MSOI thePost - Giugno 2019

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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

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Cina: una nuova superpotenza? L’ascesa internazionale a 30 anni dal massacro di piazza Tienanmen

I giorni di Tienanmen Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, piazza Tienanmen divenne lo scenario di un massacro, durante il quale carri armati dell’Esercito di Liberazione Popolare Cinese uccisero centinaia di persone, la maggior parte delle quali studenti universitari. Questi ultimi, provenienti da 40 diverse università, giunsero a Pechino per manifestare nel nome della democrazia. Stando alle autorità cinesi, le vittime furono 319, ma stime di organizzazioni internazionali, ONG e media stranieri hanno in diverse occasioni contestato il conteggio. La desecretazione nel 2017 di un telegramma, spedito dall’allora ambasciatore inglese a Pechino, Alan Donald, indica che le vittime

potrebbero essere state più di 10.000. Le manifestazioni iniziarono qualche mese prima. Il 15 aprile 1989 morì Hu Yaobang, segretario del Partito Comunista cinese dal 1981 al 1987. Hu fu una figura molto importante nella Cina degli anni Ottanta, aperta al mercato internazionale, ma ancora ostacolata da grandi problemi interni, tra cui un’aspra disuguaglianza sociale, la corruzione e l’opacità del sistema monoparititico. Hu è stato promotore di una spinta riformista e di maggior trasparenza del governo, al punto da esser allontanato e silenziato dai dirigenti comunisti più anziani. La sua morte diede inizio a diverse proteste, acuitesi con i primi

scontri tra manifestanti e polizia. Scesi in piazza, il 22 aprile, i dimostranti invocarono un incontro con il primo ministro Li Peng, per poi indire uno sciopero generale a seguito del rifiuto alla precedente richiesta. Alla fine di aprile del 1989, il Quotidiano del Popolo pubblicò un editoriale in cui studenti e manifestanti tutti vennero accusati di complottare contro lo stato. Si accese la miccia che avrebbe condotto al sorgere del così ricordato ‘Movimento del 4 maggio 1919’: la protesta studentesca anti-imperialista che vide più di 100.000 persone marciare per Pechino. I vertici del Partito Comunista osservarono le proteste spargersi in oltre 300 città, fino a quando, il 19 maggio,

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Deng Xiaoping, a capo della commissione militare, decise di dichiarare la legge marziale. L’esercito occupò la capitale e per 12 giorni la manifestazione resistette senza violenze. La notte del 3 giugno, però, Deng ordinò di passare alle armi. Nonostante l’invito del Governo ai cittadini di restare in casa, questi ultimi scesero in piazza per bloccare l’avanzata di centinaia di migliaia di truppe; il mattino del 4 giugno, scoppiarono gli scontri. Secondo un’intervista rilasciata alla BBC nel 2005 da Charlie Cole, reporter statunitense e autore del fotogramma simbolo del massacro, verso le 4 del mattino del 4 giugno i carri armati sarebbero penetrati all’interno della piazza, annientando veicoli e schiacciando persone. Verso le 5:40 dello stesso giorno, dinanzi a fotografi e giornalisti dei più importanti quotidiani internazionali, piazza Tienanmen era stata sgomberata nel modo più violento e cruento possibile. In quei primi giorni di giugno, il mondo intero assistette alla gravissima repressione del Governo cinese della libertà d’espressione. Nel sopracitato telegramma, Donald testimonia che “una volta arrivati i soldati in piazza Tienanmen, gli studenti hanno capito che fosse stata concessa un’ora per lasciare la piazza, ma dopo cinque minuti i blindati hanno attaccato. [...] Hanno formato una catena umana, ma sono stati falciati, insieme ai soldati. [...] Quindi i mezzi blindati hanno investito i cadaveri, schiacciandoli, per poi raccoglierli con le ruspe: i resti sono stati inceneriti e smaltiti nelle fogne”. Non è chiaro cosa spinse i soldati ad attaccare i manifestanti. Alcuni sostengono che si sia trattato di una rappresaglia per l’uccisione 4 • MSOI the Post

di alcuni militari. Timothy Brook, storico canadese specializzato nella storia cinese, ha però sostenuto, in un’intervista con la PBS del 2006, che i militari avessero ricevuto l’ordine di sgomberare la piazza con ogni mezzo e che il comando avesse dunque deciso di aprire il fuoco sui civili per sbloccare le strade e raggiungere Tienanmen. Secondo il reporter John Pomfret, Deng Xiaoping era preoccupato che in Cina si sarebbe sviluppato un movimento antirivoluzionario, come stava accadendo in Unione Sovietica. Per questa ragione, aveva bisogno di sottomettere la popolazione attraverso l’uso della forza. Il 9 giugno, Deng stesso, durante un discorso pubblico, affermò che il vero obiettivo delle manifestazioni era quello di “rovesciare il Partito e lo Stato, nonché quello d’instaurare una repubblica borghese dipendente dall’Occidente”. Il governo riprese dunque il controllo della Cina, mentre tutti i leader e gli ufficiali responsabili delle proteste furono imprigionati. Le conseguenze del massacro 30 anni sono trascorsi da questo accadimento, anche ribattezzato ‘Primavera Democratica cinese’ oppure, usando le parole delle autorità del Partito Comunista, ‘Incidente di Tienanmen’ o ‘del 4 giugno’. 30 anni sono molti, ma ancora non sufficienti per far sì che i vertici susseguitisi a capo del Partito dessero atto dell’intollerabile e indiscriminata violenza contro i pacifici manifestanti. A distanza di tanto tempo, infatti, il Governo cinese non ha ancora riconosciuto il massacro, continuando a non permettere commemorazioni e a non riconoscere che il numero di vittime sia molto

più elevato di quello dichiarato ufficialmente. È stato proprio l’avvicinarsi del trentesimo anniversario delle proteste a riaccendere il dibattito. Un’enfasi particolare ha caratterizzato il discorso rispetto agli anni precedenti, anche a causa dell’incremento di strumenti volti a censurare l’accaduto in Cina. Social network e motori di ricerca sono stati oscurati totalmente, impedendo anche agli utenti stranieri di collegare i propri dispositivi a piattaforme quali Whatsapp, che in Cina è in genere scartato in favore del servizio di Tencent, WeChat. Alla grave tendenza del negazionismo cinese si è affiancato grottescament e il rinnovato vigore economico che ha portato il paese a rivaleggiare con gli Stati Uniti, in primis, e con altri tra i più influenti attori geopolitici nel panorama internazionale. Essendosi già affermata come ‘leading nation’ in alcuni campi quali l’high-tech, l’alta velocità, l’elettronica e l’energia rinnovabile, ora il paese, guidato da Xi Jinping, mira a espandersi in altri settori, quali l’e-commerce, i mobile device e il settore culturale. Le dichiarazioni dell’attuale ministro della Difesa, Wei Fenghe, hanno dimostrato, tuttavia, che il pugno duro di Pechino è ancora lontano dall’ammorbidirsi. Il generale, intervenendo durante lo Shangri-La Dialogue a Singapore, il 2 giugno scorso, ha sottolineato che l’attuale stabilità interna e lo sviluppo economico e sociale che ha interessato la Cina negli ultimi decenni è anche dovuto alla decisione del Governo di controllare e contenere la Protesta del 1989. Risiede infatti nella quantomeno particolare dicotomia ‘regime autoritario-seconda potenza


economica mondiale’ il cuore della ‘questione Tienanmen’. Tra l’imposizione della legge marziale del 19 maggio, fortemente voluta da Deng Xiaoping, e la sanguinosa repressione del 4 giugno, l’opinione pubblica internazionale si dichiarò scettica riguardo le possibilità di sopravvivenza della Cina comunista. L’allora presidente francese Mitterrand, ricorda France24, affermò che il paese non aveva

da povertà e disoccupazione a far sì che milioni e milioni di cinesi barattassero la propria libertà politica e di opinione in nome del Contratto: il prezzo fu salatissimo, ma, col passare del tempo, sembra aver dato i suoi frutti. Milioni di cinesi sono usciti dalla povertà, arricchendosi ed entrando a far parte di una classe sociale nuova, urbana, che sta alla base della forza del paese. Insieme a questo dato, il crescente nazionalismo e l’attenzione metodica

cinese che portò a una serie di riforme strutturali del sistema economico, determinando un parziale dissolvimento dall’autoritarismo politico verso una ‘economia socialista di mercato’. Il termine, utilizzato per la prima volta nel 1992, definisce tuttora il modello economico della Cina moderna, caratterizzato da una singolare commistione tra pianificazione di stampo socialista ed economia di mercato. Sul piano dei mercati

“nessun futuro”, dopo aver sparato sui giovani disarmati. Ma le previsioni non potevano essere più sbagliate. Pechino ha resistito, e lo ha fatto senza mai mettere in dubbio l’autoritarismo del Partito, in nome del Contratto Sociale promosso e difeso ancora una volta da Deng. Egli, pur non ricoprendo alcuna carica politica all’epoca dei fatti di Tienanmen, continuava ad essere uno degli uomini più temuti e rispettati di tutta la Cina. Fu proprio la sua promessa di un futuro libero

posta alla promozione di un sentimento patriottico hanno permesso ai vertici del Partito di raccogliere consensi e di evitare ulteriori ‘incidenti’ come quello di Tienanmen.

esteri, l’apertura internazionale avvenne soprattutto grazie alle esportazioni, nonché all’istituzione delle Zone Economiche Speciali: queste ultime, in particolare, avevano permesso al gigante asiatico di apprendere e ‘importare’ nuove strategie e nuovi modelli di gestione del capitalismo. Le esportazioni sono oggi diventate la colonna portante della crescita economica cinese e hanno permesso un rapido aumento della competitività nei settori ad alta intensità di lavoro e con elevata

Lo slancio economico Per dirla con le parole di Xi, dalle manifestazioni del 1989, “la Cina ha varcato la soglia ed è entrata in una nuova era”. Già a partire dagli anni ‘80, furono mossi i primi passi di quel lungo processo di liberalizzazione del mercato

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specializzazione, come nel caso dell’elettronica high-tech. Inoltre, se da un lato la graduale transizione da un’economia fortemente centralizzata a una più decentralizzata ha riportato al centro dell’attenzione l’iniziativa economica privata, dall’altro essa ha consentito agli esponenti politici locali delle principali città e delle province, agli operatori privati e a quelli esteri, di guadagnare un notevole spazio d’azione: tra le autorità amministrative locali e le imprese sono stabiliti i compiti, i profitti da realizzare e gli aiuti allo Stato. Ma è il caso di soffermarsi sull’evoluzione commerciale più nel dettaglio. Nel corso degli anni, il cambiamento avvenuto sul piano politico e sociale ha avuto enormi ripercussioni sulla crescita economica del paese. La costruzione di una grande nazione socialista moderna e più aperta al mondo sembrerebbe essere stata mantenuta finora: quello che si è sempre presentato come un territorio regolato da un’economia pianificata e chiusa, ora sembrerebbe gradualmente aprirsi al commercio internazionale. Il delicato processo di transizione verso un’economia di mercato che punti alla capitalizzazione dei vantaggi comparativi della Cina, nonché a fornire maggiori incentivi allo sviluppo socioeconomico, non fu affatto facile da realizzare. Innanzitutto, si dovette provvedere a garantire l’esistenza, tramite riforme strutturali, delle giuste condizioni per agevolare l’incontro tra domanda e offerta di mercato. In breve tempo, il mondo ha potuto assistere all’ascesa del paese del dragone come potenza economica mondiale e attore primario nell’allocazione delle risorse. Le ragioni storico-economiche 6 • MSOI the Post

del radicale cambiamento di rotta del paese risalgono al 1949, anno in cui, sotto la guida di Mao Zedong e con la nascita dell’attuale Repubblica Popolare Cinese, la Cina stava attraversato un periodo di terrore e di profonda limitazione delle libertà, che avrebbe condotto a un’involuzione economica causata dal totalitarismo di stampo Marxista-Leninista di Mao. Le politiche del ‘Grande Balzo in Avanti’ tra il 1958 e il 1962, infatti, favorirono il passaggio da un sistema economico rurale, basato principalmente sull’agricoltura, a uno più moderno, basato in parte sull’industria e in parte sulla collettivizzazione delle risorse. Tali misure, però, finirono per rivelarsi disastrose tanto sul piano economico quanto su quello sociale. La trasformazione più profonda, tuttavia, ha come data d’inizio il 1978, con l’affermazione di Deng Xiaoping quale ‘leader supremo del Partito Comunista Cinese’. Dopo la sua visita a Singapore che, all’epoca, stava vivendo una fase di incredibile espansione e crescita grazie alle riforme politico-economiche attuate dalla famiglia Lee, il presidente cinese era rimasto così affascinato da rendere il modello della città-stato il principale riferimento per l’amministrazione cinese. Le politiche di Deng furono rivoluzionarie per la Cina comunista, segnando un cambiamento netto rispetto al pensiero Maoista: per la prima volta, venne introdotto il concetto di ‘politica delle porte aperte’. Inoltre, a partire dal 1979, fu concessa più libertà ai contadini nella gestione della terra e nella vendita dei prodotti agricoli sul mercato. Lo stesso avvenne nel settore industriale, all’interno del quale imprenditori pubblici e privati ricoprirono gradualmente un

ruolo di maggior peso. Deng aveva creato le succitate quattro ‘Zone economiche speciali’ (1980), Shenzhen, Zhuhai, Shantou e Xiamen, al fine di facilitare l’apertura al commercio e alle imprese estere che avessero voluto stabilirsi in Cina. Da lì in poi furono introdotte numerose riforme a livello strutturale, che avrebbero inciso sui settori di maggiore occupazione, quali quello manifatturiero e quello agricolo. Come ricorda Giovanni Caccavello su Il Sole 24 Ore, tra il ‘97 e il ‘98 iniziò un processo di privatizzazione su larga scala, contraddistinto dalla liquidazione o vendita di molte imprese statali. Tra il 2001, anno d’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), e il 2004, il numero delle imprese pubbliche era calato ancora del 48%. Contemporaneamente, i leader Jiang Zemin e Zhu Rongji avevano provveduto ad attuare la riduzione delle tariffe e l’eliminazione di alcune barriere commerciali, riformando anche il sistema bancario e smantellando parte del sistema di assistenza sociale di stampo maoista. I rappresentanti politici odierni puntano chiaramente sulla stabilità del paese come obiettivo fondamentale da raggiungere, nonché a un approccio incrementale attuabile grazie a una commistione tra le precedenti riforme interventistiche e quelle recenti del mercato globale. Dal 1978 al 2018, la Cina è passata dall’essere una delle economie più povere ed isolate, con un PIL pro capite di circa $160, a una vera e propria potenza economica, in grado di competere con gli Stati Uniti, con un PIL pro capite di oltre $8.830. Nonostante la prima fase di questa transizione non sia stata


semplice per molte imprese statali ad alta intensità di capitale, le quali si sono trovate in difficoltà nel competere in un mercato più ampio, nel giro di pochi anni, hanno saputo rovesciare la situazione e realizzare consistenti profitti. Negli ultimi 30 anni circa, infatti, il PIL è cresciuto a un tasso del 9,6%. Tralasciando il rallentamento registrato nell’ultimo periodo, tutto lascia immaginare a una notevole capacità espansiva ancora disponibile per il paese, che potrebbe classificarsi come la più grande economia in termini nominali perfino prima del 2030. La tranquilla marea rossa Questa significativa espansione in termini di ricchezza e relazioni commerciali ha un corrispettivo nell’atteggiamento cinese verso la politica estera. Se, all’epoca dei trattati di Tientsin del 1860, che posero fine alla seconda guerra dell’oppio, fu inaugurato quello che la storiografia cinese ha rinominato “secolo della vergogna e delle umiliazioni”, nel 1949, con la presa del potere da parte di Mao Zedong, il governo del paese virò decisamente la propria traiettoria geopolitica, a partire da un piano culturale e ideologico. Mao, infatti, promise che avrebbe restituito dignità alla Cina umiliata, permettendo così al popolo cinese di camminare a testa alta. Questo spirito di revanche ha animato per decenni la società cinese. Oggi, anche al netto degli sviluppi più tragici, sembra che gli obiettivi sanciti da Mao siano stati, se non del tutto, quasi totalmente raggiunti. Questo è stato possibile anche grazie all’implementazione di un determinato tipo di politica. In epoca post-Maoista, negli anni delle riforme portate avanti da Deng Xiaoping e degli eventi di piazza Tienanmen, la Cina ha

perseguito una politica estera di stampo molto moderato. La parola d’ordine era: “basso profilo”. Niente avventurismo militare, nessuna velleità di leadership nella comunità internazionale. Bisognava “preservare un ambiente internazionale favorevole allo sviluppo economico del paese”, come nota Giovanni B. Adornino del Torino World Affairs Institute in un documento per l’Osservatorio di Politica Internazionale. La Cina, fino a pochi anni fa, ha accuratamente evitato “azioni ad alto tasso di visibilità”, preferendo acquisire maggior peso decisionale nelle organizzazioni internazionali e puntando sull’importanza delle relazioni commerciali e degli investimenti diretti all’estero. La leadership di Xi Jinping potrebbe segnare una discontinuità con questo modello. L’obiettivo di Xi, continuando l’analisi di Adornino, sembra infatti quello di restituire alla Cina, entro il 2049, una “posizione centrale a livello globale”. La data non è casuale: nel 2049 ricorrerà il centenario dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Un orizzonte temporale simbolico. Gli esperti in materia tuttavia, ricorda l’autore, non

concordano su un punto: alcuni ritengono che i tempi siano maturi affinché la Cina assuma maggiori responsabilità nella determinazione dell’agenda internazionale, altri, invece, sostengono che Pechino non sia ancora pronta a sostenere gli oneri economici e politici di un nuovo protagonismo. Già nel 2014, l’ISPI, nella persona di Filippo Fasulo, evidenziava tre indizi che potevano significare un mutamento di passo in politica estera da parte della Cina: l’invio in Sud Sudan di un contingente di 100 uomini, nel contesto di una missione di peace-keeping dell’Organizzazione delle Nazioni Unite; un maggiore ruolo nel processo di pacificazione in Afghanistan, in particolare con l’organizzazione a Pechino di “un incontro dell’Istanbul Process, un meccanismo di cooperazione regionale formato da paesi mediorientali e centroasiatici”; infine, la discussione in atto nel 2014 presso l’Assemblea del Popolo di una bozza di legge contro il terrorismo, provvedimento che “conterrebbe la possibilità di autorizzare l’esercito e la polizia a effettuare operazioni di controterrorismo all’estero, dietro il consenso dei paesi

