i Paesi del mondo e non meramente dipendenza da un singolo Paese”. Il principale timore europeo risiede nel fatto che Pechino, mediante la propria iniziativa, possa puntare al monopolio sulle infrastrutture per la connettività tra Asia, Africa

e Europa, riducendo i partner coinvolti a pedine della propria egemonia. Questo discorso si ricollega ad una delle principali controversie di cui la BRI viene generalmente accusata dall’opinione pubblica, ossia la cosiddetta ‘trappola del debito pubblico’. Essa consiste nell’obbligo di consegnare la proprietà delle infrastrutture pubbliche al governo cinese nel caso in cui non vengano saldate le rate di pagamento dei prestiti elargiti dalla stessa Cina. Chiaramente, essendo parte integrante del progetto, in molti Paesi in via di sviluppo con economie deboli e caratterizzate da una scarsa stabilità, la situazione si è già presentata in numerose circostanze. Ne è un esempio lo Sri Lanka, il cui governo, dopo essersi dimostrato insolvente in merito ai lavori di costruzione del porto di Hambantota, si è visto confiscare le operazioni per 99 anni da parte della società cinese che li ha realizzati, perdendo dunque il controllo sull’infrastruttura stessa. A tal proposito e per quanto concerne la mancata trasparenza additata alla Nuova Via della Seta, nel testo della partnership

Juncker e Abe, infine, hanno voluto dare un’ultima stoccata a Xi Jinping, convenendo sul fatto che la cooperazione che sempre più va sedimentandosi fra Ue e Giappone sia il naturale riflesso di ideali condivisi e di un comune impegno verso il perseguimento di valori come la democrazia, lo stato di diritto, la libertà e la dignità umana. In conclusione, sebbene l’Unione Europea non abbia ufficializzato alcuna posizione in merito all’imperiale progetto cinese, l’accordo rappresenta un passaggio chiave della partita geopolitica mondiale e un chiaro messaggio a Pechino. Nonostante le due iniziative asiatiche abbiano al momento budget ben differenti, il programma di sviluppo giapponese potrebbe incontrare significativi favori sul proprio percorso, fra cui quello ovviamente non trascurabile degli Stati Uniti. Con ogni probabilità, infatti, Trump non è affatto intenzionato a favorire un’iniziativa che avrebbe come risultato il rafforzamento dell’unico serio avversario egemonico attualmente presente sullo scacchiere internazionale. Il progetto cinese è indubbiamente ben avviato e in una posizione preminente, ma l’alternativa ora esiste. La sfida è lanciata.

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Economia e Finanza Immigrati e pensioni: costi o benefici per lo stato ricevente?

Di Rosalia Mazza Il tema del contributo dei migranti alle economie delle nazioni riceventi è ricorrente e motivo di disputa. Un recente articolo pubblicato su Marketplace, relativo alle pensioni, calcola che se gli immigrati irregolari fossero espulsi dagli Stati Uniti ci sarebbero 13 miliardi in meno nelle casse dello stato. In questo caso, si fa riferimento agli irregolari: utilizzando spesso credenziali false per ottenere assegni che coprano i loro stipendi e dai quali vengono trattenuti il 12% delle tasse, essi contribuiscono agli introiti fiscali 26 • MSOI the Post

statali. Essendo infatti pochi gli stati con l’obbligo di controllo degli impiegati da parte del datore di lavoro, il risultato è che i contributi previdenziali non corrispondono ai benefici di cui quegli immigrati usufruiranno, proprio perché irregolari. Secondo quanto riportato dall’agenzia, in questo modo prevale un sistema in cui ciò che importa davvero è il pagamento delle tasse. Dunque, regolari o meno, i lavoratori stranieri influiscono positivamente sul sistema pensionistico. In Italia l’argomento tende a prendere in considerazione solo

gli immigrati regolari, sui quali si possono ottenere dati piuttosto certi. Il tema è stato trattato più volte dall’ex presidente dell’INPS Tito Boeri: il contributo di questi lavoratori si rivela fondamentale soprattutto perché, data la loro età, essi contribuiscono alle pensioni nazionali più di quanto sia loro necessario prelevare per coprire esclusivamente le proprie. Non poche sono state le polemiche, soprattutto tra il professor Boeri e Alberto Brambilla, presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. I documenti che riassumono tale polemica sono il XVI Rapporto annuale dell’INPS


Economia e Finanza e l’approfondimento del 2018 “I dati sull’immigrazione: verità scientifiche o teoremi?” pubblicato dal Centro. Il rapporto annuale dell’INPS pubblicato nel 2017, nella Parte III del documento, analizza il mondo dei lavoratori immigrati e, soprattutto, il loro contributo al sistema previdenziale: “[…] si fornisce una valutazione del contributo netto dei lavoratori con cittadinanza straniera al sistema previdenziale italiano. I risultati mostrano che ad oggi questo contributo è positivo: pari a 36,5 miliardi di euro che si eleva a 46 miliardi di euro se si tenesse conto delle caratteristiche biometriche specifiche della popolazione straniera assicurata all’Inps”. Il contributo previdenziale è aumentato soprattutto in seguito alla sanatoria del 2002 – con criteri meno stringenti rispetto all’ultima sanatoria del 2012, e per questo più efficace nel suo scopo – volta a permettere un’effettiva emersione del lavoro. Il punto centrale di questo documento, così come le osservazioni del professor Boeri, si basano sul fatto che gli immigrati siano più giovani rispetto alla popolazione media italiana e siano anche più resistenti nel mondo del lavoro. Sarebbero infatti più mobili rispetto ai lavoratori autoctoni – dal 2002 al 2006 solo il 50% dei lavoratori migranti risultava nella stessa provincia – e più flessibili – sono difatti più propensi ad accettare lavori al di fuori delle proprie competenze specifiche, soprattutto per mantenere il permesso di soggiorno. Dal Rapporto risulta che le imprese italiane traggono beneficio dalla presenza di lavoratori immigrati regolarizzati,

esattamente come ne beneficia il sistema previdenziale. L’approfondimento stilato da Alberto Brambilla e Natale Forlani considera, invece, che i risultati ottenuti dall’INPS siano sovrastimati: “La differenza tra versamenti e potenziali prestazioni maturate, 36,5 miliardi, secondo la valutazione dei ricercatori INPS, andrebbe considerata come una sorta di contributo netto a favore delle casse INPS devoluto dagli immigrati. L’ipotesi è affascinante ma si presta ad alcune obiezioni sia per il calcolo delle entrate sia per quello delle future prestazioni”. Il calcolo effettuato dall’INPS non terrebbe dunque conto delle uscite per pagare le prestazioni previdenziali di cui usufruirebbero i migranti, sopravvalutando pertanto le entrate. L’approfondimento pubblicato dal Centro non terrebbe però in conto il principio dell’invecchiamento demografico e la differenza tra la quantità di italiani e la quantità di immigrati che usufruiscono del sistema retributivo. Secondo un articolo pubblicato da Enrico Di Pasquale e Chiara Tronchin – ricercatori della Fondazione Leone Moressa – e da Andrea Stuppini – dirigente della Regione Emilia-Romagna, ripreso da Il Sole 24 ore, “solo allo 0,3% degli stranieri si applica il metodo di calcolo retributivo, che riguarda, invece, l’85% delle pensioni oggi in pagamento per i nativi”. Il metodo retributivo, in vigore per coloro che avevano accumulato almeno 18 anni di contributi entro il 31 dicembre 1995 e con anzianità contributive maturate fino al 31 dicembre 2011, considera solo

le retribuzioni degli ultimi anni lavorativi del pensionato. Viceversa, il metodo contributivo tiene conto dell’intera vita lavorativa. Una pensione calcolata con il primo metodo è più alta, poiché sono gli ultimi anni lavorativi quelli in cui un lavoratore guadagna di più (per gli scatti di anzianità, per esempio). Tali dati non possono non essere presi in considerazione, soprattutto in seguito all’entrata in vigore della cosiddetta Quota 100, che resterà in vigore almeno fino al 2021 e dalla quale prende le distanze anche il dottor Brambilla, sebbene sia stato uno dei consulenti della Lega in materia previdenziale. La maggior parte di coloro che andranno in pensione in questi anni, infatti, avranno un calcolo della pensione misto ma prevalentemente retributivo: ci potranno andare anticipatamente mantenendo comunque una pensione più elevata. Tale misura è dunque poco equa – perché fornisce condizioni più vantaggiose solo a parte della popolazione e i criteri necessari sono validi solo per un limitato periodo di tempo – ed estremamente costosa per lo stato, sia perché permette di avere pensioni più alte rispetto a quelle che sarebbero state calcolate normalmente, sia perché non ha avuto l’effetto sperato sul ricambio generazionale lavorativo. Ergo, la manovra, associata a restrizioni sugli ingressi dei migranti e all’assenza di politiche volte a favorire l’emersione e la regolarizzazione dei lavoratori immigrati, non può certo favorire il nostro sistema pensionistico, né le casse statali.

