MSOI thePost Numero 54

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Elisabetta Botta, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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Redazione Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Chiara Zaghi Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Alexander Virgili, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Amandine Delclos Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA ROMANIA IN PIAZZA CONTRO LA CORRUZIONE

Proteste ad oltranza per difendere lo stato di diritto. Si va al referendum

Di Giuliana Cristauro Il 1° febbraio più di 200.000 cittadini romeni sono scesi in piazza per protestare contro il neo governo socialdemocratico guidato da Sorin Grindeanu a causa dell’approvazione d’urgenza di un decreto che depenalizza alcuni reati di corruzione. A Bucarest non si assisteva a manifestazioni di questa portata dalla caduta del dittatore Nicolae Ceaușescu, avvenuta nel dicembre 1989. La legge è stata fortemente criticata poiché la riduzione delle pene nella legislazione anticorruzione, e in particolare la depenalizzazione dell’abuso di ufficio, consentirebbe ad alcuni politici di correre al riparo da possibili inchieste giudiziarie. In un primo momento, il Premier si era giustificato dichiarando che l’intento ufficiale del decreto fosse quello di alleviare la pressione sul sistema carcerario, tuttavia questo non è stato sufficiente a placare l’indignazione dei cittadini. In particolare, depenalizzando l’abuso d’ufficio per casi riguardanti somme inferiori ai 44.000 euro, il decreto avrebbe messo

fine al processo in corso contro il socialdemocratico Liviu Dragnea, stretto collaboratore del Primo Ministro e leader del suo partito. Dragnea è accusato di aver utilizzato 24.000 euro di denaro pubblico per stipendiare due persone alle dipendenze del suo partito. Il decreto è stato duramente criticato anche dalla comunità internazionale. Il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e il vicepresidente Frans Timmermans hanno espresso “viva preoccupazione”. Anche il Presidente della Repubblica e del Partito Nazionale Liberale, Klaus Iohannis, ha attaccato il governo attribuendogli scarsa trasparenza e parlando di “giorni di lutto per lo stato di diritto”. Fin dalla campagna elettorale Iohannis aveva avvertito che non avrebbe conferito l’incarico di Premier a nessun politico indagato o sospettato di corruzione, riferendosi chiaramente a Dragnea. La denuncia è diventata una causa nazionale e ha portato alle dimissioni del Ministro del Commercio.

Il ritiro del controverso decreto “salva-corrotti” non è stato sufficiente per porre fine alle proteste in cui i manifestanti denuncianounacorruzionegeneralizzata e la volontà del governo di proteggere la classe politica. Il ministro della Giustizia, Florin Iordache - indicato da Grindeanu come responsabile della controversa legge – si è dimesso il 9 febbraio. In molti continuano a chiedere che anche il Primo Ministro rinunci al suo incarico. Sfidando temperature molto rigide, il 13 febbraio migliaia di persone hanno dato luogo ad una spettacolare protesta a Bucarest - creando una bandiera romena gigante attraverso le luci dei telefonini- per ribadire la loro sfiducia nell’esecutivo social-democratico, promettendo di “difendere lo stato di diritto” con proteste ad oltranza. Nelle stesse ore, il Parlamento nazionale ha approvato all’unanimità la proposta estesa dal capo dello Stato di indire un referendum popolare sul tema della lotta alla corruzione. Il parere del Parlamento è consultivo, spetta ora a Iohannis proporre una data. MSOI the Post • 3


EUROPA LA GRECIA IN STANDBY

Le Trattative fra UE e FMI allontano Tsipras dall’Euro

Di Simone Massarenti Mentre UE e FMI trattano sulla terza tranche di aiuti, la Grecia, nella figura del premier Alexis Tsipras, alza il tiro, minacciando “l’uscita definitiva dalla zona euro per aderire al dollaro”. Secondoindiscrezioninonufficiali UE e FMI sarebbero in trattativa per l’attuazione di un nuovo piano di austerity nel Paese ellenico, al fine di garantire “la partecipazione del Fondo al terzo piano di salvataggio”. Le cifre di questa terza tranche di aiuti sono vertiginose: 86 miliardi di euro da distribuire fra i vari creditori internazionali. Il solo sentore di un asse UEFMI ha messo in allarme il governo ellenico, che nelle parole del leader di Syriza esprime il totale dissenso nei confronti di una manovra che sarebbe “letale per le sorti del Paese”. Nonostante lo statuto del Fondo Monetario preveda infatti l’erogazione di prestiti “solo a Paesi il cui debito sia considerato sostenibile” Tsipras, adirato da queste indiscrezioni, ha inviato un chiaro messaggio alle due istituzioni, invitandole a “non scherzare con il fuoco”, riportando in auge la Grexit tanto temuta da Bruxelles e da Berlino. 4 • MSOI the Post

Ad Atene la tensione è tangibile, e il premier ellenico ha chiesto alla cancelliera tedesca Angela Merkel di “tenere a bada il ministro delle finanze Wolfgang Schauble dagli attacchi della Grecia”. Secondo Tsipras il piano di aiuti verrà attuato anche senza l’FMI, tesi sostenuta dalle parole del ministro della difesa Panos Kammenos: egli infatti, al termine della riunione del comitato centrale di Syriza, ha affermato come “con o senza l’FMI l’accordo sulla terza tranche di aiuti si concluderà nella riunione dell’eurogruppo del 20 febbraio”. L’ultima parola spetterà però all’UE e al momento la posizione di Bruxelles sembra lontana dalle più rosee previsioni del ministro Kammenos; durissime infatti sono state le parole del presidente dell’eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, il quale ha dichiarato che “la revisione del terzo piano di aiuti greci non sarà risolto entro il 20 gennaio”. La Grecia può comunque contare su una quota di 7,2 miliardi di euro di aiuti provenienti dai creditori internazionali che verrà sbloccata a partire da luglio 2017, ma al momento le cifre non sono incoraggianti: dalla fine del 2016, infatti, il PIL greco ha subito una flessione dello 0,4%, con previsioni che lo

danno in ulteriore calo. Nel caso in cui l’FMI accettasse di intervenire nella questione ellenica, l’Europa dovrebbe imporre alla Grecia un nuovo piano di austerity da 3,6 miliardi, costringendo Tsipras ad attuare nuove politiche di spending review e conseguenti tagli alla spesa pubblica. Nonostante l’ultima apertura alle trattative da parte del commissario europeo agli affari Pierre Moscovici quindi la situazione nella penisola ellenica rimane rovente, con Tsipras pronto alle barricate e l’ombra della Grexit che aleggia su tutto il continente. Notizia degli ultimi giorni è inoltre il no categorico di Tsipras alle sfilate di Gucci sul sito archeologico del Partenone, un’occasione che avrebbe concentrato gli occhi del mondo del glamour sulla capitale greca. La mossa da mecenate del Premier ha storto il naso dell’opinione pubblica, che in previsione di un imminente intervento della Troika nell’economia del Paese (già sono in atto controlli dei conti pubblici) si dice contraria alla decisione del governo di Atene di “chiudersi a riccio”, poiché rischia di isolare il Paese verso il baratro.