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interessati”. La Nuova Via della Seta Del resto, l’accrescimento dell’influenza internazionale della Cina è uno dei punti su cui si basa la retorica, proposta dai media, ma soprattutto dai politici cinesi, del ‘Sogno cinese’. In questo senso, una delle direttrici principali sia per giungere alla realizzazione del Sogno, sia all’aumento del peso internazionale della Cina è la Belt and Road Initiative. La BRI non è solo una policy: come la definisce Adornino, è una “narrazione-ombrello”,

sotto la quale si possono raccogliere politiche eterogenee. I prodromi della BRI possono essere rintracciati in due strategie elaborate dal Governo cinese fra il 1999 e il 2001. La prima è denominata ‘Grande sviluppo dell’Ovest del Paese’, finalizzata ad arricchire le regioni più povere dello stato; la seconda è la ‘Going global

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strategy’. Quest’ultima, come suggerisce la denominazione, ha l’obiettivo di accrescere l’internazionalità delle imprese cinesi al fine di aumentarne la competitività. Lanciata nel 2013, la BRI è una politica volta a collegare l’Estremo Oriente e l’Europa attraverso reti infrastrutturali fisiche (come quelle ferroviarie), finanziarie e digitali. Il giornalista Antonio Selvatici, in La Cina e la nuova via della seta (2018), afferma che la BRI sia uno strumento attraverso cui la Cina potrebbe conseguire alcuni obiettivi

tra l’altro, proprio dei paesi dell’area, che hanno formato un gruppo, “propenso ad accettare le buone offerte del Paese del Dragone”: si tratta del vertice degli stati dell’Europa Centrale e della Cina, meglio noto come 16+1. Kerry Brown, professore al King’s College, in L’amministratore del popolo. Xi Jinping e la nuova Cina (2018), evidenzia invece come la BRI possa consentire alla Cina di diversificare le vie di approvvigionamento delle risorse che le sono necessarie, bypassando lo Stretto di Malacca, facile da controllare per gli Stati Uniti.

strategici. Tra questi, quello di controllare le rotte commerciali nel Mediterraneo (Via della Seta marittima) e quello di raggiungere l’Europa centro-orientale. Quest’ultima, in particolare, secondo le previsioni cinesi, afferma l’autore, “diventerà il nuovo cuore manifatturiero dell’Europa”. Con il benestare,

Il libro di Selvatici prima citato reca un interessante sottotitolo: Progetto per un’invasione globale. Il giornalista sostiene infatti che la BRI possa essere un cavallo di Troia attraverso il quale la Cina realizzerà una “strisciante, condivisa e pacifica invasione”. Se, da un lato, può apparire forse esagerato sostenere che la


Cina stia attuando un piano neocoloniale, dall’altro, è senz’altro lecito affermare che stia implementando una politica estera espansiva, tramite modalità pacifiche e condivise. Pacifiche poiché Pechino, al momento, non sembra voler sottrarre agli Stati Uniti il ruolo di watchdog del mondo. Condivise perché larga parte della politica estera cinese (anche nell’ambito della BRI) passa attraverso la sottoscrizione, con gli stati partner, di accordi bilaterali che garantiscono vantaggi ad entrambe le parti contraenti. Si tratta, cioè, di accordi cosiddetti ‘win-win’. La Cina non cerca quasi mai intese con le grandi organizzazioni internazionali, come l’Unione Europea. Si rivolge direttamente ai paesi o ai gruppi con cui è interessata a contrattare, portando ai tavoli negoziali un peso economico senza dubbio maggiore rispetto a quello che avrebbe potuto far valere 20 o 30 anni fa. Questa strategia viene favorita, almeno nel Vecchio Continente, anche dall’ondata euroscettica che ha colpito l’Unione Europea da qualche anno a questa parte. In questo modo, sempre secondo Selvatici, la Cina si mostra maestra nell’applicazione del soft power. La politica estera condotta da Pechino condurrebbe le altre nazioni alla subalternità. Tuttavia, si tratterebbe di “una subalternità intelligente, che non soffoca lo stato oggetto d’attenzione”. La Cina è in grado di utilizzare il soft power per ottenere vantaggi politici su questioni che le stanno a cuore. L’essere il principale investitore a Panama ha portato ad esempio, nel 2017, il Governo panamense a interrompere le relazioni con Taiwan. Una nuova superpotenza?

L’acume e il vigore di Pechino le hanno permesso di capitalizzare negli anni su ardite combinazioni di politiche autoritarie e non, fino a guadagnarsi, se non il titolo, almeno la fama di superpotenza. Non per nulla, la Cina è impegnata nel confronto con il principe dell’egemonia tradizionale: le imprese americane considerano il mercato cinese, che contribuisce per oltre il 30% all’espansione annua del mercato globale, una fonte di guadagno irrinunciabile. La minaccia dell’espansione economica cinese e l’incremento della propria influenza, tuttavia, hanno portato gli USA a prendere provvedimenti protezionistici e a inserire altissimi dazi sui prodotti cinesi. La guerra commerciale intrapresa da Donald Trump non fa che peggiorare: come affermato nei suoi ultimi tweet, il presidente statunitense intende riscattare la federazione dal ruolo di “salvadanaio che tutti vogliono razziare e sfruttare”. L’Unione Europea, dal canto proprio, è alla ricerca un accordo con la Cina entro il 2020. Continuano le discussioni circa il 5G e la cybersicurezza, in vista di una maggiore coordinazione e del collegamento tra Via della Seta (BRI) e grandi rete di trasporto europee Ten-T. “L’UE e la Cina si impegnano a costruire la loro relazione economica sull’apertura, la non discriminazione e la concorrenza equa, assicurando un terreno di gioco paritario, trasparenza e basato su benefici reciproci”, come si legge nella bozza di dichiarazione congiunta UECina che riprende le richiesta fatte da Bruxelles a Pechino a tutela dell’industria e delle imprese europee. Nel frattanto, in Cina, aleggia

di ancora il ‘fantasma Tienanmen’: il sacrificio di studenti, giovani lavoratori, uomini e donne, resta un ricordo proibito. Quelli che all’estero vengono chiamati i ‘Martiri di Tienanmen’, per quanto nascosti dal Governo agli occhi dei cittadini, restano una testimonianza del fatto che un’alternativa all’autoritarismo esisteva e non necessariamente nella forma di una svolta occidentale, simile a quella che, poco dopo i giorni del massacro, portò al disgregamento dell’Unione Sovietica. La paura dell’effetto Gorbačëv, in effetti, ha spinto il PCC, ogni anno per 30 anni, a inasprire la censura e la repressione quando il 4 giugno si avvicina. Hong Kong, ex colonia britannica rientrata nella sfera di controllo cinese nel 1997, si trova oggi in quella fase di status autonomo della durata di 50 anni garantita ai tempi del riavvicinamento. In nome della formula ‘un sistema, due paesi’, la regione ha un proprio Parlamento e una propria opposizione politica, che non manca di far sentire la propria voce. In un momento in cui il Governo di Pechino stenta a rispettare il patto del ’97, con l’avvicinarsi dell’anniversario della Protesta di Tienanmen, centinaia di migliaia di persone si sono riversate per le strade chiedendo alla Cina di riconoscere le vittime del massacro. Attirando l’attenzione mediatica internazionale, Hong Kong ha fatto tremare i vertici del Partito, ancora una volta. È nello spirito di questi giovani che vive la speranza di quelli di Tienanmen, di tutti i giovani che si sono opposti ai mezzi blindati dell’autoritarismo con la loro perseveranza, i loro canti e la loro voglia di libertà

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Europa Occidentale Unione Europea e Cina: visione strategica unitaria e volontà nazionali Di Francesco Pettinari L’ascesa della Repubblica Popolare Cinese ad attore di primissimo piano da un punto di vista geopolitico, oltre che economico, è sempre più evidente. Dopo decenni di alta e costante crescita economica, che hanno permesso alla Cina di divenire il secondo paese al mondo per valori di PIL nominale, il colosso asiatico punta ora a far valere il proprio peso sul piano della politica internazionale, espandendo la sua sfera d’influenza ed aprendo nuovi scenari di dialogo (e contrapposizione) con le altre grandi potenze. Partendo da questi presupposti, anche l’Unione Europea si è mobilitata per elaborare una strategia , efficace che in un’ottica di medio-lungo periodo potesse fungere da cornice per i rapporti con l’ormai consolidata potenza asiatica. Il primo vero tentativo dell’UE di dotarsi di una visione strategica che guidasse le sue interazioni con la Cina risale al 2006, ma i profondi cambiamenti interni che i due attori hanno attraversato nella decade successiva hanno ben presto reso obsoleti gli originali presupposti per un’intesa. Pertanto, nel 2016 la Commissione Europea ha prodotto un nuovo report, intitolato Elements for a New Strategy on China, nel quale si identificano le principali aree in cui rafforzare o iniziare cooperazioni con la Repubblica Popolare Cinese, nonché i ‘principles of engagement’, ossia i principi cardine che regolino tali cooperazioni. 10 • MSOI the Post

Tra questi ultimi, il documento pone grande enfasi sulla necessità di utilizzare una “voce forte, chiara ed unificata” nei rapporti tra l’Europa e la Cina, sia nel caso in cui essi siano condotti direttamente dall’UE, sia nel caso in cui si sviluppino a livello bi- o multi-laterale. Al fine di vedere rispettati i principi e gli interessi economici comunitari, la Commissione Europea ha deciso di puntare sul peso specifico dell’UE nella sua unitarietà, cercando di evitare la situazione di ‘Davide contro Golia’ nella quale si troverebbero gli stati membri qualora agissero singolarmente. Nello specifico, se considerata come attore unitario, l’Unione registra valori di PIL nominale superiori a quelli cinesi, andando anche a occupare una porzione paragonabile per quanto riguarda il commercio internazionale sia in termini di importazioni sia di esportazioni. Tali livelli non sono neanche lontanamente avvicinabili dai singoli stati membri, nemmeno da quelli che presentano gli indicatori economici e demografici migliori. La necessità di agire come attore unitario nei confronti della Cina è stata riaffermata in un documento che la Commissione, con il contributo dell’alto rappresentante e vice presidente della Commissione Federica Mogherini, ha pubblicato lo scorso 12 marzo in occasione di una sessione plenaria del Parlamento Europeo a Strasburgo. Il breve documento (16 pagine in totale) intitolato EU-China: A Strategic

Outlook porta con sé un elemento di novità importante: per la prima volta in un documento la Cina viene ufficiale, descritta come “un attore che è, simultaneamente e in diversi ambiti, un partner col quale cooperare al fine di raggiungere obiettivi condivisi” e “negoziare quando gli interessi reciproci devono essere bilanciati”, ma anche un “competitore nella corsa alla leadership del settore tecnologico”, nonché un vero e proprio “rivale sistemico che promuove un modello di governance alternativo”. Pertanto, la Commissione Europea ha sottolineato la necessità di adottare un “approccio flessibile e pragmatico” comune che permetta tanto all’UE, quanto a quegli stati membri che dovessero intavolare relazioni bi- o multi-laterali con la Cina, di “difendere i propri interessi e valori”. Tuttavia, la recente visita del presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping a due Paesi fondatori dell’UE - Italia e Francia - tenutasi tra il 21 e il 26 marzo scorsi, ha dimostrato come trasporre questa volontà di creare un fronte comune in azioni concrete sia tutt’altro che semplice. Infatti, Italia e Francia hanno adottato approcci profondamente diversi nelle loro interazioni con la massima autorità politica cinese; si è denotata anche una diversa propensione ad avallare l’imponente Belt and Road Initiative (BRI), un’opera con cui la Cina mira a garantirsi vie di comunicazione e di commercio dirette con l’Europa ed il suo enorme mercato interno.


Europa Occidentale Una recente analisi dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) ha sostenuto che la BRI non sarebbe un progetto votato unicamente all’interscambio commerciale: Pechino è riuscita ad aumentare enormemente la propria influenza politica nell’area del sud-est asiatico e dell’Asia centrale tramite investimenti diretti in Paesi che hanno accettato la costruzione di quest’opera trans-continentale sul proprio territorio. Accettando gli investimenti cinesi, questi paesi hanno contratto debiti nei confronti della Cina che si trovano poi impossibilitati a saldare, se non con la cessione di lunghe concessioni di territori e altre infrastrutture. Il caso dello Sri Lanka, trovatosi costretto a garantire alla Cina la concessione del porto di Hambantota per 99 anni, è emblematico dei rischi connessi alla BRI. Inoltre, sempre secondo la già citata analisi ISPI, i mutui benefici in termini commerciali promessi da Pechino tramite la BRI sarebbero in realtà molto sbilanciati a favore dell’export cinese. Al suo arrivo a Roma, Xi Jinping è stato accolto da alte cariche istituzionali italiane tra cui il premier Giuseppe Conte e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Gli incontri tra i vertici dei due paesi sono risultati nella ratifica di un accordo commerciale per un valore complessivo di circa 2,5 miliardi di euro e, ancora più importante, nella firma di un Memorandum of Understanding sulla BRI, il quale dovrebbe favorire ingenti investimenti cinesi nel porto di Trieste. Benché quest’ultimo documento non abbia natura legale vincolante, la firma

italiana rappresenta un dato in completa controtendenza con la posizione da sempre tenuta dai vertici dell’UE e dalle principali economie europee, le quali non hanno mai risparmiato critiche e perplessità sulla natura dell’opera. L’Italia va dunque ad aggiungersi ai 13 stati membri dell’UE che avevano già ratificato simili accordi con Pechino, divenendo anche il primo paese del G7 ad avallare l’iniziativa. Ciò che unisce i paesi europei firmatari di tali accordi è la ricerca di investimenti mossa da necessità interne di stimolare la crescita economica. La Cina si è sempre dimostrata incline ad irrogare ingenti somme di liquidità nei paesi che firmano accordi simili, come accaduto ad esempio con Grecia e Portogallo all’indomani della crisi economica che, intorno al 2010, aveva afflitto questi Paesi in maniera particolarmente grave. Per contro, la visita del presidente Xi Jinping in Francia si è caratterizzata per la presenza congiunta del presidente francese Emmanuel Macron, della cancelliera tedesca Angela Merkel e del presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker. Questa peculiarità denota la volontà di Francia e Germania di guidare la politica estera europea, come già indicato dal Trattato di Aquisgrana, nonché la propensione dei due paesi a coordinare le proprie posizioni nei rapporti con la Cina, al fine di ottenere una posizione più favorevole in sede negoziale. L’approccio francese sembra aver dato frutti migliori rispetto a quello adottato dal governo di Roma, in quanto gli accordi siglati tra Macron

e Xi Jinping hanno un valore stimato intorno ai 40 miliardi di euro (di cui 30 saranno versati direttamente da Pechino per l’acquisto di velivoli dalla compagnia francese Airbus). Inoltre, le cooperazioni tra Parigi e Pechino sono state formalizzate tramite una dichiarazione molto meno stringente rispetto al Memorandum firmato dall’Italia e i tre leader europei presenti all’incontro hanno dichiarato di aspettarsi delle azioni concrete che vadano verso l’apertura totale all’economia di mercato da parte cinese, prima di avallare la costruzione della BRI. Come esplicitamente dichiarato da Angela Merkel, “gli europei vogliono giocare un ruolo attivo nella realizzazione della BRI”, purché “essa porti mutui benefici, ma su questo punto rimangono ancora diverse perplessità”. Ciononostante, le perplessità espresse dall’asse francotedesco e condivise dal presidente della Commissione Europea sembrano essere già state superate da almeno metà degli stati membri dell’Unione, i quali hanno sottoscritto accordi più o meno stringenti che li legano alla Cina. La volontà espressa dall’UE di creare un fronte unitario nei rapporti tra Europa e Repubblica Popolare Cinese sembra scontrarsi inevitabilmente con il volere dei singoli stati membri, che rimangono gli ultimi depositari del potere decisionale in materia. Questo potrebbe far definitivamente tramontare il progetto di Bruxelles di ‘parlare con una voce sola’ con Pechino, aprendo a contrattazioni bilaterali o multilaterali basate sulle volontà dei singoli paesi. MSOI the Post • 11


