MSOI thePost Marzo 2019

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Marzo 2019

Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


M a r z o

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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

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GLI EFFETTI DELLA BREXIT NEL MONDO

Di Desideria Benini e Gabriele Fonda investimenti finanziari del valore di ben $593 miliardi. La decisione del popolo britannico Ecco spiegato perché la volatilità di uscire dall’Unione Europea ha dei mercati europei, riflesso delle gettato il Regno Unito nel caos e incertezze della Brexit, influenza nell’incertezza. Mentre scriviamo negativamente l’economia queste righe, non si sa ancora se americana: il rafforzamento del l’ultimo atto del processo avviato dollaro, conseguenza della caduta il 29 marzo 2017 dovrà svolgersi della sterlina e dell’euro, produce nell’arco della settimana o se l’UE un aumento dei prezzi delle accoglierà un’ulteriore richiesta di esportazioni USA e rende più costose rinvio avanzata da May, spostando le azioni americane per potenziali la data a ridosso delle prossime investitori stranieri. Inoltre, uscendo elezioni europee. Certamente, però, dal mercato comune, Londra perde a prescindere dall’esito finale delle la propria funzione di ‘passaporto’ trattative - no-deal, soft o hard Brexit per l’Europa, costringendo così le - è indubbio che questo evento stia compagnie statunitensi a trasferire producendo un’eco di risonanza uffici e impiegati verso altre capitali planetaria. europee. Lontana dall’essere una questione unicamente europea, il subbuglio della Brexit raggiunge, in primis, gli Stati Uniti, partner commerciali d’eccezione per l’isola di sua maestà, con un export di beni e servizi che, secondo la Camera di Commercio Americana presso l’UE, ammontava, nel 2015, a $123,5 miliardi, con

Morgan Stanley, Goldman Sachs sono solo alcune delle grandi banche americane che, sfruttando il vuoto della Brexit, stanno rafforzando la propria egemonia a livello mondiale, a discapito dei rivali europei. Per comprendere appieno l’impatto della Brexit sugli States è indispensabile accompagnare all’analisi economica una valutazione politica: secondo un rapporto diffuso dalla RAND Corporation, think tank statunitense, l’influenza americana nel Vecchio Continente potrebbe soffrire un forte calo a causa dell’esclusione della Gran Bretagna dalle sale di comando europee. Come sottolineato dagli esperti di relazioni internazionali Tim Oliver e John Williams, gli inglesi, storici difensori dell’atlantismo, hanno tradizionalmente contribuito a portare nell’Unione una prospettiva più internazionalista, in linea con le politiche statunitensi e in opposizione ai programmi di Mosca.

Da questi disordini, tuttavia, non tutti escono sconfitti. Chiudendo le porte all’Europa, Londra sta offrendo a Wall Street il lasciapassare per conquistare il mercato finanziario europeo. Nel 2018, tra i sei maggiori istituti finanziari operanti in Europa, ben cinque erano di origine Subito dopo gli States, vengono americana (Bloomberg). JP Morgan, tutti quegli altri paesi che, dai tempi

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del colonialismo, hanno mantenuto legami più o meno stretti con Londra. Dalle pagine del Telegraph, alla vigilia del fatidico 23 giugno 2016, emergevano le previsioni dei ‘Brexiteers’, per i quali la vittoria del ‘Leave’ avrebbe permesso alla Gran Bretagna di diventare “una nazione più robusta e autonoma, una potenza commerciale mondiale”. In una lettera allo stesso giornale risalente al 2013, Boris Johnson invitava la nazione a “guardare oltre l’Europa”, per rivolgersi ai 53 membri del

Unito dal creare una zona di libero scambio con l’intero Commonwealth. Per esempio, non è da sottovalutare la lontananza geografica: i più importanti alleati del Canada, infatti, sono da sempre gli Stati Uniti, mentre Australia e Nuova Zelanda sono interessate soprattutto ad accordi con potenze asiatiche. Crescendo ad un ritmo serrato di circa il 7% annuo, tra tutte le ex-colonie, l’India è la più promettente. Ebbene, secondo l’analisi del Financial Times, “ironicamente”, proprio

Institute, mostrava come svariate e numerose ricerche concordassero nell’affermare che la politica agricola comune (PAC), introdotta dall’UE nel 1962, ma già prevista nel trattato di Roma del 1957, avesse avuto un impatto negativo sui paesi in via di sviluppo, avvantaggiando i coltivatori autoctoni, a scapito di quelli extra-europei. Sebbene la riforma della PAC 2014-2020 abbia portato a dei miglioramenti in tal senso, come spiega lo studio richiesto dalla Commissione per lo sviluppo

Commonwealth. Questi paesi, spiegava l’allora sindaco di Londra, avrebbero rappresentato un partner più naturale per il Regno Unito, per affinità storiche, culturali e linguistiche; ma, soprattutto, avrebbero potuto offrire opportunità più vantaggiose in termini economici.

grazie all’uscita di scena del Regno Unito, diverrebbe più facile per l’UE superare lo stallo che per anni le ha impedito di trovare un’intesa commerciale con il gigante asiatico. I maggiori ostacoli all’accordo, infatti, come le tariffe sul whisky e i visti lavorativi, erano soprattutto voluti da Londra.

del Parlamento Europeo nel 2018, diverse problematiche rimangono irrisolte. La Brexit, quindi, offre la possibilità ai paesi africani di consolidare la propria unione negoziando un accordo comune che sia più conveniente per l’intero blocco. Per di più, Theresa May, in occasione di una visita ufficiale in Sud Africa, Nigeria e Kenya lo scorso agosto, ha promesso di indirizzare loro, entro il 2020, £4 miliardi di investimenti in più per l’economia e la sicurezza del continente, allo scopo di assicurarsi un partner più ricco, sicuro e affidabile.

In effetti, negli ultimi quattro decenni, gli ex territori della Corona hanno registrato, in media, un tasso di crescita del 4.4%, chiaramente superiore alla performance europea del 2% (CFR). Ciò nondimeno, molti sono gli ostacoli che separano il Regno 4 • MSOI the Post

La forza geopolitica che maggiormente potrebbe trarre beneficio da un Regno Unito isolato potrebbe però essere l’Africa. La relazione prodotta nel 2011 dall’Overseas Development


L’ultimo rilevante scenario che vale la pena di esplorare per comprendere gli effetti geopolitici della Brexit attraverso i tanti nodi della rete di influenza britannica è chiaramente quello europeo, più vicino al nucleo pulsante del cambiamento. Un primo esempio è il settore della pesca: i pescatori britannici, infatti, sono nettamente a favore della Brexit, forti della convinzione che la Politica Comune sulla Pesca (PCP), volta a garantire un utilizzo equo e sostenibile della stessa, non favorisca l’industria ittica inglese. La maggior parte di essi esprime frustrazione e ostilità nei confronti di Bruxelles, ritenuta responsabile delle forti limitazioni delle quote inglesi del pescabile. Inoltre, la presenza in acque britanniche, più ricche per quantità e varietà, di pescatori francesi, olandesi e danesi con maggiori quote di pescato ha indotto a ritenere che Bruxelles controlli de facto le acque britanniche. Così, i pescatori inglesi sembrerebbero aver scommesso sul fatto che la Brexit non avrà conseguenze negative sul loro commercio. I pescatori francesi, d’altro canto, anch’essi ostili alla rigidità delle regole della PCP, temono che l’esclusione dalle acque inglesi porterà alla “morte del loro mestiere”, al punto che “non ne varrebbe più la pena” (Euronews). Anche qui, però, prevale l’ottimismo verso il commercio, basato sulla considerazione, addotta anche dai britannici, per cui, anche con un no-deal, per esportare parte di un’offerta superiore alla domanda interna, la Gran Bretagna avrebbe interesse a negoziare con l’Unione, permettendo alle barche straniere la libera pesca nelle proprie acque in cambio della libera esportazione di pesce nel mercato europeo.

dell’importanza del Regno Unito sia in termini di potenziale militare, sia di cooperazione in ricerca bellicoindustriale intergovernative e fra aziende di armamenti britanniche ed europee. La concertazione bellico-industriale è il campo che più risentirà del processo di uscita dall’Unione Europea, soprattutto per la futura situazione doganale. Le aziende britanniche vantano numerose partnership con aziende europee, con rilevanti scambi di dati, risorse umane, materiali e finanziarie grazie all’attuale regime di libero scambio. L’uscita della Gran Bretagna dalla UE affiderà il prosieguo di tali collaborazioni ad un accordo di libero scambio tra le due parti. L’accordo è caldeggiato tanto dagli operatori britannici quanto da quelli europei, nella speranza di giungere a una nuova unione doganale de facto.

tutta l’Unione. Circa l’aspetto operativo, occorre tenere a mente il timore che i tagli alla Difesa possano influire negativamente sul potenziale bellico britannico, privando così l’Europa di un nucleo valido di paesi storicamente pronti all’intervento. Una hard Brexit, inoltre, comprometterebbe la cooperazione inglese - già limitata dalla politica favorevole alla NATO - ad iniziative europee come la Permanent Structured Cooperation (PESCO) e la Coordinated Annual Revision of Defence (CARD) e non europee, ad esempio la Organisation for Joint Armament Cooperation (OCCAR). Un no-deal, dunque, come faceva notare Difesa Online già nel 2017, priverebbe entrambe le parti di ingenti risorse militari e finanziarie e, parallelamente, le intese specifiche con l’European Defence Agency andrebbero a costituire l’unica possibile soluzione contro il rischio di esclusione inglese dalla difesa europea - con il Regno Unito considerato paese terzo senza influenza politica. A lungo andare, un risultato del genere potrebbe causare una divergenza UK-UE in seno a politiche di difesa e requisiti di capacità militari. La situazione è stata efficacemente riassunta dalle parole della ricercatrice Paola Sartori, che in un articolo per ECFR ha sottolineato che “L’UE dovrebbe riconoscere di non poter trattare la Gran Bretagna come un paese terzo qualunque in fatto di difesa.”

Un no-deal Brexit sarebbe assai dannoso in quest’ottica. In primis, per le limitazioni che deriverebbero da un accordo di massima o un ritorno all’applicazione delle regole del WTO. In secondo luogo, pesa il rischio di un’esclusione delle aziende di armamenti britanniche, fra le più importanti al mondo, dal mercato della difesa europeo (e, viceversa, una riduzione degli investimenti in Gran Bretagna). Ciò, mentre la UE, sotto l’impulso dell’alto rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza, Federica Mogherini, mira, oltre ad una maggiore integrazione militare, ad una liberalizzazione del mercato degli armamenti con bandi europei aperti a più paesi. Resta da vedere quale corso prenderà la storia. Può darsi che Anche la ricerca legata alla difesa molte delle ipotesi discusse su queste risentirà della Brexit. Il Regno Unito, e altre pagine finiranno per essere che rappresenta oggi 1/4 della spesa smentite, così come le aspettative europea in difesa e potenziamento di chi credeva in un’uscita ordinata delle relative capacità industriali e degli UK dall’Unione. Quel che è Per tornare sul versante più tecnologiche, perderebbe l’accesso certo, però, è che non saranno solo marcatamente geopolitico, un aspetto ai fondi europei destinati allo i britannici a osservare i prossimi fondamentale di un ipotetico sistema European Defence Fund, che, a sviluppi di questa vicenda con timore, comunitario post-Brexit concerne il sua volta, soffrirebbe dei mancati interesse e partecipazione. settore della difesa europea, in virtù finanziamenti inglesi, con effetti in

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Europa Occidentale 3 VOTI IN 3 GIORNI: BREXIT VERSO IL RINVIO

Di Diletta Sveva Tamagnone L’agenda parlamentare è stata fissata: il 26 febbraio scorso, la premier britannica Theresa May ha annunciato alla Camera dei Comuni che, qualora martedì 12 marzo il Parlamento non approvasse il suo accordo con Bruxelles, già bocciato in precedenza, il giorno successivo verrà chiamato a votare sull’ipotesi di un ‘no-deal’. Se anche tale mozione cadesse in aula, il 14 marzo si terrà un terzo voto sulla possibilità di chiedere all’Unione Europea una “proroga breve e limitata”, rinviando quindi l’uscita prevista per il 29 marzo. Questa ipotesi ha suscitato ampio ottimismo nei mercati valutari, come dimostrato dalla rimonta della sterlina: la moneta britannica è volata ai 6 • MSOI the Post

massimi sull’euro da 10 mesi a questa parte, mostrando come gli operatori economici guardino con favore a un ipotetico rinvio, che si rivela sempre più probabile al fine di scongiurare il caos di una Brexit senza accordo. Infatti, come hanno affermato il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, e la cancelliera tedesca Angela Merkel, Francia e Germania sarebbero disponibili a concedere più tempo alla Gran Bretagna. In seguito ad un incontro tra i due leader all’Eliseo, entrambi hanno affermato: “L’accordo di ritiro della Gran Bretagna dall’Unione Europea non può essere rinegoziato”; tuttavia, “se i britannici vogliono più tempo, si potrebbe esaminare una

richiesta di proroga”. Il punto su cui ha principalmente richiamato l’attenzione la Cancelliera è stata la necessità pressante di ottenere “un’uscita ordinata dall’UE”. A rafforzare l’ipotesi dello slittamento del divorzio contribuiscono anche le decisioni della Camera dei Comuni: un emendamento presentato dal leader del Partito Laburista, Jeremy Corbyn, che, alla ricerca di una ‘soft Brexit’, aveva proposto un’unione doganale con l’UE dopo la separazione, è stato bocciato con 323 voti contrari e 240 favorevoli. Stessa sorte è toccata all’emendamento proposto dagli indipendentisti del Partito Nazionale Scozzese (SNP), che richiedevano l’esclusione, in qualsiasi caso, dell’ipotesi di ‘no-deal’. È stato


Europa Occidentale messaggio daremmo ai 17 milioni di cittadini che hanno votato per lasciare l’UE?”.

invece approvato, con 502 voti favorevoli e solo 20 contrari, l’emendamento presentato dalla laburista Yvette Cooper, che ha imposto al Governo di chiedere un’estensione dell’articolo 50 qualora un accordo con l’UE non sia raggiunto entro il 13 di marzo. Non si parla però soltanto di rinvio. Corbyn ha affermato che sosterrà un ulteriore emendamento affinchè si tenga unsecondoreferendumsull’uscita dall’Unione, per “evitare una dannosa Brexit targata Tory”. Assolutamente contraria a questo scenario si è dichiarata May: per la prima ministra, tale decisione significherebbe il mancato rispetto della volontà popolare espressa con il referendum del 23 giugno 2016. Theresa May continua a favorire il rispetto della data della separazione, fissata al 29 marzo, anche perchè, se il rinvio si spostasse oltre giugno, il Regno Unito si vedrebbe costretto a partecipare alle elezioni europee e, a quel punto: “Che

Proprio questo è uno degli aspetti che sono stati analizzati da Fabian Zuleeg, capo economista dell’European Policy Centre (EPC), un think tank con sede a Bruxelles, e dall’analista Larissa Brunner (Estendere l’articolo 50: un passo eccessivo per l’UE?, 26 febbraio 2019). La loro analisi sostiene che per l’Unione Europea sarebbe un errore concedere alla Gran Bretagna un rinvio eccessivamente esteso: la partecipazione del Regno Unito alle elezioni europee di maggio potrebbe materializzarsi in un “ulteriore aumento degli eurodeputati euroscettici”, già in crescita secondo certi sondaggi, e potrebbe avere conseguenze sfavorevoli sugli equilibri di potere interni al Parlamento Europeo. Inoltre, le elezioni europee si configurerebbero come un “quasi referendum sul rapporto del Regno Unito con l’UE”. Se, infatti, l’estensione si prolungasse “fino al” o addirittura “all’interno del

prossimo Quadro finanziario pluriennale (2021-27)”, Londra dovrebbe contribuire ancora al bilancio UE. Questa situazione potrebbe essere foriera di problemi interni nel Regno Unito. Negare una lunga proroga, peraltro, darebbe all’UE e alla stessa Theresa May “una leva per premere per raggiungere un accordo adesso”, dato che, senza un prolungamento, per i parlamentari britannici si aprirebbe una scelta binaria: “un accordo, o un’uscita caotica senza accordo”. Infine, la concessione di una proroga farebbe apparire l’UE come disperatamente alla ricerca di un modo di evitare il ‘no-deal’, che si tradurrebbe in “un regalo ai Brexiteers”, ossia ai sostenitori della Brexit. L’UE, qualora conceda un rinvio più lungo, dovrà quindi accettarne le conseguenze: potrebbe persino aumentare la probabilità di un’uscita senza accordo. Se, quindi, resta improbabile che la Brexit non avvenga affatto, Zuleeg e Brunner si interrogano: “ne vale veramente la pena?”.

