MSOI thePost Numero 132

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Lorenzo Grossio, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Davide Tedesco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Editoriale Davide Tedesco Direttore Responsabile Giusto Amedeo Boccheni Vice Direttori Luca Bolzanin, Luca Rebolino Caporedattori Arianna Salan, Fabrizia Candido, Matteo Candelari, Pauline Rosa, Luca Imperatore Capiservizio Fabrizia Candido, Guglielmo Fasana, Alessandro Fornaroli, Lorenzo Gilardetti, Vladimiro Labate, Pierre Clément Mingozzi, Andrea Mitti Ruà, Giacomo Robasto, Arianna Salan Media e Management Daniele Baldo, Guglielmo Fasana, Anna Filippucci, Vladimiro Labate, Jessica Prietto Editing Lorenzo Aprà, Adna Camdzic, Amandine Delclos Copertine Virginia Borla, Amandine Delclos Redattori Gaia Airulo, Erica Ambroggio, Amedeo Amoretti, Andrea Bertazzoni, Micol Bertolini, Davide Bonapersona, Maria Francesca Bottura, Fabrizia Candido, Federica Cannata, Daniele Carli, Debora Cavallo, Sabrina Certomà, Giuliana Cristauro, Andrea Daidone, Alessandro Dalpasso, Federica De Lollis, Francesca Maria De Matteis, Ilaria Di Donato, Tommaso Ellena, Anna Filippucci, Alessandro Fornaroli, Corrado Fulgenzi, Francesca Galletto, Lorenzo Gilardetti, Vittoria Beatrice Giovine, Lara Amelie Isaia Kopp, Michelangelo Inverso, Vladimiro Labate, Simone Massarenti, Rosalia Mazza, Davide Mina, Pierre Clément Mingozzi, Alberto Mirimin, Chiara Montano, Anna Nesladek, Virginia Orsili, Francesco Pettinari, Barbara Polin, Luca Pons, Jessica Prieto, Mario Rafaniello, Jean-Marie Reure, Valentina Rizzo, Giacomo Robasto, Federica Sanna, Martina Scarnato, Andrea Domenico Schiuma, Natalie Sclippa, Jennifer Sguazzin, Stella Spatafora, Diletta Sveva Tamagnone, Francesco Tosco, Alessio Vernetti, Elisa Zamuner. Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


Europa Occidentale L’ANACRONISMO DELLA REGOLA DELL’UNANIMITÀ Verso un processo decisionale più moderno

Di Giuliana Cristauro Il 15 gennaio 2019 la Commissione europea ha presentato una Comunicazione dal titolo Towards a more efficient and democratic decision making in EU tax policy, con la quale ha inteso avviare un dibattito sulla transizione, progressiva e mirata, dal voto all’unanimità verso il voto a maggioranza qualificata e sul ricorso alla procedura legislativa ordinaria in taluni settori della politica fiscale dell’UE. La maggioranza qualificata è il metodo di voto più utilizzato per adottare decisioni nell’ambito della procedura legislativa ordinaria, poiché favorisce un processo decisionale più efficiente e veloce. La procedura legislativa speciale si caratterizza, invece, perilricorsoalvotoall’unanimità in settori considerati ‘sensibili’, in quanto strettamente legati alla sovranità nazionale, come le politiche fiscali, in cui tale metodo decisionale comporta spesso notevoli ritardi e costi. La Commissione ha evidenziato come l’anacronistica applicazione nel settore fiscale di una procedura legislativa speciale basata sull’unanimità “ostacoli i progressi verso la realizzazione

degli obiettivi politici dell’UE ed il completamento del mercato unico”. Al contrario, il processo decisionale ordinario consentirebbe di adottare misure fiscali tempestive volte allo sviluppo di un mercato caratterizzato da economie altamente integrate, alla luce delle nuove sfide emerse nell’UE e nel mondo. La regola dell’unanimità, peraltro, è passibile di essere impugnata per perseguire interessi nazionali a scapito del mercato unico. Per tali motivi, la Commissione ha proposto di emendare le modalità con cui l’UE esercita le sue competenze nel settore dell’imposizione attraverso un ricorso sistematico alle ‘clausole passerella’. Queste ultime consentono di discostarsi dalla procedura legislativa prevista inizialmente dai Trattati in un determinato settore e di ‘passare’, a certe condizioni, ad un’altra procedura legislativa per l’adozione di un atto. L’articolo 48 del TUE introduce una ‘clausola passerella’ generale che permette di applicare tale procedura per tutte le politiche europee. L’attivazione delle ‘clausole passerella’, però, deve essere sempre decisa all’unanimità dagli Stati membri, nell’esercizio della loro sovranità.