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Europa Orientale e Asia Centrale La tratta orientale dei migranti

Di Lucrezia Petricca Il 26 settembre le Nazioni Unite sono intervenute in tema di migrazione, manifestando una forte preoccupazione nei confronti della Bosnia. La nazione è stata invitata, in particolare, a riconsiderare la collocazione dei migranti e a non costringere gli stessi ad abitare in zone insicure. Circa 800 migranti vivono infatti a Vučjak, località situata a 5 km da Bihac, al confine con la Croazia. La forte angoscia delle Nazioni Unite è dovuta al fatto che il campo profughi è stato installato in una ex discarica, dismessa qualche anno fa, e che, di conseguenza, le condizioni igienico-sanitarie siano assolutamente scarse e nocive per la salute. Il campo di Vučjak è uno dei tanti campi profughi bosniaci non ufficiali, l’unico a non essere gestito dall’Organizzazione 28 • MSOI the Post

Internazionale per la Migrazione, ma dalla Croce Rossa di Bihac, che fornisce assistenza agli stessi migranti. Tenendo conto dell’inadeguata condizione in cui versano i migranti, sorge spontaneo chiedersi quale sia la ragione dell’esistenza di un campo come quello di Vučjak. La causa andrebbe ricercata nella crisi politica interna alla stessa Bosnia, retaggio forse degli accordi di Dayton, siglati nel 1995 per porre fine al conflitto bosniaco. Tali accordi hanno riconosciuto e previsto l’esistenza di due entità: la Federazione Croato-Musulmana, suddivisa in 10 cantoni, e la Repubblica Serba. Secondo il Relatore speciale ONU sui diritti umani dei migranti, tali accordi hanno pregiudicato la gestione dei migranti da parte della Bosnia proprio perché hanno permesso una “divisione etnica e amministrativa”. È stato infatti uno dei cantoni, Una-Sana, a volere il campo

profughi a Vučjak, accusando il Governo centrale di non aver fornito alcun aiuto in materia di gestione dei migranti. Il campo profughi di Vucjak costituisce una tappa della cosiddetta ‘rotta balcanica’ verso l’Europa. Nota anche come rotta del Mediterraneo orientale, rappresenta la tratta percorsa dai migranti, provenienti per lo più dal Medio Oriente, attraverso i Balcani. La rotta balcanica costituisce una delle principali vie di accesso in Europa sin dagli anni ‘90, quando, in seguito alla caduta del muro di Berlino, i cittadini di Albania e Kosovo sono emigrati principalmente in Germania e Italia, per sfuggire alla crisi politica ed economica che dilagava nei loro paesi. Nel 1991 si è verificato “il primo grande esodo” dall’Albania: circa 20.000 migranti sono sbarcati nei porti di Bari e Brindisi, con la speranza di


Europa Orientale e Asia Centrale beneficiare di condizioni di vita migliori. Soltanto a partire dal 2012, le migrazioni sono divenute sempre più massicce, poiché un numero considerevole di migranti, sempre di origine balcanica, ha potuto accedere in Unione Europea senza dover richiedere un visto. Considerando il periodo che va dal 2012 al 2014, le stime parlano di un aumento di circa 90.000 migranti: i dati Frontex riferiscono che, nel 2012, hanno percorso la rotta quasi 6.400 migranti, nel 2013 quasi 20.000, mentre nel 2014 oltre 40.000. Il 2015 è stato l’anno in cui si è registrato il picco del flusso migratorio: ad attraversare la rotta balcanica sono stati infatti circa 800.000 migranti provenienti dal Medio Oriente, ‘soltanto’ 500.000 in autunno. Il dato interessante e degno di nota è il cambiamento della provenienza etnica dei migranti: negli ultimi periodi coloro che tentano di arrivare in Europa attraverso la rotta sono di origine siriana e mediorientale. Si tratta di persone che fuggono da paesi afflitti dalla guerra, come Siria, Afghanistan, Iraq ed il Corno d’Africa, e che cercano rifugio in Europa. Oltre ad interessare l’area balcanica, la tratta vede coinvolte la Turchia e la Grecia, che costituiscono i primi paesi attraversati dai migranti. Partendo dalle coste della Turchia, i migranti sbarcano sulle isole greche di Kos, Lesbo e Samo, dove vengono sistemati nei centri di accoglienza, in attesa di riprendere il loro cammino. Molte ONG, come Oxfam e Medici Senza Frontiere, però, ultimamente hanno denunciato la carenza di assistenza

medica e le violenze a cui sono esposti i migranti negli stessi centri, facendo appello ad un intervento da parte dell’Unione Europea. Dopo le isole greche, i migranti proseguono il loro cammino per giungere al porto del Pireo: da qui, alcuni si dirigono in Macedonia del Nord, altri scelgono di avviarsi verso Salonicco per poi raggiungere il campo profughi macedone di Gevgelija, gestito dall’UNHCR. La traversata della Macedonia del Nord costituisce una tappa fondamentale della rotta balcanica, dalla quale i migranti riescono ad arrivare a Presevo, in Serbia, e poi in Ungheria, primo paese dell’Unione. Diverse sono state le reazioni dei paesi e delle popolazioni innanzi a un flusso migratorio che ha raggiunto il suo picco nel 2015. A dispetto di un generale atteggiamento di accoglienza da parte della popolazione, le condotte dei governi si sono dimostrate a volte più restrittive e orientate a logiche emergenziali. In tal senso, nel 2017, la Slovenia, l’Austria e l’Ungheria hanno preso alcune misure volte a impedire l’ingresso nel paese nei casi in cui venisse messo in pericolo l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato. In particolare, il provvedimento preso in Slovenia, di durata semestrale e prorogabile, conferiva alla polizia il potere di respingere i migranti, anche se richiedenti asilo. La norma, definita dal ministro dell’interno Vesna Györkös Žnidar “urgente e adeguata”, doveva essere approvata dalla maggioranza dei due terzi del parlamento, su proposta del governo.

L’intervento dell’Unione Europea è giunto nel 2016, con l’intento di fermare le migrazioni irregolari e bloccare il modello dei trafficanti i di esseri uman . L’accordo UE-Turchia prevede, fra i vari punti, il respingimento dei migranti in Turchia, se questi non fanno domanda d’asilo in Grecia. La condizione principale dell’accordo è il versamento di 3 miliardi di euro a favore della Turchia, da utilizzare per gestire i centri di accoglienza. Primo effetto di questo accordo è stato la chiusura della rotta balcanica. Secondariamente, le richieste di asilo in Grecia sono triplicate: nel 2018 a Lesbo sono pervenute oltre 17.000 domande. Per di più, sono state avviate numerose inchieste al fine di verificare la trasparenza sull’utilizzo dei fondi perché, di fatto, i migranti sono rimasti bloccati nei centri di accoglienza delle isole greche, in condizioni precarie e disumane, proprio a causa della lentezza delle procedure. Inoltre, urge considerare che l’accordo non ha di fatto fermato il flusso migratorio; da circa un paio d’anni, infatti, si è iniziato a parlare di ‘nuova rotta balcanica’. Rispetto al 2015, il cammino percorso risulta essere diverso e rivolto più ad ovest. I paesi attraversati dalla nuova rotta balcanica e maggiormente coinvolti sono la Bosnia e la Croazia, luoghi in cui spesso i diritti umani vengono calpestati e in cui si osservano continue e ripetute violenze sui migranti. Lo stesso avviene, ad esempio, nello stesso campo di Vucjak. MSOI the Post • 29


Europa Orientale e Asia Centrale La formula Steinmeier applicata ai territori del Donbas: cos’è, come funziona e quali sono i rischi

Di Mariasole Forlani Dopo un lungo periodo di silenzio sulla questione ucraina, all’inizio di ottobre i media russi e occidentali hanno riportato una notizia relativa al raggiungimento di un parziale accordo rispetto ai contesi territori del Donbas. L’intesa riguarderebbe la cosiddetta formula Steinmeier, già parte degli Accordi di Minsk. Tali accordi sono stati conclusi nel 2015, durante la fase più acuta del conflitto tra Ucraina e Russia per il controllo dei territori orientali del Donbas, ancora oggi formalmente sotto la sovranità ucraina. Gli accordi, favoriti da Francia e Germania ed inizialmente accolti con grande favore dalle cancellerie di tutta Europa, non hanno purtroppo portato ai risultati sperati nei successivi quattro anni, dimostrando in seguito la loro fragilità. Nel luglio del 2019 la presidenza è passata a Volodymyr Zelensky, una figura del tutto nuova nel panorama politico 30 • MSOI the Post

ucraino. Questi ha fatto del problema del Donbas uno degli elementi centrali della propria campagna elettorale. E’ forse proprio questa ragione che ha spinto il neo eletto Presidente ad accettare di riavviare il dialogo con la Federazione Russa, aprendo alla possibilità di implementare parte degli accordi conclusi quattro anni fa; la formula Steinmeier, appunto. Detta formula, dal nome dall’attuale Presidente della Repubblica Federale Tedesca, che nel 2015 ricopriva l’incarico di Ministro degli Affari Esteri, riguarda lo status giuridico da attribuire ai territori orientali dell’Ucraina. Essa prevede libere elezioni nel Donbas, regolate dalla Costituzione ucraina e supervisionate dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). In particolare, il compito di quest’ultima sarà quello di vegliare sulla correttezza e sulla trasparenza delle procedure di voto, in modo da garantire la democraticità della decisione

finale. Il presidente Zelensky ha di recente assicurato che le elezioni vedranno la partecipazione di candidati filorussi e di candidati appartenenti ai maggiori partiti ucraini, in modo da garantire la massima libertà di scelta agli elettori. Le elezioni dovrebbero infine garantire un formale riconoscimento dello status speciale dei territori del Donbas, i quali rimarrebbero, tuttavia, sotto sovranità ucraina. L’accettazione di tale formula da parte della leadership ucraina ha provocato reazioni a tutti i livelli, soprattutto tra la popolazione civile, la quale ha ricevuto la notizia dai media russi prima ancora che dal proprio governo. I nazionalisti e i partiti di destra ucraini sono scesi in piazza per protestare contro quella che molti percepiscono come una capitolazione rispetto alla Russia. Dello stesso avviso pare essere l’ex presidente ucraino Poroshenko, il quale ha definito la decisione del nuovo leader un ‘tradimento’. Dal canto loro,


