MSOI thePost - Marzo 2020

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Marzo 2020


M a r z o

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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Daniele Baldo, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

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Libertà della ricerca: pericoli e repressione nel mondo

A cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Charles W. Eliot, il preside di Harvard che ha trasformato il college di Boston in un importantissimo centro di ricerca, espose per la prima volta le sue idee sul tema della “libertà accademica” in un editoriale pubblicato all’interno della celebre rivista Science. Secondo Eliot, la libertà accademica è un valore fondativo ed essenziale e possiede tre dimensioni tra di loro correlate: libertà dell’insegnante, libertà dello studente, libertà e autonomia delle università. Queste libertà devono essere difese dalla tirannia della maggioranza, nonché dal pensiero dominante. Nel 1997, James Turk, direttore del Centro per la libertà d’espressione presso l’università canadese di Ryerson, ha riformulato il concetto spiegando che la libertà accademica “ha quattro componenti: libertà di insegnamento, libertà di ricerca, libertà di espressione intramurale e libertà di espressione extramurale”. Anche l’UNESCO ha parlato di libertà di ricerca e accademica all’interno delle

Raccomandazioni del 1997, dove definisce la libertà accademica come “il diritto [...] alla libertà di insegnamento e di discussione, alla libertà di condurre ricerche e alla diffusione e pubblicazione dei risultati delle stesse, alla libertà di esprimere liberamente la propria opinione sull’istituzione o sul sistema in cui lavorano, libertà dalla censura istituzionale e libertà di partecipare a organismi accademici professionali o rappresentativi”. Ad oggi, tali libertà sono quotidianamente minacciate in diverse parti del mondo, dalla Cina al Medio Oriente, passando per i paesi occidentali. La questione politica della libertà accademica in Medio Oriente: i casi di Regeni e Zaki In Medio Oriente la libertà accademica non è unicamente una questione universitaria: la narrazione e la ricerca dell’attualità sono diventate delle vere e proprie questioni politiche. Sebbene gli articoli

21 e 23 della Costituzione egiziana garantiscano la libertà delle istituzioni universitarie e di ricerca scientifica, lo storico Khaled Fahmy ha sostenuto in un articolo pubblicato su Internazionale che alle forze di sicurezza siano stati affidati troppi poteri, favorendo la violazione sistematica dei diritti costituzionali. I ricercatori vengono trattati come sospetti e spesso diventano vittime della violenza dei funzionari addetti alla sicurezza. La società e lo stato egiziano, secondo Fahmy, troppo spesso considererebbero la ricerca accademica non una necessità, ma un lusso. Il 3 febbraio 2016, lungo il ciglio di una strada, non lontano dal Cairo, venne ritrovato il cadavere di Giulio Regeni, giovane dottorando italiano dell’università di Cambridge. Il suo corpo mostrava chiari segni di tortura: fratture multiple, bruciature di sigaretta, abrasioni, unghie strappate, dita rotte, decine di lacerazioni. Da subito ci fu molta confusione poiché l’Egitto non era propenso alla collaborazione con gli inquirenti italiani, che avevano avviato una loro indagine. MSOI the Post • 3


Fin dalle prime ore, l’omicidio ha sollevato il sospetto che Regeni fosse stato vittima di una sparizione forzata e che dietro vi fossero i servizi di sicurezza egiziani. La sua morte ha dato vita una protesta internazionale per chiedere accurate indagini che rivelassero la verità e permettessero di fare giustizia. Le autorità egiziane hanno da sempre negato un coinvolgimento nel rapimento e nell’uccisione del ricercatore e ciò non ha fatto altro che contribuire alla frattura dei rapporti tra l’Italia e l’Egitto. Come scrive Raimo su Internazionale: “La verità su Regeni non è solo una questione giudiziaria o di dignità istituzionale. È una questione politica: tocca questioni come la tortura, le sparizioni dei dissidenti,[...] il senso dei rapporti commerciali tra nazioni, la libertà della ricerca universitaria. [...] Sul volto di Giulio c’era tutto il male del mondo. Combattere quel male non è una questione di empatia, altruismo, sensibilità, ma di volontà politica” Dopo 4 anni, giustizia continua a non essere stata fatta. Ma quello di Regeni non è un caso isolato. Nel 2016, Amnesty International ha pubblicato il rapporto “Egitto: tu iufficialmente non esist ”, in cui denuncia sparizioni e torture di centinaia di cittadini comuni. Stando al rapporto, dal colpo di Stato del 2013 in cui è stato deposto il presidente Morsi, “decine di migliaia di persone sono state detenute senza processo o condannate a pene detentive o di morte. [...] Centinaia di attivisti e manifestanti politici, tra cui studenti e bambini, sono stati arbitrariamente arrestati o rapiti dalle loro case [...] e sottoposti a periodi di sparizione forzata da parte di agenti statali” 4 • MSOI the Post

Il comitato per la libertà accademica della Middle East Studies Association (MESA) ha definito l’uccisione di Regeni come “il più recente e il più grave esempio di come l’attuale clima politico in Egitto costituisca un pericolo crescente per tutti coloro che svolgono ricerca universitaria”. Quattro anni dopo, la storia scrive un nuovo capitolo. Il 7 febbraio Patrick Zaki, ricercatore egiziano per i diritti umani e studente di un master sugli studi di genere all’università di Bologna, è stato arrestato all’aeroporto del Cairo. Il suo avvocato, Samuel Thabet, ha riferito al giornale Mada Masr che “Zaki è stato portato nell’ufficio dell’Agenzia della sicurezza nazionale, dove è stato bendato e trattenuto per 17 ore”. Da lì è stato poi trasferito varie volte in altre carceri. Lo hanno picchiato, spogliato e sottoposto a scosse elettriche sulla schiena e sulla pancia, riferisce l’avvocato. “È stato anche abusato verbalmente e minacciato di stupro”. L’accusa ufficiale è che Zaki abbia pubblicato sulla sua pagina Facebook notizie false, “minacciato l’ordine sociale e la sicurezza” e “incitato alla violenza”. Ciò che i media e le autorità tendono a sottolineare, in risposta a chi evidenzia le similitudini tra i due casi, è che Zaki non è un cittadino italiano, bensì un cittadino egiziano. Il quotidiano Akhbar al Youm riporta l’opinione di Al Diyi, presentatore televisivo, che ritiene che l’ONG Iniziativa per i diritti individuali, con la quale Zaki collabora, serva a “diffondere l’omosessualità”. In Egitto l’omosessualità è un crimine. Al Diyi continua, dichiarando che “questo Patrick è un omosessuale che è andato a studiare per un master sull’omosessualità

all’estero e che lavora per un’organizzazione di promozione dell’omosessualità”. Dopo la morte di Regeni, i rapporti tra Egitto e Italia si sono inizialmente incrinati, ma con il tempo gli affari diplomatici, economici e militari tra i due paesi sono ripresi in modo ancora più intenso. Poco prima dell’arresto di Zaki, Roma e il Cairo hanno stipulato un accordo sugli armamenti per 9 miliardi di euro ed è attesa l’approvazione per la vendita all’Egitto di due navi militari, costruite da Fincantieri, per un valore di 1,5 miliardi di euro. La giornalista Caridi è convinta che se l’Italia e l’Europa avessero reagito diversamente all’omicidio di Regeni, le cose sarebbero potute veramente cambiare. Nel 2016, sul suo blog scrive: “Se l’Italia fosse stata seria nel promuovere giustizia, diritti umani, democrazia e lotta alla impunità, così come tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, allora il tono della conversazione adesso dovrebbe essere completamente differente. Non solo si dovrebbero usare a proprio vantaggio gli interessi economici contro Al Sisi, ma ci troveremmo anche a parlare di giustizia economica e di come far finire questa economia di sfruttamento [...]. Discuteremo di come liberarci di questi regimi una volta per tutte. Non c’è però fame di questo tipo di giustizia. Ci sarà forse solo uno stop temporaneo alla vendita di armi”. Il caso di Li Wenliang: la ricerca in un sistema ‘malato’ Sovente, l’oppressione di diritti come la libertà di ricerca e d’informazione richiama alla mente paesi economicamente arretrati. Eppure, non sempre il progresso economico si


accompagna sociale.

al

progresso

per quanto resti fuor di dubbio che, negli ambiti consentiti, gli scienziati cinesi possano vantare fondi ben superiori a quelli di numerosi altri paesi. I ‘rischi’ della ricerca sono notevoli anche per i governi stessi che la incentivano. Numerosi, infatti, sono gli ambiti di ricerca che rischiano di mettere a nudo i punti deboli di uno stato. Se spesso le ricerche più ‘temute’ sono quelle in campo sociale e politico, il recentissimo contagio di Coronavirus (SarsCov-2) ha però mostrato che, sotto governi autoritari, corre rischi anche chi conduce studi in ambiti completamente diversi: i medici.

Certamente la Cina conosce bene il valore della ricerca e della conoscenza come mezzo di progresso, sociale ed economico. Grazie alla sua imponente crescita economica degli ultimi anni, infatti, il paese ha potuto fare enormi investimenti nella ricerca scientifica. È arrivato a investire nel 2018 il 2,9% del PIL in ricerca e sviluppo, superando inoltre nel 2016 gli Stati Uniti per numero di pubblicazioni nel campo della scienza e dell’ingegneria. Un impegno lodevole, che ne dimostra la lungimiranza ma che nasconde anche alcuni punti oscuri. La Cina rimane ancora oggi uno dei paesi meno liberi del globo, trovandosi al 124esimo posto dello Human Freedom Index. Ancora peggio quando si parla di libertà di stampa, in cui precipita al 177esimo posto nella classifica di Reporters sans Frontières. Il legame che unisce libertà di stampa e libertà di ricerca è evidente. Sempre di informazione libera si parla. In Cina, non solo i giornalisti, ma anche i ricercatori sono costretti a vedere limitate le loro possibilità di manovra,

A rendere il COVID-19 così temuto dalle persone e dalle istituzioni è la sua contagiosità, che gli permette di diffondersi con estrema rapidità. Nonostante la sua imprevedibilità, in Estremo Oriente, da dove il contagio è partito, i segnali premonitori della catastrofe c’erano stati da tempo, scontrandosi con la censura delle autorità che ha così permesso al virus di espandersi a macchia d’olio su tutto il globo.

Già a fine dicembre, Li Wenliang, un medico oftalmologo del Wuhan Central Hospital, aveva infatti avvertito i suoi colleghi riguardo la

presenza di un nuovo virus, invitandoli a proteggersi per evitare il contagio. Proprio in quel periodo, il dottor Li aveva osservato sette pazienti, tenuti in quarantena, che presentavano sintomi simili a quelli causati dalla SARS del 2003, tra cui violenti polmoniti e insufficienze respiratorie. Ad appena quattro giorni dai suoi moniti, il medico fu convocato dall’ufficio cinese di pubblica sicurezza per firmare una lettera in cui veniva accusato di “diffondere false notizie” e di “disturbare l’ordine pubblico”. Per denunciare quanto accaduto, un mese dopo la lettera è stata poi pubblicata dallo stesso medico, il quale già aveva contratto il virus che di lì a breve ne avrebbe causato la morte. Un caso non isolato, bensì seguito dall’arresto da parte delle autorità cinesi di otto persone che avevano allarmato la popolazione riguardo il nuovo contagio con le stesse accuse mosse a Li. A preoccupare il governo era proprio l’accostamento del nuovo virus alla SARS, che oltre 15 anni fa aveva creato instabilità nel sistema cinese.

Per evitare l’allarme pubblico e l’‘imbarazzo’ politico che questi eventi portano con sé, la Cina era già allora ricorsa al blocco della diffusione di notizie, impiegando sei mesi

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per adottare misure restrittive contro il contagio della SARS. Un atteggiamento che allora era costato numerose vittime altrimenti evitabili e che ha avuto lo stesso effetto deleterio in questi ultimi mesi. Un esempio semplice, quello di Li Wenliang, ma altrettanto importante per denunciare il sistema autoritario di cui si serve un paese avanzato come la Cina. Se infatti in molti luoghi del mondo la ricchezza si accompagna alla salute, non in tutti la ricchezza si accompagna ai diritti e alla libertà. Europa: ‘libertà’ della ricerca come sostegno politico ed economico Nel settembre 2019, una lettera indirizzata alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, al presidente del Parlamento europeo David Sassoli e al presidente uscente della Commissione Ue JeanClaude Juncker è stata firmata da oltre mille scienziati e ricercatori - tra cui 19 vincitori del premio Nobel. La lettera apriva in questo modo: “I candidati per la nuova Commissione dell’Unione Europea sono stati presentati la scorsa settimana. Nella nuova Commissione l’area della

formazione e della ricerca non è più esplicitamente rappresentata, ma è stata inclusa sotto il titolo “innovation and youth” [innovazione e gioventù]. Ciò enfatizza il fatto che l’utilità economica (chiamata “innovazione”) ha la meglio sugli elementi fondanti, che sono formazione e ricerca scientifica, mentre riduce la “formazione” alla “gioventù” quando essa è invece essenziale a ogni età.” Il sunto della proposta era quello di rinominare il dicastero con un titolo più lungo ma più corretto: “Commissario all’Istruzione, alla Ricerca, all’Innovazione e alla Gioventù”. Lo stesso Sassoli, presidente del Parlamento europeo, aveva criticato l’assenza di parole fondamentali come “immigrazione”, “cultura” e, appunto, “ricerca” nell’ambito di una precedente polemica sulla delega alla “Protezione dello stile di vita europeo”. L’appello non intendeva denunciare solamente un ‘vizio di forma’, anzi, vedeva in questo un sintomo della scarsa priorità politica che viene data alla necessità di giungere a una maggiore centralità e omogeneità della ricerca in Europa. Negli ultimi anni, al contrario,

l’Unione Europea sembra non aver fatto gli sforzi necessari a garantire un approccio organico al settore della ricerca scientifica. Perlomeno, in questo senso avrebbe potuto essere interpretata la decisione del novembre 2014 di eliminare il ruolo di Chief scientific adviser, prima detenuto per due anni dalla professoressa Anne Glover. Pietro Greco, membro del consiglio scientifico dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, aveva allora sostenuto che la “scienza europea” fosse “troppo frammentata” e che “anche per questa frammentazione” l’Europa non fosse “riuscita, negli ultimi venti anni, a realizzare il sogno di Delors e a diventare leader al mondo dell’economia della conoscenza”.

Nel 1993 Jacques Delors, presidente della Commissione europea tra anni ‘80 e ‘90 il cui nome è legato alla pubblicazione del primo Libro bianco della storia Commissione europea, in un discorso al Parlamento Europeo aveva esortato i Governi europei a dare maggiore importanza ai programmi di ricerca “al seguente duplice scopo: maggiore selettività per una maggiore efficacia, maggiori legami con gli ardui problemi di competitività cui devono far fronte taluni settori come l’industria automobilistica, l’elettronica, l’informatica”. Anche Antonio Ruberti, Commissario europeo per la ricerca dal 1992 al 1995,

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chiedeva con forza l’impegno coordinato di tutti gli stati europei nel finanziare la ricerca, promuovendo l’idea di “accrescere la coerenza tra tutti gli strumenti utilizzati, individuare obiettivi comuni e far convergere verso scopi sinergici le iniziative avviate a livello comunitario e nei diversi paesi europei”, come riportato in una nota sul sito del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca italiano. Questi appelli, tuttavia, non hanno avuto il risultato sperato. Dalla fine degli anni ‘90, in linea con una tendenza comune anche agli altri paesi appartenenti all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), l’Unione Europea ha diminuito gli investimenti nella ricerca scientifica, stando a quanto indicato da un rapporto OCSE del 2007. Tornando a tempi più recenti, il presidente dell’europarlamento David Sassoli, in un’intervista a La Stampa del febbraio di quest’anno, ha dichiarato che “sono egoisti tutti coloro che si oppongono a finanziare adeguatamente le politiche europee, come la ricerca che è di grande attualità”, sottolineando come servano “soluzioni e fondi europei per rafforzare il collegamento operativo tra i paesi europei anche nel mondo della ricerca”.

Il mondo della ricerca europea continua a ribadire il suo ruolo, auspicando di poter

aumentare la propria rilevanza anche nell’ambito decisionale politico. A questo proposito, il 6 marzo 2020 la Commissione sui diritti economici, sociali e culturali delle Nazione Unite ha adottato un Commento generale sulla scienza. Il Commento non è ancora stato reso disponibile sul sito ufficiale della Commissione, ma stando a quanto riferito dal Corriere della Sera includerebbe la “libertà per gli scienziati di condurre ricerche e il diritto per i cittadini di goderne i benefici”. Marco Perduca, presidente di Science for democracy, ha precisato a riguardo: “Non si tratta di un nuovo diritto, ma dell’applicazione concreta di decisioni prese dall’ONU mezzo secolo fa, e da allora rimaste inapplicate. Una volta approvato questo testo, gli stati nazionali di tutto il mondo saranno obbligati a rendicontare le politiche adottate in materia di scienza e tecnologia. Si potrà dunque discutere a Ginevra di creazione e libera circolazione di conoscenza scientifica e di uguaglianza nell’accesso ai risultati tecnologici della ricerca stessa”.

espressione”. La ricerca è infatti sinonimo di libertà, che può essere intesa in senso negativo come assenza di restrizioni - si possono interpretare così i casi egiziano e cinese - ma anche in senso positivo, come supporto sul piano economico e politico. Senza eccedere in retorica, quindi, non sembra fuori luogo dire che proteggere la ricerca, a prescindere dalle specifiche contingenze storiche, economiche e sociali, significhi in modo pressoché diretto difendere la libertà.

La libertà di ricerca: un bene da proteggere Con il perdurare dell’emergenza Coronavirus, inevitabilmente la ricerca scientifica torna al centro del dibattito e le sue richieste di maggiore attenzione hanno più possibilità di essere ascoltate. È facile dare per scontati alcuni privilegi che la vita contemporanea garantisce ad ampie fasce della popolazione, dalla onnipresente tecnologia digitale, alle grandi potenzialità di cura del sistema sanitario, della cui importanza mai come oggi ci si accorge. Tutto questo è fondamentalmente frutto delle libertà articolate da James Turk e citate in apertura: “libertà di insegnamento, libertà di ricerca, libertà di

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Europa Occidentale L’European Green Deal: una nuova politica ambientale europea?

