MSOI thePost Numero 134

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Aprile 2019


A p r i l e

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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Cecilia Nota, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattori Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Pilar d’Alò, Luca Imperatore, Pauline Rosa Capi Servizio Rebecca Barresi, Luca Bolzanin, Pierre Clement Mingozzi, Sarah Sabina Montaldo, Daniele Pennavaria, Leonardo Scanavino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Chiara Zaghi Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci Redattori Erica Ambroggio, Elena Amici, Daniele Baldo, Lorenzo, Lorenzo Bazzano, Andrea Bertazzoni, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Adna Camdzic, Matteo Candelari, Claudia Cantone, Elena Carente, Emanuele Chieppa, Giuliana Cristauro, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Francesca Maria De Matteis, Luca De Santis, Ilaria Di Donato, Sofia Ercolessi, Simone Esposito, Guglielmo Fasana, Giulia Ficuciello, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Ann-Marlen Hoolt, Luca Imperatore, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Giulia Marzinotto, Simone Massarenti, Pierre Clement Mingozzi, Efrem Moiso, Chiara Montano, Sveva Morgigni, Virginia Orsili, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Barbara Polin, Sara Ponza, Jessica Prieto, Carolina Quaranta, Giacomo Robasto, Daniele Reano, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Martina Santi, Federico Sarri, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Francesca Schellino, Federica Sanna, Stella Spatafora, Lola Ferrand Stanley, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Leonardo Veneziani, Chiara Zaghi, Francesca Maria De Matteis, Elisa Zamuner. Editing Lorenzo Aprà, Amandine Delclos Copertine Amandine Delclos, Carolina Elisabetta Zunigà Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


ISTITUZIONI, SOCIETÀ CIVILE E IL MOVIMENTO CONTRO IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Di Rebecca Carbone, Alessandro Fornaroli, Lara Kopp-Isaia, Simone Massarenti “Appena 50 anni fa l’uomo è atterrato sulla Luna e da allora la popolazione mondiale è più che raddoppiata. Nell’arco di una vita umana, il paradiso terracqueo è profondamente cambiato; le specie in natura sono diminuite di circa il 60% e per la prima volta nella storia dell’umanità, la stabilità della natura non è una cosa scontata” (Il Nostro Pianeta). Qualche sull’Antropocene

riflessione

È opinione condivisa tra la comunità scientifica che la biodiversità planetaria, che ci ha accompagnato durante il nostro percorso evolutivo, stia diminuendo a velocità esponenziale per ragioni antropogeniche. L’influenza dell’uomo sull’ambiente è stata riassunta dal premio Nobel Paul Crutzen in un termine particolare, che mira a indicare

l’epoca geologica attuale, profondamente influenzata dalla presenza di CO2 (anidride carbonica) e CH4 (metano): Antropocene.

che le variazioni climatiche che si presentano ciclicamente, siano scollegate da questo fenomeno e imputabili unicamente al mutare delle macchie solari.

Il cambiamento climatico si manifesta, così, quale il problema principe della nostra epoca, poiché, con le parole degli scienziati politici Marcello Di Paola e Gianfranco Pellegrino, “l’intelaiatura ecologica del pianeta è in larga misura una funzione del suo clima”. Allo stesso tempo, come ha fatto notare la giovane Greta Thunberg, “La crisi climatica è sia la crisi più semplice, sia la più difficile che ci troviamo ad affrontare. La più semplice perché sappiamo che cosa dobbiamo fare, dobbiamo mettere fine all’emissione di gas serra. La più difficile perché la situazione economica attuale dipende ancora dall’utilizzo dei combustibili fossili, che danneggiano il nostro ecosistema”. Non manca, tuttavia, chi, come il fisico premio Nobel, Carlo Rubbia, o l’ex capo dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente degli Stati Uniti, Scott Pruitt, ritiene

L’essere umano, non essendo avulso e indipendente dalla biogeocenosi in cui vive, subirà gli effetti a cascata che deriveranno dal riscaldamento globale, i quali colpiranno in primo luogo le società meno attrezzate ad affrontarli. In altre parole, i paesi meno attrezzati e tecnologicamente avanzati saranno quelli che pagheranno il prezzo più alto. L’effetto ‘darwiniano’, per così dire, non regge allo scrutinio dell’etica se si considera la problematicità che si affronta nel risalire la scala eziologica, al fine di trovarne i responsabili. La partecipazione a questo fenomeno, infatti, è condivisa e trasversale sia nello spazio, tra individui, aziende o nazioni, sia nel tempo, a livello intergenerazionale. Il presente non è, in tal senso, che il risultato cumulativo delle sofferenze subite dal pianeta negli anni, andando a costituire “il più vasto problema di azione collettiva che l’umanità abbia

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mai dovuto affrontare” (Gnosis). Marcello di Paola, insieme all’esperto di etica ambientale Dale Jamieson, ha proposto un’elaborata analisi del problema. In primo luogo, l’aumento della temperatura terrestre, si pone in maniera sempre più incalzante come forte limite per il liberalismo politico nei suoi due aspetti principali di responsabilità individuale e democrazia. Quanto al profilo della responsabilità, l’interconnessione statuale e la dinamicità industriale, che caratterizzano una società sempre più globalizzata, rendono complicato attribuire obblighi. L’aporia è un riflesso della complessità dei meccanismi causali coinvolti: nessuno incide in maniera significativa sul cambiamento climatico, contribuendo soltanto in parte alla sua evoluzione. In questo modo, è facile finire per perdersi nell’illusione di un gioco a somma zero, in cui nessuno danneggia direttamente nessun altro. Sul versante della democrazia, invece, i singoli attori si trovano nell’infelice posizione di dover scegliere tra il perseguire la dottrina utilitaristica fondata sulle conseguenze favorevoli a tutela della collettività, oppure se agire quel tanto che basta a non perdere il consenso del proprio elettorato. Purtroppo, i due elementi sono inversamente proporzionali: all’aumentare del primo, diminuisce il secondo e viceversa. Quando lo stato si attiva per risolvere problemi che minacciano, anche se non direttamente, la sicurezza fisica e sociale dei cittadini, solitamente si registra un abbassamento del livello dei consensi. Gli studiosi fanno notare che anche le manovre potenzialmente migliori, d’altro canto, possono richiedere 4 • MSOI the Post

sacrifici non sempre accettabili o in linea con le preferenze degli elettori. Nei periodi di transizione come questo, le manovre di conversione industriale, come fu per il Green New Deal americano, necessitano di un forte sussidio statale o comunitario per essere applicate. Senza un diritto premiale a favore delle imprese che incentivi l’aggiornamento ecosostenibile, tuttavia, il vincolo sull’iniziativa privata potrebbe essere recepito con avversione. Un’ulteriore difficoltà discende dal fatto che il perseguimento di benefici ambientali dipende spesso da iniziative di lungo respiro, che potrebbero non essere apprezzate nell’immediato. Un esempio in tal senso potrebbe essere, in un’ottica di contenimento del particolato sospeso (le cosiddette “polveri sottili”), la chiusura di un impianto a carbone: il licenziamento o la riqualificazione dei dipendenti potrebbe condurre a scioperi o proteste del personale. Per risolvere l’impasse, secondo Di Paola e Jamieson, gli stati e gli enti sovranazionali dovrebbero attenersi a politiche comuni, di derivazione comunitaria o frutto di trattati internazionali. Solo attraverso una cooperazione in tal senso si potrà superare la concezione territoriale statocentrica per operare in termini più ampi, producendo tutele dei diritti umani di tipo collettivo di terza generazione, ormai noti come ‘diritti di solidarietà’. La sfida, dunque, in questo contesto di erosione democratica, consiste proprio nell’esercitare democraticamente un’azione in grado di realizzare interessi puntuali, attraverso politiche atte ad affrontare le complessità poste dall’Antropocene.

Le migrazioni climatiche non devono essere sottovalutate Alcune delle declinazioni particolari di queste problematiche difficilmente inquadrabili negli schemi tradizionali vengono poi spesso sottovalutate, anche a dispetto della portata globale degli stessi. Tra questi, probabilmente uno dei più insidiosi riguarda le migrazioni climatico-ambientali: milioni di persone sono costrette a lasciare la propria terra a seguito di disastri ambientali, desertificazione e mancanza di risorse. Si tratta di un fenomeno destinato a crescere in maniera esponenziale, che condurrà a un cambiamento delle carte geografiche e alla necessità di nuovi strumenti giuridici, dal momento che i migranti climatici non rientrano automaticamente tra le categorie cui è riconosciuta protezione internazionale. In quest’ottica, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM) ha tentato di offrire una definizione del termine ‘migrante ambientale’, intendendo “coloro che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case temporaneamente o permanentemente”. La speranza è che questo possa essere un primo passo per l’estensione della formula nella Convenzione di Ginevra del 1951 e, quindi, per l’ampliamento delle condizioni fondanti lo status di rifugiato. Uno sviluppo che, tuttavia, potrebbe tardare ad arrivare. Abbiamo già menzionato come la quantità di anidride carbonica e di gas serra emessi dalle attività umane nell’ultimo secolo stia causando un aumento delle temperature e creando gravi effetti collaterali: i disastri climatici sono più frequenti e


intensi, la superficie colpita dalla desertificazione diventa sempre più ampia, le ondate di calore, siccità e le piogge si sono moltiplicate. Questo scenario si traduce nella diminuzione di terre fertili e nell’accesso sempre più difficile all’acqua potabile. Così il clima spinge verso la migrazione. Sono le aree dell’emisfero Nord del mondo (Europa, Stati Uniti, Cina) a emettere la maggior quantità di anidride carbonica e di gas serra, ma sono quelle dell’emisfero Sud (Africa, America Latina, Oceania) a pagarne più pesantemente le conseguenze. Citando le parole di Kofi Annan, ex Segretario Generale ONU, “i paesi più vulnerabili hanno meno capacità di proteggersi. Sono quelli che meno contribuiscono alle emissioni globali di gas serra. In assenza di provvedimenti, saranno loro a pagare un alto prezzo per le azioni altrui”. Il New York Times ha individuato diverse zone in cui i cambiamenti climatici hanno messo in moto fenomeni migratori di massa. La guerra civile siriana, scoppiata nel 2011, ha generato oltre 12 milioni di profughi. Tra le molteplici cause scatenanti il conflitto, figurano anche quelle di tipo climatico-ambientale: per quattro anni consecutivi la Siria ha assistito alla peggiore

siccità mai registrata. Inoltre, il crollo dell’economia, a fine 2012, ha indotto 1,5 milioni di persone a spostarsi dalle zone rurali sunnite, verso la costa, dominata dalla minoranza alawita, sostenitrice di Assad, generando ulteriori tensioni. Allo stesso modo, quasi il 50% del continente africano è soggetto a desertificazione causata dall’intervento umano. Una delle aree più colpite è quella del Lago Ciad: questo, dagli anni Sessanta, si è ridotto di oltre il 90% della superficie originaria, obbligando 3,5 milioni di persone a migrare. Ancora, in Somalia oltre un milione di persone è in fuga dalla siccità; secondo il report dell’ONU si tratterebbe della più grave crisi umanitaria dalla Seconda Guerra Mondiale. Il Bangladesh è uno dei paesi più esposti ai rischi climatici: ogni anno oltre 500.000 persone si spostano a causa dei frequenti uragani. Le Isole Carteret, parte dell’arcipelago della Papua Nuova Guinea, sono state inghiottite dall’innalzamento del livello del mare: si tratta del primo sito al mondo in cui tutti gli abitanti hanno dovuto migrare altrove a causa del cambiamento climatico. Nel 2016, si sono registrati 24,2 milioni di migranti climatici e questo numero è destinato

ad aumentare. Sempre stando all’IOM, entro il 2050, i migranti climatici supereranno i 200 milioni. Inoltre, secondo quanto è emerso dalla prima conferenza internazionale sul fenomeno delle migrazioni causate dai cambiamenti climatici, il fenomeno dei profughi climatico-ambientali è d’intensità superiore a quello dei profughi di guerra. Contrastare il riscaldamento globale diviene quindi una questione fondamentale, non solo per la conservazione degli ecosistemi, ma anche per la tutela dei diritti umani. Amnesty International ha denunciato alcune misure intraprese per alleggerire gli impatti delle emissioni, che avrebbero però condotto a violazioni di diritti umani: in Kenya, il popolo dei Sengwer è stato privato della propria terra a causa di un progetto governativo per la riduzione della deforestazione di Embobut. Secondo l’organizzazione, “questi progetti dovrebbero essere sottoposti a una valutazione dell’impatto sui diritti umani prima di essere messi in atto”. Ci troviamo dinanzi a un cambiamento storico, sia sul piano sociale-antropologico, sia su quello geopolitico. Secondo l’Università delle Nazioni Unite,

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è necessario approcciarsi alle migrazioni climatiche non come singole crisi, bensì come un fenomeno globale da governare con impegno concreto e congiunto. Se le temperature medie si alzeranno di ’soli’ 2°C, infatti, allo stesso modo aumenteranno persone esposte ai summenzionati pericoli, le quali potrebbero raggiungere la soglia di 10 milioni di individui. La voce di Greta Thunberg In seno alla società civile è nato un altro appello contro il cambiamento climatico, del quale si è fatta portatrice una sedicenne studentessa di Stoccolma: Greta Thunberg. Con un semplice cartellone su cui campeggia la scritta “Skolstrejk för klimatet” (“Sciopero scolastico per il clima”), la ragazza svedese si è guadagnata un posto al centro del mondo dell’attivismo climatico. Ha incontrato figure istituzionali di spicco, tra cui il Papa, e ha trasmesso il suo messaggio a una varietà di platee differenti: dalla TEDx di Stoccolma, alla COP24 di Katowice, al World Economic Forum di Davos. Il movimento Fridays for future, che Thunberg porta avanti ogni venerdì da ormai un anno, ha guadagnato sempre più seguaci. Il 15 marzo scorso, infatti, il suo esempio è stato d’ispirazione per i milioni di studenti riunitisi nelle piazze di tutto il mondo per protestare contro lo sfruttamento senza freni delle risorse del pianeta. L’enfant terrible di Stoccolma continua a pronunciare il suo monito con fermezza. Durante la COP24, ha condannato l’inerzia delle istituzioni, sottolineando come la politica sia più preoccupata della propria popolarità che del futuro del pianeta e della civiltà, promettendo una “eterna 6 • MSOI the Post

crescita economica verde” per nascondere la realtà e permettere a pochi di vivere nel lusso. Greta Thunberg, in altre parole, obietta fortemente all’operato dei membri del G8, che, a partire dalla deludente esperienza della Conferenza di Parigi del 2015, non sono ancora riusciti a dimostrare un’effettiva capacità di fare fronte comune contro la minaccia di uno stravolgimento ecologico. In quell’occasione, per esempio, è emerso che la Svezia, terra d’origine della giovane attivista, rientrava tra i paesi fortemente in ritardo nel raggiungimento dei Sustainable Development Goals, perno della politica delle Nazioni Unite per la lotta al cambiamento climatico. La narrazione di Greta mette a confronto due grandi blocchi ideologici: da un lato, i sostenitori del pianeta, composti in primis dagli studenti scesi in piazza e dalle 155 rappresentanze locali di Fridays for future; dall’altro, i fermi promotori dell’economia industriale light, basata su modelli di sviluppo ecosostenibile. Questa ‘battaglia ideologica’ percorre in lungo e in largo la superficie terrestre, causando un muro contro muro che non giova al prosieguo delle trattative ancora ad oggi in fase di definizione. La guerra ‘dal’ cambiamento climatico I problemi relativi al surriscaldamento globale, allo scioglimento dei ghiacciai, alla desertificazione, alle alluvioni e a tutti i fenomeni ambientali già presenti per natura, aumentati in frequenza e intensità a causa dell’agire dell’uomo, non riguardano solo la vivibilità circoscritta al microsistema in cui viviamo. Per microsistema si intende l’ambiente a noi direttamente circostante e

