MSOI thePost - novembre 2019

Page 1

Novembre 2019


N o v e m b r e

2 0 1 9

MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Daniele Baldo, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

139

Redazione Direttore Editoriale Davide Tedesco Direttore Responsabile Giusto Amedeo Boccheni Vice Direttori Luca Bolzanin, Luca Rebolino Caporedattori Arianna Salan, Fabrizia Candido, Matteo Candelari, Pauline Rosa, Luca Imperatore Capiservizio Fabrizia Candido, Guglielmo Fasana, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Vladimiro Labate, Pierre Clément Mingozzi, Andrea Mitti Ruà, Giacomo Robasto, Arianna Salan Media E Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolini, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Alina Bushukhina , Fabrizia Candido, Federica Cannata, Daniele Carli, Debora Cavallo, Sabrina Certomà, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria Di Donato, Tommaso Ellena, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Vittoria Beatrice Giovine, Lara Amelie Isaia Kopp, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Mina, Pierre Clément Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Anna Nesladek, Virginia Orsili, Francesco Pettinari, Barbara Polin, Luca Pons, Jessica Prieto, Mario Rafaniello, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Federica Sanna, Martina Scarnato, Andrea Domenico Schiuma, Natalie Sclippa, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Diletta Sveva Tamagnone, Francesco Tosco, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner.


Libertà di stampa e responsabilità dei media

Di Stefano Panero, Lucrezia Petricca, Martina Scarnato La libertà di stampa e i suoi antecedenti

ricevere informazioni, quindi ad essere informati “senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”.

Nel 1948, all’articolo 29, la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo ha sancito la libertà di stampa come uno dei diritti fondamentali, prevedendo che ogni soggetto abbia “diritto alla libertà di opinione e di espressione” e, soprattutto, “di ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Non solo le Nazioni Unite hanno riconosciuto questo diritto come fondamentale e inviolabile, ma anche il Consiglio di Europa ha inserito la libertà di stampa nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). L’articolo 10 della Convenzione sancisce la libertà di opinione e il diritto a

La libera manifestazione del proprio pensiero è stata avvertita dall’uomo come una esigenza primaria già in diverse società arcaiche. Nell’antica Grecia, ad esempio, l’isegoria, ossia l’uguaglianza nel diritto di parola, costituiva uno dei pilastri della democrazia: le decisioni venivano prese nelle pubbliche assemblee, dove tutti i cittadini potevano esprimere liberamente il loro parere. Da allora, in Occidente, il principio ha subìto diverse evoluzioni; in particolare, dopo un periodo di forte repressione nell’ancien régime, si è ampiamente affermato con l’Illuminismo e la politica liberale dell’Ottocento. Con l’invenzione della stampa,

nel XV secolo, la diffusione del pensiero cominciò a divenire massiva, conferendo un decisivo impulso all’affermazione della centralità della libertà di espressione nella vita pubblica. La sentita necessità di tutela contro il potere procedette di pari passo e si fece sempre più strada nelle coscienze dei più. Nel 1644, il filosofo inglese John Milton pubblicò un breve opuscolo, l’Aeropagitica, con cui criticava una legge approvata dal Parlamento inglese, la quale prevedeva la previa approvazione da parte del Governo per la pubblicazione di manoscritti. Nel 1766, invece, si ebbe la prima legge sulla libertà di stampa, quando la Svezia abolì la censura di tutte le pubblicazioni, fatta eccezione per quelle in materia teologica o accademica, ma continuò a vietare scritture ed altre pubblicazioni contro l’autorità MSOI the Post • 3


regia. Nel tempo la libertà di stampa fu sempre più recepita come diritto soggettivo, un potere che sorge in capo al singolo e che viene tutelato direttamente dall’ordinamento, fino a che si affermò come tale nella maggior parte delle costituzioni liberali e democratiche: emblematicamente, il Bill of Rights della Costituzione americana garantisce, nel primo emendamento, la libertà di espressione tramite ogni mezzo di diffusione. Secondo questa accezione, la libertà di stampa ha come oggetto di tutela la libera manifestazione del pensiero e come principale contenuto di garanzia il diritto a informare e ad essere informati. In questo modo, oltre ad un diritto soggettivo e individuale, la libertà di stampa si configura anche come diritto collettivo e sociale. Queste due dimensioni sono fondamentalmente legate all’elemento pluralistico proprio di una società democratica, per mezzo del quale l’enfasi della libertà di parola è posta sulla molteplicità. Nelle società in cui il pluralismo trova effettiva espressione dovrebbe così diventare possibile attingere a diverse fonti di informazione, contribuendo alla coltivazione di una cultura di imparzialità e obiettività. Limiti e pluralismo La pluralità delle fonti di informazioni è un concetto che ha seguito il suo sviluppo soprattutto nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la quale ha precisato la misura generale contenuta nell’articolo 10 della Convenzione, sottolineando che ognuno debba ricevere “un’informazione il più possibile pluralistica e non condizionata dalla presenza di posizioni dominanti”. Peraltro, nella sentenza Information-sverein Lentia c. Austria, la Corte 4 • MSOI the Post

ha specificato che ogni stato membro, in quanto ‘ultimate guarantor’, deve, onde evitare eventuali situazioni di monopolio o di concentrazioni abusive, assicurare il cosiddetto ‘pluralismo informativo’, soprattutto quando la diffusione delle informazioni riguardi il sistema radiotelevisivo. A dispetto delle frequenti garanzie preposte nel mondo a tutela tanto della libera manifestazione del pensiero, quanto della libertà di stampa, non si può presupporre che i relativi diritti siano sempre esercitabili senza alcun vincolo. Esistono infatti delle limitazioni, previste sia dall’ordinamento internazionale, sia dagli ordinamenti interni. La previsione di limiti legittimi è in genere diretta a proteggere altri interessi ritenuti comparabilmente rilevanti, quali la pubblica sicurezza e il rispetto dei diritti e libertà altrui, ed è solitamente mediata da garanzie procedurali e in particolare dalla riserva di legge. Basti guardare al già citato articolo 29 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che nei commi finali recita: “Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico, e del benessere generale in una società democratica. Questi diritti e queste libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e principi delle Nazioni Unite”. Il bilanciamento dei valori che sottendono a questioni di libertà di espressione e di sicurezza si rivela spesso difficile e complicato. Tra i molti esempi che si potrebbero proporre, la vicenda di Julian Assange

è forse quella che negli ultimi anni ha suscitato più dibattiti e critiche, in particolare circa l’opportunità di limitare la libertà di stampa. L’attivista australiano e fondatore di WikiLeaks è stato accusato di spionaggio e divulgazione di segreti americani. La Divisione per la Sicurezza Nazionale del Dipartimento di Giustizia statunitense (NSD), lo ha incriminato per 17 capi d’accusa, ricorrendo alla legge sullo spionaggio, nota come Espionage Act del 1917, nata per condannare la divulgazione di notizie che possano pregiudicare il successo di operazioni militari. Alcune organizzazioni, quale, ad esempio, l’ONG American Civil Liberties Union, ritengono che l’Espionage Act non protegge quei giornalisti che divulgano informazioni e notizie a fini del pubblico interesse e che l’incriminazione di Assange mina la libertà di stampa in modo inaccettabile. Fascismi e repressione La storia della libertà di stampa e della libera manifestazione del pensiero, d’altro canto, è ricca di avvenimenti e periodi nei quali i diritti han subito illegittime vessazioni, nel segno di uno squilibrio valoriale. I regimi totalitari che hanno minato e che minano la libertà dei giornalisti, sono in tal senso oscure parentesi di repressione. Il fascismo, in diverse occasioni e contesti, si fece carico di abolire il pluralismo mediatico a favore del monopolio statale, con l’intento di farne mezzo di propaganda. Il tramite elettivo di questo tipo di repressione fu la censura governativa, attraverso la quale in passato è stata vietata la pubblicazione di opere non solo di stampo giornalistico, ma anche letterario ed artistico. Così fu nel 1917, ad esempio, quando l’Unione Sovietica proibì la divulgazione di articoli che criticassero le autorità.


di golpe fallito, molti giornalisti sono stati obbligati a lasciare il paese o affrontare il carcere.

I fascismi, da allora, hanno perso terreno, ma i dati suggeriscono che alcuni squilibri tipici del totalitarismo stiano riemergendo ai danni della libertà di espressione. Sulla base dell’indice di Reporters sans Frontières (RSF), che stima la libertà di stampa in 180 paesi, i casi di violenza fisica o verbale su giornalisti e reporter sono aumentati rispetto al recente passato. Europa e Stati Uniti non si sottraggono alla necessità di tutelare maggiormente il diritto all’informazione e i frequenti attacchi del presidente statunitense Donald Trump ai media americani, come riportato dal New York Times, non aiutano in tal senso. Il segretario generale di RSF, Christophe Deloire, nel report afferma che “fermare questo ciclo di paura e di intimidazione è una questione della massima urgenza per tutte le persone di buona volontà che apprezzano le libertà acquisite nel corso della Storia”. Il giornalismo e i suoi nemici L’organizzazione non governativa Freedom House ha evidenziato nel documento ‘Freedom in the World’ come in generale la democrazia sia in ‘ritirata’. La pagina web keepthetruthalive.co, di cui

abbiam scritto recentemente, racconta questa realtà permettendo di accedere a una mappa del globo e di vedere, nello specifico, il numero di giornalisti uccisi in ogni paese, le generalità degli stessi e le circostanze della loro scomparsa. Un’altra iniziativa che merita di essere citata è quella di Forbidden Stories, un progetto voluto da RFS e Freedom Voices Network, che vede una rete di giornalisti incaricati di continuare a “pubblicare il lavoro degli altri giornalisti che affrontano minacce, la prigione o l’omicidio”. Tra le aree geopolitiche classificate come più pericolose per i giornalisti, spicca però la zona del Medio Oriente e Nord Africa, che ha registrato un lieve calo dei casi di omicidio dei giornalisti rispetto al 2018. Nella regione sono presenti per la maggior parte regimi autoritari, come l’Arabia Saudita, guidata dal principe Mohammed bin Salman e, dallo scorso anno, al centro dell’attenzione mediatica per il caso dell’omicidio dell’editorialista del Washington Post, Jamal Khashoggi. Non è migliore la situazione nella formalmente democratica Turchia, dove, soprattutto a partire dal 2016, successivamente a un tentativo

In prospettiva globale, secondo il report a firma del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), un’organizzazione indipendente e no-profit che persegue l’obiettivo di promuovere la libertà di stampa nel mondo, i singoli paesi più pericolosi per i giornalisti sono, in ordine decrescente, Eritrea, Nord Corea, Turkmenistan, Arabia Saudita, Cina, Vietnam, Iran, Guinea Equatoriale, Bielorussia e Cuba. La lista è stata stilata sulla base di criteri quali le misure di limitazione della libertà personale dei giornalisti (dalla censura alla detenzione arbitraria) e la presenza di leggi repressive in materia di libertà di espressione, che non escludono Internet e l’accesso ai social network. In Eritrea, Nord Corea e Turkmenistan, i media sono strettamente controllati dai rispettivi governi, tanto da essere praticamente considerabili alla stregua di loro portavoce. Si esclude, in questo modo, qualsiasi altra possibile forma di informazione che potrebbe contrastare le fonti ufficiali. Per esempio, nel regime di Kim Jong-un, l’accesso al World Wide Web è impossibile per i residenti. In base alle pur scarse informazioni sul punto, Amnesty International ha concluso che anche il network locale, strettamente controllato dal Governo, sia accessibile solo a pochi eletti. Agli stranieri sembra essere vietata ogni comunicazione con l’esterno e il paese rimane restio ad accogliere giornalisti entro i propri confini. Contrariamente a quanto si può immaginare e quasi ironicamente, però, nella Costituzione nordcoreana la libertà di stampa è riconosciuta, così come quella di espressione, all’art. 67. MSOI the Post • 5


Negli altri paesi citati, invece, sempre secondo quanto affermato dal CPJ, se da un lato si attuano misure repressive, quali la detenzione arbitraria dei giornalisti, dall’altro si presta anche molta attenzione a forme di sorveglianza più sofisticate, che possono comprendere, tra le altre, il monitoraggio e la censura di Internet, social media inclusi. In un articolo del 2014 per Journal of Democracy, gli esperti di affari internazionali e democrazia Christopher Walker e Robert W. Ortung hanno affermato che, nonostante l’implementazione della censura digitale sia molto più complessa, se confrontata con il controllo dei media tradizionali come la televisione, i regimi autoritari contemporanei hanno saputo dimostrare di avere un “occhio per l’innovazione” in materia di controllo del cyberspazio. La minaccia delle fake news L’obiettivo della maggior parte dei paesi non democratici odierni non è tanto quello di sorvegliare in maniera capillare tutti i mezzi di comunicazione di massa, quanto quello di avere un ‘controllo effettivo dei media’, ovvero un dominio dei principali canali mediatici tale da conferire loro legittimità e compromettere la credibilità di tutte le altre

6 • MSOI the Post

fonti. In tal senso, uno degli strumenti utilizzati dai regimi autoritari (e non solo) è quello delle fake news: da un lato, i giornalisti vengono accusati di diffondere notizie false sul conto del Governo, esponendosi così a regime di detenzione; dall’altro, è l’autorità stessa a diffonderle a propria volta. Un caso interessante è quello della Cina. Nel 2015, infatti, l’Assemblea Nazionale del Popolo, con l’adozione del Nono Emendamento al Diritto Penale del Popolo della Repubblica di Cina, ha affermato che diffondere notizie ritenute false dal Governo sia un reato punibile fino a un massimo di sette anni di prigione. Contemporaneamente, secondo quanto riportato dal Guardian lo scorso agosto, il giornale filogovernativo People’s Daily avrebbe pubblicato un articolo tramite WeChat, omologo cinese di WhatsApp, invitando i manifestanti di Hong Kong a cessare le violenze. Eppure, fino ad allora, le proteste si erano svolte in maniera pressoché pacifica.

digitale. In questo contesto, tanto le legittime limitazioni del diritto all’informazione, alle quali abbiamo più sù accennato, quanto i principi che dovrebbero sottendere alla responsabilità dei media, diventano più difficilmente individuabili, sebbene la necessità di un equilibrio tra interessi contrastanti e comparabilmente rilevanti appaia in modo altrettanto lampante. L’esempio più ovvio è rappresentato dal dibattito sul surriscaldamento globale. Ormai da anni, il cambiamento climatico è una delle teorie scientifiche sostenute dalla maggiore certezza probatoria, forse quella che raggiunge il consenso più ampio tra i climatologi, pari al 97%. Questa cifra, di per sé enormemente significativa, appare ancora più rilevante se si tiene conto del fatto che conta al proprio interno gli esperti più autorevoli e le pubblicazioni più prestigiose, come Nature e Science.