Di Vladimiro Labate

del 40%.

Un piano da 1000 miliardi di euro per la transizione ecologica in Europa. L’European Green Deal della Commissione europea, presentato a metà dicembre, contiene tanti buoni propositi ed importanti obiettivi. “Oggi è l’inizio di un viaggio” ha detto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, al momento della sua presentazione l’11 dicembre “questo è per l’Europa il suo ‘uomo sulla Luna’. L’European Green Deal è molto ambizioso, ma saremo molto attenti nel valutare l’impatto e ogni singolo passo che stiamo facendo”.

Ma la sostanza del Green Deal europeo consiste in un massiccio programma di investimenti: 1000 miliardi di euro, almeno per la metà finanziati dal bilancio comunitario. Questo programma dovrebbe permettere di avvicinarsi alla cifra di 260 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi all’anno, di cui l’Unione europea ha bisogno per raggiungere gli obiettivi presi alla COP21 di Parigi nel 2015, sottolinea il vice-presidente esecutivo della Commissione Valdis Dombrovskis.

Gli obiettivi sono importanti: la Commissione punta a raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, per essere il primo continente ad ottenere questo risultato. Lo strumento è quello di una nuova normativa europea sul clima, da presentare a marzo 2020, che possa inscrivere la neutralità climatica nella legislazione europea. Bruxelles prevede inoltre di passare nel primo semestre 2020 all’obiettivo di riduzione del 50% delle emissioni di gas serra rispetto al livello del 1990 almeno entro il 2030, sostituendo l’attuale obiettivo 8 • MSOI the Post

Il piano della Commissione prevede di destinare 503 miliardi di euro del bilancio dell’Unione, circa il 25% dell’intero budget europeo, per clima e ambiente: di questi, 25 miliardi sarebbero finanziati dagli introiti del mercato europeo delle quote di emissioni di gas serra. Un capitolo a parte, invece, sarebbero altri 114 miliardi destinati a fondi strutturali e co-finanziati a livello nazionale. La Commissione prevede inoltre di stimolare investimenti pubblici e privati per altri 279 miliardi di euro attraverso il programma InvestEU. A questi strumenti finanziari, Bruxelles aggiunge il Just

Transition Mechanism (Meccanismo per una Transizione Giusta), che conterebbe di generare altri 100 miliardi di euro di investimenti per sostenere nella transizione ecologica le regioni e i settori che dipendono da attività a forte intensità di carbonio. Di questi 100 miliardi, 7,5 andrebbero nel Fondo per la Giusta Transizione, che dovrebbe generare investimenti per 30-50 miliardi di euro, altri 45 miliardi proverrebbero dal programma InvestEU, mentre altri 25-30 miliardi da prestiti della Banca Europea degli Investimenti garantiti dal bilancio comunitario. Le reazioni sono state di vario tipo. Il 15 gennaio, in una lunga risoluzione approvata con 482 voti favorevoli, il Parlamento europeo ha sostenuto il progetto della Commissione, sottolineando “la necessità che il Green Deal conduca al progresso sociale, migliorando il benessere generale e riducendo le disuguaglianze sociali” e che “una transizione equa non debba lasciare indietro nessun individuo e nessun luogo e che debba invece ovviare alle disparità sociali ed economiche”. Gli eurodeputati hanno espresso una posizione più ambiziosa di quella della Commissione: la risoluzione chiede di porre l’obiettivo di riduzione del 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030, contro il 50% proposto dalla Commissione. Il Parlamento vuole anche una revisione del funzionamento del mercato delle quote di emissioni, nuovi obiettivi nazionali per l’energia sostenibile, una normativa più ambiziosa su pesticidi e prodotti chimici e una riforma


Europa Occidentale della legislazione europea sull’efficienza energetica. Tuttavia, la risoluzione del Parlamento europeo manca di descrivere che percorso seguire per raggiungere questi obiettivi: “sembra che si chieda di avere un po’ di più di quello che si ha già, di migliorare il sistema e le misure attuali aggiungendo qualche aggettivo qui e lì per promuovere un futuro più verde” analizza Mediapart. Un atteggiamento simile a quello presente nel progetto della Commissione, che “riferendosi ad un ‘European Green Deal’ al posto dell’originale ‘Green New Deal’, di fatto si concentra sul bisogno di rendere verde il sistema attuale”, mentre il rooseveltiano New Deal puntava a trasformare profondamente la società mettendo al centro i diritti sociali. “Finalmente l’Ue si sveglia di fronte alle inquietudini crescenti dell’opinione pubblica riguardo all’emergenza planetaria - ha detto a Reuters Jagoda Munić, direttrice per l’Europa degli Amis de la Terre - le promesse sono tuttavia troppo numerose e troppo limitate. Andiamo dritti verso la catastrofe ecologica e la Commissione cambia dolcemente velocità”. Una preoccupazione condivisa anche da Greenpeace France, secondo cui gli obiettivi di questo “patto verde” sono incompatibili con le ultime raccomandazioni scientifiche. Di fronte al piano avanzato dalla Commissione, sono tuttavia gli stati membri a mostrare le più profonde divisioni e spaccature all’interno del blocco europeo. Al Consiglio europeo di dicembre, la Polonia ha rifiutato di aderire all’obiettivo della neutralità climatica entro

il 2050 e per questo i leader europei dovranno ridiscutere del tema al Consiglio europeo del prossimo giugno. Anche Repubblica ceca e Ungheria si sono mostrate fredde sulla questione: “la Repubblica ceca vuole raggiungere la neutralità climatica, ma non ci arriveremo senza il nucleare. L’UE deve riconoscere il nucleare come fonte di energia senza emissioni. Per di più, il costo della neutralità climatica sarà enorme” ha scritto in un tweet dello scorso dicembre il primo ministro ceco Andrej Babis. Un’altra questione aperta riguarda la possibile revisione del Patto di Stabilità e Crescita, che la Commissione starebbe valutando. Il progetto, nella mente del commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni, prevederebbe di aggiungere una clausola di flessibilità per gli investimenti necessari ad “accogliere l’ambizione più larga per una trasformazione verde e digitale dell’Europa in linea con gli obiettivi dell’European Green Deal” come si legge in una bozza consultata da Politico. “Bisogna considerare in quale misura il Patto di Stabilità e Crescita sia coerente con le necessarie politiche sociali ed economiche per una transizione ecologica dell’economia europea”. Ma il 15 gennaio, a Vienna, rappresentanti di Austria, Repubblica ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Slovacchia e Svezia si sono incontrati per pianificare l’opposizione a qualsiasi tipo di flessibilità verde. “Il PSC dovrebbe assicurare che il debito pubblico sia gestito responsabilmente - si legge in una nota - introdurre nuove eccezioni renderebbe soltanto le regole più complicate”.

Un altro esempio che mostra la spaccatura tra gli stati dell’Unione sui temi ambientali lo si trova nell’opposizione di alcuni paesi a una normativa sulla finanza verde. A dicembre, Regno Unito (ancora nell’Unione), Francia, Repubblica ceca, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Romania, Bulgaria e Slovenia si sono opposti a un accordo, trovato dall’allora presidenza finlandese del Consiglio, su una normativa che avrebbe definito quali prodotti finanziari sarebbero potuti essere etichettati come ‘verdi’ o ‘sostenibili’. Tale opposizione nascerebbe dal timore che questa classificazione renderebbe più difficile etichettare come ‘verdi’ gli investimenti nel nucleare e nel carbone, riducendo potenzialmente i futuri finanziamenti in questi settori. Nucleare e carbone sono due fonti di energia estremamente rilevanti nei sistemi economici degli stati in questione. Questa sistematizzazione dei prodotti finanziari, si legge su Reuters, è considerata un pilastro chiave della strategia per aumentare le risorse per le energie rinnovabili e altri progetti verdi e combattere il greenwashing. L’European Green Deal della Commissione vuole quindi essere un ambizioso progetto di transizione ecologica e di rilancio dell’economia europea. Per quanto considerato insufficiente da alcuni, può essere un primo passo per affrontare a livello europeo la crisi ambientale. Ma rischia, ancora prima di essere implementato, di cadere vittima degli interessi particolari degli stati membri che, sulle tematiche ambientali, non sembrano ancora disposti a collaborare. MSOI the Post • 9


Europa Occidentale L’Europa e il coronavirus: storia di un’opportunità

A cura di Gabriele Fonda Con il passare dei giorni, la diffusione del SARS-CoV-2, o Coronavirus, appare sempre più capace di determinare cambiamenti profondi nelle attività quotidiane di ogni tipo. L’Europa intera, si trova nella necessità di far fronte a questa malattia in maniera quasi improvvisa e deve ora attuare misure via via più stringenti. Pesanti conseguenze si profilano in numerosi ambiti, nazionali e comunitari: il rallentamento dell’economia, l’interruzione di attività didattiche e politiche, la messa a rischio o addirittura il collasso dei sistemi sanitari nazionali. In una tale situazione di difficoltà,propriol’Europa,intesacome unione di Stati, può avere un ruolo decisivo sia nell’arginare l’emergenza sanitaria in sé, sia nel limitare i suoi inevitabili effetti. Soprattutto in due ambiti pare necessaria un’azione europea. Da un lato, il coordinamento delle politiche a tutela della salute comune adottate dai singoli paesi. Dall’altro, misure a sostegno dell’economia da affiancare a quelle decise dalle autorità nazionali. L’Unione Europea gode infatti, oltre che di strumenti propri, della condizione di luogo di dialogo e di coordinamento privilegiato tra i governi europei e di interlocutore di primo piano per le altre organizzazioni internazionali. Sul piano economico, poi, ha risorse e 10 • MSOI the Post

potenzialità in grado di limitare le ripercussioni economiche, su cui istituzioni internazionali e agenzie di rating già avanzano previsioni negative.

comparsa dei primi focolai in Italia, la Commissione europea ha inoltre stanziato un pacchetto di aiuti da 232 milioni di euro, destinati alla ricerca su virus e vaccini, destinato all’OMS e a paesi partner, anzitutto africani, in funzione preventiva contro il diffondersi del contagio. In più, la missione del 25 febbraio dell’OMS in Italia è stata supportata dal ECDPC.

L’IPCR, il meccanismo europeo di risposta politica alle crisi, è un dispositivo intergovernativo per il monitoraggio, lo scambio di informazioni e il coordinamento fra istituzioni comunitarie, Stati membri e attori non statali in caso di crisi. Il Meccanismo Europeo di Protezione Civile, invece, nato nel 2001 per promuovere un’azione comunitaria in caso di calamità o crisi anche esterne all’UE, ha base operativa nel Centro europeo di Coordinamento delle Risposte alle Emergenze (ERCC). Sul piano scientifico, di primo piano è il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDPC), agenzia europea specializzata in malattie infettive che monitora costantemente le emergenze sanitarie e determina il livello di rischio, col supporto di reti scientifiche e di laboratori, costituendo un riferimento cruciale per governi ed istituzioni comunitarie.

Il 2 marzo è stata annunciata la creazione di una speciale unità di crisi in seno alla Commissione, composta dai responsabili comunitari per Economia, Gestione delle crisi, Interni, Salute e Trasporti. Proprio il commissario per l’Economia, Giovanni Gentiloni, ha dichiarato che l’Unione è “pronta ad usare tutte le opzioni possibili”. Lo stesso Gentiloni ha poi espresso il parere positivo della Commissione, con riferimento alla situazione italiana, sulla possibilità di superare il limite del 3% nel rapporto deficit/Pil in base alla clausola circostanze eccezionali, che permette interventi eccezionali di spesa pubblica a sostegno dell’economia.

Le potenzialità europee hanno già portato, nelle scorse settimane, ad alcuni risultati. Quando il Coronavirus era limitato alla sola Cina, l’Unione ha coordinato, tramite il meccanismo di protezione civile, l’invio di materiale sanitario e in parte finanziato i rimpatri di cittadine e cittadini europei. Dopo la

Dinanzi alle sempre maggiori proporzioni dell’emergenza sanitaria ed economica, tuttavia, la reazione dell’Unione Europea è apparsa ad alcuni troppo lenta per e essere efficac , se non addirittura inesistente. In primo luogo, essa sembra non aver finora saputo assumere il ruolo centrale di coordinamento delle misure


Europa Occidentale preventive che la sua natura e gli strumenti a sua disposizione le consentirebbero. Valga ad esempio il fatto che l’IPCR è stato portato a livello tre, che consente l’analisi della crisi e l’individuazione di soluzioni congiunte, solo il 2 marzo. In tal modo, le singole iniziative a livello nazionale si sono inevitabilmente rivelate scoordinate tra loro e mirate più alla tutela dei singoli paesi che dell’intera Europa. L’assenza di coordinamento è emersa anzitutto sulle misure precauzionali nei confronti dei viaggiatori provenienti dalla Cina tramite voli diretti e indiretti, rispetto ai quali i diversi paesi hanno adottato decisioni differenti e non complementari. L’Unione, inoltre, non ha saputo sviluppare una voce comune sui test per rilevare la positività al Covid-19. I diversi Stati membri, infatti, hanno seguito linee guida che potrebbero aver contribuito a dare percezioni profondamente differenti dell’emergenza, come dimostrato dalla polemica sul diverso numero di tamponi effettuati in Italia e in altri paesi e sulle modalità di conteggio di contagiati e guariti. Tale mancanza di centralità da parte dell’Unione rischia anche di causare conseguenze sul piano politico della futura integrazione e della stessa percezione di comunità europea, data l’evoluzione della reazione all’emergenza in chiave nazionale. Dimostrazione emblematica ne è la prima reazione da parte degli Stati membri alla richiesta italiana, avanzata tramite il meccanismo di protezione civile dell’UE, di mascherine protettive: nessuno degli altri 26 paesi si è detto disponibile, e anzi Francia, Germania, Repubblica Ceca e Lituania ne hanno bloccato l’export. Secondo La Stampa, le autorità europee starebbero valutando di procedere all’acquisto di materiale sanitario in comune per evitare concorrenze, ma anche

tale misura rischia di richiedere tempi lunghi. In un simile contesto, appare significativa anche sul piano geopolitico la notizia della vendita da parte della Cina all’Italia di mascherine, tute protettive e tamponi, oltre alla promessa informale di dare priorità alle commesse italiane di respiratori polmonari, fondamentali nei casi più gravi. D’altra parte, proprio il tentativo dell’Unione di salvaguardare uno dei propri principi fondamentali con l’opposizione alla sospensione del trattato di Schengen ha generato episodi potenzialmente dannosi, con l’imposizione di limitazioni unilaterali in vari Stati dell’Unione ai viaggiatori provenienti dalle zone maggiormente colpite dell’Italia o da tutto il territorio. Una situazione che sarebbe stata evitabile, riconoscendo la necessità di una momentanea sospensione delle libertà di movimento fra tutti i paesi. Non meno serrate sono le critiche rivolte all’UE circa l’aspetto economico della gestione dell’emergenza. Esponenti del mondo politico italiano hanno osservato che, anche se gli aiuti economici annunciati dal governo costituiscono un primo importante passo, essi potrebbero risultare più efficaci se supportati da investimenti di provenienza comunitaria. In questo senso si sono rivolti anche gli appelli lanciati da Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, che ha parlato della necessità di uno “shock positivo” per l’economia ed ha elencato alcune misure per far fronte alla recessione. Boccia suggerisce di sopperire al calo della domanda privata aumentando quella pubblica. Essa dovrebbe essere sostenuta soprattutto dagli investimenti, finanziati anche da Bruxelles, in infrastrutture, per le quali il presidente di Confindustria ha proposto un ipotetico piano transeuropeo dal valore di 3000

miliardi di euro. Boccia sostiene inoltre la necessità di maggiore flessibilità creditizia alle imprese che subiranno un calo del fatturato. Su queste proposte, così come sulle già citate dichiarazioni del commissario all’Economia, grava tuttavia l’incognita della rapidità e della reale misura con cui arriveranno gli aiuti europei, che alcuni ritengono privi del necessario carattere di urgenza straordinaria. Anche a causa della poca chiarezza e precisione illustrativa sui contributi effettivamente offerti dall’Unione Europea, esponenti politici dell’estrema destra italiana come Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno nei giorni scorsi avuto occasione di definire l’Europa come “la grande assente” rispetto a questa emergenza. Nel complesso, esiste una risposta europea all’emergenza sanitaria ed economica del Coronavirus, anche se può essere considerata più astratta e generale di quanto sarebbe effettivamente necessario per avere la massima efficacia. Tuttavia, parlando di risposta europea, non si deve intendere un ‘semplice’ intervento di risoluzione della crisi. Questa reazione si può interpretare, infatti, come un banco di prova per l’idea stessa di una comunità europea, per i suoi valori e per i meccanismi di risposta a necessità interne ordinarie e straordinarie. Nel constatare quanto i sistemi nazionali e le singole cittadine e cittadini siano sottoposti a crescenti sforzi, sembra inevitabile chiedersi quale possa essere il ruolo dell’Europa. Tuttavia, l’attuale à momento di difficolt può essere visto anche come un’opportunità per l’Unione Europea di dimostrare vicinanza agli Stati coinvolti e ai cittadini - non tanto di singoli paesi, quanto europei. La storia dell’epidemia di COVID-19 sarà la storia di un’opportunità per l’UE: è ancora da stabilire se sarà un’opportunità mancata o una colta.

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Europa Occidentale Euroleaks: Varoufakis e Assange per la libertà di stampa in Europa

di Simone Massarenti

delle nostre democrazie”.

Il dibattito europeo sulla libertà di stampa ha ricevuto negli ultimi anni nuova linfa, portata dalla rivalsa di movimenti di stampo nazionalista sulla scena politica nazionale ed internazionale. Un particolare focus in tal senso venne posto proprio sul nostro paese nel biennio 2018-2019, quando i partiti non risparmiarono aspre critiche al sistema giornalistico italiano.