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Europa Occidentale LA BREXIT ALLA PROVA DEL MERCATO ENERGETICO

Di Alessio Vernetti Il settore energetico sarà uno tra i più influenzati dalla Brexit: il Regno Unito ha un fortissimo bisogno di investimenti, in particolare per rinnovare il suo parco di centrali elettriche e sviluppare interconnessioni con il continente. Non possono però che sollevarsi dubbi su chi potrebbe accettare di immobilizzare tali somme per decenni, nel contesto di incertezza politica, normativa ed economica creato dalla Brexit. L’uscita dall’UE, per giunta, priverà il Regno Unito del finanziamento della Banca europea per gli investimenti (7 miliardi di euro immessi annualmente nell’economia britannica, metà dei quali nel settore dell’energia). In caso di mancata adesione allo Spazio economico europeo, infine, andrebbe perso anche il sostegno economico che questo concede a progetti di interesse comune. 8 • MSOI the Post

La Brexit avrà quindi l’effetto immediato di aumentare il costo del parco elettrico e alcuni settori particolari, come il nucleare o l’eolico off-shore, saranno probabilmente i più svantaggiati. Inoltre, l’uscita dall’UE ha già comportato una svalutazione della sterlina britannica e potrebbe portare all’istituzione di dazi su molti prodotti tra cui, ad esempio, trasformatori elettrici, batterie o motori di turbine eoliche. Questi due fattori aumenterebbero ulteriormente il costo delle attrezzature e dei servizi di fornitura importati e ciò costituirebbe un serio problema per Londra, dal momento che il Regno Unito non è autosufficiente nell’elettricità: tra le ‘big six’, ossia le sei principali corporations di energia elettrica del Regno Unito, solo due, British Gas/Centrica e SSE, sono britanniche, mentre ben quattro hanno sede sull’altra sponda della Manica.

Già oggi la produzione elettrica britannica è insufficiente per soddisfare la domanda interna. La Gran Bretagna importa quasi 20 TWh all’anno, ovvero più del 5% del proprio consumo, principalmente dalla Francia e dai Paesi Bassi. Le linee elettriche che lo collegano al continente sono quindi fondamentali per garantire l’equilibrio della rete. Sono infatti in fase di sviluppo nuovi progetti di interconnessione: sei con l’UE e tre con lo Spazio Economico Europeo, per un totale di 9,9 GW. Tuttavia, questi progetti hanno costi elevati: basti pensare che le nuove interconnessioni pianificate con la sola Francia sfiorano i 2 miliardi di euro. Se dovessero essere congelati in attesa di un quadro normativo stabile, ciò comporterebbe un deterioramento della sicurezza energetica del Regno Unito e un aumento dei prezzi dell’energia. Per quanto concerne gas

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Europa Occidentale

petrolio, nel contesto globale Londra rimane un modesto produttore, contribuendo circa all’1% della produzione mondiale di entrambe le risorse. Anche se questi due settori rischiano di subire gli stessi effetti dell’elettricità, ossia incertezza normativa e importazioni più costose, le conseguenze della Brexit probabilmente saranno più limitate: la Gran Bretagna dispone già di infrastrutture sufficienti in questi due settori e la produzione nazionale di idrocarburi limiterà gli effetti inflazionistici del calo della sterlina. Londra sembra poi destinata ad abbandonare il ruolo di centro europeo del mercato del gas. D’altronde, la dominazione britannica è già ampiamente messa in discussione dai Paesi Bassi: i volumi scambiati sul

mercato olandese (chiamato Title Transfer Facility) hanno superato per la prima volta quelli della controparte inglese a dicembre 2015. Per quanto riguarda il vasto capitolo climatico e ambientale, l’uscita dell’UE sottrarrà il Regno Unito alle norme ambientali europee e a parte dei suoi obblighi climatici. Il Paese, pur avendo ratificato l’accordo di Parigi, non si è impegnato a ridurre le sue emissioni, essendo i livelli di queste stati decisi in sede europea. Nonostante gli obiettivi ambientali del Regno siano stati in parte contratti fuori dal quadro europeo, la Brexit apre anche qui uno spazio di incertezza. Infine, l’uscita della Gran Bretagna altererà gli

equilibri politici all’interno dell’Unione europea: sulla liberalizzazione dei mercati energetici, sullo sfruttamento di idrocarburi non convenzionali e sull’ambizione climatica posizioni a lungo sostenute da Londra - verrà fatto un passo indietro e la Francia perderà col Regno Unito un forte alleato contro la posizione anti-nucleare della Germania. Insomma, le conseguenze della Brexit saranno molto serie sul piano energetico, per l’UE e ancora di più per lo stesso Regno Unito, anche se nei fatti ogni valutazione non potrà che prescindere da un’attenta analisi delle interdipendenze tra lo scacchiere economico e quello politico.

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Medio Oriente e Nord Africa KANTER: SENZA FAMIGLIA E SENZA PATRIA

Di Lorenzo Gilardetti Enes Kanter, 211 cm per 111 kg, cestista nato a Zurigo da genitori turchi e attuale giocatore di punta dei Portland Trail Blazers, con più di 5.000 punti in NBA e $18,6 milioni a stagione di ingaggio, in soli tre anni ha perso la cittadinanza turca, la famiglia e la possibilità di lasciare gli Stati Uniti. La complessa storia che ha reso il giocatore più talentuoso della nazionale turca allo stesso tempo apolide, eroe, terrorista e perseguitato politico assume contorni più definiti se raccontata accanto alla sua battaglia politica e dialettica contro il presidente della Turchia Erdoğan. Negli Stati Uniti per motivi sportivi sin dal 2009, Kanter è uno dei tanti turchi residenti all’estero e vicini al movimento Hizmet, investiti dall’onda lunga dei provvedimenti presi dal Governo turco successivamente al tentato colpo di stato del 15 luglio 2016. All’indomani di una delle pagine più buie e controverse della storia turca recente, Erdogan individuò infatti in Fetullah Gülen un 10 • MSOI the Post

nemico di eccezione per lo stato. Gülen è stato tra i principali alleati di Erdoğan nel primo decennio degli anni 2000 e fondatore di Hizmet, nonché esponente turco dell’islam culturale moderato e fondatore di una rete scolastica in cui si è formata gran parte della classe dirigente turca. Lasciò il paese dopo che i suoi rapporti con il presidente turco si erano deteriorati nel 2013. Secondo il Governo turco, sarebbe stato proprio l’influente predicatore, dalla sua residenza in Pennsylvania, ad orchestrare l’attacco delle forze armate per sovvertire lo status quo. Durante lo stato di emergenza esteso fino al 2018, 80.000 persone sono state condannate e più di 200.000 arrestate. Prima le repressioni sono state dirette all’interno del paese, poi all’estero. Kanter, conosciuto oltreoceano anche per il suo carattere sopra le righe e per gli atteggiamenti spesso aggressivi sul parquet, tra il 2009 e il 2015 era già stato protagonista di alcune diatribe con la nazionale di basket turca, tanto che arrivò ad accusarla di discriminazione

su base politica nei suoi confronti. Il giocatore, infatti, non ha mai nascosto di essere un fervente seguace di Gülen, e, per quanto neghi qualunque coinvolgimento del leader nelle vicende del colpo di stato, Kanter sembra essere agli occhi di Ankara un esponente e un promotore (peraltro dotato di un notevole peso mediatico) di Hizmet e quindi bandito e catalogato come ‘terrorista’. Il cestista, reo di aver insultato Erdogan attraverso i suoi canali social, usati sempre al limite della provocazione, nel 2017 è stato condannato a quattro anni di reclusione da un tribunale turco - condanna tuttora pendente. Le sue posizioni ‘radicali’ sono malviste dalla sua stessa famiglia, che, già nel 2016, aveva fatto sapere dalla Turchia di aver preso la decisione di disconoscerlo pubblicamente. “Oggi ho perso quella che per 24 anni ho chiamato la mia famiglia… ma l’avrei sacrificata, per Gülen” aveva dichiarato Kanter. La presa di distanza non è comunque bastata a suo padre, professore universitario, per evitare l’arresto nel 2018.


Medio Oriente e Nord Africa il polverone alzato e cavalcato da Kanter sia un pretesto per nascondere i suoi risultati sportivi in netto calo e diverse firme della stampa sportiva internazionale non sono discordi con questa posizione.

Il momento peggiore degli ultimi tre anni di Kanter è stata però la vicenda della sospensione del passaporto, nella primavera del 2017, raccontata dal cestista su The Players Tribune: mentre il giocatore si trovava in Indonesia, il Governo turco emise un mandato internazionale di arresto nei suoi confronti, dal quale Kanter si sottrasse solamente grazie a una soffiata del suo agente e a una fuga nella notte. Giunto in Romania per lo scalo aeroportuale, poi, Kanter scoprì di non essere più in possesso di un passaporto valido. Da cittadino turco ad apolide in pochi giorni, il giocatore rientrò negli Stati Uniti grazie all’intervento di alcuni senatori dell’Oklahoma (all’epoca dei fatti era membro degli Oklahoma City Thunder).

pericolo; il ragazzo avrebbe solo problemi di visto e, anzi, con il suo comportamento scriteriato starebbe peggiorando i rapporti tra Turchia e Gran Bretagna. Se la storia dell’NBA ci insegna che molti cestisti della lega, in epoche diverse, hanno fatto del loro ruolo e della loro legacy un piedistallo importante da cui ergersi a voce di posizioni politiche risonanti e talvolta scomode (un esempio recente sono le critiche mosse da LeBron James a Donald Trump per il clima di divisione razziale), Türkoğlu suggerisce invece che

Enes Kanter, che a gennaio ha definito Türkoğlu il “cane da guardia di Erdoğan”, potrà ottenere la cittadinanza statunitense solo nel 2021: fino ad allora non potrà lasciare gli Stati Uniti e la sua storia sarà comunque sempre legata alla storia della contraddizione in cui vive da qualche anno la Turchia, che sta ancora oggi attraversando (dal 15 luglio 2016) uno dei momenti più complicati della propria storia moderna: uno stato in cui i poteri sono sempre più accentrati e numerosi cittadini, talenti in diversi campi, vengono allontanati o perseguitati come oppositori politici. E non hanno quasi mai la fortuna di chiamarsi Enes Kanter.

Infine, la polemica di inizio 2019. A gennaio, Kanter ha fatto sapere attraverso il suo profilo Twitter, con toni tutt’altro che diplomatici, di non essere partito con i New York Knicks alla volta di Londra per paura di un assassinio da parte di spie turche nel Regno Unito. A rispondere duramente è stato l’ex cestista e attuale presidente della Federbasket turca, Hidayet Türkoğlu: nessun MSOI the Post • 11


Medio Oriente e Nord Africa UNIONE EUROPEA E IRAN: UN INTRICATO RAPPORTO

Di Andrea Daidone Sanzioni, terrorismo, diplomazia, petrolio e gas. Questi sono gli elementi che compongono il controverso ma cruciale rapporto fra l’Unione Europea e la Repubblica Islamica dell’Iran. In linea con Washington, fino al 2015 Bruxelles ha mantenuto un livello costante di sanzioni nei confronti di Teheran. L’approccio euro-atlantico alla ‘questione iraniana’ è, però, cambiato radicalmente quando, durante l’amministrazione Obama, si è giunti alla firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), che vede la partecipazione anche dell’Unione, assieme a Francia, Germania e Regno Unito (UE3). Il trattato prevedeva, in cambio dell’impegno dell’Iran a garantire 12 • MSOI the Post

la natura esclusivamente pacifica del suo programma nucleare, la deroga ad alcune misure restrittive in vigore e, a partire dal 2016, la revoca di tutte le sanzioni economiche e finanziarie nei confronti di Teheran. Da quel momento, non soltanto sono stati ripristinati i normali rapporti diplomatici fra l’Unione e il regime degli Ayatollah, ma, soprattutto, è rifiorito in breve tempo un vivace commercio. Basti pensare che, solo nel 2016, il primo anno fiscale successivo all’attuazione del JCPOA, le importazioni europee dall’Iran hanno raggiunto €5,5 miliardi, con un incremento del 344,8%, mentre le esportazioni dell’UE ammontavano a €8,2 miliardi, con un aumento del 27,8%. L’anno successivo, il valore complessivo dei beni e servizi esportati dall’Iran verso

i paesi dell’Unione ha superato i €10,1 miliardi, mentre le esportazioni europee verso l’Iran hanno raggiunto un picco di €10,8 miliardi. Questo, senza considerare i miliardi che l’UE ha speso e continua a impiegare - per importare petrolio e gas dall’Iran, essenziali per alimentare la produzione industriale delle economie dell’Unione. Secondo un recente studio della compagnia petrolifera inglese British Petroleum, l’Iran è il paese più ricco al mondo per riserve di gas naturale (seguito da Russia e Qatar) e il quarto quanto a riserve di petrolio greggio. Oltre a ciò, può contare su bassi costi di produzione, un fatto che non è insignificante in un contesto internazionale in cui il prezzo del greggio è in costante diminuzione.


Medio Oriente e Nord Africa Per concludere il quadro, l’Iran ha importanti relazioni economiche con certi paesi europei in particolare, come la Germania e l’Italia. A titolo di esempio, nel 2017 ENI ha firmato un memorandum of understanding con la National Iranian Oil Company (NIOC) per lo svolgimento di studi di fattibilità nel Darquain e nei campi di Kish, in Iran. Nel suddetto giacimento petrolifero, si stima siano presenti riserve per circa 5 miliardi di barili, di cui un quinto è estraibile. Più in generale, l’Iran è in grado di estrarre 3,5 milioni di barili al giorno e non è difficile capire che, per quanto discutibile sotto molti punti di vista, Teheran risulta essere un partner strategico di primaria importanza per i paesi dell’Unione. I rapporti diplomatici ed economici tra paesi europei e Iran hanno continuato a procedere senza intoppi, almeno fino a quando, nel maggio del 2018, il presidente statunitense Donald Trump ha annunciato il ritiro

unilaterale degli Stati Uniti dal JCPOA e la conseguente reimposizione di tutte le sanzioni nel settore energetico, a partire da novembre. L’amministrazione statunitense ha, inoltre, predisposto un pacchetto di sanzioni accessorie, rivolte a tutti i paesi alleati degli Stati Uniti che avessero deciso di proseguire ugualmente i loro commerci con Teheran, ignorando i divieti di Washington. I rapporti commerciali con Teheran, tuttavia, sono oramai troppo importanti per l’UE, al punto che Bruxelles si è spinta fino alla creazione di uno special purpose vehicle, un’entità legale per facilitare e legittimare le transazioni finanziarie da e verso l’Iran, greggio incluso. L’obiettivo dell’Unione è, quindi, quello di tutelare, assistere e legittimare le tantissime aziende europee che commerciano con l’Iran, permettendo loro di condurre affari in modo legittimo. L’annuncio dell’istituzione di questo stratagemma è stato

dato dall’Alto rappresentante Mogherini, assieme al ministro iraniano degli Esteri, Javad Zarif, durante un incontro alle Nazioni Unite. Tale dispositivo, non rappresenta, però, una soluzione vera e propria al problema. Pertanto, Francia e Regno Unito hanno elaborato un’ulteriore proposta, il cui scopo non risiederebbe nella denuncia del trattato, bensì in una sua implementazione, che potrebbe includere il programma di missili balistici e la ridefinizione del ruolo geopolitico di Teheran nella regione. L’unico fatto certo, al momento, è che l’UE deve trovare un delicato equilibrio tra solidarietà atlantica e definizione di una politica estera autonoma, in grado di mediare con paesi come l’Iran, trovandosi ora - come direbbero gli antichi romani “a fronte praecipitium, a tergo lupi”, con un precipizio davanti e i lupi dietro.