Europa Orientale e Asia Centrale i ribelli dell’area del Donbas rigettano l’idea di andare ad elezioni seguendo le regole dettate da Kiev. Questi ultimi, infatti, non riconoscono l’autorità del governo centrale e sostengono di aver dato vita a delle Repubbliche autonome, non sottostanti ai dettami della legge ucraina. La Federazione russa sembra, al contrario, salutare con favore la decisione del governo di Kiev. Tuttavia, non pare essersi attivata per ritirare le truppe schierate nella regione del Donbas, condizione posta dal presidente Zelensky per indire le elezioni. L’Europa occidentale si mostra ottimista rispetto alla decisione del Presidente ucraino, nella speranza che questa possa inaugurare una nuova stagione di trattative. Il portavoce della Commissione ha affermato che la formula Steinmeier sarebbe “un passaggio che [...] potrebbe portare ad ulteriori sforzi verso la piena implementazione degli accordi di Minsk da parte di tutti”. Tra i paesi europei più favorevoli all’implementazione

della formula vi è la Francia, che ha giocato un ruolo fondamentale durante le trattative e che viene vista come uno Stato chiave nella normalizzazione delle relazioni russo-ucraine. Non a caso, si è già al lavoro per un ulteriore summit, con ogni probabilità a Parigi, che vedrà incontrarsi Francia, Germania, Ucraina e Russia. Non è possibile, allo stato dei fatti, prevedere con sicurezza quali saranno le conseguenze della formula Steinmeier applicata nel Donbas. Si possono, tuttavia, sottolineare due rischi fondamentali. In primo luogo, sul piano del diritto internazionale, ci potrebbero essere serie ripercussioni nel caso in cui le forze separatiste vincessero le elezioni nei territori orientali dell’Ucraina. Si tratterebbe, infatti, di dare riconoscimento di diritto ad una situazione di fatto nata da una violazione dell’integrità dello stato ucraino. In secondo luogo, l’applicazione della formula potrebbe esacerbare la tensione tra nazionalisti e filorussi, per poi sfociare in

nuovi sanguinosi scontri. Nel frattempo, il Ministro degli Affari esteri ucraino ha fatto sapere che è in programma un altro scambio di prigionieri con la Federazione Russa, aggiungendo che si tratterà di un momento decisivo per le relazioni tra i due paesi. Nonostante i primi segnali incoraggianti, dunque, la tensione non accenna a diminuire, in un crescendo di continue provocazioni. A metà ottobre, ad esempio, i media ucraini hanno riportato la notizia di due soldati ucraini uccisi da alcuni colpi sparati dalle milizie filorusse che, secondo le autorità ucraine, avrebbero violato il cessate il fuoco. Inoltre, il 17 ottobre il Governo russo ha presentato un disegno di legge al Parlamento per il riconoscimento degli Ucraini come “Popolazione parlante russo”. Se la tensione non accennerà a diminuire, sarà difficile mettere in pratica l’accordo raggiunto sulla Formula Steinmeier.

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Africa Subsahariana L’africa subsahariana in movimento

Di Francesco Tosco Nell’arco dell’ultimo decennio e, in particolar modo negli ultimi anni, quello dei flussi migratori è diventato un tema sempre più discusso. A partire dal 2015, una crisi migratoria senza precedenti sta interessando l’intera Europa; proveniente da Africa e Medio Oriente, questo flusso non si è mai veramente arrestato. La percezione di tale fenomeno è inoltre esasperata da una retorica politica che ha puntato il dito verso l’immigrazione stessa, accusandola di essere la causa di problemi complessi quali disoccupazione o sicurezza. Basti pensare alle campagne elettorali in Europa e Nord-America, dove il fenomeno migratorio si è ritagliato un notevole spazio nelle agende politiche di tutto l’Occidente. Per quanto riguarda più specificatamente l’Unione Europea, Bruxelles ha incentrato la propria linea d’azione verso un più rigido controllo delle rotte migratorie, al fine di impedire o 32 • MSOI the Post

ostacolare l’arrivo senza freni dei migranti ai propri confini. Sorgono però spontanee alcune domande: da dove provengono tutte queste persone “in movimento”? Quali politiche ha adottato l’Europa nel continente africano per ridurre o contenere tale crisi? Innanzitutto, occorre analizzare il fenomeno per quello che è, eliminando le suggestioni causate dai media e dagli slogan elettorali. Secondo l’UNHCR, se si considerano i primi mesi del 2018, gli sbarchi sulle coste europee sono diminuiti di cinque volte rispetto a due anni prima. In questo senso, un primo dato emergente è che la maggior parte degli spostamenti che interessano il continente africano resta interna all’Africa stessa. La mobilità tra paesi confinanti, così come il sentimento “migratorio”, è comune a quello interno all’Unione, per cui un cittadino comunitario decida di cambiare paese per un lavoro meglio retribuito o una opportunità di vita più convenienti. In Africa

subsahariana, allo stesso modo, moltissime persone decidono di oltrepassare il confine, non per raggiungere l’Europa, bensì un altro paese limitrofo. Stando ai dati ISPI, dei 29 milioni di immigrati partiti dall’Africa Subsahariana nel 2017, soltanto 8 si sono effettivamente stabiliti in Medio Oriente, Europa e Nord America. Di nuovo, come suggerisce l’ISPI, le principali mete dell’immigrazione intra-africana sono rappresentate dai paesi con le economie più solide e che possono offrire migliori condizioni di vita e di lavoro. In questo senso, al primo e secondo posto troviamo il Sud Africa e la Costa d’Avorio, con oltre un milione di immigrati. A seguire la Nigeria ed il Kenya. Tra questi paesi, nel corso dei decenni, si sono sviluppati corridoi diplomatici e reti di contatti per facilitare le migrazioni e consolidare il flusso migratorio verso determinati paesi. Un esempio di tale fenomeno si può ritrovare nel Sudan, principale collettore


Africa Subsahariana della diaspora nigeriana. A contribuire ulteriormente al consolidamento di tali relazioni e a facilitare la mobilità, un ruolo preponderante è giocato da attori internazionali come l’ECOWAS (Economic Community of West African States). Tale accordo economico, siglato nel 1975 ed operante oggi su 15 stati membri, fin dal momento della sua istituzionalizzazione si prefigge l’obiettivo di abbattere le barriere monetarie e doganali per facilitare lo sviluppo della regione. Dunque, la risposta alla prima domanda di cui sopra deriva dal fatto che il flusso migratorio proveniente da sud del Sahara resta concentrato in larga parte nel continente africano. Tentiamo ora di sviluppare un’analisi sulla strategia di aiuto portata avanti dall’Unione Europea per sostenere gli stati africani, al fine di contribuire alla diminuzione ulteriore del numero di persone che scappano

verso il nord del mondo. Dalla seconda metà degli anni 2000, prima la Spagna e a seguire altri paesi, tra cui Italia e Francia, hanno allargato la propria sfera d’influenza verso l’africa occidentale, con particolare attenzione verso la striscia del Sahel. Quest’ultima è una regione semidesertica al confine con il Sahara occidentale, che taglia i confini di Sudan, Chad, Niger, Nigeria, Burkina Faso, Mali, Mauretania e Senegal. In questo senso, durante il summit della Valletta nel 2015 l’Unione Europea ha stanziato un fondo fiduciario di emergenza per l’Africa. Tuttavia, il capitale destinato alla stabilizzazione dell’area e ad evitare a monte che le persone si ritrovino costrette a migrare, viene in realtà utilizzato per affrontare emergenze migratorie quando sono già in atto, e non per prevenirle.

da un lato, l’Europa dichiara di voler incoraggiare una libera circolazione di persone e di merci in Africa occidentale, supportando e promuovendo organizzazioni quali l’ECOWAS. Dall’altro lato, però, contribuisce a sviluppare una politica migratoria e di controllo delle frontiere sempre più repressiva. In tal senso, il fondo fiduciario istituito nel 2015 prevede l’attuazione di progetti come il WAPIS ed il GARSISahel, gestiti dall’Interpol e dalla Guardia Civil spagnola, insieme con altri progetti indirizzati unicamente al controllo delle frontiere. Nell’ambito di questi supporti economici, si può riportare il caso dei programmi di appoggio alla riforma civile in Senegal e Niger, paesi che hanno visto l’introduzione di sistemi biometrici che rispondono più ad un’esigenza europea di controllo, piuttosto che ad un concreto aiuto allo sviluppo.