funzionale, nel quale interagiamo nella vita di tutti i giorni; in questo senso, all’interno degli stessi microsistemi, i fattori che incrementano il rischio di conflitti vengono rinforzati dal cambiamento climatico. Nonostante un collegamento diretto tra lo scoppio dei conflitti tra i microsistemi e le disfunzioni del clima non possa essere rilevato, è indubbio che le lotte intestine attorno alle risorse naturali siano esacerbate - e talvolta addirittura scaturite dagli effetti del cambiamento climatico, in particolare nelle regioni più dipendenti dal settore primario, come la fascia subsahariana dell’Africa o il Sud-Est asiatico. Esempi che rendono possibile osservare con limpidezza la relazione subordinata tra il sovraffaticamento della biodiversità primaria e la capacità di uno stato di governarsi riguardano proprio i conflitti nell’Africa dell’Est e, in particolar modo, in Sudan. La terra è la più importante fonte di potere e ricchezza in tali regioni, dal momento che chi la possiede controlla la produzione agricola, l’allevamento e l’estrazione di risorse sotterranee quali petrolio o acqua. L’instabilità causata dai ciclici periodi di siccità, dallo spostamento delle isoiete sempre più a sud e dal problema cronico della desertificazione, ha generato un meccanismo di autodifesa a livello sociale: scatenare conflitti è l’unica soluzione per far fronte all’inefficienza governativa nel gestire le situazioni di emergenza climatica. Non solo la risorsa naturale è oggetto di contesa delle tribù pastorali guerrigliere o dei villaggi agglomerati in paesi quali la Somalia o il Sudan, ma diviene anche lo strumento intermedio di lotta, tale per cui, ad esempio, per ottenere un qualsiasi diritto alienato si ricorre alla presa in ostaggio delle sorgenti d’acqua,


distribuendo mine terrestri per rendere inaccessibile l’area. Secondo un’analisi condotta dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), sono cinque le spiegazioni di come i cambiamenti relativi al clima possano condurre a conflitti armati: deterioramento del sostentamento, incremento delle migrazioni, modifica dei percorsi di mobilità dei pastori, induzione all’utilizzo di considerazioni tattiche nei gruppi organizzati e strumentalizzazione da parte dell’élite delle rivendicazioni delle comunità locali. Negli ultimi due casi, un epicentro già entropico viene sfruttato nella sua fragilità da due gruppi che, coattivamente o economicamente, detengono un potere tale da poter sfruttare i bisogni di popolazioni, per esempio del Sudan o del Sud Sudan, come pedine per nascondere i propri interessi, mobilitando le etnie una contro l’altra. Nel gennaio del 2018, lo stesso presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Kairat Umarov, ha riconosciuto gli effetti del cambiamento climatico ed ecologico tra i fattori di instabilità dell’Africa dell’Est e della regione del Sahel. D’altro canto, però, molti studi, tra cui quello dell’University College di Londra, screditano l’idea per cui i cambiamenti climatici siano un fattore concreto di

causa dei conflitti, ritenendo maggiormente rilevanti i fattori sociopolitici. La tesi più accreditata è quella intermedia espressa dal capo della Sezione Pace e Sicurezza dell’Istituto Universitario della Sostenibilità e della Pace delle Nazioni Unite, Vesselin Popovski. Egli ha sostenuto che: “Non c’è dubbio che l’impoverimento e l’insicurezza umanitaria possa originarsi come risultato del cambiamento climatico, se misure preventive non vengono prese. Comunque, manca l’evidenza che il riscaldamento globale direttamente incrementi i conflitti.” A prescindere dall’entità con cui il cambiamento climatico agisce sulla nascita dei conflitti, tutti gli studi summenzionati concordano sul fatto che il collegamento, anche se indiretto, esista. Per questo motivo, si rendono necessarie misure cautelari in quelle regioni che, come il Sud-Est asiatico, sono già fragilmente esposte agli effetti inevitabili della ribellione naturale. Nella maggior parte dei casi, si tratta delle stesse aree fortemente dipendenti dall’agricoltura e dalla pesca. Tra le varie soluzioni riscontrate, quelle di efficacia maggiore sembrerebbero consistere, da un lato, nell’assistenza allo sviluppo di risorse di sussistenza ulteriori e di diversa matrice e, dall’altro,

nell’incremento delle capacità di reazione delle comunità alle perdite temporanee di introiti, attraverso la previsione di assicurazioni a beneficio del reddito annuo, una riforma dei diritti della terra, programmi specializzati in caso di siccità e assistenza agricola. Un maggiore rispetto per la Terra ed un diffuso impegno cognitivo e pedagogico per affrontare tematiche legate al territorio, quindi, non ripristineranno solo un sistema ambientale sano e stabile, ma potrebbero addirittura condurre a un mondo più pacifico. Una risposta adeguata a un problema complesso Come il titolo di questo articolo suggerisce, tanto le istituzioni quanto la società civile in tutte le sue forme, sono chiamate ad affrontare le difficoltà generate dal cambiamento climatico. Congiuntamente e separatamente, con l’azione e con il pensiero, sono già state molte le reazioni tese a contrastarne gli effetti, ma solo la punta dell’iceberg è stata scalfita. Resta da vedere se la somma delle forze esercitate dal genere umano sul pianeta condurrà lo stesso verso un futuro più sostenibile, consumando la parte sommersa dei lasciti di decadi di sfruttamento.

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Europa Occidentale L’EUROPA STA ONORANDO GLI IMPEGNI DI PARIGI SUL CLIMA?

Di Federica Cannata A tre anni dagli accordi raggiunti nella XXI Conferenza sul clima di Parigi del dicembre 2015, dei 195 Stati che vi hanno preso parte, nessuno sembra aver adottato politiche energetiche idonee a tenere fede all’impegno principale preso allora: contenere il riscaldamento globale entro i 2 ℃ rispetto al livello preindustriale. La disattenzione verso i cambiamenti climatici è probabilmente da ricondurre, da una parte, allo scetticismo politico verso l’incidenza negativa dell’impronta umana sull’ambiente e alla conseguente preferenza verso la tesi che fa discendere questo fenomeno da eventi naturali (come è stato sostenuto dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin al forum di ricercatori ambientali di Arkhangelsk del 2017). Dall’altra, ad una visione politica che ignora gli effetti dannosi del global warming sull’economia, sulla salute e sulla sicurezza nazionale (riflessa in alcune delle scelte 8 • MSOI the Post

del presidente degli Stati Uniti Donald Trump; tra tutte, quella di non dare esecuzione all’accordo di Parigi e avviare, parallelamente, le procedure per l’uscita dallo stesso, per rinegoziarlo a condizioni più favorevoli all’economia statunitense). L’Unione europea, invece, è parsa più propensa di altri a sostenere l’idea che il riscaldamento del pianeta sia causato dall’opera umana. Per questa ragione, il Consiglio europeo ha predisposto, già nel 2014, un ambizioso piano di ripensamento della politica climatico-energetica con obiettivi da raggiungere entro il 2030, consistenti in particolare nella riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 40% rispetto ai livelli del 1990 (dell’80-85% entro il 2050), nell’aumento del consumo di energia proveniente da fonti rinnovabili fino al 27%, nel miglioramento dell’efficienza energetica almeno sino alla soglia del 30% e nello sviluppo dell’interconnessione elettrica pari ad almeno il 15%.

In quanto parte dell’accordo di Parigi sul clima, l’UE è conteggiata nella classifica del Climate Change Performance Index 2019 (CCPI), un’analisi pubblicata da CAN International, Germanwatch e New Climate Institute; tuttavia, l’Unione non riesce a piazzarsi nei primi posti, anche perchè questi rimangono vacanti: secondo questa analisi, infatti, non c’è Stato le cui performance siano idonee a contenere il riscaldamento globale entro i 2℃. In base a tale classifica, il Paese UE più virtuoso è la Svezia, che ottiene più della metà della propria energia da fonti rinnovabili e punta ad eliminare l’uso del carbone entro il 2045. La nazione meno virtuosa tra i Paesi UE, invece, sembrerebbe essere l’Irlanda. Tuttavia, anch’essa si appresta ad essere un Paese sempre più “green”: ad esempio, con il cosiddetto Fossil Fuel Divestment Bill, varato l’anno scorso, si è stabilito che il fondo statale irlandese “Ireland Strategic Investment Fund” (che ha l’unico


Europa Occidentale

mandato di indirizzare i propri investimenti per supportare l’attività economica e il livello di occupazione irlandese) dirigerà i propri 8 miliardi di euro non più verso compagnie petrolifere o altri combustibili fossili, bensì verso le aziende che operano nel settore delle fonti rinnovabili. Meglio dell’Irlanda è la Germania, nella quale è in corso una notevole rivoluzione energetica, la cosiddetta Energiewende. Il governo tedesco, infatti, ha deciso che entro il 2022 dovranno essere disattivati tutti i reattori nucleari. Ha stanziato, inoltre, una spesa di 55 miliardi per il rimodellamento del mix energetico: la Germania prevede che, entro il 2050, l’80% di tutta l’energia prodotta nel Paese

deriverà da fonti rinnovabili. Con un risultato che potrebbe apparire sorprendente, l’Italia è addirittura più “green” della Germania. La penisola, infatti, presenta buone prestazioni sotto la maggior parte degli aspetti presi in considerazione dall’analisi CCPI, sebbene negli ultimi anni sembri essersi impegnata meno dei tedeschi nella riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e nello sviluppo di fonti rinnovabili. Ciò che incide maggiormente sulla sua posizione è lo scarso impegno nel raggiungimento degli obiettivi del suo piano strategico nazione decennale (SEN 2017) – adottato dal MISE e dal Ministero dell’Ambiente e della tutela del Territorio e del Mare –, che prevede un investimento da 175 miliardi di euro complessivi in energie rinnovabili, nell’ammodernamento delle reti e delle infrastrutture e nell’efficienza energetica. La situazione si aggrava, inoltre, si si considera l’assenza di un piano che le consenta di “uscire” dal carbone entro il 2025.

“scientifico” più o meno sincero, i governanti che frenano il cambiamento di rotta sul trattamento del fenomeno climatico abbiano dei timori per quanto riguarda le conseguenze di questo cambiamento sul piano economico: nel breve termine, la conversione energetica potrebbe implicare la perdita di posti di lavoro, alcune aziende (specialmente quelle legate al settore energetico tradizionale) potrebbero perdere profitti e le previsioni di spesa statale cambiare. Al di là della necessità di gestire il cambiamento senza causare un malessere economico diffuso, tuttavia, si auspica che non venga dimenticato un principio di giustizia riconosciuto giuridicamente per la prima volta già negli anni ‘90, quando un’opera di disboscamento prevista dal governo filippino venne fermata dall’avvocato Antonio Oposa: il diritto umano alla pari opportunità intergenerazionale di vivere sul pianeta Terra.

È possibile immaginare che, al di là di uno scetticismo MSOI the Post • 9


Europa Occidentale CLIMATE CHANGE AND EU SECURITY: AN INNOVATIVE APPROACH

By Francesco Pettinari Throughout the last decades, the threats that climate change poses to the future of our planet gained the forefront in international debates. The European Union aspires to become the most prominent actor in the global fight against them and, as stated in the Global Strategy introduced by the Union in 2016, Brussels aims to “lead by example by implementing its commitments on sustainable development and climate actions”.

and trade system’, the EU ETS fixes a maximum level of emissions that can be accepted EU-wide (the cap) and forces companies to respect that through the acquisition of “emission allowances” that can be traded according to the needs of the single companies. Every year, each company must have enough allowances to cover its yearly emissions in order to avoid severe penalties and fines. Moreover, the EU is reducing the cap every year in order to make sure that the total emission will decrease.

This desire of the Union finds its practical transposition in strict internal regulations such as, for instance, the 2030 Climate and Energy Framework approved by the Council of the European Union in 2014. In this document, the EU declared its will to reach a “Sustainable Europe” by 2030, an objective achievable through the setting of ambitious goals like cutting greenhouse gas emissions by 40% by 2030 (in comparison with 1990 level), which became a binding threshold through the introduction of the EU Emission Trading System (EU ETS). Working on a ‘cap

In addition to the adoption of internal regulations, the EU has addressed the impact of climate change in an innovative way placing more and more attention on the nexus climate change-security. Over time, this topic has increasingly gained relevance, and it is now considered as one of the essential guidelines for the EU’s external action. The acknowledgment of climate change as a potential factor of insecurity has a relatively long tradition within the EU since the first document addressing this issue was introduced by the Council of the European

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Union in 2008. According to this pioneering paper - titled Climate Change and International Security - the climate-related dangers have a double nature and can, therefore, be divided into two categories: direct and indirect. The expression ‘direct risks’ is used to indicate threats which are immediately recognisable and whose existence can clearly be proven by available data. Among them, the increasing average temperatures and sea levels worldwide and the consistent growth in the frequency of extreme weather conditions such as hurricanes, floods, and droughts, as well as the damage caused by these phenomena. Europe is not likely to be one of the geographic areas which will suffer the most from these immediate risks, and yet, the 2008 document listed climate change among the most relevant threats to European security, comparable to terrorism, the proliferation of weapons of mass destruction and cyber-attacks. The reasons behind the inclusion of climate change in this list lay in what the EU has defined as the


Europa Occidentale ‘indirect effects’ of climate change. Indeed, starting from 2008, the EU acknowledged that such effects could act as a “threat multiplier which exacerbates existing trends, tensions, and instability” in already fragile States and regions. This, in turn, can create “political and security risks that directly affect European interests”. The most prominent climate-originated causes of instability that can affect EU’s security have been indicated as an increase in conflicts over resources in the Union’s southern and eastern neighbouring areas, growing flows of migrants from these regions and increasing energy insecurity. Despite this recognition, Brussels failed to address climate change as a security issue in a comprehensive way for almost a decade, according to a senior analyst from the European Union Institute for Security Studies. Things started to change in 2016 when the Union presented its new Global Strategy. In the Strategy, the EU affirmsitsintentiontoreduceclimaterelated threats by supporting third countries in what concerns “energy liberalisation, development of renewables, […] alongside climate change mitigation and adaptation” policies. The support offered by the EU has both a financial and technical nature since the Union will help countries in need with funds, technical expertise, and guidelines. The final aim of these actions is to build resilience in fragile States which are particularly exposed to the impacts of climate change. Within the 2016 Global Strategy, the building of resilience is addressed as the “top strategic priority in

the neighbourhood” and it is considered as the most powerful means to lessen instability while consequently reducing the outbreak of events that could undermine European security. What became evident over time is that Brussels aims at creating the prerequisites for “sustainable security and peace”, meaning that instability factors potentially originating from climate change are – and will continue to be – addressed before they present themselves as direct threats to European security. ‘Sustainable security’ is believed to be achievable through adequate policies and investments both at home and abroad. Indeed, as stated by High Representative and Commission Vice-President Federica Mogherini at the 2019 Munich Security Conference, “investments in humanitarian aid, sustainable development, climate actions […] are investments in security and peace in the world of today”, and they “might sometimes be more useful than having a tank in the battlefield”. The will to invest in neighbouring countries to help them in enhancing their resilience has been exemplified by the EU4Climate initiative launched by the Council of the European Union in 2018 under the Austrian Presidency as part of the European Neighbourhood Policy. Through this structured initiative, the EU aims to “support the implementation of the [2015] Paris Climate Agreement and improve climate policies and legislation” in countries located on its Eastern border. Eight million euros were provided. Also, the Union has pledged its commitment in providing the countries

that take part in the initiative (namely Armenia, Azerbaijan, Belarus, Georgia, Republic of Moldova and Ukraine) with “targeted practical assistance to support the drafting [...] and implementation of sectoral policies [...] on low carbon, mitigation and adaptation” to climate change. A project with a strong resemblance to the EU4Climate initiative was set in place regarding the EU Southern border and was named CLIMA SOUTH; after its ending in 2018, the EU re-launched the project with the new name of CLIMA-MED. The European Union’s interest in promoting climate actions in countries deeply affected by climate change-related problems could be perceived as selfish, only a way to enhance its own homeland security without a genuine humanitarian scope. However, the EU’s role in stimulating these countries to adopt policies that can help fighting climate change worldwide is of the utmost importance. Indeed, being actually moved by both humanitarian motives and strategic interests, the EU appears to be the most likely international actor to play a prominent role in giving fragile States appropriate means to mitigate the suffering caused by climate change, at least in areas such as the Middle East and North and Central Africa. As a consequence, regardless of the motivations behind the actions that are – and will be – carried out by the EU, Brussels can truly become the centre of the fight against climate change-impacts worldwide, complementing the strict regulations already set within its own borders with actions on a global scale.