Il tema delle fake news, peraltro, si presta alle più diverse trattazioni e pervade non solo la dimensione della falsa coscienza nazionale, pilotata dalle burocrazie di regime, ma anche il reame dell’informazione pluralista, transfrontaliera e

In uno studio pubblicato su Nature Communications, è stata analizzata la presenza di 386 climatologi e 386 negazionisti climatici sui principali media in lingua inglese. Due sono i risultati importanti: i ‘contrarians’ ottengono in

Il caso mediatico cambiamento climatico

del


media il 49% di spazio in più sui media tradizionali e tendono ad essere una comunità autoreferenziale. Mentre gli scienziati considerati si citano l’un l’altro solo il 12% delle volte, indicando così di attingere a un bacino di menti ben più ampio, nel secondo gruppo le connessioni arrivano al 52%. Ciò avviene soprattutto nel mondo occidentale, mentre in Cina e India il fenomeno è quasi assente, sia per i maggiori impatti nel Mar Indiano, che influiscono direttamente sulla vita dei più, sia per l’ufficiale riconoscimento da parte del Partito Comunista Cinese del fenomeno del surriscaldamento globale. Qual è la ragione della sovraesposizione mediatica dei negazionisti? La scarsa preparazione dei giornalisti o del pubblico in temi scientifici, ad esempio, potrebbe portare a favorire il bilanciamento delle opinioni nella fatua ricerca di qualche obiettività e imparzialità o di un’impressione della stessa. Accade così che, al fianco di climatologi apprezzati, si vedano economisti, scienziati politici e filosofi, oltre che esperti in campi affini, ma comunque fondamentalmente diversi, quali geologi e ingegneri petroliferi. Con l’assegnazione dello stesso spazio e dello stesso livello di scrutiny, si realizza quindi l’obiettivo della più o meno inconsapevole strategia antiambientalista: instillare il dubbio nel non esperto. Ciò a cui mirano fondazioni come l’Atlas Network, finanziato dai fratelli Koch, magnati del carbone, è formare attivisti capaci di far passare l’idea di una comunità scientifica divisa, ma assoggettata a ‘bigotti ambientalisti’. I contrari diventano così novelli Galilei, presentandosi come eroici ricercatori che attaccano un dogma, sottratto dai ‘poteri forti’ (Cina, UE, l’establishment)

al metodo scientifico. Questo metodo molto raffinato fu ideato già 20 anni fa da Frank Luntz, stratega del partito repubblicano statunitense. La rete che utilizza questa tecnica è molto vasta ed eterogenea: gruppi come l’Heartland Institute, che ha tra i suoi esperti climatici H. Sterlin Burnett, laureato in antropologia e filosofia, grandi gruppi petroliferi e esponenti dell’alt-right. Inoltre, per distogliere dalle prove fattuali il pubblico, il movimento ambientalista viene contestato per futili motivi, ricostruendo ad esempio, tramite cherrypicking e riduzioni ad absurdum l’attivismo di Greta Thunberg o ancora rivolgendosi unicamente alla parte più estrema degli ecologisti e legata alla sinistra anticapitalista. Questa guerra mediatica è giovata ad alcuni, ma ha danneggiato tutti. Se, fino agli anni Novanta, la consapevolezza del cambiamento climatico aveva raggiunto tantissime persone, negli ultimi si è ridotta, mentre è aumentato lo scetticismo disinformato. Ci sono però buone notizie: secondo un studio del 2015, si è passati da uno scetticismo verso il cambiamento climatico causato dall’uomo ad uno diretto verso l’efficacia delle misure proposte per contrastarlo. Sfide, innovazioni complessità

e

L’Occidente si è spesso fatto paladino del pluralismo delle opinioni e per lungo tempo la comunità scientifica ne è stata il luogo di elezione. Oggi, diversi gruppi di pressione, in nome della libertà di pensiero, stanno attaccando persino i risultati di quella che è stata un’autentica rivoluzione scientifica del ‘900: la scoperta dell’influenza dell’uomo sul clima. Fattori inaspettati come l’inseguimento dello share,

apoteosi della mercificazione dell’informazione, o l’inerzia intellettuale possono insinuarsi subdolamente nello sviluppo plurale della libertà di espressione e, a seconda dei contesti, contribuire a squilibri estremamente deleteri per la società. Nel caso del clima, la stampa responsabile, prima tra la sempre più vasta schiera dei media, dovrà abituarsi a promuovere una riflessione sul proprio rapporto con l’obiettività e con l’autorità scientifica. Il principio del pluralismo dovrà in questo scenario, come in altri, fare i conti con la ricerca della verità e i valori della democrazia che dovrebbero dare parte della sua stessa matrice. Le complessità dei diritti di espressione e d’informazione, delle libertà di parola e di stampa, dei loro limiti legittimi e illegittimi, così come le responsabilità delle istituzioni, degli intermediari, degli attori, del pubblico sono difficili da catturare o descrivere in modo chiaro e definitivo. Si potrebbe forse dire che l’umanità, nella storia, ha attraversato questo caleidoscopio di concetti e realtà con uno sforzo collettivo e olistico, arrivando spesso a risposte da rimettere in discussione all’avvento di qualche innovazione tecnologica o sociale. Ad oggi, dopo l’impennata universalistica della Dichiarazione dei Diritti, le successive sfide del particolarismo e le apparenti ritirate dello scetticismo digitale, restano molte strade da percorrere, a volte per mezzo di sacrifici, come ci insegnano le morti di tanti giornalisti nel mondo odierno. Alcune di quelle strade, se avremo successo, ci condurranno verso un futuro migliore.

MSOI the Post • 7


Europa Occidentale Violenza e libertà nella stampa europea

Di Federica Cannata Una delle declinazioni fondamentali della democrazia è la libertà di informare. È dunque legittimo chiedersi quale sia lo stato di salute del giornalismo libero in Europa. Il rapporto del 1° gennaio 2019 “Mapping media freedom 20142018” di Index on Censorship” illustra una situazione poco confortante. Questo rapporto, che prende in considerazione il periodo da maggio 2014 a luglio 2018 e che monitora complessivamente 35 Stati, tra paesi Ue ed extra Ue, candidati o potenzialmente candidabili a far parte dell’Unione, presenta un resoconto di tante e diverse forme di violazioni della libertà di stampa, più o meno gravi, che vanno dalle vicende di diffamazione e discredito alle intimidazioni, dalle aggressioni fisiche ai veri e propri omicidi di persone che esercitano la professione giornalistica. 8 • MSOI the Post

L’Italia registra un record negativo in 7 sui 18 indici considerati nell’indagine. In particolare, detiene il primato per aggressioni fisiche e molestie psicologiche, offese, intimidazioni, attacchi alla proprietà, cause civili, episodi di discriminazione e discredito verso i giornalisti. Inoltre, il nostro Paese è secondo solo alla Turchia per numero complessivo di episodi di violazione della libertà di stampa. Tuttavia, non sono stati registrati episodi di omicidi (a differenza della Francia, che conta il numero più alto in questa particolare graduatoria, a seguito dell’attacco terroristico alla sede della rivista Charlie Hebdo nel gennaio 2015), né casi di restrizione della libertà personale dei giornalisti da parte dello Stato. In tema di giornaliste e giornalisti uccisi in Europa, il rapporto cita anche la Repubblica di Malta, in seguito all’assassinio della

giornalista investigativa Daphne Caruana Galizia, e la Repubblica Slovacca, per il caso del duplice omicidio del giornalista Jan Kuciak e della sua compagna Martina Kusnirova. In effetti, anche a causa dell’impatto che queste morti hanno avuto sull’opinione pubblica e delle modalità con le quali sono avvenute, Malta e la Slovacchia sono scese in misura significativa nella classifica mondiale della libertà di stampa 2019 dell’organizzazione no-profit Reporters sans frontières. In calo, nella classifica appena citata, si registra anche la Bulgaria, che nell’ottobre 2018 è stata teatro dell’uccisione della giornalista Viktoria Marinova. Le morti di Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak, Viktoria Marinova e di altri giornalisti europei sembrano presentare un denominatore comune: si tratta di professionisti il cui omicidio è presuntivamente legato alla rivelazione di informazioni


Europa Occidentale di pubblico interesse che riguardavano alti vertici dello Stato. Colpisce ulteriormente che i delitti siano stati commessi in Paesi ritenuti sostanzialmente democratici e liberali. Quando è stata uccisa, Daphne Caruana Galizia stava lavorando, tra le altre cose, su un’inchiesta mirata a fare luce sulla presunta intestazione di un’azienda panamense, dedita al riciclaggio di denaro sporco, alla moglie del primo ministro Joseph Muscat. Kuciak indagava, invece, su presunti legami con l’organizzazione mafiosa ‘ndrangheta da parte di alcune figure vicine all’allora primo ministro slovacco Robert Fico. Nella puntata del programma televisivo bulgaro ‘Detektor’ che ha preceduto l’assassinio, Viktoria Marinova aveva rivelato un caso di corruzione che avrebbe coinvolto alcuni vertici politici bulgari. Al di là del ruolo del potere pubblico nelle inchieste di questi giornalisti e delle conseguenze derivate per loro dalla conduzione di tali inchieste, può essere importante osservare anche quali siano state le reazioni dei personaggi politici coinvolti. Nel caso Caruana Galizia, si è registrata una sostanziale mancanza di assunzione di responsabilità politica: nessuno dei sospettati, infatti, ha rassegnato le proprie dimissioni. A questo dato si affianca anche la preoccupazione

espressa in una lettera aperta indirizzata alla Commissione europea dall’organizzazione internazionale non governativa degli scrittori, che ha denunciato la modalità di svolgimento delle indagini, la lentezza delle procedure e gli episodi di depistaggio. Reporters Sans Frontières si è invece schierata pubblicamente contro l’apertura di procedimenti giudiziari per diffamazione da parte dei politici coinvolti nelle indagini, affermando che “il Premier e gli altri funzionari farebbero bene ad abbandonarli e a concentrare i loro sforzi sulla ricerca di verità per Daphne”. Situazione diversa, invece, per quanto riguarda il caso Kuciak: la vicenda ha prodotto infatti una reazione così forte nell’opinione pubblica slovacca da portare alle dimissioni del ministro della Cultura Marek Madaric prima, del ministro dell’Interno Robert Kalinak poi e, infine, anche del primo ministro Robert Fico. Tuttavia, le violazioni della libertà di stampa non sono confinate al coinvolgimento del mondo politico nelle inchieste ed alle sue reazioni: la questione del rapporto tra stampa e potere politico è più ampia e presenta numerosissime sfaccettature. Un esempio particolare si è avuto nel caso del ministro dell’Interno austriaco, Herbert Kickl, che ha causato un forte imbarazzo per il governo di Sebastian Kurz quando, in una e-mail inviata alle forze di polizia,

ha invitato gli ufficiali a fornire meno informazioni ad alcuni giornali considerati ostili. Una esempio meno appariscente di discriminazione nel rapporto con la stampa ha avuto luogo in Francia, dove i criteri di scelta applicati dall’Eliseo per scegliere quali testate e quali giornalisti potessero seguire il Presidente nei suoi viaggi istituzionali hanno prodotto preoccupazioni tali da indurre diverse redazioni - tra cui anche Le Figaro e Le Monde a indirizzare una lettera aperta alla presidenza della Repubblica nella quale essi contestavano le modalità di tale decisione. Nelle democrazie europee, che vivono spesso forme di diffidenza pubblica verso la classe politica e, in alcuni casi, vedono messe in discussione le stesse basi democratiche della convivenza civile da governi di stampo sempre meno liberale, non si può prescindere oggi dal ruolo di una stampa libera e indipendente. Proprio per questo, il potere politico non può esitare nel difendere il diritto all’informazione: dev’esser sempre denunciato quando tenta di ostacolarlo, in forme più o meno esplicite e violente. La memoria di giornaliste e giornalisti come Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak, Viktoria Marinova e molti altri occorre sia tenuta viva, anche perché legata a questo aspetto fondamentale della democrazia.

MSOI the Post • 9


Europa Occidentale I timori dell’Europa allontanano Albania e Macedonia del Nord

Di Gabriele Fonda Giovedì 17 ottobre 2019, la riunione del Consiglio Europeo tenutasi a Bruxelles si è trasformata nel terreno di un aspro dibattito politico fra i rappresentanti dei 28 stati membri dell’Unione, chiamati a decidere in merito all’autorizzazione all’avvio di trattative con Albania e Macedonia del Nord per la loro adesione all’UE. Gli stati comunitari avevano già espresso in passato la promessa di avviare tali negoziati al più presto e la Commissione e altre istituzioni europee avevano dato parere favorevole. Nonostante ciò, durante quest’ultimo incontro non è stato possibile autorizzare la decisione perché non si è raggiunta l’unanimità dei consensi: determinanti sono stati i veti posti dai capi di stato e di governo di Danimarca, Olanda e, soprattutto, Francia, il cui presidente Emmanuel Macron 10 • MSOI the Post

ha espresso opinioni molto critiche sul futuro processo di allargamento dell’Unione Europea. La mancata autorizzazione è stata oggetto di un forte disappunto da parte del presidente della Commissione uscente Jean-Claude Juncker e del presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk. Il presidente della Commissione ha commentato l’esito della votazione dicendosi “profondamente deluso” e aggiungendo che si tratta di “un grave errore storico”. Juncker e Tusk hanno poi ribadito la posizione espressa già a fine maggio dalla Commissione, in un rapporto che illustrava come i due paesi avessero effettivamente realizzato le richieste europee di maggiori sforzi nella lotta contro la criminalità e la corruzione. La strada verso l’adesione di Albania e Macedonia del Nord all’Unione era parsa in salita

già nel Consiglio Europeo di giugno, dove molti stati avevano assunto un atteggiamento estremamente cauto a tale riguardo. Secondo il Sole 24 Ore, i detrattori sarebbero stati spinti principalmente dal timore di un rafforzamento di forze euroscettiche e nazionaliste, che nei singoli stati insistono sulle conseguenze negative di un allargamento dell’Unione Europea. In quell’occasione, il Consiglio si era limitato quindi a prendere atto del rapporto della Commissione - che non negava comunque i gravi problemi ancora presenti nei due paesi in esame - e a rimandare la decisione al vertice di ottobre, dove le speranze che gli europeisti albanesi e nordmacedoni ancora nutrivano sono state affondate. Questi dubbi sarebbero alla base della posizione assunta dalla Francia. Formalmente, il presidente francese ha giustificato l’inamovibilità del suo veto con la considerazione


Europa Occidentale che «l’allargamento (...) complica il processo di approfondimento dell’Unione». Emmanuel Macron ha utilizzato anche toni più duri, definendo «irrazionale la politica di ampliamento senza fine dell’UE» e argomentando che non è possibile, per l’Europa, avere un rapporto con i propri vicini fondato unicamente sull’espansione. È possibile individuare anche cause di altra natura alla base della decisione francese. Sempre il Sole 24 Ore ha fatto notare come una di queste sia la vicinanza con le elezioni amministrative che avranno luogo nel marzo 2020. Macron, che ha visto un calo vertiginoso nei suoi indici di gradimento negli ultimi mesi, avrebbe cercato quindi di mantenere una posizione il più possibile equilibrata per non favorire i suoi avversari. In particolare, ci sarebbe il timore di un allargamento del consenso registrato alle elezioni europee dal Rassemblement National di Marine Le Pen. La destra francese, critica verso la politica migratoria del Governo, avrebbe potuto presentare le trattative come un nuovo passo verso ‘l’invasione’ del paese. Già oggi, infatti, sembra individuabile un flusso di migrazione irregolare che passa da Albania e Macedonia del Nord per giungere fino in Europa occidentale e, in particolare, in Francia. Non a caso, un diplomatico ha commentato a margine del vertice del 17 ottobre che “forse dopo il voto Parigi cambierà posizione.” Assieme alla Francia, hanno espresso il loro veto anche Olanda e Danimarca, spinte apparentemente da motivazioni

analoghe a quelle del Governo francese. In particolare, secondo quanto riferito da Bled Koka, direttore dell’importante testata online www.syri.net, durante un’intervista radiofonica lo scorso 26 ottobre, il veto olandese sarebbe stato posto per via delle attività collegate al i traffico di droga d bande criminali albanesi nelle aree portuali di Amsterdam e Rotterdam e dello scarso impegno delle autorità albanesi per fermare i conseguenti flussi di denaro sporco. Ai veti vanno inoltre sommati i dubbi, espressi tramite canali non ufficiali, dei rappresentanti governativi soprattutto di paesi dell’Europa occidentale, quali Spagna, Germania, Belgio e Lussemburgo. Già a giugno, secondo il Sole 24 Ore, questi avevano paventato timori di possibili ripercussioni elettorali, in caso di parere favorevole all’allargamento nei Balcani, e avevano spinto verso la posizione prudente assunta in quell’occasione. Di certo, le conseguenze delle mancate trattative saranno molto più ampie e complesse di quelle legate ai singoli contesti nazionali. Va infatti considerato che la possibilità di avviare i negoziati per l’adesione, sulla scia di quelli aperti col Montenegro nel 2012 e con la Serbia nel 2013, era sorta anche e forse soprattutto in risposta a una precisa necessità di politica estera dell’Unione Europea. L’opportunità per questi paesi di entrare nel primo mercato economico mondiale si sarebbe potuta tradurre nel sostegno agli europeisti dei due stati balcanici, sotto forma di concrete prospettive future per il miglioramento dei propri sistemi politici, economici,

giudiziari. Si tratta, nei fatti, di una strategia di stabilizzazione politica in un’area contigua all’UE, caratterizzata, oggi come nel suo turbolento passato, da tensioni etniche e politiche che si sono manifestate, ad esempio, nella primavera di quest’anno, con le proteste a Tirana contro il Governo socialista. Lo scopo sarebbe inoltre stato quello di sottrarre i Balcani all’influenza cinese e alla sua nuova Via della Seta, così come alle ambizioni geopolitiche della Russia e della Turchia di Erdogan. Il ‘no’ dell’Europa può essere visto non solo come un rinvio dell’allargamento dell’Unione, ma anche come sintomo della debolezza dell’Europa unita, che rinuncia ad ampliare la propria sfera di influenza perché incapace di superare le tensioni interne ai singoli paesi. Va registrato che diversi paesi si sono invece schierati a favore delle trattative. Tra questi anche l’Italia, che, forte anche della vicinanza geografica, economica e culturale, ha sempre sostenuto la candidatura di Albania e Macedonia del Nord, rinnovando tale sostegno anche a seguito del Consiglio Europeo del 17 ottobre. Buona parte d’Europa, tuttavia, pare non ritenere l’influenza nei Balcani come una questione sufficientemente importante dametterearischioipropriequilibri interni. Così, pur senza opporsi apertamente, essa mantiene i suoi dubbi e lascia nuovamente spazio all’eterno dibattito tra prospettiva comunitaria e priorità nazionali.