In conclusione, si può dire che,

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Africa Subsahariana Abiy Ahmed Ali, il Nobel che dovremmo conoscere sollievo per l’Eritrea, l’economia della quale è ancora basata principalmente su un’agricoltura di sussistenza e sull’allevamento di ovini e bovini. Nei soli primi 100 giorni del suo governo, Ahmed Ali ha inoltre varato importanti riforme, volte a dare ai cittadini etiopi rinnovati diritti. Tra queste, diversi provvedimenti distensivi, come la fine dello stato d’emergenza, l’amnistia a migliaia di prigionieri politici, l’interruzione della censura mediatica, la legalizzazione dei partiti di opposizione fuorilegge e il licenziamento di funzionari, leader politici e civili accusati di corruzione e violazione dei diritti umani. Va inoltre ricordato il significativo incremento dell’influenza delle donne nella vita politica e pubblica e il rafforzamento della democrazia attraverso “free and fair elections”.

Di Sandro Maranetto Abiy Ahmed Ali è il vincitore del premio Nobel per la pace 2019. Un nome sconosciuto al grande pubblico occidentale, che ha lasciato perplessi quei tanti che si aspettavano di veder vincitrice la ben più nota Greta Thunberg. Se, infatti, la ragazza svedese non ha bisogno di presentazioni, poco si sa di quest’uomo i cui “sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale”, pur valsi per l’ambito riconoscimento, sono finora passati in sordina. Abiy non è una persona qualsiasi. Nominato primo ministro dell’Etiopia all’incirca un anno 34 • MSOI the Post

e mezzo fa, si è fin da subito impegnato a promuovere una serie di riforme rivoluzionarie per un paese politicamente immobilizzato. Particolarmente importante è stato l’accordo di pace volto a sbloccare “the long ‘no peace, no war’ stalemate”, iniziato con l’Eritrea alla fine di un conflitto scatenatosi tra i due paesi oltre vent’anni fa. Una guerra terribile, tra due stati profondamente diversi tra loro, che causò oltre 100.000 vittime e ancora più feriti e mutilati e aggravò la situazione economica e sociale soprattutto sul territorio eritreo, già profondamente povero. La ripresa dei rapporti commerciali appare quindi come un grosso

Il primo ministro ha peraltro giocato un ruolo chiave nelle negoziazioni per il raggiungimento della pace anche in paesi dell’Est e NordEst dell’Africa, mediando le delicatissime dispute tra Kenya e Somalia e favorendo il dialogo tra il regime militare e l’opposizione in Sudan. Abiy si è guadagnato così una fama di politico lungimirante e riformista. Una guida di cui l’Etiopia aveva bisogno e di cui continuerà ad avere bisogno ancora a lungo. Infatti, sebbene il consenso istituzionale sembri essere che le politiche adottate nell’ultimo anno dal nuovo Governo abbiano migliorato la situazione, allo stesso tempo viene spesso sottolineato quanto ancora rimanga da fare.


Africa Subsahariana Anche per via del posizionamento geografico, il ruolo economico e sociale giocato dall’Etiopia all’interno del continente è infatti cruciale. Il secondo paese africano più popoloso, con oltre 100 milioni di abitanti e con l’economia più prospera dell’Africa orientale, è un crocevia di flussi migratori di popoli provenienti da tutto il continente e, in un contesto di grande diversità e pluralità, spesso scoppiano conflitti etnici che minacciano la stabilità interna. Solo nel 2018, stando ai dati IDMC, vi sono stati infatti quasi 3 milioni di sfollati interni: la cifra più alta registrata in tutto il mondo, a cui si aggiungono oltre 1 milione di rifugiati e richiedenti asilo provenienti dagli stati circostanti. Ad aggravare la situazione intervengono poi le calamità naturali che si sono abbattute

recentemente sul territorio e che, solo nella prima metà del 2019, hanno aggiunto oltre 200.000 persone, alle 500.000 in fuga a causa dei conflitti interni.

mondo), che pure è tornata ai livelli del 2014, sfuggendo ai picchi del periodo 2016-2017, che superavano singolarmente gli 1,2 milioni.

Quest’ultimo, in particolare, è un problema a cui gli europei porgono più volentieri l’orecchio, dal momento che parte di queste ondate migratorie si riversa necessariamente nel Vecchio Continente. Vero è però che si è registrato nell’anno passato un significativo decremento tra i richiedenti asilo giunti nell’Unione Europea dai paesi del Corno d’Africa e dintorni: rispetto alla media di quasi 70.000 prime richieste all’anno per il periodo 20142016, il 2017 e il 2018 si sono attestati rispettivamente a 51.540 e 39.180 (EUROSTAT). Le cifre restano comunque alte e costituiscono una frazione significativa della media totale (attorno alle 600.000 prime richieste annue da tutto il

Al netto dei possibili scenari, positivi e negativi, sui vari fronti dell’ambiente, dello sviluppo, delle migrazioni e della pace, sembra insomma che resti molto da fare, per imbrigliare le complessità etiopi, e molti potrebbero ragionevolmente ritenere prematuro premiare Abiy Ahmed. Prima che una ricompensa per i risultati raggiunti però, l’onorificenza è un riconoscimento per gli sforzi compiuti, a dispetto di quello che sarebbe potuto altrimenti sembrare un inevitabile destino. Il Nobel intende così essere un incoraggiamento a intraprendere quel “work for peace and reconciliation” che Abiy ha già annunciato di voler continuare a perseguire.

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Nord America Da Ulisse a Elon Musk, le nuove frontiere della nostra specie

Di Cesare Cuttica

in questo incrocio che nasce l’uomo moderno.

Ulisse è stato il primo eroe dell’intera cultura occidentale, idealizzato non per la forza fisica, quanto per la finezza della propria mente. La brillante intelligenza mista a curiosità – la sua Metis – gli permise non solo di sconfiggere il gigantesco ciclope, di ingannare gli Dèi violenti e di riconquistare la propria casa e la propria famiglia, ma lo spinse all’esplorazione. Da qui, il personaggio omerico

Origini mitiche a parte, l’esplorazione e il pionierismo sono tratti naturali e istintivi dell’essere umano, sia come specie, sia come individuo. Oggi, dopo i viaggi di Marco Polo in Oriente, i grandi navigatori alla scoperta delle Indie, la frontiera del West spinta verso il Pacifico, ci troviamo per la prima volta a rivolgere lo sguardo al nostro sistema solare.

si intreccia con un altro mito greco, quello delle Colonne d’Ercole, che lo stesso Ulisse infranse nelle sue navigazioni: esse rappresentano il concetto astratto di limite, di frontiera, e si spostano mano a mano che la mente umana si espande. È

Nel 2012, l’azienda “Mars One”, capitanata dal miliardario Elon Musk, ha presentato il suo primo progetto di colonizzazione marziana. Le difficoltà sono immani, a partire dai costi previsti (almeno $6 miliardi), passando per le

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partnership con la NASA, sino ad arrivare al diritto spaziale. Tuttavia, l’entusiasmo è ancora alto e le possibili conseguenze potrebbero coinvolgere la storia dell’umanità, aprendone un nuovo capitolo. La notizia che colpisce è la quantità di persone pronte a partire, in un viaggio di sola andata, per la missione: secondo quanto riferito dalla stessa Mars One, sono più di 200.000 le richieste pervenute. Possiamo allora parlare dei germogli di una prossima emigrazione spaziale? Stephen Hawking, come riporta il The Telegraph, vedeva nella colonizzazione di un nuovo mondo l’unica possibilità di salvezza del genere umano, in fuga dalla sovrappopolazione e dalla fine