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America Latina e Caraibi LE POTENZIALI CONSEGUENZE DELLA BREXIT IN AMERICA LATINA Di Tommaso Ellena L’uscita britannica dall’UE è seguita con grande interesse non solo in Europa, ma anche oltreoceano: la Brexit obbliga infatti a rivedere gli accordi commerciali firmati tra il Regno Unito e i singoli stati latinoamericani. Sino alla metà del ‘900, Londra è stata un importante alleato economico dell’America centrale e meridionale. Oggi la situazione è ben diversa: gli USA e l’UE si sono affermati come i due maggiori investitori nella regione, mentre il commercio con il Regno Unito, pur sempre presente, è nettamente ridimensionato rispetto a 70 anni fa. Secondo i dati raccolti dall’Observatory of Economic Complexity nel 2014, soltanto il 2,5% delle esportazioni colombiane sono dirette nel Regno Unito e nel 2017 arrivavano appena all’1,2%; il Brasile esporta solamente l’1,4% dei suoi prodotti verso Londra, mentre lo stesso valore, se si guarda al Messico, raggiunge appena lo 0,77%. Ad ogni modo, le stime sugli effetti complessivi della Brexit in America latina richiedono costanti aggiornamenti, al netto della complessità di uno scenario in costante evoluzione e ancora ammantato di molte incertezze. Si può ipotizzare che, lasciata l’Unione, il Regno Unito verrebbe escluso dai trattati che l’UE ha firmato con i Paesi del Cono Sud e quelli dell’America centrale. I trattati dovranno essere ridiscussi e si dovrà raggiungere una serie di accordi bilaterali tra singoli stati. Ciò richiederà lunghe negoziazioni, che potrebbero verosimilmente protrarsi per svariati anni, come già paventato dall’ex presidente colombiano Juan Manuel Santos in un’intervista con Bloomberg 14 • MSOI the Post

del giugno 2016, quando ancora l’uscita dall’Unione non era stata decisa dal popolo britannico. La Brexit avrà probabilmente un rilevante impatto nei rapporti tra gli investitori britannici e le miniere latinoamericane. In Colombia, il Regno Unito è il secondo maggior investitore straniero nel settore: questo legame ha fruttato a Bogotà un incasso pari a circa $6 miliardi negli ultimi otto anni. La speranza di coloro che sostengono la Brexit è che, con l’UE, si smaterializzino tanti ostacoli burocratici e, altresì, che le singole imprese britanniche possano sfruttare la loro maggiore indipendenza per ottenere nuovi accordi in questo settore. Chi invece guarda all’uscita del Regno Unito dall’Unione con sfavore, evidenzia come le prospettive più ottimistiche non mettano in conto gli sviluppi degli ultimi mesi, che mostrano il declino della sterlina da quando è stata annunciata la vittoria del ‘leave’ al referendum. Un ulteriore riflesso della defezione britannica e della battuta d’arresto dell’esperimento comunitario si potrà probabilmente ravvisare nello speculare rafforzamento dei partiti nazionalisti e conservatori a livello globale. Nell’ambito specifico dell’America latina questo trend geopolitico, capace di mettere in discussione il modello dell’integrazione regionale e mondiale, potrebbe intaccare il Mercado Común del Sur (Mercosur) che, negli ultimi anni, si è molto avvicinato all’UE, mentre oggi si trova ad affrontare un periodo di cambiamenti, dopo aver sospeso il Venezuela dal gruppo degli stati membri. La

Brexit,

infine,

potrebbe

condurre a una serie di sviluppi riguardanti la situazione politica delle isole Falkland, arcipelago situato nell’Atlantico meridionale e distante solamente 1.521 km dalle coste argentine, ma sotto controllo britannico dal 1833. Nel 1982 le isole furono al centro di un conflitto durato 74 giorni tra l’esercito della giunta militare argentina, guidata dal generale Leopoldo Galtieri, e la marina inglese inviata da Margaret Thatcher. Le ostilità terminarono con la vittoria britannica e le isole rimasero dunque sotto il controllo del Regno Unito. L’Argentina, però, ne reclama tutt’oggi la sovranità. A ottobre, il ministro degli Esteri argentino, Jorge Faurie, ha rilasciato un’intervista al quotidiano The Daily Telegraph, affermando la necessità di un dialogo maggiore tra le isole Malvinas (nome con cui gli argentini si riferiscono alle Falkland) e Buenos Aires. Con la Brexit, secondo Faurie, “I paesi membri dell’Unione Europea cesseranno di supportare il Regno Unito”. Con la caducazione degli effetti dei trattati stipulati dall’Unione con Londra, compreso il Trattato di Lisbona del dicembre 2009, in base al quale le Isole Malvinas sono territorio d’oltremare britannico e quindi sottostanti alle norme comunitarie, la speranza argentina è di poter ottenere in futuro nuovi negoziati per riaprire un canale di comunione tra l’arcipelago e la terraferma argentina, sia dal punto di vista politico, sia in ambito culturale. La speranza del Governo di Mauricio Macri è che la sede per nuovi accordi bilaterali possa diventare occasione per il dialogo e un riavvicinamento tra le parti.


America Latina e Caraibi EFFETTO NOTTE: L’INTERO VENEZUELA PARALIZZATO DA UN BLACK-OUT

Di Davide Mina L’8 marzo scorso i venezuelani hanno visto le loro città sprofondare letteralmente nel buio a causa di un black-out che ha colpito l’intero paese e che ha messo in ginocchio il sistema economico e socio-sanitario. Le estrazioni petrolifere, cardine dell’economia venezuelana, hanno subito un brusco arresto e i cittadini hanno trovato difficoltà nell’approvvigionamento di acqua potabile. A Maracaibo, la seconda città più importante del paese, sono stati denunciati numerosi saccheggi. Asdrubal Oliveros, economista e direttore dell’agenzia Ecoanalitica, ha calcolato danni ingenti. Molte aziende venezuelane, già rallentate dalla crisi economica e dall’instabilità

politica, hanno dovuto arrestare le proprie attività a causa dell’assenza di elettricità. Il blocco delle attività produttive è stato totale e ha cagionato alla già debole economia del paese un danno che oscilla tra 150 e 200 milioni di dollari al giorno. Nel settore petrolifero le perdite quotidiane sono state stimate intorno a 700.000 barili. Sebbene l’interruzione sia durata ’solo’ una settimana, i danni causati hanno raggiunto l’1% del PIL. Nicolás Maduro e Juan Guaidó, i due leader che si contendono la direzione dello Stato, nonché i governi di alcune nazioni che si oppongono al primo, hanno tentato di individuare le cause e i colpevoli, giungendo a conclusioni divergenti. Gli oppositori di Maduro ritengono che il black-

out sia l’ennesima prova dell’incapacità organizzativa di un regime che non rispetta i diritti dei cittadini. Per Maduro stesso, invece, si tratta di un attentato contro i diritti umani dei Venezuelani inferto dagli Stati Uniti, attraverso un sofisticato attacco informatico al sistema idroelettrico del Venezuela. Eppure, come suggerisce Limes, sarebbe la prima volta che una nazione riesce a gettarne un’altra nella totale oscurità. Alcuni esperti del settore elettrico, poi, hanno rilasciato a BBC Mundo alcune dichiarazioni secondo le quali la vera causa dell’oscuramento andrebbe ricercata nell’incendio della principale linea elettrica del paese, che nasce nella centrale idroelettrica Simòn Bolìvar, nel sud del Venezuela. MSOI the Post • 15


America Latina e Caraibi

Dopo l’accusa di ‘sabotaggio informatico’ nei confronti di Donald Trump, il 12 marzo scorso il Governo ha ordinato ai diplomatici statunitensi di lasciare il paese entro 72 ore, perchè la loro presenza sul suolo venezuelano rappresentava “un rischio per la pace, l’unità e la stabilità del Paese”. Pertanto, il Dipartimento di Stato USA, che riconosce ufficialmente solo la legittimità di Guaidó, ha annunciato il ritiro del suo staff dal Venezuela. Michelle Bachelet, l’Alto commissario ONU per i diritti umani, da sempre critica nei confronti del regime venezuelano, il giorno seguente alla minaccia di Trump di intensificare le restrizioni economiche, ha dichiarato in sede al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite: “Sono preoccupata che le recenti sanzioni, che colpiscono i trasferimenti finanziari derivanti dalla vendita di petrolio venezuelano negli Stati Uniti, potrebbero contribuire ad aggravare la crisi economica, 16 • MSOI the Post

ripercuotendosi sui diritti fondamentali dell’uomo e del benessere dei cittadini”. Per Maduro i nemici sono anche all’interno dello Stato. Il giornalista ispano-venezuelano Luis Carlos Díaz è stato arrestato l’11 marzo presso le sedi della polizia politica, con l’accusa di aver preso parte al sabotaggio, per poi essere rilasciato dopo 24 ore. Attualmente si trova in stato di libertà condizionata, con obbligo di firma ogni otto giorni presso le autorità di giustizia venezuelane e con il divieto di lasciare il paese. Allo stesso modo, il pubblico ministero Tarek William Saab ha annunciato l’apertura di un’indagine penale contro Juan Guaidó per i medesimi capi d’accusa. Maduro non cerca solo nemici, ma guarda ad oriente in cerca di alleati. Il Venezuela, infatti, intrattiene sempre più stretti rapporti con la Cina da dieci anni a questa parte, in particolare da quando

quest’ultima aveva finanziato la costruzione di cinque centrali elettriche da realizzare a Caracas entro il 2014. Pechino, infatti, non paga in denaro l’import di petrolio avendo enormi crediti nei confronti del Governo caraibico e, fin dal primo giorno di oscuramento, ha promesso un aiuto tecnico al fine di ristabilire la rete elettrica venezuelana. Solo giovedì 14 marzo, dopo una lunga settimana, è tornata la corrente nella maggioranza delle zone colpite. Tuttavia, nonostante le rassicurazioni sul ripristino del sistema di fornitura elettrica, lunedì 25 marzo si sono registrati nuovi episodi di black-out in tutto il territorio. Almeno 21 stati si sono trovati senza elettricità ed il sistema metropolitano di Caracas ha dovuto sospendere il servizio. Le autorità non si sono ancora pronunciate in merito e non hanno dato alcuna spiegazione; la situazione, pertanto, resta delicata e tuttora in fase di evoluzione.


ASIA ORIENTALE E OCEANIA THE HANOI NUCLEAR SUMMIT ENDS WITH NO AGREEMENT

By Kevin Ferri It was April 2017 when the whole world was watching Pyongyang and its nuclear experiments. The dual-track policy that keeps engagement open for its good behavior while seeking to impose sanctions for its bad behaviour - i.e. the ‘strategic patience’ approach adopted by former president Barack Obama - had been long gone and substituted by a ‘heads-on’ policy by President Donald J. Trump. In that period, the U.S.S. Carl Vinson had been dispatched towards North Korean waters as a deterrent against further intercontinental ballistic missile experiments brought on by Kim Jong-Un’s orders. However, the Supreme Leader revealed himself as a resilient character and continued pursuing his nuclear program which he then completed in December 2017. Kim Jong-Un’s plans ultimately succeeded and in May 2018 he

met South Korean President Moon Jae-In at Panmunjon for peace talks as part of the 2018 Inter-Korean Summit. In that occasion, North Korea’s plans where clearly visible. Firstly, sanctions were strangling the North Korean economy - which was already increasingly isolated from global markets. Secondly, Kim JongUn was seeking a diplomatic shift in favor of South Korea rather than China, which was already accounting for 90% of North Korean trade, thus implying an extensive economic interference. From there on, the three-way relations between North Korea, South Korea and the United States have started being quite stable. Indeed, the Singapore Summit held on June 12th, 2018 painted a vivid portrait of what diplomacy can truly create. On that occasion, U.S. President Donald J. Trump and North Korean supreme leader Kim Jong-Un met for the first time and shook hands, setting a historical

precedent for the two countries international relations. And so it happened. On February 27th, 2019 the two leaders met in Hanoi, Vietnam. This was the occasion for a second round of talks. Trump and Kim had the occasion to speak behind closed doors for about 30 minutes while enjoying a small dinner at the Metropole Hotel of the Vietnamese capital. However, the topics discussed during the official part of the encounter werestrictlycorrelatedtosanctionsand denuclearization. The ultimate positions were different. The United States reported that North Korea wanted a complete and instant removal of all 11 sanctions imposed by the United Nations in exchange for the complete closing of the Yongbyon nuclear plant. The sanctions imposed by the U.N. Security Council were passed all unanimously and over time measures have expanded to ban military equipment, industrial machinery and the export of fish and agricultural MSOI the Post • 17


Asia Orientale e Oceania products. Furthermore, sanctions may freeze assets of individuals involved in the country’s nuclear program. But the Koreans immediately corrected the American version saying they just asked to be freed from sanctions between 2016 and 2017 (5 out of 11 United Nations resolutions) in exchange for the closing of the “plutonium-creating” Yongbyon nuclear plant. However, the United States not only were not intentioned to remove any of the sanctions, but they surely wanted the Yongbyon nuclear plant closed and possibly a ‘end-of-war declaration’ (to finally overrule the 1953 armistice). Clearly, these were

thinking about the aftermath.

discussed upon.

What Kim Jong-Un and Donald Trump brought back home was a bittersweet sentiment. The 2020 U.S. Presidential Elections are rather near and Trump knows he has to start winning some matches in foreign relations and - unfortunately for him - the Hanoi Summit wasn’t really a victory. Another issue that may jeopardize President Donald Trump’s re-election is the hearing of the testimony of his personal ex-lawyer Michael Cohen in the case relating possible Russian interferences in the 2016 U.S. Presidential Elections. Furthermore, not only is it a matter of election but

positions Pyongyang could have never accepted.

also a matter of Congressional relations. In fact, the Democrats will be holding President Trump accountable for this failure and seeing the influence they gained in Congress during mid-term elections it will be difficult for him to maneuver politically as he once did.

Meanwhile, South Korea and China are impatiently waiting to understand what they can lay their hands on. President Xi Jinping has been rubbing his hands thinking about the failure of the Hanoi Summit. Just as in 2017, China is still the main supplier for North Korean goods and this will keep growing. In fact, both Xi Jinping and South Korean President Moon JaeIn are hoping to gain further influence on North Korea and ultimately push the United States into being a marginal actor in the region. The only difference between China and South Korea is the capability to respond to the increasing nuclear power of North Korea. China is surely safer than South Korea and for this reason Moon Jae-In has to necessarily apply balanced policies against and in favor of the United States which remains without any doubts a major contributor in the South Korean defense sector.

Immediately, the public opinion arose asking why such claims had been brought to the table if unobtainable. In fact, North Korean and American claims were quite incompatible as the United States tried really hard to obtain all the conditions by leveraging against Kim JongUn. But this ‘all-in’ technique ultimately failed and President Trump was forced to leave the table of negotiations. In later hours, President Trump responded to the public saying that even though the negotiations had failed, both countries were still willing to pursue a regime of constructive communications. At that point, the two heads of State could only travel back to their countries 18 • MSOI the Post

On the other hand, Kim JongUn is most likely going to be seen by his fellow citizens as a hero for resisting American pressures and interferences. However, he might also be facing difficulties in dealing with his military Generals as the agreements in slowing and ultimately stopping the nuclear programs could lead to a lowering of military prestige. Ultimately, we must wait for a new summit to be held and for new accords to be drafted and

In conclusion, the United States and North Korea seem to be avoiding to solve once and for all the conundrums that affect each other. A reason for this might include that better agreement conditions must be created by both parties in order for them to be willing to bind themselves. Efforts on bilateral communications and diplomacy are being pursued by the two countries. This opening still appears to be a remarkable achievement and shall continue until North Korea will be desperate for economic help. What could tip the scale towards one actor or the other is the contribution of regional powers (such as China or South Korea) in favour or against one of them.


Asia Orientale e Oceania ITALY’S ROLE IN CHINA’S BELT AND ROAD INITIATIVE

By Paolo Santalucia The Belt and Road Initiative (BRI), also known as the ‘New Silk Roads’, is an ambitious project officially announced by the Chinese Government in 2013, with the intent of improving regional cooperation and connectivity on a trans-continental scale. The initiative aims at strengthening infrastructure, trade, and investment links between China and more than 60 other countries throughout Eurasia. A focal point in the Chinese project is the Italian support to it, as the Bel Paese became the first G7 nation to sign up for China’s Belt and Road plan: “It would have been a bit eccentric not to take part in this important infrastructure project that recalls the Silk Road, whose Italy is the natural landing place”, claimed Italy’s Prime Minister Giuseppe Conte. Xi Jinping’s visit to Italy started from Rome on the 21st of March, where, due to his arrival, a silent army made up of thousands of men trained to face any major threat had been deployed, and ended last Sunday in Palermo, as Xi Jinping promised a strong development of the touristic sector to the city.