L’invito a procedere verso una soluzione politica è stato accolto dal Consiglio d’Europa, organo contenente 47 paesi di cui 27 membri dell’Unione Europea: il 3 gennaio scorso, infatti, il Comitato per la cultura, la scienza, l’educazione e i media ha pubblicato un report dal titolo “Threats to media freedom and journalists’ security in Europe”, dettante le linee guida da seguire per le istituzioni in relazione anche alle precedenti azioni intraprese dal Consiglio stesso. Il documento si apre con una frase molto importante: “senza il diritto alla libertà di espressione, e senza media liberi e indipendenti, non c’è democrazia”. Proprio in questa direzione l’organo per la tutela dei diritti dell’uomo in Europa ha quindi spinto a legiferare per arginare una problematica che tra il 2015 e il 2019, secondo quanto contenuto nel documento del Consiglio, avrebbe portato all’uccisione di 26 giornalisti.

quanto i paesi europei, e l’Unione Europea in particolare, risultano trasparenti nella gestione della propria politica? Da questa base muove la collaborazione fra Julian Assange, noto alle cronache per le rivelazioni di Wikileaks che nel 2013 hanno sconvolto l’opinione pubblica USA, e Yanis Varoufakis, parlamentare ed ex ministro dell’Economia greco ai tempi della negoziazione fra il governo guidato da Alexis Tsipras e le istituzioni dell’Unione. L’iniziativa portata avanti da Varoufakis è semplice: sulla falsariga di Wikileaks, attraverso la piattaforma Euroleaks, l’intento è quello di rendere pubbliche le registrazioni delle trattative tra i ministri dell’Eurogruppo per la risoluzione della crisi creditizia ellenica, cui Varoufakis prese parte nel 2015. Tali incontri, a suo dire, non sono mai stati verbalizzati e conseguentemente sarebbero stati contrari alla politica di trasparenza.

Come in ogni controversa questione che si rispetti, però, vi è un rovescio della medaglia:

Durante una manifestazione, tenutasi a Londra il 22 febbraio scorso, in sostegno alla non

Il periodo non è casuale: nel maggio del 2019, infatti, l’Europa era chiamata al voto per rinnovare la composizione del Parlamento europeo, organo di rappresentanza della cittadinanza europea. Emblematiche appaiono in tal senso le parole pubblicate dal settimanale L’Espresso il 12 aprile del 2019, a poco più di un mese dalle urne: riportando le parole del Segretario generale di Reporters sans frontières, veniva posto l’accento sul fatto che in Europa fosse “saltata una diga”, mettendo in pericolo il giornalismo, definito “colonna portante 12 • MSOI the Post


Europa Occidentale estradizione verso gli Stati Uniti del giornalista australiano, Varoufakis è stato categorico nell’esprimere il suo giudizio in merito alla questione: “svelare i segreti ‘scabrosi’ del potere non è una frase, è una sentenza”, alludendo alle enormi ripercussioni giudiziarie delle azioni di Assange. La conoscenza fra i due risale al 2015, anno di mandato del ministro ellenico: Varoufakis, sospettando che i negoziati per la risoluzione finanziaria sarebbero andati contro gli interessi della popolazione greca, trovò in Assange un sostegno nella creazione di quello che, un anno dopo, sarebbe divenuto il movimento DiEM 25: Democracy in Europe Movement 2025. La loro collaborazione, considerando anche la distanza fisica dettata dalla reclusione del giornalista, trova le sue radici in un comune sentimento di critica verso le istituzioni, invitando ad una solidarietà continentale perché “seppur considerandosi fuori dall’UE, siamo radicati nel più grande movimento di solidarietà continentale”. La pubblicazione dei documenti e dei file audio è avvenuta il 14 marzo. Sebbene Euroleaks sia volta alla causa della trasparenza e libertà di informazione, è indubbia la valenza politica dell’iniziativa di Varoufakis,

ora esponente dell’opposizione al nuovo governo conservatore e neoliberista di Atene. Alle elezioni dello scorso luglio, secondo alcuni commentatori, sarebbe stato molto efficace per la vittoria dell’attuale esecutivo proprio il continuo tentativo di addossare la colpa dei fallimenti della politica economica greca all’allora ministro Varoufakis. Pertanto, Euroleaks va inteso in primo luogo come parte del progetto politico DiEM 25. La pubblicazione delle registrazioni offre infatti l’occasione per ribadire quelli che sono i concetti cardine della politica del movimento: liberare l’Europa dalle maglie della politica di austerity. La parola d’ordine scelta per l’iniziativa Euroleaks è forte e vuole rimarcare la critica alla distanza fra la policy in vigore a Bruxelles e l’idea politica del movimento: “democratizzazione dell’Europa”. Ciò detto, Assange e Varoufakis non si sono ‘limitati’ alla pubblicazione delle registrazioni ma hanno intessuto una rete di relazioni che ha portato alla creazione di un ampio gruppo paneuropeo per la democratizzazione delle istituzioni. La pandemia diffusa sul continente europeo, tuttavia, ha posto in secondo piano le questioni concernenti questa operazione.

L’ex ministro ha più volte visitato il giornalista australiano nel carcere di Belmarsh, dove è detenuto, per esprimere fermamente la vicinanza ad un uomo che, secondo le sue parole all’uscita dal penitenziario il 23 febbraio scorso, è vittima di un “assalto al giornalismo”. A suo parere, il caso di Assange costituisce un gravissimo precedente nella violazione della libertà di espressione nel giornalismo. Le ramificazioni del caso Assange hanno quindi pervaso il panorama pubblico e politico europeo, travalicando i confini oceanici e muovendo i suoi sostenitori sul suolo continentale a lottare al fine di rendere trasparente la politica comunitaria. L’ultima telefonata fra i due risale, stando alle parole di Varoufakis, al 24 marzo scorso. A seguito del primo evento mediatico di DiEM 25, Julian avrebbe contattato il suo collega al fine di commentare la situazione vigente in relazione al Covid-19 e le conseguenze che esso potrebbe far scaturire a livello globale. A colpire in modo particolare è stata l’espressione “la Waterloo dei neoliberali” riferita all’attuale situazione mondiale, utilizzata dal parlamentare greco per suggerire l’idea di un periodo di crisi nel quale tutto potrebbe essere possibile.

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Medio Oriente e Nord Africa Turkey’s stance in the Libyan war

Di Andrea Daidone Since April 4th 2019, Libya has been lashed by a domestic conflict shaped by the opposition of Khalifa Haftar, the chief of the self-styled Libyan National Army (LNA), against the UN-recognised Government of National Accord (GNA). Haftar ordered his troops, based in the eastern city of Tobruk, to fight against the GNA, branded as a terrorist group, in order to take control of the Libyan capital, Tripoli. The first involvement of Turkey in this conflict dates back to June 29th, when Haftar banned commercial flights to Turkey and ordered his forces to attack Turkish ships and other Turkish interests in the country. Spokesperson for the LNA, Ahmed al-Mismari, very clearly stated: “Orders have been given to the air force to target Turkish ships and boats in Libyan territorial waters. Turkish strategic sites, companies and projects belonging to the Turkish state (in Libya) are considered legitimate targets by the armed forces”. Soon after, on July 1st, LNA’s air force destroyed a Turkish drone parked at Mitiga International Airport. The reason 14 • MSOI the Post

was given by LNA in a statement on Facebook: “Our fighter jets targeted and destroyed a Turkish Bayraktar aircraft as it was taking off. The aircraft had been prepared to target our armed forces’ positions”. Furthermore, as reported amongst others by the BBC, Turkey’s foreign Ministry accused Haftar’s forces of seizing six of its citizens and warned that the LNA would become a “legitimate target” if they were not released immediately. According to the Turkish foreign Ministry, on the same day as the threat of military retaliation, the six citizens were released. From where does LNA’s hostility against Turkey arise? Essentially, it originates from the diversity amongst international supporters within the Libyan conflict. While Haftar’s LNA has received backing from the United Arab Emirates (UAE) and Egypt, according to diplomats, Ankara has supplied drones and trucks to forces allied to the GNA, saying this was done in order to support “regional peace and stability”. After months of hostilities, threats against the LNA and informal support in favour of the GNA, on November 27th, Turkey and Libya signed two agreements on security and

military cooperation as well as on restriction of marine jurisdiction. Libyan Interior Minister Fathi Bashagha told local media that the memorandum of understanding on security signed between the two countries was aimed at maintaining security in Libya and protecting the country’s sovereignty. He added that the deal also sought to strengthen the government’s capacity to combat “terrorism”, irregular migration and crime, as well as developing its security and training systems. The agreement called for an immediate cease of military operations near Libyan oil fields, in order to protect personnel and installations. The agreement covers all security aspects related to fighting terrorism, organized crime, illegal immigration and intelligence information exchange between the two governments. Moreover, Turkey pledged ground troops if needed, despite the UN arms export ban to Libya. Not surprisingly, this agreement created several waves in the eastern Mediterranean and beyond, sparking controversy and condemnation internationally and in Libya. Domestically, the speaker of the eastern Libyan parliament


Medio Oriente e Nord Africa asked the UN and the Arab League to withdraw from their recognition of the GNA. Libya’s eastern-based parliament has voted unanimously against deals on security and maritime cooperation, since the agreements appear to be illegal and lacking any legal effect, per article 8 of the Skhirat Political Agreement between the warring parties in Libya, signed in 2015 in Morocco under the UN auspices, and according to which any deal between Libya and another state requires unanimous approval from the nine-member presidential council and parliament’s assent. Internationally, the Egyptian and French foreign ministers also condemned the agreements between Turkey and the GNA, saying they violate international law. Greece, Cyprus and Egypt also strongly contest the maritime agreement. The European Union (EU) is opposed as well, calling on Turkey to respect the principles of neighbourly relations and the sovereignty of all coastal states and their sovereign rights in maritime areas. The Russian foreign Ministry has asked Turkey to avoid any step that could increase tension. One of the reasons behind the vocal opposition could be that the deal would allow Turkish access to oil shale deposits in the eastern Mediterranean. On December 12th, Haftar announced the start of a new “decisive” battle to seize Tripoli. Soon after, Turkish President Recep Tayyip Erdogan declared that Turkey would increase its military support to the GNA if necessary. After GNA’s acceptance, the Arab League called for efforts in order

to prevent foreign interference in Libya. On January 2nd, 2020, Turkey’s parliament authorised a one-year deployment of troops to Libya to support the GNA that started on January 5th, as Erdogan declared: “There will be an operation centre in Libya, there will be a Turkish lieutenant general leading and they will be managing the situation over there. Turkish soldiers are gradually moving there right now”. Things suddenly changed when the Turkish and Russian presidents, who are backing opposing sides in the Libyan conflict, called for a ceasefire in the war-torn country to begin at midnight on Sunday, January 12th. The two Libyan leaders went to Moscow the following day to formalise the ceasefire. However, while Al-Sarraj signed the deal, the talks ended in a stalemate as Haftar asked for more time to consider the accord and then abruptly left. On January 19th, the German chancellor Angela Merkel hosted a Libya peace conference in Berlin. It was attended by Turkey, Russia, the UAE, Egypt, the European Union, the United States, the United Kingdom, France, Italy, Germany, China, Congo, Algeria, the United Nations and the African Union. Fayez al-Sarraj and Khalifa Haftar were briefed on the discussions but did not meet face to face or participate. In Berlin, world leaders reached a consensus on some important points. The end to foreign interference; commitment to unequivocally and fully respect and implement the UN arms embargo

(established by the UN in 2011 but frequently violated); refrain from any activities exacerbating the conflict (including the financing of military capabilities or the recruitment of mercenaries); commitment for a sustained suspension of hostilities, de-escalation and a permanent ceasefire; dissolving militias and returning to political process. The last piece has been added when, on February 3rd, GNA and LNA met in Geneva to begin UN-led talks. They created a 10-member Libya Joint Military Commission (also known as the 5+5 military commission), formed by five senior officers appointed by the Government of National Accord and five appointed by Khalifa Haftar. Special Representative of the Secretary-General and Head of the United Nations Support Mission in Libya, Dr. Ghassan Salamé, issued a statement saying that the two parties agreed on the need to continue abiding by the shaky truce, as well as on the need to preserve Libya’s sovereignty. While the two parties agreed on the need to expedite the return of internally displaced people, especially in the areas of clashes, they did not reach a full understanding on the best ways to achieve that goal. However, progress seems to be far from being achieved: the first round of talks ended with no breakthrough, nor did it included face-to-face meetings. In spite of the UN arms embargo, Salamé recently stated that weapons, ammunition and foreign fighters were being internationally traded to support both sides in the conflict.

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Medio Oriente e Nord Africa Prigionieri nella “Evin University”

Di Anna Filippucci Il 7 giugno 2019, il sociologo francese Roland Marchal avrebbe dovuto incontrarsi in Iran con la propria compagna antropologa Fariba Adelkhah per passare insieme qualche giorno di vacanza. Lo stesso giorno, i due ricercatori sono stati arrestati dal servizio dell’intelligence delle Guardie Rivoluzionarie, la forza armata più importante in Iran, posta sotto l’autorità diretta della Guida Suprema Ali Khamenei. Da allora, entrambi sono detenuti nella prigione di Evin - situata nel distretto omonimo di Tehran - che dal 1972 costituisce il principale luogo di detenzione degli oppositori politici. Marchal, un esperto d’Africa, era in viaggio da qualche tempo per tenere delle conferenze e per ultimo era stato a Dubai e a Nairobi. Fariba Adelkhah, franco-iraniana, studiosa della condizione della donna nei regimi politici del mondo, si trovava in Iran per indagare sui legami tra i talebani afghani e la comunità religiosa iraniana. Non sono neanche 16 • MSOI the Post

riusciti ad incontrarsi: lui è stato fermato non appena atterrato in aeroporto, lei prelevata direttamente in casa propria. Al momento dell’arresto, nessuno dei loro familiari o datori di lavoro è stato messo al corrente della situazione. Solo qualche giorno dopo, l’ex direttore del Centre des recherches Internationales de Sciences Po Paris (CERI), ente in cui sono impiegati entrambi i ricercatori, ha ricevuto una mail che lui stesso ha definito piuttosto ‘strana’. Fariba lo avvisava tramite messaggio di essere nel deserto con Roland per qualche giorno, senza connessione internet. Il tono e il contenuto del messaggio hanno insospettito il destinatario, che però non si è preoccupato particolarmente. Solo alla fine del mese di giugno i colleghi del CERI sono entrati in apprensione ed il 25 giugno hanno contattato il Ministero degli Affari Esteri francese per segnalare la sparizione dei due. Il giorno successivo, una comunicazione dell’Ambasciata francese in Iran annunciava che Roland Marchal era stato

arrestato. Di Fariba Adelkhah nessuna notizia: la ricercatrice, in possesso della doppia nazionalità, non riconosciuta in Iran, viene considerata esclusivamente cittadina iraniana ed è per questo che della sua condizione non si è saputo nulla in un primo momento. Solo in seguito si è appreso che su di lei pende un’accusa di spionaggio e di propaganda anti-regime. Marchal, invece, è stato accusato di destabilizzazione del regime iraniano, benché si supponga che in realtà si tratti di una vittima collaterale. Tali accuse, infondate secondo i colleghi, sono state sufficienti per determinare la detenzione dei due, a tempo indeterminato, nellacosiddetta“EvinUniversity”, chiamata così ironicamente per la quantità di accademici che vi sono imprigionati. Da allora delle loro condizioni, così come quelle degli altri detenuti del carcere, si sa poco: Fariba ha iniziato ormai da qualche tempo uno sciopero della fame, che l’ha portata ad essere alimentata per via venosa e a condizioni di vita sempre più precarie. Nel frattempo, le accuse di spionaggio nei suoi


Medio Oriente e Nord Africa confronti sono state fatte cadere. Non rischia più dunque la pena di morte, ma comunque una detenzione di almeno 5 anni. Roland, invece, è in isolamento ed è autorizzato a leggere e comunicare in maniera limitata. I suoi contatti con l’esterno sono minimi e la sua salute precaria.

le distanze dall’atteggiamento di Trump nei confronti dell’Iran, si osservano ormai relazioni sempre più tese anche tra la Francia e il regime iraniano.

La loro situazione, così come quella degli altri detenuti, ha ispirato un collettivo di ricercatori francesi a lanciare una petizione, nei primi giorni di febbraio, per chiedere la scarcerazione dei due ricercatori. Si teme infatti che il processo, tutto meno che imparziale, a cui entrambi saranno sottoposti, porti ad una loro detenzione molto prolungata. Rivolgendosi direttamente alla Guida Suprema, l’appello dei ricercatori chiedeva dunque clemenza per i due prigionieri in occasione dell’11 febbraio, anniversario della Rivoluzione Islamica. La data è passata, ma nessuna scarcerazione sembra per ora prevista. Si presume che la condizione degli ostaggi possa essere sbloccata solo attraverso una transazione, ovvero uno scambio di prigionieri, iraniani per francesi. Oppure essa potrebbe dipendere interamente dai rapporti geopolitici ultimamente molto tesi tra Stati Uniti - e il resto dell’Occidente - e Iran. Il presidente Trump ha infatti recentemente abbandonato l’accordo sul nucleare siglato dall’ex presidente Obama con il paese medio-orientale e tende a demonizzare il paese islamico (considerato nemico) allo scopo di stringere gli americani intorno alla propria figura in vista delle prossime elezioni presidenziali. Se all’inizio il Presidente Macron aveva preso

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America Latina e Caraibi Brasile: l’inchiesta Lava Jato è stata davvero un complotto contro Lula?