NORD AMERICA SOCIAL MEDIA Vs. DONALD TRUMP

I social network arma a doppio taglio per il Presidente USA

Di Lorenzo Bazzano I social network, grazie alla loro capacità di generare consenso, visibilità e copertura mediatica, sono diventati una componente molto importante per la politica contemporanea. Lo sa bene il nuovo Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ne ha fatto ampio uso durante la campagna elettorale. Lo stesso Trump ha dichiarato che i social media sono una moderna forma di comunicazione e che hanno avuto un ruolo fondamentale nella sua vittoria. Lo sa bene anche il nuovo consigliere strategico della Casa Bianca, Steve Bannon, che attraverso il suo sito di informazione Breitbard News ha costruito la sua piattaforma ideologica. Tuttavia, i social media possono rivelarsi un’arma a doppio taglio, capace di generare consenso ma, allo stesso tempo, di compattare l’opposizione. Secondo quanto riportano la

CNN e il NYT, è proprio ciò che è accaduto con la “Marcia delle Donne” e con le proteste contro il bando anti-immigrati. Pochi giorni dopo la firma dell’Executive Order che dava attuazione al bando antiimmigrati, migliaia di cittadini americani si sono riversati negli aeroporti per protestare e per smentire le dichiarazioni di Trump sul buon funzionamento dell’ordine esecutivo. Il tutto è stato organizzato via Twitter. Una dinamica simile si è verificata nel caso della Marcia delle Donne. Secondo il NYT si starebbe sviluppando un vero e proprio movimento di opposizione alle politiche di Trump, che avrebbe come principale obiettivo quello di sottrarre al Tycoon il ruolo di protagonista della scena mediatica. I prossimi mesi ci diranno se è vero oppure no che sta nascendo un movimento anti-Trump, senza nome, senza l leader ufficia i, decentralizzato e organizzato via web. Questo presunto

movimento presenta già punti di forza e di debolezza. I punti di forza sono sicuramente la capacità aggregante che caratterizza i social media, la grande visibilità che il web è in grado di offrire e il desiderio di emulazione: la comunità scientifica americana, infatti, sta pensando di organizzare simili proteste. di Ma l’assenza un’organizzazione che non sia esclusivamente virtuale e la forte decentralizzazione potrebbero alla lunga rivelarsi delle debolezze e sfociare nel caos e nella disorganizzazione. Non è certo la prima volta che negli Stati Uniti si assiste a proteste di massa. Il NYT ci ricorda ancora che manifestazioni simili si ebbero nel 2003 contro la guerra in Iraq e non furono in grado di cambiare la direzione della politica della Casa Bianca. Non bisogna dimenticare che allora i social network non avevano lo stesso impatto sociale di cui godono oggi.

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NORD AMERICA PRIME SFIDE INTERNAZIONALI

Le provocazioni di Pyongyang nell’era di Trump

Di Martina Santi Nel pomeriggio di domenica 12 febbraio, al termine di una giornata trascorsa insieme al Primo Ministro giapponese in un campo da golf in Florida, il Presidente degli Stati Uniti è stato avvisato del lancio di un missile balistico di media gittata, proveniente dalla base aerea di Banghyon, in Corea del Nord, poi caduto in acque giapponesi. Trump deve quindi fare i conti una storica minaccia: Kim Jong-Un, desideroso di mandare una chiara provocazione al neo-Presidente. Nel corso della sua campagna elettorale, il magnate si era proposto di incontrare personalmente Kim Jong-Un stesso, verso il quale finora aveva mostrato un atteggiamento moderato. Aveva pubblicato pochi tweet inoffensivi, alcuni dei quali, tuttavia, criticavano l’eccessiva indulgenza della Cina nei riguardi di Pyongyang. Trump aveva anche assicurato il

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pieno appoggio degli Stati Uniti al Giappone: “I just want everybody to understand and fully know that the United States of America stands behind Japan, its great ally, 100 per cent”. Ora le cose sembrano volgere in tutt’altra prospettiva, considerato anche l’annuncio fatto dal “Supremo Leader” nel discorso nazionale di fine anno, relativo alla conclusione dei lavori per la costruzione di un missile intercontinentale potenzialmente capace di raggiungere gli Stati Uniti. Ma mentre la Cina chiede alle parti coinvolte maggiore moderazione, sono ancora dubbie le intenzioni del Presidente americano. Tuttavia, dato l’incremento dei test nucleari realizzati da Pyongyang (specie dopo l’inizio della dittatura di Kim Jong-Un), il neo-presidente americano potrebbe non essere interessato a perseguire la stessa strategia dell’amministrazione Obama, quella conosciuta come la politi-

ca della “pazienza strategica”. Quanto detto trova maggiore conferma nelle note dichiarazioni del Ministro della Difesa della Corea del Sud, alleata storica degli Stati Uniti, relative alla strategia dello “Strike preventivo”. Parlando apertamente al Parlamento, il Ministro aveva infatti rivelato un piano strategico che prevede l’attacco dei principali centri di comando della nazione a nord del 38° parallelo e, in caso di grave minaccia, l’uccisione del dittatore Kim Jong-Un. I recenti avvenimenti potrebbero stimolare un maggiore interventismo delle Nazioni Unite. Ad oggi, comunque, la ripetuta violazione delle Risoluzioni ONU ha reso necessaria la convocazione di una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, dietro richiesta di Washington, Seul e Tokyo.


MEDIO ORIENTE L’ONU E LA QUESTIONE PALESTINESE: L’ULTIMO ATTO DI OBAMA L’astensione degli USA ha sparigliato le carte, niente veto sul colonialismo in Palestina

Di Lorenzo Gilardetti Obama aveva posto al centro del suo programma per gli Esteri la questione palestinese. Se più volte gli sono state mosse critiche per aver delegato troppo spesso a John Kerry, segretario di Stato, il 23 dicembre, come ultimo atto del suo mandato, il Presidente uscente ha voluto dare un segnale forte, che ha scontentato non poco Netanyahu. Il teatro è stato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove già da lungo tempo gli USA ponevano sistematicamente il veto sui provvedimenti che potessero in qualche modo danneggiare lo Stato israeliano. Qui, Obama aveva avuto una grande occasione, molto simile a quella recente, nel 2011, quando decise per il veto nell’ambito di una condanna riguardante la questione coloniale, nonostante avesse promesso di fare il possibile per favorire i negoziati tra Israele e Palestina. La nuova occasione, l’ultima, è arrivata quando il testo per la risoluzione sugli insediamenti coloniali è stato ripresentato, nonostante il tentativo di ingerenze da parte dell’Egitto. 14 i voti favorevoli, sufficienti a farlo passare. Un’astensione, quella USA, la prima dal 2009.