The Memorandum of Understanding (MoU) between Italy and China was officially signed last Saturday in the presence of the Italian Prime Minister Giuseppe Conte and the Chinese President Xi Jinping, together with Vice-Prime Minister Luigi Di Maio and the Chairman of the National Commission for Development and Reform, He Lifeng. Still, the document in question does not represent a binding international agreement for Italy. In fact, it is just a framework agreement, a mere expression of intent - though it carries a certain symbolic value. This sort of MoU with China has also been signed by 13 other European countries: Bulgaria, Croatia, Czech Republic, Estonia, Hungary, Greece, Latvia, Lithuania, Malta, Poland, Portugal, Slovakia, and Slovenia. The MoU signed in Rome involves, amongst many items, an effort to improve the quality of the financial cooperation between the parties, which will eventually encourage the strengthening of the partnerships between the respective financial institutions, in order to jointly support investment and financing cooperation at bilateral and multilateral level and towards third countries under the

framework of Belt and Road Initiative. Beyond that, the two parties share the hope for a more accessible, safe, inclusive and sustainable transport and the desire to enhance policy dialogue on connectivity initiatives, focusing on both technical and regulatory standards. As regards the strengthening of the Sino-Italian relation, the twice Prime Minister of Italy Romano Prodi stated: “In my opinion, Italy has a strategic position that allows it to compete in transportation going from East Asia to Europe. As everyone is making their own interests, it is also in Italy’s power, within the framework of European rules, to serve its own legitimate interests”. On the other hand, the active participation of Italy in China’s Belt and Road initiative has also been strongly criticized, especially by high-level officials from the United States and the EU. Garrett Marquis, spokesman for the White House’s group of national security advisers, claimed on Twitter that, given that Italy is a major global economy and a great investment destination, the Italian Government, should not “lend” legitimacy to China’s MSOI the Post • 19


Asia Orientale e Oceania ‘infrastructure vanity project’. Marquis’ claims, however, ought to be interpreted taking into account the fact that the relationship between China and the US has lately been quite controversial. In particular, the two countries are currently engaged in an infamous ‘trade war’ which was initiated by the Trump administration in an attempt to limit China’s export and hegemonic power in the AsiaPacific. The fuse was arguably lit by some investigations mandated by the US Government on China’s alleged tendency to employ unfair strategies to climb up the innovation ladder. And, indeed, Beijing has been accused of using its market appeal to persuade foreign companies into sharing their latest technologies with its mostly state-owned companies. Another bothering concern for Washington is that Italy might end up tied way too close with China, consequently falling into its expansionist goals. A scenario of this kind would translate into a higher presence over the Italian territory of Chinese companies, especially those that, according to the States, may be posing potential threats to the protection of sensitive data, such as Ren Zhengfei’s Huawei. Indeed, it seems that China’s telecom giant aspires to play an increasingly important role in Italy and, combined with the upcoming release of the latest generation of cellular mobile communications, dubbed ‘5G’, this could lead to a Chinese interference within Western communication systems. The fact that no limitations have been imposed so far to Huawei in terms of access to Italy’s communications networks could 20 • MSOI the Post

lead to troubles. For instance, Rome will be likely asked by its allies to ensure the safeguard of delicate data coming from some of the most highly secured places in Italy, such as NATO’s installations. Besides the US, certain member states of the European Union levied criticism. “We want a relationship based on reciprocity: if one side has access then the other side should too”, said Angela Merkel about the talks she, French President Macron, and European Commission President Jean-Claude Juncker had with President Xi on March 25th, highlighting how, according to her, a ‘block agreement’ involving the EU as a whole would have proved to be a much more efficient solution than a single MoU between China and Italy. According to others instead, for example the Italian party 5 Stars Movement, which published a fervent article on its official blog about the advantages of the MoU, Italy would surely benefit from this agreement, gaining renewed importance in the global trade arena by closing in its bond with China and consequently expanding the scope of its international trade. In particular, the port of Trieste and the port of Genoa seem to have fallen into Beijing’s scope. The Chinese administration, within the MoU, has disposed for two cooperation agreements between these ports and China Communications Construction Company (CCCC). At the moment, the situation seems to be quite different from the one that involved Greece and - specifically - the port of Piraeus, whose 51% of shares is now owned by China Ocean

Shipping Company (COSCO). China’s involvement is expected to be much lighter in the case of the ports of Trieste and Genoa, while still contributing to their requalification and resumption. The question of how much China’s involvement is going to affect the Italian economy in the long term remains unanswered: a total of 29 deals amounting to €2.5 billion have been signed over energy, finance, agriculture, tourism, and transportations. Since 19 out 29 deals involve strategic institutions, fears about Italy being caught in a debt trap reared, also taking into consideration that the country slipped into recession at the end of 2018 and that its national debt levels remain among the highest in the Eurozone. Despite strong evidence that some African and South-East Asian countries that joined the Belt and Road Initiative are now at high risk of falling deep into said debt trap, it still seems highly unlikely that Italy, a highincome country, whose economy is undoubtedly more stable than the ones of Sri Lanka or Djibouti could fall in such a dramatic condition. In conclusion, Xi left Rome with fruitful results: Italy signed the MoU and Prime Minister Giuseppe Conte promised to take part in next month’s second BRI Summit in Beijing. The doors for the Sino-Italian cooperation are more open than ever before in recent years. After Italy, the Chinese President paid state visits to Monaco and France. Xi’s three-nation Europe tour is both his first overseas trip in 2019 and his second trip to Europe in about four months, which testifies to the importance China has attached to its relations with European countries, causing overt upset in Washington.


Economia e Finanza LA NORVEGIA DISINVESTE DAGLI IDROCARBURI E GUARDA AL FUTURO

Di Giacomo Robasto Nell’ambito europeo, i paesi scandinavi rappresentano validi modelli di crescita economica sostenibile. Tuttavia, a differenza delle vicine repubbliche di Danimarca e di Svezia, la Norvegia ha potuto beneficiare, nel corso degli anni, delle ingenti riserve petrolifere al largo delle proprie coste, per dare vita a uno tra i maggiori fondi sovrani al mondo. Infatti, analogamente a numerose economie avanzate o esportatrici di materie prime, come la Cina e gli Emirati Arabi Uniti, il fondo sovrano costituisce per lo stato norvegese uno speciale strumento di investimento per mettere a frutto i proventi dell’attività economica locale

in ulteriori strumenti finanziari, come azioni, obbligazioni e beni patrimoniali, in tutto il mondo, al fine di sovvenzionare lautamente la spesa pubblica a beneficio dei poco più di cinque milioni di abitanti che popolano la nazione. Nel caso norvegese, gli investimenti, che per anni si sono concentrati in gran parte in partecipazioni in compagnie petrolifere di paesi terzi, hanno iniziato a mostrare le proprie debolezze nel 2018. Se, infatti, nel 2014, il fondo sovrano norvegese era diventato il più ampio al mondo, superando il valore di €880 milioni (kr8.500 miliardi, in valuta locale) l’anno scorso ha registrato un decremento del 6,1% rispetto al 2017, mettendo a segno la peggiore performance dal 2011.

Visto l’andamento negativo del fondo, attribuibile sia al calo del prezzo del petrolio greggio sui mercati internazionali, sia al deprezzamento della corona norvegese, la Banca Centrale, a cui spetta la gestione, non si è chiaramente astenuta da rapidi provvedimenti. Non a caso, come ha ricordato il suo direttore generale Yngve Slyngstad, ad eccezione di un lieve calo nel 2002, il fondo non ha mai registrato un declino così considerevole del proprio valore. Pertanto non stupisce che, nei mesi venturi, il fondo norvegese sarà coinvolto da una prima fase di disinvestimento dalla portata di €6,6 miliardi circa, che verranno dismessi da partecipazioni in aziende di

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Economia e Finanza riferimento del settore come Royal Dutch Shell, Total, BP, ExxonMobil. Tra le ben 341 partecipazioni azionarie in società quotate spiccano proprio quella in Royal Dutch Shell, in cui il fondo ha una partecipazione del 2,45% che vale €5,2 miliardi; quella in BP (un 2,31% che vale €2,6 miliardi) e quella in Total (un 2,02% che vale €2,5 miliardi). Quanto all’Italia, con circa €8 miliardi di partecipazioni in società quotate italiane, il fondo norvegese è il terzo investitore estero a Piazza Affari e vanta in portafoglio una partecipazione importante in ENI: una quota dell’1,59% che vale €805 milioni, che, però, al momento non pare verrà dismessa. La diversificazione del portafoglio di investimenti sembra dunque una priorità assoluta alle latitudini elevate, considerata anche la priorità del governo di arrivare ad una mobilità su strada completamente elettrica o a emissioni zero entro il 2025. Già oggi, infatti, una vettura su tre tra quelle in circolazione nel paese è ad alimentazione elettrica. Alla luce di questa stima, nel mese di ottobre

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2018, il 45% delle vetture era completamente elettrico, mentre il 60% della popolazione possedeva una tecnologia plug-in; in particolare, l’auto totalmente elettrica che ha registrato il maggior numero di vendite, sia per quanto riguarda la Norvegia sia a livello globale, è la Nissan Leaf. Gli altri marchi maggiormente presenti sul mercato scandinavo, a seguire, sono BMW, Volkswagen e Tesla con i suoi SUV elettrici. L’intenzione di proseguire sulla via degli investimenti sostenibili sembra confermata anche dalle parole di Carine Smith Ihenacho, Chief corporate governance officer presso la Banca Centrale: “Il nostro fondo sovrano ha a cuore il futuro delle prossime generazioni. Così, la sostenibilità degli investimenti rappresenta un elemento essenziale per la creazione di valore nel lungo periodo e per la salvaguardia di quello attuale”. In questo modo, la Norvegia, oltre ad avere rilevanti partecipazioni di stato in colossi mondiali del calibro di Apple e Amazon, vanterà a breve nel proprio portafoglio investimenti aziende come Invenergy, Ecoplexus e XCel Energy, i cui nomi stanno

diventando punti di riferimento nell’ambito dell’energia eolica e fotovoltaica. La sostenibilità, così come intesa dalla Norvegia, tuttavia, non è da intendersi solo ed esclusivamente ambientale: le scelte di investimento del fondo sovrano saranno nel futuro prossimo sempre più orientate ad aziende virtuose non soltanto per trasparenza nella gestione aziendale, ma anche per impegno profuso nella lotta alle diseguaglianze sociali. Queste ultime vengono individuate grazie ad una ricerca approfondita, che spazia dall’osservazione degli indicatori socio-economici dei singoli stati all’analisi dei diversi settori che caratterizzano le economie locali. Grazie a questo processo, i gestori del fondo individuano opportunità e minacce presenti nell’economia, indirizzando le partecipazioni anche su imprese che si distinguono nella ricerca e sviluppo di nuove soluzioni.


Economia e Finanza IL SOGNO CINESE

Di Michelangelo Inverso La Belt and Road Iniziative (BRI) è stata uno dei temi più dibattuti delle ultime settimane, con schieramenti di favorevoli e scettici contrapposti, sia a livello nazionale sia internazionale. Prima di analizzare nello specifico il Memorandum of Understanding (MoU) tra Italia e Repubblica Popolare Cinese (RPC), occorre partire da un rapido excursus sulla sua essenza. Il progetto, nato sotto il nome di One Belt One Road e proposto per la prima volta a Pechino nel 2013, mira a fondere gli ambiti economico, geostrategico e culturale. Il potente segretario del Partito Comunista Cinese e presidente cinese Xi Jinping lo ha definito ’il sogno cinese’, formula che, nella sostanza,

potremmo tradurre con ’globalizzazione cinese’. Difatti, nella sua accezione ’internazionale’ - BRI - si traduce in un mastodontico progetto infrastrutturale multivettoriale (porti-aeroporti-ferrovie) che, nei progetti del suo principale ideatore, Xi Jinping in persona, dovrebbe fungere da volano sia per rilanciare l’economia nazionale e gli scambi commerciali con i paesi eurasiatici, sia per dare nuova linfa alla politica estera cinese, tanto rilevante agli occhi del Governo da inserirlo nella stessa Costituzione cinese. Le due nuove Vie della Seta (terrestre e marittima), che connetteranno la Cina con l’Europa, passando attraverso l’Asia centrale, secondo le stime del Governo cinese arriverebbero a coinvolgere i

due terzi della popolazione mondiale, collegando l’estremo oriente in misura maggiore anche con il continente africano. Secondo Il Sole 24 Ore, “Il piano generale, così come delineato cinque anni fa (ndr, sei anni fa), dovrebbe cambiare il volto dell’Eurasia: 900 progetti di nuove infrastrutture, quasi 1.000 miliardi di dollari da investire, 780 miliardi generati dagli interscambi con i 60 paesi coinvolti, 200 mila nuovi posti di lavoro”. Dal 2013 a oggi, e, in particolare nel biennio 2014-2016, il Governo cinese ha già investito oltre €50 miliardi nel progetto. Conseguentemente, l’interscambio tra i paesi che hanno già aderito alla BRI avrebbe raggiunto, secondo l’Ambasciatore d’Italia a Pechino, Ettore Sequi, €350

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Economia e Finanza flussi turistici verso l’Italia e l’esportazione culturale italiana verso Pechino.

miliardi dal 2014 al 2017. In tutto questo, l’Italia è stata finora uno dei partner commerciali UE più importanti per Pechino, anche se solo in termini relativi. La Germania, infatti, vanta un interscambio commerciale con la Cina pari a circa €190 miliardi; l’Italia arriva ’solamente’ a €40 miliardi. A riprova dell’interesse italiano verso il progetto e dell’importanza delle relazioni con la Cina si ricorda la partecipazione al Forum di Pechino nel 2017 degli allora ministri degli Esteri e delle Infrastrutture Angelino Alfano e Graziano Delrio, accompagnati dal presidente della Repubblica Mattarella e dall’allora premier Gentiloni, unico Primo Ministro presente tra i paesi del G7. In quell’occasione venne firmato un Memorandum di intesa per la creazione del Sino-italian Co-investment Fund, un fondo da €100 milioni destinato alle piccole e medie imprese italiane e cinesi. Inoltre, fu sostenuto l’interesse a cooperare, da parte cinese, per il rinnovamento dei porti di Genova, Trieste e Venezia, al fine di accrescerne il volume di 24 • MSOI the Post

merci transitanti, anche grazie all’avvenuto raddoppio del Canale di Suez nel 2015, che li ha resi parte integrante nella Via marittima. Giungendo, dunque, al Memorandum of Understanding firmato dal Governo Italiano a dal corrispettivo cinese lo scorso 23 marzo, è anzitutto da notare che non è un trattato, ma uno strumento volto a incrementare la cooperazione bilaterale: un documento che introduce come trattare i futuri ed eventuali accordi e le controversie commerciali e culturali italo-cinesi. Nell’ambito di questa intesa sono state firmate 29 iniziative, di cui 10 di carattere commerciale e 19 tra attori istituzionali. Per quanto concerne le prime, esse hanno riguardato principalmente il settore energetico, culturale e delle turbine a gas, per un valore attuale di €2,5 miliardi e con un potenziale fino a €20 miliardi. Le intese di carattere istituzionale hanno, invece, riguardato la risoluzione dei problemi legati alla doppia imposizione fiscale, i requisiti fitosanitari per l’import-export, i gemellaggi fra città, accordi per la semplificazione dei

La firma del MoU ha innescato numerosi malumori tanto internamente, quanto, e soprattutto, esternamente all’Italia. Le principali critiche arrivano, per ragioni diverse, sia dai paesi partner dell’Unione Europea, sia dagli Stati Uniti. I primi - in particolare Francia e Germania - rimproverano Roma per aver agito senza consultare gli altri paesi membri, rivendicando così la competenza esclusiva di Bruxelles negli accordi commerciali con paesi extracomunitari. I secondi, invece, hanno messo in guardia dai presunti rischi alla sicurezza nazionale portati dal maggior ruolo commerciale della Cina, in particolare per quanto concerne le telecomunicazioni - in primis, relativamente all’impiego di tecnologie 5G, di cui Huawei, nemico dichiarato di Trump, potrebbe acquisire un sostanziale monopolio. A queste accuse il Governo italiano ha risposto, da un lato, sostenendo che l’Italia ha agito in conformità a prassi di politiche bilaterali già esistenti tra gli stati comunitari e la Repubblica Popolare Cinese, come, ad esempio, tra Germania e RPC. Dall’altro lato, si sono esclusi meccanismi automatici di risoluzione delle controversie nell’ambito della sicurezza nazionale, attraverso strumenti di controllo attivo dello stato italiano per accordi su materie considerate ’sensibili’, come il 5G. La BRI corre ormai sul doppio binario economico e geopolitico. Pensare di poterlo ignorare sarebbe incauto. La Cina non è più solo vicina: la Cina è arrivata.