Durante la riunione del Consiglio Economia e finanza del 12 febbraio 2019, i Ministri delle Finanze si sono confrontati sulla proposta di transizione. Un numero significativo ha chiesto il mantenimento dell’attuale equilibrio di regole di voto, mentre altri si sono mostrati aperti ad un margine di miglioramento. Gli Stati membri più piccoli temono di subire la posizione dei Paesi più grandi e di assistere all’erosione della loro sovranità nazionale in un ambito così sensibile. In particolare Svezia, Malta, Lituania, Lussemburgo e Olanda hanno espresso la loro contrarietà. La transizione avverrebbe gradualmente e per fasi, ma soprattutto imprimerebbe un nuovo impulso al processo decisionale in materia di imposizione. Il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha dichiarato che le nuove economie globalizzate hanno bisogno di “sistemi moderni e ambiziosi”. Del resto, la regola dell’unanimità ha bloccato per anni alcune proposte chiave per la crescita, la competitività e l’equità fiscale nel mercato unico e il Parlamento europeo, democraticamente eletto, ha finora rivestito un ruolo meramente consultivo nel processo decisionale.

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Europa Occidentale IL FRAGILE EQUILIBRIO SPAGNOLO

Dopo la bocciatura del bilancio, la Spagna si prepara a elezioni anticipate

Di Simone Massarenti Il 13 febbraio scorso, il Parlamento spagnolo, chiamato a votare il bilancio proposto dal governo di Pedro Sanchez, ha bocciato la manovra finanziaria, gettando nel caos la già fragile struttura politica del Paese. Il PSOE, partito di provenienza dell’attuale Capo di Governo, ad oggi detiene 84 dei 350 seggi del Parlamento e nonostante il lavoro estenuante del Primo Ministro per l’approvazione della manovra, il risultato è stato una sonora sconfitta. Decisivi si sono rivelati i voti degli indipendentisti catalani ERC e PDECAT, che, uniti all’aperta opposizione del Partido Popular, Ciudadanos e Foro Asturias e Coalición Canaria, hanno determinato quella che probabilmente rappresenterà la fine della legislatura Sanchez. I catalani hanno rivestito la funzione del proverbiale ago della bilancia, dato che, per assicurarsi il parere favorevole della frangia indipendentista del Paese, il leader del PSOE aveva cercato di aprire un dialogo, conclusosi con un nulla di fatto la settimana prima del voto a causa di un deciso ‘NO’ alla manovra da parte di 12 leader pro-indipendenza. 4 • MSOI the Post

Il risultato finale di questa presa di posizione è stato di 191 voti contrari alla manovra e 158 favorevoli, costringendo Sanchez ad abbandonare l’aula parlamentare subito dopo il voto per tornare ai propri uffici. Di lì a poco, tutti i leader dei partiti contrari al governo, come uniti in un coro unanime, hanno invocato elezioni generali anticipate. Le parole più forti sono arrivate dal leader del centro-sinistra Albert Rivera, il quale, ai giornalisti presenti, ha dichiarato che questo voto fosse la conferma che “Sanchez ha perso, la Spagna ha vinto”: un implicito appello alle urne, per il bene del Paese. Dello stesso parere il leader del Partido Popular Pablo Casado, il quale ha definito questo voto de facto di fiducia contro il governo Sanchez. La decisione presa dal Parlamento rappresenta per Casado un turning point, nonché la fine di Pedro Sanchez come Primo Ministro. Dalla Moncloa, però, per adesso, non giungono annunci ufficiali circa una data individuata per le elezioni, dato che, stando a indiscrezioni provenienti da fonti interne al PSOE, Sanchez vorrebbe più tempo possibile al fine di mobilitare i votanti dell’ala sinistra della Nazione, onde evitare l’ascesa dell’estrema