Nord America delle risorse naturali. Qualora questo dovesse verificarsi, tuttavia, sarà in un futuro remoto, oltre che eventuale, preceduto da una lunga fase – nella quale già oggi ci troviamo – in cui l’esplorazione spaziale costituirà il fondamento di giochi ed equilibri, politici in primis. In tal senso, l’India cerca affannosamente di recuperare il gap tecnologico che la separa dai colossi spaziali, ponendosi come obiettivo di medio termine la Luna. La Cina, a tal proposito, ha previsto l’invio di una sonda su Marte nel 2020, mentre sta già addestrando i propri astronauti servendosi di una base marziana simulata nel deserto del Gobi, come riportano rispettivamente Repubblica e Affaritaliani. Al di là del prestigio tecnologico, lo spazio nasconde immense

opportunità economiche e militari: a partire dal ruolo strategico dei satelliti per la sicurezza e la geolocalizzazione, alla ricerca delle terre rare su Luna, comete e asteroidi, fino ad arrivare al nascente settore del turismo spaziale. Come riporta Limes, nel suo articolo Assalto al Cielo, il settore spaziale è da sempre spinto in avanti da una feroce concorrenza: in passato, tra le due superpotenze della Guerra Fredda; oggi, tra una moltitudine di attori che vanno sempre aumentando. Per la prima volta, con Elon Musk, anche i privati partecipano alla corsa allo spazio. Gli elementi qui riassunti sinteticamente raccontano di un mercato letteralmente in esplosione. Tuttavia, prevederne il futuro resta nebuloso . è difficile Intuire

quale sarà il ruolo di potenze quali l’India, la Cina, gli Stati Uniti e l’Unione Europea oltre la nostra atmosfera è davvero complesso, ma ancor più fantasioso sarebbe circoscrivere precisamente una colonizzazione spaziale da parte della nostra specie tutta. Probabilmente la prossima destinazione sarà Marte, dove forse vi si stabiliranno delle colonie se il mondo avrà abbastanza risorse per sostenere il progetto. Forse invece rimarrà per ancora molto tempo un sogno nel cassetto di qualche visionario. L’unica grande certezza è che finché l’uomo esisterà, nella profondità del suo essere rimarrà sempre una spinta inesorabile e istintiva all’esplorazione. Con o senza successo, egli punterà sempre ad attraversare le sue Colonne.

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Nord America L’accordo tra El Salvador e gli USA sui richiedenti asilo

Di Elisa Zamuner Alla fine del mese di settembre 2019, l’amministrazione Trump ha annunciato di aver concluso un accordo con il presidente salvadoregno, Nayib Bukele, in materia di redistribuzione dei migranti. Secondo il segretario della sicurezza in carica McAleenan, tale patto, di cui non si conoscono ancora le specifiche, servirebbe a ridurre drasticamente le richieste di asilo avanzate negli Stati Uniti da tutti i migranti che attualmente attraversano lo stato di El Salvador, oltre a ridurre il numero di partenze da quest’ultimo. In una nota ufficiale sul sito internet dell’ambasciata statunitense a El Salvador, in merito all’intesa si legge: “Entrambi i governi si impegnano a lavorare al problema della 38 • MSOI the Post

migrazione insieme e in modo umano, in maniera tale da contribuire a migliorare la prosperità e la sicurezza della regione. L’accordo è parte di una strategia integrata per combattere le organizzazioni criminali, rafforzare la sicurezza dei confini e ridurre sia il traffico illegale e di persone sia la migrazione forzata. Questo accordo è un tentativo congiunto di fornire protezione fisica ed evitare i pericoli della migrazione irregolare”. Nella nota si parla altresì dell’impegno di Washington nel contribuire alla crescita economia e allo sviluppo di El Salvador stesso. A tal proposito, nell’invocare l’aiuto statunitense, il presidente salvadoregno Nayib Bukele aveva dichiarato: “Credo che sia più sicuro attraversare il deserto, superare le frontiere e affrontare tutto quello che

potrebbe succedere durante il viaggio verso gli Stati Uniti, piuttosto che vivere qui; per questo motivo vogliamo rendere più sicuro il nostro Paese”. Secondo Human Rights Watch (HRW) El Salvador è uno dei paesi con il più alto tasso di omicidi al mondo. Le gang criminali esercitano un controllo territoriale molto forte, mentre Honduras e Guatemala soffrono di un livello di corruzione delle forze dell’ordine e delle autorità giudiziarie tale da rendere la vita dei loro stessi cittadini molto instabile. Di conseguenza, obbligare i migranti a richiedere protezione umanitaria in questi paesi di transito li esporrebbe ad ulteriori rischi. L’intesa in esame segue una serie di azioni promosse dall’amministrazione Trump


Nord America in tutta l’area dell’America Centrale, soprattutto in Honduras e in Guatemala. In questi ultimi due casi in particolare, gli accordi hanno ricevuto svariate critiche poiché gli stati in questione sembrano aver subito un trattamento coercitivo. Nei mesi precedenti l’accordo, difatti, l’amministrazione statunitense aveva pronunciato parole di condanna verso questi paesi accusandoli di non aver mobilitato sufficienti risorse al fine di arginare la crisi migratoria. Le accuse del presidente Trump sono poi state tramutate in veri e propri tagli dei finanziamenti, destinati fino a quel momento all’assistenza dei paesi della regione. A seguito della stipula dei tre diversi accordi, tuttavia, lo stesso Trump e il segretario di Stato, Mike Pompeo, hanno annunciato il ripristino degli aiuti economici. Lo scopo di questi accordi potrebbe essere quello di implementare la regola del “terzo paese sicuro”. L’obiettivo sarebbe quello di obbligare i migranti che attraversano uno

di questi paesi a presentare richiesta di asilo prima nel paese di passaggio e poi nel paese di destinazione. Attualmente, gli USA hanno già un’intesa di questo tipo con il Canada. Ursela Ojeda, consulente politica per il Migrant Rights and Justice Program dell’organizzazione Women’s Refugee Commission, ha definito ‘ridicola’ l’idea di considerare sicuri questi tre paesi: “Stiamo parlando di costringere le persone a rimanere in Paesi i cui governi non sono in grado di garantire per la loro sicurezza: significa imprigionare loro e buttare via la chiave”. Jan Egeland, segretario generale dell’organizzazione umanitaria Norwegian Refugee Council, che si occupa di fornire supporto alle persone costrette ad emigrare, a seguito di un viaggio istituzionale a El Salvador e in Honduras ha dichiarato che un accordo di questo tipo potrebbe non diminuire i flussi migratori, bensì incoraggiare i migranti a trovare modi alternativi di raggiungere gli Stati Uniti, via mare ad esempio.

Considerando l’obiettivo ultimo del presidente statunitense Trump di ridurre il più possibile il numero di richiedenti asilo che giungono al confine con gli USA, siffatto accordo si inserisce perfettamente nel quadro della politica “remain in Mexico”. Questa limita di netto le probabilità che le richieste di asilo vengano accettate, costringendo i richiedenti stessi a rimanere per mesi al confine. Seguendo la considerazione del segretario Egeland, si può osservare come l’intesa raggiunta sembra risultare poco efficace nel lungo periodo, non fornendo concrete risposte al problema della migrazione e anzi diminuendo le responsabilità del governo statunitense nella gestione dello stesso. Sostenere i paesi e gli abitanti dell’America Centrale e del Sud a raggiungere condizioni più favorevoli richiede strategie pianificate e lungimiranti; nel contempo, gli Stati Uniti, in primis, non possono semplicemente voltare le spalle a tutte quelle persone in cerca d’aiuto.

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Sud e Sud Est Asiatico Contraddizioni della questione migratoria indiana: diaspora programmata e censimento degli esclusi Di Virginia Orsili Secondo l’International Migrant Stock 2019, un report del Dipartimento degli affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite, l’India è al primo posto per numero di persone emigrate. Sono ben 17.5 milioni gli indiani che hanno deciso di lasciare il proprio paese verso nuovi lidi: una cifra che corrisponde al 6,4% di un totale di 272 milioni di emigranti. Tra le mete scelte dai cittadini indiani, gli Emirati Arabi Uniti risultano essere al primo posto, seguiti da Stati Uniti e Arabia Saudita. Il Pakistan, un tempo meta privilegiata, non accoglie oggi che il 9% dei migranti totali. L’India è tradizionalmente una terra di emigrazione. Già nel 1800 i coloni britannici avevano elaborato un sistema di migrazione attraverso i territori colonizzati. In seguito all’abolizione della schiavitù da parte dei Britannici nel 1833, la necessità di manodopera nelle piantagioni, unita alla povertà dei contadini dell’Asia meridionale, hanno spinto circa 1.5 milioni di lavoratori verso nuove terre. La Guyana e l’Africa dell’Est per gli abitanti del Punjab e del Gujarat; le Isole Fiji, le Isole Mauritius, Trinidad e Suriname per gli abitanti degli attuali Stati di Bihar e Uttar Pradesh; la Guadalupa, la Martinica, il Sud Africa e l’Isola della Riunione per gli abitanti del Tamil Nadu. Nello stesso periodo, gli amministratori delle piantagioni di tè, caffè e caucciù avevano messo in atto un altro meccanismo migratorio che consisteva nella possibilità di trasferire intere famiglie indiane in Sri Lanka, Malaya e Burma. Sono 6.5 milioni gli indiani 40 • MSOI the Post

emigrati prima dell’abolizione di tale misura nel 1938. In entrambi i casi, i lavoratori immigrati non avevano la possibilità di integrarsi con la popolazione locale. Tuttavia, è importante sottolineare che anche in questo periodo l’emigrazione non riguardava solo lavoratori poco qualificati: sono molti i mercanti che sceglievano di trasferirsi in altre colonie britanniche con maggiori opportunità lavorative. Se, in questa prima fase, la migrazione verso il Regno Unito era un fenomeno minore, questa tendenza è cambiata radicalmente nei decenni successivi all’indipendenza nel 1947. La migrazione indiana nel Regno Unito, prima nel continente europeo, è agevolata dai British Commonwealth Immigration Acts del 1962 e del 1968, che prevedono il diritto di vivere, lavorare, votare e ricoprire incarichi pubblici nel paese per qualsiasi membro del Commonwealth. Tra il 1970 e il 1996 il Regno Unito ha ricevuto in media 5.800 immigrati indiani all’anno. Oggi sono altre le chiavi di lettura del fenomeno. La solidità e l’efficacia del sistema educativo nazionale indiano, incentrato soprattutto sulla tecnologia, l’informatica e l’ingegneria, discipline che, coniugate all’ottima padronanza della lingua inglese, contribuiscono a costruire un profilo altamente richiesto all’estero, spiegano almeno in parte il fenomeno migratorio. Nello stesso tempo inoltre, le economie occidentali vedono una fuga di professionisti, per via di un fenomeno chiamato skills gap: la domanda di lavoratori qualificati è superiore alla loro effettiva presenza nel territorio nazionale.