Europa Orientale e Asia Centrale THE BAD BOYS OF BREXIT

Di Vladimiro Labate “Ho un messaggio molto semplice per la Russia: sappiamo ciò che state facendo e non ci riuscirete [...] Il Regno Unito farà ciò che è necessario per proteggere se stesso e lavoreremo con i nostri alleati allo stesso modo”. Con queste parole, il 13 novembre 2017, Theresa May, premier del governo britannico, attaccava la Russia, colpevole di “cercare di militarizzare l’informazione, utilizzare i media di Stato per introdurre fake stories con l’intento di mettere discordia in Occidente e minacciare le nostre istituzioni”. Poco più di un anno dopo il referendum che aveva sancito la volontà della Gran Bretagna di uscire dall’Unione europea, l’ombra della presenza russa su quella consultazione ha cominciato a farsi strada.

Alexander Yakovenko. Banks è stato uno dei fondatori del comitato Leave.EU, insieme al leader dell’UKIP Nigel Farage, ed è passato alle cronache per aver finanziato la campagna per il ‘Leave’ con 8 milioni di sterline, diventando il più grande finanziatore nella storia del Regno Unito. Yakovenko è stato invece individuato dal procuratore speciale Robert Mueller come l’intermediario di alto livello tra la campagna di Trump e il Cremlino. Secondo alcuni documenti in possesso dei giornalisti inglesi, dal novembre del 2015 al 2017 si tennero 11 incontri tra alcuni esponenti di Leave.

EU e ufficiali di alto livello dell’ambasciata russa. In particolare, nei giorni precedenti il lancio del comitato, avvenuto il 18 novembre 2015, Yakovenko avrebbe presentato a Banks e Andy Wigmore, portavoce di Leave.EU e partner commerciale di Banks, un uomo d’affari russo, Siman Povarenkin, con cui avrebbero discusso di un possibile investimento in miniere d’oro russe. Questa negoziazione sarebbe continuata attraverso un viaggio dei due businessmen inglesi a Mosca nel febbraio del 2016, per incontrare degli alti dirigenti della Sberbank, banca statale finanziatrice dell’accordo. Secondo il The Observer, questo sarebbe

La svolta si è avuta a giugno del 2018, quando un’inchiesta del periodico domenicale The Observer ha portato alla luce alcuni legami tra la campagna a favore del ‘Leave’ e l’ambasciata russa a Londra. La vicenda ruota attorno alle figure di Arron Banks, uomo d’affari milionario, e dell’ambasciatore russo MSOI the Post • 25


Europa Orientale e Asia Centrale Sul The Guardian, Emma Briant, accademica dell’Università dell’Essex che ha portato alla luce l’e-mail, suggeriva l’idea che Bannon vedesse la Gran Bretagna come una “porta di ingresso” per influenzare la politica europea.

stato un canale utilizzato dal governo russo per finanziare indirettamente la campagna per la Brexit. Un altro episodio controverso portato alla luce riguarda uno scambio di messaggi all’interno del comitato Leave.EU: l’11 marzo 2016, l’ambasciata russa a Londra rilasciò un comunicato stampa in risposta a un intervento dell’allora ministro degli esteri britannico Philip Hammond, per il quale la Russia era l’unico Paese a volere che il Regno Unito lasciasse l’UE. Nel comunicato, l’ambasciata chiedeva che il governo inglese desse spiegazioni. Lo scambio di messaggi all’interno del comitato, pubblicato dal The Observer, indica che non solo approfittò dell’occasione per pubblicare un post sui social della campagna in sostegno all’ambasciata, ma che lo stesso Banks suggerì di mandare una nota di supporto all’ambasciatore russo, a dimostrazione di un rapporto consolidato tra le parti. Intervistata da The Observer, l’ambasciata russa ha negato “di essere intervenuta in alcun modo nel processo politico interno del Regno Unito, incluso il referendum sulla Brexit”. Ma i rapporti del comitato Leave. EU e di Banks con soggetti 26 • MSOI the Post

esteri non si fermerebbero ai russi: il 24 ottobre 2015, Banks avrebbe mandato una e-mail a vari destinatari, tra cui Steve Bannon, guru della campagna presidenziale di Donald Trump e fondatore di Cambridge Analytica, società di consulenza per la comunicazione elettorale. In questo messaggio, Banks affermava che “Leave.EU vorrebbe che Cambridge Analytica inventasse una strategia di raccolta fondi negli Stati Uniti e di coinvolgimento di aziende e speciali gruppi di interesse”. Come potenziale strategia, Banks suggerì che ci si rivolgesse a persone con legami familiari nel Regno Unito, per raccogliere finanziamenti e coordinare eventi sui social.

Ai sensi della legge britannica, le donazioni a fini politici provenienti dall’estero sono illecite. Arron Banks è al momento sotto investigazione per i suoi finanziamenti al comitato Leave.EU, poiché la Commissione elettorale non lo ha ritenuto la vera fonte dei prestiti. Il ruolo di Banks è peraltro sotto la lente del comitato parlamentare d’indagine sulla disinformazione e sulle fake news, presieduto dal conservatore Damian Collins, secondo il quale “le e-mail suggeriscono che il ruolo di Bannon è stato più profondo e più complesso di quanto pensassimo [...]. Ci sono collegamenti diretti tra i movimenti politici dietro la Brexit e Trump. Dobbiamo riconoscere il quadro più grande, coordinato attraverso i confini nazionali da persone molto ricche in un modo davvero mai visto prima”.


Europa Orientale e Asia Centrale EQUILIBRI EUROPEI: BREXIT E IL RUOLO DELLA GRAN BRETAGNA NEI PAESI BALCANICI

Di Lucrezia Petricca Tra Brexit, no deal, ‘piano May’ e lunghe trattative con l’Unione Europea, il Regno Unito difficilmente potrà continuare a giocare la parte del sostenitore del processo di avvicinamento e delle negoziazioni per l’ingresso dei Balcani occidentali entro il quadro comunitario. Durante il conflitto nei Balcani, gli stati europei si divisero fra chi sosteneva il principio di autodeterminazione dei popoli e chi si schierava a favore del mantenimento dell’integrità territoriale. Quando Croazia e Slovenia dichiararono l’indipendenza, l’Austria, la Germania e la Santa Sede ne appoggiarono l’indipendenza, mentre Regno Unito, Francia e Italia sostennero l’integrità della Jugoslavia. Ciò, non

impedì però al primo ministro inglese Tony Blair di figurare tra i sostenitori, nel 1999, dell’operazione ‘Allied Force’ della NATO, condotta con l’obiettivo di colpire la presenza serba in Kosovo e ricondurre Milosevic al tavolo delle trattative. Negli anni seguenti la fine della guerra, il Regno Unito fu di fatto uno dei promotori del dialogo e della cooperazione dell’Unione con gli stati balcanici, auspicando un ampliamento dei confini dell’UE, anziché una maggiore integrazione politica. Ecco perché, ancora oggi, il Regno Unito sembra voler mantenere un dialogo aperto con i paesi balcanici, in favore di un’ulteriore politica di allargamento. In virtù di tale rapporto, il Regno Unito ha aderito al Processo di Berlino, un’iniziativa

politico-diplomatica di stampo intergovernativo lanciata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel nel 2014: obiettivo principale del Processo è instaurare una maggiore cooperazione tra alcuni stati membri dell’Unione e gli stati balcanici. I ministri degli Esteri di Germania, Francia, Austria, Croazia e Slovenia, insieme agli omologhi di Serbia, Albania, Bosnia, Macedonia, Kosovo e Montenegro, si sono incontrati per la prima volta a Berlino nel 2014. Ad essi si sono aggiunti, negli anni successivi, i rappresentanti di Italia, Regno Unito, Polonia e Bulgaria. L’ultimo appuntamento del Processo si è svolto a Londra, a luglio 2018. La scelta di ospitare l’incontro proprio a nella capitale inglese ha un significato particolare. Nel vertice tenutosi a Trieste

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Europa Orientale e Asia Centrale cyber security e, inoltre, si è discusso di argomenti quali il mercato nero delle armi, il traffico di droga e il terrorismo, cercando anche di instaurare una maggiore cooperazione tra le parti. Il Regno Unito ha infine deciso di volersi impegnare per promuovere l’occupazione giovanile, in modo tale da contrastare i problemi legati all’immigrazione di giovani disoccupati nel paese. Per far ciò, si è prevista l’istituzione di un fondo di £10 milioni per investire nelle competenze digitali. nel 2017, l’allora ministro degli Esteri britannico Boris Johnson ha annunciato che il quinto summit sarebbe stato ospitato a Londra. Johnson, orgoglioso del fatto che il Regno Unito avrebbe ospitato il vertice, affermò che si trattava di “una ferma dimostrazione del sostegno della Gran Bretagna alla riforma tanto necessaria per migliorare la sicurezza della regione, rilanciare l’economia e combattere sfide come [il itraffico di] droghe illegal ”. Sulla falsariga delle parole di Johnson, come riportava Sputnik nel luglio scorso, l’ambasciatore britannico in Serbia Denis Keefe aveva definito, in un tweet, il Vertice “la continuazione del profondo interesse che il Regno Unito ha dimostrato ai suoi partner dei Balcani occidentali da decenni”. I contenuti essenziali del summit, infatti, si concentrano sulla necessità di garantire una maggiore stabilità economico-sociale. Innanzitutto, sono stati promessi strumenti necessari a risollevare l’economia dei paesi della regione. Il rilancio dei rapporti economici è stato concretizzato in una politica di investimenti nel settore della 28 • MSOI the Post

Il vertice è stato, d’altro canto, offuscato dalla notizia delle dimissioni del segretario di stato britannico per la Brexit David Davis e di Boris Johnson, annunciate a poche ore dall’inizio dell’incontro. Il meeting è così passato in secondo piano, con le attenzioni indirizzate verso le difficoltà interne al Governo inglese, ora spaccato sulla questione della Brexit. In quest’occasione, come sottolineato da Eleonora Poli su Affari Internazionali, è emerso “quanto la Brexit renderà difficile per Londra mantenere la stabilità politica necessaria per giocare un ruolo

di peso nell’arena globale”. Ma cosa accadrà dopo la Brexit? Viste le trattative ancora in corso e partendo dal presupposto che il Regno Unito sembri voler continuare a mantenere la leadership nella cooperazione con i paesi balcanici, si potrebbe provare a delineare un possibile quadro futuro. Da un lato, è possibile ricordare quanto già sostenuto dal giornalista e scrittore albanese Idro Seferi il 27 giugno del 2016, a pochi giorni dall’esito del referendum: l’uscita del Regno Unito potrebbe stimolare gli altri Stati membri a rivalutare l’ipotesi di integrazione dei paesi balcanici; ma è comunque probabile che, dall’altro lato, con l’abbandono del principale promotore, l’ipotesi venga semplicemente archiviata.


Africa Subsahariana MENTRE L’EUROPA SI DIVIDE, L’AFRICA ACCELERA NEL SUO CAMMINO VERSO L’UNITÀ

Di Desideria Benini Rivolgendosi ai cittadini europei attraverso una lettera inviata il 4 marzo scorso alle maggiori testate del Vecchio Continente, il presidente francese Macron aveva scelto parole chiare e perentorie: “Mai l’Europa è stata tanto in pericolo”. Dopo il forte trauma della Brexit e la fulminea ascesa di forze nazionaliste, il dibattito sull’Unione Europea e la grave crisi che quest’ultima sta attraversando sono, infatti, più vivi che mai. Mentre l’Unione cerca di rimanere in piedi senza più uno delle sue colonne portanti, a sud del Mediterraneo sembra che le cose procedano nella direzione opposta. L’Unione Africana sta lavorando a ritmo serrato per creare una forza, con le parole di Macron, “sempre più forte e più capace [...] un’organizzazione che sia agile, in salute e e efficac ”.

Paragonare l’Unione Africana (UA) all’Unione Europea sarebbe azzardato, se si considerasse la differenza sostanziale esistente tra i due continenti che le ospitano, sia in termini di trascorsi storici, sia di odierne condizioni socio-politiche ed economiche. Non si può però negare che l’idea di costruire un organismo di unione, solidarietà e integrazione, sia politica che socio-economica, tra i vari e numerosi stati di un’unica grande Africa sia proprio di ispirazione europea.

da capi di stato e di governo, sull’esempio del Consiglio europeo.

Gli stessi organi costitutivi dell’Unione Africana sono improntati sul modello istituzionale dell’UE: il Parlamento panafricano è, come il Parlamento europeo, lo strumento inteso a dare rappresentanza alla società civile. Tuttavia è privo di una simile autorità legislativa. L’Assemblea, invece, organo supremo dell’UA, è composta

Il primo grande passo è avvenuto nel 1999, quando l’Assemblea decise di rinnovare l’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), nata nel 1963. Durante i circa 40 anni trascorsi da quella data, l’OUA aveva mantenuto un ruolo molto marginale nel continente, ostacolata dal suo stesso principio istitutivo di ‘non interferenza’, che rendeva

Ciò che maggiormente differenzia i due organismi, è la natura sovranazionale di quello europeo, che lo rende unico nel suo genere. E se peraltro l’Unione Africana non può fregiarsi di aver compiuto processo di integrazione della stessa portata, anch’essa ha affrontato un lungo e tortuoso viaggio verso una sempre maggiore unità.

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Africa Subsahariana impossibile intervenire negli affari interni degli Stati membri. Con l’avvento degli anni 2000 e della globalizzazione, considerando anche la fine della Guerra Fredda e del colonialismo, le esigenze del popolo africano mutarono: la crescente richiesta di democrazia, pace e prosperità chiamava ad una risposta più incisiva. Per questo, i capi di stato del continente decisero di rifondare l’OUA su un nuovo atto costitutivo, così da attribuirle la prerogativa di intervenire in circostanze gravi, quali crimini di guerra, genocidio o crimini contro l’umanità. Nel 2002, è stata inaugurata la prima Assemblea dell’Unione Africana: “per un’Africa nuova, lungimirante, dinamica e unita”.

di ridurre il numero di membri della Commissione, segretariato dell’Unione con funzioni esecutive, da otto a sei, rendendo le rispettive aree di competenza più corpose e consistenti. Altra cruciale questione è stata l’indipendenza finanziaria dell’Unione: più del 50% del suo budget è infatti versato da partner esteri. Per raggiungere l’autosufficienza, oltre ad aver istituito sanzioni più severe per gli stati inadempienti, Kagame ha proposto di riscuotere una tassa dello 0,2% su una gamma di prodotti importati dall’estero. Il progetto ha però faticato a trovare un consenso unanime e ancora oggi circa la metà dei membri si rifiuta di implementarlo.

Oggi, l’istituzione panafricana si muove verso ulteriori novità. Pilota di un radicale processo di riforme è stato, in particolare, il presidente ruandese Paul Kagame, a capo dell’Unione Africana tra il 2018 e il 2019. Con l’obiettivo di snellire e ottimizzare l’organizzazione dell’UA, Kagame ha ottenuto

Pur non avendo visto realizzato per intero il suo disegno, Kagame potrà vantare un sostanziale successo. Nel maggio 2018 infatti, durante il Congresso di Kigali, 49 stati su 55 hanno firmano l’accordo a creazione di una Zona di Libero Scambio dell’Unione Africana segnando “un momento storico

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nella vita del continente”, “un sogno che diventa realtà”. Riducendo le barriere doganali e facilitando gli scambi, l’Africa ambisce dunque a un sempre maggiore sviluppo economico. Determinato a imporsi sulla scena mondiale, il continente è giunto ora alla consapevolezza che “l’integrazione non è più un’opzione ma un imperativo”. Questa stessa convinzione è stata la miccia che ha fatto accendere il sogno europeo, più di mezzo secolo fa. Gli avvenimenti recenti però - la Brexit in primo luogo sembrano portare a credere che questo progetto sia più precario di quanto i suoi fautori non vogliano lasciare a intendere.


Africa Subsahariana LA GIOVENTÙ AFRICANA E IL #FRYDAYFORFUTURE

Di Jessica Prieto Venerdì 15 marzo scorso, i giovani di tutto il mondo, dall’Italia alla Cina, dalla Norvegia fino all’Argentina, hanno scioperato per il pianeta Terra. La gioventù globale, che sembra non fidarsi più delle classi politiche e delle loro promesse per la salvaguardia dell’ambiente, si è mobilitata per affermare la volontà di cambiare il futuro. Per diversi giorni, sui media di tutto il mondo, si sono susseguite interviste a studenti che denunciavano una situazione ambientale divenuta insostenibile: “Non voglio vivere in un mondo con un riscaldamento globale che supera i 3° C” ha dichiarato un ragazzo intervistato dal quotidiano francese Le Monde.