Europa Occidentale Le conseguenze per l’Europa della guerra hi-tech tra Stati Uniti e Cina

Di Alessio Vernetti Dal 2018, Stati Uniti e Cina hanno intrapreso una guerra commerciale lenta e insidiosa. I fatti hanno subito un’accelerata il 16 maggio scorso, quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un documento che vieta al colosso cinese Huawei e a 70 società a esso collegate di vendere ed installare le proprie infrastrutture negli Stati Uniti senza una specifica autorizzazione. L’azienda cinese, infatti, è tra le più importanti al mondo nel campo delle tecnologie relative alle telecomunicazioni, dai ripetitori per la telefonia mobile, compreso il 5G, alle apparecchiature per la gestione del traffico dati. Questi sistemi sono da anni utilizzati in Europa e in diversi altri paesi, ma non negli Stati Uniti. Il 1° giugno, la Cina ha risposto 12 • MSOI the Post

annunciando un aumento dei dazi per $60 miliardi sui beni statunitensi. Altrettanto pesanti potrebbero essere le conseguenze, pur indirette, per il Vecchio Continente. L’aumento dei dazi doganali tra Cina e Stati Uniti, infatti, ha avuto un impatto profondo sulle economie di entrambi i paesi, ma l’impatto è ormai visibile anche in molti paesi europei. Come è noto, gli USA e la Repubblica Popolare Cinese sono le due maggiori potenze economiche mondiali per prodotto interno lordo. Non è sorprendente, quindi, che quando la ‘guerra’ commerciale è stata ufficialmente dichiarata l’intera economia mondiale abbia avuto un sussulto. Ad esempio, giovedì 23 maggio scorso, Donald Trump ha accusato Huawei di avere legami con le autorità cinesi, le quali, a loro volta, hanno obiettato che fosse Washington ad aver intrapreso

una guerriglia nei confronti della multinazionale cinese. La Borsa di Parigi è calata dell’1,81%, e una tendenza simile si è registrata a New York e Hong Kong. In un’economia pienamente globalizzata, le maggiori economie nazionali hanno il potere di trascinare il resto del mondo. In questo contesto, quali prospettive potrebbe avere l’Unione Europea, se non dovesse riuscire a formulare soluzioni efficaci, che le permettano di assumere un ruolo di autonomia, se non a propria volta egemonico? Un esempio concreto della complessa realtà in cui l’Unione dovrà sapersi orientare è appunto il mercato di smartphone e sistemi operativi (OS). A breve potrebbe essere possibile, al momento dell’acquisto, scegliere tra un telefono 100%


Europa Occidentale americano, con un sistema operativo sviluppato negli Stati Uniti (Android o Apple, per non fare che un paio di esempi), un telefono 100% cinese, con un sistema operativo made in China, come Huawei si starebbe apprestando a fare, o, ancora, uno smartphone ‘ibrido’ come quello proposto da Samsung, LG, Acer e numerose altre marche. Ad oggi, tuttavia, un’alternativa pienamente europea non esiste. Non solo nessun sistema operativo europeo è mai stato reso disponibile sul mercato, ma tra i principali produttori di smartphone solo uno (il finlandese Nokia) ha sede in Europa. Il Vecchio Continente, nel frattempo, è diventato il campo di battaglia di questa guerra hi-tech tra superpotenze: secondo gli ultimi dati IDC

sulle vendite di smartphone nel primo trimestre 2019, Huawei è in fortissima crescita nella zona EMEA (ovvero Europa, Medio Oriente e Africa), facendo registrare un balzo in avanti sul dato annuale pari al 66,13%. Apple, al contrario, ha ceduto il passo in maniera significativa, segnando un calo nelle vendite del 22,73%. Il leader nell’area resta sempre Samsung, anche se mostra una contrazione del -6,82%. Occorre, però, osservare che il quadro fotografato da IDC non tiene ancora conto dell’impatto del bando subito da Huawei negli Stati Uniti. Sarà interessante osservare se questo altererà gli equilibri nella zona EMEA, con una possibile scelta europea di avvicinarsi ad uno dei contrapposti attori geopolitici. In Europa, comunque, tutto tace: neppure una parola su

questa guerra commerciale è stata spesa dalla commissaria Mariya Gabriel, delegata a Economia e Società Digitali. Men che meno si hanno notizie dall’ENISA, l’Agenzia Europea per la Sicurezza delle Reti e delle Informazioni, con sede ad Atene. Eppure si tratta di un settore, quello delle telecomunicazioni, cruciale per l’UE. In ogni caso, il divorzio tra Huawei e Google imposto dalla Casa Bianca lo scorso 16 maggio sta già suscitando preoccupazioni in milioni di utenti in tutto il mondo. Vedremo apparire nuovi sistemi operativi made in Europe? Questa è una tra le domande che l’Europa si deve porre oggi, per non subire in maniera ancora più forte le conseguenze delle decisioni di Trump e Xi.

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Medio Oriente e Nord Africa Le sanzioni contro la Siria: storia di una strategia che divide

Di Anna Nesladek “L’Unione Europea è il maggior donatore di aiuti umanitari alla Siria e alla regione. Dall’inizio del conflitto nel 2011, l’UE e i suoi stati membri hanno stanziato oltre €17 miliardi di aiuti. A partire dal 2011, il Consiglio ha adottato sanzioni nei confronti dei responsabili della violenta repressione contro la popolazione civile”. In queste frasi, tratte della pagina ufficiale del Consiglio UE, è riassunta lacontraddizionechedaannièinsita nella strategia dell’UE per la Siria: gli aiuti umanitari per la popolazione colpita dal conflitto, da una parte, e dall’altra delle sanzioni il cui unico risultato è probabilmente quello di inasprire le condizioni di vita di quella stessa popolazione civile vittima della guerra. La strategia dell’UE in Siria si articola su sei punti chiave: l’appoggio alla fine della guerra; il sostegno a una transizione 14 • MSOI the Post

politica inclusiva; l’attenzione ai bisogni umanitari delle fasce più deboli della popolazione; la promozione dei diritti umani, della democrazia e della libertà di espressione; il riconoscimento dei criminali di guerra e dei crimini da loro commessi; infine, il sostegno della resilienza della popolazione siriana. Le sanzioni rappresentano davvero la maniera più efficace per portare a termine questa strategia? Nel maggio del 2011, l’Unione approvò le sanzioni contro la Siria di Bashar al-Assad. Entrarono ufficialmente in vigore a partire dal 14 dicembre del 2011 e, da allora, vengono riesaminate annualmente. L’ultima volta, il 17 maggio 2019 il Consiglio ha prorogato le sanzioni fino al 1 giugno del 2020. Le sanzioni si ripercuotono su 269 persone fisiche, ritenute responsabili della repressione della popolazione

civile in Siria e/o sostenitori del regime. A queste viene impedito di viaggiare e i loro beni sono stati congelati. Non solo persone fisiche. Le sanzioni riguardano anche 69 enti, i cui beni sono stati bloccati. Inoltre, vi è un embargo sul petrolio; sono stati congelati i beni della banca centrale siriana nell’Unione Europea; infine, sono state applicate delle restrizioni sugli investimenti, sul commercio, sull’esportazione di armi che potrebbero essere usate per la repressione della popolazione e sulle tecnologie volte a monitorare le comunicazioni telefoniche. Gli Stati Uniti, che già prima dell’inizio del conflitto avevano imposto sanzioni a cittadini o enti siriani considerati legati al terrorismo e, in generale, ad azioni destabilizzanti in Medio Oriente, inasprirono le sanzioni dopo le rivolte del 2011. Le misure adottate dal Governo statunitense


Medio Oriente e Nord Africa

sono decisamente più aspre di quelle europee. Obama firmò un ordine esecutivo per il congelamento dei beni del Governo di Damasco, proibendo qualsiasi tipo di transazione tra cittadini nordamericani e il regime di Bashar al Assad. L’ordine impedisce, tra l’altro, agli statunitensi, di investire nel paese e ferma le importazioni di petrolio dalla Siria. Le sanzioni alla Siria sono quantomeno controverse. Le critiche provengono da vari fronti: secondo Elizabeth Hoff, rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la Siria, penalizzarebbero l’importazione di medicinali specifici, ostacolando le

compagnie farmaceutiche internazionali nel commercio con le autorità siriane e le banche straniere nella gestione dei pagamenti. Secondo Idriss Jazairy, relatore speciale sull’impatto avverso delle misure coercitive unilaterali delle Nazioni Unite, le sanzioni peggiorerebbero le già precarie condizioni di vita di parte della popolazione siriana. Infine, il Governo siriano stesso è estremamente critico nei confronti delle sanzioni, che avrebbero ripercussioni anche e soprattutto sui civili, e non solo sulle autorità militari e di governo. Né gli Stati Uniti, né l’UE hanno finora intenzione di revocare le sanzioni alla

Siria. Gli States non sembrano voler cambiare rotta nel breve periodo. Neanche Bruxelles ha intenzione di fare marcia indietro sulle sanzioni, almeno “fintanto che la repressione continuerà”. È indubbio che le sanzioni stiano avendo un effetto negativo sull’economia siriana: esse sono infatti in parte responsabili della forte diminuzione della produzione del petrolio in un paese fortemente dipendente dal commercio del greggio. Se questo saprà condurre a un cambiamento nella politica di Assad, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti del dissenso interno, è invece difficile da dimostrare.

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Medio Oriente e Nord Africa La Turchia: le contraddizioni di un paese stretto nella morsa economica

Di Giulia Galdelli La Turchia sembra non volersi apertamente allineare a livello internazionale. Tenendo un piede in Occidente e uno in Oriente, indispettisce gli Stati Uniti, corteggia la Cina e si scontra con la Russia. Sottoscritto a fine 2017, l’accordo sull’acquisto del sistema di difesa aerea a lungo raggio di produzione russa (S400) sta ormai per concludersi, nonostante le passate minacce e sanzioni da parte degli Stati Uniti. Nel frattempo, le stesse richieste statunitensi di ostacolare l’espansione cinese nella regione mediorientale non sono state accolte dalla Turchia, che anzi dialoga con Pechino, soprattutto sotto il profilo degli investimenti e del commercio. Nel marzo 2019, infatti, sono 16 • MSOI the Post

stati numerosi gli incontri tra i rappresentanti delle aziende turche e cinesi, riunitisi per discutere degli accordi bilaterali atti a incrementare il commercio e gli investimenti bilaterali. Negli ultimi anni, i legami economici tra i due paesi sono cresciuti notevolmente, con il governo di Ankara che mira a far aumentare ulteriormente gli investimenti cinesi in Turchia. La Cina, dal canto proprio, si è dichiarata disponibile a raddoppiare gli investimenti nel paese fino a raggiungere i 6 miliardi di dollari entro il 2021, secondo quanto asserito dall’ambasciatore del paese ad Ankara, Deng Li. In quella che era la culla dell’Impero Ottomano, vi sono oggi circa 1.000 aziende cinesi, impegnate soprattutto nei settori della logistica, dell’elettronica, dell’energia e del turismo.

In questo senso, nel 2018, si è registrato un significativo aumento del 60% del numero dei turisti cinesi in visita in Turchia, raggiungendo le 400.000 unità. Questo a conferma della proclamazione, da parte di Pechino, del 2018 quale anno del turismo in Turchia. Inoltre, notevoli vantaggi si sono registrati nel settore della finanza e in quello immobiliare, i quali traggono beneficio dagli accordi sulla Belt and Road Initiative (BRI), il visionario progetto lanciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013, che mira a costruire una cintura economica che collega strettamente la Cina all’Asia centrale e all’Europa, coinvolgendo complessivamente ben 65 paesi. Alla luce di questi accordi commerciali bilaterali, si potrebbe immaginare un


Medio Oriente e Nord Africa allineamento al fronte cinese pressoché totale. La realtà, tuttavia, è più complessa. In questo quadro è infatti opportuno considerare un altro attore principale: l’Iran. Ankara si è defilata dal fronte anti-ayatollah che l’amministrazione Trump ha cercato di istituire, con il sostegno degli alleati. L’intento è quello di aggirare le sanzioni statunitensi, come dichiarato da ambo le parti durante la visita in Turchia del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif di metà aprile scorso. I due paesi stanno negoziando la creazione di un sistema di pagamenti alternativo che permetta di rafforzare il commercio bilaterale senza subire le ingloriose sanzioni occidentali. Da quanto aleggia tra i corpi diplomatici mediorientali, inoltre, un

accordo ‘siracheno’ con la Repubblica Islamica non è da escludersi, indipendente dagli statunitensi ed eventualmente contro gli interessi delle potenze occidentali. Tuttavia, affermare che la Turchia si stia schierando con l’Iran e l’Eurasia russocinese sarebbe avventato e poco avveduto. Alla luce degli accordi conclusi e discussi in precedenza, la Turchia non possiede quella libertà d’agire cui anela. Dopo la rinnegazione della rivoluzione kemalista, gli eredi di Atatürk, nel 1952, scelsero di aderire alla NATO, consegnando il loro destino all’Atlantico. Frattanto, ad oggi, la situazione economica della Turchia è piuttosto infausta. L’alta disoccupazione, l’elevata

inflazione, il diffuso pessimismo dei consumatori, insieme alla debolezza della valuta, hanno contribuito a devastare la già fragile economia turca. In questo contesto, le pressioni politiche interne e internazionali sono esasperate, anche alla luce dell’annullamento del risultato elettorale per la nomina del sindaco di Istanbul e del già citato accordo per l’acquisto dei missili dalla Russia. Il presidente Erdogan, tuttavia, si è rifiutato di ascoltare le grida della comunità imprenditoriale che ha esortato ad ampi cambiamenti politici -, e ha ignorato i consigli degli economisti mainstream. Al contrario, egli ha inneggiato alle cospirazioni straniere quali cause dei gravi problemi economici del paese.

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America Latina e Caraibi L’America Latina nella guerra commerciale USA-Cina

Di Marcello Crecco La guerra commerciale lanciata da Donald Trump contro la Cina è uno dei principali fattori di instabilità nell’ordine economico mondiale. L’inasprimento dei dazi e le conseguenti tensioni stanno mutando profondamente gli equilibri geopolitici regionali. Gli Stati Uniti ricoprono il ruolo di superpotenza militare e tecnologica, in particolare nel controllo mondiale dei cablaggi Internet (Limes). Proprio su quest’ultimo punto stanno nascendo le maggiori tensioni tra i due giganti dell’economia 18 • MSOI the Post

mondiale: Trump, infatti, ha imposto pesanti restrizioni al colosso cinese Huawei, secondo produttore mondiale di smartphones. Queste forti tensioni nello scenario globale hanno avuto ripercussioni anche nella regione latino-americana, storicamente molto sensibile alle decisioni del vicino settentrionale. Inizialmente, la guerra commerciale era stata accolta con tiepido ottimismo: si sperava che gli Stati Uniti avrebbero colmato lo spazio lasciato dall’import cinese, acquistando dai paesi a sud del continente. Tuttavia, come sottolineato dal Centro

Estratégico Latinoamericano de Geopolítica (CELAG), ciò è avvenuto solo in piccola parte e ha eccessivamente indebolito le economie locali, ancora troppo legate alla valuta statunitense. Per esempio, una settimana dopo l’annuncio dell’introduzione dei nuovi dazi, il prezzo della soia si è contratto del 4,5% danneggiando l’economia argentina e brasiliana. A sua volta, anche il rallentamento dell’economia cinese sta creando tensioni nello spazio economico latinoamericano, essendo il gigante asiatico uno dei principali acquirenti di materie prime


America Latina e Caraibi

della regione. La guerra commerciale ha quindi messo in evidenza le fragilità del sistema economico latinoamericano, quali la scarsa produzione di beni ad alto valore aggiunto e l’eccessiva dipendenza dall’economia statunitense e cinese. Gli effetti dell’iniziale shock per la guerra commerciale potrebbero essere attenuati con una ricerca di nuovi partner, in particolare altri paesi in via di sviluppo, proponendo un modello commerciale di complementarietà. Oltre alla Cina, si guarda senza dubbio all’India, la cui crescita economica nel 2018 si è attestata sul 7% (con picchi dell’8% nel 2015 e l’8,1% nel 2016). Il secondo gigante asiatico dovrebbe diventare, secondo le proiezioni OCSE, la seconda economia del mondo entro il 2060. Vi sono poi giganti demografici come la Nigeria

(200 milioni di abitanti) e l’Indonesia (270 milioni), che stanno assurgendo al ruolo di attori regionali pronti ad intermediare con le potenze globali. Una menzione particolare va dedicata alla Turchia, altro mercato emergente, che negli ultimi anni sta sviluppando una crescente rete commerciale con la regione latino-americana, complice anche il mutamento delle alleanze geopolitiche in atto. Nel solo 2017, la bilancia commerciale ha registrato un surplus in favore dell’America Latina di circa 4 miliardi di dollari. Sono dunque numerosi i mercati emergenti che potrebbero creare opportunità per le economie latino-americane, anche se al momento i flussi commerciali con i suddetti paesi occupano volumi irrisori. Non tutte le economie latinoamericane risentiranno però

delle tensioni commerciali. La BBC cita ad esempio il caso del Messico, storicamente sospeso tra l’America anglosassone e quella latina. La tensione commerciale con la Cina, infatti, ha spinto Trump a ritirare alcuni dazi imposti precedentemente a Canada e Messico su acciaio e alluminio, in cambio della soppressione del NAFTA (accordo di libero scambio del 1994 tra i tre Paesi) e la ratifica di un nuovo accordo siglato nel 2018 (USMCA). I dati della presenza messicana nell’economia statunitense sono incoraggianti: nel primo trimestre 2019, la presenza nel mercato dell’import statunitense è passato dal 13,5 al 14,5%, mentre quello cinese è calato dal 21% al 17,7% rispetto all’anno precedente. Sempre di più spesso, chi vuole evitare di cadere nella trappola del conflitto doganale tra Stati Uniti e Cina, sposta dunque la propria produzione nel paese latino-americano. È questo il caso, ad esempio, del colosso cinese Fuling Global e della statunitense GoPro, i quali apriranno poli di produzione a Monterrey e Guadalajara. La guerra commerciale messa in atto da Trump e ricambiata aspramente da Xi Jinping sta creando profonde spaccature all’ordine economico mondiale, provocando fenomeni di regionalizzazione e polarizzazione. L’ascesa di un ordine multipolare sembra ormai inevitabile; l’America Latina dovrà trovare nuove strategie commerciali e cogliere le opportunità offerte dal mutato scenario geopolitico.