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Medio Oriente e Nord Africa LIBIA: UN TEATRO DI RIVALITÀ EUROPEE

Di Simone Innico L’annunciata Conferenza Nazionale, che dovrebbe avere luogo entro la metà di aprile a Ghadames, potrebbe aprire una nuova fase nel conflitto libico. Una contrapposizione che vede confrontarsi, da una parte, le forze del generale Khalifa Haftar e, dall’altra, l’esercito del governo di Fayez al-Sarraj, l’unica entità sovrana libica riconosciuta a livello internazionale. La speranza è che l’incontro delle due fazioni possa condurre a libere elezioni entro l’estate di quest’anno. Tuttavia, le manovre di avvicinamento a nord-ovest delle truppe del generale Haftar non mancano di suscitare sospetti. Questi potrebbe, infatti, essere sinceramente interessato a un confronto diplomatico e, dunque, muovere verso la Tripolitania seguendo tale 12 • MSOI the Post

prospettiva; d’altro canto, la sua potrebbe altresì rivelarsi una manovra strategica, con l’obiettivo della conquista territoriale. Altre volte, in passato, la Libia ha perso occasioni di confronto elettorale, in ultimo nell’ottobre del 2018. Nel caso attuale, in particolare, le responsabilità non sono esclusivamente attribuibili a un fallito dialogo tra le rivalità locali. Lo scenario del conflitto in Libia rivela infatti una frizione tra gli interventi delle forze internazionali tanto dell’area atlantica, quanto di quella medio-orientale: Stati Uniti e Regno Unito, così come Turchia ed Emirati Arabi, tentano da anni di far prevalere il loro progetto sulla risoluzione del conflitto. Inoltre, si può leggere una forte tensione tra gli interessi dei due principali attori direttamente coinvolti: Francia e Italia.

L’inviato ONU, Ghassan Salamé, ha già sottolineato l’importanza di una ‘soluzione politica’ al conflitto. Significativa è la scelta, in tal senso, di limitare le presenze alla Conferenza Nazionale ai soli esponenti libici, con l’unica eccezione dei rappresentanti ONU. Nonostante gli sforzi della missione UNSMIL per aprire spazi di confronto plurale e inclusivo, Roma e Parigi persistono nel contendersi l’influenza sugli esiti del conflitto libico. Tanto con l’impegno militare, quanto nel delicato uso del soft power, come dimostra l’organizzazione di conferenze per la risoluzione pacifica (a Parigi nel maggio 2018 e a Palermo nel novembre dello stesso anno). La divergenza tra i due paesi europei è inasprita, anzitutto, dallo schieramento delle


Medio Oriente e Nord Africa fossili. Tanto l’italiana ENI, quanto la francese Total-ERG si contendono infatti le garanzie di accesso ai giacimenti petroliferi, in particolar modo nel sito di El-Sharara, nella regione del sud-ovest, che, ai primi di febbraio scorso, ha visto l’ingresso delle truppe del LNA.

parti in conflitto. A nord-est, con Benghazi come quartier generale, l’Esercito Nazionale Libico (LNA) del generale Haftar, che controlla la maggior parte del territorio orientale, trova l’appoggio logistico e materiale della Francia. A nord-ovest, il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di al-Sarraj, con capitale Tripoli, vanta invece il sostegno diretto dello ‘sponsor’ italiano. Le condizioni per l’intervento italiano sono però complicate a causa della narrativa nazionalista che fa appello al passato coloniale della Libia. La città di Benghazi, sede del Governo del generale Haftar, è anche la ‘capitale’ storica della lotta per la liberazione nazionale dal dominio italiano. Una lotta

che ha visto la Francia coinvolta in primo piano come alleato. Da questo dipende, in parte, il sentimento favorevole del popolo libico nei confronti dell’intervento francese. Il sostegno di Parigi, al momento, è rivolto alla sicurezza nazionale e alla lotta alle sacche di terrorismo che resistono nel sud del Paese: la stabilità dell’intera nazione è dunque la priorità ufficiale francese, mentre principali interessi strategici dell’Italia sono invece legati, più nello specifico, ai flussi migratori dalla costa mediterranea. A complicare lo scenario contribuisce un conflitto di carattere economico attorno alle risorse di combustibili

Osservando il vantaggio crescente conquistato dal generale Haftar, anche a livello di consenso popolare, risultano motivate tanto l’urgenza della Francia affinché si vada presto a elezioni quanto la cautela dell’Italia a riguardo. Proseguono, pertanto, le manovre di riconciliazione diplomatica intergovernativa. Un’espressione di tale tentativo è, ad esempio, la pubblicazione di una dichiarazione congiunta sottoscritta a inizio marzo anche dalla Francia e dall’Italia -, nella quale si riconosce sia la piena leadership delle Nazioni Unite nel processo di risoluzione del conflitto, sia l’importanza di ristabilire la sovranità libica in materia di energia petrolifera.

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Medio Oriente e Nord Africa LA DIFFICILE LOTTA AI CAMBIAMENTI CLIMATICI NEI PAESI MENA

Di Fiorella Spizzuoco La recente visita del Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres in Tunisia, svoltasi tra il 30 marzo e il 1 aprile 2019, si è conclusa con un significativo incontro con studenti e studentesse della facoltà di giurisprudenza e scienze politiche dell’Università di Tunisi. Nelle aule dell’Università tunisina, Guterres ha invitato gli studenti a unirsi per contrastare i drammatici fenomeni quali i cambiamenti climatici, la crescita delle disuguaglianze e i conflitti (e la conseguente mancanza di tutela dei diritti umani), che sono - a suo dire - le più grandi sfide del nostro tempo. Nonostante queste figurino al centro dell’agenda ONU, e nonostante l’Organizzazione compia sforzi quotidiani per la sensibilizzazione dei cittadini del mondo circa i rischi e i pericoli che corrono, la strada da percorrere è ancora lunga. 14 • MSOI the Post

“Quando ero al governo negli anni ‘90, eravamo convinti che non solo la globalizzazione e i progressi tecnologici avrebbero aumentato la ricchezza, ma che questa ricchezza sarebbe andata a beneficio di tutto il mondo. Ci siamo sbagliati”. Con queste parole, il Segretario Generale ha quindi incalzato i giovani con i quali si è seduto tra le fila dei banchi universitari, sottolineando l’importanza dell’informazione e dello studio per contrastare i risultati di decenni durante i quali la globalizzazione ha creato un enorme divario tra la popolazione dei paesi più ricchi e industrializzati e quella dei paesi in via di sviluppo. La ricchezza, ha continuato Guterres, è aumentata restando però concentrata nelle mani di pochi individui. Più in particolare, l’attenzione dell’opinione pubblica tunisina è stata catturata da alcune delle sue dichiarazioni, che

hanno illuminato l’ancora più complessa lotta ai cambiamenti climatici negli stati delle regioni nordafricana e mediorientale. Come rilevato dal IPCC Summary for Policymakers (SPM), indicatori quali ritiro dei ghiacciai, scioglimento dei poli, innalzamento della temperatura negli oceani, mostrano come la situazione è di gran lunga peggiore di quanto previsto negli anni ‘80 e ‘90: la politica, come affermato dal Segretario Generale, si è rivelata lenta e poco attenta pressoché in tutti i paesi. Addirittura, nell’area mediorientale e nordafricana, i governi autoritari non faticano solo a tenere il passo con le necessarie politiche da adottare per far fronte alla minaccia dei cambiamenti climatici, ma spesso ostacolano la via di coloro i quali lottano ogni giorno per la difesa del nostro pianeta e per la diffusione di uno stile di vita più sostenibile. Dalla Turchia all’Arabia Saudita,


Medio Oriente e Nord Africa

dall’Egitto all’Iran, la vita di ambientalisti e attivisti si fa più e difficil di anno in anno. Sempre più spesso, vengono riportate notizie di ricercatori e esponenti del mondo accademico arrestati per aver espresso la propria opinione preoccupata circa le insufficient i(o, talvolta, inesistenti) politiche a tutela dell’ambiente. Pare infatti evidente che, su queste tematiche, ci sia un unico fronte che si oppone ai governi. Le differenze religiose e politiche sembrano non esserci più quando si parla di lotta ai cambiamenti climatici: il Medio Oriente e il Nord Africa rischiano di vedere le proprie risorse ridotte ulteriormente già nei prossimi 10 anni, con prospettive disastrose se si ragiona ancor più a lungo termine. La tenacia con la quale i movimenti ambientalisti continuano a lottare per far sì che i governi adottino politiche ecologiche e attente ai bisogni dell’ambiente non fa che confermare i dati raccolti negli ultimi anni dalle principali agenzie Onu: la FAO, ad esempio, ha condotto uno studio in collaborazione con l’università del Nebraska sulla siccità e la desertificazione dell’area MENA. Il Forum Arabo per l’Ambiente e lo Sviluppo, una piattaforma

regionale e annuale organizzata dalla Economic and Social Commission for Western Asia a Beirut, dal 2009 mette in evidenza, attraverso i propri studi, l’elevata vulnerabilità e sensibilità ai cambiamenti climatici dei paesi arabi. Le previsioni dei ricercatori susseguitesi negli anni parlano di gravi rischi per gli ecosistemi, come la drammatica riduzione delle risorse idriche o l’aumento delle temperature, che porterà, tra le altre cose, alla crescita del rischio di diffusione di malattie causate dai morsi di insetti (come la malaria). Infine, non è da dimenticare l’ultimo, fondamentale, dato che riguarda il peggioramento delle condizioni di vita e la scarsità di risorse naturali: sempre secondo lo stesso Forum, infatti, l’insieme di queste condizioni ha già portato e continuerà a portare al moltiplicarsi di tensioni sociali e conflitti. Non potendo certificare come questi fattori siano gli unici alla base delle lotte intestine e dei moti di rivolta che hanno scosso a più riprese la regione del Medio Oriente e Nord Africa, è innegabile che la scarsa partecipazione democratica, la mancante rappresentanza

popolare e la poca libertà di opinione ed espressione si intreccino irrimediabilmente con quanto denunciato nei report del Forum. Nei primi giorni di aprile, si è svolto il Summit 2019 del World Economic Forum per la regione, in Giordania: un’ulteriore occasione di confronto, durante la quale rappresentanti dei governi locali, delle organizzazioni internazionali e stakeholder di varia provenienza hanno potuto discutere di lotta ai cambiamenti climatici, di creazione di posti di lavoro e di opportunità per i giovani e di parità di genere e ruolo delle donne. Durante il Summit è stato evidenziato che la drammatica situazione a cui stiamo assistendo non solo sia innegabilmente legata alla difficile realtà sociale di quei paesi, ma che se non si agisce in tempo, siccità e conflitti potrebbero portare una delle zone più popolose del nostro pianeta ad essere del tutto inabitabile. Con la consapevolezza che essa comporterà l’aumento dei flussi migratori irregolari, la cui cattiva gestione porta con sé pericoli per la tutela dei diritti umani, della dignità e del diritto alla vita di milioni di persone.

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America Latina e Caraibi PANAMA: LA ‘CATASTROFE SILENTE DELLE ISOLE SAN BLAS

Di Stefania Nicola

legno.

Amate dai turisti per le distese di spiaggia bianchissima e le acque cristalline, le isole San Blas sono minacciate da continue inondazioni che rischiano di farle scomparire, insieme alle popolazioni locali. Tuttavia, il rapido innalzamento del livello del mare non è l’unica sfida per chi abita in queste zone, come denuncia la Estrella de Panamà, il più antico quotidiano panamense.

Nonostante i contatti frequenti con la cultura occidentale, i Kuna sono una delle poche comunità indigene dell’America Latina ad aver mantenuto una forte identità culturale. La regione di Guna Yala, di cui fa parte l’arcipelago di San Blas, dal 1938 gode infatti di semiautonomia, sotto una bandiera raffigurante due pugni incrociati che simboleggiano la forza che ha consentito agli antenati di scampare al dominio spagnolo.

ingegnere civile, la causa del fenomeno è da rintracciare nel cambiamento climatico, che insieme all’aumento costante della temperatura provoca l’innalzamento del livello del mare e ingenti precipitazioni. I danni provocati da piogge e uragani fanno sì che la vegetazione sia sovraesposta, con un conseguente aumento dell’aridità di talune zone. Peraltro, le intemperie spesso danneggiano gli acquedotti e quindi a una carenza di acqua potabile.

I primi Kuna furono in grado di creare il proprio habitat dove prima vi era solo acqua. Per farlo, utilizzarono parte della barriera corallina insieme a terra, roccia e altri coralli, dando vita a veri e propri atolli. Col tempo, però, l’usanza ha portato alla distruzione delle barriere naturali, rendendo sempre più arduo resistere alle sempre più frequenti inondazioni. Come spiega Saavendra Casilda, professoressa all’Università tecnologica di Panama ed

Secondo Displacement Solutions, ONG che collabora con le Nazioni Unite, per evitare il caos occorre agire prima che si verifichi il disastro. Al momento, si stima che gli indigeni distribuiti nelle varie isolette siano circa 28.000 e che queste comunità siano tra le più povere della regione. Secondo i dati del Ministero di Economia e Finanza di Panama, l’81% della popolazione Kuna sopravvive con meno di 100 dollari al mese. Per questo motivo, per

L’arcipelago di San Blas, al largo della costa caraibica, anche noto come ‘l’arcipelago delle donne’ per l’organizzazione matriarcale della società e per i coloratissimi vestiti caratteristici, è composto di 378 isolette. Gli abitanti di questi atolli sono i cosiddetti Kuna, discendenti degli Incas e degli Indios Mapuche. Vengono spesso definiti ‘popolo anfibio’ in virtù del fatto che vivono prevalentemente in mare per praticare la pesca e accompagnare i turisti sui caciuco, le tipiche canoe di 16 • MSOI the Post


America Latina e Caraibi dibattito pubblico internazionale, salvo provochino ingenti quantità di vittime e di feriti.

venire incontro al problema, sarà necessario il sostegno dello Stato e la costruzione di numerose infrastrutture sulla terraferma. La sfida, in tal caso, non deriverebbe tanto dal fatto che numerose risorse saranno necessarie per edificare alloggi in grado di accogliere i migranti, quanto dalla necessità di incontrare ogni condizione per mettere in atto con successo una vera e propria ‘ricollocazione’ di intere comunità. Nonostante le promesse del Governo, tuttavia, non si è ancora predisposto un piano d’azione per evacuare le isole. Questo sembra confermare l’assunto secondo cui la criticità maggiore dei problemi ambientali sia proprio la loro caratteristica di essere ‘catastrofi silenti’, che difficilmente risuonano nel

Eppure, ancora oggi, i cataclismi naturali possono dettare il futuro di intere popolazioni. Solitamente la tendenza degli sfollati è quella di rimanere all’interno dei confini nazionali, ma sin troppo spesso, in seguito a disastri ambientali, la cattiva gestione delle risorse e la non corretta organizzazione dei territori portano ad un aumento delle tensioni sociali, a fenomeni di guerriglia più o meno estesa e, infine, a veri e propri conflitti. Sotto il profilo del diritto internazionale, peraltro, spicca la mancanza di tutela giuridica per i cosiddetti ‘profughi ambientali’. La Convenzione di Ginevra (1951), di fatto, definisce ‘rifugiato’ chi è perseguitato per motivi legati a razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche, ma non contempla esplicitamente l’ambiente come fonte di rischio.

adattamento, gli effetti del cambiamento climatico sono tangibili e continuano ad aggravarsi. Sebbene Panama sia responsabile soltanto dello 0,02% delle emissioni globali, è particolarmente vulnerabile agli effetti di tale fenomeno. Per questo occorrerà che aumentino gli sforzi del Governo per rafforzare le politiche ambientali e tutelare le popolazioni più a rischio.