I ragazzi del #FridayForFuture sono espressione di una crescente sensibilità che le società occidentali, in particolare quelle più industrializzate, stanno sviluppando a fronte degli evidenti effetti del cambiamento climatico. La maggior parte degli studenti che è scesa in piazza lo ha fatto in paesi europei, mentre solo una minoranza nei paesi africani, dell’Asia centrale o dell’America Latina, nonostante proprio queste ultime siano le zone più a rischio del mondo. La crisi ambientale, infatti, non riguarda esclusivamente il famigerato aumento di 3 gradi centigradi previsto nei prossimi anni, ma si manifesta in un mondo complesso e in concomitanza con altri gravi problemi che affliggono la società umana, quali, ad esempio, la discriminazione

sociale e culturale: un fenomeno che, nella storia contemporanea, si è spesso tradotto in forme di colonialismo non curanti dell’unicità di fauna, flora e tradizioni autoctone. In Africa, America Latina e Asia centrale le nuove generazioni si sentono perciò preda della tradizione capitalista e vedono nel cambiamento climatico la principale conseguenza della mancata sensibilità delle potenze occidentali. Può darsi che a molti dei giovani che abitano le zone più povere del mondo, queste manifestazioni globali non lasceranno che un gusto amaro in bocca. Le rivendicazioni, pur sintomo di una preoccupazione crescente in seno ai paesi industrializzati, e gli slogan cantati nei cortei delle piazze belga ed europee devono essere messi a confronto con sensibilità diverse,

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Africa Subsahariana come nel caso della gioventù africana, che si trova oggi a lottare quotidianamente con stringenti problematiche legate al cambiamento climatico, dalla siccità all’impossibilità di coltivare le proprie sementi.

Secondo un rapporto Oxfam del 2017, a causa delle avversità climatiche, sono più di 12 milioni le persone che in Etiopia, Kenya e Somalia sono a rischio di gravi carenze alimentari, con un impatto diretto sulla loro salute. L’aumento delle temperature, inoltre, causa nelle persone gravi problemi respiratori, e mette in crisi l’agricoltura, alimentando i tassi di malnutrizione e povertà. Si tratta, quindi, di comunità che vivono i cambiamenti climatici con consapevolezze diverse: da una parte, si hanno cortei di genitori e figli che camminano per le città con striscioni e cartelli; dall’altra, persone che per sfuggire da questi disastri ambientali (e da una serie di problematiche di altro genere) affrontano traversate potenzialmente mortali nel Mediterraneo. Il 26 marzo, dalla sede delle Nazioni Unite, il segretario 32 • MSOI the Post

generale Antonio Guterres ha richiamato l’attenzione del mondo sulla catastrofe del ciclone Idai che si teme affliggerà almeno 3 milioni di persone tra Malawi, Mozambico e Zimbabwe e che ha già

ucciso 700 persone. Guterres ha ricordato al pubblico che la perdita della sfida globale per l’equilibrio ecologico sarebbe una catastrofe per l’Africa e, per questo, è necessario un maggiore impegno da parte delle istituzioni dei paesi più

avanzati affinché aumentino gli aiuti e i finanziamenti a sostegno dei paesi più a rischio. Il cambiamento climatico non potrà essere combattuto senza superare le ingiustizie e le disuguaglianze che ancora caratterizzano il mondo odierno. Il #FridayForFuture non deve fermarsi alle misure ambientali, come la riduzione delle emissioni di CO2; a questi interventi importanti e necessari si devono aggiungere politiche di sostegno e cooperazione con i paesi che più di tutti ne pagano il peso. Solo così questa ‘generazione clima’, da europea, potrà diventare realmente globale.


Nord America BREXIT: QUALI CONSEGUENZE NELLA SPECIAL RELATIONSHIP TRA REGNO UNITO E STATI UNITI?

Di Domenico Andrea Schiuma I primi tre mesi del 2019 hanno rimesso in discussione il futuro della Brexit. La House of Commons, infatti, dopo aver bocciato l’accordo di recesso tra il Regno Unito e l’Unione Europea, ha rigettato anche la seconda proposta. Il giorno successivo a questo secondo rifiuto, anche l’ipotesi di un’uscita senza accordo è stata cassata. Decisioni che hanno portato lo stesso organo a votare, il 14 marzo, a favore del rinvio della Brexit. L’Unione Europea deve ora decidere se accontentare le richieste di Londra e concedere una dilatazione dei tempi. Un documento dell’Ufficio Rapporti con l’Unione Europea della Camera dei Deputati, risalente allo scorso 28 febbraio, elenca i principali metodi tramite i quali il Regno Unito potrebbe uscire dall’impasse.

Tra questi vi sono: l’indizione di elezioni politiche anticipate, la convocazione di un nuovo referendum, in cui si chiederebbe all’elettorato britannico di scegliere tra uscita dall’UE con un nuovo accordo, uscita senza accordo o permanenza nell’UE mantenendo le vecchie condizioni; infine, la revoca unilaterale della decisione di recedere dall’UE. A quasi tre anni di distanza dal fatidico referendum del 23 giugno 2016, l’addio del Regno Unito all’UE non sembrerebbe, dunque, così scontato. Immaginiamo per un secondo che la Brexit si realizzi. Quali sarebbero le sue conseguenze sulla ‘special relationship’ tra il Regno Unito e gli Stati Uniti? Politici e analisti di entrambe le nazioni si sono posti il quesito ben prima che si tenesse il referendum sulla Brexit. Barack

Obama, il 22 aprile 2016, sostenne infatti apertamente le ragioni del ‘Remain’, affermando che il Regno Unito “è al massimo delle sue forze quando contribuisce alla direzione di un’Unione Europea forte”, e che “l’Unione Europea non indebolisce l’influenza inglese nel mondo, ma la esalta”. L’ex Presidente statunitense manifestò tali opinioni durante un viaggio di tre giorni in Regno Unito e in occasione di una conferenza stampa in cui prese la parola anche un altro sostenitore del ‘Remain’, David Cameron. In tale circostanza, l’allora primo ministro del Regno Unito dichiarò, infatti, che l’essere membri dell’Unione Europea avrebbe rafforzato la ‘special relationship’ tra Londra e Washington. In un contesto storico in cui gli Stati Uniti guardano con sempre maggiore attenzione a quello che succede, dal punto di vista economico e strategico, nell’area del Pacifico,

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Nord America occorre fornire loro un motivo per continuare a guardare alla madre patria. La ragione sarebbe il ruolo di perno svolto dal Regno Unito nelle relazioni tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Le opinioni di Obama e di Cameron richiamavano una visione dei rapporti USA-UK inaugurata nel 1962 dall’ex segretario di Stato americano Dean Acheson. Come riportato da Tim Oliver e Michael John Williams nel loro saggio Special relationship in flux: Brexit and the future of the Us-Eu and Us-Uk relationships (2016), durante un discorso tenuto a West Point, Acheson affermò che “il tentativo inglese di giocare un ruolo al di fuori dell’Europa, un ruolo basato su una ‘special relationship’ con gli Stati Uniti e sulla permanenza a capo di un Commonwealth che non ha nessuna struttura, unità o forza politica - è un’idea superata”. Nei decenni successivi, il Regno Unito non prese in grande considerazione il monito di Acheson sull’opportunità di giocare un ruolo a parte dall’Europa, tant’è vero che la sua permanenza nell’UE è stata caratterizzata dalla politica del ‘cherry picking’: la tendenza di Londra ad aderire solo alle iniziative europee vantaggiose per la Corona, fuggendo le altre. L’atteggiamento venne stigmatizzato già nel 2013 da Guido Westerwelle, ex ministro degli Affari Esteri tedesco, il quale affermò che, sebbene la sussidiarietà fosse un’alternativa in certi casi necessaria al monopolio decisionale dell’Unione: “Il cherry-picking non è un’opzione”. Tuttavia, secondo gli autori, il ruolo del Regno Unito si è dimostrato essere cruciale per diverse 34 • MSOI the Post

ragioni: da un lato per lo sviluppo dell’UE, dall’altro per favorire l’interessamento degli Stati Uniti alla geopolitica europea.

loro divergenze di opinione sui possibili effetti della Brexit, la relazione speciale del Regno Unito con gli Stati Uniti fosse qualcosa da custodire”.

I fautori del ‘Leave’, invece, attaccarono l’intervento di Obama. Boris Johnson, in particolare, dichiarò che, una volta fuori dall’UE, un Regno Unito ringiovanito avrebbe costituito per gli Stati Uniti “un alleato ancora migliore e più prezioso”. Dello stesso avviso si mostrò anche Liam Fox, segretario di Stato britannico per il Commercio Internazionale, che il 30 novembre 2018 scrisse sul Time: “Dopo che avremo lasciato l’UE, il 29 marzo 2019, avremo una politica commerciale indipendente riguardante beni e servizi, saremo in grado di stabilire le nostre tariffe, e di negoziare, firmare e ratificare nuovi accordi di libero commercio. E un accordo con gli Stati Uniti è tra le nostre priorità”. Fox aggiunse, inoltre, che i preparativi per inaugurare le trattative commerciali con gli Stati Uniti fossero a buon punto ed evidenziò come i rapporti tra il Regno Unito e gli Stati Uniti potessero trovare giovamento dalla Brexit, dichiarando: “Con la nostra storia condivisa e con gli interessi economici reciproci, potremo diventare un benchmark globale per come due economie forti, aperte e mature possono commerciare l’una con l’altra”.

Mills mise in evidenza come l’obiettivo della destra britannica fosse quello di “assicurare un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, per compensare il declino nei commerci con l’Unione Europea dopo la Brexit”. La sinistra inglese, invece, come dichiarato dall’autore, è “generalmente molto più scettica sulla special relationship con gli Stati Uniti”. Il timore della sinistra in Regno Unito è che un accordo commerciale con gli USA possa spianare la strada a una parziale privatizzazione dei servizi pubblici come il National Health Service, l’equivalente del Sistema Sanitario Nazionale Italiano. Un’operazione di questo genere comporterebbe, secondo la sinistra, un peggioramento degli standard sanitari in Regno Unito.

Come evidenziato in un post del 2018 da Thomas Mills, docente di Diplomazia e Politica Estera presso la Lancaster University, gli interventi citati “rivelarono un punto sul quale erano d’accordo sia i Remainers come Cameron, sia i Leavers come Johnson: che, nonostante le

Benché, sostiene Mills, la destra inglese sottolinei in continuazione i rapporti culturali e commerciali intercorrenti con gli Stati Uniti, non sarebbe da dimenticare come, nella storia recente, tale ‘special relationship’ sia stata tossica per il Regno Unito. Le forti relazioni di Londra con Washington hanno, infatti, spinto la prima ad impegnarsi nella guerra in Iraq e a sostenere pratiche illegali come la ‘extraordinary rendition’ per i sospetti terroristi. L’Inghilterra avrebbe anche rinunciato al ruolo di leader morale del mondo, evitando di condannare con la giusta forza il ‘travel ban’ elaborato dall’amministrazione Trump. Nel tentativo di rimanere vicina all’Unione Europea, prosegue


Nord America

Mills, la sinistra commette un errore simile. La permanenza nell’unione doganale, tanto propugnata dal Partito Laburista, rappresenterebbe per il Regno Unito “una sorprendente perdita di sovranità”. Il Regno Unito, infatti, in simili circostanze, vedrebbe limitata la propria capacità di siglare nuovi accordi di libero commercio con altri Stati, ritrovandosi, di fatto, costretta ad accettare le condizioni imposte dall’UE, provvista di una maggiore forza contrattuale. La conclusione elaborata da Mills è che “nel lasciare l’Unione Europea, il Regno Unito dovrebbe stabilire relazioni commerciali il più strette possibili con l’Europa”, senza che ciò comporti un’intensificazione dei rapporti con gli Stati Uniti. Mills avrebbe, infatti, ravvisato dei rischi connessi al rafforzamento dei legami tra UK e USA. Il Regno Unito, secondo l’autore, dovrebbe sfruttare l’opportunità Brexit per ripensare il proprio ruolo nel mondo e “per plasmare

una politica estera che risulti davvero indipendente, sia dagli Stati Uniti che dall’Unione Europea”. Il Regno Unito può riuscirci, chiosa Mills: l’importanza di Londra nel mondo è diminuita molto meno di quanto comunemente si affermi. Il ragionamento, tuttavia, può considerarsi valido solo se si ritiene ancora esistente un’effettiva ‘special relationship’ tra lo UK e gli USA. L’idea che tale relazione non sia poi così forte o speciale come in passato, però, sembra essere condivisa da diversi intellettuali e studiosi. Il 13 luglio 2018, ad esempio, CNBC ha riportato alcune dichiarazioni di Jacob Parakilas, del Royal Institute of International Affairs, secondo il quale “gli Stati Uniti hanno altre relazioni che in qualche modo assomigliano a quella che hanno con il Regno Unito. Lo stesso non si può affermare per la Corona”. Sulla base di tali considerazioni la ‘special relationship’ esisterebbe solo nella mente e nella politica degli inglesi.

Tale divergenza potrebbe essere dovuta alle dimensioni delle rispettive economie, che rendono Londra molto più dipendente da Washington di quanto la Casa Bianca possa esserlo da Buckingham Palace. Un’opinione simile è stata espressa da Sergio Romano, il 7 ottobre 2018, sul Corriere della Sera. Dopo la Seconda guerra mondiale, sostiene lo storico, il Regno Unito avrebbe sperato di rappresentare per gli Stati Uniti ciò che Atene fu per Roma, “un tesoro di esperienza e saggezza a cui attingere per meglio affrontare i problemi della società e del mondo”. Le cose andarono in modo diverso: “Nelle questioni di maggiore importanza, tuttavia, la Gran Bretagna, per molti americani, era ormai una vecchia zia, ammirabile e rispettata”, e nulla di più. Per questo, conclude Romano, “è molto improbabile che il rapporto speciale con gli Stati Uniti possa sostituire il legame con l’Unione Europea”. MSOI the Post • 35


Nord America BREXIT: COME EVOLVERANNO I RAPPORTICOMMERCIALI TRA UK E USA? Di Elisa Zamuner Venerdì 29 marzo la prima ministra Theresa May ha sottoposto per la terza volta il proprio deal con l’UE al voto del Parlamento britannico e per la terza volta questo è stato respinto. I parlamentari hanno avuto modo di presentare alcune mozioni alternative all’accordo, ma anche queste sono state tutte bocciate. La mancanza di un’alternativa condivisa da una qualche maggioranza e le scarse probabilità che l’UE riapra i negoziati sono i principali fattori che rendono sempre più plausibile l’ipotesi del no deal: la possibilità, cioè, che il Regno Unito esca dall’Unione Europea senza alcun accordo. Entro il prossimo 12 aprile il Parlamento britannico dovrà decidere se richiedere all’UE un ulteriore rinvio motivato al termine, trovandosi nella scomoda situazione di dover tenere le elezioni europee oppure se fronteggiare l’incerto scenario dell’hard Brexit. Un’uscita dall’UE senza nessun accordo comporterebbe enormi svantaggi, tanto sul Regno Unito quanto su tutti gli altri paesi dell’Unione; Germania, Francia e Italia sarebbero tra quelli più colpiti, con perdite all’anno rispettivamente di 9,5, 7,7 e 4,1 miliardi di euro. Ci sono, però, alcuni paesi al di fuori dell’eurozona che trarrebbero dei benefici economici da una hard Brexit: tra questi USA e Cina. Secondo Il Sole 24ore, infatti, Pechino vedrebbe aumentare le proprie entrate di 5,3 miliardi l’anno, mentre Washington di circa 13,2. 36 • MSOI the Post

In particolare, con la Brexit, il Regno Unito, una volta fuori dall’unione doganale, sarà libero di rinegoziare trattati e accordi commerciali privi di vincoli tariffari europei con le altre potenze mondiali. In un’intervista del 30 marzo a Sky News, John Bolton, consigliere per la Sicurezza Nazionale statunitense, ha sostenuto che un accordo commerciale tra USA e UK sarebbe una priorità per l’amministrazione Trump; ancora, secondo Bolton, il presidente americano “crede che le leggi dell’Unione Europea siano discriminatorie nei confronti del commercio americano e desidera un accordo con la Gran Bretagna libero, equo e reciproco”. Al contrario, tra le varie proposte di emendamento al deal di Theresa May, sulle quali il Parlamento britannico si è espresso in modo negativo mercoledì 1° aprile, ne figura una per cui il Regno Unito dovrebbe negoziare con l’UE una permanenza completa all’interno dell’unione doganale europea in seguito alla Brexit. Kenneth Clarke, il parlamentare autore della proposta, durante il proprio intervento, ha cercato di minimizzare l’idea che l’unione doganale non permetta agli UK di siglare accordi commerciali vantaggiosi con paesi terzi, ed in particolare con gli USA. Secondo Clarke, difatti, il beneficio di poter modificare liberamente le tariffe sarebbe minimo e andrebbe soppesato con l’incapacità di pretendere dagli Stati Uniti degli standard qualitativi alti nei prodotti che verrebbero esportati in Gran Bretagna. La mozione, tuttavia, è stata bocciata, sebbene per soli 3 voti.