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America Latina e Caraibi Elezioni in Argentina: “neo-peronismo” contro neoliberismo

Di Davide Mina Il prossimo 27 ottobre gli argentini saranno chiamati alle urne per eleggere il successore di Mauricio Macrí alla presidenza del paese. Dopo la lunga la presidenza del Boca Juniors, Macrí aveva portato Cambiemos (Cambiamo), la coalizione di centro-destra fondata per sostenere la sua candidatura, alla vittoria delle presidenziali del 2015. La promessa era che il neoliberismo e l’austerità avrebbero risanato i conti pubblici in rosso. La vittoria fu inaspettata: era il primo 20 • MSOI the Post

Presidente della Repubblica non appartenente all’area di centro né a quella peronista. In quel periodo la presidentessa uscente, Cristina Kirchner, era coinvolta in un’inchiesta giudiziaria che determinò un forte calo dei consensi nei suoi confronti e che portò al tracollo del Partido Justicialista (Partito Giustizialista) e, più in generale, della sinistra neo-peronista. Durante le elezioni di metà mandato del 2017 Macrí e la sua coalizione ottennero un’altra importante vittoria, che scoraggiò il ritorno in politica della Kirchner. Tuttavia, quando una nuova crisi nera investì l’Argentina e lo scandalo

Panama papers travolse Macrí, una sequela di successi alle elezioni locali riaccese in Cristina Kirchner la speranza di avviare una ripresa politica. La recente crisi dei consensi verso Macrì è tangibile nella sconfitta elettorale della coalizione di centro-destra alla prima fase, conclusasi domenica 9 giugno, delle elezioni provinciali di quest’anno, che lasciano presagire una nuova futura sconfitta. L’esecutivo di Cambiemos si scontra con una situazione economica complicata, la quale rappresenta la principale causa della sconfitta


America Latina e Caraibi elettorale. Gli argentini vivono nel timore che la situazione economica possa peggiorare ulteriormente a causa di un possibile intervento del Fondo Monetario Internazionale, alla luce della grande crisi argentina patita a partire dagli anni ‘90. Così le iniziali promesse di Macrì di risollevare il paese da una situazione economica difficile, che lo avevano portato alla vittoria, oggi hanno perso attrattiva. Nel 2015 la leader del PJ, Cristina Kirchner, aveva lasciato dietro di sé un’inflazione impazzita, seconda al mondo solo a quella del Venezuela. L’indebolimento della propria reputazione politica, insieme alle vicende giudiziarie in cui era stata coinvolta, avevano certamente rafforzato il ruolo politico di Macrì. La Kirchner, infatti, è ancora oggi imputata in 11 processi, con cinque mandati di arresto preventivo che pendono sulla stessa. Indubbiamente, si tratta di un fardello politico pesante; tuttavia,

giuridicamente innocuo grazie all’immunità parlamentare di cui gode. Le accuse spaziano dall’ arricchimento personale illecito, attraverso presunti soldi nascosti e riciclaggio, allo scandalo di un finanziamento segreto della campagna elettorale da parte dell’allora presidente del Venezuela Hugo Chavez. Ad oggi, però, la situazione sembra essersi capovolta: la Kirchner ha annunciato la pubblicazione, a sorpresa, del libro dal titolo “Sinceramente”, presentato il 9 maggio scorso alla Fiera del Libro di Buenos Aires e rivelatosi un best seller con 300.000 copie vendute solo in Argentina. La frase contenuta nel suo libro “Macrí è il caos e per questo credo fermamente che bisogna tornare a mettere ordine in Argentina”, può essere letta quale una dichiarazione di guerra politica contro l’attuale Presidente. Per il ritorno

New York Times il politico di Cristina

Kirchner è collegato ad una preoccupante crescita del populismo. In questo senso, il quotidiano statunitense titola: “La povertà dell’Argentina potrebbe riportare il populismo nel Paese”. Lo stesso presidente brasiliano Jair Bolsonaro si è mostrato preoccupato dalla crescita dei consensi verso la Kirchner. Interrogato sulla situazione venezuelana, ha dichiarato: “Sappiamo delle difficoltà che ci sono perché il Venezuela torni alla normalità, ma più importante che fare un goal è evitare di prenderlo, il che avverrebbe se l’Argentina tornasse in mano alla Kirchner”. Secondo un sondaggio realizzato dalla Celag tra aprile e maggio scorsi, Cristina Kirchner vanta il 36,6 % delle preferenze, contro il 24,9 % di Macri. A quest’ultimo, quindi, rimangono meno di cinque mesi per recuperare terreno nella corsa alle presidenziali. Ma il presidente argentino, nonostante i pochi consensi, è consapevole della divisione interna all’opposizione. Infatti, secondo il medesimo sondaggio, i primi quattro partiti per consensi sono, ad eccezione di Cambiemos, tutti peronisti, ma collocati in coalizioni tra loro antagoniste. L’area della sinistra peronista, invece, alleata all’interno della Unidad ciudadana (Unità cittadina), racchiude 12 partiti con ideologie tra loro differenti, che spaziano dal Kirchnerismo al socialismo e al marxismo-leninismo. Macri dovrà dunque impegnarsi per invertire la tendenza in atto. In caso contrario, il prossimo 9 dicembre lascerà la Casa Rosa e l’Argentina saluterà definitivamente la politica del risanamento dei conti e dell’austerità. MSOI the Post • 21


Asia Orientale e Oceania La riforma di Hong Kong sull’estradizione polarizza i poteri mondiali

Di Rebecca Carbone In cinese, il verbo ‘estradare’ è reso con l’espressione yǐndù, composta da due morfemi, rispettivamente con il significato di ‘guidare’ e ‘attraverso’. Alla base, conserva perciò poco del carattere autoritativo derivante dall’etimologia latina, ex-tradere, consegnare al di fuori. Si può, quindi, con lo stesso termine condannare qualcuno all’espatrio e accompagnarlo fuori da un labirinto. L’ambivalenza di un termine, oltre a porsi come linguisticamente eclettico, simboleggia lo spartiacque tra le visioni opposte sulla legge in tema di estradizione, in discussione da aprile nel Consiglio Legislativo, abbreviato solitamente in LegCo, della Regione ad amministrazione speciale di Hong Kong. 22 • MSOI the Post

Nel 1984, la Repubblica Popolare Cinese e il Regno Unito firmarono un trattato bilaterale denominato Dichiarazione congiunta sino-britannica, che pose fine, dopo 156 anni, al dominio inglese sul territorio di Hong Kong. Nel 1997, la sovranità di quest’ultimo venne trasferita definitivamente alla Cina, sotto un regime di autonomia particolare della durata di cinquant’anni. Questa soluzione, raggiunta durante le trattative, fu definita dall’allora presidente Deng Xiaoping, “un Paese, due sistemi”, per rappresentare l’indipendenza totale di Hong Kong, esclusi gli ambiti degli affari internazionali e della difesa. Consequenzialmente, la regione ha da allora un proprio governo, un proprio organo legislativo e proprie corti di giustizia. Tale

situazione

di

autodeterminazione, però, potrebbe essere lesa consistentemente dal disegno di legge sull’estradizione proposto dal Governo centrale nel febbraio scorso, poi approdato al LegCo a fine aprile. In particolare, il decreto prevede la possibilità, da parte dell’esecutivo, di consegnare soggetti sospettati di aver commesso un crimine a giurisdizioni con le quali Hong Kong non ha, né formalmente né sostanzialmente, accordi preliminari in termini di estradizione, quali Cina e Taiwan. La miccia scatenante il dibattito, culminato nella proposta di legge, ha avuto origine proprio dall’impossibilità di estradare un ragazzo che, dopo aver commesso un omicidio a Taiwan nell’estate del 2018, è poi rientrato a Hong Kong. Questo drammatico episodio è


Asia Orientale e Oceania stato utilizzato come esempio si è potuta svolgere senza per evidenziare la necessità e che l’esercito intervenisse, in l’urgenza di un ampliamento quanto Hong Kong è l’unica della materia in questione. porzione di territorio cinese Il timore, però, che questa legge in cui è consentita la libertà possa minare l’indipendenza piena di espressione e la di Hong Kong e cedere al commemorazione delle proteste potere strumentale della Cina di piazza Tiananmen del 1989 è talmente alto che persino (vietate nel resto del paese e, Taiwan ha affermato che soprattutto, a Pechino). potrebbe non collaborare se la proposta venisse portata Anche gli Stati Uniti e avanti. Il ministro della Giustizia al’ufficio dell’Unione Europe taiwanese ha dichiarato: “È presso Hong Kong e Macao indispensabile che questo hanno espresso le loro caso venga separato dalla perplessità nei confronti della legislazione per evitare che nuova norma. Il segretario di una cooperazione giudiziaria stato degli Stati Uniti, Mike si intrecci con i problemi Pompeo, ha dichiarato: “La puramente politici”. legislazione proposta minaccia Inoltre, sussisterebbe una l’autonomia di Hong Kong, che problematica non indifferente invece dovrebbe promuovere di retroattività della legge la ormai consolidata qualora fosse applicata alla protezione dei diritti umani, vicenda taiwanese, dovendo delle libertà fondamentali e includere quindi una deroga dei valori democratici garantiti speciale. dalla Basic Law”, cioè la piccola Costituzione alla base La tensione tra i due partiti pro- dell’ordinamento di Hong Kong. Pechino e pro-democratici In risposta all’esposizione dell’organo legislativo degli Stati Uniti nelle vicende hongkonghese è esplosa a metà narrate, il portavoce del maggio, quando le due fazioni, Ministero degli esteri cinese, non sapendo più esprimere Lu Kang, ha controbattuto che, le proprie contraddittorietà invece, la legge in discussione verbalmente, hanno usato aiuterebbe Hong Kong a la violenza per togliersi la sviluppare meglio accordi sui parola a vicenda in aula. Un fuggitivi e sull’assistenza legale membro dell’opposizione è stato reciproca con gli altri paesi, così trasportato fuori dai soccorsi da combattere la criminalità e dopo essere caduto dai banchi, garantire lo stato di diritto. nel tentativo di strappare di mano il microfono a un Si rileva, quindi, il ruolo cruciale esponente conservatore. che questa nuova fattispecie L’astio verso la riforma non normativa ricopre sulla scena ha coinvolto solo i membri del mondiale: diverse interviste LegCo, ma anche i cittadini effettuate dal Washington comuni, che hanno marciato di Post evidenziano che la fronte al palazzo del LegCo per preoccupazione generale protestare. Decine di migliaia dei cittadini di altri stati deriva di persone riunite in una delle dalla possibilità di diventare più grandi manifestazioni ostaggi potenziali delle della metropoli dalla storica pretese di estradizione cinesi, ‘rivoluzione degli ombrelli’ guidate unicamente dall’agenda del 2014. Manifestazione che a carattere politico di Pechino.

Dopo gli avvenimenti dello scorso mese, la seconda lettura della proposta è stata interrotta e riprenderà il prossimo 12 giugno. Infatti, affinché una proposta diventi concretamente legge deve passare attraverso tre separate letture, ma ha bisogno solamente di una maggioranza semplice, cioè 35 voti, per essere approvata, poiché il Consiglio Legislativo è un corpo unicamerale composto solo da 70 membri. L’esito sulla possibile approvazione è incerto proprio per via degli schieramenti che sono andati formandosi; soluzioni intermedie, soprattutto dall’opposizione, vengono plasmate con il sostegno dell’ordine degli avvocati e delle corti di giustizia. Esempio in tal senso è la possibilità per i sospettati trasferiti per il processo in Cina di scontare la pena a Hong Kong e di permettere l’estradizione solo per i reati che comporterebbero dai sette anni di reclusione in su. L’attuazione della normativa, in conclusione, non riguarderà solamente i problemi interni e triangolari tra Taiwan, Hong Kong e la Cina, bensì coinvolgerà numerosi altri stati preoccupati per i propri cittadini residenti. Le tensioni con gli Stati Uniti, già palpabili sul piano commerciale, si estenderebbero così al campo del diritto. D’altro canto, con paesi finora rimasti neutrali, quali il Canada e gli stati membri dell’UE, si creerebbero argomenti di contrasto non indifferenti.

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Asia Orientale e Oceania La Corea del Nord e le pubbliche esecuzioni

Di Rebecca Carbone

media internazionali.

“Senza giustizia, la pace rimane un’illusione”. Con queste parole, l’alto commissario per i diritti umani alle Nazioni Unite, Michelle Bachelet, ha concluso il suo discorso in un videomessaggio il 15 aprile 2019. Con queste stesse parole il Transitional Justice Working Group (TJWG), un’organizzazione non governativa di sede a Seoul, ha aperto la relazione pubblicata a giugno e intitolata “Mapping the fate of the dead killings and burials in North Korea”.

Il documento è stato realizzato intervistando, nel corso di quattro anni, 610 dissidenti nordcoreani, di età variabile, di cui l’80% di sesso femminile. Le testimonianze sono state fondamentali per identificare i luoghi in cui vengono svolte le esecuzioni pubbliche e gli omicidi commissionati dallo stato, ma essi sono stati effettivamente rintracciabili solo grazie all’uso delle immagini satellitari geolocalizzanti i siti riferiti dagli intervistati , insieme all’applicazione della tecnologia geographic information system, un sofisticato sistema informatico che acquisisce i dati e li analizza.