MSOI the Post • 11


Medio Oriente e Nord Africa Il grido degli ultimi non fa poi così rumore

Di Andrea Daidone Secondo l’UNHCR, da marzo 2011, la guerra in Siria ha causato 12.7 milioni di sfollati. Il paese conta 18.9 milioni di abitanti. Sul totale degli sfollati, 6.1 milioni di questi hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni, pur rimanendo entro i confini nazionali; 6.6 milioni di persone, invece, hanno lasciato il paese. Di questi ultimi, la maggior parte vive in aree urbane distribuite fra Turchia, Giordania, Libano e, in misura minore, Iraq ed Egitto. Dei 6.6 milioni, solo il 10% vive in campi profughi organizzati dall’ONU o dai governi nazionali. Il 90% vive in accampamenti improvvisati o in zone altamente sovrappopolate e pericolose. In Libano, il 70% dei siriani vive al di sotto della soglia di povertà. In Giordania, il tasso raggiunge il 93%. I siriani che sono rimasti in patria hanno serie difficoltà nel soddisfare i bisogni di base, anche per il fatto che gli aiuti umanitari sono spesso ostacolati 12 • MSOI the Post

dall’avanzare delle ostilità. Come ha affermato l’Alto Commissario UNHCR, Filippo Grandi, quella siriana “is the biggest humanitarian and refugee crisis of our time, a continuing cause for suffering”. La Turchia, dal canto proprio, accoglie 3.5 milioni di profughi. Molti di essi, nel recente passato, hanno più volte intrapreso pericolose e irregolari traversate alla volta dell’Europa, mettendo in crisi il suo sistema di accoglienza. Per questa ragione, il 18 marzo 2016, l’Unione europea ha stipulato un accordo con Ankara. Esso prevede il respingimento in Turchia di tutti i migranti (siriani compresi) che non abbiano presentato domanda d’asilo o la cui domanda sia stata rifiutata. È stato inoltre previsto che per ogni profugo siriano rimandato in Turchia dalle isole greche, un altro siriano verrà trasferito dalla Turchia all’Unione Europea attraverso canali umanitari. In cambio, la Turchia ha ottenuto la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi, aiuti economici per un totale di 6 miliardi di euro (in due tranches) e lo sblocco dei

negoziati sui capitoli restanti per arrivare all’adesione della stessa all’Unione. Da quel momento, al di là dei giudizi morali che possono esser formulati sull’accordo, il dato oggettivo che risalta è che gli arrivi tramite la rotta del Mediterraneo orientale sono calati del 97% e in quella del Mediterraneo centrale dell’80%. Tuttavia, a partire dall’estate del 2018, le cose sono cambiate. Già da agosto, infatti, il governo ellenico ha denunciato una notevole ripresa dei flussi pari al +17% su base mensile. Il fatto pare non essere casuale. Ad agosto, il ministro degli Esteri turco, Mevlüt Çavuşoğlu, ha infatti dichiarato: “We are not applying the readmission agreement at the moment, and we are evaluating the refugee deal”. Non sarebbe improprio leggere questa intenzione come uno strumento di rappresaglia ai danni di Bruxelles, a causa delle sanzioni imposte su Ankara per la questione dei giacimenti a largo di Cipro. Col passare del tempo, l’atteggiamento turco si è fatto sempre più sprezzante, fino ad arrivare al punto di


Medio Oriente e Nord Africa rottura. Mercoledì 9 ottobre scorso, le forze armate turche hanno varcato il confine meridionale, entrando nella regione nord-orientale della Siria, storicamente abitata dai Curdi. L’operazione, definita dal presidente Erdogan ‘Peace Spring’, mira a debellare i nuclei restanti del sedicente Stato Islamico, così come le cosiddette Unità di Protezione del Popolo Curdo (YPG), aventi base in Siria, che Ankara ritiene essere collegate al Partito dei Lavoratori Curdi (PKK), a sua volta reputato un partito fuorilegge e un gruppo terroristico. Nel frattempo, la china dei rapporti tra Ankara e Bruxelles si è fatta sempre più evidente. In previsione della riunione del Consiglio Affari Esteri dell’Unione tenutasi il 14 ottobre, e immaginando che i 28 non avrebbero visto di buon occhio l’operazione militare in corso, il Presidente turco, durante un discorso al proprio partito, ha così ammonito l’UE: “Hey EU, wake up. I say it again:

if you try to frame our operation there as an invasion, our task is simple: we will open the doors and send 3.6 million migrants to you”. Dopo giorni di combattimenti, Erdogan ha ribadito la proposta già fatta il 24 settembre alle Nazioni Unite: istituire una Zona di Sicurezza, in territorio siriano, con lo scopo di ospitare fino a 2 milioni di profughi siriani che, attualmente, si trovano in Turchia a causa della guerra civile siriana, che ormai si protrae da 8 anni. Nei progetti di Ankara, la Zona dovrebbe penetrare in suolo siriano per 30 km ed estendersi per 480 km. La sua profondità, sempre secondo il Presidente turco, potrebbe poi essere estesa fino a 50 km, ovvero fino a Raqqa e Dei ezZor, potendo così accogliere fino a 3 milioni di siriani. Il 21 ottobre scorso, il Erdogan si è recato a Sochi per incontrare il suo omologo russo. L’intento è quello di trovare una soluzione definitiva al problema dei rifugiati siriani, discutere della Zona di Sicurezza proposta

e, non da ultimo, porre fine all’occupazione militare che certo non facilita la risoluzione della crisi. In seguito ai colloqui, un compromesso è stato raggiunto. La Zona di Sicurezza si farà, ma avrà dimensioni più ridotte di quelle inizialmente proposte e sperate da Erdogan. Essa avrà infatti una profondità di 32 km e si estenderà per 120 km (contro i 480 iniziali), fra le città di Tal Abyad e Ras al-Ain. Questa zona sarà posta sotto il controllo turco. Già il giorno successivo, il 22 ottobre, è iniziata la prima fase di attuazione dell’accordo. In circa 150 ore, la polizia militare russa e le guardie di confine siriane hanno effettuato lo sgombero del YPG e delle armi dalla safe zone, al fine di renderla sicura per il ritorno dei profughi siriani; ritorno che, stando all’intesa, dovrebbe effettuarsi in maniera “sicura e volontaria”. See what’s coming.

MSOI the Post • 13


Medio Oriente e Nord Africa I media turchi: una ‘prigione a cielo aperto’

Di Anna Filippucci “The year 2014 will go down as the annus horribilis of Turkish journalism”. Comincia così il report pubblicato da Yavuz Baydar nel 2015 per la Kennedy School, ramo dell’università di Harvard, che fotografa la situazione del giornalismo in Turchia in quell’anno. Il paper ripercorre le fasi e le cause che hanno portato al deterioramento della libertà di stampa. Fin dall’inizio del processo di democratizzazione, che coincide con la creazione della Repubblica nel 1923, lo stato turco non ha mai brillato in materia di garanzia dei diritti di espressione: da sempre, la vicinanza del potere alle gerarchie militari ha limitato il dibattito su temi controversi quali le diversità etniche e religiose presenti sul territorio e la storia e la tradizione politica del paese. Tuttavia, questo non ha impedito lo sviluppo 14 • MSOI the Post

di un nucleo ristretto, ma agguerrito, di realtà editoriali che si oppongono alla censura e combattono per dimostrare l’importanza di una stampa libera. Fino agli anni ’80 le tre testate Hürriyet, Milliyet e Sabah, di proprietà di potenti famiglie, dominarono il panorama editoriale. Con la liberalizzazione della proprietà dei media, i gruppi editoriali si trasformarono in società per azioni dominate da imprenditori molto vicini al potere politico. Il cambiamento fece sì che le linee editoriali diventassero ancora più permeabili alle influenze del Governo e che, nella scelta dei giornalisti da assumere nelle redazioni, venissero preferiti lavoratori leali a professionisti del mestiere. In questo contesto iniziò quella che oggi è in Turchia ormai una pratica istituzionalizzata, ovvero ‘l’autocensura’: di fatto,

i grandi gruppi editoriali raccontano la realtà che il Governo centrale vuole che sia raccontata. Tra i giornalisti, considerati meri impiegati in questo sistema, coloro che si oppongono sono incarcerati, processati o sottoposti a qualche altra misura punitiva. Intorno al 2007/2008 la situazione è sembrata migliorare, principalmente per via del processo di ingresso nell’UE avviato dalla Turchia: infatti, per rientrare nei criteri democratici richiesti a tale scopo, occorre obbligatoriamente limitare le misure repressive dei diritti. Già dal 2011 si è manifestata tuttavia la fragilità del processo di democratizzazione: la vittoria schiacciante alle elezioni del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) ha segnato l’inizio di un forte accentramento del potere nelle mani dell’allora primo ministro Recep Tayyip Erdoğan. A seguire, nel 2013, le proteste iniziate a Istanbul per la preservazione del parco di Gezi


Medio Oriente e Nord Africa e poi diffuse in tutto il territorio nazionale sono state represse nel sangue. Con l’instaurazione successiva dello stato di emergenza nel paese, sono state implementate ulteriori misure di limitazione delle libertà personali. Nel 2014, infine, con l’elezione di Erdoğan a presidente della Repubblica, la Turchia ha imboccato con decisione la svolta autoritaria.

realtà editoriali sono divenute il principale ostacolo per il processo di consolidamento del potere di Erdoğan e pertanto sono sottoposte ad altri interventi di censura: diversi shutdown dei social network, come recentemente riportato da Forbes, sono stati finalizzati ad impedire ai giornalisti di divulgare notizie antigovernative.

Contestualmente, però, è emersa una nuova rete di media indipendenti, in grado di sfruttare gli spazi liberi online per rivendicare il diritto ad una stampa libera: così, diversi articoli e rapporti di indagini dettagliate sono stati divulgati mettendo in luce un sistema di corruzione avanzatissimo che coinvolgeva esponenti della politica, del settore economico, della polizia e dei media.

Gli ultimi anni, dal 2016 al 2019, hanno visto il deteriorarsi ulteriore della situazione: molte voci critiche sono state costrette a fuggire all’estero, auto-esiliandosi per poter scrivere riguardo al proprio paese. Un esempio si ha nella storia di Yavuz Baydar, intervistato da La Repubblica nel 2018. Dopo il fallito golpe del 2016, la riforma costituzionale del 2018, le elezioni del 2019 e il recentissimo intervento in Siria, il governo di Erdoğan non ha cessato di inasprire le

Oggi,

come

prevedibile,

tali

repressioni, ridurre le libertà costituzionali e distorcere la realtà per mantenere il potere. Proprio in occasione dell’invasione del nord della Siria, l’Ufficio del procuratore di Istanbul ha rilasciato una dichiarazione nella quale si condanna (e bandisce) qualsiasi notizia e commento rispetto all’operazione militare condotta dal Governo. Chiunque non rispetti tale ordine sarà considerato un attentatore della “pace domestica, l’unità e la sicurezza pubblica”. La questione siriana è particolarmente delicata poiché coinvolge i rapporti tra la Turchia e la minoranza curda all’interno del paese. Il Governo turco, infatti, considera come terroristi i militanti del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) e chiunque supporti in qualsiasi modo la loro causa.

MSOI the Post • 15


America Latina e Caraibi Venezuela: la realtà al di là dei diritti umani

Di Miriam Cannella Dall’America Latina al Medio Oriente, sono molti i paesi in cui libertà fondamentali, quali la libertà di pensiero e di opinione, pur riconosciute, sono sistematicamente disattese. Tra questi figura anche il Venezuela: dal 2013 ad oggi, come mette in guardia Amnesty International, una vera e propria crisi dei diritti ha stravolto la vita di milioni di persone compromettendo, tra le altre, anche la libertà di espressione. L’informazione libera è scomoda, minaccia i regimi antidemocratici che vogliono tenere in pugno l’opinione pubblica e, ai quali, controllo e censura garantiscono sopravvivenza. Secondo un bilancio del Collegio Nazionale dei giornalisti (Collegio Nacional de Periodistas - CNP) del Venezuela - un organo collegiale responsabile di assicurare il rispetto della legge sull’esercizio del giornalismo presentato lo scorso 29 agosto 2019, sono stati registrati, da gennaio di quest’anno, 19 casi di media digitali bloccati; 16 • MSOI the Post

19 programmi radio e tv chiusi; 21 furti di attrezzature; 23 minacce; 74 detenzioni arbitrarie di giornalisti e ben 175 casi di molestie e intimidazioni. Non a caso, nella classifica del 2019 sulla libertà di stampa a livello mondiale, pubblicata da Reporter senza frontiere (un’organizzazione non governativa e no-profit che promuove e difende la libertà di informazione e la libertà di stampa), il Venezuela ricopre il 148° posto su un totale di 180 paesi analizzati. Ciò dimostra lo stampo autoritario del regime vigente e il controllo di fatto imposto dallo stato sulla stampa, anche mediante l’uso del provider di internet di sua proprietà (CANTV), con il quale oscura siti web e giornali, silenzia tweet e la critica dei media in generale, impedendo la diffusione di informazioni che potrebbero screditare l’amministrazione del governo in carica. Dopo la morte dell’ex presidente Hugo Chávez e con il mandato dell’attuale presidente Nicolás Maduro, si sono registrati peggioramenti in molti settori,

dalla corruzione all’estrazione del petrolio, con un aumento del dissesto economico che ha percosso il Paese. Proprio a causa del progressivo declino e della conseguente compromissione della qualità della vita, almeno da cinque anni a questa parte le proteste accendono le piazze venezuelane; vere e proprie sommosse all’ordine del giorno, quotidianamente represse nella violenza. Nonostante le sistematiche violazioni, il diritto alla libertà di espressione, enunciato nell’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è riconosciuto anche nell’art. 57 della Costituzione venezuelana. Timidi spiragli di luce sono visibili grazie agli instancabili tentativi da parte del popolo di difendere un diritto così prezioso e di rompere ogni frontiera imposta dal governo. La società civile rivendica il ruolo fondamentale dei mezzi di comunicazione come veicolo dell’opinione pubblica e strumento di costruzione della realtà sociale. Fin dagli anni ‘60, una spinta dal basso ha portato la popolazione a cercare


America Latina e Caraibi di riappropriarsi della parola pubblica e difendere i modelli democratici, creando radio comunitarie e, più di recente, dei media comunitari diffusi online. Un altro caso in cui si è riusciti a svincolarsi dalla macchina della censura, malgrado l’intensificarsi della guerra mediatica degli ultimi anni, si è verificato nel gennaio 2019 quando i tweet a favore di Juan Guaidò (presidente dell’Assemblea nazionale autoproclamatosi presidente ad interim del Venezuela), seguiti dall’hashtag # Ve n e z u e l a G r i t a L i b e r t a d , conquistarono il trending topic di Twitter per oltre 18 ore.

Maduro tuttavia non demorde, anzi, si rinforza. Lo scorso 17 ottobre sono stati annunciati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite i risultati delle elezioni che hanno determinato i membri del Consiglio dei Diritti Umani: uno dei 14 nuovi seggi è stato assegnato proprio al presidente del Venezuela. Colui che ha collezionato un numero incredibile di abusi dei diritti, sarà lo stesso che veglierà sul rispetto dei diritti umani nel mondo per i prossimi tre anni. Alla luce di queste contraddizioni e dell’assente risposta globale, emergono alcune riflessioni. La Dichiarazione Universale

dei Diritti Umani non costituisce il fondamento della democratizzazione del sistema internazionale da cui dipendono la fine del perseguimento di interessi particolari e l’inizio della tutela dell’integrità della collettività e dei suoi diritti? Perché la comunità internazionale, davanti a queste ingiustizie, non riesce ad applicare gli strumenti che essa stessa ha creato? Questo è lo scenario a cui stiamo assistendo, quando realtà e diritti, pur avendone il presupposto, non convivono sullo stesso piano e sembrano, piuttosto, proiettarsi in due dimensioni antitetiche.