destra dei Vox. Fonti vicine al Premier hanno però annunciato che la data individuata per le elezioni sarebbe il 28 aprile e, stando ai sondaggi, se si andasse oggi ad elezioni, sarebbe favorita una coalizione ultrasovranista di destra, forte del supporto proprio di Vox, reduce dalla vittoria in Andalusia. Il dato concreto è però quello relativo alla totale instabilità politica del Paese: la chiamata alle urne sarebbe la terza in 4 anni, un sintomo palese della più duratura crisi nella storia del Paese Iberico. Naturalmente, le ripercussioni maggiori sono quelle sulla popolazione, la quale, la domenica successiva al voto di ‘sfiducia’, è scesa in massa nelle strade della capitale per chiedere nuove elezioni generali, contestando oltretutto i toni concilianti di Sanchez verso gli indipendentisti catalani, rei di aver minato la stabilità della Spagna. Tutto gioca quindi a sfavore del governo del presidente Sanchez e, con coscienza del precedente della bocciatura della manovra del governo socialista di Felipe Gonzalez nel 1995, alcuni presagiscono scenari tempestosi per la legislatura a guida PSOE.


Nord America A FUTURE TO BELIEVE IN 2.0

Sanders annuncia la propria ricandidatura per le primarie del Partito democratico

Di Alessandro Dalpasso Nei mesi successivi all’elezione dell’attuale 45° presidente degli Stati Uniti, i commentatori democratici sollevarono, più volte, il dubbio che Hillary Clinton, la sconfitta delle scorse elezioni, non fosse considerabile come il candidato ideale per la sfida e che tale ruolo si sarebbe dovuto, invece, attribuire a Bernie Sanders. Senatore del Vermont e oggi 77enne, Sanders si collocava come indipendente e la sua campagna “A future to believe in” era stata vista come un tentativo di successo di rivitalizzare la base progressista del Partito e, proprio Sanders, martedì 18 febbraio, ha annunciato che correrà nuovamente per quella nomination che gli era sfuggita, nella scorsa tornata elettorale, per appena 5 Stati Nel corso dell’intervista rilasciata alla Vermont Public Radio e durante la quale avrebbe espresso la propria volontà di rimettersi in gioco, Sanders, si è presentato alla base democratica attaccando direttamente il presidente Trump, definendolo “un imbarazzo per la Nazione”, “un bugiardo patologico” e un “razzista, omofobo e xenofobo”. Secondo il senatore Sanders, il Presidente avrebbe, infatti, “un modo di fare politica spiccio-

lo, che consiste nell’attaccare le minoranze”; minoranze che erano state, invece, fra i suoi più forti sostenitori.

zione di Trump nel corso delle primarie e nelle elezioni generali perché, questa volta, “vincerà la nomination”.

La risposta indiretta del Presidente non si è fatta attendere ed è giunta precedentemente alle dichiarazioni rese da Sanders, il quale, pur non avendo ancora reso pubbliche le proprie intenzioni era già stato identificato come potenziale e futuro candidato. Donald Trump, infatti, tramite il coordinatore della propria campagna per la rielezione, Kayleigh McEnany, ha riconosciuto l’abilità del senatore nel dettare l’agenda del Partito, dichiarando che, secondo lui, “Sanders avrebbe già vinto”, per tale ragione “il dibattito democratico”.

Nonostante l’ottimismo, la sua vittoria potrebbe essere molto e difficile da ottener . Su di lui e sulla sua immagine pesano, infatti, le accuse di sexual harassment provenienti da alcuni membri del proprio staff nel corso della campagna del 2016. In secondo luogo, sebbene la Clinton non sarà della partita e con lei l’efficientissima macchina elettorale dell’ex Segretario di Stato, altri contendenti potrebbero rendere meno efficace il messaggio di Sanders. Alcuni dei suoi più grandi alleati nella scorsa campagna elettorale, come la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren, e uno dei suoi finanziatori, Michael Bloomberg, hanno, infatti, dichiarato che correranno anch’essi o che pensano di farlo.