A cura di Mattia Fossati Per gran parte dell’opinione pubblica è stato vittima di un complotto. Per tanti altri, invece, è stato il garante del più grande sistema di corruzione e riciclaggio di denaro mai scoperto in America Latina. Luiz Ináciò da Silva, conosciuto come Lula, a capo del Partido dos Trabalhadores (PT) e presidente del Brasile dal 2003 al 2011, è la figura più controversa coinvolta dalla Lava Jato, l’indagine del Ministerio Publico Federale di Curitiba spesso paragonata al caso italiano “Mani Pulite”. Tale inchiesta ha certificato che Lula ricevette un attico di 216 mq in cambio di alcuni favori fatti alla Petrobras, la principale industria petrolifera del paese. Una ‘mazzetta’ costata una condanna a 9 anni e 6 mesi di carcere. Eppure, a distanza di due anni, dalle carte del 18 • MSOI the Post

fascicolo emergono tanti dubbi e poche certezze. Il sistema La Lava Jato ha scoperchiato il pentolone della corruzione in Brasile. In due anni di indagini sono spiccate 844 informative di garanzia nei confronti della classe dirigente brasiliana, tra cui politici, dirigenti di aziende statali o parastatali e affaristi. Un lavoro capillare che ha portato al sequestro di beni pari a 2,4 miliardi di R$ (reis brasiliani), quasi 500 milioni di euro. Il sistema di corruzione era molto semplice, stando a quanto ricostruito: politici di alto spicco e i direttori della Petrobras, nominati dagli stessi partiti, chiedevano mazzette alle principali aziende del paese per consentire loro di aggiudicarsi senza gara una

serie di appalti per opere pubbliche, come quelli legati alla Coppa del Mondo di calcio del 2014 o l’espansione della linea ferroviaria per il trasporto merci. Tra gli indagati vi era anche l’ex presidente Lula, accusato di essersi fatto corrompere dai vertici della Petrobras. Le accuse Secondo la sentenza di primo grado, il colosso dell’edilizia OAS avrebbe regalato all’ex capo di Stato un appartamento (conosciuto come il “triplex”) di 216 mq a Guaruja, famosa località del litorale paulista, dal valore di 2,4 milioni di reis. A giurare che l’attico fosse riconducibile proprio a Lula è stato Leo Pinheiro, ex presidente della OAS, anche lui coinvolto nell’inchiesta. Nella

deposizione

che

Lula


America Latina e Caraibi orbitante nel sistema tangentizio della Petrobras. È stato davvero un complotto?

ha rilasciato al giudice Sergio Moro (figura rappresentativa dell’intera inchiesta, ora ministro della giustizia), ha negato le accuse, affermando che all’immobile fosse interessata sua moglie. La pubblica accusa ha sostenuto che “sebbene non evi sia stato un atto ufficial ” che potesse provare un vantaggio ottenuto dalla società (cioè la Petrobras), la sola possibilità di essere nelle condizioni di concedere un beneficio configura già il reato di corruzione. Tradotto, non c’è prova che Lula abbia ottenuto l’appartamento in cambio di un favore, però si è trovato nella posizione di poter aiutare l’azienda che gli ha regalato il cosiddetto “triplex”. I magistrati hanno descritto questa tecnica come una strategia per compiacere alcuni politici al fine di evitare la sostituzione degli organi di vertice della Petrobras, che sono di nomina governativa. Stiamo parlando di figure cardini nel sistema di corruzione che intercorreva tra la politica e i manager dell’azienda petrolifera. La condanna processi

e

gli

altri

A seguito di questa vicenda, Lula è stato condannato per corruzione e riciclaggio di denaro. Nel 2017, in prima istanza, il giudice Sergio Moro

ha stabilito una pena di 9 anni e 6 mesi . A gennaio dell’anno successivo, i magistrati d’appello l’hanno aumentata a 12 anni di carcere. Dopo 19 mesi, il leader in pectore del PT è stato scarcerato poiché i giudici hanno ritenuto che una persona possa essere incarcerata solo dopo la sentenza definitiva di condanna. Per questo motivo Lula è tornato libero in attesa della pronuncia del Supremo Tribunal de Justiça. Una libertà momentanea, dato che il percorso giudiziario di Lula non si esaurisce con il caso dell’appartamento triplex ma prosegue in altri 10 procedimenti aperti in vari stati del Brasile. Una serie di processi all’interno dei quali il leader petista deve rispondere ad accuse di corruzione (nel caso del terreno di Atibaia e della costruzione dell’istituto Lula), di intralcio alla giustizia (per aver cercato di nascondere le prove dell’appartamento triplex), di lavaggio di denaro e traffico di influenze (si sospetta che abbia fatto pressioni sul Banco Nacional de Desenvolvimento per concedere dei prestiti per opere effettuate dalla Odebrecht in Angola), di organizzazione criminale (caso dell’acquisto dei 36 caccia Gripen) e altri 4 casi di corruzione da parte della Odebrecht, altra importante azienda di ingegneria brasiliana

L’opinione pubblica in Brasile è da quattro anni spaccata su questo tema. Lula è stato vittima di un complotto oppure no? I suoi supporter non hanno dubbi: il leader del PT non ha avuto un processo imparziale. Il motivo? L’uomo che lo ha giudicato colpevole ora siede alla destra di Bolsonaro (vittorioso alle elezioni presidenziali del 2018, durante le quali Lula era in carcere e quindi non ha potuto partecipare). Lo stesso Sergio Moro, rivelano le chat di Telegram pubblicate dal giornale online The Intercept a maggio scorso, spronava in privato i magistrati del pool della Lava Jato (tra il procuratore capo Deltan Dallagnol) a trovare delle prove più schiaccianti contro di Lula, su cui proprio Moro avrebbe dovuto esprimersi. Un comportamento improprio per qualsiasi giudice. L’altra parte del Brasile, invece, sostiene che Lula abbia pagato non solo poiché colpevole ma poichè principale responsabile morale di un gigantesco sistema di corruzione che si era annidato nei più ricchi appalti pubblici del paese. Quale sia la verità, ancora non lo sappiamo. Però è necessario porsi una domanda, per provare a porre il caso in una prospettiva che cerchi di esulare da suggestioni non provate: quanto è probabile che una ventina tra giudici e magistrati, provenienti da stati diversi e che precedentemente non si conoscevano, possano aver imbastito dei procedimenti (in alcuni casi giunti a condanna) basati interamente sul nulla?

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America Latina e Caraibi Ricerca in America Latina: tra problemi strutturali e potenziale inespresso

A cura di Marcello Crecco L’America Latina è sia una delle macroaree più disomogenee del mondo sotto il profilo politico-economico che la più omogenea sotto quello culturale, rendendola per antonomasia il continente delle contraddizioni. La grande disomogeneità regionale si riflette anche nella vita accademica e scientifica dei singoli paesi. I principali problemi strutturali paiono essere la sostanziale mancanza di volontà politica, la poca lungimiranza dei governi e la scarsa erogazione di borse di studio. La ricerca scientifica ancora oggi è un argomento marginale nel dibattito nazionale e di conseguenza la classe dirigente fa poco o nulla per cambiare la tendenza. Anzi, come sostenuto in una ricerca condotta dagli studiosi latinoamericani Daniel R. Ciocca e Gabriela Delgado: “In alcuni paesi, l’esistenza stessa di un laboratorio di 20 • MSOI the Post

ricerca ben finanziato dipende dall’ideologia di chi fa ricerca, e se questa corrisponde o meno con quella del governo in carica”. Una prassi tanto diffusa quanto dannosa per gli interessi dello Stato. I gravi problemi sociali non sono un fattore secondario, tutt’altro, erodono risorse pubbliche preziosissime che potrebbero essere destinate al capitolo di spesa inerente l’educazione e la ricerca. La netta maggioranza degli Stati latinoamericani deve combattere corruzione capillare, violenza e narcotraffico, vera piaga della regione. È il caso di Messico e Brasile, le prime due economie latinoamericane, dove la violenza ha degli impatti devastanti sulle rispettive economie. Nel primo caso l’impatto equivale a 249 miliardi di dollari (il 21% del PIL, 2017), nel secondo 77 miliardi (4,3% del PIL, 2015). Seguono la stessa strada Colombia, dilaniata da decenni di narcoterrorismo

e guerrillas armate, l’Argentina alle prese con una gravissima crisi del debito pubblico e un’inflazione fuori controllo, e il Venezuela, dove la crisi politico-economica è così grave da essere diventata crisi umanitaria. La situazione presenta delle differenze in Perù e Cile, paesi economicamente più stabili, ma divisi da profonde diseguaglianze socio-economiche, sfociate in violenti proteste a ottobre 2019.  L’incontro tra mancanza di volontà politica e crisi interne crea le condizioni che da una parte disincentivano i giovani ricercatori a intraprendere la carriera scientifica o li spinge ad abbandonare il paese e dall’altra non stimola i governi nazionali ad aumentare la spesa pubblica per istruzione e ricerca: il fenomeno del brain drain è ampiamente diffuso in tutta la regione. In Argentina, per esempio, il numero di studenti con un dottorato di


America Latina e Caraibi ricerca è aumentato sensibilmente negli ultimi anni, ma solo il 50% di essi viene assorbito nel mercato del lavoro nazionale, costringendo il 20% ad abbandonare il paese mentre il 30% addirittura rinuncia alla carriera scientifica. La situazione resta sostanzialmente negativa anche in Brasile dove nel 2019 l’amministrazione Bolsonaro ha congelato quasi il 45% dei fondi destinati al ministero della Scienza, guadagnandosi pesanti critiche dal mondo scientifico. Anche in Cile e Colombia il fenomeno del brain drain è strutturale, la maggior parte dei fondi pubblici è destinata a borse postdottorato e non allo sviluppo di progetti scientifici locali, oltre alla precarietà dei ricercatori. In questo scenario pessimistico, però, spicca il Messico che sta vivendo un periodo di brain gain, attraendo cioè ricercatori stranieri grazie alla promozione di importanti scambi internazionali.  Come menzionato, un altro ostacolo è rappresentato

dalla burocrazia complessa e dalle poche risorse stanziate. Il paese latinoamericano che più spende in educazione e ricerca è il Brasile (1.2% del PIL, 2016), seguito da Argentina e Messico (0,5%,2016), percentuali molto inferiori rispetto a paesi come USA (2,8%, 2017), Germania (3%, 2017) e Giappone (3,2%, 2017). Nel complesso, la mancanza di laboratori adeguati, salari attraenti, solide prospettive di carriera, riviste scientifiche di alto livello e l’assenza di un ambiente sicuro dove poter vivere, sono alla base della mancata soluzione dei problemi cronici della regione: diseguaglianze economiche, sanità, istruzione e povertà. Perdura dunque l’idea della ricerca scientifica come attività svolta da una ristretta ‘élite’ e non come strumento per valorizzare il prezioso capitale umano prodotto dalle università o per migliorare le condizioni di vita del paese nel medio-lungo periodo. Inoltre, l’assenza di beni ad alto valore aggiunto rende i paesi latinoamericani particolarmente dipendenti

dai prezzi di mercato (molto variabili) delle materie prime, vero pilastro delle economie della regione. Nonostante la situazione attuale, ci sono enormi margini di crescita. L’America Latina ha dato prova di disporre di eccellente capitale umano, quando dotati di risorse, stabilità e libertà di ricerca, come dimostrano i risultati ottenuti dagli scienziati latinoamericani, tra cui spiccano anche i due Premi Nobel Luis Leloir e Mario Molina. La regione potrebbe trarre grandi vantaggi dall’adozione di politiche di lungo periodo, svincolate dall’affinità o meno d ei ricercatori con il ruling party del momento, ma anzi diventando consapevole che la comunità scientifica di un paese si costruisce favorendo programmi di studio internazionali, in modo cumulativo interdipendente e favorendo la competitività. Insomma la scienza, nel continente per antonomasia dei paradossi e del potenziale inespresso, non può che crescere.

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Asia Orientale e Oceania L’estradizione Di Assange: Un Attacco Alla Libertà Di Stampa

di Lara Kopp Isaia Il 24 febbraio numerosi sostenitori di Julian Assange, accompagnati da noti accademici e attivisti dei diritti umani, sono scesi in piazza a Sidney, come in altre città nel resto del mondo, per protestare contro la richiesta di estradizione di Assange negli Stati Uniti. Lo stesso giorno, presso il tribunale di Woolwich in Inghilterra, è iniziata l’udienza per l’estradizione del giornalista australiano e fondatore di WikiLeaks, detenuto nel carcere londinese di Belmarsh da aprile 2019. Se la sua estradizione negli Stati Uniti venisse approvata, Julian Assange verrebbe processato per il reato di spionaggio: un’accusa mossa dagli Stati Uniti nel 2019 per una presunta violazione dell’Espionage Act, una legge federale statunitense del 1917. Su di lui, però, pendono in totale diciotto capi d’imputazione, tra cui anche cospirazione e hacking ai 22 • MSOI the Post

danni di database militari statunitensi. Complessivamente, Assange rischierebbe una condanna a 175 anni di carcere. Julian Assange è stato arrestato l’11 aprile 2019, dopo quasi 7 anni d’asilo politico ricevuto presso l’ambasciata dell’Ecuador di Londra. Lì si era rifugiato nel 2012, quando decise di non consegnarsi a Scotland Yard per essere estradato in Svezia, dove era stato accusato di molestie sessuali nei confronti di due donne. Denuncia, quest’ultima, successivamente ritirata. La richiesta d’asilo al paese sudamericano nascondeva la preoccupazione che la possibile estradizione in Svezia in realtà ne celasse un’altra verso gli Stati Uniti. Qui Assange era, ed è tuttora, sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti per essere il co-fondatore di Wikileaks, la piattaforma di divulgazione di informazioni sensibili, diventata famosa per la prima volta oltre dieci anni fa

per la pubblicazione di un video girato durante un’operazione militare a Baghdad. Il video mostrava il pilota di un elicottero statunitense sparare contro un gruppo di civili innocenti, convinto che si trattasse di combattenti iraniani. Di lì a poco, WikiLeaks e diversi giornali internazionali, tra cui il New York Times e Le Monde, avrebbero divulgato migliaia di informazioni e comunicazioni statunitensi sulla guerra in Afghanistan. I segreti di Washington si trasformarono nella più grande e importante fuga di documenti nazionali riservati della storia. Per questo motivo il 19 giugno 2012, l’Ecuador guidato da Rafael Correa, gli concesse protezione. Durante la manifestazione dello scorso febbraio, la giornalista Wendy Bacon ha sostenuto che le accuse rivolte ad Assange costituiscono un vero e proprio “assalto diretto alla libertà di stampa”. Secondo Bacon, i giornalisti e gli editori possono


Asia Orientale e Oceania Washington. Altri deputati australiani, accademici e medici hanno firmato un appello pubblico, in cui viene sottolineata la loro preoccupazione per le condizioni psico-fisiche di Assange. Inoltre il padre del giornalista ha dichiarato che la consegna di Julian all’autorità statunitense potrebbe essere considerata direttamente come una condanna a morte. essere facilmente presi di mira dagli Stati Uniti, se rendono pubbliche informazioni che il Governo statunitense ritiene un segreto. Anche gli avvocati di Assange hanno affermato che l’estradizione segnerebbe un precedente pericoloso per la libertà d’espressione. Amnesty International ha lanciato una campagna contro l’estradizione: per Massimo Moratti, vicedirettore per l’Europa, “i tentativi del governo Usa di processare Assange per aver reso pubblici documenti riguardanti anche possibili crimini di guerra commessi dalle stesse forze armate statunitensi, non sono altro che un assalto su larga scala al diritto alla libertà d’espressione”. Per Amnesty International, “tutte le accuse mosse nei confronti di Assange a seguito di tali attività devono essere annullate”. Anche Reporters sans frontières (RSF), l’organizzazione che si occupa della libertà di informazione, si è schierata a fianco del giornalista australiano: “prendere di mira Assange [...] per il fatto che WikiLeaks abbia fornito informazioni a giornalisti nell’interesse pubblico sarebbe una misura puramente punitiva e stabilirebbe un pericoloso precedente”. RSF

ha chiesto inoltre alla Gran Bretagna di “mantenere una posizione di sani principi” rispetto a qualsiasi richiesta di estradizione verso gli Stati Uniti e di “garantire la protezione [di Assange] secondo le leggi britanniche ed europee rilevanti per il suo contributo al giornalismo”. Dopo diversi giorni discussione tra i legali di difesa e accusa, la giudice Vanessa Baraitser ha deciso di sospendere il processo fino al mese di maggio. L’udienza finale è prevista per il secondo giorno del mese. Una delegazione parlamentare australiana ha incontrato il co-fondatore di Wikileaks nel carcere londinese. Il deputato indipendente Andrew Wilkie ha criticato e denunciato le azioni illegali di spionaggio di cui è stato vittima il giornalista. Wilkie si riferisce al fatto che i colloqui tra Assange e i suoi legali australiani, quando era rifugiato all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador, venissero segretamente registrati. Per il deputato tali accuse dovrebbero “imporre ai tribunali britannici di respingere ogni richiesta di estradizione negli Usa” poiché costituiscono già di per sè prova sufficiente per rifiutare la richiesta di

La figura di Julian Assange è da sempre molto controversa. Alcuni lo considerano il ‘capitano Dreyfus’ del Ventunesimo secolo, mentre altri un ‘traditore’, riporta Pierre Haski di France Inter. Durante la prima apparizione in tribunale, il giudice Mark Snow si sarebbe rivolto all’imputato dichiarando:“la situazione in cui si trova è il risultato del suo narcisismo”. Questo commento riassumerebbe le opinioni di una fetta di persone che considerano il giornalista australiano un arrampicatore sociale in continua sfida verso le autorità. I pareri nei confronti di Assange non sono unanimi, ma come sostiene Reporters sans frontières “il problema non è se amare o non amare Julian Assange, il problema è se accettare o meno che un contributo al giornalismo venga assimilato allo spionaggio”. Per Pierre Haski, l’estradizione di Assange “sarebbe una vera e propria minaccia per il lavoro dei giornalisti”. La linea di demarcazione tra il diritto all’informazione e il segreto di stato rischia di farsi sempre più sottile e a pagarne il prezzo sarebbero coloro che ricercano la verità. MSOI the Post • 23


Asia Orientale e Oceania PEOPLE’S REPUBLIC OF CHINA: NOT A COUNTRY FOR JOURNALISTS