MSOI the Post • 17


America Latina e Caraibi Gli attacchi alla libertà di stampa durante le proteste in Cile

Di Marcello Crecco Il Cile è stato a lungo considerato uno dei Paesi latinoamericani che garantisce il maggior grado di libertà di stampa ed espressione. Occupa la 46a posizione su 180 nell’annuale classifica della libertà di stampa stilata da Reporters Sans Frontières e la sua democrazia liberale è tra le più solide della regione. Questo quadro, però, ha rivelato la sua fragilità nell’ottobre più caldo della storia recente cilena. Come riportato dalla BBC, le proteste sono iniziate il 6 ottobre in seguito all’aumento del 4% del costo del biglietto della metro di Santiago. Il malcontento della popolazione di fronte all’ennesimo innalzamento dei prezzi ha tuttavia ragioni più profonde, che nascono dalle crescenti disuguaglianze economiche e dall’alto costo della vita. La risposta iniziale del presidente Piñera è stata intransigente: è stato dispiegato fin da subito un numero massiccio di Carabineros, con l’esercito nazionale schierato 18 • MSOI the Post

contro i manifestanti, come non accadeva dalla caduta del regime di Augusto Pinochet nel 1990. La crisi di piazza è degenerata venerdì 18 ottobre, quando i manifestanti hanno preso il controllo di numerose stazioni della metro di Santiago, dando successivamente loro fuoco. Il Governo ha in seguito dichiarato lo stato di emergenza nazionale e ha imposto il coprifuoco nelle principali città cilene per la prima volta dal 1987. Queste misure attribuiscono provvisoriamente ampi poteri alle forze dell’ordine, limitano alcune libertà e cedono l’amministrazione notturna delle città ai militari. Per questa situazione, il capo dello Stato ha dovuto cancellare due importanti summit internazionali: la United Nations Framework Convention on Climate Change (COP25), la conferenza annuale dell’ONU sui cambiamenti climatici, e l’incontro dei Paesi dell’AsiaPacific Economic Cooperation (APEC).

scontri, che hanno provocato almeno 18 morti, ha coinvolto anche la stampa, con numerosi attacchi a giornalisti e fotografi sia da parte delle forze dell’ordine sia dei manifestanti. La denuncia più forte è arrivata da Reporter Senza Frontiere che, il 25 ottobre, ha pubblicato un rapporto in cui registra e denuncia questa spirale di violenza. Il caso più emblematico è stato senza dubbio l’assalto, il saccheggio e l’incendio della sede de El Mercurio di Valparaíso, il quotidiano ispanofono più antico del mondo, fondato nel 1827. Alla luce di quanto accaduto, la Sociedad Interamericana de Prensa ha parlato di “grave attentato alla libertà di stampa cilena”. Nonostante i giornalisti ne siano usciti illesi, la sede storica ha riportato gravi danni e l’evento ha turbato l’opinione pubblica, che non aveva mai assistito a scene simili dal ritorno alla democrazia, avvenuto ormai 30 anni fa.

La violenza delle proteste e degli

La libertà di stampa è stata altresì


America Latina e Caraibi danneggiata dalla dichiarazione da parte del Governo dello stato di emergenza. Inoltre, fattore determinante è stata l’entrata in vigore della Ley de Seguridad del Estado, annunciata dal controverso exministro dell’Interno Andrés Chadwick. Tale legge viene emanata solo quando è messa in pericolo la sovranità dello Stato, permettendo ai tribunali di punire con maggiore velocità i reati contro la sicurezza nazionale: il risultato è stata una forte repressione delle proteste e dei reporter che le stavano raccontando. A tal proposito, nel già citato rapporto di RSF si denunciano detenzioni arbitrarie di giornalisti e l’uso di gas lacrimogeni e proiettili di gomma contro inviati della BBC e Telesur, oltre alle aggressioni

da parte dei manifestanti contro cronisti di testate nazionali come Chilevisión. Emmanuel Colombié, direttore dell’ufficio di RSF in America Latina, ha esortato il presidente Piñera a prendere misure concrete per proteggere il diritto all’informazione anche nei momenti di massima crisi sociale e garantire l’incolumità dei giornalisti in tutto il paese. Nonostante le intimidazioni e la repressione, tuttavia, le proteste hanno avuto una risonanza mediatica internazionale molto ampia, specie nel resto del continente sudamericano. A Buenos Aires, città in cui è presente una comunità cilena di discrete dimensioni, si sono svolte manifestazioni contro la repressione governativa davanti al Consolato del Cile.

Come raccontato dal Clarín, il quotidiano più diffuso in Argentina, un gruppo di persone incappucciate ha poi aggredito i giornalisti presenti, ferendo in modo grave alla testa un fotoreporter de La Nación. Molta preoccupazione ha destato anche l’odio nei confronti della stampa ampiamente diffuso sui social network. Dall’altra parte proprio queste piattaforme, in particolare Twitter, hanno avuto un ruolo decisivo nel testimoniare tali violenze, anche grazie ai citizen journalist: un fenomeno sempre più comune sui social media, dove un numero crescente di utenti denuncia e diffonde informazioni, sostituendo in parte la copertura mediatica dei canali tradizionali.

MSOI the Post • 19


Asia Orientale e Oceania Japan’s Reiwa era has officially began

By Paolo Santalucia Japan currently holds the title of the oldest continuous monarchy in the world. Despite its many phases and changes throughout history, in today’s modern scenery the figure of the “emperor of Japan” relentlessly represents one of the fundamental pillars in Japanese culture. According to the most popular mythological traditions, it all started back in 7th century BC with Japan’s very first emperor, Emperor Jimmu, who was believed to be a descendant of the Sun Goddess Amaterasu. The tale of Jimmu the Emperor claims that Jimmu conducted a military expedition that started in what was then called the ‘Hyuga province’, and that eventually lead him to conquer the province of Yamato, allowing him to proclaim himself as the first emperor of Japan. 20 • MSOI the Post

Aside from the more mythical sides of Emperor Jimmu’s story, and the many doubts that historians have expressed regarding the times and dates in which said story takes place, it is generally agreed that emperors have been present in Japan’s political history for more than 1500 years. As previously said, the range of action of the emperor has shifted quite a bit throughout history. Although in fact for hundreds of years the focal point of power was held by the ‘shogun’ (the military dictator of Japan during the period from 1185 to 1868), and the emperor was therefore not much else other than a symbolical figure, an important and monumental change can be identified during the so called “Meiji revolution”, which allowed Japan to transform itself from a rural and underdeveloped

country to an economical and avant-guarde power. When the Tokugawa shogun signed the so called “inequal treaties”, a series of treaties between western powers and some Far East countries, which allowed a strong foreign presence in Japan, a violent revolution struck throughout the entire country against the Tokugawa Shogunate and culminated with Mutsuhito’s accession to the throne as the Meiji Emperor on Feb. 3, 1867. Mutsuhito’s Japan, taking back all the power held by the shogun, has represented an important moment in the reassessment of the figure of the emperor. Mutsuhito’s legacy though would soon be put under a major shift after the end of World War II. With Japan’s surrender in 1945 in fact, the then emperor of Japan, Hirohito was forced to accept a new constitution


Asia Orientale e Oceania which drastically resized the strength and the nature of the constitutional powers held by the emperor. With the new constitution, all political power went to elected representatives and emperor Hirohito found himself bound to explicitly reject the long believed claim in Japanese tradition that the Emperor of Japan was an ‘arahitogami’ (an incarnate divinity). Despite its loss Hirohito was able not to be indicted as a war criminal, most likely due to USA’s fear of what the consequences of such an act could be on the american occupation in Japan. The new officialized role of the emperor being “the symbol of the State and of the unity of the people” and his figure being therefore strictly rappresentative and ceremonial, was maintained throughout the monarchy of Hirohito’s son Akihito. Nonetheless, Emperor Akihito, during the entire course of its era succeeded in demonstrating how despite the resizing of the figure of

the Japanese emperor, and therefore despite being given very limited political powers, the ‘soft power’ that the role of emperor still carries is not to be underestimated. Back in 2011 in fact, when Japan was hit by the Tohoku Earthquake, which at a magnitude of 9.1 caused the death of thousands of people and critical damages to Japan’s infrastructure, Emperor Akihito’s speech on national television and the following weeks that he and empress Michiko spent visiting damaged sites and victims, gave a strong moral contribution to Japan’s reconstruction. In recent times the so called “Heisei era” which saw Emperor Akihito as its principal actor has recently come to an end, after Emperor Naruhito took the place of his father who abdicated back in April 30th 2019, due to his declining health conditions. The abdication of Akihito which has been the first since 1817, marked the beginning of the “Reiwa

era”, which officially began on October 22nd 2019 when Emperor Naruhito was enthroned. Naruhito graduated from Gakushuin University in March 1982 with a Bachelor of Letters degree in history. and after that he continued his studies at Oxford university. Throughout his life Emperor Naruhito has managed to acquire a strong global understanding that has lead him to take many strong and revolutionary stances toward today’s most important issues. “I sincerely hope that our country, through our people’s wisdom and unceasing efforts, achieves further development and contributes to the friendship and peace of the international community and the welfare and prosperity of humankind”, the Emperor has declared during his enthronement ceremony”. Only time will be able to tell whether the “Reiwa era” will succeed in balancing the restricted bag of power given by the postwar constitution and the necessity of maintaining the legitimacy of the constitutional monarchy amongst its people.

MSOI the Post • 21


Asia Orientale e Oceania Premio Sakharov a Ilham Tohti: una denuncia simbolica alla violazione della libertà di pensiero

Di Gaia Airulo Lo scorso 24 ottobre è stata annunciata l’assegnazione del premio Sakharov per la libertà di pensiero all’economista e intellettuale uiguro Ilham Tohti, da oltre vent’anni impegnato nella difesa dei diritti della popolazione uigura, a maggioranza musulmana. Dal 2014, l’attivista sta scontando un ergastolo imposto dal Governo di Pechino, in quanto ritenuto colpevole di ‘separatismo’, ovvero di fomentare le richieste d’indipendenza della regione autonoma dello Xinjiang, nella quale si concentra la maggior parte della popolazione di etnia uigura in Cina. Il premio Sakharov, consegnato ogni anno dal Parlamento Europeo a personalità e 22 • MSOI the Post

organizzazioni che si battono in difesa dei diritti umani, è stato istituito nel 1988, in onore del fisico e dissidente politico Andrej Dmitrievič Sakharov, ricordato per aver inizialmente contribuito alla realizzazione della bomba ad idrogeno, per poi successivamente denunciare il pericolo degli esperimenti nucleari e della contaminazione radioattiva. Il suo impegno per la difesa dei diritti civili gli valse il premio Nobel per la pace nel 1975, ma provocò anche la sua condanna all’esilio politico da parte delle autorità sovietiche nella città di Gorky (oggi Nizhny Novgorod). É lì che Sacharov ricevette la notizia dell’intenzione del Parlamento Europeo di creare un premio per la libertà di pensiero che avrebbe portato il suo nome. Come detto, il riconoscimento

sarà conferito ufficialmente il prossimo 18 dicembre a Ilham Tohti, il quale difficilmente verrà a sapere del merito ottenuto dalla cella nella quale sta scontando la pena del carcere a vita. Originario della città di Artush, nello Xinjiang, Tohti è stato ricercatore e professore di economia presso la Minzu University di Pechino. Nel 2006 ha fondato un sito web chiamato Uyghur Online, con l’obiettivo di creare una piattaforma dove poter discutere di questioni sociali ed economiche riguardanti la popolazione uigura. A causa di numerosi contenuti critici in merito alle politiche repressive adottate da Pechino nei confronti della minoranza e delle continue richieste per una maggiore autonomia per la provincia dello Xinjiang, il sito è stato chiuso nel 2008. Prima di


Asia Orientale e Oceania essere condannato all’ergastolo, Tohti era stato arrestato per alcune settimane nel 2009, dopo aver condiviso su internet informazioni su alcuni arresti, uccisioni e scomparse, avvenuti durante i violenti scontri etnici tra uiguri e han scoppiati ad Urumqi nello stesso anno. Nonostante Tohti sia presentato dal Governo cinese come un pericoloso sovversivo, viene considerato a livello internazionale come un intellettuale piuttosto moderato, che aspira ad una maggiore autonomia della provincia dello Xinjiang, ma non necessariamente alla sua indipendenza. In un comunicato del Parlamento Europeo viene descritto come “una voce di moderazione e riconciliazione”, attiva nella promozione del dialogo tra la minoranza etnica e il resto del popolo cinese. Per il suo impegno nella difesa dei diritti della minoranza uigura gli sono stati conferiti i premi PEN/Barbara Goldsmith Freedom to Write Award nel 2014, il Martin Ennals Award nel 2016, e il premio Václav Havel per i diritti umani, lo scorso 30 novembre. In un tweet scritto in occasione dell’assegnazione del premio Sakharov, il presidente del Parlamento Europeo David Sassoli ha richiesto il rilascio immediato dell’attivista. Il riconoscimento per la libertà di pensiero a Ilham Tohti, accompagnato dalle richieste comunitarie per una maggiore tutela dei diritti delle minoranze in Cina, accrescono l’attenzione della comunità internazionale sulla questione uigura nella provincia dello Xinjiang. Secondo le denunce di certi attivisti e organizzazioni internazionali e non-governative, infatti, nella

regione avrebbe luogo una campagna di rieducazione forzata della popolazione uigura che mira alla sinizzazione della minoranza e allo sradicamento della fede islamica. Etichettata da Pechino come forma di lotta al terrorismo e all’estremismo religioso, tale operazione coinvolgerebbe circa un milione di uiguri, che secondo le testimonianze raccolte da Radio Free Asia e dall’ONU, sarebbero detenuti in campi di internamento. La questione uigura, come riportato da ISPI, è diventata rilevante per il Governo cinese dopo il crollo dell’Unione Sovietica, con l’istituzione delle repubbliche indipendenti del Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan, anch’esse popolate dall’etnia uigura. Trovandosi al confine con lo Xinjiang, tali regioni hanno favorito scambi economici e culturali tra gli uiguri cinesi e quelli dei paesi confinanti, dando vita a moti separatisti nella regione. Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 e l’inizio della cosiddetta ‘guerra globale al terrorismo’ guidata dall’amministrazione statunitense di George W. Bush, le contestazioni politiche di natura indipendentista sono state considerate da Pechino come espressioni dei cosiddetti ‘tre mali’: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso. Da allora, la questione uigura è diventata una delle priorità per la Cina, sfociando in una politica sempre più opprimente nei confronti della minoranza. Le recenti denunce da parte della comunità internazionale hanno spinto Pechino a fare il possibile per allontanare l’attenzione mediatica dalla questione

dello Xinjiang. Non sorprende, dunque, la reazione cinese alla recente assegnazione del premio Sakharov, considerata come un’interferenza negli affari interni del paese. Il tabloid Global Times, prodotto dal quotidiano ufficiale del partito, ha dichiarato che conferire il riconoscimento a quello che la Cina considera un criminale potrebbe incoraggiare movimenti separatisti ed estremisti in nome della libertà di espressione. Xinhua ha invece riportato le parole del portavoce del Foreign Affairs Committee dell’Assemblea Nazionale del Popolo, You Wenze, il quale ha dichiarato che l’assegnazione del premio rappresenterebbe un atto di connivenza dell’UE con estremismo e terrorismo. La decisione del Parlamento Europeo di assegnare ad Ilham Tohti il premio Sakharov costituisce un’importante azione di denuncia verso la violazione di libertà fondamentali ai danni della minoranza uigura, commessa dalla Cina in nome della lotta al terrorismo. È indubbio che il messaggio lanciato dall’UE abbia una forte risonanza a livello internazionale, tale da infastidire Pechino. Per quanto grande possa essere il valore simbolico del premio, tuttavia, esso rimane insufficiente per garantire una tutela concreta di tutti quegli intellettuali ‘rumorosi’, continuamente silenziati per la stabilità del paese e la legittimità di chi lo governa. Maggiore pressione per il rispetto dei diritti umani potrebbe essere esercitata dall’UE anche nelle relazioni commerciali intraprese con la Cina, soprattutto nel quadro della ‘Nuova Via delle Seta’, nella quale la provincia dello Xinjiang gioca un ruolo fondamentale.