Il tema delle colonie è controverso e molto dibattuto, ma è tornato alla ribalta delle cronache per il disegno di legge che permetterebbe la legalizzazione retroattiva di alcuni insediamenti coloniali israeliani in terra palestinese. Esso ha già ricevuto una prima approvazione al vaglio della Knesset ed è la prima legge che, con una virata decisamente nazionalista, punterebbe ad autorizzare formalmente il colonialismo. Resta il fatto che non si tratta di un tentativo del tutto nuovo. Il desiderio di Israele di espandersi in direzione palestinese è stato forte fin dall’inizio (1948). Dal 1970 il progetto ha preso forma grazie a una interpolazione delle antiche leggi tradizionali ottomane riconosciute dai britannici: ció ha permesso la legale appropriazione delle terre del Negev, abitate da una popolazione beduina. Da una parte, quindi, c’è uno Stato che, appoggiato in modo cruciale da una delle più grandi potenze, vuole ora un’espansione legale nella Cisgiordania; dall’altra una legge internazionale e un organo come l’ONU che prova a farsene garante, seppur con grandi limitazioni e difficoltà. Ecco che se il grande appoggio manca, le sicurezze vacillano e le cose cambiano.

L’astensione voluta da Obama ha sparigliato le carte, non solo perché va verso una risoluzione che vedrebbe il riconoscimento ufficiale di due Stati differenti, ma anche perché è giunta in un importante momento di transizione negli USA, senza lasciare spazio a una soluzione di continuità con il Presidente eletto Trump. Lo stesso Trump ha accolto in un primo momento in modo decisamente contrariato la scelta del suo predecessore, esprimendosi immediatamente con toni forti di distacco. Dal 20 gennaio (giorno dell’insediamento alla Casa Bianca), come ampiamente annunciato in campagna elettorale il Presidente si è mostrato fortemente filo-israeliano, moderando in parte la sua posizione solo in occasione della visita di Netanyahu alla Casa Bianca del 16 febbraio, quando ha parlato della necessità di compromessi tra israeliani e palestinesi non facendo però riferimento alla soluzione che vedrebbe due entità statali. Intanto l’insediamento di Trump aveva già rinvigorito i nazionalisti al Parlamento di Gerusalemme che il 24 gennaio hanno dato il via libera Netanyahu per la costruzione di 2.500 nuove case negli insediamenti della Cisgiordania. MSOI the Post • 7


MEDIO ORIENTE SOCIAL JIHAD - PARTE II Viaggio nel Califfato Virtuale, là dove prende forma una delle più concrete utopie del XXI secolo.

\Di Jean-Marie Reure

loro una certa popolarità. In secondo luogo, Daesh ha Un solo corpo, tante teste. sempre cercato di apparire 7 giornali, 2 agenzie di stampa, non come un movimento, ma 5 uffici media, un solo ufficio come uno Stato: lo Stato centrale, il Mu’assasat al-Um o esiste se coloro che vi risiedono “Ufficio Centrale dei Media,” che condividono un certo livello di risponde direttamente al cuore informazione. del gruppo IS, la Shura del Califfo. Le notizie principali vengono riprese e distribuite Questa è la sinopia della nostra sistematicamente alla Idra. popolazione con il semplice Le sue radici, però, sono più sistema del volantinaggio, profonde, radicate nel territorio, tramite pamphlet. Le radio con connessioni e piccoli uffici diffondono le stesse notizie stampanelleWylayat(governatorati) riportate sui giornali, con locali. Una creatura multiforme la consapevolezza di essere che cambia a seconda dei ascoltate da una parte lettori: in arabo classico per i importante della popolazione. La più colti, nei dialetti locali per distribuzione delle emittenti è la popolazione, in inglese per gli capillare: gruppi di non più di stranieri. 5 radioamatori trasmettono in ogni Wylayeh, soprattutto nelle L’obiettivo è fornire un’unica zone più povere, dove il tasso di versione dei fatti, senza analfabetismo è alto. discrepanze. Sia sul piano dottrinale sia su quello Per chi, nei villaggi, non ha della cronaca, le varie accesso a un computer vengono testate devono riportare organizzate proiezioni di le medesime informazioni, cortometraggi che mostrano le per un duplice motivo. Per imprese di Daesh e le iniziative essere letto, un giornale nei territori conquistati. Il deve fornire informazioni materiale utilizzato è sempre attendibili, essere sul campo, il medesimo, reperibile su distinguendosi dai ‘menzogneri internet. Gli uomini del Califfo giornali occidentali’, che sfruttano il web come una sorta incontrano maggiori difficoltà di banca dati. Tutti possono nel riportare vicende locali, informarsi sul sedicente Stato di diretto interesse per le Islamico e possono ritrasmettere popolazione. Se tutti i giornali le informazioni selezionate dal di una certa linea editoriale vertice. Tutorial e un archivio riportano la stessa notizia con gli ben organizzato aiutano le stessi numeri, questo garantirà cellule più distanti dal centro, 8 • MSOI the Post

fornendo loro materiale di qualità pronto per la diffusione. Il media team di Daesh è preparato: è obbligatorio un mese di formazione sull’uso dei media. La qualità dei video è un elemento distintivo. La produzione scritta (rivendicazioni di attentati, bollettini informativi, ecc.) è andata scemando: si preferiscono i video, che garantiscono una certa autenticità, rendendo più difficile ad agenti esterni plagiare il logo di Daesh o dare informazioni non ortodosse. Poi ci sono i simpatizzanti, l’immensa comunità virtuale amorfa. A loro è destinata solo una parte dei video e degli opuscoli informativi, poiché si tiene conto della differenza di informazione tra un iracheno e un europeo. A loro è destinato materiale informativo diverso nei contenuti e nei toni, che si allontana dalla cronaca di eventi locali o di conquiste e che punta ‘più in alto’. La presenza ufficiale di IS è stata riscontra in più di 25 piattaforme di comunicazione frequentate da occidentali. È questo il propulsore dei video più artistici e spettacolari. È la cassa di risonanza che ci ha mostrato la morte di J. Fooley, il rogo di un pilota giordano, il massacro di cittadini copti, la distruzione di Palmira.