Di Andrea Daidone Asia-Pacific is the biggest region on Earth. With 34 countries and more than half of the world’s population, it holds plenty of records: the highest number of fast-growing economies, the most significant demographic growth, the highest scores in education reports, and it represents an essential corner point for the global economy and finance, too. However, the Asia-Pacific region has also achieved some negative accomplishments: it holds the world’s biggest prison penalty for journalists and bloggers, especially when it comes to China and Vietnam, and contains the world’s deadliest countries for these workers, most of all Afghanistan, Pakistan, Philippines and Bangladesh. According to press watchdog Reporters without Borders (RSF), the Asia-Pacific region also “has the biggest number of “Predators of Press Freedom”, who run some 24 • MSOI the Post

of the worst dictatorships and information “black holes”, such as North Korea and Laos”. This is particularly visible through the geopolitical dispute between China and the USA, where the principle of press freedom shapeshifted. Recently, the US State Department announced that the US would limit the number of Chinese nationals allowed to work for four state-controlled Chinese media outlets in the US. Only one hundred Chinese journalists will be given a work permit. Moreover, the US State Department designated five state-run Chinese news organisations, including Xinhua and China Global Television Network (CGTN), as “foreign missions”, in order to address what US officials called Beijing’s “propaganda news apparatus”. According to Washington, a classification as a foreign mission requires each listed media outlet to register

the locations of any properties they own or rent in the US, to obtain permission before acquiring more properties and to disclose the identities of their employees working in the US, including US citizens. The requirements are similar to those placed on diplomats and official foreign government entities operating in the US, although the designation does not confer any diplomatic status on the media organisations’ property or employees. The mere indication would not impose any restrictions on the Chinese outlets’ journalistic work within the US. “There is no dispute that all five of these entities are part of the [Chinese] party-state propaganda news apparatus and they take their orders directly from the top” a State Department official told reporters on condition of anonymity. “We all know these guys have been state-controlled


Asia Orientale e Oceania forever, but that control has gotten stronger over time, and it’s far more aggressive” he added in the end. This occurred after three reporters from the Wall Street Journal (WSJ) were abruptly expelled by the Chinese government over the headline of an opinion piece, on February 19th. At a press briefing last month, Chinese Foreign Ministry spokesperson Geng Shuang said that the headline in question, which referred to China’s handling of the coronavirus outbreak, was “racially discriminatory”. However, the situation quickly aggravated. In fact, according to RSF, China has been actively trying to establish a new world media order in which journalists become nothing more than ‘state propaganda auxiliaries’. Their last report stated that: “Beijing is lavishing money on modernising its international TV broadcasting, investing in foreign media outlets, buying vast amounts of advertising in international media and inviting journalists from all over the world on all-expenses-paid trips to China. [...] This expansion, the scale of which is still hard to gauge, could concretely pose a direct threat not only to media, but also to democracies”. The way in which China engages international audiences, through the global expansion of China’s stateowned CGTN and China Radio International, is particularly worthy of attention according to RSF. Broadcasting in 140 languages, CGTN’s goal is to expand its media influence,

through dedicated daily programs about the continent, particularly in Africa, where Huawei has installed 70% of the existing telecommunication infrastructure. Besides, CGTN also focuses on polishing up China’s image through positive coverage of China’s activities in the continent. In recent years, Beijing’s media policy has become more sophisticated. Apart from expanding its media influence through CGTN, China is also blending propaganda into western media outlets through the free English-language supplement called China Watch and produced by staff at the state-run China Daily. This strategy has been called “Trojan horse policy” and supposedly would allow China to “insinuate its propaganda into the living rooms of elites”. According to RSF, China Watch is distributed as a free insert in around 30 prominent international dailies including the Washington Post, Wall Street Journal and the Daily Telegraph. Experts estimate that the free supplement has a circulation of 13 million copies. The report warns that these foreign media outlets could be contributing to the spread of Chinese propaganda while being vulnerable to pressure from China.

“Under Xi Jinping, the Chinese government is tightening control over journalists and social media through regulations. Journalism has become a tool to disseminate the CCP’s views and opinions to the population at large. It is necessary to have discussions questioning the legitimacy of media outlets accepting sponsors from Beijing”, said Louisa Lim, an award-winning journalist and senior lecturer at the University of Melbourne’s Center for Advancing Journalism. By relying on the massive use of new technology, president Xi Jinping has succeeded in imposing a social model in China based on news and information control and online surveillance of its citizens. At the same time, he has been trying to export this oppressive model by promoting a ‘new world media order’ under China’s influence. China’s state and privatelyowned media are now under the Communist Party’s close control, while foreign reporters trying to work in China are encountering more and more obstacles in the field. More than 120 journalists and bloggers are currently detained in conditions that pose a threat to their lives. China was ranked as 177th (out of 180) by the 2019 World Press Freedom Index, confirming to be no country for journalists.

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Economia e Finanza Ai tempi del cambiamento climatico, quale futuro per il trasporto aereo?

Di Giacomo Robasto É indubbio che la fine della guerra fredda, all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso, abbia segnato un imprescindibile punto di svolta storico, poiché ha creato i presupposti per il debutto di un fenomeno economico nuovo, che si sarebbe concretizzato di lí a poco, al quale storici ed economisti sono concordi nell’attribuire il nome di “globalizzazione”. Con l’inizio del nuovo millennio, infatti, ha visto un enorme sviluppo nel campo delle telecomunicazioni, che ha coinvolto soprattutto i paesi industrializzati. Questo ha indotto una intensificazione senza precedenti dell’integrazione nelle sfere economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. Un ruolo di fondamentale importanza in tale integrazione è tutt’ora giocato dal settore del trasporto 26 • MSOI the Post

aereo, che secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione Internazionale dell’Aviazione Civile (ICAO) nel solo 2018 ha messo in movimento oltre 4 miliardi e 300 milioni di persone su scala globale Infatti, senza la crescita esponenziale di cui il settore é protagonista indiscusso da ormai oltre 25 anni, il mondo di oggi e le nostre stesse vite sarebbero ben diverse da come le conosciamo. Tenendo conto che nel 1992 il prezzo minimo di un biglietto per un volo a corto raggio in Europa si aggirava intorno all’equivalente in Lire di €400 e che oggi vale circa poco piú di €15, non v’è dubbio che l’aumento della domanda nel settore sia stato determinato dalla progressiva diminuzione del costo effettivo del trasporto aereo, che sempre secondo i dati ICAO é calato di circa il

70% dal 1970 ad oggi. Benché l’accessibilitá economica del trasporto aereo sia enormemente aumentata nel corso degli anni, vi sono però diverse aree del mondo, tra cui spicca l’Africa subsahariana, in cui il settore ha ancora un potenziale di crescita molto ampio negli anni a venire, il quale però potrebbe essere minato dai crescenti dubbi dei rappresentanti del mondo industrializzato sugli effetti collaterali del trasporto aereo sull’ambiente. Se, in effetti, fino agli anni ‘90 del secolo scorso i viaggi in aereo erano appannaggio di pochissimi, ed erano altrettanto trascurabili i livelli di emissioni inquinanti causati dal settore, oggi la situazione appare ben diversa. Secondo una ricerca promossa


Economia e Finanza dai ricercatori dell’International Council on Clean Transportation (ICCT) e pubblicata nel settembre 2019, infatti, le emissioni nocive di CO2 da parte del trasporto aereo potrebbero presto aumentare 1,5 volte piú rapidamente di quanto previsto dalla stessa ICAO nel 2018. Stando a questi dati, le emissioni di diossido di carbonio nell’atmosfera, che hanno raggiunto i 900 milioni di tonnellate nel 2018, potrebbero infatti triplicare entro il 2050, per effetto del continuo aumento della domanda, anche da parte delle economie emergenti. Come ha ricordato in una dichiarazione al New York Times il ricercatore americano Brandon Graver, che ha condotto la ricerca dell’ ICCT volta a smentire le previsioni dell’ICAO: “le compagnie aeree si stanno impegnando nello sviluppo di modelli aerei a minor impatto ambientale, ma il costante aumento della domanda sta rendendo vane tutte queste azioni correttive”. Visti i numeri sempre piú alti del trasporto aereo, anche in termini di impatto ambientale, è legittimo che una parte dell’opinione pubblica, almeno in Europa e in America settentrionale, abbia da poco iniziato a mettere in dubbio la sostenibilitá di questa modalitá di trasporto in futuro. Se, infatti, i voli a medio e lungo raggio appaiono appaiono al momento insostituibili nello sviluppo economico e sociale di molto paesi, molto si potrebbe fare per ridurre o eliminare del tutto i voli a corto raggio

soprattutto in Europa, come dimostrano alcune lodevoli iniziative promosse sia da alcune compagnie aeree, sia da governi europei. A tale proposito, la compagnia di bandiera dei Paesi Bassi KLM a settembre 2019 ha siglato un accordo storico di lungo termine con le ferrovie statali del paese NS Nederlandse Spoorwegen e l’impresa ferroviaria Thalys, che gestisce i collegamenti ferroviari ad alta velocitá tra Amsterdam, Bruxelles e Parigi. In base a questa intesa, a partire dal 29 marzo 2020, KLM sostituirà uno dei collegamenti giornalieri tra Bruxelles e l’aeroporto di Amsterdam Schiphol con posti garantiti a bordo del treno ad alta velocità Thalys. La premessa di base è, ovviamente, che la soluzione garantisca la stessa qualità del servizio attualmente assicurato dalla compagnia aerea. Come ha dichiarato il presidente e amministratore delegato di KLM Pieter Elbers alla testata Independent: “Il trasporto intermodale che coinvolge treni e aerei, rimane un’attività complessa e piena di sfide. La velocità è fondamentale, non solo del viaggio stesso su rotaia, ma anche del processo di trasferimento in aeroporto. Miriamo a compiere i massimi progressi in entrambe le aree. Ridurre la nostra frequenza da cinque a quattro voli al giorno è un buon modo per acquisire maggiore esperienza con i servizi Air & Rail”. L’operazione dell’impegno

di

fa

parte KLM a

sensibilizzare tutti per “volare responsabilmente”, con l’obiettivo di creare un futuro sostenibile per il settore del trasporto aereo. Sostituendo i voli a corto raggio con servizi ferroviari, gli slot che si libereranno potranno essere utilizzati per voli a lungo raggio. Nell’intento di responsabilizzare i sempre piú numerosi viaggiatori che scelgono l’aereo, si inserisce anche il progetto di “ecotassa” sui voli del governo francese annunciato a luglio 2019, che entrerá a pieno regime dal 2021. Secondo questo progetto di legge, il governo d’oltralpe intende applicare una tassa su tutti i biglietti dei voli in partenza dagli aeroporti francesi, che varierá da 1,50 € per biglietti sui voli a corto raggio interni all’Unione europea, fino ad un massimo di 18€ per i biglietti sui voli intercontinentali. Almeno in Europa, sembrano dunque moltiplicarsi i tentativi di disincentivare l’aereo come mezzo prediletto per gli spostamenti sulle brevi e medie distanze. Se lo sviluppo di reti ferroviarie piú capillari potrebbe dare una a risposta alla crescente domanda di mobilitá in Europa, nel resto del mondo immaginare un futuro senza aerei appare oggi quasi impossibile. Se non intendiamo smettere di viaggiare e di spostarci per studio, lavoro e svago, la sfida del futuro sta infatti nello sviluppo di combustibili e propulsori sempre piú ecologici che siano sempre piú efficienti ed al passo con l’aumento della domanda.

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Economia e Finanza Gli effetti del Covid-19 sull’economia mondiale: crolla il prezzo del petrolio

Di Alberto Mirimin In queste settimane di forzata quarantena per limitare la diffusione del Covid-19, le potenziali conseguenze che il virus potrà avere sul futuro dell’economia globale sono innumerevoli. Tuttavia, se in molti casi gli esperti si stanno ovviamente limitando a previsioni, suggestioni e ipotetici scenari più o meno probabili, c’è un mercato che già da ora sta notevolmente patendo il colpo, quello del petrolio. Il prezzo dell’oro nero, già diminuito di un terzo dall’inizio dell’anno, nella giornata di lunedì 9 marzo ha fatto registrare una vertiginosa caduta. I picchi di ribasso del 30% hanno innescato violente reazioni a catena su tutti i mercati finanziari. Per rendere l’idea del crollo, il petrolio di riferimento europeo, il Brent, che generalmente ha un prezzo 28 • MSOI the Post

medio di $60 al barile, è arrivato a essere scambiato a $31 al barile. Allo stesso modo il greggio di riferimento statunitense, il Wti, che generalmente ha un prezzo medio di poco inferiore al Brent, ha stabilito un minimo di $27,34 al barile. Per capire le ragioni di questo tracollo, però, bisogna fare un passo indietro. Nel 2019 il 75% della domanda globale di petrolio è pervenuta da un solo paese, la Cina. Con l’espansione del virus e la conseguente paralisi dell’economia cinese, il mercato del greggio ha iniziato a vacillare, entrando in recessione già nel primo trimestre del 2020. Non a caso, due fra le più grandi agenzie energetiche al mondo, Rystad Energy e l’Energy International Agency (AIE), hanno previsto per il 2020 un crollo della domanda di petrolio compresa fra il 25%

e il 30%, ossia uno scenario che sarebbe il quarto peggiore degli ultimi 40 anni. Infatti, per ritrovare una riduzione della domanda della stessa misura, bisogna risalire alla Guerra del Golfo del 1991, dal momento che una tale flessione non si erano registrata nemmeno dopo l’attacco alle Torri gemelle del 2001 o la crisi economica globale del 2008. Con i prezzi attuali, secondo quanto riportato da Reuters, i paesi dell’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) stanno perdendo oltre 500 milioni di dollari al giorno di potenziali entrate. Per quanto pronosticabile, dunque, la crisi petrolifera risulta essere preoccupante. Per trovare delle contromisure, lo scorso 6 marzo i membri dell’OPEC e altri 10 grandi produttori petroliferi mondiali


Economia e Finanza si sono riuniti a Vienna nel vertice OPEC+, convocato proprio al fine di discutere della situazione attuale del greggio. La proposta principale, appoggiata dagli altri paesi del cartello, è stata avanzata dall’Arabia Saudita, primo paese produttore al mondo di petrolio. Essa prevede di diminuire la produzione di circa 1,5 milioni di barili al giorno, in modo tale da compensare e contenere la diminuzione dei prezzi. La discussione si è però conclusa con una fumata nera, dato che la Russia, secondo paese al mondo per produzione di petrolio, si è opposta con forza a tale eventualità messa sul tavolo dai paesi arabi. Secondo il Cremlino, essa non rappresenta una soluzione efficace a lungo termine, come sostenuto, tra l’altro, anche da alcuni analisti di Goldman Sachs, una delle più grandi banche d’affari al mondo. La spaccatura si è rivelata decisamente pesante, a tal punto che il ministro dell’Energia russo Alexander Novak, a dimostrazione del proprio disappunto, non solo ha abbandonato il vertice, ma ha anche dichiarato che «non ci saranno più restrizioni a produrre né per l’OPEC né per i paesi non OPEC» da aprile, ossia allo scadere dell’intesa OPEC+ siglata solo nello scorso dicembre. La strategia della Russia, sostanzialmente, sembrerebbe essere quella di sopravvivere in autonomia. Da un lato, il rifiuto di Mosca si spiega con la volontà di non fare sacrifici

di cui avrebbero potuto approfittare altri produttori di petrolio, come quelli statunitensi di shale oil (olio di scisto). Dall’altro, il Cremlino può operare in vista della propria stabilità economica. In tal senso, l’incremento delle riserve valutarie ha consentito alla Russia di abbassare il proprio punto di pareggio, ossia la quantità di volume produttivo sufficiente a coprire i costi sostenuti, a $42,5 al barile. Per avere un termine di paragone, il Fondo Monetario Internazionale stima che quello dell’Arabia Saudita si attesti intorno a $80-85. Inoltre, il presidente russo Vladimir Putin, attraverso il proprio Ministero delle Finanze, ha annunciato che, se necessario, il fondo sovrano sarà svuotato: i 150 miliardi di dollari in cassa al primo marzo sono «sufficienti a coprire le entrate mancate se il prezzo del petrolio scende a 25-30 dollari al barile per 6-10 anni». La mossa della Russia ha irritato non poco le altre potenze petrolifere. L’Arabia Saudita non ha fatto attendere la propria reazione, con misure extra previste per i prossimi mesi. Lo stato arabo ha annunciato la volontà di aumentare al massimo la produzione petrolifera, puntando dichiaratamente all’Europa, tradizionale mercato di sbocco per il petrolio russo, tramite pesanti sconti sui prezzi. Saudi Aramco, la società petrolifera di bandiera, lo scorso weekend ha infatti diffuso i propri nuovi listini, con sconti compresi tra gli $8 e i $10 al barile. Riyad, in sostanza, ha optato per una risposta decisa e non conciliatoria che punta

ad allargare le proprie quote di mercato a discapito dell’exalleato russo. Per quanto riguarda il punto di vista degli Stati Uniti, che di certo hanno un peso enorme in questa disputa, il presidente Donald Trump ha espresso via Twitter il proprio pensiero: «i motivi della caduta del mercato sono l’Arabia Saudita e la Russia che litigano su prezzo e flussi del petrolio e le Fake News!» ha twittato il presidente statunitense. Questa guerra dei prezzi dà l’impressione di poter durare per molto tempo. Da un lato la Russia, che perseguendo una strategia isolazionista lontana dagli accordi dell’OPEC, dichiara di poter sopravvivere anche 10 anni con prezzi ai minimi storici. Dall’altro, l’Arabia Saudita mira a compensare la diminuzione dei prezzi vendendo più petrolio, inondando un mercato, però, già saturo e peraltro al momento in grado di consumare le risorse solo in minima parte, dal momento che a causa del virus gli aerei non volano, le fabbriche lavorano a rilento e le persone non si spostano. In mezzo, l’incognita rappresentata dagli Stati Uniti, le cui strategie geopolitiche potrebbero essere decisamente differenti nei prossimi mesi, in base a come andranno le elezioni presidenziali di novembre. Tutto questo, come se non bastasse, avvolto nell’incertezza del Covid-19, le cui evoluzioni a livello globale, ad oggi, non sono realisticamente prevedibili.

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Europa Orientale e Asia Centrale Freedom of research in Central Asian republics: the case of Tajikistan

number of academics being arrested, detained and/or forced to flee their country has seen a significant increase, scholars tend to avoid crucial and sensitive topics in their research for fear of being persecuted. Granted that a common trend of low freedom of research can be found in these countries, the situation varies considerably from state to state. Some of the countries in the region, such as Kazakhstan and Kyrgyzstan, are considered to be less strict when it comes to research freedom, funds and opportunities, while Tajik, Uzbek and Turkmen Scholars and academics who researchers experience more collaborate with colleagues pressure and control from the abroad and conduct research on state. In fact, conditions of life crucial and debatable topics are in Turkmenistan remain almost deemed extremely dangerous unknown, due to the structure of for such regimes. This makes the regime, which is very nearly research on political, religious completely closed and isolated and gender-related issues from the rest of the world. In challenging to undertake in such countries, the limitations these countries. Since the imposed on information, By Alina Bushukhina Authoritarian and totalitarian regimes tend to completely control every sphere of life in a given society. In particular, science and education are often considered to be the real threat by these regimes, since they have the potential to challenge the elite’s monopoly in shaping the public opinion. Currently, the majority of post-Soviet countries are ruled by nondemocratic regimes, which monopolize the power of setting the agenda and consider scholars a serious threat to order and stability.