Donald Trump, avrebbe, tuttavia, aggiunto che, soprattutto sul piano della politica estera, gli americani continueranno ad essere dalla parte del Presidente. Secondo Donald Trump, infatti, gli americani si “si rifiuteranno di votare per un programma che li porterà a pagare tasse altissime, che prevede un sistema sanitario coordinato dal governo federale e, soprattutto, che vede l’America abbracciare posizioni di dittatori come il venezuelano Maduro”. Sulla base di tali dichiarazioni Sanders ha annunciato di essere pronto a contestare ogni posi-

Nonostante tali difficoltà, le prime risposte al lancio della sua campagna lasciano intendere che, comunque, potrebbe risultare uno dei favoriti; sarebbero, infatti, già stati raccolti più di 4 milioni di dollari provenienti da oltre 150.000 donatori provenienti soprattutto da New Hampshire e Iowa, alcuni dei primi Stati protagonisti della votazione. MSOI the Post • 5


Nord America “WE WILL HAVE A NATIONAL EMERGENCY, AND WE WILL THEN BE SUED”

President Donald Trump declares a national emergency in order to proceed with the construction of the border wall

Di Paolo Santalucia On February 14, 2019, Senate majority leader Mitch McConnell announced that President Donald Trump would declare a state of emergency in order to bypass Congress and build additional barriers along the U.S.-Mexico border. The declaration of national emergency expressed by Donald Trump last Thursday obviously didn’t come out of the blue and was instead the result of ongoing turmoils amongst the American political scene, caused by Mr. Trump’s will to build a large and fortified border wall between the U.S. and Mexico. From December 22, 2018 to January 25, 2019 the federal government was partially shut down due to Trump’s decision to veto any spending bill that did not include $5 billion in funding for a border wall. On February 15th the House of Representatives voted in favor of the bipartisan bill, which was created with the intention of keeping the government running at least until September 30, 2019. Despite the fact that the new funding bill does not grant the funds necessary to build the border wall, President Donald 6 • MSOI the Post

Trump has agreed to sign it to prevent another shutdown, but has also announced a state of national emergency, which gives the President of the United States of America a temporary boost, consisting in more than 100 special provisions that become available to him, until the emergency passes. Amongst the reasons that induced Trump to declare a state of national emergency, certainly a couple of them stand out. The decision was clearly a reflection of the President’s will of bypassing the limits imposed by the Congress regarding the construction of the border wall and above all a strategic move intended to regain him popularity, in light of the upcoming presidential election of 2020. Donald Trump’s declaration of the emergency has been received by the public opinion as quite controversial to say the least. A National Public Radio poll has found that more than 6-in-10 Americans do not approve President Trump’s decision to declare a national emergency and that nearly 6-in10 also don’t believe there is an emergency at the southern border and that the President is misusing his presidential authority.

On February 18th a coalition of 16 states, including the State of California and the State of New York, challenged President Trump in court over his plan to use a tool as delicate as the national emergency just to be able to spend billions of dollars on his border wall. The suit, filed in Federal District Court in San Francisco, argues that, since it is Congress the one who has the power of controlling spending, President Trump does not have any right whatsoever to divert funds to build a wall along the Mexican border. Even though Mr. Trump has said that his declaration is allowed thanks to a 1976 law called the National Emergencies Act, critics of the move, including many Republicans, have argued that while previous uses have involved actual emergencies such as human rights violations, the motives behind Trump administration’s declaration of emergency are rather t insufficien . It is still uncertain how exactly the declaration of emergency will affect Trump’s plan of building the infamous border wall and how this situation will also impact his chances of being re-elected in the upcoming 2020 presidential elections.


Medio Oriente e Nord Africa YEMEN: IL PORTO CRUCIALE

Hodeidah, sul Mar Rosso, è il teatro degli scontri più accesi degli ultimi tempi

Di Lorenzo Gilardetti Il 17 febbraio scorso l’ONU ha fatto sapere che le due parti in conflitto (il governo yemenita e i ribelli sciiti Houthi), che da anni si spartiscono lo Yemen, avrebbero trovato un accordo riguardo Hodeidah, la città portuale al momento più importante per la sopravvivenza della maggior parte della popolazione. Da questa città passa, infatti, il 70% degli aiuti umanitari internazionali diretti all’intero Paese.

di prigionieri, i rappresentanti del governo di Hadi e del movimento Ansar Allah (forza politica che fa da riferimento per i ribelli Houthi) hanno annunciato il ‘cessate il fuoco’ ma rimanevano in contrasto su diversi punti. Primo fra tutti, proprio quello riguardante la gestione di Hodeidah, città sulla quale la parte governativa filo-saudita non intendeva negoziare, bloccando sul nascere la proposta ONU di far passare il porto sotto controllo internazionale.