RUSSIA E BALCANI LA DIFFICILE DEMOCRAZIA TURKMENA

L’elezione del 12 febbraio spiana la strada per una presidenza a vita

Di Daniele Baldo Con oltre il 97% dei voti, Gurbanguly Berdimuhamedov è stato rieletto per un 3° mandato alle elezioni presidenziali turkmene del 12 febbraio, replicando un numero di preferenze molto simile a quello ottenuto alle elezioni del 2012. L’esito non è arrivato a sorpresa: il Presidente ha sfidato altri 8 candidati, tutti funzionari pubblici, manager di aziende di Stato o esponenti di partiti politici leali al governo. Berdimuhamedov, 59 anni, è divenuto Presidente per la prima volta nel 2007, succedendo a Saparmurat Niyazov, un Presidente autocratico che aveva guidato con il pugno di ferro, fino alla sua morte, gli oltre 5 milioni di cittadini del Turkmenistan. Dentista di professione, Berdimuhamedov si presentò al popolo turkmeno come

un riformatore, impegnato a modernizzare il Paese e a portarlo al pari delle potenze continentali. Il neo Presidente, però, non ruppe il sistema politico repressivo instaurato dal suo predecessore, ma anzi lo fece proprio, trovando dunque una forte continuità con i marchi distintivi degli anni di Niyazov. 10 anni dopo, i diritti umani sono ancora riconosciuti solo sulla carta. L’ONG Reporters without borders ha inserito il Turkmenistan al 178° posto su 180 Paesi nella sua classifica sulla libertà di stampa, visto l’alto numero di persecuzioni che i pochi giornalisti indipendenti rimasti sono costretti a subire in maniera sempre più intensa. Lo scorso anno il Turkmenistan ha modificato la propria Costituzione in modo da poter permettere a Berdimuhamedov di rimanere al potere per un tempo indefinito, rimuovendo il limite di età di 70 anni per i candidati presidenziali ed

estendendo il termine carica da 5 a 7 anni.

della

Il rafforzarsi del potere presidenziale è avvenuto in uno scenario di lenta crescita economica, anche e soprattutto in seguito alla decisione della Russia di bloccare le importazioni di gas dal Turkmenistan, una delle fonti primarie di introito nelle esportazioni del Paese. Tale rallentamento dell’economia ha spinto le autorità a chiedere di ridurre le spese nel settore del welfare. È su questo punto che probabilmente si giocherà la partita più importante per la permanenza prolungata di Berdimuhamedov, che, pur evitando di ricalcare il culto della personalità costruito da Nyiazov, non è mai sembrato intenzionato a portare a compimento un processo di democratizzazione reale in Turkmenistan. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI UNA TESTA DI LEGNO CONDANNATA

Al principale oppositore del governo russo 5 anni con la condizionale

Di Andrea Bertazzoni Lo scorso 8 febbraio la Corte d’Appello del Tribunale Distrettuale di Kirov ha confermato la condanna in primo grado dell’avvocato e blogger Aleksey Navalny, principale portavoce dell’opposizione russa, a 5 anni di detenzione con sospensione condizionale della pena. Ciò è avvenuto nell’ambito del processo-bis per peculato, per un totale di circa 250.000 euro di danni, all’azienda statale Kirovles, famosa per la produzione di legname da costruzione. La decisione dei magistrati viene definita “politica” da molti osservatori europei e americani, anche alla luce delle dichiarazioni dell’imputato risalenti a circa due mesi fa. Egli sottolineava la sua ferma intenzione di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali russe, che avranno luogo nel 2018, come principale oppositore del presidente Putin. Si tratterebbe, secondo Navalny, di un “telegramma dal Cremlino”, sulla base del quale lui e la sua squadra sarebbero “troppo pericolosi per poter prendere parte a una campagna elettorale”. Il testo della sentenza, secondo la difesa, “presenta persino gli stessi refusi di quella 10 • MSOI the Post

precedente”, tanto da essere stato pubblicato dai media russi prima della lettura vera e propria della condanna. Quest’ultima, infatti, era già stata pronunciata da un altro giudice nel 2013, quando il blogger russo era stato subito imprigionato per le stesse ragioni. Il fatto aveva provocato diverse proteste da parte dei suoi sostenitori, che ne ottennero la liberazione su condizionale. L’imputato in seguito aveva avuto il permesso di candidarsi come sindaco della capitale russa e aveva raggiunto il secondo posto con il 27,4% dei voti, dietro all’attuale sindaco Serghej Sobjanin, esponente di Russia Unita, il partito di Vladimir Putin. Nel novembre scorso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva giudicato il primo processo irregolare. Esso era stato quindi annullato dalla Corte Suprema russa con l’ordine di riesaminare il caso, che avrebbe poi preso il nome di “Kirovles-2”. Quella del 2013, tra l’altro, non fu la prima volta in cui Navalny dovette affrontare la giustizia, in quanto era stato accusato di aver venduto legno sottocosto già nel 2009, quando era consulente non pagato del sindaco di Kirov. In questa occasione venne condannato agli arresti domiciliari.

Sullo scenario internazionale, quindi, Navalny sembra escluso dai giochi per le presidenziali del 2018, alle quali non potrebbe partecipare sulla base del “divieto a candidarsi alle elezioni fino a dieci anni successivi all’estinzione della pena”, o comunque laddove revochi il tribunale “non definitivamente la condanna”, come ricorda il portavoce della Corte Costituzionale russa Mikhail Barshchevsky. Non è dello stesso avviso Navalny, che presenterà ricorso, poiché la legge elettorale sancisce che a essere interdetti dalla possibilità di candidarsi siano le persone “che si trovano nei luoghi di detenzione”, cosa che non riguarderebbe il blogger, in grado di condurre quindi la sua campagna elettorale. La decisione spetta al Cremlino, che, secondo alcuni media russi, potrebbe decidere di consentire all’avvocato di Kirov di candidarsi alle elezioni, per rendere la “ormai scontata rielezione di Putin meno noiosa e più legittima”, come scrive itar-tass.com. Ciononostante, Navalny rimane un problema per il Presidente russo, che, fra lo scontento sociale e un’economia arretrata incapace di dare segni di ripresa, potrebbe decidere di puntare da solo alla meta, senza correre rischi.