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free movement, political and religious differences and the civil society at large, are such that they would not only affect the ‘insiders’, namely the local scholars, who conduct research on challenging topics, but just as well the ‘outsiders’, the foreign scholars working there. The Central Asian republics generally inherited the Soviet educational and academic systems. As Dilrabo Nulmekova argues in her essay “Educational research in Central Asia: methodological and ethical dilemmas in Kazakhstan, Kyrgyzstan and Tajikistan”, in the Soviet Union “data has often arguably been filtered, manipulated and misrepresented for strategic purposes, in order to avoid controversy and contradictions of state directives”, thus compromising the accuracy of the research. After the USSR dissolved and post-Soviet republics gained independence,


Europa Orientale e Asia Centrale allowed by the Tajik Ministry of Foreign Affairs, or to secure a partnership with a local research institution. Furthermore, foreign researchers have to obtain a research visa to conduct research in Tajikistan. This procedure makes it quite a lot more complicated to conduct scientific studies, not least because it is extremely lengthy.

the financial support which they used to receive before faded away, which obviously had a detrimental effect on research. According to the Central Asian Studies Societies’ “Taskforce on Fieldwork Safety. Final Report (2016)”, among Central Asian republics, Tajikistan is considered one of the most complex countries in which to conduct research. Currently, in Tajikistan, foreign researchers need either to be

Moreover, secret services are extremely suspicious towards foreign researchers. In 2014, Alexander Sodiqov, a Tajik PhD researcher of the University of Toronto, was arrested and detained for four months. He was accused of carrying out acts of espionage while he was conducting his research in Tajikistan. Following the international campaign against Sadiqov’s detention, he was released. Another infamous case of a scholar’s persecutions by secret service in Tajikistan occurred in 2017. Hafiz Boboyorov, former head of the Center of Prognosis at Tajikistan’s National Academy, was fired for having openly criticized the Tajik establishment and president. Boboyorov fled the country and still does not plan to return back to Tajikistan. These cases

have had a worldwide impact in highlighting the problems and the limitations that researchers face in Tajikistan. Nevertheless, security is not the only factor which makes it hard to conduct proper research. According to openDemocracy, in Tajikistan as well as in other Central Asian countries, local academics basically have to ‘’work on the global periphery of knowledge production’’. Research is underfunded and scholars have to work in deteriorating conditions, all of which significantly lowers the chances of meaningful scientific progress coming from research conducted in the country. In conclusion, freedom of research is a serious issue in countries with authoritarian or totalitarian regimes. The academic communities in Central Asian countries, which mostly inherited their academic systems from the Soviet Union, experience pressure from the state, which attempts to completely keep them under its control. Academics are forced or strongly influenced to support the state propaganda and, when they don’t, they seriously run the risk of being persecuted and detained.

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Europa Orientale e Asia Centrale L’indipendenza dell’armenia e le possibilita della ricerca

di Lucrezia Petricca Durante le giornate del 26 e del 27 febbraio si è tenuto ad Addis Abeba il VI Congresso Mondiale per la libertà della ricerca scientifica, organizzato dalla Associazione Luca Coscioni e dalla piattaforma Science for Democracy. Il cuore del dibattito è stato il diritto alla scienza e la libertà di ricerca, con un particolare focus sul ruolo delle donne nell’ambito della ricerca scientifica. Al termine del congresso, è stata adottata una risoluzione con cinque richieste principali, prima fra tutte l’introduzione di linee guida che possano aiutare gli stati a promuovere la ricerca. Il diritto alla scienza è un diritto progressivo e non pienamente realizzato, ciò significa che è un diritto che si sviluppa con il tempo e che non è uniformemente garantito in tutti 32 • MSOI the Post

gli stati. Per far fronte a questo aspetto, l’Associazione Luca Coscioni, insieme a Science for Democracy, ha sviluppato una particolare metodologia in grado di misurare il livello di realizzazione di questo diritto: l’Indice di Ricerca e Autodeterminazione, abbreviato RSDI. Un punteggio da 0 a 12 è assegnato per ogni indicatore che compone l’RSDI: più il punteggio è basso, minore è il livello di garanzia e tutela della ricerca. Sulla base del ranking sviluppato grazie a questa metodologia, che ha coinvolto 46 paesi, un confronto tra l’Europa occidentale e i paesi dell’Europa orientale mostra un divario a sfavore dei secondi. Se paesi come la Francia, la Germania e la Svezia raggiungono un punteggio superiore ad 80, alcuni paesi della penisola balcanica non arrivano neanche a 30, come la

Repubblica della Macedonia del Nord o la Bosnia. Spostandosi più a Est, nell’area del Caucaso, il punteggio è quasi identico per Armenia (35) e Azerbaijan (36), mentre la Georgia (45) si colloca un po’ più in alto in classifica. Si possono poi individuare regioni che registrano un punteggio omogeneo: negli ex paesi sovietici, ad esempio, è possibile notare come l’indice si aggiri intorno ad un punteggio di 30/40. La Federazione Russa è la sola che si discosta, con un punteggio di 63. Il ruolo giocato dal regime sovietico, rispetto alla ricerca, è stato non indifferente. Se infatti da un lato l’URSS ha contribuito allo sviluppo del progresso scientifico e tecnologico, dall’altro ha imposto dei limiti alla ricerca, che si è dovuta conformare all’ideologia sovietica.


Europa Orientale e Asia Centrale In tal senso, un esempio è costituito dalla dottrina Zhdanovshchina, introdotta da Andrei Zhdanov e applicata dal 1946 al 1953. Secondo Zhdanov, le creazioni e le opere di scienziati e intellettuali non dovevano discostarsi dall’ideologia del partito, ma, al contrario, conformarsi ad essa. L’obiettivo dell’introduzione della dottrina fu quello di bloccare la pubblicazione, da parte delle riviste letterarie Zvezda e Leningrad, di opere dell’autore satirico Mikhail Zoshchenko e della poetessa Anna Achmatova, entrambi espulsi dall’Unione Sovietica. Pertanto, al fine di spiegare alcuni fenomeni, gli scienziati si trovarono molto spesso nella condizione di percorrere vie alternative che rispettassero la logica dell’Unione Sovietica. Invece, coloro che non seguivano il dettato di questa dottrina potevano essere accusati, ad esempio, di seguire e adottare le teorie dell’Occidente in modo acritico. D’altra parte, però, l’Unione Sovietica aveva un enorme considerazione della scienza e del progresso, soprattutto nell’ambito della ricerca spaziale. La cosiddetta ‘corsa allo spazio’ rappresentò non a caso un fattore della competizione fra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America, le due superpotenze protagoniste della Guerra Fredda. Proprio perché la scienza era principalmente una questione di propaganda, l’Unione Sovietica investì molti fondi nelle innovazioni scientifiche e tecnologiche. A tal proposito non si può quindi non citare l’Istituto di

fisica di Yerevan, fondato in Armenia nel 1942 e sede allora del più grande acceleratore di particelle. Sul Monte Aragats, situato nell’Armenia occidentale, vennero realizzate delle stazioni di studio di raggi cosmici. Qui, scienziati e ricercatori mettevano in campo le loro forze per poter scoprire ciò che dell’universo era ancora sconosciuto.

sponsorizzati dagli Stati Uniti che la Russia stessa avvertiva come una minaccia. Il Cremlino riteneva infatti che in questi laboratori si producessero armi biologiche da utilizzare contro la Russia. Tuttavia, le autorità statunitensi e armene hanno più volte sottolineato che i laboratori hanno come fine ultimo la ricerca scientifica e nessuno scopo militare.

Successivamente, a partire dal momento in cui l’Armenia ottenne l’indipendenza dall’URSS nel 1991, si verificarono molti cambiamenti nell’ambito della ricerca del paese caucasico: progressivamente si ridusse il numero degli scienziati, passato dai 25.344 del 1991 ai 5000/6000 di oggi. Allo stesso modo, gli istituti di ricerca sono oggi 83, mentre fino a qualche decennio fa se ne contavano 124. Alcuni settori, come quello astronomico, hanno risentito più di altri della mancanza di fondi, rischiando di perdere il primato che avevano acquisito in passato. Tuttavia, i ricercatori che svolgono oggi la loro attività nell’osservatorio astronomico di Byurakan, fondato nel 1946, affermano di non avvertire particolari vincoli alla ricerca, nonostante vi siano meno incentivi rispetto al passato. Un grande punto a loro favore, considerano, è quello di avere accesso a tutte le informazioni e di poter prendere parte a conferenze internazionali.

In conclusione, recentemente l’Armenia ha chiesto di aderire ad Horizon 2020, programma ideato dall’Unione Europea che ha stanziato un fondo di 80 miliardi di euro da investire in ricerca e innovazione. In modo particolare, l’Armenia ha richiesto di poter accedere al Policy Support Facilities (PSF), uno strumento di sostegno pratico alle politiche per migliorare la ricerca. Grazie a tale iniziativa, l’Armenia può richiedere e ricevere consulenza da parte di esperti per realizzare tre obiettivi principali: elaborare un modello per valutare le prestazioni degli istituti pubblici di ricerca, migliorare il sistema di finanziamento e, infine, colmare il divario tra ricerca e istruzione. In merito a quest’ultimo punto, l’Armenia ha già avviato un progetto di riforma, chiamato Competitive Innovation Fund (CIF), volto a potenziare le strutture e gli istituti dell’istruzione superiore. Il CIF contiene una serie di programmi che hanno l’obiettivo di creare un collegamento tra l’istruzione e il mercato del lavoro, rendendo quindi più attivi i canali di cooperazione fra i due settori.

Il settore della biochimica ha destato forti preoccupazioni. Lo scorso novembre l’Armenia ha consentito alla Russia di accedere ai biolaboratori

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Africa Subsahariana Il futuro passa da Addis Abeba: il primo congresso africano sulla libertà di ricerca

Di Cesare Cuttica Africa, un continente tanto affascinante quanto problematico. Oltre ad essere quello più povero per PIL pro capite, nei paesi al suo interno si può osservare un ampio inventario di ‘piaghe’ quasi perenni, che hanno fortemente condizionato lo sviluppo del tessuto sociale in questi territori. Tra queste la scarsità di risorse alimentari, il più concentrato numero di conflitti nel mondo e la difficoltà di funzionamento del modello nazionale e statale, storicamente imposti da paesi occidentali in epoca coloniale. Infine, la travolgente crescita demografica proietta la cosiddetta ‘culla dell’umanità’ in un futuro incerto. In questo intricatissimo mosaico, in cui le scarse risorse economiche degli stati africani vengono 34 • MSOI the Post

assorbite dalle più scottanti emergenze, qual è lo spazio a disposizione della ricerca? Quale il suo ruolo? La risposta, purtroppo, non lascia spazio a sorprese, almeno nelle sue linee generali. Stando a quanto sostiene Ranjit Warrier, ricercatore medico zambiano formatosi negli USA, sulla piattaforma online Global Voices, l’attenzione dedicata in Africa alla ricerca di base è pressappoco nulla. Questo problema, secondo Warrier, affonda le proprie radici in una preparazione scolastica non sufficientemente attenta all’ambito scientifico. La ricerca è stata così fino a ora lasciata nelle mani di esperti stranieri, principalmente statunitensi ed europei, e anche lo sviluppo in ambito sanitario è affidato a soluzioni elaborate in ambito

internazionale, che spesso risultano difficili o impossibili da applicare nella realtà africana, date le particolari caratteristiche sociali ma anche le condizioni climatiche assolutamente peculiari. Nonostante le condizioni sopra descritte, è chiaro anche alle classi dirigenti africane che nel mondo odierno non c’è futuro progettabile senza tecnologia e senza progresso scientifico. Così, le ambizioni di tutto il continente di emanciparsi dalla storica condizione di contenitore di materie prime, imposta dai paesi occidentali in epoca coloniale, passano necessariamente dalla ricerca, dall’università, dall’allargamento qualitativo e quantitativo della preparazione scolastica. Interessante a tal proposito il contributo di


Africa Subsahariana Elisabeth Moreno, capoverdiana oggi direttrice della sezione africana dell’azienda tecnologica HP, che racconta l’Africa vissuta nei suoi viaggi: l’impressione che restituisce è quella di un continente dinamico, fiducioso nell’avvenire e che si percepisce come emergente, come testimoniato anche dal gigantesco monumento denominato “Al Rinascimento Africano” ed eretto a Dakar, Senegal, alla presenza di numerosi capi di stato da tutto il continente. Moreno insiste sull’importanza dell’istruzione come vettore di crescita economica e sociale, da affiancare alle nuove tecnologie come aiuto concreto agli imprenditori africani, che lavorano spesso in condizioni di grande difficoltà, e come propellente per la crescita economica del continente. A supporto della ricerca, viene da Addis Abeba un segnale incoraggiante. Organizzato dall’Associazione Luca Coscioni e da Science for Democracy insieme all’Unione Africana, si è svolto tra il 25 e il 26 febbraio il VI Congresso Mondiale per la libertà di ricerca scientifica, incentrato su sviluppo sostenibile, libero accesso ai dati e alla ricerca, malattie sessualmente trasmissibili e cellule staminali. Interessante è notare il ruolo dell’Italia in questo consesso, espresso attraverso l’associazione Luca Coscioni, ma anche dalla viceministra degli Affari esteri Emanuela del Re, che ha avuto l’onore di aprire i lavori con il

proprio intervento. L’evento gode inoltre dell’appoggio dell’ONU, che da una parte garantisce protezione, risorse e omogeneità di intervento tra gli stati, e dall’altra costringe al rispetto di alcune modalità operative e di alcuni obiettivi, enucleati principalmente nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Le due giornate etiopi, aperte a 35 paesi da tutto il mondo, hanno prodotto un risultato concreto da parte della comunità africana: diversi paesi hanno deciso di creare una rete di parlamentari coordinata da Science for Democracy per continuare a perorare la causa della libertà della ricerca, ricevendo le prime adesioni da Tanzania, Zambia, Senegal e Costa d’Avorio. Al termine dei lavori, è stata infine redatta una serie di raccomandazioni che riassumono i punti di

approdo delle due giornate etiopi: linee guida d’azione, documentazioni, lavori previsti, progetti di investimento e ruolo delle donne. Viene quindi naturale chiedersi quale sarà il futuro della libertà di ricerca scientifica in Africa. Quello descritto in questo articolo sarà il punto di inizio di un percorso nuovo, veramente incisivo, o sarà ricordato piuttosto come uno dei tentativi falliti da parte della comunità internazionale di incrementare lo sviluppo della ricerca scientifica in territori ad oggi marginalizzati? Una cosa è certa: l’Africa è un continente in espansione e come tale reclamerà il suo spazio nel mondo che verrà. Affinché questa importanza non venga sfruttata da altri, ma valorizzata dagli africani stessi, la ricerca è un tassello fondamentale.

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Africa Subsahariana Somalia: tra scontri interni e lotta al terrorismo

Di Giusi Matozza

Shabaab, affiliato di al-Qaeda.

Resta alta la tensione in Somalia, dove, nonostante l’indebolimento degli estremisti, la lotta al terrorismo e gli scontri tra fazioni interne non permettono di placare la tensione nel paese. Secondo il Global Terrorism Index 2019 dell’Institute for Economics and Peace di Sidney, che analizza i dati relativi al terrorismo nel 2018, tre dei dieci paesi con il maggior impatto terroristico a livello mondiale appartengono all’Africa subsahariana. Si tratta di Nigeria (terzo posto), Somalia (sesto) e Repubblica Democratica del Congo (al decimo posto). Mentre quest’ultimo deve fronteggiare le azioni destabilizzanti degli estremisti dell’organizzazione Boko Haram, la Somalia è impegnata a combattere, sostenuta dalle forze americane, il gruppo terroristico di al-

L’indice, però, mostra anche che tra il 2017 e il 2018 la Somalia ha registrato la seconda maggiore riduzione di morti per terrorismo, preceduta solo dall’Iraq. Dal 2017, infatti, la presenza americana sul suolo somalo è notevolmente aumentata dopo che il presidente Donald Trump ha approvato un ampliamento delle operazioni militari in Somalia. Gli ultimi attacchi del 2018 hanno portato alla morte di 60 miliziani ad ottobre e 62 a dicembre ed è stata la serie di attacchi più violenta dopo quella del novembre dell’anno prima, nel quale erano stati uccisi 100 miliziani. Tutto questo ha fatto sì che il numero di morti causate da attacchi terroristici toccasse il livello più basso dal 2013.