MSOI the Post • 23


Economia e Finanza Hong Kong, tra crisi politica ed economica, alla ricerca di un’identitá nuova

Di Giacomo Robasto La crisi politica che ormai dalla metá di maggio di quest’anno interessa la metropoli asiatica di Hong Kong non é soltanto irrisolta, ma sembra aggravarsi di settimana in settimana. La cittá, ex colonia britannica, costituisce una Regione Amministrativa Speciale in seno alla Repubblica Popolare Cinese, e gode di ampia autonomia nella gestione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Oltre ai suddetti, al governo locale sono in particolare affidate le politiche per il rilascio del proprio passaporto (diverso da quello cinese), la politica monetaria (Dollaro di Hong Kong) e il controllo doganale, nonché le politiche di immigrazione e di estradizione, la cui modifica della legislazione, da parte del governo centrale cinese, ha scatenato le insurrezioni degli ultimi mesi. 24 • MSOI the Post

Ad Hong Kong, infatti, sono oggi in vigore leggi sull’estradizione basate su accordi bilaterali con 20 paesi (tra cui Canada e Stati Uniti), tra cui non rientrano però la Cina continentale, Macao, né Taiwan. L’emendamento alla legge che è stato all’origine delle proteste avrebbe reso l’estradizione possibile per determinati reati, quali l’omicidio o la violenza sessuale, pur senza che la stessa fosse estesa ad altri tipi di crimini, in particolare quelli legati alla sfera commerciale o economica, come l’evasione fiscale. La proposta di legge aveva infatti avuto origine dalla richiesta delle autorità di Taipei di trasferire a Taiwan un cittadino di Hong Kong, accusato dell’omicidio della fidanzata mentre si trovava sull’isola. Il timore diffuso era che il provvedimento avrebbe potuto colpire anche i cittadini stranieri di passaggio a Hong Kong.

Ad oggi, nonostante il formale ritiro dell’emendamento sull’estradizione annunciato a reti televisive unificate dalla governatrice di Hong Kong, Carrie Lam, il 4 settembre scorso, la posizione di quest’ultima risulta ulteriormente indebolita: i cittadini di Hong Kong continua a vedere in lei una mera esecutrice obbediente di ordini che vengono da Pechino. Non sono certo bastate le promesse di nuovi investimenti nel ‘sociale’ a raffreddare il clima delle proteste. Le ragioni delle manifestazioni a Hong Kong sono, però, più complesse. Anzitutto, l’equilibrio fragile di un territorio, almeno per ora, senza una piena indipendenza in programma. Il ritorno sotto la sovranità della Repubblica Popolare previsto per la prossima scadenza del 2047, quando l’ex colonia dovrebbe tornare integralmente a far parte della Cina continentale. Nei primi 22


Economia e Finanza anni di applicazione dell’accordo “un Paese, due sistemi”, Hong Kong ha continuato a crescere. Il suo prodotto interno lordo pro capite è pari a 46.109 Dollari americani (quello dell’Italia si attesta a 32.000, quello della Francia a 39.000, e quello della Repubblica Popolare a 8.643, stando all’indagine condotta nel 2018 del Fondo Monetario Internazionale). Tuttavia, si registrano enormi disuguaglianze: poco meno del 20% della popolazione dell’ex colonia vive sotto la soglia di povertà, nonostante la nota fama di Hong Kong come centro finanziario globale. Inoltre, per la prima volta dalla crisi finanziaria del 2008, l’economia di Hong Kong

è entrata in recessione. Nel terzo trimestre dell’anno, il prodotto interno lordo ha segnato un calo del 3,2% sul trimestre precedente (-2,9% su base annua). Detta crisi è dovuta, soprattutto, all’effetto combinato della guerra commerciale tra Cina e USA. Si tratta del secondo calo consecutivo del PIL che, nel trimestre precedente, era già sceso dello 0,4%. “La domanda interna si è indebolita in maniera significativa”, ha affermato il governo in una nota, precisando inoltre che “le proteste di piazza hanno provocato gravi danni al commercio al dettaglio e ad altri settori legati ai consumi”. Per effetto della difficile situazione politica ed economica

in cui versa Hong Kong, numerosi attori dell’economia locale e non, tra cui imprese, investitori ed istituti di credito che, giá dai tempi della dominazione britannica, hanno trovato in Hong Kong un luogo ideale per il proprio sviluppo, stanno considerando di lasciare la cittá verso centri finanziari altrettanto importanti e in ulteriore sviluppo (ad esempio, la cittá stato di Singapore). Per scongiurare una vera e propria ‘fuga di capitali’, l’unica via perseguibile per Hong Kong resta quella dell’autonomia, giá garantita dal governo centrale cinese e che, negli anni a venire, sará auspicabilmente rafforzata per volontá dei propri abitanti. Magari con una piena indipendenza.

MSOI the Post • 25


Economia e Finanza L’economia della censura:la limitazione della libertà di stampa ostacola sviluppo economico e ricerca

Di Vittoria Beatrice Giovine Da quando il web è entrato nelle nostre vite, l’informazione e la libertà di espressione, che la Costituzione italiana declina in libera manifestazione del pensiero, nonché di stampa, sembrerebbero essere cresciute in maniera esponenziale, almeno nella maggior parte dei paesi che consideriamo ‘occidentali’. Il processo di digitalizzazione e la pervasività di Internet hanno conferito ai più la possibilità di esprimere e diffondere il proprio pensiero in pochi secondi: in aggiunta ai media più tradizionali (quali radio e televisione) sono arrivati i blog, seguiti dai social network, a consentire la condivisione di opinioni personali da una parte, di messaggi politici dall’altra. Oggetto di una recente proposta di risoluzione da parte del 26 • MSOI the Post

Parlamento Europeo 2017/2209 (INI), i nuovi media hanno assunto un ruolo sempre più centrale tanto sul piano politico quanto su quello economico. La limitazione della libertà di stampa, peraltro, può portare a rilevanti effetti economici. Solo nel 2016, in un rapporto dell’Istituto Brookings di Washington, veniva affrontato il tema della censura in Internet imposta da alcuni regimi allo scopo di limitare o impedire del tutto l’organizzazione di oppositori e dimostranti: tutti i paesi che avevano deciso di adottare una misura restrittiva della libertà di stampa o espressione avevano dovuto far fronte a notevoli perdite economiche, oltre che alle mancate possibilità di sviluppo garantite dalla digitalizzazione. Tra il luglio 2015 e giugno 2016, il totale delle perdite sarebbe

ammontato a $2 miliardi e 400 milioni. Altro aspetto da valutare è la grave limitazione della ricerca scientifica e della crescita economica imposta dalla censura del web. Un esempio? La Cina. Nel 2017, come riportato dal Guardian, il vice presidente della Conferenza consultiva del popolo (CPPCC) Luo Fuhe aveva riconosciuto la critica situazione del paese, definendo “non normale” la condizione di restrizione di accesso ai siti accademici stranieri, che aveva portato i ricercatori locali ad utilizzare servizi di Virtual Private Network (VPN) al fine di aggirare il cosiddetto ‘Great Firewall of China’ (ex ‘Golden Shield Project’). Eppure, anche questo non era bastato. L’anno successivo, il Governo di Pechino aveva ufficialmente invitato gli operatori Internet


Economia e Finanza nazionali a impedire l’accesso ai siti web anche via VPN. Infine, la Cina avrebbe adottato un nuovo modello di gestione della rete basato fondamentalmente sul controllo e sulla riforma della governance del cyberspazio. In Russia, la situazione non sembrerebbe migliore: il sogno di un World Wide Web libero e sicuro, accessibile a tutti e fonte inesauribile di informazione, starebbe svanendo per lasciare il posto a una visione dell’Internet più ‘sovranista’. Il presidente Putin avrebbe ripreso il progetto cinese approvando nel maggio 2019 una legge volta a rendere la rete russa indipendente dal resto del mondo. Da inizio novembre, l’Internet in Russia è diventato ‘locale’, per

così dire, e controllato dalla Roskomnadzor, l’agenzia per le telecomunicazioni di Mosca. Lo scopo primario della nuova legge sarebbe la tutela degli interessi russi in due casi particolari: l’interruzione dei rapporti con l’Occidente e il taglio degli indirizzi IP della rete da parte degli Stati Uniti. Non mancano le analogie con il Firewall cinese, finalizzato al controllo del contenuto di qualsivoglia tipologia e dell’eventuale blocco di esso se ritenuto sgradito. Il tutto principalmente a scapito degli attivisti e degli oppositori politici. Nel novembre 2018, come riportato da un comunicato AGI, la diffusione del modello

di censura cinese era stata commentata da parte della ONG statunitense Freedom House con queste parole: “Una schiera di paesi si sta muovendo verso l’autoritarismo digitale, abbracciando il modello cinese di censura estensiva e di sistemi di sorveglianza automatizzati”. Nel mondo, si delinea una crescente situazione di profonda limitazione della libertà di espressione e stampa, il cui unico risultato sembrerebbe quello di acuire le disuguaglianze (già presenti) tra paesi e regimi differenti. Nota dolente di questo scenario sono le mancate possibilità di apertura e di ulteriore crescita economica.

MSOI the Post • 27


Europa Orientale e Asia Centrale La libertà di stampa tra autoritarismi e regimi ibridi in Asia centrale

Di Amedeo Amoretti

per raggiungere l’obiettivo. Tuttavia, le iniziative intraprese dal governo Non esiste a livello internazionale una centrale per regolamentare la stampa definizione unanime di democrazia. e l’informazione sembrano andare in Tuttavia, la grande maggioranza un’altra direzione. degli esperti riconosce nella presenza di fonti di informazione indipendenti Dal 2017, la nuova Legge sui Media e differenti un elemento essenziale ha cercato di delimitare i confini per il consolidamento democratico. dell’informazione e della libertà Nell’Asia Centrale, la censura della di stampa nel paese, attirandosi le stampa di opposizione e il controllo critiche di attivisti e giornalisti. statale delle fonti di informazione, Tatyana Kovalyova, presidente del al contrario, caratterizzano molti Stati consiglio di amministrazione dei reporters della Kazakhstan League della regione. of Court, ha affermato che “per i Nel 2012, in Kazakistan, il più vasto media le cue politiche editoriali territorio della regione, seppur non non riscontrano i criteri del relativo il più popoloso, il governo adottò un Ministero [dell’informazione e della documento programmatico, la 2050 comunicazione], la linea di attacco Vision, il cui obiettivo principale era prevede accuse di diffusione di fake quello di portare il Kazakistan tra news e di diffamazione”. In altre i primi trenta paesi più sviluppati parole, le fonti di informazione non nel mondo nel 2050. Il quinto allineate alla visione governativa punto del documento citava “un sono duramente attaccati e, in estremi ulteriore rafforzamento dello Stato casi, chiusi. Nonostante le autorità e dello sviluppo della democrazia kazake affermino la libera espressione kazaka”, come uno degli strumenti del popolo, il World Press Index 28 • MSOI the Post

2019, costruito da Reporters Without Borders, la cui analisi si fonda sul pluralismo, l’indipendenza o la censura dei media, la trasparenza del quadro normativo e le infrastrutture per la pubblicazione di informazioni, valuta il Kazakistan al 158° posto su 180 Paesi. Nella stessa graduatoria, il Turkmenistan si piazza all’ultimo posto, ottenendo una valutazione peggiore di autoritarismi del calibro di Cina e di Corea del Nord. Tale risultato, afferma il report, è “il frutto di numerosi anni di una crescente e spietata repressione nella quale le autorità hanno perseguitato senza sosta giornalisti che lavoravano clandestinamente”. Per esempio, Azabathar.com, che collabora in lingua turkmena con Radio Free Europe/Radio Liberty (RFE/ RL), riesce a lavorare in maniera indipendente grazie alla sua sede in territorio non turkmeno e grazie al lavoro di giornalisti interni che


Europa Orientale e Asia Centrale rischiano la vita violando le leggi aver ritenuto arbitrario l’arresto nazionali. di Muradova e aver evidenziato l’assenza di indagini relative al suo Il caso più eclatante di torture nei decesso, ha inoltre esortato il governo confronti di giornalisti ha riguardato turkmeno a investigare sulle cause Ogulsapar Muradova. Giornalista della morte dell’attivista. per RFE/RL, fu arrestata nel giugno 2006 ed in seguito a un processo Nella regione, solo il Kirghizistan può sommario, in cui era stata condannata essere definito non autoritario, ma a sei anni di carcere, morì in prigione esempio di regime ibrido. Freedom nel settembre 2006. Nonostante sul suo House lo indica come parzialmente corpo fossero stati ritrovati evidenti libero e nel World Press Index 2019 segni di tortura, la versione ufficiale si piazza all’83° posto. Al contrario governativa dichiarava che fosse degli altri Stati della regione, il morta per cause naturali. Nel 2018, Kirghizistan non presenta casi dopo più di dieci anni, il Comitato di completa censura delle fonti dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni di informazione. Tuttavia, non Unite, di fronte al quale il fratello di si registrano neanche le stesse Muradova aveva accusato il governo opportunità di libertà di stampa delle turkmeno di trattamenti inumani, ha democrazie consolidate. adottato la decisione Khadzhiyev Sulla base di una legge del 2014 che, and Muradova v. Turkmenistan, come enunciato da Freedom House, nella quale il Turkmenistan è stato “criminalizza la pubblicazione di condannato a risarcire la famiglia false informazioni relative a crimini di Muradova. Il Comitato, dopo e offese”, Elnura Alkanova è stata

arrestata nel 2018 con l’accusa di aver rilasciato informazioni confidenziali commerciali legate alla vendita di alcune proprietà statali nella capitale. Il caso ha fatto molto scalpore, tantoché 29 organizzazioni di stampa indipendenti di tutto il mondo si sono unite per chiedere al governo del Kirghizistan una riforma della Legge sulle garanzie per l’attività del Presidente della Repubblica del Kirghizistan. Le 29 organizzazioni richiedevano la modifica legislativa in quanto sanzioni eccessive e sproporzionate erano applicate nei confronti dei giornalisti di opposizione che criticavano il Presidente. Mentre il governo ha ritirato le accuse nei confronti di Alkanova, altre condanne nei confronti di organizzazioni di informazione, come Zanoza.kg e ProMedia sono state confermate anche dalla Corte Suprema.

MSOI the Post • 29


Europa Orientale e Asia Centrale Emigration of disappointment. Stories of Russian journalists and bloggers forced to leave their homeland by persecution.

Di Alina Bushukhina According to Reporters Without Borders, in the World Press Freedom index of 2019 Russia holds the 149th position, due to the persecution of journalists and bloggers who openly express their criticism towards the current regime. Russian journalists (and, more recently, bloggers) who don’t share the mainstream viewpoint have been subject to harassment from pro-regime activists and state actors, such as state media, politicians and even the state security bodies. Independent journalists have faced difficulties since the very beginning of Vladimir Putin’s administration: in one of the most glaring and notorious instances, Anna Politkovskaja, journalist and human rights activist, was assassinated in 2006 because of her professional activity. However, after the annexation of Crimea and the beginning of the Ukrainian crisis stigmatization 30 • MSOI the Post

of the oppositional press has escalated dramatically, seriously threatening independent journalists in Russia. Julia Latynina, Echo of Moscow journalist, had to emigrate from Russia with her family in 2017 due to systemic threats to her and her parents. After her car was set afire, Latynina left Russia with her family and currently refuses to reveal the country she has moved to for security reasons. Julia believes that these incidents were directly linked to her professional activity she had been critical about the regime, accusing the authorities of all-encompassing corruption but she claims that the Kremlin is not to blame for the attacks on her life. She is persuaded that these assaults are mostly the result of private initiatives, uncontrolled by the Kremlin. “The Kremlin is afraid of this loss of control,’’ she says, “and until there is no control my

family and I are going to remain abroad”. Kommersant journalist Oleg Kashin experienced an attempt of his life as well, in 2010. Not long before the assault, Kashin had had a conflict with the former Pskov region governor Andrej Turchak, who insisted that Kashin had to apologise. Subsequently, Kashin was violently beaten by unknown people and had to spend months in a hospital. Kashin has said that he suspects several actors to be in charge of the attack, among them Turchak himself. In 2016, Kashin had to migrate to London after he had gone back to Moscow from Switzerland. Ivan Golunov’s case is also significant. In June 2019, the Meduza journalist was detained and charged for possession of a controlled substance. Golunov was investigating corruption in the Moscow funeral business and, during the investigation,


Europa Orientale e Asia Centrale he had received threats from individuals with connections to officials in Russia’s police and security guard, related in various ways to the funeral business. After spending a short time in prison, he was released and the charges dismissed; although he has not left the country, his case has shown the power of the state’s security services to detain journalists without a legitimate legal basis. After Golunov was released, no one was held responsible for his inaccurate detention and alleged frame-up.

the news from the Internet, especially from sources such as Twitter, Youtube and Telegram, which grant more freedom of speech to their users than traditional media outlets. Since online resources are becoming more and more influential in Russia, bloggers are considered one of the main threats to the regime’s informational hegemony. There were several cases of involuntary migration of well-known bloggers, who were threatened anonymously or were directly accused of offences against the state.

What these three cases have in common is that they do not involve Putin’s government directly, but rather independent actors coming from areas of society which favour such lawlessness. Putin’s regime seems to have created a climate in which supporters of the authorities are not punished for their crimes.