Il TJWG è stato fondato nel 2014 da sostenitori e ricercatori dei diritti umani provenienti da cinque stati diversi e, da allora, mira ad affrontare le gravi violazioni inflitte in questa fragile area della sfera giuridica soggettiva e a ottenere giustizia per le vittime utilizzando mezzi avanzati. Quest’ultima relazione segue il fil rouge che, già due anni fa con la divulgazione della mappatura dei crimini contro l’umanità in Nord Corea, l’ONG aveva inserito nella cruna dell’attenzione dei 24 • MSOI the Post

I luoghi individuati sono stati divisi in tre categorie, in base all’impiego che ne viene fatto: luoghi delle esecuzioni, luoghi in cui vengono disposti i corpi, luoghi che ospitano documenti e altre informazioni relative agli omicidi. In totale, sono stati rinvenuti 323 siti in cui sono stati perpetrati omicidi ordinati dallo stato e

318 siti di esecuzioni pubbliche, tutti riferiti da testimoni diretti. Statisticamente sono privilegiate vaste aree all’aria aperta, come letti o rive dei fiumi, colline, montagne o persino piazze di mercati, campi sportivi o scolastici. Dalle centinaia alle migliaia di persone sono costrette a partecipare alle uccisioni: l’83% degli intervistati è stato forzato ad assistere e il 53% addirittura più di una volta. Nonostante la presenza della popolazione locale sia imposta, le agenzie statali utilizzano moderni rilevatori per assicurarsi che i cittadini non registrino né su telefoni cellulari né su videocamere, a dimostrazione della sensibilità che lo stato nutre nei confronti dell’opinione pubblica globale e della volontà di preservare a livello internazionale un’immagine il più possibile positiva sulla questione dei diritti. Le accuse più spesso citate per la pena di morte includono, in ordine decrescente: l’omicidio o il tentato omicidio, furto di


Asia Orientale e Oceania rame, traffico di esseri umani, furto di mucche o altra tipologia di bestiame e altre attività contro lo stato, come guardare la televisione sudcoreana o oltrepassare illegalmente i confini sino-coreani. Tuttavia, data l’assenza di un giusto processo nel sistema giudiziario nordcoreano, è difficile verificare la compatibilità della accuse pronunciate con gli atti effettivamente commessi. Infatti, le testimonianze riportano che, immediatamente prima dell’esecuzione pubblica, avvengono dei brevi processi dove viene pronunciata una sentenza senza giudici presenti e senza consulente legale per l’accusato, che molto spesso viene trascinato dalle autorità già in condizioni fisiche deteriorate. Sono gli ufficiali del Ministero della sicurezza popolare e, talvolta, quelli del Ministero della sicurezza statale, a pronunciare le accuse e la sentenza. Inoltre, molte interviste hanno enfatizzato come il songbun di una persona accusata, cioè la sua posizione all’interno della società assegnato direttamente dalla Corea del Nord, possa influenzare il tipo di pena inflitta. Conseguentemente, accuse minori più facilmente possono portare alla pena di morte se il soggetto appartiene a una classe sociale inferiore. Non

mancano, però, casi di ufficiali di alto livello condannati: nel 2013 Jang Song-thaek, lo zio del capo di stato Kim Jong-un, fu accusato per tradimento e ucciso. La maggior parte delle esecuzioni avviene per fucilazione, includendo tre tiratori scelti che sparano tre colpi ciascuno al condannato. Alcuni intervistati hanno affermato che, in svariate occasioni, gli incaricati di eseguire l’omicidio sembravano essere in stato di ebbrezza per “la difficoltà emotiva che uccidere richiede”. Sono stati registrati anche casi minori di impiccagione in tempi meno recenti. Al 16% dei partecipanti alla ricerca è stato ucciso un familiare dal regime nordcoreano, mentre il 27% ha avuto almeno un membro della famiglia tra le vittime di ‘sparizione forzata’. Non sono infatti rari i casi di persone scomparse scambiati per omicidi, come accadde nel 2013 con la famosa cantante nordcoreana Hyon Songwol riportata morta dai media sudcoreani e riapparsa nel 2018 come parte della delegazione della Corea del Nord alle Olimpiadi invernali di Seoul. Riguardo la seconda tipologia di luoghi sopra indicati, i siti in cui vengono deposti i corpi sono

complessivamente 25. Una delle problematiche più rilevanti riguarda l’impossibilità delle famiglie di seguire le tradizionali pratiche di sepoltura, poiché alle stesse non è concesso di riavere la salma né di conoscere il luogo di interramento. A tal proposito, l’autrice principale della relazione, Sarah A. Son, ha dichiarato: “L’inabilità di accedere alle informazioni sulla posizione di un familiare ucciso dallo stato e l’impossibilità di concedergli una degna sepoltura viola sia le norme culturali che il diritto di sapere”. A cinque anni dalla relazione della Commissione d’inchiesta sui diritti umani in Corea del Nord redatta dalle Nazioni Unite, la responsabilità per gravi violazioni dei diritti umani rimane elusiva e, durante i vertici di alto livello tra le due Coree e gli Stati Uniti, i riferimenti su tali questioni sono stati inconcreti. Proprio per la notoria difficoltà di dialogo sulle suddette tematiche sensibili e di verifica degli effettivi accadimenti, questi studi restano vitali per continuare a monitorare e a registrare la diffusione degli abusi e dei crimini contro l’umanità.

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Economia e Finanza Il futuro dell’Europa è nella cashless economy?

Di Vittoria Beatrice Giovine “Qui non si accetta moneta” sta scritto su una delle sempre più numerose insegne che si trovano sulle vetrine delle attività commerciali in diversi paesi europei ed extra-europei. A cominciare da Svezia, Danimarca, Norvegia e Regno Unito, fino ad arrivare alle principali economie emergenti quali Cina e India, il futuro del denaro contante sembra inevitabilmente segnato. La Svezia è stato il primo paese dell’Unione europea a registrare un utilizzo del contante pari solo al 13% delle transazioni nel corso del 2018. Applicazioni come Swish sono diventate in breve tempo molto utilizzate, 26 • MSOI the Post

cosicché anche il pagamento dei servizi più comuni, un taxi ad esempio, avviene ormai esclusivamente tramite l’utilizzo delle carte di credito. All’interno del paese, circa l’85% della popolazione ha facilmente accesso all’online banking. Le altre nazioni menzionate sopra, dal canto loro, hanno da tempo deciso di emulare l’esperimento svedese, istituendo sempre più frequentemente ‘free cash zones’. In Cina, circa 525 milioni di persone fanno affidamento su sistemidimobilepayment,mediante applicazioni come WeChat e Alipay, oppure codici QR: questi ultimi permettono di collegare il proprio IBAN, numero di conto, dati personali e molto

altro a una semplice scansione via cellulare. Analogamente, in India, fin dal novembre 2016, il primo ministro Narendra Modi ha incoraggiato il passaggio a sistemi di pagamento più moderni al fine di limitare l’utilizzo dei contanti. Anche l’Australia si è dichiarata a favore di una transizione del paese a un sistema totalmente privo di moneta entro il 2022. Secondo quanto riportato dallo studio di Tanai Khiaonarong e David Humphrey, effettuato lo scorso anno per il Fondo Monetario Internazionale, su un campione di 11 paesi considerati, nei prossimi dieci anni la quota del contante utilizzato andrà calando dell’1,4% su base annua. Il


Economia e Finanza trend è determinato non solo dall’avanzamento tecnologico, ma anche dal cambiamento demografico. Infatti, secondo il FMI, le nuove generazioni risulterebbero meno propense all’uso del contante. Inoltre, il Cashless Society Speedometer 2019 (CSS 2019) ha segnalato come ‘best performer’ europei proprio Svezia, Danimarca e Regno Unito, ovvero i tre paesi che hanno più probabilità di raggiungere la totale assenza di moneta entro il 2025. Quanto all’Italia, il nostro paese appare ancora molto arretrato in rapporto ai principali concorrenti in Europa. Come nota Alessandro Plateroti per Il Sole 24 Ore, Roma si colloca infatti al trentaduesimo posto per incidenza del contante sul valore del PIL, stando a quanto riportato dal Cash Intensity Index. In base a quanto stimato nel CSS 2019, l’Italia registrerebbe un punteggio di 8,0 rispetto a 8,4 ottenuto l’anno precedente - mostrando un notevole rallentamento rispetto ai best performer europei. I numeri parlano chiaro: l’Italia si trova in una posizione retrograda poiché l’86% delle transazioni in termini di volume e il 68% in termini di valore avviene ancora tramite contante. Attualmente,

il Bel Paese conta 1.600 imprese facenti parte dell’ecosistema dei servizi digitali, per un totale di circa €11,7 miliardi di fatturato. Eppure, una transazione europea nonché mondiale alla cashless economy è auspicabile sotto molti punti di vista: all’interno della filiera mondiale dei pagamenti, questa si presenta non solo come un notevole passo in avanti nello sviluppo della catena del valore sottostante le transazioni elettroniche, ma anche come una valida risorsa nel contrasto ad alcuni fenomeni quali evasione fiscale, circolazione di denaro in nero, attività illecite e criminalità. Il futuro dell’Europa risiede davvero in una società priva di moneta? Per quanto sia ancora presto per dare una risposta certa a questo interrogativo, gli esperimenti del Nord Europa sembrano fornire un forte incentivo verso una rapida transizione ai pagamenti digitali, anche se resta da chiarire quanto i suddetti nuovi sistemi possano assicurare la protezione dei dati sensibili online. Molti si domandano quale sia il vero grado di sicurezza di queste tecnologie e diffidano da quella che sembrerebbe una totale

negazione della propria privacy finanziaria. Esiste, infatti, anche il rovescio della medaglia, e di questo bisogna tenere conto prima di trarre conclusioni affrettate. Laddove si possono trovare maggiore comodità e velocità di pagamento, nonché una riduzione dei disagi legati alla criminalità e all’evasione, si possono anche vedere sorgere nuovi timori concernenti i sempre più frequenti attacchi da parte di hacker, oppure i problemi tecnici dei service provider, o ancora il furto di dati sensibili e informazioni riservate. Inoltre, l’assenza di denaro contante determinerebbe la subordinazione del potere decisionale dei singoli individui a quello di operatori terzi nel mercato. Quella cashless sembrerebbe la più naturale evoluzione di una società iper-tecnologica, ma come unico risultato certo, per ora, ha prodotto la polarizzazione tra paesi a favore e altri ancora troppo titubanti. Si tratterebbe di un cambiamento radicale, insomma, e come tale non deve sorprendere che i tempi di piena implementazione siano oltremodo dilungati, ma il futuro dei sistemi di pagamento è chiaramente online.

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Economia e Finanza Trent’anni da Piazza Tienanmen: tra guerra commerciale e strategie per il futuro

Di Rosalia Mazza Il 4 giugno 2019 è ricorso il 30o anniversario dalle proteste di Tienanmen: i manifestanti invocavano riforme politiche, sociali ed economiche, denunciando le forme di repressione messe in atto dal Governo cinese. Si trattò di un episodio tragico, poiché molte furono le vittime, e, allo stesso modo, quasi dimenticato (quantomeno in Cina, ancora oggi largamente sconosciuto). Questo episodio fu una delle maggiori cause di quel percorso di sviluppo che ha condotto la Cina a divenire una delle maggiori superpotenze a livello globale. Dalle riforme politiche ed economiche di Deng Xiaoping, sostenitore del laissez-faire che condusse a un’economia più orientata al libero mercato; ai metodi più conservatori di Jiang Zemin, che sostenne criteri che potessero regolare i cicli inflazionari concentrandosi su un progresso che puntasse a tassi di crescita più controllati, riuscendo a porre le basi per l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio; alle riforme di

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Hu Jintao, da un lato più vicine alle necessità sociali, dall’altro utili a controllare i tassi di interesse e il valore dello yuan, favorendo così l’export cinese. Sino all’attuale presidente Xi Jinping, il quale, durante il 19o Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese, ha proclamato la Cina quale fautrice di una nuova era. Alle polemiche riguardanti l’assenza di eventi istituzionali che ricordassero e dessero importanza all’anniversario, il portavoce Geng Shuang ha ribadito come siano i successi economici raggiunti dalla Cina negli ultimi trent’anni che da soli dimostrano che “il percorso di sviluppo che abbiamo scelto è completamente corretto ed è stato fermamente appoggiato dalla gente”. A 30 anni dalle proteste, Pechino è costantemente al centro dell’attenzione di studi politici ed economici, in misura sempre maggiore se consideriamo l’avvio del progetto della Nuove Vie della Seta e, soprattutto, l’elezione del presidente statunitense Donald Trump. Negli ultimi decenni, infatti, i leader cinesi

che si sono succeduti hanno intrattenuto relazioni differenti con Washington, strettamente connesse allo stato dei progressi della repubblica cinese. In seguito alle riforme economiche e al controllo delle esportazioni da parte del Governo cinese, gli Stati Uniti hanno raggiunto un deficit commerciale con la Cina che, secondo lo U.S. Census Bureau, nel luglio 2018 ammontava a 222.6 miliardi di dollari. Dallo scorso luglio, invece, il presidente Trump ha imposto dazi su 250 miliardi di dollari in prodotti importati dalla Cina, minacciando inoltre di aumentare tale cifra. In tal senso, il divario commerciale tra le due prime economie mondiali ha creato un conflitto non ancora sopito. Le questioni alla base di tale conflitto spaziano dal dumping (ndr, pratica economica che consiste nell’esportare determinati prodotti a prezzi inferiori a quelli di mercato, facendosi lo Stato carico della differenza di valore attraverso sovvenzioni e sussidi alle imprese produttrici) alla proprietà intellettuale. Per quanto concerne il primo


Economia e Finanza aspetto, a seguito di vari scontri in seno all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), la Cina ha avuto la peggio riguardo le accuse di dumping. La disputa sulla proprietà intellettuale, invece, è stata sospesa il 4 giugno scorso. Sebbene non sia chiaro se tale sospensione possa interpretarsi come un congelamento del conflitto commerciale, il panorama resta comunque incerto. Lo scontro a livello internazionale, infatti, si trasla su questioni più tecniche e interne, che prendono in causa decisioni di carattere prettamente statale. In tal senso, queste potrebbero decidere il conflitto a vantaggio di uno o dell’altro stato.

bassa posseduta negli ultimi anni. La diminuzione delle riserve è la conseguenza della vendita cinese del debito statunitense, una strategia messa in atto affinché gli Stati Uniti non portassero a termine la succitata minaccia del presidente Trump di incrementare i dazi sui prodotti cinesi. Vendere il debito pubblico aumenterebbe infatti i tassi di interesse sui prestiti e, dunque, il costo dell’indebitamento statunitense. Tuttavia, come evidenziato da Brad W. Setser, ex economista presso il Dipartimento del Tesoro statunitense, occorre usare cautela nell’effettuare tale analisi, in quanto i dati di marzo 2019 non costituiscono un trend.

Da più di un decennio ormai, la Cina ha superato il Giappone come detentore della maggior parte del debito pubblico statunitense: questa strategia, unita alle riserve di moneta estera, ha permesso a Pechino di mantenere un cambio fisso nei movimenti commerciali con l’estero, mantenendo così il proprio export estremamente competitivo. Nel marzo 2019, il Dipartimento del Tesoro statunitense ha calcolato che la Cina possegga più di un trilione di dollari di debito statunitense, la quantità più

Sebbene la strategia della vendita del debito pubblico possa sembrare la conclusione del conflitto commerciale, poiché porterebbe a una definitiva presa di posizione da parte di uno dei due stati, la vendita del debito rappresenta un’arma a doppio taglio. Essa porterebbe, da un lato, a una possibile svalutazione delle riserve cinesi e, dall’altro, ad una necessaria fluttuazione del cambio con il dollaro statunitense. La più probabile conseguenza di una tattica simile condurrebbe a una diminuzione

delle esportazioni per un paese che solo negli ultimi anni è riuscito ad avere un surplus nella bilancia commerciale. Addirittura, analisti di Bloomberg e Reuters, si spingono a sostenere che, vendendo il debito statunitense, la Cina favorirebbe proprio gli Stati Uniti: indebolendo il dollaro, difatti, Washington vedrebbe i propri prodotti all’estero più competitivi, andando a ridurre così il deficit della bilancia commerciale statunitense, specialmente nei confronti della stessa Cina. In conclusione, il caso della Cina è uno tra i più sorprendenti, sia a livello economico, sia politico: sebbene non si possano fare previsioni certe sul futuro dell’ordine economico e politico globale, Pechino è passata dall’essere un attore isolato a diventare la seconda economia del pianeta. Indubbiamente, Cina e USA si contraddistinguono per molti versi opposti, ragione per la quale, probabilmente, l’esito del conflitto al quale stiamo assistendo potrebbe condurre a un cambiamento della governance economicofinanziaria globale del tutto inedito.

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Europa Orientale e Asia Centrale Balcani: la nuova via della seta tra sviluppo infrastrutturale e rischi macroeconomici

Di Amedeo Amoretti

Fu in seguito alla guerra in Jugoslavia che la Cina cominciò a rivedere la possibilità di stringere legami economici con i Balcani. La crisi del 2008 non fece altro che aumentare la necessità di denaro per sollevare l’economia balcanica. In tale frangente, il progetto della Belt and Road Initiative del 2013 si presentò come un possibile mezzo di sviluppo economico della regione, attraverso la costruzione di grandi opere infrastrutturali.

concentrata a implementare la ‘nuova via della seta’ in Europa centrale e orientale, applicando il modello 16+1. Tale piattaforma permette di stringere rapporti economici con 11 paesi membri dell’UE e cinque non membri, in particolare l’Albania, la Bosnia ed Erzegovina, la Macedonia del Nord, il Montenegro e la Serbia. La Cina ha trovato interesse nei Balcani a causa del loro basso costo del lavoro e perché potrebbero rivelarsi un mezzo per rafforzare la presenza cinese in seno all’UE, qualora dovessero aderirvi. Anche la mancanza di infrastrutture e una legislazione piuttosto vaga per quanto riguarda appalti e investimenti hanno indotto la Cina a concentrarsi sulla regione balcanica. Inoltre, i Balcani soffrono di un forte tasso di emigrazione. Gli investimenti cinesi, pertanto, permetterebbero un miglioramento della qualità della vita e un rilancio economico della regione. Tra i paesi balcanici più interessati dai finanziamenti cinesi, si possono ricordare la Serbia e il Montenegro.

Negli ultimi anni, la Cina si è

Per quanto riguarda la Serbia,

I primi avvicinamenti diplomatici tra la Cina e i Balcani, soprattutto con l’allora Jugoslavia, datano dagli anni del secondo dopoguerra. Il maresciallo Tito aveva deciso di riconoscere già nel 1949 la Repubblica popolare cinese, ma si recò in visita a Pechino per la prima volta soltanto nel 1977. Infatti, i rapporti diplomatici tra i due paesi si erano temporaneamente sospesi a causa delle differenti relazioni politico-diplomatiche con Mosca.