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Ma sebbene questi dati possano apparire confortanti, dal 2018 la

situazione non è migliorata e l’attivismo militare statunitense delinea uno scenario ancora più complicato. Come riporta il sito Voice of America, nel 2018 AFRICOM, il comando per le operazioni militari statunitensi che si svolgono nel continente africano, ha eseguito 48 attacchi aerei sul suolo somalo, mentre nel 2019 il numero è salito a 63. Mai negli anni precedenti gli attacchi erano stati così tanti. Nel 2019, i militanti di alShabaab sono stati attivi soprattutto nella zona che circonda la capitale Mogadiscio e nelle regioni del sud del paese, ma alcuni attacchi hanno colpito anche le regioni del nord. Inoltre, l’organizzazione riesce a guadagnare imponendo tasse ai clan locali che si trovano fuori dalle aree sotto il controllo governativo, il che lascia


Africa Subsahariana semiautonomo considerato illegale dal governo di Mogadiscio e dalle Nazioni Unite. É sostenuto dal Kenya, che probabilmente vede nella sua influenza sulla regione la possibilità di mettere le mani sui giacimenti di idrocarburi che si trovano tra le acque territoriali somale e keniote.

supporre che, nonostante alShabaab militarmente abbia perso territorio, la sua influenza sulla popolazione in alcune zone del paese resti ancora molto forte. Il governo centrale non si trova solo a fronteggiare la minaccia terroristica, ma anche a cercare di riaffermare la propria forza nei confronti delle spinte indipendentiste di alcune regioni, nelle quali i rapporti con gli stati vicini giocano un ruolo fondamentale. A sud, nella vallata del fiume Juba, dall’aprile del 2011 si estende lo Jubaland, uno stato

La disputa per l’acquisizione del pezzo di mare ricco di ‘oro nero’ va avanti dal 2011. Nel 2012, il governo keniota ha anche stipulato dei contratti di esplorazione con la multinazionale italiana ENI e con la compagnia petrolifera francese TOTAL. Ora la questione è nelle mani della Corte Internazionale di Giustizia, visto il ricorso operato da Mogadiscio nel 2016. Il Kenya, da parte sua, può contare sull’appoggio di Ahmed Mohamed Islam, detto Madobe, eletto per il terzo mandato consecutivo presidente dello Jubaland. Madobe, oltre ad essere utile al Kenya in funzione antiterroristica, controlla l’intero confine tra i due paesi ed è in forte contrasto con il presidente somalo Mohamed Abdullahi Fermaajo. Altro problema rappresentato Somaliland, regione

è dal del

nord, con capitale Hargeisa, che si dichiara indipendente nonostante Mogadiscio continui a considerarla parte della Somalia. Il governo centrale, per riportare la regione nel proprio sistema federale, ha anche fatto ricorso alle tensioni con stati semi-autonomi come il Putnam, situato nella parte orientale della nazione, per innescare una guerra tra quest’ultimo e il Somaliland, in modo da indebolirlo sia politicamente che economicamente. A questo quadro si aggiungono le aspirazioni di potenze straniere. In particolare gli Emirati Arabi Uniti, consci della posizione geostrategica della regione, nel 2017 hanno stretto un accordo con il Somaliland per la modernizzazione del porto di Barbera e per la costruzione di una base militare. Se il governo di Mogadiscio persegue il proprio obiettivo di riunificazione, i nazionalisti presenti nella regione non hanno mai abbandonato il desiderio di indipendenza e questo impedisce a entrambe le parti di arrivare ad una soluzione in maniera diplomatica. Proprio questa difficoltà di dialogo tra il governo centrale e le regioni che rivendicano l’autonomia è un elemento che potrebbe permettere ad al-Shabaab di riconquistare potere.

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Nord America L’OPPRESSIONE ACCADEMICA: IL CASO USA

Di Nicolas Drago Accademici, professori e studenti sono categorie minacciate. Secondo il rapporto annuale di Scholars at Risk, un network internazionale di istituzioni e individui che dirige la propria azione alla protezione e alla promozione della libertà accademica, dal 1 settembre 2018 al 31 agosto 2019 sono stati registrati 324 casi di oppressione da parte di attori statali e non statali a livello globale. Nonostante le università potessero definirsi come corporazioni giuridicamente autonome, sin dalla loro nascita nel Basso Medioevo sono state schiacciate sotto il giogo della Chiesa cattolica, che esercitava un potere di censura nei riguardi dei docenti i cui scritti non erano in linea con i canoni biblici. Allo stesso modo, a partire dal 1700, gli emergenti stati-nazione ingiungevano l’insegnamento di contenuti che fossero considerati ragionevoli dai 38 • MSOI the Post

governi in carica. Eppure, a dispetto di tali limitazioni, alcune università europee erano incoraggiate all’autogoverno, come l’Università di Leiden, nei Paesi Bassi, oppure le Università di Göttinger e di Berlino, in Germania. Negli Stati Uniti, la nozione di libertà accademica inizia ad imporsi a partire dal 1940, a seguito della pubblicazione dello “Statement of Principles on Academic Freedom and Tenure”, redatto congiuntamente dalla American Association of University Professors e dalla Association of American Colleges (oggi conosciuta come American Association of American Colleges and Universities). La fondazione della American Association of University Professors è dovuta ad Arthur O. Lovejoy, filosofo e docente all’Università Johns Hopkins (Maryland), e a John Dewey, filosofo e docente all’Università Columbia (New York). I due si incontrarono nel 1915 per discutere le

sorti del loro collega Edward Ross, docente all’Università Stanford (California). Ross fu costretto a presentare le proprie dimissioni per via della sua linea di pensiero circa la manodopera migrante e il monopolio del sistema ferroviario. Nel corso degli anni 1930, sulla scia dei totalitarismi preSeconda Guerra Mondiale, la legge statunitense imponeva ai docenti di prestare un giuramento di fedeltà, affinché questi non si impegnassero in attività politiche correlate al comunismo. Qualora vi si fossero sottratti, sarebbero incorsi nel sollevamento dalle loro funzioni senza un dovuto procedimento legale. In seguito ad episodi di questo tipo, la Dichiarazione del 1940 venne redatta al fine di codificare alcuni principi strutturali per contribuire al progresso dell’esercizio della piena libertà accademica da parte di docenti e di


Nord America

studenti. Soprattutto affinché essi potessero perseguire la mera conoscenza senza più incorrere in interferenze esterne. Per questo, i professori universitari hanno il diritto di investigare scientificamente su qualsiasi materia che susciti il loro interesse, di pubblicare i dati e i risultati che ne derivano e di discuterne liberamente nelle aule della materia di insegnamento. Gli studenti, da parte loro, hanno il diritto di studiare e di investigare approfonditamente qualsiasi materia che catturi la loro curiosità, di trarne conclusioni personali e di esprimerne un giudizio critico.

aperto, intellettualmente coinvolgente e diversificato, che sia ostacolo alla formazione di un ambiente che possa soffocare la nascita di prospettive concorrenziali. Tuttavia, nonostante il tentativo di adottare una postura più tollerante, il Governo degli Stati Uniti sembra perseverare in un atteggiamento oppressivo. In particolare, nel corso del 2019, due casi hanno attirato l’attenzione dell’osservatorio di Scholars at Risk. Il primo caso riguarda lo studente palestinese Ismail B. Ajjawi che, ammesso all’università

Harvard (Massachusetts), è stato trattenuto alla dogana dell’aeroporto a causa dell’attività su alcuni social network dei suoi contatti. Dopo essere stato espulso e deportato in Libano, l’ambasciata degli Stati Uniti a Beirut, sotto la pressione di gruppi di difesa dei diritti umani, ha deciso di riesaminare il caso del ragazzo e di emettere un nuovo visto di ingresso. Il secondo caso riguarda invece Omar Barghouti, leader di un movimento palestinese che patrocina forme di boicottaggio contro Israele. Barghouti avrebbe dovuto presenziare ad alcune conferenze in prestigiose università statunitensi e incontrare giornalisti e politici locali. Le autorità statunitensi hanno interdetto il suo ingresso nel paese, benché i suoi documenti di viaggio e il suo visto fossero in regola. Lo stato attuale delle cose dimostra che gli Stati Uniti, come numerosi altri stati, non possono esimersi dalle attività di promozione della libertà accademica, perché la libertà di ricerca accademica si rivela un mezzo utile per il raggiungimento di obiettivi ambiziosi e il soddisfacimento di interessi comuni alle società.

Di recente, l’amministrazione statunitense si è mossa verso tale direzione. Il 21 marzo 2019, il presidente Donald J. Trump ha firmato un ordine esecutivo volto al potenziamento della libertà di ricerca negli istituti universitari. Sulla carta questo dovrebbe avvenire attraverso la promozione di un dibattito

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Nord America La politica estera di Trump ai tempi del Covid-19: tra UE e Iran

Di Elisa Zamuner

debellare la pandemia.

L’emergenza sanitaria causata dal Coronavirus ha raggiunto anche gli Stati Uniti, attualmenti impegnati non solo a contenerne le conseguenze all’interno dei propri confini ma anche a fare i conti con le oscillazioni dell’equilibrio del sistema internazionale. Infatti, nelle ultime settimane, il presidente Donald Trump ha dovuto confrontarsi con i leader dell’Unione Europea circa le misure da adottare e ha dovuto trovare delle soluzioni di fronte alla diffusione del virus.

La notizia ha suscitato forti polemiche, soprattutto da alcuni esponenti del governo tedesco: il ministro degli Esteri Heiko Maas ha dichiarato che la Germania non può consentire che i risultati raggiunti dai ricercatori tedeschi siano acquisiti in esclusiva da terzi e il ministro della salute Jens Spahn lo ha spalleggiato, sostenendo che qualora la CureVac sviluppi un vaccino, questo sarebbe un beneficio di tutti e non solo di alcuni Stati. Anche la CureVac, tramite Dietmat Hopp, uno dei principali investitori dell’azienda, ha dichiarato di non avere intenzione di vendere un eventuale vaccino ai singoli Stati.

Il settimanale tedesco Welt am Sonntag ha dato notizia, in un articolo del 15 marzo, del tentativo dell’amministrazione Trump di acquistare il brevetto di un vaccino contro il Covid-19. Sembrerebbe che il governo USA si sia messo in contatto con la casa farmaceutica CureVac, offrendo circa 1 miliardo di dollari per ottenere l’esclusiva dall’azienda tedesca che sta lavorando allo sviluppo dell’antidoto che potrebbe 40 • MSOI the Post

L’Agence France-Presse (AFP) ha riportato - in un articolo citato da The Guardian ma poi rimosso dal proprio sito alcuni commenti di un ufficiale statunitense. Questi ha negato che l’amministrazione Trump stesse cercando di ottenere un vaccino esclusivamente per gli Stati Uniti e ha dichiarato

che il governo statunitense continuerà a dialogare con ogni azienda che affermi di essere in grado di fornire un contributo. Ha poi aggiunto: “Ogni soluzione trovata sarà condivisa con il mondo”. La volontà di collaborare congiuntamente sulla ricerca e sullo sviluppo di un vaccino al Covid-19 è stata manifestata anche durante una videoconferenza tenutasi tra i leader dei Paesi del G7 lo scorso 16 marzo, durante la quale i partecipanti hanno sottolineato l’importanza di far convergere le loro azioni su un fronte comune per arginare l’emergenza sanitaria in corso. La dichiarazione ufficiale riferisce: “Agendo insieme, lavoreremo per risolvere i rischi sanitari ed economici causati dalla pandemia”. L’emergenza sanitaria ha anche portato l’amministrazione Trump a doversi confrontare con le politiche adottate nei confronti dell’Iran, il quale è stato particolarmente danneggiato dal virus.


Nord America Sul fronte economico, infatti, The Guardian riporta che il Regno Unito sembrerebbe aver fatto delle pressioni nei confronti degli Stati Uniti affinché sollevasse le sanzioni che gravano sull’Iran, in modo tale da permettergli di svincolare più risorse che potrebbero essere devolute al contenimento dell’emergenza sanitaria. Il governo statunitense ha messo in atto una politica di massima pressione diplomatica ed economica nei confronti dell’Iran da mesi: l’obiettivo sarebbe quello di spingere Teheran a tornare a negoziare un nuovo accordo sul nucleare, in seguito al ritiro degli USA da quello precedente, ritenuto poco vantaggioso per l’economia americana. Di recente, Trump e i suoi consiglieri hanno discusso le prossime mosse degli Stati Uniti: secondo il New York Times, il segretario di Stato Mike Pompeo e il consigliere della sicurezza nazionale Robert C. O’Brien avrebbero tentato

di convincere il presidente Trump a reagire vigorosamente all’attacco missilistico sferrato contro una base militare vicino a Baghdad, a seguito del quale sono morti tre soldati, tra cui due statunitensi. Al contrario, il segretario della Difesa, Mark T. Esper ed il generale Mark Milley, hanno espresso le loro preoccupazioni, sostenendo che una risposta forte all’attacco avrebbe rischiato di condurre gli Stati Uniti e l’Iran verso l’escalation. Quest’ultima posizione non ha convinto Trump, che ha autorizzato degli strike aerei contro alcune milizie iraniane l’11 marzo scorso. Dopo pochi giorni, Pompeo ha annunciato nuove sanzioni economiche nei confronti di Teheran, con l’intento di colpire enti e individui le cui azioni “forniscono delle risorse al regime, che potrebbero essere utilizzate per finanziare il terrorismo e altre attività destabilizzanti”. Le sanzioni sarebbero volte a tagliare gli

introiti derivanti dal settore petrolchimico iraniano. Pompeo ha chiarito però che gli Stati Uniti avrebbero fatto il possibile per aiutare l’Iran a contenere l’emergenza sanitaria: “Hanno un problema enorme lì e noi vogliamo che l’assistenza medica e umanitaria giunga ai cittadini iraniani”. Ma il presidente iraniano Hassan Rouhani, durante un intervento televisivo, ha controbattuto duramente alle dichiarazioni del segretario di Stato statunitense: “I leader statunitensi stanno mentendo; se vogliono aiutare l’Iran, tutto quello che devono fare è revocare le sanzioni”. La linea politica “America First” di Trump e la politica estera degli Stati Uniti dovranno quindi riuscire a mitigarsi in un’ottica di collaborazione con gli altri paesi, dinanzi ad una pandemia che rischia di provocare una crisi economica globale di proporzioni enormi.

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Sud e Sud Est Asiatico Malaysia: la nomina di Muhyiddin Yassin mette fine ad una crisi politica senza precedenti

Di Daniele Carli Il 1° marzo, a distanza di una settimana dalle dimissioni di Mahathir bin Mohamad, uno dei momenti più controversi nella storia politica malesiana, il sultano Abdullah Sultan Ahmad Shah ha optato per assegnare l’incarico di primo ministro a Muhyiddin Yassin. Yassin ha 72 anni ed è capo di partito del Malaysian United Indigenous Party (BERSATU), nonché ex ministro degli Affari interni sotto la presidenza Mahathir. Si tratta di una scelta a sorpresa rispetto ai più quotati leader di partito della ex coalizione multi-etnica di governo Pakatan Harapan (PH), ovvero Anwar Ibrahim e lo stesso Mahathir. Una investitura dettata, a quanto pare, dalle sue maggiori 42 • MSOI the Post

possibilità di ottenere il supporto della maggioranza dei parlamentari. Dunque si chiude in circostanze particolari la seconda legislatura di Mahathir che, a più di 15 anni dal suo primo lungo mandato (1981-2003), nel 2018 si era ripresentato alle elezioni presidenziali nelle vesti di leader del PH. Questa coalizione era nata dalla troika tra BERSATU - il partito fondato da lui stesso nel 2016 in seguito al distacco dallo storico partito di maggioranza United Malays National Organisation (UMNO) l’Amanah (un altro partito in contrasto con l’UMNO) ed il Keadilan (partito riformista filo-cinese guidato da Anwar Ibrahim). In quel frangente, Mahathir era

riuscito a prevalere sull’allora presidente uscente Najib Razak, coinvolto all’epoca nel famoso scandalo 1MDB che lo vide sotto inchiesta per aver trasferito soldi pubblici nei suoi conti bancari. Così Mahathir era riuscito di fatto a scardinare il dominio incontrastato dell’UMNO, a 61 anni dall’indipendenza del paese dalla Gran Bretagna. I motivi della crisi politica iniziata il 24 febbraio non sono del tutto chiari, ma sembrano legati all’annunciata incrinatura dei rapporti all’interno del PH. Il 94enne Mahathir nel 2018 avrebbe assunto l’incarico con la promessa di passare il testimone a metà mandato al suo ‘delfino’ politico e compagno di coalizione Anwar. Promessa, a quanto pare,


Sud e Sud Est Asiatico non mantenuta. Peraltro, questa delega sembrava non essere gradita né ad alcuni esponenti del BERSATU, probabilmente timorosi di vedere Mahathir escluso dai vertici, nè ad alcuni oppositori dello stesso Arwan all’interno del suo partito, a causa del suo modernismo in materia di Islam. Nel contesto di tensione generato dalla vicenda, Muhyiddin Yassin ha optato per sganciarsi dalla coalizione e patteggiare con l’UMNO, ottenendo la maggioranza sufficiente per governare. Il nuovo capo di stato ha accusato il suo predecessore di aver causato la crisi politica nel tentativo di ottenere un rimpasto di governo dopo esser stato nuovamente designato come premier dal sultano, potendo contare sull’appoggio dell’opposizione. Dal canto suo, Mahathir ha respinto le accuse al mittente affermando che le sue dimissioni sono state diretta conseguenza della perdita del supporto all’interno del PH. Grandi incognite aleggiano ora sulla nuova coalizione di governo PH e sull’operato di Muhyiddin. Il neo primo ministro si è presentato durante il suo primo discorso come unificatore del paese per quanto riguarda la diversità etnica. Bisognerà capire se ciò porterà alla promozione di un sistema più egualitario e meritocratico o, come si teme in virtù dell’alleanza con l’UMNO, alla salvaguardia dei privilegi garantiti per costituzione alla popolazione bumiputra (malesi ed altri gruppi indigeni locali) a svantaggio delle

minoranze. Secondo le stime del Dipartimento di Statistica malese, circa il 56% dei 31 milioni di cittadini malesi sono etnicamente riconosciuti come Malay e indicati nella costituzione come musulmani, mentre il 13% sarebbe composto da altri gruppi indigeni. Tra le altre minoranze troviamo gruppi cristiani, buddisti e indù, di etnia cinese o indiana. Il governo locale ha storicamente sostenuto i bumiputra perché considerati emarginati e penalizzati, non includendo però altre minoranze nei piani di sostegno. L’ormai ex primo ministro Mahathir aveva tentato una correzione strutturale nominando ministro delle finanze Lim Guam Eng, il primo esponente della comunità cinese a detenere una carica pubblica in più di quattro decenni. Questa potrebbe essere stata la manovra decisiva nella perdita del supporto alla coalizione da parte del gruppo nazionalista. Tanto più che la nuova squadra di governo, presentata il 9 marzo, conterà tra le proprie fila una netta maggioranza di ministri malesimusulmani, con solamente 2 ministri appartenenti alle minoranze. Numerose sono le sfide che attendono Muhyiddin in quanto leader di una coalizione che, nata dallo sgretolamento del PH, rischia ora di essere ancora più instabile della precedente. Mahathir e Anwar, entrambi malay, avevano posto al centro della scorsa agenda

di governo lo slogan “Nuova Malaysia” a testimoniare un maggiore impegno nel creare un’amministrazione più trasparente. Una prima virata in tal senso si era concretizzata con la nomina della prima donna ai vertici della giustizia e una contemporanea revoca delle interdizioni a tutti i giornalisti che erano stati posti nella lista nera. Tale apertura, tuttavia, ha visto un forte regresso nella composizione del nuovo gabinetto, che sta sostenendo un’agenda molto più conservativa in favore del gruppo malay. Nonostante ciò, in un’intervista, Muhyiddin ha giurato di essere il primo ministro di tutti i popoli e di voler rafforzare l’integrità del governo. Infine, determinante sarà anche capire se e come evolveranno i rapporti del paese con l’India. Durante il mandato di Najib Razak (2009-2018), in virtù del suo impegno nel combattere il terrorismo nella regione e contrastare l’espansione cinese nell’Oceano Indiano, le relazioni erano buone. Secondo quanto ricostruito dalla piattaforma online Swarajya, con Mahathir la partnership internazionale si era incrinata, dopo la proposta alle Nazione Unite di abolire l’articolo 370 della Costituzione indiana riguardante lo statuto speciale del Kashmir. Lo scenario più plausibile è che ora il governo indiano opti per temporeggiare, cercando di sondare la predisposizione al dialogo di Muhyiddin ed in attesa del voto di fiducia parlamentare previsto per maggio.