For instance, journalist and blogger Alexander Sotnik, creator of the Youtube channel “Sotnik TV”, had to emigrate from Russia because of systemic threats. Sotnik’s Youtube channel promotes extremely anti-Putin positions and has gained almost half a million followers, making its creator one of the most prominent oppositional bloggers in Russia. In March 2018, Sotnik said he had to ‘evacuate’ his family to Latvia due to a letter, in

In the latest years, oppositional bloggers have been subject to harassment as well. A majority of young people prefer to receive

which an anonymous threat promised the journalist to “fake his suicide” if he hadn’t left the country before the presidential elections. In the majority of cases, however, journalists make the decision to emigrate because of the lack of opportunities for professional growth, since the main state-supported media produce one-way information, while the oppositional ones tend to be in precarious positions, both economically and politically. This particularly concerns the reporters-investigators, who mainly work on issues related to politics or corruption. The majority of independent media work on the Internet or social networks, such as Twitter or Telegram, which makes them more relevant for the youngsters and progressives. State-supported media tend to remain on TV, thus retaining attention from elder or more conservative public, especially from small cities. For independent journalists coming from the countryside and outwards regions, the situation might be even worse than for those from big cities such as Moscow or Saint Petersburg. On the one hand, they don’t have resources - both financial and protective - that are necessary in order to do critical and independent work. On the other, independent journalists tend to mainly produce information aimed at the public that lives in big cities, where progressive ideas are generally more welcome.

MSOI the Post • 31


Africa Subsahariana Più libertà di stampa in Africa

Di Jessica Prieto Anche quest’anno l’organizzazione Reporters Senza Frontiere ha pubblicato il rapporto annuale sulla situazione mondiale della libertà di stampa, che prende in considerazione per ogni singolo Paese il grado di libertà di stampa e di indipendenza dei media. In particolare, il rapporto si basa su un questionario inviato alle organizzazioni partner di RSF (18 gruppi di libertà di espressione nei cinque continenti) e ai suoi 150 corrispondenti in tutto il mondo, nonché a giornalisti, ricercatori, giuristi e attivisti per i diritti umani. Il sondaggio pone domande sugli attacchi diretti ricevuti dai giornalisti e dai media, così come ad altre fonti indirette di pressione contro la stampa libera. Se il primo posto della classifica 32 • MSOI the Post

continua ad essere occupato dalla Norvegia, dove la libertà di stampa è garantita e promossa dal Governo, una situazione peggiore concerne paesi come Russia e Cina, che si posizionate rispettivamente al 149° e 177° posto su 180. A sorprendere, invece, è proprio l’Africa, con cinque Stati tra i primi 40 Paesi della graduatoria: Namibia, Capo Verde, Ghana, Sudafrica e Burkina Faso. La Namibia, in particolare, si trova al 23° posto, prima di paesi quali Francia (32°) e la stessa Italia (43°). Il caso del quotidiano The Namibian testimonia questo miglioramento. Fondato negli anni di lotta per l’indipendenza e contro l’apartheid, quando la Namibia si trovava ancora sotto il controllo dell’Unione Sudafricana (l’odierno Sudafrica) e sotto l’egida della Società

delle Nazioni (oggi Nazione Unite). Pubblicati su questo quotidiano, sono numerosi gli articoli di denuncia contro la politica e la corruzione statale: nel 2014, una serie di editoriali accusava apertamente la classe dirigente di corruzione e interessi personali in un bando di appalti pubblici per la costruzione di nuovi alloggi, nel quadro di un piano governativo di dubbia trasparenza. Tuttavia, nonostante il buon esempio dei cinque Paesi succitati, molti esperti rimangono scettici nel cantare vittoria, mettendo in luce una seconda faccia della medaglia. In particolare, l’esperto di media africani, George Ogola, scrive di tecniche più silenziose e subdole messe in atto dai Governi più restrittivi e dittatoriali, che rischiano di passare inosservate. Tra


Africa Subsahariana nella maggior parte dei casi, rappresentano la principale fonte di reddito della carta stampata.

queste, una delle più utilizzate è la concentrazione di media indipendenti nelle mani di alcuni magnati vicini ai governi. Questi attori assorbono nel loro network informativo varie testate giornalistiche, imponendo precise linee editoriali e andando a compromettere la pluralità dell’informazione nei loro Paesi. A questa tecnica si aggiunge il fallimento economico delle testate più ‘scomode’, attraverso la drastica riduzione dei proventi pubblicitari che,

Di fronte a queste difficoltà, le testate più combattive si sono trasferite sul web, creando i propri siti ufficiali all’estero. Molt o spesso, però, i regimi dittatoriali reagiscono oscurandoli e, nei peggiori dei casi, alleandosi con Facebook e Twitter. I due social network, infatti, utilizzano metodi poco in linea con la difesa della libertà di stampa, tra cui l’eliminazione diretta di post ritenuti contro ‘il codice etico dei social’, piuttosto che contro le posizioni del regime, oppure la riduzione della visibilità di notizie sfavorevoli al Governo. In altri casi ancora, viene introdotto un servizio di pagamento per la condivisione dei post o favoriti media digitali considerati seri e neutrali ma

in realtà favorevoli al regime, creando così un monopolio dell’informazione che riduce visibilità e spazio per testate critiche e indipendenti. In conclusione, è possibile affermare come il continente africano continui ad essere uno scenario complesso e variegato, dove permangono esempi di lotte spietate contro l’informazione libera. Basti pensare al Burundi - posizionato al 159° posto della classifica RSF. Tra il 2015 e il 2016, il regime di Bujumbura ha chiuso e bruciato tutte le sedi di quotidiani, radio e TV indipendenti, arrestato o ucciso vari giornalisti e costretto i restanti a scappare dal Paese. I cinque piccoli gioielli considerati in questo articolo dovranno diventare modelli da difendere e promuovere, non solo in Africa, ma nel resto del mondo.

MSOI the Post • 33


Africa Subsahariana Sud Sudan: l’indipendenza che non garantisce la libertà

Di Alessandro Anibi Nel 2013, due anni dopo l’indipendenza raggiunta nel 2011, il Sud Sudan è divenuto teatro di una guerra civile ufficialmente conclusa con l’accordo di pace firmato ad Addis Abeba il 12 settembre del 2018. Dalla firma del trattato fino ad oggi, il Sud Sudan ha poi visto l’accumularsi di ritardi nell’implementazione di una delle componenti più importanti dell’intesa: la formazione un Governo di transizione. Come riportato da Reuters, una ennesima deadline sarebbe stata quella dello scorso 12 novembre, che però non è stata rispettata. Tale

Governo

34 • MSOI the Post

nascerebbe

soprattutto con il cruciale scopo di garantire una divisione del potere tra i vari gruppi che si contendono il paese e mantenere un equilibrio tra gli stessi sul piano istituzionale fino alle elezioni politiche, fissate per il 2022. I due attori principali di questa diatriba sono da una parte l’attuale presidente, Salva Kiir, e dall’altra il leader del maggior gruppo ribelle presente nel paese, nonché suo ex vice presidente, Riek Machar. Una scarsa propensione al compromesso ha impedito ai due leader di trovare un accordo su questioni di fondamentale importanza per il Sud Sudan: tra queste, la riforma dell’esercito, la definizione dei confini

nazionali interni e la sicurezza dei gruppi tribali. Benchè gli analisti abbiano previsto che questa situazione non dovrebbe portare a nuovi scontri tra i gruppi, risulta evidente che la continua attesa e la conseguente instabilità possano causare un danno in grado di pregiudicare seriamente la situazione di pace all’interno del paese, già precaria a causa della sua travagliata storia. Mentre continua a mancare un accordo condiviso su diversi temi rilevanti, Amnesty International denuncia un pericoloso atteggiamento di soppressione delle libertà di informazione e di espressione che permane da diversi anni. Soltanto lo scorso 31 ottobre, come riportato dalla


Africa Subsahariana radio sudanese Eye Radio, due giornaliste sarebbero state fisicamente aggredite da un ufficiale dell’esercito mentre stavano seguendo un incontro con i vertici militari presieduto dal presidente Kiir. Questo è solo l’ultimo caso di una lunga serie di azioni che comprendono anche arresti arbitrari e uccisioni di giornalisti. Benché la fine della guerra civile abbia portato un lieve miglioramento delle condizioni e il paese abbia guadagnato cinque posizioni nel World Press Freedom Index, raggiungendo il 139esimo posto, il Sud Sudan rimane in linea con una tendenza regionale che vede 22 paesi, tra i 48 dell’Africa subsahariana, classificati come “bad” o “very bad” nella particolare classifica stilata da Reporters Sans Frontières (RSF). La libertà di stampa è stata definita in ambito economico e politologico come un “coordination good”. Ciò significa che essa rappresenta un bene che nasce dal - e agevola il - coordinamento tra persone, facilitando quindi anche l’organizzazione di proteste o di efficaci opposizioni politiche.

Questa chiave di lettura può contribuire a spiegare perchè, in paesi che stanno attraversando una transizione democratica, le élites politiche tendano ad ostacolare una completa maturazione di tale libertà, impedendo o rallentando la formazione di una reale opposizione. Queste dinamiche hanno però un costo che grava sull’intera popolazione. Una solida ed efficace opposizione politica e la presenza di giornalisti d’inchiesta liberi di operare sono requisiti fondamentali per garantire un maggiore controllo del potere politico, promuovendo cause significative come la riduzione della corruzione e motivando una maggiore partecipazione politica da parte dei cittadini. L’assenza di questi presupposti, viceversa, rende pressoché impossibile la formazione di una democrazia stabile e sana, che possa garantire un duraturo periodo di pace e prosperità economica. E’ doveroso sottolineare che, a livello globale, il 2019 è stato un anno caratterizzato da un trend negativo nella libertà di

stampa. Stando alla classifica di RSF precedentemente citata, infatti, solo 24 paesi al mondo su 180 sono considerati avere un buon livello di libertà di stampa, venendo definiti come “good”. Il clima di ostilità nei confronti dei giornalisti che viene registrato, dunque, rende l’Africa subsahariana un campione rappresentativo di questa tendenza globale. Il centro di ricerca panafricano Afrobarometer ha stimato che il 49% dei cittadini del continente considera giusto che il governo possa censurare la stampa. Questi dati lasciano intendere come in gran parte dei paesi della regione la libertà di stampa non venga adeguatamente tutelata e preservata, neanche (cosa che potrebbe parere controintuitiva) dalla stessa opinione pubblica. Ciononostante, è difficile negare che essa rappresenti un valore fondamentale ed un requisito irrinunciabile per promuovere i processi di democratizzazione che sono in atto in numerosi dei paesi del continente africano.

MSOI the Post • 35


Nord America La nuova politica di Facebook in vista delle presidenziali USA

Di Nicolas Drago Il 21 ottobre scorso, l’ufficio stampa di Facebook ha divulgato un comunicato che accredita al social network la responsabilità di impedire interferenze, per mezzo della piattaforma, nelle elezioni politiche, al fine di garantire processi democratici più trasparenti. La compagnia ha asserito, inoltre, di aver promosso negli ultimi anni l’identificazione di nuove minacce e vulnerabilità, e la propria contrarietà alla diffusione di disinformazione e di account fittizi. La pubblicazione del comunicato non è affatto casuale: esattamente tra un anno, 36 • MSOI the Post

circa 327 milioni di cittadini statunitensi si recheranno alle urne per decidere se rieleggere il presidente in carica o se designare un nuovo leader tra l’ampio ventaglio di candidati. A ciò si aggiunga il coinvolgimento di Facebook nello scandalo di Cambridge Analytica, in riferimento alle elezioni presidenziali del 2016, quando la società di consulenza politica britannica si occupava della campagna elettorale di Donald Trump e collaborava, al tempo medesimo, con il ricercatore dell’Università di Cambridge Alexandr Kogan. Quest’ultimo, per ragioni scientifiche, aveva sviluppato una app-quiz allacciata a Facebook capace di estrarre i dati personali degli utenti che vi avrebbero acceduto,

e di tutti i loro contatti. In seguito, Kogan ha combinato i dati personali degli utenti, quali la data di nascita, la posizione, i like annessi, con le risposte date al quiz e ne ha profilato la personalità avvalendosi della psicometria, ossia l’insieme dei metodi di indagine psicologica che tendono al raggiungimento di valutazioni quantitative del comportamento degli esseri umani. Il risultato finale di tale operazione consiste nella costruzione di messaggi politici ad hoc indirizzati ai potenziali elettori. Altri candidati alle elezioni presidenziali, come Barack Obama o Hillary Clinton, sono ricorsi a sistemi simili perché, di per sé, la targettizzazione individuale non costituisce un comportamento illecito: si


Nord America Consequenzialmente, Facebook si sta muovendo in direzione della promozione della trasparenza circa la gestione delle pagine, attivando un dispositivo che ne mostri agli utenti la tracciabilità o il coinvolgimento con altre entità virtuali affinché sia possibile identificarne la provenienza istantaneamente.

pensi agli esperti di marketing che lanciano automobili o capi di abbigliamento attraverso annunci pubblicitari mirati. Ma dell’affare Cambridge Analytica, ciò che ha spinto il Congresso degli Stati Uniti ad aprirne un fascicolo giudiziario sono stati il “furto” e la rielaborazione dei dati personali di oltre 50 milioni di utenti in mancanza del loro previo consenso. Contemporaneamente, il connubio con il fenomeno delle fake news ha dato origine ad una combinazione impareggiabile in grado di avere un impatto sulle capacità critiche degli individui. Uno studio dell’Università di Oxford ha dimostrato che in rete la disinformazione dilaga ed è supportata ampiamente dagli algoritmi di Facebook e di altri social network, dal momento che l’automatizzazione degli account rende possibile l’apposizione di like e la pubblicazione e la condivisione di contenuti al fine di dare rilevanza a un determinato

argomento nel contesto del dibattito pubblico, riuscendo a dare l’illusione della popolarità. Così, da marzo 2018, Facebook ha subìto quotidianamente la pressione mediatica fomentata dall’ampio bacino di utenti che sostengono che la compagnia non sia in grado di garantire una protezione adeguata ai loro profili social. Tra le misure annunciate a ottobre figura l’iniziativa volta a rimuovere i coordinated inauthentic behaviors che il capo della politica di cyber-sicurezza di Facebook Nathaniel Gleicher ha chiarito aver luogo quando una pluralità di utenti, o di pagine, collaborano con l’obiettivo di fuorviare la comunità virtuale sulla loro vera identità e sulle ragioni della loro esistenza. I coordinated inauthentic behavior verranno rimossi per via del loro comportamento illusorio, non a causa del contenuto che stanno diffondendo, perché quest’ultimo potrebbe essere fondato e potrebbe conformarsi alle regole di condotta della piattaforma.

Eppure, ciò che probabilmente influenzerà la vita della community in maggior misura sarà la decisione di indirizzare i fruitori del social verso una stima più attenta delle fonti delle notizie. Nello specifico, ad esempio, tutte le stazioni mediatiche che sono sotto il controllo editoriale governativo cominceranno ad essere riconoscibili grazie al contrassegno di un’etichetta sul post della pubblicazione in questione, così come su tutti i testi che saranno classificati come fake news da fact-checker esperti. Un tale impegno è finalizzato implicitamente a intralciare l’interferenza dei governi stranieri, condannata dal diritto internazionale come un grave abuso della sovranità statale. Proprio il 21 ottobre, Facebook ha reso noto di aver bloccato quattro operazioni di matrice russa e iraniana con target in Nord Africa, Nord America, e Sud America. Queste ed altre misure saranno implementate nel corso dei prossimi mesi per garantire la protezione dei dati personali di milioni di profili Facebook e per scongiurare un nuovo Russia Gate, ma, dall’altra parte, tali provvedimenti potranno spingere alcuni a domandarsi dove finisca la tutela e inizi la censura. MSOI the Post • 37


Nord America GIORNALI IN PERICOLO? I CONFLITTI FRA TRUMP E LA STAMPA STATUNITENSE

Di Domenico Andrea Schiuma Il New York Times e il Washington Post non saranno più utilizzati dall’amministrazione federale. È questa l’ultima mossa del presidente degli Stati Uniti Donald Trump nella sua ‘guerra’ contro la stampa non allineata. Lo scorso 25 ottobre, come riporta il Sole 24 Ore, la Casa Bianca ha ordinato all’intero apparato amministrativo federale statunitense di non rinnovare gli abbonamenti a due dei più importanti quotidiani nazionali. Una scelta che, come riporta il quotidiano milanese, potrebbe avere un impatto sul lavoro di molti funzionari pubblici, privandoli di informazioni necessarie a svolgere il loro incarico. In una mail, Stephanie Grisham, nuova portavoce del presidente, ha dichiarato che tale disposizione rientrerebbe in una manovra più ampia volta al contenimento dei costi della Pubblica Amministrazione: “Non rinnovare gli abbonamenti a tutti gli enti e organismi federali rappresenterà un significativo risparmio - pari a centinaia di migliaia di dollari a carico dei contribuenti”. In realtà, Trump aveva già commentato di persona la cancellazione immediata degli abbonamenti della Casa Bianca ai due famosi giornali, adducendo motivazioni di diverso tipo. Lunedì 21 ottobre, su un programma della nota emittente Fox News, il presidente aveva infatti dichiarato: “Non li 38 • MSOI the Post

vogliamo più nella Casa Bianca [...] sono falsi”. Non a caso tale messaggio è stato comunicato proprio su Fox News, la rete televisiva preferita di Trump, almeno nel recente passato molto vicina alle posizioni del presidente.

il Las Vegas Review-Journal, che nel dicembre del 2017 era stato acquistato dal repubblicano Sheldon Adelson, sostenitore di Trump.