Nel caso dei Kuna, nonostante la loro elevata capacità di

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America Latina e Caraibi L’AMAZZONIA DI BOLSONARO

Di Davide Mina L’elezione del neo presidente Jair Bolsonaro in Brasile ha fatto aumentare la preoccupazione dei più sensibili alle questioni climatiche, tanto per la regione sudamericana quanto per il pianeta intero. Le decisioni dell’esecutivo brasiliano, infatti, sono cruciali per le sorti della vasta foresta amazzonica, la quale, pur estendendosi in diversi altri paesi oltre al Brasile, è situata per il 65% al suo interno. Bolsonaro ha costruito parte della propria propaganda elettorale sul tema dell’Amazzonia, indicando come soluzione per risollevare l’economia brasiliana proprio lo sfruttamento di ampie zone della foresta, in special modo dei territori dove 18 • MSOI the Post

vivono i popoli indigeni. Come accaduto per le elezioni statunitensi del 2016, terminate con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, l’onda del sovranismo ha giocato un ruolo centrale in questo scenario: le promesse elettorali di Bolsonaro, infatti, hanno condotto quest’ultimo alla vittoria delle elezioni del 2018. Durante la campagna elettorale, peraltro, Bolsonaro aveva definito l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici una minaccia per la sovranità decisionale del Brasile sull’Amazzonia; tuttavia, una volta eletto, ha rimandato l’ipotesi di abbandonare l’accordo internazionale. Il tema dell’Amazzonia è stato portato avanti facendo leva soprattutto su agricoltori

e industrie minerarie e del legname, che hanno tutto l’interesse a ricevere maggiori concessioni per lo sviluppo agricolo e lo sfruttamento minerario. Il neo-presidente brasiliano, il giorno stesso dell’insediamento del nuovo governo, ha immediatamente trasferito parte dei poteri dell’organizzazione governativa che si occupa dei popoli indigeni e delle loro terre al Ministero dell’Agricoltura, cui ha accorpato, in seguito, il Ministero dell’Ambiente. Sebbene l’Esecutivo di Bolsonaro non abbia ancora aggredito materialmente la Foresta Amazzonica, limitandosi per il momento a misure organizzative e preparatorie, la minaccia è costante e proviene, indirettamente, anche dalle politiche sovraniste


America Latina e Caraibi che riguardano altri colossi economici. A titolo d’esempio, i dazi imposti da Trump alla Cina hanno portato, come conseguenza, l’imposizione di tariffe di egual misura su vari beni da parte di Pechino a Washington. Le importazioni di soia dagli USA alla Cina sono inevitabilmente crollate del 50%, solo nel 2018. Pechino potrebbe ora volgere lo sguardo più a sud per importare la soia e il Brasile, disboscando una parte della foresta, potrebbe prestarsi a soddisfare tale bisogno. La politica di Bolsonaro tende a non tenere in considerazione i diritti delle popolazioni indigene dell’Amazzonia, le quali sono sistematicamente accusate di non volersi integrare e di occupare il 13% del territorio nazionale. Così, la lotta contro la deforestazione, che è un tema di portata tanto nazionale quanto globale, viene ridotta ad un mero interesse di tali minoranze. MapBiomas Amazonia, una piattaforma che, in collaborazione con Google, genera mappe annuali relative all’uso del suolo e ai cambiamenti della silvicoltura in Brasile, ha evidenziato che

dal 2000 al 2017 l’Amazzonia ha perso 29,5 milioni di ettari di foresta, l’equivalente della superficie dell’Ecuador. Finora, il neo-presidente brasiliano ha ricevuto numerose critiche da ogni parte del mondo e non soltanto in ambito politico, ma anche scientifico. Dal 1970, il Museo di Storia Naturale di New York ospita una cena di gala organizzata dalla Camera di Commercio BrasilianoAmericana, durante la quale vengono elette e omaggiate le personalità più importanti del paese sudamericano. Tuttavia, dopo la notizia che in occasione dell’evento Bolsonaro sarebbe stato nominato ‘uomo dell’anno’, gli scienziati del Museo si sono mobilitati, rifiutandosi di dar luogo all’evento e incontrando il consenso della comunità scientifica e di varie personalità politiche, tra cui il sindaco di New York, Bill De Blasio. La direzione del museo ha quindi spiegato in una nota che l’istituzione quest’anno “non è il luogo ideale per il tradizionale evento”, senza nascondere la “profonda preoccupazione” per gli “obiettivi dell’attuale amministrazione brasiliana”.

La situazione climatica è, in effetti, grave. Mercoledì 20 marzo, gli scienziati dell’Università dello Stato di Rio De Janeiro e dell’Università di Vera Cruz, in California, hanno pubblicato sulla rivista scientifica PLOS ONE uno studio che conferma e rimarca il nesso tra deforestazione e cambiamento climatico: il tasso attuale di deforestazione in Amazzonia condurrà ad un aumento di 1,45°C nella regione geografica entro il 2050, una soglia pericolosamente vicina alla soglia limite di 1,5°C indicata nell’ultimo rapporto del Comitato Intergovernamentale sul Cambiamento Climatico dell’ONU.

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Asia Orientale e Oceania NELLA SFIDA ENERGETICA GLOBALE, IL GIAPPONE PRENDE LE DISTANZE DAL CARBONE E INVESTE SULLA GREEN ENERGY

Di Gaia Airulo Nonostante il Giappone sia a oggi tra i maggiori finanziatori di centrali a carbone a livello globale, il paese continua a dar prova di forte volontà politica ed economica a disincentivare la produzione di questo combustibile fossile e intraprendere la strada delle energie rinnovabili. Come riportato dal quotidiano nazionale Asahi Shinbun, in data 28 marzo, il ministro dell’Ambiente Yoshiaki Harada ha dichiarato che intende opporsi alla costruzione di nuovi centrali a carbone e al potenziamento di quelle già attive. Sebbene l’approvazione finale per la realizzazione di progetti energetici spetti al ministro dell’Economia, del Commercio e dell’Industria, l’opinione di Yoshiaki Harada ha un forte peso nel processo decisionale. Tale iniziativa politica non solo risulta in linea con gli impegni 20 • MSOI the Post

ambientali presi da Tokyo, che in occasione dell’Accordo di Parigi del 2015 aveva fissato l’obiettivo di ridurre le emissioni del 26% (rispetto ai livelli del 2013) entro il 2030, ma segue la tendenza economica che da qualche mese influenza le scelte dei maggiori conglomerati nipponici. Proprio qualche ora dopo la dichiarazione del ministro dell’Ambiente, non a caso, la società commerciale giapponese Marubeni Corp, tra le più grandi promotrici di centrali elettriche a carbone a livello mondiale, ha annunciato di voler aumentare gli investimenti nelle rinnovabili. L’azienda punterebbe a raddoppiare le entrate derivanti da energia pulita, il cosiddetto ‘green revenue’, per raggiungere un valore pari a $17 miliardi entro il 2023. Inoltre, tra i propositi più rilevanti annunciati dalla Marubeni lo scorso settembre, vi è proprio quello di non finanziare più la costruzione di nuove centrali.

La volontà dell’azienda di ridurre il proprio impatto energetico ha ispirato l’azione di altri colossi giapponesi, che, nei mesi successivi, hanno notevolmente disinvestito nel carbone. Tra questi spicca la Itochu Corporation, la quale, nel febbraio 2019 - oltre ad aver annunciato l’interruzione nella costruzione di miniere e centrali a carbone - ha manifestato l’intenzione di ridurre gli investimenti nel settore carbonifero in Australia e Indonesia. Azioni simili sono state intraprese da altre importanti compagnie come Sojitz Corp, Mitsui e Mitsubishi e da istituzioni finanziarie come la Sumitomo Mitsui Trust Bank, la Nippon Life e la Dai-Ichi Life. Secondo quanto riportato dal Global Coal Plant Tracker, dal 2017 Tokyo avrebbe cancellato la realizzazione di numerosi progetti indirizzati alla produzione di carbone, per un totale di 7 GW. Si prospetta che una tendenza simile genererà un forte impatto sull’economia


Asia Orientale e Oceania dei maggiori esportatori di carbone: esemplare è il caso dell’Australia, la quale attualmente vende al Giappone circa il 44% del carbone termico che produce. La scelta politica ed economica di voltare gradualmente le spalle al carbone e aumentare gli investimenti nelle rinnovabili è senza dubbio dettata da circostanze intrinseche alla realtà del paese e a una generale tendenza che si registra a livello globale. In primo luogo, è necessario sottolineare come l’autosufficienza energetica del Giappone è oggi pari ad appena il 10%, un dato che impone la necessità di sviluppare una strategia efficace per garantire sicurezza energetica al Paese. Fino all’incidente nucleare di Fukushima del marzo 2011, la fissione nucleare assicurava più di un decimo dell’approvvigionamento energetico. In seguito al disastro, però, la maggior parte delle centrali nucleari sono state chiuse, costringendo Tokyo ad aumentare la propria dipendenza dai combustibili fossili, che nel 2016 si aggirava intorno all’89%. La priorità del paese, espressa anche nel Piano Energetico rilasciato dal Governo nel luglio 2018, è oggi quella di aumentare

l’autosufficienza energetica, portandola al 24% entro il 2030. A tale obiettivo è connessa la necessità di ridurre la dipendenza da combustibili fossili al 56% e di aumentare l’impiego di fonti di energia rinnovabili. Nel documento è previsto anche un più controverso ritorno dell’energia nucleare, alla quale verrebbe affidato circa il 20-30% della produzioneenergetica.Unastrategiaa lungo termine per far fronte ai rischi energetici e agli impegni ambientali del paese è in attesa di essere rilasciata durante il summit del G20, che si terrà nel giugno 2019 ad Osaka. Uscendo dai confini nazionali, invece, la transizione energetica giapponese, da un lato, sta avvenendo in reazione alle critiche sollevate a livello internazionale dai militanti ambientalisti rispetto ai finanziamenti indirizzati da Tokyo al settore carbonifero; dall’altro, segue l’andamento dei mercati globali. In un rapporto rilasciato dall’Institute for Energy Economics and Financial Analysis si evince, infatti, che oltre 100 istituzioni finanziarie di portata globale avrebbero disinvestito in misura massiccia nella produzione di carbone. Tra queste, troviamo l’Asian Infrastructure Investment Bank, Allianz, Generali, Morgan Stanley,

Societé Generale e molte altre. La tendenza ad allontanare i capitali dal carbone sarebbe in forte aumento: dall’inizio del 2018, sono state annunciate continue misure per limitare la produzione di carbone a una frequenza media di una ogni due settimane. Gli analisti lo definiscono un “impeto globale” che potrebbe rappresentare “l’inizio della fine del carbone”. Tokyo non solo intende farne parte, ma, come ripetutamente espresso dal primo ministro Shinzo Abe, punta ad assumere una posizione di leadership mondiale nella lotta al cambiamento climatico. Per riuscire a contenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2°C, come stabilito dall’Accordo di Parigi, occorre una riduzione delle emissioni di CO2 di oltre il 55% entro il 2030 e quasi totale entro il 2050. Considerando che gli sforzi internazionali risultano ancora insufficienti, la recente tendenza dei mercati di allineare obiettivi economici a quelli ecologici potrebbe rappresentare un fattore determinante per completare l’azione dei governi, spesso ancora fiacca, e far fronte all’emergenza ambientale del nostro tempo.

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Asia Orientale e Oceania LA NUOVA ZELANDA E LA QUESTIONE DELLE ARMI

Di Natalie Sclippa “[...] Non siamo immuni ai virus dell’odio, della paura, dell’altro. Non lo siamo mai stati. Ma possiamo essere la nazione che scopre la cura”. Con queste parole, Jacinda Ardern, primo ministro della Nuova Zelanda, a seguito degli attacchi del 15 marzo 2019 alle moschee di Al Noor e Lindwood, ha annunciato la messa al bando con effetto immediato della vendita di armi d’assalto nel paese, invitando anche altri stati a seguirne l’esempio. Il massacro di Christchurch ha scosso la popolazione neozelandese, riaccendendo i riflettori su una questione delicata: il possesso di armi e il loro potenziamento illegale. Acquistare pistole e fucili in rivendite autorizzate e poi aumentarne la capacità con caricatori comprati online sono pratiche ormai diffuse in tutto il mondo, che però mettono in serio pericolo la sicurezza collettiva. L’autore delle stragi nei due luoghi di 22 • MSOI the Post

culto, un suprematista bianco di 28 anni, Brenton Tarrant, deteneva un’arma regolarmente registrata, che poi avrebbe usato per aprire il fuoco sui fedeli musulmani, riuniti per la preghiera del venerdì, uccidendo 50 persone. A differenza dell’ultima strage, avvenuta 30 anni fa, che aveva coinvolto 13 persone, la risposta questa volta è stata chiara. Nonostante la proposta di un emendamento nel 1992 sulla regolazione delle armi, la legislazione in materia di armamenti in Nuova Zelanda era una delle più elastiche, dopo quella degli Stati Uniti. Almeno fino a ora. Il weapon ban, infatti, proibisce la vendita e la detenzione di armi semiautomatiche semi-militari, il possesso di caricatori con grandi capacità e altri accessori. Non saranno coinvolte dalla legge solamente le calibro 22 semiautomatiche con una portata di non più di 10 munizioni e i fucili a pompa con caricatori non rimovibili e che contengono un massimo di

5 colpi. Le categorie escluse saranno solo la polizia, per il mantenimento dell’ordine pubblico, e alcuni allevatori, per l’uccisione dei propri animali. La situazione, però, è difficile. Come riporta il The Guardian, in Nuova Zelanda i porto d’armi sono più di 245.000 e, di questi, 7.500 sono di categoria E, ossia prevedono che il possessore abbia con sé anche il giubbotto antiproiettile per prevenire la penetrazione. La piattaforma GunPolicy.org ha calcolato la presenza di 1,2 milioni di armi nel paese. Una persona su quattro possiede un’arma da fuoco: la messa al bando potrebbe quindi produrre delle conseguenze pesanti. La stessa primo ministro ha ammesso che, da un lato, la restituzione alle autorità costerà tra i €59 e i €118 milioni e che esse verranno distrutte, ma che, dall’altro, la risposta doveva essere decisa affinchè non fosse possibile ripetere questi ’attacchi d’odio’. La premier neozelandese ha infine ringraziato la polizia per il grande lavoro che affronterà,


Asia Orientale e Oceania cui gli Stati Uniti d’America e l’Australia, i cui governi non accennano a limitare l’utilizzo delle armi da fuoco ma, anzi, ritengono che la difesa personale sia uno dei diritti fondamentali. La rivista Time ha indagato sulla possibilità che il divieto venga esportato anche negli Stati Uniti, dove la base giuridica per il possesso delle armi risiede nel Secondo Emendamento alla Costituzione - considerato intoccabile dai propri sostenitori, anacronistico dai propri detrattori.

necessario per garantire sicurezza della popolazione.

la

Oltre all’azione repressiva, il governo si è fatto carico anche di rimanere vicino alle famiglie colpite direttamente dall’attacco alla moschea e a tutta la comunità musulmana, trafitto con violenza da un odio, che, spiega la Ardern, “non appartiene al popolo neozelandese”. Il sito ufficiale gov.it ha dedicato un’intera pagina al massacro di Christchurch, aiutando i cittadini a far fronte alle spese dei funerali, registrare le persone scomparse e aggiornare il paese sull’accaduto, oltre a provvedere agli oneri per il risarcimento danni da ferimento. Durante il discorso alla nazione, pronunciato il 21 aprile, la prima ministra neozelandese ha

dichiarato come questa forte presa di posizione sia la base per la ricostruzione della società, e come il divieto di detenzione e vendita delle armi semiautomatiche e d’assalto sia “il prezzo che dobbiamo pagare per garantire la sicurezza della nostra comunità”. Le lobby dei produttori di armi, però, sono molto forti, tanto in Nuova Zelanda quanto all’estero, e hanno rappresentato il principale freno all’azione di governo, che ha esitato prima di prendere atto della necessità di una restrizione consistente dei permessi e delle tipologie degli armamenti consentiti. La questione non si limita all’isola. L’eco della proposta di legge ha avuto conseguenze sul dibattito internazionale, coinvolgendo altri paesi tra

In conclusione, la legge neozelandese sarà varata nel corrente mese di aprile, in tempi record, per sottolineare ancora una volta, da una parte, il rifiuto dell’inerzia politica che ha accompagnato gli ultimi 30 anni e, dall’altra, per lanciare un messaggio chiaro: i pensieri e le parole, da sole, sono importanti, ma non fanno la differenza; le azioni portano al cambiamento.