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Belgrado è tuttora il partner balcanico privilegiato di Pechino. L’economia serba, inoltre, conta circa il 44% del PIL balcanico e ha visto ammontare i finanziamenti cinesi fino a 2.5 miliardi di euro. Il progetto più noto, ma non ancora terminato, è quello del tratto ferroviario BelgradoBudapest ad alta velocità. Nonostante alcuni parlino di un neocolonialismo cinese, il presidente Aleksandar Vucic ha affermato che la Cina è sempre stato un ottimo alleato politico ed economico e che la Serbia deve molto a Pechino per il suo sostegno nei momenti di crisi. Si potrebbe comunque affermare che le relazioni economiche tra Pechino e Belgrado siano notevolmente sbilanciate in favore della potenza asiatica. Infatti, laddove la Serbia gode di un export verso la Cina di 1 milione di dollari, la Cina beneficerebbe di esportazioni totali dal valore di un miliardo di dollari. Anche il Montenegro ha ottenuto notevoli finanziamenti cinesi. Il progetto più importante è la costruzione dell’autostrada che collegherebbe il porto


Europa Orientale e Asia Centrale montenegrino di Bar alla Serbia. Il progetto nacque principalmente con l’obiettivo di aumentare le transazioni commerciali con la Serbia e di favorire lo sviluppo economico del nord del Montenegro. Tuttavia, in seguito alla realizzazione della prima parte dell’autostrada, Podgorica ha visto aumentare il debito e si è ritrovata costretta ad alzare le tasse. Il Governo, pertanto, ha iniziato a valutare le possibilità per completare il progetto. La China Road and Bridge Corporation, di cui lo stato cinese è proprietario, si è proposta di completare il progetto secondo un partenariato pubblicoprivato. La fattibilità del progetto è stata, dunque, valutata positivamente, ma secondo Dejan Milovac, direttore esecutivo dell’organo di controllo MANS, le stime date dal Governo montenegrino sulla fattibilità del progetto

sarebbero falsate. Ciò che i due esempi mostrano è dunque una lama a doppio taglio: da una parte i finanziamenti cinesi rappresenterebbero un mezzo per lo sviluppo dell’economia e delle infrastrutture balcaniche, dall’altra potrebbero causare un debito insostenibile in un conseguenza una pressante dipendenza economica da Pechino. Non è ancora ben chiaro cosa potrebbe succedere qualora il paese debitore non fosse più in grado di ripagare i prestiti. Infatti, la paura è che la Cina potrebbe reclamare la proprietà delle infrastrutture da essa finanziate. In questo contesto, l’Unione Europea non sembra offrire un’alternativa attraente. I paesi balcanici faticherebbero ad ottenere sovvenzioni europee a causa della pesantezza

burocratica dell’UE, mentre i prestiti cinesi si potrebbero essere concessi con maggiore immediatezza. Bruxelles, peraltro, richiederebbe delle clausole di condizionalità legate ai finanziamenti, relativamente a una governance democratica e alla trasparenza. Gli istituti Confucio e l’apporto dei media e dei think tanks cinesi hanno permesso la diffusione una maggiore apertura nei confronti della cultura cinese. Al contrario, la dichiarazione del commissario europeo per la Politica di Vicinato e i Negoziati per l’Allargamento, Johannes Hahn, evidenzia una sottovalutazione dell’UE nei confronti delle capacità cinesi di soft power e conferma l’eccessiva superficialità europea nell’approccio al problema.

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Europa Orientale e Asia Centrale Power transition in Kazakhstan: what will it bring?

By Alina Bushukhina On 9 June Kazakhstan has elected the new president. Kassym-Jomart Tokayev, who was acting president after Nursultan Nazarbayev’s retirement, won the elections, having become the new leader of Kazakhstan. Tokayev gained almost 71% of the vote, having left the rivals far behind. Tokayev isn’t a new person in Kazakhstan establishment: he served as Foreign affairs minister for more than 10 years and hold the position of prime minister for 3 years. Last 6 years he was the Chairman of Senate of Kazakhstan, having left this position after longserving president Nazarbayev’s retirement and Tokayev’s succession to the presidential post. In the history of independent Kazakhstan, Nazarbayev was the first and permanent leader of the country. He became the president after the Soviet Union dissolution and was reelected several times, having 32 • MSOI the Post

changed the Constitution so it allowed to re-elect one person unlimited number of times. However, Nazarbayev didn’t eschew violent crackdowns on opposition, he pioneered a softer authoritarianism, avoiding extremes of Turkmenistan’s and Uzbekistan’s presidents. Tokayev was chosen by Nazarbayev as absolutely loyal to current regime figure, which could replace Nazarbayev without causing any serious shocks in political system. The presidential elections in Kazakhstan galvanized the world because of several reasons. First, Kazakhstan, without any doubt, is prominent player in Central Asia both economically and politically, and internal changes could affect the current situation in the region. Kazakhstan shares border with Russia, China, Uzbekistan, Kyrgyzstan, Turkmenistan and adjoins the part of Caspian sea. Not only the Central Asian republics were closely monitoring the situation in Kazakhstan, but also such

players as Russia and China. However, as far as Tokayev is Nazarbayev’s handpicked successor, most probably he would keep old political course more or less unchanged. Both China and Russia have special place in Kazakhstan agenda. China is establishing itself as an economic hegemon is Central Asian region through setting up various projects that involve also Kazakhstan. For instance, “One Belt One Road Initiative” - the set of projects, aimed at the infrastructural development, involves the territory of Kazakhstan. The newly-elected president has personal tights with China, in the 1980-s Tokayev worked in Soviet Embassy in China. In China he is considered as “an old friend” and experienced politician, ready to enhance bilateral relations. Kazakhstan has special relations with Russia for historical reasons. Since the dissolution of Soviet Union two countries have been the strategic partners in political, economical and defence


Europa Orientale e Asia Centrale fields. Furthermore, there is big Russian diaspora in Kazakhstan and Russian language is one of state languages in this country. In the interview for The Wall Street Journal Tokayev has confirmed that he is going to keep establishing a strategic partnership with China and Russia, continuing Nazarbayev’s foreign policy vector. Second, Kazakhstan is infamous for regular human rights violations and the new presidential elections were considered as the space for possible political rights violations. Indeed in Kazakhstan the political system is totally controlled by the president and his team which doesn’t allow any real opposition to rise. In the election day thousands of people in Kazakhstan took to the streets to support the fair elections, protesting against ballot box stuffing. Some of them incited the others to a boycott of the elections. The police reacted immediately and started to

detain people, journalists also were not spared. According to Kazakhstan Ministry of Interior data, almost thousand of people were arrested during the protests, although the real numbers are not known and human right activists estimate number of arrested as 5000 indeed. Insiders communicated that the police arrested everyone just approaching the protesting crowds. Moreover, during the election day the most popular messengers and social networks were blocked throughout the country. So, Telegram, WhatsApp, Facebook were available only in case of VPN usage. Observants and activists presented on the elections claimed that numerous violations took place during voting. It was reported, for instance, that Kazakhstan authorities didn’t show the real number of votes the opposition candidate Amirjan Kosanov got. According to the officials, he

received 15% of votes which is definitely the record-braking result for opposition candidate in Kazakhstan, but the real figures, according to the observants on the polling stations, were higher. However, even this result is shocking for Kazakhstan, where the opposition has never gained more than 1 % of vote. According to the insiders, Kosanov was allowed to the elections only on the condition to accept the election results. During his election campaign, Tokayev bet on support among the Kazakhstan establishment he enjoyed as far as Tokayev was put forward by the ruling party Nur Otan. Moreover, he was the former president Nazarbayev’s successor, he based his campaign on the idea on continuity and loyalty to the former president’s political vector. Given that, Tokayev disposed a vast set of opportunities and resources which allowed him to win.

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Africa Subsahariana La ‘marcia congiunta’ tra Africa e Cina

Di Corrado Fulgenzi L’ascesa cinese a egemonia economica si avvia nel suo processo di consolidamento attraverso la costituzione delle ‘Nuove Vie della Seta’, ossia il piano di ammodernamento i n f r a s t r u t t u r a l e transcontinentale ideato e sostenuto dal presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping. Tale progetto collegherebbe in maniera più rapida, efficiente ed economica la Cina e i membri aderenti alla Belt and Road Initiative (BRI; ndr, il nome ufficiale del progetto) situati nell’area eurasiatica. In tale contesto, il continente africano avrebbe il ruolo di incrementare e facilitare i flussi commerciali da e verso il Mediterraneo e, quindi, l’Europa. La conseguente penetrazione 34 • MSOI the Post

economica della Cina nel continente africano, mirata a sostenere l’ingente (ed esigente) transito di merci, negli ultimi anni, ha visto la costruzione di tutta una serie di infrastrutture di trasporto e logistica necessarie per rendere efficiente e conveniente il trasferimento di beni nei paesi di transito; allo stesso tempo, questi ultimi ne hanno beneficiato da un punto di vista di sviluppo economico, come spiegato dal South China Morning Post, poiché data la natura del progetto a lungo termine, l’utilizzo di tali infrastrutture permetterebbe un aumento delle esportazioni e sosterrebbe la crescita economica dei paesi africani stessi. Si tratta, infatti, di una “pioggia di miliardi di dollari” per l’Africa: la Standard Bank Group di Pechino ha calcolato

che, nel solo 2017, i contratti stipulati tra imprese e governi delle due parti hanno avuto un valore di €67,8 miliardi, mentre un’altra ricerca condotta dal China-Africa Research Initiative presso la John Hopkins School of Advanced International Studies ha stimato che dal 2000 al 2016 i finanziamenti e i prestiti cinesi a favore di 56 stati africani sono ammontati a €110,5 miliardi. l’1,6% dei Tuttavia, solo prestiti è stato indirizzato a settori non di interesse economico, come l’istruzione, la sanità, l’ambiente, il settore alimentare e quello umanitario. Pertanto, se da una parte molti governi africani hanno accolto con elogi e con dichiarazioni di ‘amicizia’ i nuovi partner cinesi - almeno fintanto che la collaborazione prosegue proficuamente -, dall’altra parte,


Africa Subsahariana le potenze occidentali hanno storto il naso, continuando a criticare l’operato di Pechino. In particolare, gli Stati Uniti hanno attaccato sia verbalmente sia concretamente i loro rivali cinesi, per esempio attraverso la guerra dei dazi lanciata da Trump per contrastare il volume delle loro esportazioni a livello globale. Tale manovra, finalizzata a bloccare l’espansione economico-finanziaria cinese ha colpito non solo l’ambito commerciale, ma anche un altro settore, tra i più delicati e importanti sia sul piano della sicurezza sia su quello della competizione tecnologica, ossia le telecomunicazioni. Negli ultimi decenni, sulla scia dei progetti di aiuti istituzionali allo

sviluppo e investimenti da parte del governo cinese, Huawei ha investito fortemente anche nella regione, costituendo il cosiddetto backbone, ossia una ‘dorsale di rete’ (ndr, un sistema informatico per le telecomunicazioni che permette lo smistamento delle informazioni ad alta velocità tra router intercontinentali), fondamentale per garantire connessioni Internet a banda larga nel continente africano. Viste le recenti vicende alterne - le reciproche minacce di innalzamento dei dazi e i blocchi alle esportazioni, da una parte, e i tentativi di appianamento delle divergenze, dall’altra - assai verosimilmente vi saranno delle ripercussioni economiche e finanziarie anche ai danni

degli stati africani, sempre più integrati nell’economia globale cinese. Le più recenti amministrazioni presso la Casa Bianca hanno preferito dedicarsi ad altre regioni di interesse geopolitico negli ultimi decenni, perdendo di conseguenza quella capacità di “penetrazione economica e politica” all’interno delle economie e degli affari africani e lasciando campo libero a Pechino, che ha saputo magistralmente cogliere l’occasione. Riuscirà, ora, la Cina a portare a compimento il processo di sviluppo economico del continente africano iniziato nel secondo dopoguerra tramite la BRI, sopperendo alla ‘assenza’ occidentale?

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Africa Subsahariana Xi Jinping inaugura l’Istituto cinese di ricerca sull’Africa

Di Jessica Prieto

commerciali.

Lo scorso 9 aprile, a Pechino, si è tenuta l’assemblea inaugurale per la fondazione dell’Istituto cinese per la ricerca sull’Africa. La sua nascita si inserisce tra gli otto obiettivi di cooperazione sino-africana concordati nell’ultimo “Forum on China Africa Cooperation” (FOCAC), tenutosi in settembre 2018. In occasione di tale forum, si era già assistito ad un cambio di rotta delle relazioni bilaterali tra Cina e Africa: da una cooperazione per lo più diplomatica e ideologica, legata alla retorica della solidarietà tra gli stati sottosviluppati contro le potenze occidentali, ad una cooperazione con finalità perlopiù economiche e

Secondo il presidente cinese Xi Jinping, la nascita dell’Istituto rappresenta “una misura importante per favorire gli scambi culturali tra le due parti”, aggiungendo come la condivisione di risorse accademiche cinesi e africane possa rafforzare l’amicizia tra i due popoli e contribuire allo sviluppo di una “comunità umana dal destino condiviso”. Allo stesso modo, l’ex presidente del Mozambico, Joaquim Alberto Chissano, ha affermato: “mi auguro che l’Istituto cinese per la ricerca sull’Africa diventi una piattaforma su cui le parti interessate possano discutere di argomenti importanti per entrambe, come le relazioni economiche e commerciali,

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l’apprendimento reciproco e la cooperazione per la pace e la sicurezza”. L’organismo di ricerca svolgerà quindi un ruolo fondamentale nel fornire sostegno intellettuale alle attività di governance e amministrazione, tramite professionisti del settore accademico. In questo modo, sarà possibile continuare a lavorare alla costruzione delle One Belt One Road (la via della seta cinese): un piano commerciale e infrastrutturale che punta a collegare la Cina all’Africa (oltre che all’Asia e all’Europa) tramite una rotta via mare. Durante la conferenza inaugurale la Commissaria per le risorse umane e delle tecnologie dell’Unione Africana,


Africa Subsahariana Sarah Anyang Agbor, ha infatti affermato che il rafforzamento del loro partenariato strategico con la potenza asiatica sarà una componente importante per l’adempimento del piano “Visione 2063”: “Siamo ansiosi di consolidare la cooperazione Sud-Sud, nella speranza che l’Istituto fornisca una piattaforma di scambio e contribuisca alla creazione di competenze (per i Paesi africani) attraverso la formazione. Ci aspettiamo che le due parti siano capaci di lavorare insieme per intensificare la condivisione delle informazioni e il meccanismo per il rafforzamento delle capacità, rendendo più forte anche la collaborazione in ambito culturale”. La condivisione di reciproche conoscenze sarà perciò fondamentale per rendere il

continente africano protagonista delle relazioni bilaterali e non più oggetto passivo di politiche ideate e implementate dal paese asiatico. Nonostante la maggior parte degli accordi commerciali tra Cina e Africa sembra infatti essere ‘fatta su misura’ per gli interessi asiatici, alcuni ricercatori sostengono che, a partire dal FOCAC 2006, i paesi africani si siano adattati al contesto di evoluzione della diplomazia sino-africana, organizzando una serie di eventi paralleli incentrati su sicurezza, sanità, ambiente, media, al fine di aumentare la consapevolezza degli investitori cinesi sulle condizioni socio-economiche dei territori d’intervento e implementare le politiche nel modo più efficiente possibile.

In conclusione, è difficile capire quanti e di che natura siano gli interessi economici che si celano dietro la nascita dell’Istituto di ricerca sull’Africa e la cooperazione culturale che questo rappresenta. Inoltre, le cospicue percentuali di debito di molti paesi africani possedute dalla Cina sollevano preoccupazioni circa le possibilità di risanarle, con probabili conseguenze sul loro futuro in ambito economico e sul loro livello effettivo di sovranità. Lo sviluppo delle relazioni sinoafricane sono quindi ancora un’incognita e bisognerà attendere qualche anno per valutarne i risultati. Resta però la certezza che l’impatto delle decisioni assunte ricadrà anche sull’Europa, sugli Stati Uniti e sul resto del mondo.

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Nord America Pensare se stessi: come USA e Cina concepiscono l’egemonia

Di Cesare Cuttica La Cina è figlia di una cultura millenaria, gli Stati Uniti d’America sono eredi della tradizione europea, illuminista e protestante. La prima simboleggia nell’immaginario occidentale l’Oriente più estremo ed estraneo e i secondi si propongono come moderna nazione-guida dell’Ovest. Se gli orizzonti culturali non possono essere più antitetici, al contrario, i problemi su cui le due superpotenze contemporanee si trovano a ragionare sono i medesimi. Le pretese egemoniche che entrambi gli attori coltivano impongono una chiara visione del proprio ruolo nel mondo. 38 • MSOI the Post

Per cercare di sintetizzare il sofisticato e complesso universo culturale del popolo cinese, può essere utile inquadrarlo secondo due diverse prospettive. La prima: come lo stesso concepisce il mondo nel suo complesso; la seconda: come la società cinese si percepisce in qualità di Stato. Paradossalmente, il primo a indagare questi due piani del ragionamento e i loro rapporti fu Confucio (IV-V secolo a.C.), figura chiave del pensiero cinese, sulla quale, ancora oggi, esso si fonda. Come riportava Sandro Sideri in uno studio condotto nel 2011 per l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), “Confucio ha sottolineato che [...] per creare un ordine armonioso è necessario che il popolo sia convinto che le leggi sono giuste e sono applicate in modo imparziale. È l’imperatore che garantisce

sulla terra l’armonia [...]”. Fuori dall’egida imperiale, che attraverso lo Stato riduce la moltitudine all’uno, c’è solo divisione e caos. Per meglio comprendere l’idea tradizionale che i cinesi hanno di sé stessi, può essere, inoltre, utile notare che la parola ‘Cina’ in cinese, ha il significato letterale di ‘Stato Centrale’. L’ a u t o r a p p r e s e n t a z i o n e assolutista ha, tuttavia, incontrato una cesura (o forse una parentesi) storica nel XIX secolo: questo passaggio, cruciale nella storia cinese, definito ‘Secolo della Vergogna’ ha visto l’aggressione da parte degli stranieri, giapponesi e occidentali, non solo del tessuto economico cinese, ma anche della sovranità politica e del


Nord America territorio nazionale stesso. Il Celeste Impero era divenuto terra di saccheggio, stuprata e calpesta. Fu poi la rivoluzione di Mao, insieme al nazionalismo cinese, a porre fine a questa fase storica.

umano sostenibile, in primis. La Cine segue, insomma, una filosofia politica più simile a quella che guidava l’Impero Romano rispetto a quella degli stati nazionali moderni e contemporanei.