ORIENTE KIM JONG-UN: AMBIZIONI MISSILISTICHE INTERCONTINENTALI Tensioni nucleari tra Seul e Pyongyang

Di Emanuele Chieppa Lo scorso 4 febbraio l’azienda sudcoreana Raytheon ha annunciato, con un comunicato stampa, di aver sperimentato con successo un test di intercettazione di potenziali missili balistici a corto e medio raggio. Il missile intercettore, sviluppato con la supervisione dell’Agenzia di Difesa statunitense, è il razzo SM-3 Block IIA, che sarà pienamente operativo entro il 2018. Questi sistemi intercettori andranno probabilmente a essere integrati sui cacciatorpedinieri della US Navy, sugli incrociatori Aegis giapponesi e sulle navi sud coreane. Dopo l’annuncio che il Terminal High Altitude Area Defense (THAAD) – che è invece finalizzato alla difesa terrestre – verrà diffuso anche in Corea del Sud, questo nuovo sistema sviluppato dagli Stati Uniti fomenta ulteriormente la corsa agli armamenti del XXI secolo, che vede lo sviluppo di sistemi di attacco e difesa a livello globale. Non è dunque difficile immaginare l’inquietudine in Cina e Nord Corea. Pyongyang intanto, il 12 febbraio, ha effettuato il lancio di un missile a raggio mediolungo, il PUKGUKSONG-2, che ha terminato la sua corsa

nel mare del Giappone, a circa 500 km di distanza dal sito iniziale. Il test ha suscitato le critiche di molti esponenti politici occidentali, mentre il premier giapponese Shinzo Abe ha espresso profonda preoccupazione. Secondo alcuni tecnici sudcoreani, il lancio effettuato negli scorsi giorni in Corea del Nord rappresenterebbe una mossa aggressiva, nonché un sostanziale passo avanti nello sviluppo dei sistemi missilistici di cui si sta dotando la DPKR. Nei test effettuati precedentemente, compreso quello del razzo a lungo raggio avvenuto ad aprile 2016, era stato utilizzato propellente allo stato liquido. Si trattava di una tecnologia piuttosto antiquata, utilizzata dalla NASA già nel 1962 sul Friendship 7. Gli analisti avevano valutato come gli sviluppi dei sistemi a propellente solido fossero ancora piuttosto incerti, dato che l’unico precedente rilevante era il test effettuato lo scorso agosto sul razzo a corto raggio KN-02, sparato da un sommergibile. Il missile, inoltre, non era in grado di trasportare una testata atomica. Quindi, a dispetto di quanto previsto da molti tecnici internazionali, il test del 12 febbraio conferma l’ambizione di Pyongyang di dotarsi di

razzi a propellente solido con capacità di trasporto di testate atomiche e gittata a lungo raggio, in grado di colpire potenzialmente il suolo americano. All’inizio di quest’anno, il leader nordcoreano Kim Jong-Un aveva annunciato il raggiungimento dello stadio finale nello sviluppo dei razzi balistici a lungo raggio. Ci si può inoltre chiedere fino a che punto si estendano gli intenti minacciosi insiti nel recente test missilistico e quanto si tratti invece di una prova di forza in risposta agli esiti della cooperazione tra Corea del Sud e Stati Uniti. Japan News ha parlato dell’azione di Kim JongUn come di un implicito segnale a Donald Trump, che ne aveva condannato l’aggressività, ribadendo il pieno sostegno al Giappone. A intorbidire ulteriormente il contesto politico nordcoreano è intervenuto l’assassinio del fratellastro di Kim Jong-Un. Alcuni hanno ipotizzato che il mandante sia lo stesso leader della Corea del Nord, che vorrebbe così evitare l’ascesa al potere del fratello, supportato da Pechino. L’episodio, che ha avuto luogo lunedì scorso all’Aeroporto Internazionale di Kuala Lumpur, potrebbe quindi essere un altro tentativo di Kim di rafforzare il proprio governo.

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ORIENTE LA MONGOLIA TRA DISCIPLINA FINANZIARIA E CALCIO Il Paese cerca di risorgere a livello politico, economico e sportivo

Di Luca De Santis Mercoledì 29 giugno, in Mongolia, si è votato per rinnovare il governo e il Parlamento: ha vinto a grande maggioranza il Partito Popolare Mongolo (MPP), il maggiore partito di opposizione. Il Partito Democratico Mongolo, al potere, ha ottenuto solo 9 seggi. L’affluenza è stata di poco superiore al 72%. L’MPP ha promesso agli elettori di tagliare la spesa pubblica e ha insistito sulle problematiche del rallentamento economico e del raddoppiamento del debito pubblico durante gli anni di governo del Partito Democratico. La vittoria del partito di opposizione, quindi, è stata interpretata come una chiara volontà di cambiamento rispetto al recente passato. A marzo scade una tranche di bond da 580 milioni di dollari, le casse dello Stato sono quasi vuote e il governo finora non ha trovato nuovo credito. Si sono invece mobilitati i cittadini, donando soldi in contanti, gioielli, oro e bestiame, nel tentativo di riscattare il Paese. La crisi del Paese, la cui

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economia era cresciuta del 17% nel 2011, è dovuta in gran parte al crollo dei prezzi di carbone, rame e ferro, dei quali il sottosuolo è ricchissimo. Si sono rarefatti anche gli investimenti stranieri, mentre con il partner cinese si è avviato un periodo di crescente tensione. A novembre il governo di Ulan Bator ha infatti consentito la visita in Mongolia, Paese a maggioranza buddista, del Dalai Lama, considerato dalla autorità cinesi un leader separatista da isolare. Per questa ragione Pechino, che assorbe gran partedell’export mongolo di materie prime, ha reagito con forza, cancellando colloqui con Ulan Bator sul possibile aiuto sul fronte del debito. Parallelamente, gli analisti dell’agenzia di rating Fitch hanno stimato che il drammatico innalzamento del deficit di bilancio al 19,7% del PIL, verificatosi nel 2016, porti il totale del debito pubblico all’84,3% del PIL, considerata anche la svalutazione del tugrik. Dopo la tranche di bond da 580 milioni in scadenza a marzo, Ulan Bator dovrà rimborsare un altro miliardo e mezzo di dollari in due anni, ma ha in cassa solo

1,1 miliardi di dollari di valuta. Ma la Mongolia vuole riemergere anche attraverso il calcio. Nel Paese esiste una squadra “anticorruzione” che pratica il calcio all’insegna della moralità, dei soldi puliti e dell’identificazione col territorio. Si chiama Bayangol Football Club e quest›anno ha disputato da neopromossa la massima divisione nazionale. Essa si autofinanzia attraverso un crowdfunding internazionale. Paul Watson, principale sostenitore di questa idea, è cofondatore di Tifosy, sistema di crowdfunding internazionale per aiutare economicamente l’attività del club. Commissario tecnico della nazionale della Micronesia tra il 2009 e il 2010, nel 2013 Watson è stato reclutato della Federcalcio della Mongolia. Del resto, siamo in un anno chiave per il calcio nel Paese. Il settore si è appena liberato del “tiranno” Buyannemekh, per decenni autocrate del football a Ulan Bator. Si apre così una nuova stagione per la Mongolia, non solo nella politica, ma anche nel calcio.