Del resto, già durante la campagna elettorale del 2016 sembrava che i rapporti fra il presidente e un’ampia porzione della stampa americana fossero compromessi. Il Washington Post lo evidenziava in un articolo pubblicato il 30 ottobre 2016. Non solo Trump non aveva ottenuto il sostegno della stampa vicina alle posizioni dei democratici, ma numerosi quotidiani di solito fedeli alla fazione repubblicana avevano dato il proprio endorsement a Hillary Clinton. Tra questi The State, il San Diego UnionTribune, l’Arizona Republic ed il Cincinnati Enquirer. Diversi giornali conservatori avevano addirittura preferito sostenere il candidato del Partito Libertario, Gary Johnson.

Dopo l’insediamento alla presidenza, il rapporto fra Trump e buona parte della stampa a stelle e strisce non si è disteso. Il presidente è parso non gradire le critiche dei principali quotidiani nazionali per le politiche implementate dalla sua amministrazione, né le indagini sui rapporti tra i suoi collaboratori e i leader di potenze straniere, che hanno portato alla luce scandali anche di grande rilievo. Tra questi, la possibile interferenza della Russia nella campagna elettorale del 2016 e la richiesta al presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelen’kij di riaprire un’inchiesta sul figlio di Joe Biden, potenziale prossimo avversario di Trump alle elezioni del 2020. Proprio questo scandalo, lo scorso 31 ottobre, ha portato alla messa in stato d’accusa ufficiale di Trump.

Tuttavia, sottolineava il Washington Post, l’attuale presidente aveva giovato dell’opinione negativa che i giornali avevano di lui. Veniva infatti trasmessa l’impressione che il candidato costituisse uno stravolgimento dello status quo. Di conseguenza, molti sostenitori del tycoon sembravano attratti proprio dall’opinione negativa che aveva di lui la stampa. I giornali schierati a favore di Trump furono pochi e tendenzialmente a bassa tiratura: un esempio fu

L’amministrazione Trump non è la prima ad essere messa in difficoltà da indagini giornalistiche. La stampa statunitense svolge il ruolo di watchdog della politica già dalla prima metà dell’800. Alexis de Tocqueville, in “La democrazia in America”, osservava come, negli Stati Uniti degli anni ‘30 del diciannovesimo secolo, la stampa mettesse “incessantemente a nudo i moventi segreti della politica” e costringesse “gli uomini politici a comparire, di volta in volta,


Nord America davanti al tribunale dell’opinione pubblica”. Non a caso, i più grandi scandali della vita politica americana sono spesso sorti da inchieste giornalistiche. Il Watergate, il caso di spionaggio che coinvolse nel 1972 l’allora presidente Richard Nixon, costringendolo alle dimissioni, nacque dalle indagini di due collaboratori del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein. Il 17 gennaio 1998, come ricostruito dal Post, il Drudge Report riportava che la redazione di Newsweek aveva deciso all’ultimo minuto di non pubblicare un’inchiesta su una relazione sentimentale fra l’allora presidente Bill Clinton e una stagista di ventitré anni. Fu l’inizio del Sexgate e dello scandalo legato a Monica Lewinsky. Anche l’Irangate nacque dalle indagini di un settimanale: tuttavia, a portare allo luce lo scandalo che fra il 1986 e il 1987 coinvolse il presidente Reagan per un traffico d’armi con l’Iran volto alla liberazione di alcuni ostaggi americani e al finanziamento dei Contras in Nicaragua, non fu una testata statunitense, bensì libanese. Ad ogni modo, Trump pare mal sopportare la ferrea opposizione che quasi tutti i principali media del paese gli hanno riservato. Secondo il Washington Post, è proprio per scavalcare il gatekeeping - il processo di selezione da parte dei media tradizionali delle notizie a cui dare importanza - e per rivolgersi direttamente ai propri sostenitori che Trump ha scelto Twitter come principale mezzo di comunicazione. Tale interpretazione è stata confermata al New York Times da Kellyanne Conway, consigliera alla Casa Bianca:

“Twitter è l’arma più potente a disposizione del Presidente per by-passare quei potenti che, secondo lui, hanno per troppo tempo controllato il flusso delle informazioni. Si tratta di democratizzazione dell’informazione”. A proposito di Twitter, il New York Times ha svolto recentemente un’indagine sul modo in cui il presidente ne fa uso: analizzando più di 11.000 tweet pubblicati dall’inizio del mandato, è emerso che Trump ha attaccato apertamente qualcosa o qualcuno in più della metà dei suoi tweet, che ha lodato se stesso 2026 volte e che in 750 casi ha pubblicizzato o mostrato apprezzamento verso Fox News e altri media conservatori che lo appoggiano. In diverse occasioni il presidente ha usato Twitter per minare la credibilità dei giornalisti che lo avversavano, e 34 volte ha definito “nemici del popolo” i news media a lui ostili. Un’espressione, sottolinea il New York Times, “storicamente usata da soggetti autoritari”. Le pesanti accuse di Donald Trump hanno portato i quotidiani che gli si oppongono a fare fronte comune. Il 16 agosto del 2018, in risposta alle illazioni del presidente, 350 giornali statunitensi, nazionali e locali, hanno pubblicato pagine straordinarie o editoriali per difendere la libertà di stampa, attaccata da Trump, sotto lo slogan della giornata “Not the enemy”, “Non siamo il nemico”. L’iniziativa è partita dal Boston Globe, che, in tale circostanza, ha scritto: “La grandezza dell’America dipende dal ruolo di una stampa libera di dire la verità ai potenti”. E ha

aggiunto: “Etichettare la stampa come il nemico del popolo è tanto poco americano quanto pericoloso per il patto civico che abbiamo condiviso per più di due secoli”. Il New York Times ha effettuato un richiamo alla responsabilità collettiva, anche in favore dei giornali locali. Come riporta il NYT, molti di questi stanno chiudendo o riducendo in modo drastico i propri organici, finendo spesso nelle mani di soggetti il cui unico scopo è far profitto attraverso il ridimensionamento delle redazioni. “Se non l’avete ancora fatto, per favore abbonatevi al vostro giornale locale - ha scritto quel giorno il quotidiano di New York Lodateli quando pensate che abbiano fatto un buon lavoro e criticateli quando pensate che possano fare meglio. Siamo tutti coinvolti in questa cosa”. Su Twitter, il presidente Trump ha risposto alla mobilitazione: “I media fake news sono un partito d’opposizione. Ma noi vinceremo!” La decisione di mettere alla porta il New York Times e il Washington Post non costituirà presumibilmente un problema per i due giornali. Ne è convinto Jonathan Karl, presidente dell’Associazione dei Corrispondenti alla Casa Bianca, il quale ha dichiarato: “I giornalisti del New York Times e del Washington Post continueranno a produrre giornalismo di qualità senza badare se il presidente li legga o meno. Fingere di ignorare il lavoro di una stampa libera non farà sparire le notizie né impedirà ai giornalisti di informare il pubblico e di richiamare chi detiene il potere alle loro responsabilità”. MSOI the Post • 39


Sud e Sud Est Asiatico MYANMAR: L’ONU CONFERMA LE VIOLENZE SULLA POPOLAZIONE ROHINGYA

Di Daniele Carli Lo scorso settembre si è concluso il mandato ONU per la Fact-Finding Mission (FFM) in Myanmar, iniziata nel marzo 2017 allo scopo di chiarire la situazione riguardo alle presunte violazioni dei diritti umani perpetrate dall’esercito nei confronti della popolazione rohingya. Stando al report e alle recenti dichiarazioni del capo missione Marzuki Darusman, le condizioni della minoranza musulmana nello stato del Rakhine sembrano essere peggiorate, con riferimento alla “continuazione di discriminazione, segregazione, restrizione della libertà di movimento, insicurezza e mancanza di accesso a terra, lavoro, educazione e assistenza sanitaria”. Il resoconto conferma ciò che nel giugno 2019 era stato riportato da Amnesty International, 40 • MSOI the Post

ovvero che le forze armate del Myanmar – meglio conosciute come Tatmadaw – stessero perpetrando violenze indiscriminate all’interno dello stato del Rakhine. All’epoca, stando ai dati raccolti in loco dagli stessi operatori, un raid dell’esercito regolare aveva causato 14 vittime civili e 29 feriti, con conseguenti episodi di torture e arresti arbitrari nel corso di un attacco indiscriminato. I soldati avrebbero agito con l’obiettivo di eliminare i ribelli della Arakan Army (AA), la frangia militare della United League of Arakan (ULA), impegnata sin dalla sua fondazione (nel 2009) nella liberazione del Rakhine attraverso l’uso della forza. Il Tatmadaw era stato accusato dal 2017 dalla società internazionale di aver compiuto atrocità nei confronti dei rohingya quando l’azione congiunta dell’esercito e di alcuni gruppi estremisti buddisti portò alla distruzione

di interi villaggi, uccidendo circa 10.000 membri della comunità e causando l’emigrazione dal Rakhine di almeno 700.000 profughi. Nel contempo, la posizione del Governo centrale riguardo le accuse continua a risultare ambigua e contraddittoria. Il rappresentante del Myanmar, Hau Do Suan, ha dichiarato all’Assemblea ONU che, seppur d’accordo con la necessità di investigare e punire eventuali violazioni, il Governo centrale non riconosce la missione, che considera viziata da imparzialità ed espressione di inaccettabili pressioni politiche. Il consigliere di stato Aung San Suu Kyi, nel corso della recente visita in Giappone per l’incoronazione del nuovo Imperatore Naruhito, da un lato ha condiviso la preoccupazione dell’opinione pubblica internazionale per la violazione dei diritti umani nel Rakhine, dall’altro ha ribadito


Sud e Sud Est Asiatico come le operazioni nate a partire dal 2017 rappresentino una contro-offensiva al terrorismo dilagante nello stato e come la comunità internazionale abbia tendenzialmente trascurato questa minaccia. A prescindere dalle dichiarazioni, il consigliere di stato non ha molti margini di azione per contrastare ciò che l’ONU ha definito come una vera e propria “pulizia etnica” da parte del Tatmadaw. È infatti noto come, nonostante il processo di transizione democratica iniziato nel 2008, l’esercito detenga ancora un notevole potere politico nel paese: basti pensare che il 25% dei seggi in Parlamento è riservato per Costituzione ad ufficiali militari. A tal proposito, sempre in occasione della recente visita in Giappone, San Suu Kyi ha confermato l’ostilità dell’apparato militare nei confronti dell’emendamento costituzionale proposto dal National League for Democracy (NDL), che sancirebbe la drastica riduzione dell’interferenza militare negli affari politici e quindi un passo importante verso la piena democratizzazione del Myanmar. Nel caso in cui l’NDL dovesse vincere le elezioni generali previste nel

2020, l’intenzione è quella di riproporre la modifica della carta costituzionale nel corso del prossimo mandato. Tornando alla situazione nel Rakhine, il Governo ha istituito nel luglio 2018 la Independent Commission of Enquiry for Rakhine, volta ad investigare le presunte violazioni dei diritti umani nella provincia. Tuttavia, l’inchiesta FFM ha rivelato che la Commissione non ha prodotto alcun rapporto a partire dalla sua nascita, dimostrando dunque di non rappresentare “una possibile fine alle impunità”. Per questo motivo, come dichiarato dal responsabile Marzuki Darusman, i dati e le testimonianze rilevati dalla missione sono stati trasferiti ad un’altra commissione ad hoc ONU, la Independent

Investigative Mechanism for Myanmar. Inoltre, Darusman ha sollecitato la comunità internazionale a supportare le investigazioni del Tribunale penale internazionale allo scopo di aprire un procedimento prima ancora che la Corte Internazionale di Giustizia esprima una sentenza riguardo la possibile violazione da parte del Myanmar della Convenzione sul Genocidio del 1948. Per concludere, una risoluzione al dramma del popolo rohingya sembra più che lontano da quelle che invece erano state le premesse del Governo. Ad ulteriore prova di ciò vi sono le difficoltà di accordo con i rappresentanti delle migliaia di rifugiati (nei confinanti Bangladesh e Indonesia) riguardo al rimpatrio con garanzie di sicurezza e accesso a educazione e assistenza sociale. L’Association of Southeast Asian Nations (ASEAN), il cui summit annuale è previsto dal 31 Ottobre al 4 Novembre, e il Governo del Myanmar sono dunque chiamati ad implementare un piano effettivo che risolva la situazione prima che essa sprofondi ancora nell’oblio del silenzio e della violenza.

MSOI the Post • 41


Sud e Sud Est Asiatico A Nuova Delhi non si respira. Conseguenze dell’inquinamento nella capitale indiana

di Natalie Sclippa L’aria a Nuova Delhi, capitale dell’India, è irrespirabile. I livelli di alcuni agenti tossici inquinanti come PM10 e PM2.5 sono fino a 20 volte superiori rispetto al limite fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. I cittadini sono costretti a rimanere nelle proprie abitazioni per evitare i rischi correlati all’esposizione. Irritazione agli occhi e alla gola, tosse e sintomi asmatici sono solamente alcune delle conseguenze che colpiscono soprattutto le fasce più deboli della popolazione, tra cui anziani, bambini e malati cronici. “The longer the exposure, the greater the risk”, conferma la dottoressa Christine Cowie dell’Università di New South Wales in una dichiarazione rilasciata alla BBC. Come ogni anno, nei mesi di ottobre e novembre le condizioni sono peggiorate a causa della consuetudine dei contadini di bruciare le sterpaglie dei campi per prepararli alla nuova semina, riducendo i costi di bonifica. A 42 • MSOI the Post

ciò si aggiungono le celebrazioni della festività indù del Diwali, durante la quale si innescano petardi per illuminare il cielo. Per cercare di controllare il fenomeno e limitarne i danni ambientali, il Press Information Bureau del Governo indiano ha redatto una serie di linee guida che le autorità avrebbero dovuto far rispettare, ma senza successo. Vista la negligenza nella gestione dell’emergenza, il principal secretary del primo ministro, Pramod Kumar Misra, aveva infatti rivisto le misure da concretizzare per cercare di arginare il pericolo. Il 25 ottobre, in una circolare, il presidente dell’Autorità per la Prevenzione e il Controllo dell’Inquinamento Ambientale per la regione di Nuova Delhi affermava che “la tolleranza zero per le operazioni illegali delle industrie e per l’utilizzo di carburante non autorizzato” sarebbe dovuta essere assicurata “dall’amministrazione distrettuale”, suggerendo poi altre norme restrittive tra cui il fermo di veicoli “visibilmente inquinanti”.