Dall’altro lato, invece, i lavoratori indiani sono incoraggiati a lasciare il proprio paese in cerca di stipendi più alti e di una qualità della vita superiore, così come di prospettive di carriera più gratificanti. Tali lavoratori emigrati costituiscono allo stesso tempo una fonte di guadagno per lo stato Indiano. Secondo uno studio della Banca Mondiale, gli impiegati indiani all’estero avrebbero inviato ben 79 miliardi al proprio paese di origine, nel 2018. Nonostante la cifra sia significativa, essa costituisce appena il 2,7% del PIL indiano. I dati riguardanti il tasso di immigrazione seguono invece una traiettoria differente. Secondo il report sono 5.1 milioni gli immigrati che nel 2019 hanno trovato accoglienza in India: cifra inferiore rispetto ai 5.2 milioni del 2015. Dal 1990 si è registrato un calo del tasso di immigrazione pari al 32%. Ancora oggi, tuttavia, gran parte degli immigrati provengono da paesi della stessa aerea regionale, come Bangladesh, Pakistan e Nepal. A dispetto di questo, il Governo di Nuova Delhi è solito ricorrere a toni allarmisti e ad una retorica anti-immigrati, come testimoniano gli ultimi avvenimenti. Lo scorso 31 agosto, il governo dello stato di Assad, nel Nord Est del paese, ha pubblicato una lista nella quale appaiono i nomi dei cittadini indiani, meglio nota come il National Register of Citizens (NRC), il cui obiettivo principale è l’identificazione degli immigrati illegali residenti nello stato. Si tratta di un territorio storicamente caratterizzato da un forte tasso di immigrazione dal vicino Bangladesh. Tuttavia, ben 1.9 milioni di persone sono stati


Sud e Sud Est Asiatico esclusi e dall’elenco ufficial . Nata nel 1951 e valida unicamente nello stato di Assad, tale lista include i discendenti delle persone inserite nella lista originale, quelli presenti nelle liste elettorali o in documenti approvati dal governo. In altre parole, per essere inseriti nella lista bisogna dar prova di essere residente in India (o di essere discendente di persone residenti nel Paese) da prima del 1971, anno dell’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan. Da allora, l’elenco non è mai stato aggiornato.

Corti di grado superiore. A loro è concesso un totale di 120 giorni per fare ricorso, mentre le Corti potranno verificare o smentire l’adeguatezza della sentenza durante un periodo di sei mesi, al termine del quale il loro statuto sarà dichiarato ufficiale. Nonostante il governo abbia rassicuratoicittadiniindiani,ilbrevelasso di tempo dedicato agli appelli lascia temere un sovraccarico di lavoro che rischia di minare l’efficienza delle Corti e l’effettiva possibilità di pronuncia da parte di queste.

Coloro i quali non vedono il proprio nome apparire nella lista hanno la possibilità di dimostrare la propria appartenenza allo stato di Assam attraverso il ricorso a dei Foreigners Tribunals. Si tratta di un particolare tipo di istituzione paragiurisdizionale, specifico del territorio di Assam, il cui compito è dimostrare se una persona risiedente illegalmente nello stato sia o meno straniera. Al momento, sono 100 i Foreigners Tribunals totali, ma è prevista la costruzione di altri 200 fori. Se, fino ad ora, l’iniziativa di realizzazione di questi tribunali spettava al potere centrale, grazie ad una decisione del Ministero degli Interni potrà essere condivisa con i governi dei singoli stati, con i centri amministrativi dei territori dell’Unione, nonché con magistrati distrettuali e capi del distretto. Un’altra importante modifica riguarda il fatto che i singoli individui hanno il potere di sollecitare l’intervento del Tribunale, mentre in precedenza solo il governo centrale poteva sollevare il Tribunale contro determinati sospetti. Inoltre, ai magistrati sarà permesso valutare la nazionalità anche di coloro che decideranno di non ricorrere ad alcun appello.

“A nessun immigrato illegale sarà permesso di restare nel Paese”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Amit Shah. Secondo quanto stabilito dal Passport Act (1920) e dal Foreigner Act (1946), gli immigrati clandestini rischiano dai 3 mesi agli 8 anni di prigione. In seguito a questo periodo di detenzione, la persona è costretta alla deportazione, la quale si risolve, nella maggior parte dei casi, nello spostamento in centri di detenzione fino a che il paese di origine non ne approvi il rimpatrio. Ad oggi, sono circa 1000 le persone costrette nei centri già esistenti, sospettate di trovarsi illegalmente nel paese. Intanto, il primo centro di detenzione di massa per immigrati illegali, destinato ad accogliere almeno 3000 persone, è in costruzione nella città di Goalpara. Secondo le direttive rese pubbliche all’inizio del mese di settembre, tali centri di detenzione dovranno essere circondati da un muro di almeno 3 metri e da filo spinato. Il governo ha già annunciato un progetto di costruzione di un totale 10 centri di detenzione. Dal momento in cui non saranno riconosciuti come cittadini indiani, gli immigrati illegali saranno privati dei propri diritti e libertà civili. Sebbene per il momento tale misura sia valida solamente nello stato di Assam, Nuova Delhi ha intenzione di

In caso di necessità, gli appellanti potranno sempre sollecitare le

estenderne la portata all’intero paese. In un articolo pubblicato dal quotidiano indiano The Hindu, Harsh Mander, attivista per i diritti umani, ha dichiarato che un simile sviluppo costituirebbe un “kafkiano labirinto burocratico”, specialmente per la popolazione rurale, che spesso non ha i mezzi per dimostrare la propria nazionalità. Secondo altri attivisti per i diritti umani, la lista avrebbe lo scopo di attaccare la comunità musulmana. Dal suo insediamento, il governo nazionalista-induista guidato dal Bharatiya Janata Party (BJP) di Narendra Modi è stato più volte accusato di attaccare quella che è una delle minoranze più importanti nel paese: il 14% per una popolazione totale di 1.3 miliardi. Come riportato da Al Jazeera, durante l’elaborazione della lista sono stati riscontrati diversi difetti procedurali ed anomalie. Il tutto è accaduto nonostante la Corte Suprema fosse incaricata di sorvegliare la correttezza dell’intero processo. Diversi individui riconosciuti come cittadini indiani sono stati esclusi dalla lista, inclusi alcuni funzionari del governo. Il PJB ha inoltre dichiarato di voler modificare la Costituzione, in modo particolare il Citizenship Act, per proteggere i cittadini induisti esclusi dalla lista. L’obiettivo della riforma è quello di assicurare la cittadinanza a determinate comunità religiose: più in particolare induisti, sikhs e buddisti. Asaduddin Owaisi, parlamentare rappresentante del collegio elettorale di Hyderabad nella Lok Sabha, la camera bassa del Parlamento, nonché portavoce della comunità musulmana, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Guideremo la comunità e saremo pronti ad un ricorso legale se necessario”, definendo un’eventuale riforma del Citizenship Act come un’“enorme violazione della Costituzione”. MSOI the Post • 41


Sud e Sud Est Asiatico Il Pakistan cerca la pace nel Golfo: difficili tentativi di dialogo tra Iran e Arabia Saudita