AFRICA MORTO ETIENNE TSHISEKEDI

Leader dell’opposizione congolese e sostenitore della transizione democratica del Paese

Di Francesca Schellino Il 1° febbraio 2017 si è spento a Bruxelles, all’età di ottantaquattro anni, il leader dell’opposizione della Repubblica Democratica del Congo Etienne Tshisekedi. L’annuncio della morte è stato dato dal suo partito, l’Union Pour la Démocratie et le Progrès Social (UPDS) , da lui fondato nel 1982 per contrastare la lunghissima dittatura di Mobutu Sese Seko, del quale a metà degli anni Sessanta, era stato il Ministro degli Interni. La sua morte arriva nel cuore di una fase molto delicata nella storia del Paese. Etienne Tshisekedi è stato una figura di rilievo nelle vicende politiche congolesi dall’indipendenza – ottenuta dal Belgio nel 1960 – a oggi, guadagnando negli anni un grande seguito popolare. Inoltre, è stato il principale oppositore dell’attuale Presidente Joseph Kabila. In

questi

giorni

Tshisekedi

avrebbe dovuto assumere l’incarico di Presidente del Consiglio Nazionale: esso ha il compito di creare un dialogo tra opposizione e regime per arrivare a un accordo sulla data delle elezioni e creare le condizioni per una transizione pacifica. Il 20 dicembre 2016 è infatti scaduto il secondo mandato di Kabila, che continua a rifiutarsi di lasciare il Paese, creando così una situazione di stallo che preoccupa gli Stati confinanti e la comunità internazionale. Tsishekedi aveva già sfidato Kabila alle presidenziali del 2003 e del 2011, uscendone sconfitto, non senza polemiche e accuse di brogli. Etienne Tshisekedi era soprannominato “Sfinge di Limete” per l’imperturbabilità con cui ha attraversato fasi storiche tumultuose. Vi sono, tuttavia, delle ombre sulle sue passate collaborazioni nell’ambiente politico congolese, in primo luogo sul suo ruolo di rilievo nel governo dittatoriale di Mobutu. Nei primi anni dell’indipendenza

del Congo, Tshisekedi fu consigliere di Patrice Lumumba, il primo Presidente del Paese, poi deposto con il golpe guidato da Mobutu Sese Seko. Etienne Tshisekedi entrò dunque nel governo dittatoriale di Mobutu, occupando anche cariche di rilievo, come quelle di Ministro degli Interni e di Premier. Solo all’inizio degli anni ‘80 prenderà le distanze dal dittatore, conosciuto per la sua corruzione e per le costanti violazioni dei diritti umani, diventando in seguito un paladino della democrazia e contribuendo all’indebolimento dell’ex alleato politico Mobutu. Etienne Tshisekedi è stato, in ogni caso, un leader carismatico e molto amato dal popolo. La sua prematura scomparsa ha destabilizzato ulteriormente un Paese dal governo poco stabile, soprattutto in questo periodo di transizione verso un nuovo leader democratico, dopo il governo autoritario instaurato prima da Laurent-Desiré Kabila e in seguito dal figlio Joseph. MSOI the Post • 13


AFRICA L’AFRICA DEI GENOCIDI

Le violenze etnico-religiose che hanno insanguinato il continente africano dal XIX secolo a oggi

Di Sabrina Di Dio Nel corso degli ultimi secoli, l’Africa è stata martoriata da genocidi che hanno segnato la storia del colonialismo e che, nonostante la fine degli imperi occidentali, non sono cessati. Essi si intensificarono durante la decolonizzazione e, protraendosi fino ai giorni nostri, continuano a dilaniare il popolo africano. L’imperialismo, che si colloca tra la metà del 1800 e l’inizio del 1900, costituì un momento tragico per l’Africa. Ne fecero le spese in modo particolare il Congo Belga e la popolazione degli Herero, nell’attuale Namibia, che all’epoca si trovava sotto il dominio tedesco. Il Congo Belga fu una sorta di colonia personale del re Leopoldo II, che la amministrò in prima persona. Il sovrano impose ai nativi condizioni di vita molto dure e si impegnò a far rispettare la quantità di caucciù (gomma naturale) che i congolesi dovevano rendergli. Chi non era in grado di raggiungere la quota stabilita veniva mutilato, chi invece si ribellava veniva ucciso. Si calcola che nei 23 anni in cui re Leopoldo II governò il Congo Belga le vittime furono circa 10 milioni. 14 • MSOI the Post

Nell’Africa sud occidentale si trovavano gli Herero, un popolo di allevatori e agricoltori. Con l’arrivo dei tedeschi essi furono espropriati del loro bestiame e delle loro terre, rimanendo con due sole alternative: lavorare senza compenso nelle fattorie dei coloni o ribellarsi. L’80% degli Herero seguì quest’ultima via, ma nessuno di loro sopravvisse. I responsabili dei genocidi avvenuti dalla decolonizzazione fino ai giorni nostri non sono più gli europei, bensì proprio gli africani, che hanno talvolta fatto ricorso alla pulizia etnico-religiosa contro il loro stesso popolo. Due genocidi particolarmente cruenti sono stati quello di Zanzibar nel 1964 e quello del Ruanda nel 1994. A Zanzibar, dopo la fine del lungo dominio inglese, il popolo si ribellò al monarca instauratosi al governo. Dalla Rivoluzione di Zanzibar emerse un nuovo capo, John Okello, che iniziò una campagna di persecuzione della minoranza araba e indiana, considerata una pesante eredità dell’occupazione inglese. Su una popolazione di 22.000 zanzibaresi arabi, 12.000 furono le vittime. Il genocidio in Ruanda ebbe

come protagoniste le due etnie che compongono il Paese: Hutu e Tutsi. Quando il Presidente in carica, che era Hutu, venne ucciso in un attentato, l’intera popolazione Hutu sterminò per rappresaglia i Tutsi con armi rudimentali, come machete e mazze chiodate. In 100 giorni furono uccisi più di 1 milione di Tutsi. Il primo genocidio del XXI secolo fu quello della regione del Darfur, in Sudan. Iniziò nel 2003, quando i Janjaweed, un gruppo terroristico arabo finanziato dal governo sudanese, presero a sterminare le tribù locali africane, a cui erano storicamente avversi. Tutt’ora non si riesce ad arrivare alla pace. Dal 2013, inoltre, è in corso nella Repubblica Centrafricana un nuovo genocidio: musulmani e cristiani si uccidono a colpi di machete. L’unica possibile soluzione per uscire dalla spirale di violenze in cui è scivolata l’Africa nel corso degli ultimi secoli sarebbe quella di favorire l’instaurazione di governi democratici, che pratichino politiche d’integrazione delle varie etnie e religioni.