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Economia e Finanza LA DIFFICILE SITUAZIONE DEL MERCATO FINANZIARIO TURCO

Di Vittoria Beatrice Giovine È grave la situazione della Turchia. A partire dal terzo e quarto trimestre dello scorso anno, l’economia del paese si trova a attraversare un periodo di recessione accompagnato da un alto livello d’inflazione. Solo nel mese di febbraio i prezzi per i consumatori sono arrivati a essere superiori di circa il 20% rispetto all’anno precedente e, per far fronte al problema, la Banca centrale turca ha provveduto ad alzare i tassi d’interesse, nonostante la contrarietà del presidente Recep Tayyip Erdoğan.

di nuovi dazi su alluminio e acciaio turchi, rispettivamente del 20% e 50%, ed espresso preoccupazione circa la nuova alleanza tra Ankara e Mosca. Tra le opportunità intraviste da Erdoğan nel prendere accordi con Putin primeggiava certamente la possibilità di accrescere la sua sfera d’influenza verso l’Oriente e la zona balcanica; allo stesso modo, va ricordata la forte interdipendenza economica, energetica e infrastrutturale esistente tra Turchia e Russia, come nel caso del progetto della centrale nucleare di Akkuyu (2010).

Le origini della crisi sono di natura non solo macroeconomica e monetaria, ma anche geopolitica. Il paese è stato al centro di una svolta autoritaria legata alla nascita della Repubblica presidenziale nel corso del 2018, nonché di un notevole deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti; Trump aveva infatti annunciato l’introduzione

Nel 2017, con una crescita superiore al 7% dovuta in massima parte alla facile concessione di credito a imprese e famiglie, l’accelerazione dell’economia turca aveva fornito le prime avvisaglie di un forte aumento dell’inflazione, che aveva già raggiunto il 16%. Poche settimane addietro, la precaria stabilità turca è stata nuovamente messa alla prova,

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con tensioni sulla lira che hanno portato a un deprezzamento del 5% sul dollaro, mentre il mercato dei cambi ha subito fluttuazioni anomale: dopo la tempesta finanziaria che ha colpito il paese l’estate scorsa, più precisamente nell’agosto 2018, oggi sulla Turchia sembrano essere tornate le speculazioni ribassiste. Causa scatenante di tutto ciò sarebbe stata la notizia diffusa della mancanza di ben $6,3 miliardi dalle riserve della Banca centrale nazionale. L’istituto non ha fornito una spiegazione chiara a giustificazione del calo delle riserve e questo ha determinato l’interpretazione, da parte del mercato, che la Turchia stia facendo affidamento su tali somme di denaro estero per sostenerelalira.Contemporaneamente,si è intensificata la fuga di capitali dal paese e con un livello d’inflazione che ha toccato il 19% nelle ultime settimane: non deve sorprendere il fatto che numerose famiglie e aziende abbiano tentato di mettere al sicuro il proprio patrimonio.


Economia e Finanza

A poco è valso il forte interesse dimostrato dalla classe politica a sostegno della valuta nazionale in vista delle recenti elezioni amministrative e, ancora meno, le misure adottate per arginare la situazione di crisi finanziaria: il malcontento della popolazione nei confronti del regime e della situazione economica è andato crescendo, tanto che l’AKP, partito di Erdoğan, ha perso il controllo delle tre città più grandi per popolazione e per sviluppo economico, ovvero Ankara, Istanbul e Izmir. Ad aggravare la già instabile situazione si è aggiunto un

commento da parte dell’agenzia di rating Moody’s che ha messo in discussione l’indipendenza della Banca centrale turca: “L’intervento a supporto della lira è contrario alla politica di lunga data della Banca centrale che permette al tasso di cambio di fluttuare liberamente e solleva nuovi dubbi circa la sua trasparenza e indipendenza. La nuova scivolata del mercato finanziario turco e l’incerta reazione politica alla recessione aumentano il rischio di un’ulteriore fuga di capitali”.

dei cambi a supporto della lira già precedente le elezioni. Ora, il futuro della situazione macroeconomica della nazione è legato alle prossime riforme finanziarie che sono state annunciate lo scorso 10 aprile da Berat Albayrak, genero di Erdoğan e ministro del Tesoro e delle Finanze. Le misure proposte si concentrano su crescita, inflazione e sistema bancario; il ministro ha inoltre assicurato che il governo seguirà tutti i passi necessari al fine di rafforzare l’ecosistema finanziario. Questo difficile periodo per la Turchia non può essere che interpretato come un’opportunità, per porre rimedio ai problemi strutturali di un’economia traballante, laddove la priorità del paese è proprio il recupero della stabilità finanziaria.

Il calo delle riserve suggerirebbe un chiaro intervento da parte dell’istituto bancario nel mercato

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Economia e Finanza LA GERMANIA FRA CRESCITA RALLENTATA E PAURA DELLA CRISI

Di Alberto Mirimin Quando lo scorso 17 aprile la grande coalizione di governo ha annunciato, per mezzo del suo ministro dell’Economia Peter Altmaier, l’ulteriore dimezzamento allo 0,5% delle stime di crescita per il 2019, la questione è divenuta pressoché ufficiale: la Germania, cuore economico dell’Europa, è in seria difficoltà. Infatti, sebbene il ministro tedesco, nel corso del proprio intervento, abbia preferito sottolineare che nel 2020 le stime torneranno attorno all’1,5%, e che quindi non debba sussistere un’eccessiva preoccupazione, quello che è certo è che, attualmente, l’economia di Berlino non naviga in acque tranquille. La diminuzione delle stime di crescita della terza settimana di aprile, infatti, è solo l’ultima in ordine temporale, in conseguenza di una previsione originaria, effettuata nel 2018, corrispondente circa all’1,8%. Le problematiche che hanno portato a questa situazione sono diverse e in gran parte legate a dinamiche globali che stanno condizionando non solo il paese della cancelliera Angela Merkel, ma piuttosto l’intera Eurozona. Internamente, è il settore manifatturiero che si sta mostrando particolarmente 26 • MSOI the Post

debole, facendo segnare una contrazione per il quarto mese consecutivo. Le vendite delle piccole e medie imprese (PMI) del settore, a marzo, sono crollate a livelli mai visti dalla crisi del 2008, dopo che gli ordini erano già consistemente diminuiti a febbraio. Ad aprile, l’indice PMI rilevato da IHS Markit si è posizionato su 44,5 punti (44,1 a marzo): il dato non solo è inferiore ai 45 punti previsti dagli economisti, ma soprattutto resta sotto quota 50, che rappresenta la soglia fra espansione e contrazione del ciclo. Il settore che sta risentendo maggiormente del rallentamento dell’economia tedesca è quello dell’automobile, coinvolgendo grandi marchi come Volkswagen, BMW e Mercedes. Questo aspetto, in realtà, si lega a un problema di portata globale, a cui la Germania sta particolarmente facendo fatica a rispondere: il calo delle esportazioni, dovuto in gran parte alla guerra commerciale in atto tra Stati Uniti e Cina. La Germania, a febbraio, ha fatto registrare il calo più significativo degli ultimi 12 mesi, pari a -1,3% rispetto al mese di gennaio. Anche le importazioni, inoltre, sono scese dell’1,6% rispetto a gennaio. Questi dati, significativi

oltre a essere di per sé,

permettono di collegarsi alle componenti esogene che stanno influenzando l’economia tedesca. In particolare, esse possono essere ricondotte a tre questioni principali: la già citata guerra dei dazi fra Cina e Stati Uniti, la politica protezionistica e a tratti ostile all’UE di Donald Trump e, infine, la questione della Brexit. Per quanto concerne lo scontro economico tra Trump e Xi Jinping, la conseguenza peggiore è il massiccio calo delle esportazioni, facilmente individuabile come componente trainante del PIL di Berlino che, per la prima volta dal 2009, si è ridotto dello 0,8%, nel secondo semestre del 2018. Infatti, non solo il modello tedesco si basa sul presupposto che il commercio internazionale sia il più libero possibile, ma molte aziende tedesche, in particolare le già citate case automobilistiche, fanno uso di filiere e di processi produttivi che prevedono un forte coinvolgimento tanto della Cina quanto degli Stati Uniti. Dal punto di vista strettamente legato alle politiche protezionistiche dell’ex tycoon americano, invece, il timore principale è rappresentato dall’intenzione di espandere le misure relative ai dazi sulle importazioni anche all’Unione Europea. In particolare, si parla di una serie di dazi su prodotti europei corrispondenti a


Economia e Finanza circa €10 miliardi, in risposta a cui Bruxelles avrebbe già preparato la contromossa, con la Commissione che ha messo nero su bianco un elenco di prodotti statunitensi che verrebbero colpiti, per un valore pari a circa €20 miliardi. Il deterioramento dell’asse USA-UE danneggerebbe pesantemente l’economia tedesca, specie se si pensa che l’export di Berlino verso Washington ammonta attualmente a circa €27 miliardi l’anno. Un altro fattore che sta mettendo a repentaglio la solidità del modello tedesco è la questione della Brexit, o, più precisamente, la possibilità di una hard Brexit. Infatti, i rapporti economici fra Berlino e Londra sono quantificati in €85 miliardi l’anno, pari al 2,8% del PIL tedesco, che rendono il Regno Unito il quarto partner commerciale della Germania, subito dopo Stati Uniti, Francia e Cina. Viene da sé comprendere, quindi, che una hard Brexit, causando una svalutazione della sterlina che renderebbe molto meno conveniente l’acquisto di beni europei per i consumatori britannici, favorirebbe i concorrenti dell’Estremo Oriente, infliggendo un durissimo colpo alle finanze tedesche. Infine, c’è il rapporto con la Russia. Il paese guidato da Vladimir Putin è stato, infatti, colpito da numerose sanzioni sin dal 2014, tanto da parte dell’UE quanto degli statunitensi, a seguito della guerra nel Donbass e dell’annessione della Crimea. Queste sanzioni hanno finito per danneggiare anche gli stessi paesi che le hanno imposte, Germania in primis, in quanto primo partner commerciale

europeo della Russia. La questione assume particolare rilievo nella misura in cui, da tempo, il paese guidato da Angela Merkel, nel contesto del proprio programma di politiche energetiche, sta lavorando a un progetto che lega a doppio filo Berlino e Mosca e che da mesi, soprattutto alla luce delle tensioni appena citate, anima i principali dibattiti di politica internazionale. Stiamo parlando del Nord Stream 2, il gasdotto che, a partire dal 2020, vedrà la Russia fornire alla Germania circa 55 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, attraverso un passaggio sotto il Mar Baltico, aggirando così Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria, gli Stati baltici e Ucraina. Le obiezioni al progetto sono state molteplici, anche da parte statunitense, in quanto l’UE sarebbe proprietaria del gasdotto, ma il trasporto e la distribuzione del gas sul territorio rientrerebbero nelle competenze dell’operatore, Gazprom, che si occuperebbe concretamente di generare e gestire gli utili. Proprio per questa ragione, Francia e Germania lo scorso febbraio hanno raggiunto un accordo, per il quale Gazprom sarà costretta a cedere il proprio titolo di ‘operatore’, che verrà messo all’asta, limitando così il potere del colosso energetico russo. La manovra ha, ovviamente, suscitato molte critiche da parte del Cremlino, che ha accusato l’UE di aver preso una decisione non imparziale. Questo fatto permette di sottolineare come il Nord Stream 2 costituirebbe un altro importante passo nell’attuazione di un quadro di politiche legate alla tematica del contrasto al

cambiamento climatico in cui il paese si sta impegnando. La Germania, infatti, già oggi utilizza per il 38,5% energie rinnovabili, e l’incidenza di petrolio e gas naturale sul consumo complessivo di energia è in aumento costante, mentre energia nucleare e carbone fossile, che dovrebbe essere abbandonato entro il 2038, hanno registrato una diminuzione netta. Per concludere, la Germania, le cui stime di crescita dovrebbero comunque essere in rialzo nei prossimi mesi, si trova ora in un quadro complicato. Il funzionamento del suo modello, basato sulle esportazioni e sul commercio internazionale, viene costantemente messo a rischio dalle dinamiche conflittuali che stanno caratterizzando l’arena internazionale da almeno tre anni a questa parte. Inoltre, esistono almeno altre due grandi incognite: le prossime elezioni europee di maggio, in cui le forze populiste e sovraniste rappresentano lo spauracchio principale, e le conseguenze della già annunciata decisione da parte di Angela Merkel di abbandonare la politica nel 2021, evento che segnerà, quantomeno, la fine di un’epoca per il paese e non solo. La Germania, come accaduto in tutti i cicli storico-economici delle principali potenze, necessita di alcuni cambiamenti strutturali, che sicuramente verranno inseriti all’interno di un piano continentale. Tuttavia, solo il tempo saprà dire se il paese saprà o meno riconfermarsi la locomotiva che ha trainato l’Europa nell’ultimo decennio postcrisi.

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Europa Orientale e Asia Centrale LA GRANDEZZA PERDUTA DEL LAGO D’ARAL

Di Mario Rafaniello Alla frontiera tra Uzbekistan e Kazakistan, il lago d’Aral è stato al centro di uno dei più grandi disastri ambientali degli ultimi decenni. Un tempo grande oasi dell’Asia centrale sfruttata dai pescatori locali, dai primi anni Sessanta ha visto diminuire sempre più la propria estensione a causa di massicci interventi dell’allora Governo sovietico. Si stima che nel 2007 le dimensioni del lago siano giunte al 10% della sua superficie originaria. Il lago in origine era alimentato da due fiumi, l’Amu Darya e il Syr Darya, che vennero deviati per irrigare le piantagioni intensive di cotone, con enormi conseguenze sull’ecosistema della zona. Il progetto rientrava nei piani sovietici di rapido sviluppo agricolo, ma le modalità con cui venne attuato provocarono la progressiva riduzione della superficie del lago, all’epoca quarto per 28 • MSOI the Post

dimensione mondiale con un’area di circa 68.000 km². La riduzione del livello delle acque ha permesso alle polveri velenose dei pesticidi utilizzati per la coltivazione del cotone, presenti nelle stesse acque del lago, di sedimentarsi sul fondale e, per via delle frequenti tempeste di sabbia, di essere trasportate anche a molti chilometri di distanza. Negli anni questo fenomeno ha messo a rischio zone inizialmente non interessate al problema, con gravi effetti sulla salute degli abitanti delle città vicine. L’utilizzo di diserbanti in grandi quantità ha inoltre inquinato il terreno circostante. Lo svuotamento del lago ha prodotto anche un’alterazione del microclima dell’area, poiché il prosciugamento di gran parte dell’acqua ne ha alterato la funzione regolatrice, accelerandone a sua volta l’evaporazione per via del clima più torrido.