La situazione è precipitata nei primi giorni di novembre, poiché le condizioni atmosferiche avverse hanno intrappolato gli agenti inquinanti e causato problemi alla cittadinanza, portando la valutazione nell’Air Quality Index (AQI) da “very poor” a “severe”. L’AQI monitora in tempo reale i livelli dei principali agenti presenti, tra cui PM2.5, PM10, O3 e NO2, e fornisce anche previsioni per i giorni successivi. L’Environmental Protection Agency ha assegnato un colore specifico per ogni categoria di AQI, in modo da facilitarne la comprensione a tutte le fasce della popolazione. Il ventaglio va dal verde - inquinamento tra 0 a 50, con rischio praticamente inesistente - fino al marrone tra 301 a 500, a indicare una vera e propria emergenza sanitaria. Nella capitale, la media per i primi quindici giorni di novembre si attesta sopra i 350. Sono state diffuse altre circolari che prevedevano, tra le altre cose, la chiusura di tutte quelle


Sud e Sud Est Asiatico industrie utilizzanti carburanti fossili che non avessero intrapreso la riqualificazione degli stabilimenti e il passaggio al gas naturale o biomassa. Inoltre, l’utilizzo di petardi è stato interdetto per tutta la stagione invernale. Gli abitanti della capitale indiana, tuttavia, temono per propria salute e la gestione inadeguata del pericolo sta innescando proteste in tutta la città. L’emittente CBS riporta come nessuno dei residenti possa affermare di essere un “non fumatore”, visto che vivere a Nuova Delhi in questo momento equivale a fumare circa 25 sigarette al giorno. Più di 30 voli sono stati dirottati su altri aeroporti, data la scarsa visibilità dovuta alla densa coltre di inquinamento stagnante. La difesa della salute sta diventando terreno di scontro e molti cittadini starebbero decidendo di trasferirsi, come Divyam Mathur, intervistato dalla CNBC, il quale ha affermato:“La situazione è terribile. Penso di spostarmi perchè sono abbastanza giovane e sto costruendo la mia vita e la mia carriera; per questo sceglierò di cambiare città”. Le misure drastiche per la risoluzione - almeno stagionale della problematica sono state fallimentari. Così, il chief minister di Delhi, Arvind Kejriwal, ha predisposto la distribuzione di 5 milioni di mascherine nelle scuole e chiesto a tutti di usarle, in modo da minimizzare l’esposizione. Ad alcuni impiegati è stato addirittura suggerito di lavorare da casa. Kejriwal ha confermato come, dopo una prima tendenza negativa, ora la quantità di PM2.5 e PM10 sia in costante crescita.

“Riguardo a questo episodio, il grande problema sembra proprio avere a che fare con i roghi agricoli” insiste Thomas Smith, Professore alla London School of Economics, come riportato dalla BBC. Gli incendi intenzionali di campi di stoppie sono proseguiti nonostante il divieto: solamente nella giornata di lunedì 4 novembre si sono registrati 5953 focolai. Diversamente da quanto legiferato in Cina - dove la pratica è stata giudicata fuorilegge e completamente bandita - in India tutti gli sforzi e le direttive della Corte Suprema sembrano vani. Non solo negli Stati del Punjab e Haryana, limitrofi alla città, si continua a dare fuoco alle sterpaglie, ma tutti i tentativi di dotare i contadini dell’equipaggiamento necessario per una diversa collocazione dei residui non hanno portato ad alcuna

conseguenza concreta. Non a caso nel ranking di EPI (Environmental Performance Index), redatto annualmente dall’Università di Yale, nel 2018 il gigante asiatico si trovava al 177esimo posto su un totale di 180 paesi analizzati. Le categorie più penalizzanti sono proprio quelle che hanno a che fare con la salute ambientale, come la qualità dell’aria. La sfida per il governo indiano sarà riuscire a combinare efficacementecrescitaesostenibilità ambientale. Come ripetuto nella risoluzione politica nata dal vertice delle Nazioni Unite che si è tenuto a New York il 2425 settembre: “We [...] remain resolved to create conditions for sustainable, inclusive and sustained economic growth, shared prosperity and decent work for all”. MSOI the Post • 43


Diritto Internazionale ed Europeo #Keeptruthalive: quando la libertà di parola e di stampa uccidono

Di Maria Francesca Bottura Sabato 2 novembre, il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, ha scritto in un post su Twitter che “non c’è democrazia senza la libertà di stampa”. Tutto parte da qui, tutto parte da quello che leggiamo, da quello che sentiamo alla televisione, dagli articoli su Facebook, persino dalle fake news; tutto parte da coloro che, pur avendo tutto da perdere, hanno deciso di raccontarci la verità. La pagina web keeptruthalive. co è stata creata per ricordare i giornalisti morti nell’adempimento del proprio lavoro, in parallelo all’iniziativa commemorativa che vede loro dedicato, dal 2013, il 2 Novembre di ogni anno. Sul sito, viene spiegato che, negli ultimi 12 anni, sono stati più di 1.000 i giornalisti uccisi, in zone di guerra, “ma anche nelle loro case. Agli angoli delle strade. Sono stati uccisi a sangue freddo. Deliberatamente. Con impunità. Per mettere a tacere 44 • MSOI the Post

gli argomenti che alcune persone volevano tenere nascosti”. Il sito riporta inoltre che, su 10 casi di omicidio di questo tipo, nove rimangono insoluti e che il 93% dei giornalisti assassinati sono giornalisti locali. Una mappa, inserita al fondo della pagina, illustra il numero di morti nei diversi paesi: 40 in Algeria, 138 tra Egitto, Israele, Palestina e Siria e, ancora, tra gli altri, 8 in Francia, 3 in Finlandia, 2 in Spagna, 2 nell’Irlanda del Nord. Daphne Caruana Galizia, archeologa di formazione e giornalista investigativa esperta di Panama Papers, è stata uccisa il 16 ottobre 2017 da un esplosivo al tritolo nascosto nella sua Peugeot 108, poco distante dalla sua abitazione a Bidnija, Malta. Ciononostante, i suoi ‘Malta Files’ e la sua inchiesta sull’evasione fiscale dell’Unione Europea - con base pirata proprio a Malta - che le hanno valso il novero tra le “28 personalità che stanno agitando l’Europa”, non sono morti con lei. Anzi, in un senso crudele

e straziante, la sua morte ha sortito l’effetto contrario a quello sperato: l’omicidio di Daphne ha dato maggior risalto alle sue parole e alle sue indagini. Kim Wall aveva 30 anni, quando, nell’agosto 2017, scomparve misteriosamente, senza lasciare tracce, dopo essere stata vista con l’inventore danese Peter Madsen, a Køge in Danimarca. Il suo busto venne ritrovato in una spiaggia dieci giorni dopo, e nei giorni seguenti vennero ritrovati gli arti mancanti e la testa. Salì a bordo del sommergibile UC3 Nautilus di Madsen con l’intenzione di intervistare l’eccentrico inventore, sul quale stava realizzando un reportage. Oggi, però, la Wall non c’è più e Madsen è un ergastolano. La morte di Maksim Borodin rimane ancora avvolta nel mistero. Dopo aver scritto articoli riguardanti corruzioni, ipocrisie e attività criminali di magnati, religiosi e noti politici russi, nessuno crede che Borodin si sia suicidato. Il trentaduenne è precipitato dal


Diritto Internazionale ed Europeo proprio appartamento al quinto piano il 12 aprile 2018, ed è morto tre giorni dopo. Negli ultimi tempi aveva espresso ad un suo amico il timore di essere arrestato, confidandogli inoltre di aver visto più volte persone armate in mimetica aggirarsi nei pressi del suo appartamento. Nessuno, però, tra gli agenti che hanno indagato sul caso, sembra essere dell’avviso che si sia trattato di omicidio, ignorando la posizione scomoda in cui Borodin era finito, tra scandali politici e inchieste sulla presenza di mercenari russi in Siria. La storia della libertà di espressione fonda le sue radici nella storia, quando nel 1787 venne per la prima volta citata nella Costituzione degli Stati Uniti d’America. L’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 asserisce che “ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni ed idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Si trovano fondamenti anche nell’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti Umani e nell’articolo 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, così come nell’articolo 21 della Costituzione Italiana, che tutela uno dei capisaldi della democrazia. Seppur spesso limitati per ragioni di carattere politico, normativo, religioso e culturale, le libertà di espressione, di parola e di stampa fanno parte dei diritti fondamentali dell’individuo. Lo stesso articolo 10 comma 2 della CEDU ammette limitazioni per tutela alla “sicurezza nazionale,

all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”, e l’articolo 29 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nella misura in cui prevede doveri dell’individuo verso la comunità di appartenenza e che “[n]ell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà, ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà degli altri e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica”. La paura per la propria vita, d’altro canto, resta un limite non scritto. Rispetto al quinquennio precedente, tra il 2014 e il 2018 si è riscontrato un aumento del 18% di giornalisti uccisi. Di questi omicidi, il 55% ha avuto luogo in paesi in pace. Senza tutte queste storie, senza il lavoro di questi coraggiosi giornalisti, senza la loro dedizione e il loro sacrificio, forse penseremmo

che al mondo non esiste il dolore che ci è lontano, e che se esiste, probabilmente non è un nostro problema. Al contrario, in qualsiasi parte del mondo, ci sono sempre verità che tutti meritano di conoscere. Le atrocità commesse, il dolore arrecato, la morte, le frodi e a volte il riscatto di chi si pensava non sarebbe riuscito a sopravvivere. Dietro a tutte queste storie che leggiamo a cuor leggero, consapevoli essere ben distanti da noi, ad impugnare la penna con la stessa fermezza e coraggio di cavalieri con le loro spade, troviamo giornalisti che non sono semplici giornalisti, ma eroi della verità. Il livello di impunità contro questi crimini è altissimo soprattutto paesi quali Palestina, Perù, Filippine, Somalia e Ucraina. Ad oggi, a parte la giornata di commemorazione indetta per ricordare le vittime di questi crimini crudeli, si può citare la campagna globale ‘#EndImpunity’, lanciata dalla Federazione internazionale dei giornalisti per chiedere giustizia per tutti i giornalisti uccisi. Questa è la verità nel XXI secolo: un atto di coraggio che va oltre la morte, ma che rimane impegnato di ingiustizia. #KeepTruthAlive, in memoria di chi ha perso la vita per raccontarci la verità.

MSOI the Post • 45


Diritto Internazionale ed Europeo L’Operazione ‘Peace Spring’ e la legittimità dello ius ad bellum contro attori non statali

È l’alba del 9 ottobre 2019: le forze turche, ammassate da mesi lungo la frontiera turco-siriana nel sud-est del paese, si preparano a scatenare l’Operazione “Peace Spring”, volta a creare una zona di sicurezza di trenta chilometri in territorio siriano. Quest’area, controllata dal 2016 da forze a maggioranza etnica curda, rappresenterebbe per Ankara una minaccia alla sicurezza nazionale. Ma questa operazione militare è lecita secondo il diritto internazionale? L’uso della forza nelle relazioni internazionali Prima dell’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, il ricorso all’uso della forza era all’ordine del giorno, nonostante qualche timido tentativo di limitarne l’uso. Ma la situazione è molto cambiata dopo il 1945. L’attuale architettura internazionale proibisce esplicitamente l’uso della forza nelle relazioni internazionali, con specifiche eccezioni. L’Art. 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite afferma che “Tutti i membri si astengono nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi stato”. 46 • MSOI the Post

La giurisprudenza della Corte dell’Aia ha distinto esplicitamente i casi di attacco armato da tutti gli altri usi della forza di minor gravità, come ad esempio gli incidenti di frontiera, che non legittimano l’autodifesa. Si potrebbe pensare che l’articolo in questione proibisca l’uso della forza limitatamente ai casi citati (attentato all’indipendenza politica o all’integrità territoriale). Tuttavia, è ormai sostenuto dalla maggioranza della dottrina che non sia lecito circoscrivere la portata dell’Art. 2(4) in tal senso. Accanto alle disposizioni che disciplinano il divieto generale di uso della forza, esistono quelle relative al sistema di sicurezza collettiva. Il Capitolo VII della Carta prevede, infatti, un sistema di sicurezza collettiva volto a porre fine ad atti che costituiscono una minaccia alla sicurezza e alla pace internazionale. Tale sistema trova il suo cardine nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, composto da cinque membri permanenti con diritto di veto e da dieci membri non permanenti. Dunque, l’uso della forza è previsto nel sistema delle Nazioni Unite o su esplicita autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, che adotterà

una risoluzione sulla base del capitolo VII della Carta, o in legittima difesa, come da art. 51 della Carta. Quest’ultimo articolo recita: “Nothing in the present Charter shall impair the inherent right of individual or collective selfdefence if an armed attack occurs against a Member of the United Nations [...]”. La base giuridica dell’intervento turco: l’attacco imminente La Turchia, in ottemperanza all’Art. 51 della Carta, ha indirizzato una lettera al Consiglio di Sicurezza per metterlo al corrente delle basi giuridiche del suo intervento. Il Rappresentante Permanente del Governo turco vi enumera tre giustificazioni per l’uso della forza: la legittima difesa, l’esistenza di un trattato bilaterale e gli obblighi comuni a tutti gli Stati concernenti la lotta al terrorismo. In riferimento alla prima, nella lettera si legge: “Turkey initiated Operation Peace Spring on 9 October 2019, in line with the right of self-defence [...] to counter the imminent terrorist threat, […] to neutralize terrorists starting from along the border regions’. Il rappresentante del Governo di Ankara si riferisce più volte


Diritto Internazionale ed Europeo al fatto che le unità curde vicine al confine turco in Siria siano “a source of direct and imminent threat, as they opened harassment fire on Turkish border posts”. In effetti, per giustificare l’autodifesa va considerato il concetto di ‘imminenza’, ovvero il momento a partire dal quale si può legittimamente ricorrere alla forza armata. Se l’Art. 51 della Carta afferma, esplicitamente, che tale diritto si materializza quando “an armed attack occurs”, la stessa disposizione rimarca che nulla può ostacolare il diritto all’autodifesa. Una parte della dottrina si è appoggiata su tale aspetto per sostenere la liceità dell’uso della forza armata anche in maniera preventiva. Sembra pacifico, in linea con i concetti consuetudinari del caso Caroline, ammettere che l’Art. 51 contempli nel suo uso anche la repressione di un attacco armato imminente. Tuttavia, quest’ultimo deve essere “instant, overwhelming, leaving no choice of means, and no moment of deliberation”. La base giuridica dell’intervento turco: attori non statali A questo punto scaturisce un’altra domanda: sarebbe lecito rispondere militarmente agli attacchi armati di attori non statali che operano da un altro paese, qualora il Governo di tale paese sia disinteressato o impossibilitato a porre fine a tale minaccia? Contrariamente all’Art. 2(4) della Carta, l’Art. 51 non menziona da parte di chi debba provenire l’attacco. La dottrina classica vorrebbe che, per

poter opporre ad uno stato l’uso della forza in legittima difesa, arrivasse dallo stato un uso della forza corrispondente ad un attacco armato. Questo potrebbe essere perpetrato da organi de jure dello stato, o anche da organi de facto. La conditio sine qua non per una qualsivoglia legittima difesa sarebbe quindi la necessità di attribuire quell’uso della forza ad uno stato. Al di fuori di tale circostanza, non sarebbe lecito un qualsivoglia uso della forza. Tuttavia, la giurisprudenza in materia non è omogenea. La Corte Internazionale di Giustizia (CIG), in un parere consultivo del 2004, sembrava suggerire che un attacco di risposta in legittima difesa debba provenire da - o almeno essere imputabile a - uno stato. In un parere dissenziente, la giudice Rosalyn Higgins affermava però il contrario: “there is nothing in the text of Article 51 that thus stipulates that self-defence is available only when an armed attack is made by a State”. Diverso è stato il caso del 2005 concernente la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e l’Uganda. Qui, la Corte affermava che le azioni dei gruppi ribelli condotte nel territorio della RDC contro l’Uganda non fossero imputabili allo stato congolese. Non si poneva, dunque, il problema di sapere se il Governo ugandese fosse autorizzato a reagire in legittima difesa. Va considerata anche l’affermazione del giudice Bruno Simma nell’opinione separata nel caso Congo c. Uganda: la questione della legittimità dell’autodifesa da

parte dell’Uganda, nel caso in cui gli attacchi non potessero essere attribuiti alla RDC ma fossero comunque considerabili ‘attacchi armati’, è rimasta irrisolta dalla Corte. Si può dunque affermare che, ad oggi, il diritto internazionale non contempli una risposta univoca a tali fattispecie. Ciò detto, sembra comunque difficile giustificare sul piano giuridico l’uso della forza nel caso dell’Operazione Peace Spring. Non per il fatto che il diritto internazionale non contempli l’uso della forza contro attori non statali, anzi. Alla luce della giurisprudenza presentata, una risposta contro attori non statali può anche essere considerata legittima, in casi specifici. Si può estendere, quale condizione di esercizio della legittima difesa, il criterio di “due diligence” così come affermato dalla CIG nel caso dello Stretto di Corfù. Questo implica l’obbligo di ogni stato “not to allow knowingly its territory to be used for acts contrary to the rights of other States”. Tale diritto incontra però un limite in presenza di un’azione di repressione da parte dello stato. Inoltre, l’uso della forza in legittima difesa deve essere strettamente limitato a porre fine alla minaccia. Nel contesto turco-siriano, quindi, appare complesso - se non impossibile - legittimare un’azione militare decisamente repressiva e prolungata. MSOI the Post • 47


48 • MSOI the Post


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.