SUD AMERICA FUJIMORI: DA INCORROTTO A DITTATORE L’ascesa di Fujimori e l’epilogo del suo regime

Di Sara Ponza Tra gli anni ’80 e ’90 il Perù si trovò in una profonda crisi economica, peggiorata dal clima di insicurezza e instabilità causata dal “Sendero Luminoso”. Alberto Fujimori, agronomo di origini giapponesi, approfittò di questa situazione e – ergendosi a “portavoce” della volontà del popolo – fece il suo ingresso nel mondo della politica. Fin da subito, egli adottò una duplice rappresentazione di se stesso: politico al di sopra dei dissidi partitici e della corruzione e leader di umili origini, volto al miglioramento delle condizioni della gente comune. Battendo il candidato conservatore Vargas Llosa, Fujimori venne eletto Presidente del Perù con il 62,4% delle preferenze elettorali dando inizio ad una nuova fase: il Fujimorismo. Il suo governo si contraddistinse per lo stile autoritario: tutt’altro che democratici, i suoi metodi spesso sfociarono in vere e proprie violazioni dei diritti umani. Un primo assaggio si ebbe nel 1992: il Congresso dichiarò l’intenzione di revisionare i 20 de-

creti d’urgenza in materia di pacificazione e difesa nazionale perché, conferendo troppi poteri all’apparato militare, rappresentavano un rischio per i diritti umani. Il Presidente, in tutta risposta, sorprese la nazione con un comunicato televisivo in cui comunicava lo scioglimento del Congresso, la sospensione della Costituzione del 1979 e l’istituzione, usando le sue parole, di un “Gobieno de Emergencia y Recostrucciòn” con il pieno appoggio delle forze armate e dei servizi segreti.

scandalo di corruzione imputato a Montesinos, membro del governo a lui fedelissimo. Fujimori, costretto a convocare nuove elezioni, partecipò comunque in veste di presidente del Perù alla riunione Asia-Pacific Economic Cooperation in Brunei. Al termine del meeting, per paura di essere perseguito penalmente, non fece ritorno in patria e si trasferì in Giappone, dove formalizzò al Parlamento le sue dimissioni il quale le rifiutò, lo destituì e lo interdisse da qualsiasi carica politica per 10 anni.

Nonostante il clima di terrore e insicurezza, Fujimori ebbe la meglio anche alle elezioni politiche del 1995. Nel frattempo, continuò a macchiarsi di crimini contro i diritti umani. Tra gli eventi di tale natura possiamo riportare il massacro di Barrios Altos del 1991 ad opera del Gruppo Colina (squadrone della morte composto da soldati peruviani) e la politica di pianificazione familiare conosciuta come ”contraccezione chirurgica volontaria”, con cui circa 300.000 donne furono obbligate ad essere sterilizzate.

Nel 2009 Alberto Fujimori è stato condannato dal Tribunale Speciale a 25 anni di reclusione per l’omicidio di 27 persone, sequestro di persona e violazione dei diritti umani. Nello specifico: il massacro di Barrios Altos, il massacro dell’Università La Cantuta, il sequestro, la tortura e l’omicidio dell’imprenditore Dyer e del giornalista Gorritti durante l’auto-golpe del 5 aprile 1992 e il programma di sterilizzazione forzata. La condanna fu confermata il 3 gennaio 2010 dalla Corte Suprema e il 20 luglio dello stesso anno è stato nuovamente condannato per corruzione e malversazione.

Persino le sue dimissioni nel 2000 avvennero in un clima di profondo caos: la vittoria delle elezioni venne alla luce uno

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SUD AMERICA CAMBIA IL FINANZIAMENTO, MA IL MURO SI FARÀ Gli USA intendono ancora costruire il muro, tassando i narcos

Di Daniele Ruffino Donald J. Trump sembra davvero intenzionato a porre fine all’immigrazione clandestina e allo spaccio di droga lungo i confini meridionali, ultimando e allungando il muro già iniziato nel 1990 da George H.W. Bush. La titanica impresa aveva spaccato l’opinione pubblica e aveva fatto scendere in campo anche il Papa, che già durante la corsa alla Casa Bianca aveva denunciato con decisione il progetto. L’idea iniziale per raccogliere i fondi necessari (proposta da Sean Spicer) era quella di tassare del 20% le importazioni messicane. Tuttavia, dopo diverse manifestazioni di dissenso, in particolare da parte del presidente Peña Nieto (con il quale è saltato il meeting del 31 gennaio) e forse anche grazie alla presa di coscienza dell’enorme perdita economica che questa tassa avrebbe potuto generare, la Presidenza ha fatto un passo indietro, posticipando la soluzione al problema e decidendo di rinegoziare, in un futuro più che prossimo, il NAFTA/TLCAN (North American Free Trade Agreement).

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A inizio mese il capo gabinetto della Casa Bianca, Reince Preibus, ha rotto il silenzio, proponendo una seconda soluzione, che ha creato ancora più scalpore della prima: gli Stati Uniti intendono costruire il muro con il Messico tassando i narcos sudamericani, primo fra tutti El Chapo, estradato all’alba dell’insediamento repubblicano, il quale, secondo le autorità, gestisce un patrimonio di 14 miliardi di dollari, sufficiente per la costruzione del muro. Ma qual è l’attuale situazione interna del Messico per quanto riguarda i suoi confini? Al di là della barriera protettiva a nord con gli Stati Uniti (costruita da questi ultimi), il Messico - che vive in questi giorni le proteste di Guadalajara - ha a sua volta costruito una barriera contenitiva di protezione nei propri distretti meridionali al confine con il Guatemala: il muro, finanziato in parte da Washington, è lungo 871 km. Perché venne costruito questo muro? È proprio questa motivazione che getta ombra sull’attivismo messicano degli ultimi mesi: il muro venne costruito

dal governo americano e da quello messicano per arginare l’immigrazione clandestina alla fonte, considerato che erano stati riscontrati forti flussi migratori dal Guatemala verso gli States. Nel biennio 2015-2016 il Messico ha ulteriormente potenziato i controlli alla frontiera, militarizzando una porzione di territorio al sud. Quindi, due pesi, due misure? Il Messico protesta contro l’America poiché essa chiude i suoi confini, però chiude a sua volta le frontiere con il Guatemala e tutto ciò cade nel silenzio generale? Probabilmente, durante gli accordi che diedero il via alla collaborazione USA-Messico si era deciso di costruire il muro a sud per non costruirne uno a nord con gli States (ai quali i narcos messicani sono legati per il commercio di droga e armi). Con l’elezione di Trump e il crollo dell’establishment, però, molte di quelle garanzie (come per esempio il NAFTA, il TTP, il TTIP, ecc.) stipulate con altri Stati sono venute meno. Il muro tra USA e Messico ne è l’esempio forse più lampante.