Il disastro ecologico ha avuto anche un impatto sull’economia locale, che si fondava in gran parte sulla pesca. L’esempio più eclatante è quello di Muynak, un tempo attiva città costiera nota per la lavorazione del pesce, che si è ritrovata a circa 50 km dalla riva a causa del ritiro del lago. Questo arretramento delle acque ha messo in ginocchio l’economia della zona, costringendo molta parte della popolazione a spostarsi. Inoltre, nelle zone dove ancora si riusciva a pescare, l’aumento della salinità e i residui chimici lasciati dalla lavorazione agricola intensiva hanno causato un enorme calo del pescato. Tra il 1960 e il 2000, sia la quantità d’acqua deviata dai fiumi immissari, sia la produzione di cotone sono raddoppiate. La scomparsa di grandi porzioni del lago d’Aral ha lasciato spazio ad aree aride che oggi costituiscono il deserto salato dell’Aralkum. Nel 1987


Europa Orientale e Asia Centrale agenti contaminanti, col rischio di provocare epidemie mortali.

la situazione divenne critica a tal punto da poter considerare l’Aral come diviso in due bacini distinti, il ’Grande Aral’ a sud e il ’Piccolo Aral’ a nord. Non è rassicurante il futuro del Grande Aral, la maggior parte delle acque del quale si trova in Uzbekistan. L’economia del paese si regge prevalentemente proprio sulla coltivazione del cotone, di cui è uno dei maggiori esportatori. Una parte della popolazione insieme alle associazioni ambientaliste denunciano i danni alla salute causati dall’alterazione climatica della zona. Il Grande Aral si trova tuttora in uno stato di abbandono. La situazione è invece decisamente migliorata nel bacino settentrionale. Infatti, con la costruzione della diga di Korakal sul fiume Syr Darya, opera lunga ben 12 km, il livello dell’acqua si è alzato di circa 3 metri e il grado di salinità si è notevolmente abbassato. Il progetto, completato nel 2005 e finanziato dalla Banca Mondiale con un investimento di circa $86 milioni, su proposta del governo kazako, ha permesso il ritorno di oltre venti specie di

pesci, in precedenza scomparse dal lago. Questo ha ridato slancio all’economia dell’area, tant’è che i piccoli paesi costieri si stanno lentamente ripopolando. Un’altra criticità riguarda l’isola di Vozrozdenie, nel mezzo dell’Aral, dove in epoca sovietica sorgeva il laboratorio di Kantubek, insediamento militare adibito a test chimici. Essendo lo stesso stato abbandonato nel 1991, le progressive alterazioni climatiche della zona deteriorarono alcuni contenitori di materiale biologico ancora presenti nella base. Inoltre, l’evaporazione delle acque del lago portò al progressivo ricongiungimento dell’isola con le rive del lago. Si prefigurava il rischio di un disastro batteriologico senza precedenti, in quanto si temeva che alcune sostanze come antrace e bacilli di peste potessero disperdersi nell’ambiente. Nel 2002 una spedizione scientifica americana ha però bonificato i resti della base, tra cui oltre 100 tonnellate di antrace, evitando che gli animali della zona potessero addentrarsi ed entrare in contatto con gli

La storia del lago d’Aral diventa importante per la comunità internazionale nei primi anni ’90. Dal 1992 la Banca Mondiale e alcuni paesi dell’area hanno iniziato a collaborare per trovare soluzioni e discutere di un possibile tentativo di recupero del lago. Sono stati avviati programmi come l’Aral Sea Basin Assistance Program (ASBP) e istituzioni quali l’International Fund for Saving the Aral Sea (IFAS), e l’Interstate Council for Addressing the Aral Sea Crisis (ICAS). Lo scorso anno, in occasione del summit IFAS tenutosi in Turkmenistan, il presidente turkmeno Berdimuhamedov ha invitato i suoi omologhi di Uzbekistan, Kazakistan, Kyrgyzstan e Tajikistan a discutere e analizzare la situazione con l’intento di impegnarsi concretamente in questa sfida ecologica. Proprio in collaborazione con l’IFAS è stata adottata una risoluzione dall’ONU (A/RES/72/273) sul salvataggio del lago d’Aral, a dimostrazione del fatto che questa triste vicenda ambientale rappresenta ormai una priorità universalmente riconosciuta.

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Europa Orientale e Asia Centrale ZELENSKY ELETTO NUOVO PRESIDENTE DELL’UCRAINA: POSSIBILI SVILUPPI NELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI

Di Amedeo Amoretti Domenica 21 aprile scorso, l’Ucraina è stata chiamata alle urne per il secondo turno delle presidenziali. Ad essere ammessi al ballottaggio sono stati il comico Volodymyr Zelensky e il presidente uscente Petro Poroshenko. Zelensky è stato eletto come nuovo presidente dell’Ucraina con un sostegno elettorale del 73%. Al primo turno, tenutosi il 31 marzo scorso, tra i 39 candidati alla presidenza, Zelensky si era imposto con il 30,24%, seguito da Poroshenko con il 15,95% e dall’eroina della ‘rivoluzione arancione’ Yulia Tymoshenko con il 13,40%. Il russofilo Yuriy Boyko era arrivato soltanto quarto con l’11,68%. Osservatori internazionali dell’OSCE hanno controllato lo svolgimento delle presidenziali in entrambe le tornate elettorali. Il Russian Public 30 • MSOI the Post

Opinion Research Center aveva evidenziato una diffusa paura nella popolazione russa di una possibile manipolazione elettorale. Al contrario, l’OSCE ha dichiarato che le votazioni e lo spoglio delle schede si sono svolte senza alcuna interferenza in entrambe le tornate elettorali. Gli elettori si sono potuti esprimere liberamente e si è assistito a un notevole miglioramento nella gestione del ballottaggio rispetto al primo turno. D’altro canto, però, l’OSCE ha evidenziato una scarsa presenza di dibattiti su temi politici, sociali ed economici tra i candidati e ha denunciato un emendamento alla legge elettorale che proibiva l’osservazione delle elezioni ai cittadini russi. Infine, gli osservatori hanno evidenziato che una parte della popolazione ucraina non ha potuto esprimersi a causa della guerra che interessa le regioni orientali.

Zelensky è un volto nuovo dell’arena politica ucraina. Ha ottenuto una certa popolarità grazie ad una nota seria televisiva, intitolata ‘Il servitore del popolo’, che lo ritrae nei panni del presidente dell’Ucraina. La serie TV si avvicina molto alle istanze del popolo ucraino, facendo spesso uso della retorica della democrazia diretta e richiedendo la consultazione dell’opinione pubblica su temi politici. In questo senso, all’interno della serie, il Maidan, ovvero la piazza in cui hanno avuto luogo le manifestazioni ucraine filoeuropee e antigovernative che sono state al centro della rivoluzione di inizio 2014, è visto come la pronuncia ultima del popolo, tantoché esso è richiamato qualora il primo ministro, simbolo della corruzione politica, non voglia adeguarsi alla volontà del presidente, cioè del rappresentante del popolo.


Europa Orientale e Asia Centrale

Il neo presidente Zelensky è stato accusato, per tutta la campagna elettorale, di essere la marionetta dell’oligarca Igor Kolomoisky, proprietario del canale TV che ha trasmesso la serie televisiva che lo ha reso celebre. Zelensky si è sempre difeso affermando come la loro relazione fosse soltanto di natura professionale. Un’inchiesta rilasciata il 19 aprile dal Kyiv Post ha effettivamente notato, dietro Zelensky, la presenza di un apparato organizzativo, le cui redini sarebbero proprio quelle di Kolomoisky, per influenzare e finanziare la campagna elettorale del neo eletto presidente. I risultati potrebbero avere delle importanti conseguenze sul piano delle relazioni internazionali, soprattutto nei confronti della Russia, e nei rapporti con l’Unione Europea. Da questo punto di vista, sia Poroshenko, sia Zelensky si erano dichiarati aperti a un maggior dialogo con Bruxelles. Eppure, entrambi i candidati non hanno fatto dell’integrazione europea un punto di forza della loro campagna elettorale, poichè non volevano scontentare il proprio bacino di elettori delle regioni orientali, storicamente vicine alle posizioni russe. Secondo l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI),

i risultati costituirebbero una prima valutazione della politica europea di partenariato orientale. Infatti, in seguito a Euromaidan, le relazioni tra UE e l’Ucraina sono migliorate a vista d’occhio, con l’ormai ex presidente Poroshenko che aveva dichiarato, lo scorso gennaio, che Kiev avrebbe fatto domanda di ammissione nell’UE entro il 2024. Tuttavia, l’Istituto sottolinea l’assenza di un vero progetto di integrazione ucraina nell’UE, nonostante le richieste europee nei confronti di Kiev di nuove riforme volte a combattere la corruzione. Come anticipato, i risultati potrebbero inoltre comportare sviluppi nelle relazioni con Mosca. Petro Poroshenko non sembrava voler cedere nei confronti di Putin, continuando a considerare la Russia un nemico e un aggressore. Al contrario, il neo eletto presidente Volodymyr Zelensky sembrerebbe molto più aperto a un dialogo politico, con l’obiettivo primario di riportare sul tavolo il dialogo con Mosca per comporre la crisi nell’Ucraina orientale. Nell’ultimo dibattito pubblico tra i due candidati, tenutosi il 19 aprile allo stadio di Kiev, Poroshenko, riprendendo una dichiarazione dello stesso

Zelensky, aveva accusato lo sfidante di essere disposto a inginocchiarsi davanti alla Federazione Russa pur di negoziare la pace. Zelensky, rispondendo a Poroshenko, si è invece inginocchiato davanti alla folla ricordando i soldati ucraini morti nella guerra. Tuttavia, secondo l’ISPI, Putin avrebbe tutto l’interesse a negoziare un compromesso con Kiev, senza però mettere in discussione il controllo della Crimea. Infatti, la Federazione Russa vorrebbe ricostruire i rapporti economici con l’Ucraina, essendo quest’ultima il suo primo partner economico. In seguito ai risultati, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato che Mosca rispetta la volontà del popolo ucraino, ma che “sarà possibile giudicare [Zelensky] soltanto dalle sue azioni”. Pertanto, per la futura configurazione dei rapporti ucraino-russi bisognerà aspettare le prime azioni del neo presidente ucraino, anche se alcuni quotidiani ed alcuni emittenti televisivi, come la CNN, ipotizzano la ripresa del cosiddetto Normandy Format, incontri a cui hanno partecipato Ucraina e Russia, insieme a Francia e Germania come garanti.

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Africa Subsahariana COLPO DI STATO MILITARE IN SUDAN: LA SOCIETÀ CIVILE VUOLE UNA TRANSIZIONE POLITICA

Di Francesco Tosco L’11 aprile 2019: la data conclusiva della carriera politica e militare di uno dei dittatori più longevi del continente africano. Dal 1989 ad oggi, Omar al-Bashir, nato nel 1944, ha tenuto il Sudan stretto nel suo pugno di ferro. Trent’anni di potere, finiti in un soffio. L’esercito, guidato dal generale Awad Ibn Auf, dopo mesi di proteste e scontri ha infatti deciso di schierarsi con i manifestanti. Nella mattinata dell’11 aprile scorso sono state occupate le sedi radiotelevisive del paese, mentre un distaccamento militare ha arrestato il presidente e i membri del governo. Nell’immediato, è stata sospesa la Costituzione ed è stato indetto un periodo di transizione della durata di due 32 • MSOI the Post

anni, al cui termine verranno indette nuove e libere elezioni. Durante i prossimi tre mesi vigerà lo stato di emergenza, con controllo dei confini e coprifuoco dalle ore 22 alle 4. Tutti i prigionieri politici sono stati liberati, con la popolazione riversatasi nella capitale Khartoum per i festeggiamenti. Per comprendere meglio l’avvenimento è necessario anzitutto soffermarsi su chi sia Omar Al Bashir. Da colonnello è diventato dittatore nel 1989, dopo aver spodestato con un colpo di stato il suo predecessore Sadiq al-Mahdi. Negli anni 2000, al-Bashir è stato il principale responsabile delle stragi in Darfur, in cui, secondo l’articolo di La Repubblica, si stima possano essere morte tra le 200.000 e le 400.000 persone. Accusato di genocidio per i crimini contro l’umanità

commessi in quel frangente, nel 2009 la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato d’arresto nei suoi confronti e di alcuni ministri del suo governo. Nel 2004, il Presidente ha negoziato la fine della Seconda Guerra Civile Sudanese, concedendo una limitata autonomia al Sud Sudan, diventato poi completamente indipendente nel 2011. Nel 2010 e nel 2015 al-Bashir ha vinto le elezioni; nelle ultime ha superato l’opposizione ottenendo il 94,5% delle preferenze. Nonostante le critiche e le accuse di brogli, nulla è stato fatto. Le proteste sono sempre state represse tutte con l’impiego dell’esercito e con conseguente spargimento di sangue. Tutte, tranne l’ultima. L’evento estremo dello scorso 11 aprile, con la presa del palazzo presidenziale di


Africa Subsahariana

Khartoum, ha radici profonde che affondano nel malcontento e nell’insicurezza di carattere economico del paese. Negli ultimi anni, difatti, il Sudan ha accumulato una lunga serie di problemi. Nel 2011, con la secessione del Sudan del Sud e la relativa cessione dei giacimenti petroliferi meridionali, le casse dello stato hanno iniziato a vacillare. Il clima di tensione degli ultimi anni ha inoltre portato con sé scontri con diverse realtà insurrezionali e milizie ribelli al regime, soprattutto nella zona del Darfur, una regione dove i conflitti, seppur sporadici, non sono mai giunti al termine. A tutto questo si aggiunge la mancanza di infrastrutture, il ribasso del prezzo del petrolio e l’aumento rapidissimo dell’inflazione. Negli ultimi mesi la possibilità di reperire anche i beni più essenziali, come pane e benzina, è stata messa a dura prova. In questo quadro preoccupante, il 18 dicembre scorso il Governo ha acceso la miccia che, a sua insaputa, avrebbe portato alla fine del proprio regime. L’annuncio di voler triplicare il prezzo del pane (da 1 a 3 libbre sudanesi)

ha, infatti, scatenato le prime proteste. La miccia ha preso fuoco a El Gadarif, una cittadina commerciale al confine con Etiopia ed Eritrea. In quel luogo, un gruppo di studenti si è dato appuntamento nella piazza del mercato per protestare contro i rincari annunciati dal presidente. Le forze di sicurezza hanno risposto sparando sulla folla ed uccidendo una decina di manifestanti, compresi tre bambini. Il giorno seguente, il numero di partecipanti alla protesta era raddoppiato, con i contestatori che invocavano a gran voce le dimissioni del Governo in carica. La settimana successiva le proteste si sono estese, arrivando a infuocare le piazze delle città più grandi del paese fino, appunto, alla capitale Khartoum.

di 50 vittime, nelle ultime settimane, le proteste, anziché arrestarsi, hanno attratto sempre maggiori consensi. Infine, la svolta: l’appoggio dell’esercito e la deposizione del presidente. Nonostante l’aria di festa per l’evento, gli organizzatori della protesta hanno condannato il golpe dell’esercito, esortando le persone a non abbandonare il sit-in collocato di fronte alla sede delle forze armate a Khartoum. La società civile non deve fermarsi proprio ora, dal momento che le richieste sono chiare e parlano di transizione civile e politica, non militare. Dopo trent’anni di dittatura, il popolo sudanese non intende lasciarsi sfuggire l’opportunità di vedere finalmente riconosciuti i propri diritti.