Il Partito Comunista Cinese (CCP) avrebbe, quindi, individuato, secondo un articolo del 2008 di Niccolò Locatelli su Limes, le eredità del ‘Secolo della Vergogna’. Da un lato, un forte risentimento verso gli stranieri, da sfogare impedendo in futuro lo sfruttamento estero delle risorse cinesi. Dall’altro, un territorio lacerato e diviso da riconquistare: Taiwan rappresenta oggi l’ultima tappa di questo processo, come Xi Jinping ha rimarcato a inizio anno.

Un discorso alquanto diverso riguarda gli USA, che hanno visto un crescendo costante della loro influenza internazionale dalle guerre mondiali, fino al picco degli anni ‘90, passando per diversi punti chiave che ne hanno determinato i connotati. Ultimo tra questi è stata la caduta dell’URSS nel ‘91, che li ha proiettati da una dimensione egemonica di tipo competitivo ad una di tipo collaborativo.

La politica estera di Pechino si muove, quindi, oggi in continuità con la propria filosofia antica, considerando l’egemonia attraverso l’armonia (e l’omologazione), come elemento congenito e conseguente dello ‘Stato Centrale’. Questa direzione ideale rimane anche affrontando i problemi contemporanei: difficoltà di esportazione del proprio modello e di sviluppo

Il dibattito interno scaturitone si articola, quindi, sull’utilizzo o meno dello ‘strapotere’, cioè quanti e quali impegni gli USA debbano prendersi per il mantenimento dello status di superpotenza incontrastato senza sperperare le proprie risorse. Per il mindset statunitense è, infatti, tutta una questione di bilancio non solo economico, ma anche politico, tra spese e rendite, che intende il mantenimento dell’egemonia e l’egemonia

stessa come un mero equilibrio tra entrate e uscite, teorizzato da Paul Kennedy nell’ipotesi dell’ “Imperial Overstretch”. Un’articolo del 2012 su ISPI, di Marco Clementi, mette bene in luce questi aspetti, sottolineando poi come questa forma mentis venga applicata anche nei confronti dei paesi alleati. Questi ultimi, come appare sempre più chiaramente con l’amministrazione Trump, sono considerati più soci in affari che vicini naturali. Emblematica a questo proposito è stata la richiesta USA agli altri membri NATO di contribuire maggiormente al bilancio, pena la perdita della protezione militare statunitense. Non portando avanti qui la discussione sull’effettivo stato di salute dell’egemonia USA, nè sulle possibilità di affermazione cinese,resta comunque lo spazio per far risaltare le trame delle reciproche identità di pensiero, che restituiscono due distinte visioni prima che della politica, del mondo in sé. Eredi di culture dalle radici profonde e antiche, quello tra USA e Cina è solo l’ultima rappresentazione di un millenario confronto tra Occidente e Oriente.

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Nord America Il ban di Huawei e le conseguenze per Google

Di Elisa Zamuner Iniziano a farsi sentire le conseguenze provocate dalla messa al bando della società cinese Huawei, da parte del governo statunitense. Il fondatore e presidente dell’azienda, Ren Zhengfei, ha dichiarato che nei prossimi due anni i ricavi subiranno una diminuzione di circa il 30%. Inoltre, si stima che le vendite globali degli smartphone caleranno del 40%, con conseguenti tagli alla produzione. Si tratta di stime molto negative, in controtendenza con l’andamento della società cinese negli ultimi anni, manifestazione di una prima evidente ripercussione della guerra commerciale intercorrente tra USA e Cina. Huawei, infatti, malgrado le pressioni provenienti dalla politica 40 • MSOI the Post

statunitense, aveva chiuso il primo trimestre del 2019 in maniera decisamente positiva, con un rialzo dei ricavi del 39% e una vendita di circa 58,4 milioni di smartphone, piazzandosi al secondo posto tra Samsung e Apple a livello di vendite. Nella seconda settimana di giugno scorso, si è diffusa la notizia che la compagnia cinese sia stata costretta a bloccare il lancio del nuovo laptop. Il CEO di Huawei, Richard Yu, ha poi confermato la news alla CNBC, sostenendo, dapprima., che la decisione fosse un effetto diretto della vigenza del ban statunitense e, di seguito, che l’azienda cinese non sarebbe stata in grado di fare uscire il nuovo prodotto. I Matebook prodotti da Huawei si servono, infatti, di prodotti americani, tra cui processori Intel e sistemi operativi Windows di Microsoft. Nei

mesi precedenti, in previsione della possibile manovra di Donald Trump, l’azienda di Shenzhen aveva fatto scorta di processori americani, nel tentativo di evitare una possibile interruzione alla produzione di smartphone e computer, nel caso in cui i rifornimenti fossero venuti meno. Tali precauzioni, tuttavia, in considerazione del mancato lancio del nuovo Matebook, non sono state sufficienti. Inoltre, Microsoft non si è ancora espressa in merito al ban dell’amministrazione Trump. Non sarebbe dunque chiaro se e fino a quando i computer targati Huawei potranno continuare ad utilizzare i sistemi operativi Windows, così da fruire dei vari aggiornamenti. In seguito all’adozione del ban nel maggio scorso, diverse società americane hanno


Nord America annunciato la fine della loro collaborazione con Huawei. In particolare, la notizia che ha provocato più scalpore, sarebbe stata quella relativa a Google, fonte di panico e confusione tra i consumatori dei prodotti della società cinese. Google si è difatti trovata costretta a sospendere la licenza Android, grazie alla quale la stessa Huawei poteva rendere i propri smartphone con le app-Google già installate. Di conseguenza, i prossimi cellulari Huawei potranno utilizzare soltanto la versione open-source di Android, mentre non potranno più usufruire dei futuri aggiornamenti di sicurezza. Le decisioni del governo statunitense rischiano, tuttavia, di ripercuotersi negativamente sulle stesse società americane, oltre che sulla Cina. Google, infatti,

rischia di perdere un volume di affari da miliardi di dollari. Attualmente Android detiene un controllo quasi monopolistico all’interno del mercato degli smartphone, “girando” tanto su tutti i dispositivi Huawei, quanto su quelli Samsung. Se Pechino riuscisse a sviluppare un’alternativa credibile ad Android, in modo da riuscire a diffonderla non solo in Asia ma anche in Europa, nel lungo termine questo processo darebbe luogo ad un maggior numero di problemi e difficoltà per la società di Page e Brin. Riuscire a soppiantare Android e, in particolare, i servizi offerti da Google non appare comunque un’operazione di facile riuscita. Secondo il giornale cinese Global Times, Huawei starebbe già lavorando - e testando con altre aziende cinesi - ad un proprio sistema

operativo, che prenderà il nome di HongMeng OS. Il lancio dovrebbe essere programmato per i prossimi mesi e andrebbe a coincidere con l’uscita del nuovo Huawei P40. La notizia diffusa dal Global Times non è stata, tuttavia, ancora confermata, trovando, per ora, pochi riscontri. Resta, dunque, ancora da vedere quali saranno le prossime mosse di Donald Trump nei mesi venturi. Appare possibile che l’intera questione Huawei possa trovare uno snodo con l’accordo commerciale tra USA e Cina. Il segretario al Tesoro statunitense, Steven Terner Mnuchin, ha infatti dichiarato che se vi saranno dei progressi in merito all’accordo commerciale, Trump potrebbe decidere di ridurre le restrizioni imposte dal ban.

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Sud e Sud Est Asiatico Myanmar: il Tatmadaw e l’ombra dei crimini di guerra

Di Daniele Carli Secondo un recente report di Amnesty International, le forze armate del Myanmar - meglio conosciute come Tatmadaw - sembrerebbero aver ripreso le violenze indiscriminate all’interno dello stato del Rakhine, regione occidentale affacciata sul Golfo del Bengala. Nello specifico, stando ai dati raccolti in loco dagli operatori della suddetta organizzazione, il raid dell’esercito regolare avrebbe causato 14 vittime civili e 29 feriti, sollecitando peraltro l’accusa di aver portato a episodi di torture e arresti arbitrari nel corso di un attacco indiscriminato. I soldati avrebbero agito con l’obiettivo di debellare i ribelli della Arakan Army (AA), la frangia militare della United League of 42 • MSOI the Post

Arakan (ULA), impegnata sin dalla sua fondazione (nel 2009) nel tentativo di liberazione del Rakhine attraverso l’uso della forza. L’esercito di Arakan è attualmente il più grande gruppo insurrezionalista del paese, disponendo di circa 2.500 militi. L’organizzazione si affianca ad altri gruppi ribelli legati all’etnia Chin e attivi sul territorio sin dall’indipendenza birmana, concessa dal Regno Unito nel 1948. Il Tatmadaw era già stato accusato nel 2017 dalla società internazionale di perpetrare atrocità nei confronti della popolazione musulmana Rohingya, quando l’azione congiunta dell’esercito e di alcuni gruppi estremisti buddisti portò alla distruzione di interi villaggi, uccidendo circa 10.000 membri della

comunità Rohingya e causando l’emigrazione dal Rakhine di almeno 700.000 profughi. Come riportato dalla BBC a fine maggio, il portavoce delle forze armate birmane, il generale Zaw Min Tun, ha negato le accuse di Amnesty International, garantendo che il Tatmadaw abbia agito, nel corso delle recenti operazioni militari, “nei limiti della legge ed evitando di colpire civili”. Il report dell’organizzazione non governativa sembrerebbe, tuttavia, sottolineare che il rinnovato vigore con cui l’AA sta portando avanti la lotta per l’autodeterminazione della popolazione Arakan starebbe conducendo l’esercito nazionale all’utilizzo di violenza indiscriminata sui civili, come una vera e propria tattica di combattimento.


Sud e Sud Est Asiatico Si innalza, dunque, la pressione sul Governo, reo di non riuscire ad arginare e disciplinare definitivamente le violenze che continuano a essere perpetrate dall’esercito nelle sue provincie. In particolare, si avverte la necessità dell’intervento internazionale. Infatti, in assenza di un chiaro e deciso intervento domestico, Amnesty International ha invocato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC), affinché deferisca la questione dei crimini di guerra al Tribunale Penale Internazionale, applicando un embargo totale sulle armi al paese. A tal proposito, Nicholas Bequelin, direttore regionale per AI, ha biasimato la comunità internazionale, la quale, fino ad ora, ha sostanzialmente fallito nel tentativo di arginare la violenza. Essa, infatti, è dilagata a fasi alternate sin dal 1948 e ha caratterizzato gli stati del

Rakhine, Shan e Kayin. Una seria interpretazione del suo ruolo sarebbe, quindi, richiesta all’UNSC al fine di ricostruire la pace in Myanmar. La missione d’inchiesta ONU sul suolo birmano del 14 maggio è risultata in un appello alla comunità internazionale, chiedendo di fermare qualsiasi forma di supporto all’esercito del Myanmar, con l’obiettivo di isolarne i comandanti fino alla sentenza definitiva da parte della Corte de L’Aia, chiamata a decidere circa la commissione di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Nella risoluzione dell’UNHCR (A/HRC/40/L.19), gli stati membri hanno espresso le loro perplessità circa la situazione, denunciando atti di violenza sessuale e discriminazione di genere, perpetrati soprattutto negli stati di Kachin, Shan e Rakhine. A tal proposito, l’UNSC

ha deciso di estendere il suo periodo di analisi e osservazione di un’ulteriore anno, chiedendo al Governo locale di favorire la raccolta di dati da parte dei tecnici ONU. Anche l’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC) ha insistito per un’investigazione trasparente e indipendente circa i crimini che, dal 2017, hanno visto un’escalation. Durante il summit che si è tenuto il 31 maggio a Makkah AlMukarramah in Arabia Saudita, l’OIC ha rilasciato un comunicato con il quale si dichiara favorevole all’instaurazione di un ente ad hoc, chiamato a giudicare i crimini compiuti nei confronti dei Rohingya. Il primo ministro del Bangladesh Sheikh Hasina si è, infine, dichiarato disponibile a supportare la minoranza musulmana nel suo rimpatrio in Myanmar.

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Sud e Sud Est Asiatico India, tra estremismo e radicalizzazione

Di Natalie Sclippa “Il processo di ‘otherization’ (l’atto di definire come ‘diverso’ un individuo o un gruppo di persone allo scopo di ostracizzarlo e/o denigrarlo, ndr) ha reso più marcate le divisioni tra musulmani e induisti, e ciò crea un’atmosfera favorevole ai gruppi estremisti”. Così, Ashraf Kadakkal, professore di studi islamici e dell’Asia Occidentale presso l’Università di Kerala, cerca di spiegare le ragioni che hanno portato un numero sempre più alto di giovani musulmani ad aderire alla causa di Daesh o di altre formazioni radicali, che operano sia in India, sia all’estero. Nonostante il paese sia riuscito a contenere e a sventare alcuni attacchi, Daesh ha confermato la nascita di una nuova provincia del Califfato a maggio, la Wilayat al-Hind. Gli stati federali a 44 • MSOI the Post

forte densità musulmana, tra cui Kerala, Jammu e Kashmir, sono le zone più colpite dalle infiltrazioni di gruppi separatisti ed estremisti, che fomentano l’odio verso la maggioranza Hindu, colpevole di continue intimidazioni e soprusi nei loro confronti. La polizia dello stato del Kerala ha reso noto che, nel solo 2017, circa 100 persone furono sospettate di essersi affiliate a Daesh in Afghanistan, Iraq e Siria. La spiegazione di questo processo è individuabile nella geografia e nell’economia di questo stato meridionale. Grazie alla vicinanza con il Mare Arabico, infatti, molti emigrano per andare a lavorare negli Emirati Arabi Uniti, in Arabia Saudita e nei Paesi del Golfo. In questi paesi i salari sono migliori: permettono di aiutare economicamente le famiglie e sostengono sensibilmente lo sviluppo della regione. Al

loro ritorno, molti giovani si avvicinano al sedicente Stato Islamico, essendo stati soggetti all’Islam più conservatore e radicale durante i mesi di permanenza all’estero. Per Daesh è più facile reclutare in queste zone dell’India, in Sri Lanka e alle Maldive, anche grazie all’utilizzo delle lingue regionali. Il Kerala, infatti, non è l’unico stato federale che ha visto crescere esponenzialmente l’appeal di gruppi radicali. Nel Tamil Nadu, per esempio, l’estremismo non aveva mai intaccato davvero la popolazione, ma in una zona dove l’Hindi non è lingua ufficiale, la traduzione degli spot e dei video di Daesh, dopo il 2014, ha attratto molto più di quanto fosse riuscito a fare Al Qaeda negli anni precedenti. A livello nazionale, la risposta non si è fatta attendere. Da un lato,


Sud e Sud Est Asiatico è sopravvenuta la conferma, da parte polizia dello Sri Lanka, del fatto che alcuni degli attentatori suicidi della Domenica di Pasqua avevano viaggiato recentemente in Kashmir e Kerala. Dall’altro, la svolta nelle indagini dell’Agenzia Indiana di Investigazione Nazionale, che ha individuato dei proseliti che seguivano i discorsi e i video della ‘mente’ degli attacchi, Zahran Hashim. È quindi stata formata l’Anti Terrorism Squad (ATS), organizzazione specializzata nel combattere il pericolo del fondamentalismo, le insurrezioni maoiste e il fanatismo di estrema destra in India meridionale. Tra le mansioni, merita d’esser citato lo studio di metodi innovativi per identificare attività di reclutamento online attraverso l’utilizzo di specifiche tattiche investigative innovative. L’ente seguirà altresì i lotti di prodotti usati per produrre bombe artigianali, in modo da sventare eventuali attacchi. Inoltre, l’India ha adottato una legislazione anti-terrorismo ad hoc. La stessa, in alcune parti controversa, è però stata criticata poiché vi è la possibilità da parte delle forze di sicurezza di sparare ai sospettati anche se non minacciati. Sebbene il paese sia tra i fondatori del Global CounterTerrorism Forum (GCTF), esso non partecipa direttamente agli sforzi per combattere Daesh. Come scrive Natalie Tecimer sul The Diplomat, “se l’India collaborasse di più nella lotta allo Stato Islamico, lavorando insieme agli Stati Uniti all’interno della regione, scambiando liste di sospetti e avendo un atteggiamento più forte con il Bangladesh, avrebbe un partner forte per sradicare la minaccia sia a livello interno sia su scala globale”.