Nel frattempo, le due autorità indipendenti di vigilanza dei mercati finanziari Financial Conduct Authority (FCA) e la Security and Exchange Commission (SEC), rispettivamente britannica e statunitense, hanno annunciato di aver sottoscritto due Memoranda of Understanding (MoU); questi accordi di cooperazione aggiornati entreranno in vigore non appena il Regno Unito sarà ufficialmente uscita dall’UE. Il presidente della SEC, Jay Clayton, ha ricordato la lunga storia di collaborazione con la FCA, attestando come i due memoranda ribadiscano l’impegno di entrambe le autorità a cooperare nell’interesse e a vantaggio dei rispettivi i mercati. Andrew Bailey, suo omologo per la FCA, ha aggiunto che “le modifiche poste agli accordi assicureranno continuità e stabilità per i consumatori e gli investitori nel Regno Unito e negli Stati Uniti”. Fino a quando non verrà superata questo impasse del Parlamento è difficile ipotizzare quel che sarà ‘il dopo Brexit’ per il Regno Unito. Le scelte che compirà Westminster nei giorni venturi saranno cruciali e determineranno il nuovo ruolo che il paese sarà chiamato a ricoprire al di fuori dell’UE. Nell’ipotesi di una hard Brexit, però, i tempi saranno molto più stretti e il Regno Unito farà molta più fatica ad imporsi nel mercato globale: potrebbe ritrovarsi vulnerabile e più esposto alla forza economica di Paesi come gli Stati Uniti, i quali potrebbero ottenere degli accordi commerciali piuttosto svantaggiosi per la controparte.


Sud e Sud Est Asiatico INDIA: IL POPOLO ALLE URNE PER LE PIÙ GRANDI ELEZIONI DEL MONDO

Di Virginia Orsili Si avvicinano le elezioni parlamentari indiane, che avranno luogo dall’11 aprile al 19 maggio. I cittadini saranno chiamati a eleggere i nuovi rappresentanti della Camera Bassa del Parlamento, la Lok Sabha. Con 900 milioni di aventi diritto al voto, queste votazioni si preannunciano le più grandi che il mondo abbia mai visto. In vista dell’imminente tornata elettorale, inoltre, sarà cruciale il voto dei nuovi elettori (dai 18 ai 21 anni). A tal proposito, secondo un censimento fatto nel 2011, ogni anno circa 20 milioni di giovani indiani raggiungono la maggiore età. Le statistiche registrate negli ultimi anni mostrano come i giovani non abbiano un orientamento unanime, non considerando nemmeno, se non in forma marginale, il genere di appartenenza del capolista. Nelle scorse elezioni, infatti, non è mai stato registrato un voto in blocco da parte dell’elettorato femminile indiano per partiti guidati da leader donne,

segnando una controtendenza rispetto alle altre democrazie asiatiche. Secondo il Centre for the Study of Developing Societies (CSDS), sono altre le variabili che sembrano avere un impatto significativo sulla scelta dei giovani elettori, come casta, religione, classe sociale o provenienza geografica. A seguito dei risultati delle elezioni del 2014, i principali media nazionali e stranieri avevano parlato di “vittoria schiacciante” dell’attuale primo ministro Narendra Modi e del suo Partito nazionalista indù, il Bharatiya Janata Party (BJP), ora alla ricerca di un nuovo trionfo. All’opposizione, invece, l’Indian National Congress (INC), guidato da Rahul Gandhi, discendente da illustre prosapia: suo padre Rajiv è stato infatti primo ministro, così come sua nonna Indira, prima leader donna del paese, e suo nonno, Jawaharlal Nehru, anch’egli ex-capo dell’esecutivo. Nel 2014, il BJP ottenne 282 seggi, registrando la maggioranza più ampia degli ultimi 30 anni. L’INC, al contrario, dovette affrontare una sconfitta storica,

ottenendo solo 44 seggi, con meno del 20% del voto popolare. La Lok Sabha è tradizionalmente composta da 545 seggi, 543 dei quali vengono assegnati in base all’esito delle elezioni, mentre i restanti due sono riservati ai rappresentanti della comunità angloindiana, nominati direttamente dal Presidente. Sarà, dunque, il partito che otterrà la maggioranza a nominare il primo ministro e la squadra di governo. Per la formazione della maggioranza, inoltre, alcune regioni risultano più rilevanti di altre. Il numero di parlamentari eletti da ciascuno stato è infatti proporzionale al numero degli abitanti. Per questa ragione, l’Uttar Pradesh, lo stato più popoloso situato nel Nord del paese, rappresenta un territorio cruciale per le elezioni: sono ben 80 i seggi ivi assegnati. Tra gli altri stati decisivi si annoverano il Maharashtra, nella parte orientale, con 48 seggi; il West Bengal, nella zona occidentale, con 42 seggi; il Bihar, nel Nord, con 40 seggi; e infine il Tamil Nadu, a Sud, con 39 seggi. MSOI the Post • 37


Sud e Sud Est Asiatico Un’altra peculiarità riguarda le campagne elettorali, che, a differenza della maggior parte degli stati democratici, si giocano quasi esclusivamente sui problemi di politica interna. La questione del Kashmir rappresenta una significativa eccezione in tal senso: la rivalità con il Pakistan sul territorio del Jammu-Kashmir è da sempre una carta strategica utilizzata dai candidati per schierarsi sulla scacchiera politica e ottenere consensi sotto il profilo della sicurezza interna. Nel manifesto elettorale dell’ultima campagna presidenziale, per esempio, il BJP si era impegnato a rispondere alle richieste dei rifugiati indiani nel Kashmir occupato dal Pakistan. Dall’altro lato, l’INC aveva incentrato la propria campagna elettorale sulla lotta al terrorismo, mettendo pressione al governo di Islamabad. In vista delle imminenti elezioni, il caso del Kashmir sarà ancora più emblematico, considerata la recente escalation tra India e Pakistan nella regione. Lo scorso 14 febbraio, 42 soldati indiani sono stati uccisi nel corso di un attentato suicida, che aveva come obiettivo un convoglio militare in transito nei pressi di Pulwama, nella parte del Kashmir amministrata da Nuova Delhi. Si è trattato dell’attacco con il più alto numero di vittime degli ultimi 30 anni sul suolo indiano. A rivendicarlo è stato il gruppo terrorista Jaish-e-Muhammad (JeM), con base in Pakistan. L’India ha prontamente accusato il neo-governo di Islamabad di appoggiare il gruppo armato, che si batte per il controllo della regione. In risposta, il primo ministro pakistano Imran Khan ha negato ogni legame con la cellula terroristica JeM, 38 • MSOI the Post

invitando Nuova Delhi alla collaborazione. Il 26 febbraio, dodici giorni dopo l’attacco, il Governo federale indiano ha però disposto il bombardamento di una base del JeM, legittimando così il primo raid aereo in territorio pakistano dal 1971. A operazione completata, l’esecutivo ha dichiarato di aver eliminato “350 guerrieri di Maometto”. Nessuna prova concreta è stata però addotta, tanto più che Islamabad ha affermato di aver respinto i jet inviati da Nuova Delhi. Dura, inoltre, la reazione del Pakistan, che il giorno seguente ha abbattuto due aerei militari indiani entrati nello spazio aereo nel Kashmir controllato da Islamabad, catturando uno dei piloti, in seguito rilasciato. In molti sono preoccupati dall’esacerbarsi delle tensioni tra quelle che, al momento, sono le due maggiori potenze nucleari della regione. Come accennato poc’anzi, attraverso lo sfruttamento di una retorica fondata sulla sicurezza nazionale, Modi intende ergersi a difensore del paese contro la minaccia terroristica. Qualsiasi forma di opposizione alla linea dell’esecutivo “aiuta il Pakistan e reca danno all’India”, ha dichiarato il primo ministro. In questo modo, Modi ha “rafforzato la sua immagine di leader che non accetta compromessi quando c’è in gioco la sicurezza nazionale. […] Ormai, coloro che sono contrari al suo modo di gestire la crisi saranno presentati come contrari al paese stesso”, ha affermato uno dei suoi biografi, Nilanjan Mukhopadhya. Sebbene il Kashmir costituisca un problema complesso e di difficile soluzione, non è la sola questione spinosa che

la classe politica indiana deve fronteggiare. Tra queste, il problema agricolo assume un ruolo centrale. Il voto della popolazione rurale si prospetta, infatti, assai importante per l’esito delle elezioni, dal momento che circa il 70% del popolo indiano vive in città e villaggi delle campagne. Se, in passato, il primo ministro aveva promesso di dare nuova linfa a quello che è il settore principale dell’economia indiana, facendo della questione agricola uno degli assi principali della sua precedente campagna, i risultati si sono rivelati tutt’altro che positivi. A causa di un eccesso nella produzione di prodotti del settore primario, i prezzi hanno subito un forte abbassamento, generando un enorme impatto sull’economia di stati influenti come l’Uttar Pradesh e il Maharashtra. Di conseguenza, gli agricoltori hanno visto le loro entrate calare drasticamente. Ciononostante, questi sembrerebbero disposti a mettere da parte il loro malcontento nei confronti dell’esecutivo, nel caso in cui Modi decidesse di “dare una lezione al Pakistan”, dal momento che le forze armate sono tradizionalmente ben viste e stimate dalla popolazione rurale. Centrale è anche la questione del lavoro. Durante la precedente campagna, l’attuale Primo Ministro aveva fatto della lotta alla disoccupazione uno dei suoi principali cavalli di battaglia. In molti avevano deciso di seguire Modi in virtù della sua promessa di “tempi migliori”, da raggiungere attraverso un programma di incentivi allo sviluppo e di creazione di nuovi posti di lavoro, soprattutto per i giovani. Come già accennato, infatti, più della metà della popolazione


Sud e Sud Est Asiatico

indiana è costituita da giovani al di sotto dei 25 anni, di cui 12 milioni entrano nel mondo del lavoro ogni anno. Il tasso di disoccupazione attuale, tuttavia, è il peggiore registrato negli ultimi decenni. A dare l’annuncio è stata la Commissione Statistica Nazionale (National Statistical Commission, NSC), che ha messo in risalto una crescita del tasso di inoccupazione del 6,1% tra il 2017 e il 2018, arrivando al 7,2% lo scorso febbraio. Inoltre, il Centro per il Monitoraggio dell’Economia Indiana (Centre for Monitoring Indian Economy, CMIE) ha constatato che 1,5 milioni di posti di lavoro sono stati persi nei primi quattro mesi del 2017, subito dopo la decisione del novembre 2016 di ritirare banconote da 500 e 100 rupie dal mercato, per condurre “un attacco mirato alla corruzione”. L’inchiesta del CMIE ha, inoltre, dimostrato che le zone urbane sono state le più colpite, con un tasso di disoccupazione del 7,8%,

rispetto alle zone rurali, dove si registra un tasso del 5,3%. In aggiunta, se per gli uomini tra i 15 e i 29 anni le cifre arrivano a un preoccupante 18,7%, la situazione è ancora più critica per le lavoratrici delle zone urbane, che si scontrano con un tasso del 27,2%, il doppio rispetto ai dati del 2011-2012. Nonostante la NSC sia un organo consultivo finanziato dal Governo, l’esecutivo ha deciso di non esprimersi in merito alle conclusioni avanzate e rese pubbliche, insistendo al contrario sul sul fatto che “i dati del rapporto non siano ancora stati verificati”. Il cambiamento maggiore rispetto alle precedenti elezioni, comunque, concerne sicuramente il finanziamento della campagna elettorale. Il primo ministro Modi ha recentemente preso alcune misure al fine di rendere meno vincolanti le leggi attualmente in vigore, rendendo legale il finanziamento anonimo

dei partiti politici. In questo modo, società e imprenditori potranno legittimamente ricorrere a strumenti come i titoli elettorali per iniettare fondi nelle casse dei partiti. I giudizi a riguardo di diversa natura. Secondo il ministro delle Finanze Arun Jaitley, i titoli elettorali avrebbero il merito di aumentare la trasparenza, dal momento che sono rilasciati dalle banche, verso cui i partiti sono obbligati a precisare quanto ricevuto. Tali titoli, infatti, che possono oscillare tra le ₹1.000 e i ₹10 milioni (al tasso del 20 marzo, circa €12,79 a €127.932), sono rilasciati dalla Banca di Stato dell’India e possono essere comprati da chiunque. In seguito, essi vengono consegnati ai partiti, i quali possono scambiarli con soldi. Il nome del donatore, in ogni caso, non appare formalmente da nessuna parte, scongiurando così fenomeni di clientelismo. Jagdeep Chhokar, invece, fondatore dell’Associazione per le Riforme Democratiche e direttore di una delle scuole di business più importanti del paese, ha affermato: “I titoli elettorali hanno reso i partiti debitori di denaro non rintracciabile che potrebbe anche venire dall’estero o da fonti sospette”. Il professore non è l’unico, dunque, a profetizzare un’ingerenza inedita del mondo degli affari nelle future elezioni. Come riportato dalla testata BloombergQuint, “non è un’esagerazione dire che le elezioni non saranno mai più le stesse”. Opinione analoga è quella di Bhaskara Rao, capo del gruppo Centre for Media Studies con base a New Delhi, che ha dichiarato: “Come possiamo definire questa mossa, se non come la vendita all’asta della nostra democrazia al miglior offerente?”. MSOI the Post • 39


Sud e Sud Est Asiatico ELEZIONI IN THAILANDIA: PROVA DI DEMOCRAZIA?

Di Sabrina Certomà Alle ore 11 italiane del 24 marzo, la Thailandia ha chiuso le urne registrando un’affluenza dell’80%. Trattasi delle prime elezioni dal colpo di stato del 2014 – quando il generale Prayuth Chan-ocha divenne primo ministro – oltreché delle prime in accordo con la Costituzione del 2017, stilata dal Governo dell’ancora presente giunta militare. In palio i 500 seggi del Parlamento, già dissolto dopo il golpe, scelti attraverso un nuovo sistema elettorale di tipo misto, in base al quale 350 parlamentari saranno eletti con il sistema maggioritario e 150 con quello proporzionale. Affianco alla Camera Bassa ci sarà anche il Senato, composto da 250 membri interamente designati dalle forze militari. Il primo ministro verrà infine eletto tramite il voto di entrambe le camere riunite e non, come avveniva in precedenza, solamente dalla Camera dei Rappresentanti. Per quanto riguarda gli schieramenti politici, invece, 40 • MSOI the Post

sono due i principali fronti contrapposti: da un lato, ci sono ancora i militaristi filomonarchici che da cinque anni governano il paese, i cosiddetti ‘gialli’, ultraconservatori del Palang Pracharath Party; dall’altro, i ‘rossi’. Questi ultimi appartengono al Pheu Thai Party e sono seguaci dell’ex premier Thaksin Shinawatra, leader che fino al 2011 ha guidato l’ultimo governo civile eletto, poi esautorato ed esiliato dai militari con l’avallo del re. Mentre i primi hanno candidato nuovamente Prayuth Chano-cha, i secondi hanno optato per Sudarat Keyuraphan, già ministra in diversi gabinetti con Shinawatra e co-fondatrice del suo primo partito. I partiti che hanno preso parte alla tornata elettorale in totale sono 77, tra cui è risaltato, in particolare, l’inusuale coinvolgimento attivo di un membro della famiglia reale. Nella nomina del premier, infatti, il Thai Raska Chart Party – allineato con il Partito per i thai – ha candidato la principessa Ubol Ratana, sorella maggiore del re Maha Vajiralongkorn; tale mossa è stata condannata

sia dal sovrano stesso – che l’ha definita “incostituzionale” e “inappropriata”, nonché “una sfida alle tradizioni reali” – sia dalla Corte Costituzionale, che ha dunque deciso di sciogliere il partito e di impedire ai suoi dirigenti di partecipare alla politica per dieci anni. In un successivo comunicato reale, come riportato da TRT, è stato poi chiarito che “Il coinvolgimento di un membro di alto rango della famiglia reale in politica è considerato un atto che sfida le tradizioni, i costumi e la cultura della nazione, ed è pertanto considerato estremamente inappropriato”. Tra i temi affrontati in campagna elettorale spicca quello economico, in relazione alla marcata disuguaglianza all’interno del paese. Già nello scorso dicembre, infatti, Asianews evidenziava che, secondo la società finanziaria Credit Suisse, l’1% della popolazione possiede i due terzi della ricchezza dell’intera Thailandia. Tutti i partiti hanno, dunque, cercato il consenso popolare promettendo aumenti del salario minimo.