Alle proteste, supportate dall’opposizione, si sono aggiunti gli scioperi di categoria indetti da medici, immediatamente seguiti da avvocati e liberi professionisti. La società civile si è dimostrata determinata e senza paura. Con un bilancio

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Africa Subsahariana NAIROBI OSPITA LA QUARTA SESSIONE DELLA UN ENVIRONMENT ASSEMBLY

Di Federica De Lollis Lo scorso marzo si è tenuta a Nairobi la quarta sessione della United Nations Environment Assembly (UNEA), ossia la riunione del più alto organo decisionale al mondo in materia di ambiente. Il suo compito è individuare le sfide che oggi il pianeta si trova ad affrontare, per proporre soluzioni volte alla protezione e riabilitazione dell’ambiente, in armonia con quanto previsto dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. La United Nations Environment Assembly, creata nel giugno 2012, dà spazio a una questione sempre più urgente per il futuro delle attuali e prossime generazioni. Al pari degli obiettivi concernenti la povertà, la salute, la sicurezza e la 34 • MSOI the Post

pace, la questione ambientale sta assumendo risvolti sempre più allarmanti per via della prolungata trascuratezza da parte dei governi e delle istituzioni negli scorsi decenni, fino a giungere a una vera situazione di emergenza per la sopravvivenza sul pianeta di specie vegetali e animali, inclusa quella umana. Un primo tentativo di istituire un sistema internazionale di governance per l’ambiente fu compiuto già nel 1972, con la convocazione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano (meglio conosciuta come Conferenza di Stoccolma), tenutasi nello stesso anno. Tuttavia, la Conferenza, a differenza dell’attuale UN Environment Assembly, non venne convocata regolarmente; le sessioni dell’UNEA, difatti,

si tengono ogni due anni, permettendo così di svolgere analisi più circoscritte e approfondite e facendo convergere gli sforzi delle istituzioni verso obiettivi più concreti. Tracciando uno storico delle precedenti sessioni, si può notare come l’approccio verso la questione sia basato sull’individuazione di sfide specifiche che, una volta superate, vanno a impattare positivamente sull’obiettivo generale e ultimo di proteggere l’ambiente e creare un sistema di consumo e sviluppo sostenibile. Le prime due sessioni, svoltesi rispettivamente nel giugno 2014 e nel febbraio 2016, hanno interessato le questioni del traffico illegale di specie animali, della qualità


Africa Subsahariana dell’aria e della green economy. Il terzo incontro, anch’esso tenutosi a Nairobi tra il 4 e il 6 dicembre 2017, ha avuto come fil rouge il macrotema “Towards a pollution-free planet”. Come per le precedenti edizioni, anche quest’ultima ha suddiviso la conferenza in cinque sottotemi: inquinamento delle acque, inquinamento del suolo, inquinamento del mare, inquinamento dell’aria e gestione dei materiali chimici e dei rifiuti. I frutti di questo incontro si sono tradotti in una dichiarazione ministeriale, tre decisioni e 11 risoluzioni: tra i numerosi obiettivi figurano la rimozione del materiale plastico (incluse le microplastiche) dagli oceani, la riduzione dell’inquinamento dell’aria e il controllo del suolo per favorire uno sviluppo ecosostenibile. Il tema della quarta sessione UNEA, invece, è stato “Innovative solutions for environmental challenges and sustainable consumption and production”, con particolare attenzione verso tre aspetti: le sfide ambientali relative alla povertà e alla gestione delle risorse naturali, inclusi i sistemi di alimentazione

sostenibile, sicurezza alimentare e prevenzione della perdita della biodiversità; approcci ciclici verso una maggiore efficienza energetica e nella gestione delle risorse e dei rifiuti e, infine, uno sviluppo sostenibile innovativo e al passo con il progresso tecnologico. Un elemento inedito rispetto alle edizioni precedenti è stato l’apposito spazio dedicato al women empowerment nel settore dello sviluppo sostenibile, il quale ha messo in risalto la capacità di innovazione delle donne e del loro contributo in ambito socio-economico. Tra i capi di stato presenti all’evento, il presidente francese Emmanuel Macron ha manifestato la propria preoccupazione verso coloro che minimizzano il fenomeno del cambiamento climatico, precisando che non è più possibile porsi con un atteggiamento negazionista nei confronti della realtà e che l’occasione per rimodellare il futuro potrebbe non ripresentarsi. La chiave, secondo Macron, è investire nelle risorse rinnovabili affinché tutti i paesi possano liberarsi definitivamente dalla dipendenza dai combustibili

fossili. Il suo omologo keniano, Uhuru Kenyatta, ha invece posto l’accento sugli effetti devastanti del cambiamento climatico sulle persone più vulnerabili, andando ad aggravare una situazione già precaria per via della scarsa sicurezza alimentare, del degrado ambientale, della povertà e della disoccupazione. Infatti, nonostante l’Africa sia responsabile per circa il 4% delle emissioni globali di gas serra, il 65% della popolazione africana risente in maniera diretta delle conseguenze del cambiamento climatico, quali siccità, inondazioni e tempeste causate dal riscaldamento delle acque e dall’innalzamento del livello dei mari. Malgrado la realtà allarmante, l’outcome che emerge dall’ultima dichiarazione ministeriale della quarta sessione della UN Environment Assembly è estremamente positivo e ricco di proposte. La vera sfida, come di consueto, sarà mettere in pratica le idee emerse da questi incontri prima che la situazione diventi irrimediabilmente compromessa.

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Nord America IL CANADA IMPONE LA TASSA SUI COMBUSTIBILI FOSSILI PER ARRESTARE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO

Di Nicolas Drago A partire dallo scorso 1o aprile, è entrata in vigore la regolamentazione federale che impone una nuova tassa sul consumo dei combustibili fossili nelle quattro province canadesi che non avevano ancora implementato una strategia locale finalizzata alla riduzione delle emissioni di CO2. La necessità di introdurre un’imposta sulla produzione di inquinamento trae origine dall’intensità degli effetti generati dal cambiamento climatico in America del Nord. Come dichiarato in un recente rapporto del Governo federale, il Canada si sta, infatti, surriscaldando al doppio della velocità media del resto del pianeta. La manifestazione più evidente 36 • MSOI the Post

del cambiamento climatico è stata riscontrata nelle anomalie registrate sulle temperature del mese di marzo 2019, durante il quale il paese si è ritrovato climaticamente diviso in due parti: un Sud lacerato dal freddo e un Nord colpito da picchi di +14° rispetto alla media stagionale. Secondo gli scienziati che hanno redatto il rapporto, il repentino riscaldamento dell’Artico canadese è originato dallo scioglimento di neve e ghiaccio marino che impedisce il riverbero delle radiazioni solari, causando, di conseguenza, un assorbimento di calore atipico sulla superficie terrestre. Una proiezione di medio termine suggerisce, inoltre, che, nell’arco di pochi decenni, la regione potrebbe essere investita da una totale assenza

di ghiaccio durante il periodo estivo. La misura adottata dal Governo liberale di Justin Trudeau rientra nel Pan-Canadian Framework on Clean Growth and Climate Change, un piano federale elaborato e implementato dalle province canadesi volto a soddisfare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2, in osservanza dell’art. 4.19 dell’Accordo di Parigi. Lo scopo principale sarebbe, dunque, quello di potenziare lo sforzo concertato della Comunità internazionale di porre un margine all’aumento della temperatura media globale. Il Pan-Canadian Framework si fonda su quattro pilastri: tassazione sulla produzione di inquinamento, azioni trasversali per ridurre le emissioni, adattamento ed elasticità


Nord America climatici, e la creazione di moderne tecnologie pulite. Attualmente il piano canadese si inserisce tra i programmi di tutela ambientale più ambiziosi del mondo; difatti, esso attribuisce alle singole province la facoltà di mettere in pratica strategie climatiche sostenibili diverse da quella federale, riuscendo, così, a soddisfare le esigenze delle popolazioni e delle economie locali. L’esperienza della Carbon Tax della British Columbia ha dimostrato come la retorica negativa che circola nelle province canadesi più conservatrici non riesca a reggere il confronto con i fatti. Dopo 11 anni di indagini, le statistiche hanno infatti mostrato come, dal 2008, le emissioni pro-capite di combustibili fossili sono diminuite del 14% e che l’economia locale ha registrato un’espansione del 26%. Per contro, i leader delle quattro province inadempienti - Ontario, Manitoba, New Brunswick, e Saskatchewan hanno da sempre manifestato una strenua opposizione alla richiesta del premier di applicare un prezzo alle emissioni. La nuova regolamentazione, però,

prevede imperativamente, per ogni tonnellata di CO2 emessa, un costo maggiorato di $20, destinato ad aumentare di $10 di anno in anno. Tuttavia, nonostante l’impegno evidente del Canada, quest’ultimo sembra essere in ritardo sugli obiettivi climatici prescritti e concernenti la riduzione, entro il 2030, del 30% dei gas serra in relazione ai valori registrati nel 2005. A livello globale, il Canada costituisce solo un pezzo del puzzle; infatti, nel corso degli ultimi decenni, una linea aggressiva intesa a contenere gli effetti del cambiamento climatico si è diffusa su ampia scala, considerato che più di 40 governi hanno adottato misure simili. Nel 2008, un Comitato Scientifico delle Nazioni Unite, indotto dall’assunto del Premio Nobel per l’Economia William D. Nordhaus - secondo cui il provvedimento più efficiente ai problemi causati dall’inquinamento sarebbe la pianificazione di una strategia globale implementata in modo uniforme - ha asserito che

l’imposizione di una tariffa sulle emissioni di CO2 potrebbe rivelarsi una scelta cruciale per tenere il riscaldamento globale sotto controllo, prima che i danni da esso generati diventino irreversibili. Infine, un recente rapporto dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD) ha rivelato come, nel 2008, la media del prezzo del combustibile delle 42 maggiori economie mondiali è stata inferiore a $8 per tonnellata, ben al di sotto della soglia che gli esperti ritengono sia necessario mantenere, così da poter gestire gli effetti del cambiamento climatico e ridurre il costo sociale.

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Nord America 2012-2050: IL CAMBIAMENTO CLIMATICO NELLA POLITICA STATUNITENSE

Di Alessandro Dalpasso L’8 gennaio 2013 l’America’s National Oceanic and Atmospheric Administration, l’agenzia federale statunitense per la meteorologia, ha definito il 2012 l’anno con le temperature più elevate mai registrate negli Stati Uniti continentali. Nell’ottobre del 2014, inoltre, il Pentagono ha iniziato a considerare il cambiamento climatico quale ‘national security threat’, in grado di porre “rischi immediati per la sicurezza nazionale”. Il paese, allo stato attuale, secondo il World Resources Institute, resta il secondo maggior produttore a livello globale di gas serra (14,36% del totale), collocandosi, in particolare, ai primi posti per i cambiamenti territoriali legati alla deforestazione. Il

rischio

di

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ripercussioni

sull’economia a stelle e strisce è reale. Nel novembre del 2018, lo US Global Change Research Program ha pubblicato un report allarmante. Secondo lo stesso, se, nel corso del secolo, non verranno prese misure urgenti e importanti, i danni andranno a raggiungere la soglia del 10% del PIL odierno. In aggiunta, gli effetti conseguenti ai disastri naturali legati al mutamento del clima non saranno equamente distribuiti tra le regioni americane. In particolare, migliaia di persone sulle coste e nel sud degli Stati Uniti si ritroverebbero in una situazione di maggior vulnerabilità nell’affrontare eventi meteorologici e climatici estremi. La lettura negativa in termini economici, peraltro, è stata messa fortemente in discussione dalla Casa Bianca. Il 26 novembre scorso, interrogato

sui risultati del report in questione, il presidente Donald Trump aveva ammesso come, oltre a una soltanto “parziale” informazione personale in merito al documento, egli “non ritenesse possibile” che i dati, per quanto allarmanti, avrebbero potuto sortire alcun effetto sul prodotto interno lordo americano. Riaffermando come, allo stato attuale, gli Stati Uniti siano “più green che mai” e ribadendo di “voler, naturalmente, acque… e aria pulite”, il tycoon americano ha altresì dichiarato che il suo Governo non considererà ulteriori misure se gli stati asiatici non faranno altrettanto: “Se noi siamo puliti, ma ogni altro luogo sulla Terra è sporco, non va poi così bene”. Lo scetticismo di Trump di fronte al report, pur redatto dalle agenzie dipendenti dello stesso Governo federale, non


Nord America sorprende. Già nell’ottobre 2018, infatti, il presidente aveva espresso riserve circa il consenso della comunità scientifica sul cambiamento climatico, in quanto, stando alle sue dichiarazioni “gli scienziati hanno un’agenda politica”. Prima ancora, nel giugno 2017, aveva inoltre ritirato gli Stati Uniti dalla Conferenza di Parigi sul Clima, COP21, in ottemperanza con le sue promesse della campagna elettorale del 2016. La dura la linea del presidente è risultata utile, in ultima analisi, a conquistare voti negli stati più legati al settore della produzione di combustibili fossili. Un recente sondaggio del Pew Research Center, però, ha evidenziato come, anche in questi stati, fra i millennial che si riconoscono nel partito repubblicano, il 36% ritenga il cambiamento climatico una minaccia seria e dovuta all’attività umana. Il 47%, invece, afferma che il governo federale dovrebbe fare di più per affrontare la crisi. Parallelamente, l’89% dei

giovani democratici ritiene che a livello centrale si possano e debbano prendere misure più incisive. Ed è proprio dal partito democratico statunitense che emergono invece le politiche più sorprendenti per affrontare questo problema. Il candidato alle primarie Beto O’Rourke, il quale, secondo un sondaggio della CNN del 30 aprile, al momento risulta quarto in ordine di preferenze con il 6% dei consensi per un’eventuale nomination, ha presentato un dettagliatissimo piano contro il climate change. L’ambizioso progetto, di natura onnicomprensiva, si propone di portare in modo netto l’economia statunitense a non essere più dipendente dai combustibili fossili, entro il 2050. Per fare ciò, il ruolino di marcia prevede il dimezzamento delle emissioni di gas serra entro il 2030 e, di seguito, l’azzeramento delle stesse nei vent’anni successivi. Il costo del programma ammonterebbe a 1,5 trilioni

di dollari, calcolato sulla base del fatto che O’Rourke stesso ritenga che ci siano molteplici modi per affrontare la questione. Il candidato democratico, in caso di elezione, intenderebbe percorrerle tutte allo stesso tempo. Nonostante ciò, si capisce che all’interno di queste metodologie per giungere agli obiettivi prefissati vi rientrano una sorta di carbon-tax progressiva mano a mano che ci si avvicina alla metà del secolo; incentivi per la produzione di energia pulita e delle tecnologie e studi utili per la produzione medesima ed, infine, il governo in prima persona si impegnerà per comprare strumenti come pannelli solari, turbine eoliche e stazioni per la ricarica di auto elettriche. In secondo luogo, costruirà le strutture necessarie per proteggere le persone che vivono in quelle zone degli Stati Uniti dove è più probabile che si verifichino dei disastri naturali.

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Sud e Sud Est Asiatico SI INASPRISCONO LE CONDANNE PREVISTE DAL CODICE PENALE IN BRUNEI

Mercoledì 3 aprile, il sultano del Brunei ha promulgato un ampliamento del Codice Penale secondo sharia, entrato in vigore nel 2014, che ha inasprito le già previste sanzioni della legge. I cambiamenti introdotti impongono, tra l’altro, la pena di morte per lapidazione e flagellazioni contro atti omosessuali e adulterio, così come l’amputazione per reati come il furto. La legge prevede, inoltre, la fustigazione pubblica come condanna nei confronti dell’aborto; viene altresì considerato reato l’esporre i bambini musulmani a credenze e pratiche diverse dall’islam.

circostanze anche ai cittadini di altra fede e ai laici. Il sistema legale del Brunei, fino a quest’anno, era infatti suddiviso tradizionalmente in due rami paralleli, rappresentati dalla common law britannica da un lato, e dalla sharia dall’altro. Quest’ultima sezione del Codice, originariamente applicata solo alla comunità islamica, ha visto un ampliamento a partire dal 2014, con l’entrata in vigore dei reati tazir. Tali reati, che si riferiscono ad azioni considerate peccaminose nell’islam, vengono puniti secondo il giudizio dei giudici religiosi, i quali, con questa riforma, hanno visto un notevole incremento della propria giurisdizione ratione personae.