Ma Daesh non è l’unica minaccia che affligge la potenza asiatica. Vi sono altri gruppi operanti tra India, Bangladesh e Myanmar, gruppi separatisti come in Kashmir o nel Tamil, e di insorti islamici, attivi nella parte settentrionale del paese. Sono poi da ricordare le Muslim United Liberation Tigers of Assam (MULTA), che vogliono creare il loro Islamistan attraverso la mobilitazione di giovani adepti da muovere contro lo stato indiano per un nuovo Jihad e attraverso i gruppi Mujahideen anti-Hindu. Il gruppo fondamentalista pakistano Harkat ulMujahidin, fondato nel 1985 per fronteggiare l’occupazione sovietica in Afghanistan, richiama individui da tutto il mondo ed è stato classificato come organizzazione terroristica dagli Stati Uniti nel 1997. L’alleato Hizb-ulMujahideen, formatosi 4 anni dopo, è l’ala armata del gruppo Jamaat-e-Islami (JeL) che opera soprattutto in Jammu e Kashmir, reclutando, in primis, attraverso tutorial e video. In aggiunta, anche i gruppi Jaishe-Mohammed (JeM) e Lashkar-e Taiba (LeT) sono stati dichiarati organizzazioni terroristiche; gli stessi che hanno collaborato all’assalto armato al palazzo del Parlamento di Delhi nel 2001. Questa ondata di estremismo è correlata alla crescita del nazionalismo hindu dal 2014, che trae le sue origini dalla fondazione del movimento Sangh Parivar. La ‘famiglia dei Sangh’ nacque negli anni ‘20, rivendicando come le minoranze cristiana e musulmana svilissero l’identità induista indiana. Questa ideologia portò all’utilizzo di tattiche violente

contro le altre minoranze, grazie anche al sostegno della Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), un’organizzazione paramilitare che, attraverso la sua ala educativa Vidhya Baratis, riesce a insegnare a più di 2 milioni di studenti in 20.000 scuole, trovando la sua espressione politica nel Bharatiya Janata Party (BJP), il principale partito conservatore indiano - al governo proprio dal 2014 con Narenda Modi. L’Hate Crime Watch, redatto da FactChecker, è un database di crimini d’odio perpetrati in India dal 2009 al 2019, basati sull’identità religiosa e divisi in categorie come l’intento, il luogo, il partito politico in carica e l’identità. I dati raccolti mettono in luce come la minoranza musulmana sia la più colpita (il 59% degli attacchi sono ai loro danni), seguita poi da quella cristiana (15%) e dagli Hindu (14%). Se, invece, si considerano i carnefici, il 58% di chi commette violenza è Hindu, il 12% musulmano e il 30% di altri gruppi oppure non collegato ad alcuna minoranza. La causa primaria degli scontri è, al 28%, la protezione delle vacche, mentre gli stati più colpiti sono l’Uttar Pradesh e il Karnataka. Sfruttando questo clima di conflitto interno tra fazioni, i gruppi estremisti autoctoni ed esteri si avvalgono sempre più delle nuove tecnologie per convincere i giovani a lasciare l’India per combattere in Afghanistan o in Siria. Non riuscendo a fermarli, le famiglie dei foreign fighter indiani continuano a cercarli, tentando di mettersi in contatto con loro per farli tornare a casa. MSOI the Post • 45


Diritto Internazionale ed Europeo Giustizia penale internazionale: quali prospettive? di punire gli individui autori di tali crimini, secondo il principio, oltretutto ancor oggi vigente e codificato in alcune convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo, aut dedere aut judicare.

Di Nicola Ortu La giustizia penale internazionale è un ambito relativamente nuovo nei dibattiti di diritto internazionale pubblico. Se oggi essa non può non fare riferimento alla Corte Penale Internazionale (CPI) - la prima corte permanente competente a statuire su alcune categorie di crimini internazionali - il suo sviluppo si staglia già dalla seconda metà del XX secolo, incontrando alterne fortune. La giustizia penale internazionale gioca un ruolo peculiare nel sistema del diritto fra gli stati. Se da un lato, infatti, essa crea norme di cui sono destinatari, oltre agli stati, anche gli individui, dall’altro, essa rimane strettamente legata alla cooperazione delle autorità nazionali per un proficuo funzionamento, sia per quanto riguarda lo svolgimento delle indagini, sia per quanto concerne la consegna dei responsabili alla giustizia. La prassi antecedente alla fine della Guerra Fredda - con la ragguardevole eccezione dei tribunali penali internazionali di Norimberga e Tokyo - vedeva proprio nei giudici nazionali la responsabilità primaria 46 • MSOI the Post

Fu solo dopo la caduta del muro di Berlino, nella notte del 9 novembre 1989, che dileguatesi le nubi del confronto fra superpotenze, si poterono stabilire dei veri e propri tribunali penali internazionali ad hoc. Questi ultimi furono qualitativamente diversi rispetto ai loro antenati di Tokyo e Norimberga, istituiti ex post facto, nonché in deroga al principio nulla poena sine lege. Infatti, molti dei crimina jus gentium non erano riconosciuti come tali antecedentemente alla creazione di ciò che fu da molti definita “la giustizia dei vinti”. I conflitti in Jugoslavia e Ruanda, complice la fine dell’impasse legato alla Guerra Fredda nel Consiglio di Sicurezza, spinsero l’organo esecutivo delle Nazioni Unite a istituire, con le Risoluzioni nn. 827 del 1993 e 955 del 1994, e in ottemperanza alle disposizioni del Capitolo VII della Carta, i primi due tribunali penali ad hoc competenti a statuire sui crimini commessi durante i rispettivi conflitti civili. Tuttavia, è solo nel 1998 che si arriverà, con l’adozione dello statuto di Roma, alla creazione di una Corte Penale Internazionale permanente, senza limiti rationae loci. Dalla natura pattizia della CPI deriva che la Corte potrà esercitare la propria giurisdizione a condizione che a) siano parti dello statuto lo stato territoriale in cui il crimine

è stato commesso, o b) sia parte lo stato di cittadinanza del reo, con la notabile eccezione dei casi riferiti direttamente dal Consiglio di Sicurezza, per i quali non sussistono tali limiti. A 17 anni dalla sua entrata in funzione, nel 2002, quando fu soddisfatta la condizione sospensiva della sessantesima ratifica, la CPI ha conosciuto risultati differenti. Il 2019 ha visto molteplici fallimenti. In l’assoluzione di gennaio, Laurent Gbagbo, ex capo di stato ivoriano, accusato di crimini contro l’umanità, ha evidenziato le lacune del dossier d’accusa redatto dal procuratore. Non ultimo, il recente rifiuto da parte della giunta militare sudanese di rinviare alla Corte penale dell’Aia l’ex presidente Omar al-Bashir, accusato di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. La recentissima decisione della Chambre Préliminaire, che ha sancito il rifiuto di aprire un’inchiesta sui presunti crimini contro l’umanità e i crimini di guerra commessi nell’ambito del conflitto armato in Afghanistan, sembra però periodizzante. Nonostante che i giudici riconoscessero che “all the relevant requirements are met as regards both jurisdiction and admissibility”, “the current circumstances of the situation in Afghanistan are such as to make the prospects for a successful investigation and prosecution extremely limited”, afferendo a motivo che “une enquête sur la situation en Afghanistan ne servirait pas à ce stade les intérêts de la justice”.


Diritto Internazionale ed Europeo È proprio l’utilizzo dello sfuggevole ed ambiguo concetto di “interesse della giustizia” a rendere la decisione ancor più criticabile. L’articolo 53(1) dello Statuto di Roma recita “Le Procureur [...] ouvre une enquête, à moins qu’il ne conclue qu’il n’y a pas de base raisonnable pour poursuivre en vertu du présent Statut. Pour prendre sa décision, le Procureur examine [...] s’il y a des raisons sérieuses de penser, compte tenu de la gravité du crime et des intérêts des victimes, qu’une enquête ne servirait pas les intérêts de la justice”. La scelta della Chambre Préliminaire appare dunque criticabile proprio tenuto conto del fatto che siano esplicitamente la “gravità del crimine” e “gli interessi delle vittime”, a servire da guida per l’applicazione del concetto di interesse della giustizia. E anzi, ancor più paradossale sembra l’esplicita spiegazione, da parte dei giudici della Corte, di criteri di ammissibilità estranei al documento fondamentale della Corte, quali “the likelihood that investigation be feasible and meaningful under the relevant circumstances’ (para. 35), ‘organisational and financial sustainability’ (para. 88), nonchè “resource constraints” (para. 95). Se da un lato, dunque, sembrano molteplici i fallimenti della giustizia penale internazionale contemporanea, dall’altro, essa sembra essere più attuale che mai. A fine 2017, l’assemblea degli stati parte della CPI ha adottato una risoluzione che ha, dopo un decennio di negoziati, attivato la giurisdizione della Corte sul crimine di aggressione a partire da

luglio 2018. Già dal 1998 il crimine di aggressione fu inserito all’interno dello Statuto, ma l’uso della sua giurisdizione fu sospeso finché non fossero state definite le specifiche condizioni per il suo esercizio, approvate alla Conferenza di Kampala del 2010. L’uso della giurisdizione fu, anche in quel caso, soggetto ad una duplice condizione sospensiva: in primis, si sarebbe dovuto aspettare la ratifica dei relativi emendamenti da almeno 30 stati parte; in secondo luogo, si sottometteva la decisione finale ad un parere favorevole dell’assemblea degli stati parte. A conferma di tale rilevanza, la recente notizia del deposito di un ricorso da parte di un team di avvocati francesi relativo alle politiche migratorie dell’Unione Europea, accusata di crimini contro l’umanità nel corso della crisi umanitaria in Libia. Nonostante la CPI non comprenda la possibilità di legittimazione attiva da parte di individui, il Procuratore, ex Art. 15(1) dello Statuto, può decidere di aprire un’inchiesta “de sa propre initiative au vu de renseignements concernant des crimes relevant de la compétence de la Cour”. L’analisi di questo dossier, oltre ad essere decisamente prematura, esula dal presente articolo, ma rammenta della centralità della CPI, nonostante il crescendo di fallimenti. Infine, la giustizia penale internazionale, forse complice una fase calante della Corte penale dell’Aia, sembra muoversi verso nuove sfide. Complici le molteplici sentenze capitali comminate nei confronti di ex combattenti di Daesh in Iraq e Siria, si moltiplicano

le voci su un possibile ricorso tribunale penale ad un internazionale ad hoc per gli ex jihadisti con cittadinanza europea, che possa coniugare garanzie procedurali proprie del diritto europeo e necessità di giustizia. La CPI, in questo contesto, sembrerebbe inadatta a espletare un’azione positiva, in virtù della sua natura pattizia. In primo luogo, la Corte non ha ad oggi giurisdizione rationae loci per la Siria né per l’Iraq. D’altro canto, la possibilità che la situazione sia riferita dal Consiglio di Sicurezza, con la Siria sotto l’ala protettrice di Mosca, resta una possibilità di remota realizzazione. In conclusione, lo “stato di salute” della giustizia penale internazionale potrebbe sembrare incerto. Ciononostante, la sua attualità resta inalterata, così come la sua ineludibilità. La CPI è certamente un organo imperfetto, ma difficilmente potremmo immaginare un mondo migliore senza gli sforzi dell’Aia per garantire alla giustizia i criminali internazionali. E ciò senza contare le evidenti critiche da parte degli Stati Uniti d’America concernenti la sua azione, di concerto con altri stati “gelosi” della propria sovranità come Cina e Federazione Russa. E’ forse per questo che la giustizia penale internazionale potrebbe tornare al “vecchio” metodo di tribunali penali ad hoc, o tribunali misti, nel contesto dei conflitti in Siria ed Iraq. Il futuro, seppur incerto, è sicuramente di indubbio interesse.

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Diritto Internazionale ed Europeo Iran, gli Usa e il braccio di ferro tra le due potenze

Di Debora Cavallo Gli attriti tra Washington e Teheran al momento non sembrano attenuarsi. Le tensioni sono sempre più elevate. A dimostrarlo è lo stesso Donald Trump, il quale, in un tweet, esclama “Non ho mai revocato il raid contro l’Iran, come la gente sta erroneamente riportando. L’ho solo fermato per il momento”. Seicento secondi che hanno permesso al presidente statunitense di cambiare la propria decisione di sferrare un attacco contro Teheran. Un attacco solamente posticipato. Giovedì mattina 20 giugno, l’Iran ha dato immediata notizia di aver abbattuto un drone della sorveglianza navale degli Stati Uniti, che volava vicino allo Stretto di Hormuz. Di diverso avviso è stata la reazione della Casa Bianca, che ha rivendicato l’appartenenza del drone, ma ha altresì precisato che lo stesso sorvolava lo spazio aereo internazionale, non quello iraniano. La distruzione del drone, un RQ-4° Global Hawk, ha immediatamente aggravato la situazione, portando ad un 48 • MSOI the Post

aumento delle tensioni che, da settimane, fanno temere l’inizio di un terribile scontro militare. Un braccio di ferro che pende prima da un lato e poi dall’altro, con reciproche provocazioni a rischio escalation. Recentemente, infatti, fu Washington ad accusare Teheran di un attacco a due petroliere nel Golfo di Oman. In questo frangente, decine di membri dell’equipaggio sono state evacuate a seguito dell’esplosione di mine navali ubicate negli scafi. All’interno di questa arena di lotta, ciò che preoccupa maggiormente è la condizione dell’accordo nucleare, noto con l’acronimo JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action). Nel maggio scorso, l’Iran, nonostante fosse stata l’unica potenza ad onorare il patto nucleare, ha recentemente deciso di sospendere gli adempimenti relativi a tale accordo, fino a che non avesse ricevuto, a sua volta, una contropartita economica da parte delle altre potenze firmatarie. Queste ultime Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia e Germania -, avevano

infatti promesso di mantenere i rapporti commerciali con l’Iran. Nella realtà, tuttavia, molteplici aziende europee sono fuggite dal paese, così come le banche internazionali, che hanno azzerato le transazioni con gli istituti iraniani, e le esportazioni petrolifere di Teheran che si sono notevolmente ridotte. Paradossale rimane l’atteggiamento di Donald Trump, il quale, unilateralmente, lo scorso maggio 2018 aveva assunto la decisione di abbandonare il trattato. Così facendo, il tycoon newyorkese, impose nuove sanzioni all’Iran e si scontrò con la relazione della stessa Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), che affermava e confermava il pieno rispetto da parte dell’Iran dei termini dell’accordo. Una situazione ingiusta, ma comunque subita per oltre un anno da parte di Teheran, che ora ha prontamente confermato la sospensione da ogni tipo di accordo, non solo per cercare di riportare la situazione ad uno stato di corretto adempimento da parte delle altre potenze firmatarie, ma anche perché, nel corso degli anni, il patrimonio


Diritto Internazionale ed Europeo economico iraniano è stato intaccato e debilitato. In questo senso, come detto, un primo avvertimento sembrerebbe provenire dal fatto che l’Iran abbia concesso 60 giorni di tempo alle altre potenze per adempiere ai termini dell’accordo nucleare, con la conseguente minaccia di adozione di ulteriori, rigide misure. Il termine prefissato scadrà il prossimo 8 luglio. La speranza è che le altre potenze europee possano riprendere gli adempimenti pattuiti, portando così al ritorno dello stesso Iran ad onorare i termini e le misure dell’accordo nucleare. Dal canto proprio, Teheran non vuole abbandonare il JCPOA, ma intende ribadire il

fatto che non potrà rispettare unilateralmente un accordo disatteso da tutti gli altri contraenti. I già citati incidenti nel Golfo dell’Oman potrebbero essere letti analogamente: mostrare al mondo che se venisse impedito all’Iran di esportare petrolio, anche gli altri paesi produttori della regione potrebbero esserne colpiti – una tattica certamente condannabile nei modi, ma che rappresenterebbe la risposta politica alla decisione USA di aggravare economicamente un paese che sta rispettando un’intesa internazionale. Considerando il caso delle petroliere, difatti, è evidente l’impatto che si avrebbe sul trasporto, attraverso il vicino stretto di Hormuz, di un quinto del petrolio mondiale.

Di fronte all’unilateralismo americano, l’Europa non si è distinta per indipendenza né per coerenza ed efficacia della propria azione politica. Infatti, le pressioni europee nei confronti di Washington per salvaguardare il JCPOA sono andate scemando nel tempo al punto che, quando lo scorso maggio Teheran ha annunciato di sospendere temporaneamente alcuni obblighi previsti dall’accordo, Bruxelles ha emesso un comunicato in cui si sottolineava il “rifiuto di ogni ultimatum” proveniente da Teheran, esprimendo invece un semplice “rammarico” per l’imposizione unilaterale delle sanzioni da parte statunitense.

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