ECONOMIA TOUTIAO: L’APPLICAZIONE CINESE DA 10 MILIARDI DI DOLLARI Dalla “long tail theory” al machine learning: la più grande macchina di gestione dei contenuti

Di Francesca Maria De Matteis Nata nell’agosto 2012, dopo tre anni contava già 240 milioni di utilizzatori. Oggi, dopo cinque anni, sono diventati quasi 700 milioni. Ad oggi, è valutata più di 10 miliardi di dollari e da poco ha acquistato la start-up di Los Angeles Flipagram. È la nuova applicazione cinese Toutiao, con sede nella periferia di Pechino, che dopo soli due anni vantava un finanziamento da 500 milioni di dollari. L’ideatore è Zhang Yiming, imprenditore 33enne che è riuscito a fondere la teoria economica dell’ex direttore di Wired, rivista di tecnologia statunitense, con una delle tecniche di intelligenza artificiale più sviluppate del momento. Toutiao, parola che in italiano significa “titoli”, è un’applicazione che ricerca e aggrega notizie sulla base degli interessi specifici di ciascun utente. È in grado, così, di proporre ad ogni utilizzatore le notizie conformi ai suoi gusti, affermandosi con sempre più decisione come la più grande macchina di gestione dei contenuti. Alla base del successo di questa

start-up, dunque, sembra esserci la “long tail theory” (teoria della lunga coda) di Chris Anderson della rivista tech di San Francisco, Wired. Questa teoria ha esplicitato il superamento dell’economia neoclassica, radicata sul problema dell’inadeguatezza delle limitate risorse materiali ad appagare gli infiniti bisogni dell’uomo. La rivoluzione che ha sorpreso e stravolto la “vecchia” economia viene, ovviamente, dal web: Internet permette, infatti, di ridurre, fin quasi ad annullarli, i costi di stoccaggio delle merci, ma di ampliare contemporaneamente il catalogo dei prodotti disponibili. Secondo Anderson, i prodotti di nicchia, a bassissima richiesta, se considerati collettivamente, possono costituire una quota di mercato superiore ai prodotti più venduti. Con Toutiao, il successo - ormai quasi indiscusso - di questa teoria viene affiancato da uno dei sistemi più all’avanguardia di machine learning. È una tecnica di intelligenza artificiale che, indipendentemente dalla presenza di un algoritmo predefinito dall’uomo, riesce ad elaborare autonomamente una grande quantità di dati adattan-

dosi alle loro variazioni. Il trionfo di questa fusione è “incarnato”, per così dire, nel software-giornalista Xiaoming, ideato dal team di Lei Li, capo dei Toutiao’s AI lab: questo programma è in grado di produrre in completa autonomia brevi testi sul calcio europeo, per poi sottoporli agli utenti interessati. Già da qualche anno, nell’industria delle notizie, vengono utilizzati software in grado di generare automaticamente brevi testi giornalistici da flussi di informazioni che si ripetono periodicamente con leggere variazioni. L’applicazione Toutiao, quindi, non fa altro che schedare gli utilizzatori secondo i gusti, analizzandone i commenti relativi agli articoli che leggono, per poi mettere in evidenza per ciascuno i “titoli” che potrebbero loro interessare. Il pericolo delle fake news viene, infine, scongiurato da un doppio sistema di garanzie: l’analisi automatizzata dei commenti degli utenti e le recensioni di chi, in carne ed ossa, è utilizzatore assiduo dell’applicazione.

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ECONOMIA BRACCIO DI FERRO TRA FMI, GRECIA ED UE Senza un accordo è rischio Grexit

Di Efrem Moiso Il governo greco, incapace di recuperare capitale a tassi sostenibili sul mercato obbligazionario nazionale, conta da qualche anno sui fondi europei per il salvataggio dal fallimento e ha lasciato che il Fondo Monetario Internazionale ne coprisse le spese ad essi associate. I prestiti europei prevedono che vengano rispettate rigide condizioni sulla base di accordi stretti tra le parti e, ultimamente, il governo e i suoi creditori stanno discutendo se la Grecia sia in grado di rispettarle o meno. Due anni fa, la Grecia, per la terza volta sull’orlo del fallimento, dovette accettare le condizioni che le furono imposte solo per poter rimanere nell’Unione Europea ed ottenere un prestito da 86 miliardi. Il problema poteva sembrare risolto, ma il trasferimento dei fondi non avviene in una singola transazione, bensì in tranche differite nel tempo. Dal momento del primo accordo, gli ispettori del debito sono costantemente in contatto col governo per verificare che quest’ultimo agisca in conformità alle condizioni, ma i punti critici che non lasciano scampo sono due: la Grecia deve accrescere il proprio avanzo di bilancio del 3,5% del PIL entro

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il 2018 e il Fondo deve dare il suo consenso. L’accordo definitivo sarebbe già stato firmato, se non fosse per l’opposizione del FMI, secondo cui l’austerità necessaria per raggiungere l’obiettivo del 3,5% paralizzerebbe l’economia. Infatti, diversamente da quanto previsto dai revisori inviati dai creditori europei, il Fondo stima che la Grecia potrebbe raggiungere solo l’1,5% entro il 2018, a meno che non si intervenga su tasse e pensioni in modo ancora più aggressivo di quanto già fatto. Vista la situazione, il Fondo ha richiesto di alleggerire il debito greco, ma i governi dell’Eurozona non sono mai stati disposti a scendere a compromessi. È importante sottolineare che il FMI ricopre un ruolo fondamentale, poiché nel 2010 e nel 2012 ha fornito al governo ellenico fondi di salvataggio paralleli a quelli europei che gli hanno permesso di sostenere gli interessi dei debiti, ma non ha emesso prestiti a supporto del bailout del 2015 proprio a causa dell’obiettivo che sembra irraggiungibile senza ulteriori tagli alle spese. L’ultima revisione del piano greco si concluse nel maggio 2016 con l’adozione del cosiddetto “freno fiscale” – meccanismo che interviene automaticamente

tagliando le spese governative qualora, durante il periodo di bailout, vengano mancati i target dell’accordo – e durante l’anno la Grecia ha battuto le previsioni di crescita economica e di budget. Nonostante i risultati ottenuti diano ragione ai creditori europei e agli stessi funzionari greci che continuano ad essere a favore del primo accordo, a causa dell’esigua imposizione fiscale e degli altissimi costi legati alle pensioni, il FMI ritiene che tali performance siano insostenibili nel medio termine e vorrebbe che il governo intervenisse su entrambe le tematiche anche nel caso in cui l’obiettivo dovesse essere ridotto al più realistico surplus dell’1,5% di PIL. Sebbene le discussioni sembrino essere in stallo e Atene non necessiti di fondi nell’immediato, il problema non può più essere rinviato. È fortemente auspicabile, infatti, che l’accordo definitivo per sbloccare la seconda tranche del fondo di salvataggio europeo venga raggiunto entro il 20 febbraio, giorno in cui i Ministri delle Finanze dell’Eurozona si riuniranno per l’ultima volta prima delle elezioni europee che potrebbero rendere più difficoltosi i già delicati rapporti.


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