Di Natalie Sclippa Domenica 13 ottobre il primo ministro pakistano, Imran Khan, si è recato in visita ufficiale a Teheran, nel tentativo di appianare le tensioni presenti nella regione del Golfo, in particolare tra Iran e Arabia Saudita. A questo viaggio ne è seguito uno nel paese della penisola arabica, per ribadire il suo ruolo “di facilitatore e non di mediatore” tra le due parti. Il premier è stato ricevuto dal ministro degli Esteri Javad Zarif, per poi incontrare sia il presidente dell’Iran Hassan Rouhani, sia l’Ayatollah Ali Khamenei. Rouhani, durante il colloquio con Khan, ha enfatizzato la necessità di disinnescare ogni tentativo di escalation nella zona, ribadendo che “[...] le questioni regionali sono da risolvere attraverso mezzi regionali e il dialogo. Sottolineiamo anche che ad ogni gesto di buona volontà seguiranno azioni analoghe 42 • MSOI the Post

e buone parole”. Recatosi dalla Guida Suprema, il focus si è spostato sulla Ummah musulmana, la quale deve affrontare numerose sfide, sia internamente, sia dall’esterno. Importante è, quindi, articolare un messaggio di unità e solidarietà tra le nazioni islamiche. Il Pakistan ha iniziato questa missione di pace in Medio Oriente puramente su propria iniziativa, anche se non sono mancati gli inviti da parte di Donald Trump e del principe Mohammad Bin Salman. Durante un colloquio bilaterale a margine dell’assemblea delle Nazioni Unite, a fine settembre, il presidente degli Stati Uniti aveva infatti invitato Khan ad aiutarlo nel riportare a più miti consigli Rouhani. Questo, in particolar modo a seguito della decisione nordamericana di abbandonare il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) sul nucleare e successivamente all’accusa mossa all’Iran di essere l’artefice

dell’attacco alla piattaforma petrolifera saudita di Abqaiq, nella Eastern Province, avvenuto il 14 settembre scorso. “L’Arabia Saudita è uno dei nostri amici più stretti. L’Arabia Saudita ci ha aiutato nel momento del bisogno. La ragione di questo viaggio è che non vogliamo un conflitto tra l’Arabia Saudita e l’Iran. Sappiamo che è una situazione complessa”, ha ripetuto Khan durante la sua visita, in presenza del principe Bin Salman. Le relazioni tra i due paesi paiono ancora più difficili dopo l’incidente avvenuto nei primi giorni di ottobre, a 60 miglia dal porto di Jeddah, in cui due missili hanno colpito un oil tanker battente bandiera iraniana. La responsabilità non è stata attribuita direttamente all’Arabia Saudita, ma è possibile sia stata una ritorsione dell’attacco del mese precedente. La posizione del Pakistan, quindi, è molto delicata. Da


Sud e Sud Est Asiatico una parte, esiste una sfiducia reciproca che è latente da anni, nonostante venga sottolineato come vi sia una tradizione di cooperazione con l’Iran fondata sul commercio e sulla vicinanza; dall’altra parte, come riporta Voanews.com, gli aiuti finanziari e la collaborazione militare legano Islamabad indissolubilmente al Regno Saudita, vista anche la presenza di 2.5 milioni di persone che vivono e lavorano in loco. Come se il quadro non fosse già sufficientemente intricato, un problema tanto importante quanto difficile da risolvere è la posizione dei due stati nella guerra in Yemen. La repubblica Islamica è leader del mondo musulmano sciita, quanto l’Arabia Saudita lo è dell’Islam sunnita. Quest’ultima ha scatenato una guerra contro la minoranza Huti, che sembra però essere aiutata militarmente da Teheran. Anche dalle sorti di questo conflitto si deciderà la forza dominante nella regione. La neutralità del Pakistan è inoltre messa a dura prova dal suo ruolo tra le fila saudite, incarnato da

Raheel Sharif, ex capo militare pakistano, ora al vertice della coalizione. Sharif è leader della Islamic Military Counter Terrorism Coalition (IMCTC), un fronte pan-islamico contro il terrorismo, lanciato da Riyad nel marzo 2016. La decisione di creare l’IMCTC avvenne nel dicembre 2015, 9 mesi dopo l’inizio dell’operazione Decisive Storm voluta proprio dall’Arabia Saudita. Nonostante gli obiettivi prefissati dalla coalizione - dal rafforzamento del contributo dei paesi a maggioranza musulmana riguardo sicurezza e pace alla solidarietà e collaborazione tra gli stati membri, dalla sensibilizzazione attraverso campagne di comunicazione, sino alla riaffermazione dei valori moderati dell’Islam, stabilendo partnership strategiche - la maggioranza degli stati è sunnita. Da non sottovalutare, infatti, è l’assenza di Iran e Iraq e il ruolo marginale dello stesso Pakistan, almeno in un primo momento. Il tentativo di convincere Teheran della sua buona volontà è anche dettato dalla proposta di Khan di non minare i propri interessi nella zona

e di tentare di stabilire di nuovo rapporti con gli Stati Uniti, deterioratisi nell’ultimo periodo. Come riportato dalla BBC, la decisione di Washington di inviare truppe a supporto di Riyad dopo l’attacco del 14 settembre scorso non porterà altro che “dolore e miseria”, come tutte le intromissioni di forze straniere nella regione. La risposta americana non si è fatta attendere, ripetendo che le forze militari sono “locked and loaded”, ovvero pronte all’attacco. “L’Iran ha annunciato che, con o senza mediatori, è sempre pronto a dialogare con i suoi vicini, inclusa l’Arabia Saudita, per eliminare ogni tipo di incomprensione”, ha annunciato Abbas Mousavi, ministro degli Esteri della della repubblica Islamica. La guerra proxy in Yemen, le difficoltà diplomatiche e l’escalation militare non giocano a favore del Pakistan: un paese in difficoltà che si vede costretto in una regione complessa da gestire, tra superpotenze e giochi per la leadership.

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Diritto Internazionale ed Europeo Politiche migratorie: immigrazione regolare e mercato del lavoro

di Mattia Elia Negli ultimi anni il dibattito europeo sulle politiche migratorie ha coinvolto soprattutto le migrazioni irregolari, ma ben poca attenzione è stata dedicata agli strumenti predisposti dall’Unione al fine di definire le politiche di migrazione regolare. Per molti anni, l’Unione Europea ha incontrato difficoltà nello stabilire una politica comune sulle migrazioni regolari della forza lavoro da paesi terzi; soprattutto perché fino al Trattato di Maastricht, il 44 • MSOI the Post

tema della migrazione era di competenza statale. Tuttavia, nel Trattato, la regolamentazione delle politiche migratorie fu introdotta nel terzo pilastro dell’Unione, per la creazione di uno Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia. Tutt’ora, nella disciplina dettata dal Trattato di Lisbona (articoli 79 e 80 TFUE), le politiche migratorie sono materia concorrente tra Unione e Stati membri; alla prima spetta definire le condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di nazioni terze, mentre ai secondi spetta stabilire i volumi di ammissione. Nei primi anni duemila la Commissione adottò un policy

plan riguardante le migrazioni regolari, al fine di rendere l’Unione una meta attraente per i cittadini più qualificati di nazioni terze. Così negli anni successivi vennero adottate una serie di direttive: sull’ammissione dei lavoratori altamente qualificati (conosciuta come Eu Blue Card Directive), sullo status generale delle persone ammesse per lavoro e ulteriori sui lavori stagionali, sull’ammissione degli studenti e dei ricercatori. La disciplina generale sulla migrazione lavorativa è dettata dalla direttiva 2011/98, conosciuta come ‘single permit’ Directive, la quale si applica ai cittadini di paesi terzi che intendono soggiornare in uno Stato


Diritto Internazionale ed Europeo membro per fini lavorativi. Tale permesso consente di entrare e stabilirsi nel territorio dello Stato che l’ha rilasciato, di circolare all’interno dell’Unione e di esercitare un’attività lavorativa, purché chi ne faccia richiesta abbia ricevuto un’offerta concreta di lavoro. In ultima analisi, la direttiva dispone che i lavoratori muniti di questo permesso debbano ricevere il medesimo trattamento riservato ai lavoratori nazionali, che include: la remunerazione, l’accesso ai sistemi di previdenza sociale o il riconoscimento dei titoli di studio. D’altro canto, la disciplina della durata del permesso e le modalità di accesso al mercato del lavoro sono regolate da ogni singolo Stato membro. Nel marzo del 2019, la Commissione europea ha pubblicato un report in cui descrive lo stato di implementazione della procedura per il rilascio del single permit. In esso si legge che nel 2017 sono stati rilasciati circa 2 milioni e mezzo di permessi, di cui 900.000 per attività remunerate e più di 1 milione per ragioni familiari; mentre solo 300.000 per motivi di istruzione. Parallelamente, in relazione alla categoria dei lavoratori altamente qualificati, è stata predisposta una forma

particolare di permesso di ingresso all’interno dell’Unione, ovvero la European Union Blue Card, ispirata alla Green Card presente negli Stati Uniti. Essa permette ai cittadini di nazioni terze di vivere e lavorare all’interno degli Stati membri, ma i requisiti fissati dalla direttiva per l’accesso alla Blue Card sono molto stringenti. È rivolta a coloro i quali sono in possesso di una laurea universitaria e di un contratto di lavoro o un’offerta vincolante con un livello salariale abbastanza alto, pari ad almeno una volta e mezzo il salario dello Stato nel quale avrebbero esercitato la professione. In questo caso il soggetto deve dimostrare di possedere un livello elevato di istruzione o un’esperienza lavorativa certificata. La direttiva lascia ampia discrezionalità agli Stati membri nel decidere condizioni di maggiore o minore favore nell’ammissione dei lavoratori. In entrambe le direttive è stata posta grande attenzione sul livello di remunerazione e sul monte orario necessario per concedere il Single Permit e la EU Blue Card, al fine di evitare l’instaurazione di un sistema di migrazione della forza lavoro dai paesi terzi che conducesse allo sfruttamento, in termini salariali, dei lavoratori immigrati o che portasse alla concorrenza sleale con il mercato del lavoro degli Stati membri.