La manovra ha suscitato immediatamente clamore tanto da parte delle Nazioni Unite quanto nella società civile occidentale. La novità rispetto al passato risiede nell’estensione che hanno assunto le nuove leggi, le quali non saranno più applicabili solo ai musulmani, ma in certe

Molti hanno espresso pareri contrari e preoccupazione rispetto ai recenti sviluppi, soprattutto per le possibili ripercussioni sulle minoranze di Bandar Seri Begawan e dei paesi vicini. Tra i detrattori della riforma, si può citare Michelle Bachelet, alto commissario ONU per i diritti umani, la quale

Di Francesca Galletto

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ha evidenziato come la natura delle nuove leggi potrebbe incoraggiare sia la violenza nei confronti delle donne e degli uomini in base al loro orientamento sessuale, sia la discriminazione nei confronti di altre religioni. Negli ultimi anni, le pretese di avvicinare la legislazione ai testi religiosi si sono diffuse anche tra le piccole comunità religiose e LGBT dei paesi limitrofi, quali Malesia e Indonesia. Nel 2018, per esempio, proprio in Indonesia è stata presentata alla Corte Costituzionale la richiesta di introdurre un nuovo Codice Penale attraverso cui potessero essere criminalizzate le relazioni LGBT, senza però che questa venisse accolta. Sebbene nessun paese della regione abbia leggi simili a quelle del Brunei, la recente radicalizzazione legislativa di quest’ultimo potrebbe rappresentare un incentivo a un maggiore integralismo per i paesi limitrofi a maggioranza islamica. A tal proposito, il


Sud e Sud Est Asiatico

direttore esecutivo di UNAIDS, Michel Sidibé, ha esortato fortemente il Brunei ad abrogare le modifiche fatte al Codice Penale; con tale riforma normativa, il paese diventerebbe il primo del Sud-Est asiatico ad adottare la legge penale islamica a livello nazionale. L’illegalità delle relazioni omosessuali e degli atti compiuti al di fuori del matrimonio avranno, come prevedibile conseguenza, un deficit di assistenza sanitaria e di accesso alle informazioni utili per proteggersi da infezioni come l’HIV. Come sottolineato anche dalle agenzie delle Nazioni Unite, i gruppi maggiormente lesi dalle nuove leggi sono quelli più vulnerabili alla violenza e alla contrazione di malattie infettive. Sebbene l’omosessualità fosse già considerata illegale nel paese e punibile fino a 10 anni di carcere, con questa radicalizzazione verranno violati i diritti dell’uomo tutelati dalla comunità internazionale: “nella legislazione sono state introdotte pene crudeli e inumane che violano gravemente la legge internazionale sui diritti umani”, ha dichiarato l’alto commissario delle Nazioni Unite. Anche Rachel Choha-Howard, ricercatrice presso Amnesty International, ha espresso la propria opinione riguardo le

recenti evoluzioni normative, sostenendo che “alcuni dei potenziali reati non dovrebbero nemmeno essere considerati reati, compreso il sesso consensuale tra adulti dello stesso sesso”. Il 6 aprile, a Londra, l’attivista per i diritti gay Peter Tatchell ha organizzato una manifestazione contro l’attuazione della riforma davanti all’Hotel Dorchester, catena alberghiera con sede londinese ma di proprietà della Brunei Investment Agency. L’organizzatore ha chiesto il boicottaggio di tutte le compagnie del sultano. Anche organizzazioni quali l’English National Ballet e il Financial Times hanno cancellato i loro eventi in programma al Dorchester e, sul sito web del Parlamento britannico, è stata firmata una petizione da più di 65.000 persone per chiedere al governo la fine delle violazioni contro la comunità LGBT in Brunei. In comunione col sentimento nazionale, l’Università di Oxford, l’Università di Aberdeen e il King’s College di Londra hanno dichiarato di voler riconsiderare la validità delle lauree ad honorem assegnate precedentemente al sultano. Nonostante la generale disapprovazione internazionale, all’interno del paese tali

riforme sono state celebrate come un momento di unità nazionale con soddisfazione del sultano, il quale cerca, con queste politiche, di prevenire un esodo di massa futuro dovuto all’esaurimento delle riserve di petrolio e gas. Il fenomeno, che si potrebbe verificare nell’arco di due decenni all’attuale ritmo di estrazione, porterebbe a un sostanziale calo del livello generale di ricchezza e a una plausibile crisi sociale. Occorre considerare, inoltre, che la legge islamica ha avuto finora solamente un forte connotato simbolico all’interno dello stato, il quale, concretamente, non attua un’esecuzione dal 1957. Anche con tale radicalizzazione, la sharia esige un onere della prova molto forte affinché possano essere messe in pratica le pene designate dal tazir. Per alcuni reati, infatti, affinché sia applicata la rispettiva sanzione, è necessario che questi siano compiuti in presenza di quattro adulti maschi di fede islamica. Proprio per tali motivi, molti sostengono che l’applicabilità delle nuove norme sarà effettivamente bassa. Lo conferma il fatto che, già dal 2014, la maggior parte dei reati sono stati trattati secondo il Codice Penale precedente tutt’oggi in vigore. MSOI the Post • 41


Sud e Sud Est Asiatico ELEZIONI IN INDONESIA: LA RICONFERMA DI WIDODO TRA LUCI E OMBRE

Di Daniele Carli Domenica 17 aprile, si sono svolte le elezioni presidenziali indonesiane, le quali avrebbero sancito, secondo i primi rilevamenti, la riconferma di Joko Widodo con il 54% dei voti, contro il 45% del diretto sfidante, l’ex generale Prabowo Subianto. La giornata elettorale, definita dal vice-presidente Kalla in un’intervista a Detik.com come “la più complicata” della campagna, ha portato con sé diverse polemiche. A tal proposito, la morte di circa 300 persone, tra polizia e operatori elettorali, attribuite 42 • MSOI the Post

a esaurimenti e malori dovuti alla tensione di una delle più impegnative tornate elettorali della storia del paese, ha lasciato sgomento e dubbi sull’efficienza della macchina organizzativa. È seguita la denuncia da parte di Subianto di presunte irregolarità nello spoglio dei voti, oltre alla rivendicazione della vittoria sulla base del 62% di voti a favore, secondo un sondaggio basato su stime del proprio staff. L’invettiva dell’ex-generale ha, ovviamente, incontrato il diniego del Governo su qualsiasi forma di frode elettorale; tuttavia, bisognerà attendere i risultati definitivi della Commissione Generale Elettorale, previsti per il

prossimo 22 maggio, per capire la reale entità del successo di Widodo e un eventuale ricorso legale da parte di Subianto. Al di là del risultato discusso, si apre il dibattito su come evolverà la situazione socio-politica dell’Indonesia durante il (presumibile) secondo mandato di Widodo. Presentatosi nel 2014 come un elemento di rottura decisivo rispetto al burrascoso passato dittatoriale del paese sino al 1998, il presidente uscente ha suscitato dubbi in seno al proprio elettorato. Tali perplessità derivano da talune decisioni prese nel corso della campagna elettorale, le quali


Sud e Sud Est Asiatico sembrerebbero avvicinare l’esecutivo all’ambiente conservatore più che a quello liberale. In particolare, la scelta per la vicepresidenza del settantaseienne ecclesiastico musulmano Ma’ruf Amin, esponente dell’Islam radicale e dichiaratamente ostile alla comunità LGBTQ+, pone non pochi dubbi sul futuro di un paese laico e promotore della libertà di culto. Sul fronte economico, invece, se da una parte la crescita annua non è mai scesa sotto il 5% nel corso della sua presidenza, gran parte della popolazione si aspetta importanti misure da Widodo per quanto riguarda la disoccupazione, una piaga devastante in un contesto di crescente domanda giovanile di lavoro ed elevato tasso di povertà. Secondo uno studio di CEIC Data, sebbene l’Indonesia abbia registrato un abbassamento costante di tale tasso dal suo valore più alto del 2005 (11,2%), fino a raggiungere il minimo (5,3%) nell’agosto dello scorso anno, dovranno esser messe in atto forti politiche di impiego. Uno stimolo alle imprese, in un’ottica di lungo periodo, sarà infatti fondamentale per assorbire la crescente domanda. Si stima che la popolazione indonesiana raggiungerà circa 319 milioni di abitanti entro la fine del 2045. Per quanto riguarda le altre manovre economiche anticipate in campagna elettorale, Widodo è intenzionato, da un lato, a mantenere un forte sostegno alla crescita delle infrastrutture, investendo altrettanto decisamente in programmi sociali. Verso questi ultimi, il probabile vincitore delle elezioni ha promesso di garantire alle fasce

più povere l’accesso a settori di prima importanza, quali quelli scolastico e sanitario. Dal punto di vista finanziario, invece, la Banca Centrale ha confermato che l’inflazione rimarrà stabile e che, per far sì che i programmi di crescita siano garantiti, dovrà essere mantenuta una pressione fiscale particolarmente gravosa, unitamente a una riduzione degli sprechi presenti nell’amministrazione pubblica. Tale razionalizzazione delle risorse, che solitamente avviene congiuntamente a processi di deregulation, a Jakarta si accompagna a una politica opposta, la quale mira invece a produrre una forte nazionalizzazione delle imprese e delle risorse nazionali. Infine, per ciò che concerne la politica estera, tema poco affrontato da Widodo nel corso della campagna elettorale, rileva, come per la maggior parte dei paesi del sud-est asiatico, il rapporto con la Cina. Nel corso del primo mandato, il presidente ha promosso rapporti economici col gigante asiatico, attirando, peraltro, le critiche di Subianto. Thomas Lembong, capo del

comitato di coordinamento degli investimenti, si è mostrato particolarmente avverso circa la partecipazione indonesiana alla Belt and Road Initiative (BRI). Secondo quanto concordato, infatti, Pechino dovrebbe finanziare una linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà Jakarta con la città di Bandung. Il funzionario indonesiano, dal canto proprio, avrebbe criticato la condotta dei tecnici di Beijing, evidenziando delle criticità che il suo esecutivo avrebbe incontrato nel reperire maggiori dati e informazioni circa il progetto. Un altro punto di attrito tra i due paesi ha riguardato l’apertura di una base militare nel mar cinese meridionale, area nella quale si scontrano gli interessi strategici di Jakarta e Pechino. Tali circostanze avevano inizialmente fatto pensare a un’inversione di rotta verso finanziamenti statunitensi, verso cui sicuramente esiste una predisposizione, ma non un atteggiamento tale da ribaltare i rapporti nella politica estera indonesiana. Widodo, per l’appunto, non ha manifestato segnali di chiusura, non andando così a creare alcuna frattura nei rapporti con la Cina.

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Diritto Internazionale ed Europeo IL SISTEMA EUROPEO DI SUSSIDI DI DISOCCUPAZIONE: LA STRADA SOCIALE PER RILANCIARE L’UNIONE

Di Federica Sanna Dieci anni dopo lo scoppio della crisi economica, gli indicatori economici dei paesi europei sembrano tornare a crescere, sebbene la strada verso una ripresa effettiva sia ancora lunga. Tra gli ostacoli principali da affrontare ci sono sono certamente la lotta contro la crescente frammentazione politica e sociale, il progressivo allontanamento dei cittadini dall’idea del progetto di integrazione europea e la necessità di rispondere alle sfide poste dalla globalizzazione insieme all’avvento delle nuove tecnologie che possono determinare situazioni di ingiustizia sociale. L’idea di istituire un sistema europeo di sussidi di disoccupazione nasce in seno alle istituzioni come strumento 44 • MSOI the Post

volto a rispondere alle situazioni di disuguaglianza economica e sociale tra i cittadini europei e mitigare gli effetti ancora presenti della crisi, ponendosi quindi l’obiettivo di rafforzare l’integrazione europea e il senso di appartenenza dei cittadini a una comunità unita. È però necessario analizzare meglio lo strumento per capire se questo possa essere effettivamente inteso come il necessario stimolo al rilancio del progetto europeo. L’idea di fondo è che quando uno stato europeo subisce gli effetti di una crisi in maniera più significativa rispetto ad altri, questo da solo non è in grado di fornire le risposte adeguate e rischia di cadere in un eterno ciclo di crescita del deficit e di tagli al welfare nazionale. L’Unione Europea deve quindi farsi carico di assumersi

rischi troppo alti per il singolo Paese: l’ampliamento della platea degli assicurati oltre ai confini nazionali permetterebbe la copertura anche in caso di shock asimmetrici, cioè di crisi di dimensioni differenti o di senso opposto. Negli anni passati sono state presentate diverse soluzioni per l’istituzione di un fondo unico di sussidi di disoccupazione. Un primo schema prospetta l’idea di un effettivo fondo comune, nel senso che i lavoratori europei pagherebbero i propri contributi direttamente a livello europeo e riceverebbero quindi i sussidi dallo stesso fondo. Si tratterebbe, in questo caso, di un passo verso la realizzazione di un bilancio comune, almeno dell’eurozona. Un’altra prospettiva, sostenuta innanzitutto dal presidente della Commissione Juncker,


Diritto Internazionale ed Europeo è quella di instaurare un meccanismo di assicurazione complementare contro la disoccupazione a livello europeo, da affiancare agli strumenti già esistenti a livello nazionale (il fondo europeo svolgerebbe il ruolo di “ri-assicurazione”). La proposta avanzata dal Ministro delle finanze tedesco, per esempio, immagina la possibilità per lo stato in difficoltà di accedere a un prestito fornito dal fondo europeo di assicurazione, che sarà rimborsato una volta fuori dalla recessione. Il modello a cui si fa riferimento è quello degli Stati Uniti, in cui esistono sistemi di protezione sociale nazionali ma dove è possibile per gli Stati attingere a un fondo federale per evitare di aggravare pesantemente i singoli bilanci statali. L’idea di istituire un fondo di tal genere presenta però due criticità principali. La prima risiede nel fatto che sarà necessario decidere se tutti i paesi membri faranno parte del fondo o meno: è opportuno che aderiscano anche gli Stati che non fanno parte della zona euro o è necessario mettere in campo la strategia della cooperazione rafforzata unicamente tra i paesi che intendono aderire al fondo?

In secondo luogo, l’istituzione del meccanismo di assicurazione europeo porta con sé il timore che venga innescato un sistema di trasferimento perenne di risorse dagli stati generalmente a bassa disoccupazione a quelli in cui la disoccupazione tende ad essere più alta. A questo proposito, andrebbero introdotti dei criteri di accesso per disincentivare questa tendenza: per esempio, le quote nazionali di finanziamento al fondo potrebbero essere basate sul tasso di disoccupazione attuale dello Stato, così da evitare il “free riding” e contestualmente mantenere la funzione

redistributiva dello schema. In conclusione, è difficile sostenere con certezza che il sussidioeuropeodidisoccupazione possa risultare sufficiente per rispondere alle impegnative sfide a cui deve rispondere l’Unione Europea per ritrovare la propria legittimità davanti ai cittadini e accrescere il senso di appartenenza alla comunità, ma si tratta sicuramente di un primo segnale verso il rilancio di un progetto europeo attento alla dimensione sociale.

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Diritto Internazionale ed Europeo Kids fight for a better future

Di Chiara Montano Inspired by the Swedish teenager Greta Thunberg, who protests every Friday outside Sweden’s parliament to urge leaders to tackle climate change, tens of thousands of young people feeling unrepresented by elected officials filled the streets all around the world launching the movement “Fridays for future”. Strikes took place in more than 100 countries, where students spilled out of schools and into the streets asking their governments to protect their future. In UK, a poll published by the Conservative Environment Network (CER) on the day of a global climate strike found 53% of British adults support the young strikers, with only 15% opposed to the actions. That figure is even higher among young people, with 60% of 18-34 year olds backing the movement. Despite Theresa May’s initial reserve, some members of the 46 • MSOI the Post

British government came out in support of the movement. Infact, last February a spokesperson for the British prime minister described the UK climate strike as a disruption increasing “teacher’s workloads and wastes lesson time that teachers have carefully prepared for”. While certain Conservative lawmakers, including environment secretary Michael Gove, clean growth minister Claire Perry and former minister Richard Benyon described climate school strike as “inspirational”. In a video shared on twitter CEN (Conservative Environment Network) account, Benyon said “these are young people whose lives will be much more affected by climate change than the generations leaving them this legacy”. The environment secretary, Michael Gove, has expressed support for the strikes, saying collective action can make a “profound difference”. Also Jeremy Corbyn, the Labour

Party leader, had already voiced support for the protesters. According to scientific studies and the Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) findings, greenhouse gas emissions must be cut almost in half by 2030 to avert global environmental catastrophe. Enormous and rapid changes are needed to the way everyone on Earth eats, travels and produces energy. Nevertheless, some scientists look optimistic, since nations are now currently near on track to avert disaster. Seems that the rest of the world will want the UK’s pioneering technology in order to help to stop global emissions through measures such as mass tree-planting, cutting meat consumption and making planes more efficient. If it will happen, it will probably have a big impact diplomatically, too.


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