Sud e Sud Est Asiatico la sicurezza nazionale, promuovendo lo sviluppo del meridione e permettendo al paese – grazie ai finanziamenti cinesi – di inserirsi finalmente nei traffici della comunità internazionale.

In secondo luogo, i principali partiti si sono concentrati sulle relazioni con la Repubblica Popolare Cinese e, in particolare, sulle ricadute della Belt and Road Initiative. A tal proposito, Pechino ha da tempo progettato la costruzione di un canale nell’istmo di Kra, che taglierebbe il sud della Thailandia, creando una scorciatoia vantaggiosa tra Medio Oriente, Golfo Persico ed Europa. Tale progetto permetterebbe alla Cina di riacquistare la sua centralità geopolitica, evitando il passaggio fino a ora obbligato per il lunghissimo stretto di Malacca, che separa la Malesia da Sumatra: di fatto, l’80% delle importazioni cinesi di greggio passa ancora da lì, così come le sue esportazioni verso l’Europa. Nello specifico, attraverso l’esile via marittima transitano in media 15,2 milioni di barili di petrolio ogni giorno – il 40% dei quali cinesi – per un totale di 122.640 navi l’anno. Oltre alla caos logistico, anche i fondali troppo bassi costituiscono un problema per le imponenti petroliere, costrette a passare in quei 4 chilometri di larghezza, con profondità superiore a 21 metri, che si prestano a un elevato rischio di incidenti, pirateria e terrorismo. A vantaggio della Thailandia, invece, la costruzione del canale di Kra rafforzerebbe

Nondimeno, secondo l’indagine sul voto della Open Forum for Democracy Foundation (P-Net), i cittadini thailandesi non sarebbero stati davvero liberi di esprimere la propria opinione. La Commissione Elettorale sarebbe infatti responsabile per una serie di inadempienze, non avendo organizzando una piattaforma per il voto d’oltremare, formato a dovere i suoi membri - privi di esperienza - o predisposto degli osservatori durante la votazione per controllarne il regolare svolgimento. Secondo il P-Net, la Commissione sarebbe stata “incompetente nell’organizzazione di ielezioni efficient ”. Un rapporto del The Asian Network for Free Elections (ANFREL), dal titolo International Election Observation Mission, sottolinea inoltre come il processo elettorale abbia mostrato “evidenti falle democratiche”. “I cittadini sono stati liberi di votare, ma le loro scelte talmente limitate dalla manipolazione del regolamento che anche tale libertà è risultata ridotta”, come comunicato alla CNN da Thitinan Pongsudhirak, direttore dell’Institute of Security and International Studies all’Università di Chulalongkorn. I risultati, tuttavia, non sono ancora chiari e, anzi, l’annuncio ufficiale continua a essere ritardato, alimentando così un clima di confusione già prevalente nel paese. Lo scorso lunedì sera, per esempio,

Thaksin Shinawatra, dalle pagine del New York Times, ha persino accusato il governo militare di aver manipolato i sondaggi, e la Commissione Elettorale di “interferire con il lavoro di quelle che si suppone siano agenzie e istituzioni indipendenti”. A conti fatti, al Palang Pracharath Party mancherebbero solo altri 126 voti al Parlamento per raggiungere la maggioranza assoluta nell’elezione congiunta del primo ministro (376 voti su 750), dato che l’assegnazione attuale dei seggi non sembra aver segnato un risvolto positivo a favore della democrazia. Non avendo a disposizione i 250 voti del Senato, l’eventuale coalizione del Pheu Thai dovrà ottenere il 75% dei consensi tra i deputati (376 seggi) per escludere completamente Prayuth dalla carica di premier e nominarne uno proprio. A tal fine, sarà necessario il sostegno dei numerosi altri piccoli partiti in lizza. Tuttavia, una vittoria schiacciante dell’opposizione potrebbe condizionare l’iter parlamentare e forzare il cambio di alcune norme costituzionali pro-militari, in accordo con quanto richiesto dalle opposizioni. Come già anticipato, l’annuncio degli outcomers è stato ripetutamente ritardato e infine fissato al 29 marzo. A oggi, la Commissione ha annunciato che, preliminarmente, il Pheu Thai Party ha ottenuto il 38,57% dei voti, aggiudicandosi 135 seggi, mentre il Palang Pracharath Party può vantare il 28% dei voti, con 98 seggi. (Bangkokpost) Nei prossimi 60 giorni i risultati finali dovranno essere confermati e, di fatto, il primo ministro potrebbe non essere eletto fino alla metà di maggio.

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Diritto Internazionale ed Europeo LA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA EMETTE IL PARERE CONSULTIVO SULLE ISOLE CHAGOS

Di Nicola Ortu Il 22 giugno 2017 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con l’adozione della Risoluzione 71/292, chiedeva alla Corte internazionale di giustizia (CIG), per il combinato dell’art. 96 della Carta e dell’art. 65 dello Statuto della Corte, di esprimere un parere consultivo sulla liceità del processo di decolonizzazione della Repubblica di Mauritius. Inoltre, se tale processo fosse stato condotto in modo contrario al diritto all’autodeterminazione dei popoli, le si chiedeva di pronunciarsi sulle conseguenze giuridiche della perdurante amministrazione delle isole Chagos da parte del Regno Unito. Queste ultime furono acquisite dai britannici nel 1814, che ne conservano tutt’oggi il controllo. L’arcipelago, facente parte della ex colonia britannica di Mauritius sino al 1965, fu distaccato dal controllo di Port Louis in virtù degli Accordi di Lancaster House dello stesso anno. Poco dopo, una legge britannica 42 • MSOI the Post

creò una nuova colonia sotto il nome di Territorio britannico dell’Oceano Indiano (BIOT), dove, a seguito di un accordo con gli USA, fu istituita la base navale di Camp Justice. La Repubblica di Mauritius, indipendente dal Regno Unito dal 1968, contesta la legittimità dell’Accordo di Lancaster House, specialmente per quanto concerne il mancato rispetto del principio dell’uti possidetis, che sancisce l’intangibilità delle frontiere dei possedimenti coloniali nel loro processo d’indipendenza. Nel parere consultivo emanato lo scorso 25 febbraio, la CIG ha sancito l’illiceità del processo di decolonizzazione di Mauritius, ricordando che il diritto all’autodeterminazione dei popoli è non solo un obiettivo dell’ONU, ma un principio consuetudinario d e l l ’ o r d i n a m e n t o internazionale, ricavando l’opinio juris da numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale, fra cui si ricordano la 1514 del 1960 e la 2625 del 1970. Nel caso di specie, viene rilevata l’illegittimità della creazione del BIOT in quanto “the right

to self-determination of the people concerned is defined by reference to the entirety of a non-self-governing territory”. In realtà, vi fu un esplicito accordo sul distacco delle Chagos fra le autorità di Londra e Port Louis; l’illiceità del comportamento dei britannici deriverebbe quindi dall’impossibilità di ritenere gli Accordi di Lancaster House un’espressione della libera volontà del popolo di Mauritius, proprio perché il governo di quest’ultimo si trovava ancora sotto dominio coloniale al momento della stipula del trattato. Per la Corte, le azioni del Regno Unito si configurano come un illecito internazionale di natura continuativa. Da un lato, è chiamata in causa la responsabilità internazionale dell’ex potenza coloniale per l’atto illecito, e dell’altro, in virtù della perdurante sovranità di Londra sulle isole Chagos, viene intimato a quest’ultima l’obbligo di porvi fine. La Corte, ricordando la sentenza Timor Est, ha ribadito che il diritto all’autodeterminazione dei popoli è di natura erga


Diritto Internazionale ed Europeo

omnes, e che pertanto tutti gli stati hanno un interesse giuridico affinché venga rispettato. Infine, la sentenza evidenzia l’importanza dei pareri consultivi come strumento giuridico dell’ordinamento internazionale. La Corte, trattando le eccezioni di irricevibilità, si è pronunciata negativamente sull’applicabilità del concetto di res judicata ai pareri consultivi, sottolineando che questi ultimi sono resi “not to States, but to the organ which is entitled to request it”, e pertanto risulti impossibile identificare una qualsivoglia identità delle parti in causa e dell’oggetto della disputa. Inoltre, sembra registrarsi un’importante diversione dal principio della Eastern Carelia, parere consultivo nel quale la Corte Permanente di Giustizia rifiutò di pronunciarsi a causa della mancanza del consenso di una delle parti. In questa occasione, invece, essendo il caso di specie inerente a un obiettivo

dell’ONU, la Corte rileva l’assenza di valide ragioni per le quali essa non debba pronunciarsi, riaffermando - a ragione - “the fact that the Court may have to pronounce on legal issues on which divergent views have been expressed [...] does not mean that, by replying to the request, the Court is dealing with a bilateral dispute”. Ma la decisione resa dalla Corte sulle Isole Chagos - seppure non direttamente collegata alla disputa territoriale esistente fra il Regno Unito e Mauritius - va inevitabilmente a toccare la questione della sovranità sull’arcipelago, eludendo difatti il principio del consenso alla giurisdizione. In conclusione, il parere consultivo sulle Isole Chagos ha una triplice importanza nell’analisi delle procedure di risoluzione delle dispute internazionali di tipo giurisdizionale. Da un lato, si evince come la struttura della domanda posta alla Corte sia ormai divenuta ancor più cruciale per quanto concerne l’ammissibilità dei casi e, dunque, per l’esercizio della giurisdizione da parte delle corti. Nel caso di specie, la formulazione della domanda, focalizzata ad hoc su un obiettivo dell’ONU - la decolonizzazione

- ha garantito alla Corte la possibilità di emettere il proprio parere consultivo senza eludere, stricto sensu, il principio di consenso alla giurisdizione e della “indispensable party”. Dall’altro, è proprio questa ‘novità’ ad evidenziare il problema dell’ammissibilità della richiesta di un parere consultivo. Nel caso in cui, quest’ultimo - pur non essendo direttamente legato nella sua formulazione ad una disputa bilaterale esistente fra due o più stati - ne infici con la sua pronuncia l’esito sul piano fattuale, si va ad eludere il principio fondante del consenso alla giurisdizione, col rischio di rendere gli stati ancor più restii a sottoporsi alla giurisdizione delle corti internazionali. Resta infine da vedere se e come l’Assemblea Generale agirà nei confronti del Regno Unito, e soprattutto in che modo sia possibile costringere un membro permanente del Consiglio di Sicurezza ad osservare la pronuncia di un parere consultivo - di per sé non vincolante - tenendo conto dei limiti imposti dall’art. 94(2) della Carta, che assegna al Consiglio di Sicurezza stesso la responsabilità del rispetto delle sentenze della CIG.

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Diritto Internazionale ed Europeo E’ POSSIBILE UNA TREGUA EFFETTIVA TRA HAMAS E ISRAELE?

Di Debora Cavallo Sin dal 1967, Gaza è stata occupata da Israele. Al pari di Gerusalemme Est, del Golan e della Cisgiordania, essa è considerata dal diritto internazionale e dalle Nazioni Unite come territorio occupato. Lo scontro tra Israele e Gaza, nonostante in passato vi sia stato un accenno a una fragile tregua, non cessa. Gli ultimi attacchi verso Israele, in aggiunta alle risposte dell’aeronautica israeliana, mettono a rischio la possibilità di un vero cessate il fuoco. Lunedì scorso 1o aprile, gli scontri sono stati innescati da una granata di Hamas che ha colpito una famiglia di sette persone nei pressi di Tel Aviv. Nel frattempo, intorno i confini della Striscia, l’esercito israeliano aveva schierato alcune decine di carri armati, nonostante l’annuncio di 44 • MSOI the Post

Hamas di una tregua mediata dall’intelligence egiziana dello stesso giorno. E, in effetti, una tregua di fatto esisteva, quella che Hamas e la Jihad Islamico-Palestinese avevano offerto ad Israele tramite l’Egitto. Gli stessi componenti della delegazione egiziana sono tornati nella Striscia di Gaza, dove, dalla città di Erez, hanno avviato le negoziazioni per una serie di provvedimenti per alleggerire la tensione nella Striscia. La stessa riapertura dei valichi rientra in un pacchetto di misure distensive mediate da Il Cairo, al fine di limitare gli scontri. Eppure la tensione resta palpabile, dopo che quattro manifestanti palestinesi sono morti sotto il fuoco israeliano durante le dispute al confine in occasione della ‘marcia del milione’ organizzata da Hamas. Questa recente escalation non potrà che avere ripercussioni

sulla campagna elettorale in corso per le imminenti elezioni politiche israeliane del prossimo 9 aprile. Il premier Netanyahu, subito rientrato dal viaggio istituzionale negli USA, è infatti sotto accusa da parte dei propri concorrenti, criticato per non aver garantito a sufficienza la sicurezza della popolazione. Percezione condivisa da 54% dei cittadini, che, stando al sondaggio di IDF Army Radio Pool, ritengono “fin troppo” timida la risposta del loro governo agli attacchi subiti. Nonostante la questione palestinese non fosse al centro né del dibattito politico né dei programmi di governo dei principali partiti in corsa, questi ultimi eventi rischiano di polarizzare ulteriormente gli ultimi giorni di campagna elettorale Ad alimentare questo clima di ostilità si aggiunge l’occupazione del Golan.


Diritto Internazionale ed Europeo

Lunedì 25 marzo scorso, il presidente statunitense Donald Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sulle Alture del Golan, altopiano occupato dall’esercito israeliano nel 1967, dopo averlo sottratto al controllo della Siria. La decisione di Trump ha innescato molteplici reazioni. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC), durante una riunione di emergenza richiesta dalla Siria, ha votato contro il riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture. Secondo l’UNSC, la decisione del presidente americano rischia di alimentare

l’instabilità nella regione. La condanna da parte dei membri dell’UNSC nei confronti della condotta statunitense arriva in concomitanza con quella dell’Unione Europea, espressa dall’Alto Rappresentante per gli affari esteri il 27 marzo scorso. Federica Mogherini ha difatti dichiarato come: “La posizione dell’Unione europea per quanto riguarda lo stato delle Alture del Golan non è cambiata. In linea con il diritto internazionale e le risoluzioni 242 e 497 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’Unione europea non riconosce la sovranità israeliana sulle alture occupate del Golan”. Il Golan viene dunque considerato come territorio occupato. Inoltre, in occasione dell’incontro della Lega Araba di domenica 31 marzo, i rappresentanti dei Paesi arabi hanno affermato congiuntamente il loro rifiuto del riconoscimento della sovranità israeliana sulle Alture. Essi hanno infatti rimarcato l’importanza della risoluzione del conflitto israelo-palestinese, considerata un fattore cruciale per la stabilizzazione dell’intera regione mediorientale.

Se è vero che il Golan, ad oggi, è considerato da Israele di rilevanza strategica e non sempre di facile sottomissione ad accordi, è pur vero che non è sempre stato così. La risoluzione 242 dell’UNSC sostenuta, come detto, anche dall’Unione Europea richiedeva a Israele il ritiro solo da una parte del Golan, non già dall’intera zona. Proprio nel maggio del 1974, quando Siria e Israele firmarono l’accordo sul disimpegno, lo stato ebraico abbandonò una significativa porzione del territorio conquistato, una superficie di circa 25 km², compresa la città di Quneitra. Negli anni novanta, durante la Conferenza di Madrid - in cui venne siglata la pace tra Giordania e Israele - furono proposti accordi di cessione di diverse porzioni di Golan nei confronti della Siria. Bashar al-Assad, in quella occasione, non accettò di accontentarsi di una proposta che non comprendesse la totalità delle Alture, rifiutando di fatto un eventuale accordo di pace con Gerusalemme.

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