Al contrario del Single Permit, la EU Blue Card non ha riscosso grande successo, tant’è che solamente la Germania ha emesso un numero significativo di Blue Card (circa 14.000 fino al 2015). Questo dato appare sorprendente poiché la Blue Card ha l’importante obiettivo di attrarre all’interno dell’Unione soggetti altamente qualificati. Alcune recenti ricerche hanno rimarcato la persistente eterogeneità tra i mercati del lavoro degli Stati membri, che ha la conseguenza di creare un’ampia differenziazione nella domanda di forza lavoro. Si consideri che in Italia solamente il 25% dei lavoratori tra i 25 e i 34 anni possiede una qualifica universitaria, mentre la media europea si attesta al 35%. Ancora più variegati sono i settori occupazionali: in Grecia il 30% dei posti di lavoro afferiscono al settore alberghiero, in Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria è il settore secondario ad offrire la maggior parte dell’occupazione. In conclusione, una piena integrazione nel mercato del lavoro, seppur rappresenti una sfida sia a livello di qualifiche sia per quanto concerne i settori occupazionali, dev’essere perseguita per la creazione di un sistema lavorativo più coeso e organico a livello europeo.

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Diritto Internazionale ed Europeo Il Caso Al Hassan davanti alla Corte Penale Internazionale: il presunto combattente maliano accusato di criminicontro l’umanità e crimini di guerra

Di Marco Schiafone La Corte Penale Internazionale non ha ancora concluso il proprio operato in Mali. Dopo il Caso Al Mahdi, finito con una condanna a 9 anni di prigione, e stato messo sotto accusa Al Hassan Ag Abdoul Aziz, non solo per il compimento di crimini di guerra, ma anche contro l’umanità. Il 1° aprile 2012 e il 28 gennaio 2013 delimitano l’arco temporale in cui sono state perpetrate le atrocità di cui l’ex combattente maliano è accusato. In questo lasso di tempo, il presunto militare estremista sembrerebbe aver avuto un ruolo da protagonista nei crimini commessi contro la popolazione civile a Timbuktu, in Mali, ad opera di due gruppi armati: Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), ‘costola’ dell’organizzazione terroristica conosciuta ormai da tempo e operante in tutta l’Africa Nord-Occidentale e nel Sahel, e Ansar Eddine (‘I difensori della religione’), un movimento 46 • MSOI the Post

salafita AQIM.

tuareg

associato

ad

La situazione in Mali è stata riferita alla International Criminal Court dal Governo del Mali il 13 luglio 2012. Circa 6 mesi dopo, il 16 gennaio 2013, il procuratore della CPI, in base a quanto previsto dall’articolo 15 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, ha stabilito che vi fosse un ragionevole fondamento per avviare le indagini. L’atto successivo, infatti, è stato quello di presentare alla Camera Preliminare una richiesta di autorizzazione per un’investigazione su crimini presumibilmente commessi sul territorio del Mali dal 2012. Al Sahel, in particolare, fa riferimento la prima delle due imputazioni esaminate dalla Corte. Al Hassan deve rispondere di crimini contro l’umanità ivi perpetrati, così come definiti dall’articolo 7 dallo Statuto della Corte: un “esteso o sistematico attacco contro ogni popolazioni

civile, con la consapevolezza dell’attacco”. Tra le condotte in esame compaiono tortura, stupro, schiavitù sessuale, persecuzioni e “altri atti inumani di analogo carattere diretti a provocare intenzionalmente grandi sofferenze o gravi danni”. Per quanto concerne invece la seconda accusa, Al Hassan sarà chiamato a difendersi dall’imputazione di crimini di guerra, previsti all’articolo 8 dello Statuto e avvenuti in un conflitto armato non internazionale. Nello specifico, il testo dell’articolo afferma che: “la Corte ha competenza a giudicare sui crimini di guerra, in particolare quando commessi come parte di un piano o di un disegno politico, o come parte di una serie di crimini analoghi commessi su larga scala”, specificando tale competenza, per quanto riguarda il tema del conflitto interno qui trattato, “c) In ipotesi di conflitto armato non di carattere internazionale, gravi violazioni dell’articolo 3 comune alle quattro


Diritto Internazionale ed Europeo Convenzioni di Ginevra” e citando nello specifico “i) atti di violenza contro la vita e l’integrità della persona, in particolare tutte le forme di omicidio, le mutilazioni, i trattamenti crudeli e la tortura; ii) violare la dignità personale; iii) prendere ostaggi; iv) emettere sentenze ed eseguirle senza un preventivo giudizio”. Inoltre, la possibilità di riconoscere i crimini di guerra anche in caso di conflitto armato non internazionale, nasce anche grazie alla giurisprudenza del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia (ICTY), che nel Caso Tadic si espresse affermando che le violazioni del diritto internazionale umanitario, non importa se commesse in conflitti internazionali o non internazionali, avrebbero comportato la responsabilità penale dell’individuo. Volendo ricostruire il quadro storico della situazione in Mali però, è possibile far riferimento al mandato d’arresto pronunciato dalla prima camera preliminare contro Al Hassan ed emesso il 27 marzo 2018, sulla base dell’articolo 58 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, in ragione del quale la Camera Preliminare “è convinta: a) che vi siano motivi ragionevoli di ritenere che tale persona abbia commesso un reato di competenza della corte; b) che l’arresto di tale persona sembri necessario per garantire: i) la comparizione della persona al processo; ii) che la persona non ostacoli o metta a repentaglio le indagini o il procedimento dinanzi alla Corte; iii) se del caso, impedire che la persona continui in quel reato”. Proprio all’interno di tale mandato con cui l’ex combattente è stato consegnato alla Corte appena 3 giorni dopo

la sua emissione: il 31 marzo 2018 - la ICC procede con un “exposé succinct des faits” in cui viene descritto come i gruppi armati - intesi come entità che hanno sviluppato un grado sufficiente di organizzazione militare durante le ostilità e che controllano una parte di territorio in conflitto - abbiano preso il controllo di Timbuktu attraverso i loro uomini e le loro stesse istituzioni, come la polizia islamica - di cui si ritiene Al Hassan fosse capo de facto -, Hesbah (‘brigata della moralità’) e la Corte Islamica, cercando di imporre “la loro visione della religione alla popolazione locale, dettando varie regole e divieti che colpiscono tutte le aree della vita pubblica e privata di Timbuktu”. Il mandato continua poi, nella descrizione di quanto avvenuto in quel periodo, affermando che qualsiasi violazione di quelle regole sarebbe stata punita con “fustigazioni, arresti, incarcerazioni, condanne senza precedente giudizio o sentenze emesse da un tribunale costituito irregolarmente” e in cui si presume abbia operato lo stesso Al Hassan. Uno scenario in cui qualsiasi comportamento della popolazione civile contrario alla visione religiosa condivisa dai gruppi armati AQIM e Ansar Eddine doveva essere represso senza quartiere. Dopo un lungo iter, il 30 settembre 2019, la prima camera preliminare della Corte, ha emesso all’unanimità una decisione a conferma delle accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti di Al Hassan, sulla base delle prove presentate durante l’udienza tenutasi dall’8 al 17 luglio 2019, rinviandolo a giudizio.

La presidenza della Corte costituirà quindi una camera giudicante responsabile della conduzione della fase successiva del procedimento, la quale terrà status conferences - ossia riunioni preliminari tra avvocati e giudice - e si consulterà con le parti, in modo da programmare la data del processo e facilitare lo svolgimento dell’intero procedimento. Il giudice ha inoltre autorizzato oltre 880 vittime a partecipare al caso, nelle vesti dei rispettivi rappresentanti legali. Ora, si attende che venga dato inizio al processo, anche se nessuna data è ancora stata fissata. Al momento dunque, sembrerebbe che la situazione di Al Hassan si stia muovendo verso la stessa conclusione del Caso Al Mahdi. Questo procedimento tuttavia, resta di fondamentale importanza per la Corte, che è stata oggetto di forti critiche e attacchi: più recentemente da parte degli Stati Uniti, il cui Presidente Donald Trump ha affermato che “as far as America is concerned, the ICC has no jurisdiction, no legitimacy and no authority”; ma anche da molte nazioni africane che hanno accusato la Corte di pregiudizi regionali, avendo la maggior parte dei casi trattati a che fare con crimini commessi in Africa. Critica alla quale la Corte ha risposto affermando di stare esaminando una moltitudine di casi fuori dal continente africano, ad esempio in Colombia. Un’ulteriore critica è la scarsa capacità di raggiungere una condanna in casi di alto profilo. Questa, però, potrebbe essere un’occasione per la Corte, per recuperare consensi a livello internazionale e dimostrare la propria a efficaci . MSOI the Post • 47


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