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Sud e Sud Est Asiatico Gli ostacoli a una nuova partnership indo-americana

Di Sabrina Certomà Nell’ultima settimana di febbraio, il presidente statunitense Donald Trump si è recato in India per concludere un accordo commerciale a lungo agognato. A spingerlo ad effettuare questa mossa diplomatica, anche la volontà di dare una svolta personale alle relazioni tra i due paesi. Ma questo sforzo non ha raggiunto i risultati sperati. Trump ha lasciato l’India, infatti, senza accordo. La prima visita del tycoon arriva dopo due decenni di sforzi da parte di entrambe le amministrazioni per formare una partnership tra le due più popolose democrazie mondiali. La relazione bilaterale, come sostenuto da un editoriale dell’Atlantic, dovrebbe fondarsi su valori comuni, sulla partecipazione economica nella modernizzazione dell’India, sulla preoccupazione condivisa nei confronti della parabola ascendente cinese e, infine, sulla realizzazione che entrambi i paesi abbiano 44 • MSOI the Post

bisogno di lavorare in sinergia per rispondere a grandi sfide quali cambiamento climatico e terrorismo transnazionale. Durante la visita di Trump, al centro delle discussioni con Narendra Modi ci sono state le frizioni commerciali e la stipula di nuovi accordi per la fornitura di armi americane all’India. Su quest’ultimo fronte, Trump ha annunciato la firma di contratti per oltre tre miliardi di dollari. Prima di Trump, anche Obama si era impegnato in quella che aveva definito nel 2015 “a defining partnership for the 21st century”. Nel corso degli ultimi anni, la cooperazione militare è perlomeno aumentata, sulla scia di interessi sempre più convergenti. Quando Narendra Modi è stato eletto primo ministro nel 2014, ha abbracciato subito una politica di avvicinamento agli Stati Uniti, auspicando un ruolo crescente dell’India sullo scenario internazionale e

una modernizzazione interna per il paese, convinto che una partnership con la potenza statunitense avrebbe aiutato nel raggiungimento di entrambi gli obiettivi. Sotto Modi e Obama, le relazioni hanno ricevuto una spinta significativa. La cooperazione per la sicurezza è cresciuta, ma il commercio e gli investimenti non hanno seguito la stessa traiettoria. Inoltre, l’ascesa cinese ha continuato a creare tensioni nel rapporto. La cooperazione indo-pacifica, caratterizzata da un’unione di interessi per il contenimento del ‘dragone cinese’, avrebbe dovuto garantire un’alleanza fruttuosa soprattutto per l’India, leader delle economie emergenti negli ultimi anni. Con la nuova amministrazione Trump è continuato un dialogo, che ha allargato ulteriormente la partnership al campo della difesa e ha permesso di stipulare importanti accordi sull’energia e sul controterrorismo. Su questi temi, i due governi hanno finalizzato il Basic Exchange and


Sud e Sud Est Asiatico Cooperation Agreement for GeoSpatial Cooperation, un patto di difesa che si aggiungerà al Communications, Compatibility and Security Agreement del 2018. Dal momento che che un accordo commerciale non è arrivato, probabilmente la trattativa sarà congelata fino alle elezioni presidenziali di novembre e poi fino al 2021 con l’inaugurazione della nuova presidenza americana, nonostante le negoziazioni andassero avanti ormai da più di un anno. Ma anche la situazione politica indiana non è delle migliori. Dopo una rielezione abbastanza sofferta la scorsa primavera, Modi ha dovuto fronteggiare un rallentamento della crescita economica nel 2019 e, ora, anche violenti scontri avvenuti a Nuova Delhi, che lo studioso Ashutosh Varshney ha definito come “i più violenti scontri tra hindu e musulmani dal 1950”, anno di promulgazione della costituzione indiana. Tali scontri sono coincisi, peraltro, con la visita di Trump. Sono iniziati il 23 febbraio, subito prima dell’arrivo del tycoon, e hanno visto cittadini hindu attaccare una moschea, case e negozi

di appartenenza musulmana. Non è la prima volta che la violenza tra le due fazioni religiose sfocia nel paese: nel 2002 oltre 1000 persone furono uccise a Gujarat per la propria fede di appartenenza e, ancora prima, nel 1984 circa 3000 Sikh vennero assassinati a Nuova Delhi dopo l’uccisione della prima ministra Indira Gandhi. Le tensioni commerciali tra i due paesi si sono aggravate nel biennio scorso a causa del nazionalismo estremo che sia Modi, sia Trump hanno innestato nella politica economica dei rispettivi paesi. Per il presidente statunitense, il problema principale sembra essere proprio l’eccessivo protezionismo indiano, che ha portato a più riprese a un aumento dei dazi doganali per svariate merci di provenienza USA, tra cui mandorle, mele, noci ma anche prodotti chimici e farmaceutici. In totale, applicate a circa 28 prodotti, le tariffe doganali raggiungono al massimo il 70 per cento del valore del bene. I conflitti commerciali tra Stati Uniti e India sono cominciati quando Trump ha introdotto dazi su alluminio e acciaio, anche se l’India in seguito ha negoziato

un’esenzione sostanziosa. La tensione, però, si è inasprita proprio quando tale esenzione è stata cancellata, in seguito a un mancato accordo tra i due paesi sui regolamenti per le società di e-commerce. In ultimo, nel 2019 Trump ha ritirato gli Stati Uniti dal Generalized System of Preferences, un programma commerciale ideato per aiutare paesi in via di sviluppo a esportare i propri prodotti negli USA, che sanciva l’importazione di alcuni prodotti indiani senza tariffe doganali. Se gli obiettivi principali di India e Stati Uniti sono il contenimento della Cina e l’aumento della propria influenza nella regione asiatica, le azioni improntate al nazionalismo economico che sono state intraprese finora non sembrano poter dare risultati significativi. In mancanza di una nuova relazione commerciale e di un approccio più aperto al commercio internazionale, sono gli stessi due capi di stato a ‘mettersi i bastoni tra le ruote’ a vicenda sul piano tariffario. Ecco che, allora, la partnership tra India e Stati Uniti forse non è “stronger than ever before”, come Trump vorrebbe far credere in seguito all’incontro di febbraio.

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Diritto Internazionale ed Europeo Stato permanente di eccezione: la repressione di Al-Sisi in Egitto

Di Lucia Ida Travaglio In un Egitto sempre più chiuso e controllato, lo stato d’emergenza è ormai ininterrotto dal 2017 e fa parte dell’ordinario. In queste condizioni, il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo viene messo a repentaglio. Questo avviene in nome della protezione dell’intera nazione da gravi pericoli, come il fenomeno del terrorismo. Regolato a livello internazionale dall’art.4 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici, lo stato d’emergenza viene dichiarato dallo Stato “quando si riscontri un’emergenza pubblica che ponga a rischio la vita della nazione e la cui esistenza sia proclamata e ufficialment ”. Le misure emergenziali a cui gli Stati ricorrono implicano una modifica degli ordinamenti 46 • MSOI the Post

giuridici interni, con il potere concentrato nelle mani dell’esecutivo e il rischio di gravi violazioni dei diritti umani a causa dell’abuso di potere. “A causa delle pericolose condizioni in cui si trova il paese, lo stato d’emergenza sarà esteso per altri tre mesi, a partire dal 27 gennaio. Le forze armate e la polizia prenderanno tutte le misure necessarie per fronteggiare i pericoli rappresentati dal terrorismo, e per proteggere le proprietà pubbliche e private così come la vita dei cittadini”. Queste le parole con cui il presidente Abdel Fattah al-Sisi, all’inizio del 2020, ha deciso di rinnovare ancora una volta lo stato d’emergenza, dichiarando come le misure emergenziali sarebbero state applicate per affrontare una situazione di pericolo per l’intera nazione.

L’intercettazione e il monitoraggio di tutte le forme di comunicazione, la censura, l’imposizione del coprifuoco, le sparizioni forzate e la detenzione, sono tutti esempi delle misure che lo Stato ha preso e continua a prendere, a scapito dei diritti fondamentali di ogni individuo. In un recente rapporto di Amnesty International intitolato “Stato permanente di eccezione” vengono documentate continue violazioni dei diritti umani, principalmente nei confronti di attivisti, giornalisti e comuni cittadini. Questo contribuisce a dimostrare come nell’Egitto di alSisi non sembri possibile trovare uno spazio per l’opposizione o il dissenso, nè per alcun tipo di pensiero che non sia in linea con la narrativa del regime. In particolare, dallo scorso


Diritto Internazionale ed Europeo settembre, quando si sono svolte delle proteste antigovernative, è stato riscontrato un incremento dei controlli da parte delle forze di sicurezza, che continuamente invadono la privacy dei cittadini, sottoponendoli a perquisizioni forzate e detenzione di durata notevole, senza alcun mandato, con l’evidente scopo di reprimere ogni forma di dissenso. È all’interno di questa preoccupante situazione che si inserisce la vicenda di Patrick George Zaky, studente egiziano e attivista, arrestato al Cairo lo scorso 7 febbraio. Zaky era di ritorno dall’Italia, dove frequentava un master all’Università di Bologna. Le accuse a suo carico, formulate anche nei confronti di numerosi altri attivisti per i diritti umani, avvocati, difensori delle minoranze e giornalisti, sono quelle di fomentare il rovesciamento del governo, pubblicare notizie false sui social media, minando l’ordine pubblico e istigando al terrorismo. Pare difficile, quindi, negare che Patrick Zaky si trovi ad essere vittima di una “istituzionalizzazione del potere autoritario” da parte di un presidente che tenta di raggruppare nelle sue mani sempre più poteri extra costituzionali, come sostenuto in un’analisi video pubblicata

dall’Istituto per lo Studio della Politica Internazionale il 3 marzo. Questa istituzionalizzazione progressiva ha creato un clima di terrore, nel quale chiunque può rischiare l’arresto, la detenzione o la morte. Il controllo severo del regime sulla comunità accademica non solo ha annullato la vita intellettuale di molti, ma ha anche privato tanti giovani studenti della loro libertà. “Tra il 2013 e il 2016, più di 1100 studenti sono stati arrestati, 1000 espulsi o soggetti ad azioni disciplinari, 65 processati da tribunali militari e 21 uccisi”, secondo dati riportati dalla piattaforma Carnegie

Endowment. Le azioni portate avanti dal regime di al-Sisi mettono in luce come giovani studenti e ricercatori, come Zaky o Regeni, costituiscano una seria minaccia perché portatori di idee e valori che non sono compatibili con quelli del potere in carica. In quella che può essere detta una “paranoia del potere”, le azioni del presidente egiziano hanno peggiorato sempre di più la situazione dei diritti umani in Egitto, trasformando le leggi e il sistema giudiziario in strumenti repressivi per fermare chiunque rappresenti quel mondo legato alla libertà di ricerca, pensiero e parola.

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Diritto Internazionale ed Europeo L’Unione Europea cambia strategia nel Mediterraneo: termina ‘Sophia’

Di Marco Schiafone Il 31 marzo si concluderà la cosiddetta ‘Operazione Sophia’. EUNAVFOR MED (European Union Naval Force in the South Central Mediterranean), questa la sigla ufficiale della missione dell’Unione europea, venne ribattezzata ‘Sophia’ per il nome dato ad una bambina nata a bordo di una nave dell’operazione. Il suo obiettivo principale era il contrasto delle ireti di trafficant che sfruttano i flussi migratori. Inoltre, si proponeva in questo modo di fermare l’ondata migratoria nel Mar Mediterraneo. ‘Sophia’ dovrebbe essere sostituita da una nuova operazione europea, ‘Irene’, il cui compito sarà quello di controllare il rispetto dell’embargo sulle armi verso Libia. Quest’ultimo viene violato in maniera sistematica in conseguenza del fatto che la guerra nel territorio libico è 48 • MSOI the Post

diventata uno scenario con una pluralità di attori. L’ Operazione ‘Sophia’ è nata in risposta alla situazione di crisi che si è venuta a creare nel Mediterraneo, dovuta anche alla guerra civile libica. Quest’ultima ha favorito, tra le altre cose, il flusso migratorio che attraverso la Libia arriva nel continente europeo. In questo percorso, le rotte dei migranti sono gestite dai cosiddetti smugglers, che trasferiscono persone da un paese all’altro con l’intento di sfruttarle. Essi sis distinguono dai trafficker , anch’essi alla fonte di questo traffico, che procurano dietro pagamento l’accesso illegale di un migrante in uno stato. Questi due termini sono tradotti con il generale ‘trafficanti di esseri umani’: attraverso l’utilizzo di imbarcazioni fatiscenti cariche di migranti organizzano le traversate del Mediterraneo che spesso provocano terribili naufragi.

L’evento però che ha spinto alla creazione di questa missione è stato, sicuramente, il naufragio del 18 aprile 2015. Quel giorno, un’imbarcazione naufragò al largo delle coste della Libia, provocando la morte di circa 800 migranti. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati qualificò il fatto come la più grande perdita di vite umane in viaggio verso l’Europa. Da quel momento, l’Unione europea, su proposta dell’allora Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Federica Mogherini, decise di rispondere in maniera concreta al verificarsi di queste situazioni combattendo la rete di criminalità che si era venuta a formare, salvando vite umane ed evitando tragedie come questa. Dopo aver definito il quadro generale dell’operazione di gestione militare della crisi nel maggio 2015, il 22 giugno 2015 il Consiglio Affari Esteri dell’Unione Europea ha avviato


Diritto Internazionale ed Europeo ufficialmente la missione. A questa hanno partecipato la portaerei italiana Cavour, la nave inglese Enterprise e le unità tedesche Werra e SchleswigHolstein. La struttura della missione però è stata più complessa e si è sviluppata in 4 fasi. La prima, ormai completata da tempo, si basava sull’addestramento delle forze dispiegate nell’operazione con il fine di rendere loro comprensibili i metodi e le attività di traffico e tratta ad opera degli attori sulla costa della Libia. La seconda fase, invece, prevedeva la ricerca, il sequestro e la neutralizzazione delle navi da contrabbando in alto mare alle condizioni previste dal diritto internazionale del mare, con il consenso dello stato costiero ad operare nelle sue acque territoriali e in accordo con le risoluzioni 2146 (2014) e 2362 (2017) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La terza era rappresentata dall’adozione di misure operative contro le navi e i relativi beni sospettati di essere utilizzati per il traffico o la tratta di esseri umani all’interno del territorio degli stati costieri, ancora una volta dietro consenso di questi ultimi e in accordo con le risoluzioni sopra citate. La quarta, e ultima, fase consiste nel ritiro delle forze e nella conclusione dell’operazione. L’operazione EUNAVFOR MED ‘Sophia’ ha subito due importanti

proroghe. La prima è stata adottata il 20 giugno 2016 e ha esteso la missione fino al 27 luglio 2017. Essa prevedeva inoltre la necessità di inserire due attività di supporto all’operazione principale: l’addestramento della Guardia Costiera e della Marina libiche da parte delle forze impiegate nell’Operazione e il contributo al controllo sull’embargo delle armi. Quest’ultimo è diventato il tema principale della missione che ha sostituito ‘Sophia’ e che comincerà a fine marzo. La seconda proroga è stata adottata il 25 luglio 2017 e ha prolungato i termini fino al 31 dicembre 2018. Prevedeva l’istituzione di un controllo a lungo termine dell’efficienza dell’addestramento delle unità libiche, la raccolta d’informazioni sul traffico illecito di petrolio che avviene in Libia e la realizzazione di una collaborazione con Frontex ed Europol in merito allo scambio d’informazioni sulla tratta e il traffico di esseri umani. La missione è stata prorogata più volte da parte dell’Unione Europea con decisioni che riprendevano i contenuti espressi nelle disposizioni precedenti, fino ad arrivare alla data del 31 marzo, giorno in cui l’Operazione cesserà. In contemporanea, dovrebbe essere lanciata la nuova ‘Operazione Irene’, già prevista dall’UE, che si pone in

continuità con ‘Sophia’. Questa concentrerà i suoi sforzi non solo in termini navali, ma anche attraverso l’utilizzo di aerei, droni e satelliti, così come ha lasciato intendere l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e Politica di Sicurezza Josep Borrell, dal momento che “i traffici si fanno soprattutto nei deserti”. Sotto il profilo militare, la nuova operazione, così com’è stata anche EUNAVFOR MED ‘Sophia’, è stata strutturata come una collaborazione tra paesi europei che tornano a presidiare il Mediterraneo centro-orientale. Tuttavia, lo stesso Borrell si è espresso nella videoconferenza dei Ministri degli Affari Esteri del 23 marzo dichiarando che non tutti gli aspetti dell’operazione sono stati ancora accordati: “Alcune preoccupazioni sono state superate. Tuttavia, ci sono ancora dubbi su che cosa fare nel caso in cui sia necessario salvare i migranti in mare e nella conseguente distribuzione di questi tra gli Stati Membri. Spero però che ciò si possa risolvere nei prossimi giorni”. La nuova operazione dovrebbe essere anche un’occasione per provare a concretizzare il confronto sulla Libia durante la Conferenza di Berlino tenutasi il 19 gennaio 2020, il cui obiettivo era quello di avviare un processo di pace nel paese.

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