Hodeidah, secondo porto yemenita dopo Aden, è stato il teatro principale di quest’ultima fase di guerra, iniziata dopo gli i dialoghi di dicembre in Svezia. A Rimbo (50 km da Stoccolma), infatti, grazie al lungo lavoro dell’inviato speciale ONU Martin Griffiths, era avvenuto il primo incontro tra le parti dopo due anni di rifiuti e appuntamenti mancati (l’ultimo dei quali a Ginevra, nel settembre 2018, disertato dagli Houthi): il 18 dicembre 2018, a seguito di uno scambio di migliaia

Gennaio ha significato quindi per la città diversi scontri violenti e circa 15 raid della coalizione saudita, fino alla svolta del 17 febbraio, quando le due parti hanno trovato un accordo sotto la supervisione dell’ONU, il quale si articolerà in due fasi. La prima, già da subito avviata per far fronte all’emergenza carestia, prevede il ritiro di tutte forze armate che, scontrandosi, stanno impedendo la necessaria circolazione degli aiuti umanitari. La seconda, decisamente più complessa,

prevederà una nuova disposizione di forze armate di entrambe le parti sotto il controllo ONU nell’intera provincia di Hodeidah, ma non sono stati per ora dichiarati né tempi né modalità; le parti si dovrebbero, infatti, incontrare nuovamente nelle prossime settimane. Da Hodeidah nell’ultimo periodo sono fuoriusciti circa 455.000 sfollati, che vanno ad aggiungersi ai 2,3 milioni totali attualmente presenti in Yemen, dove i due terzi della popolazione sono in condizione di carestia, e il restante terzo è in condizione di alta vulnerabilità. Il dato tradotto è che si contano 14,3 milioni di persone che hanno bisogno immediato di aiuti umanitari. Se l’accordo su Hodeidah costituisce un momento cruciale per la sopravvivenza di gran parte della popolazione, ancora più rilevante sarebbe un dialogo politico responsabile, finora pressoché inesistente, che da qui potrebbe scaturire.

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Medio Oriente e Nord Africa CIÒ CHE È RIMASTO DI DAESH

La fine di un lungo e sanguinoso conflitto: la situazione in Siria e la questione dei foreign fighters

Di Anna Nesladek A Shamina Begum, ragazza britannica partita per il Medio Oriente nel 2015 che aveva recentemente espresso la volontà di tornare nel suo Paese, è stata infine revocata la cittadinanza. La decisione ha scatenato un’ondata di polemiche, e senza dubbio si sentirà ancora parlare di casi simili, dato che le persone partite per i territori sotto il controllo di Daesh sono molte: i foreign fighters rappresentano uno dei problemi che l’Occidente si trova a dover affrontare in questo stadio del conflitto. Trump ha recentemente dichiarato che, se l’Europa non si riprenderà i circa 800 foreign fighters ora prigionieri dei curdi nella Siria orientale, darà ordine che vengano rilasciati. I combattenti europei ora nelle mani dei curdi si trovano in un vero e proprio limbo, poiché né i loro Paesi hanno per il momento intenzione di farli rientrare, né saranno le forze curde a farsi carico dei processi. Il rischio concreto è che Daesh sferri un attacco per liberarli, approfittando del graduale ritiro delle truppe statunitensi. 8 • MSOI the Post

Mentre impazza la polemica attorno al caso di Shamina Begum e l’Occidente si ritrova a dover affrontare il problema dei foreign fighters, in Siria la situazione continua a essere tesa. A dicembre Trump aveva annunciato che le truppe statunitensi si sarebbero ritirate entro fine aprile, decisione che fu criticata duramente sia dagli alti comandi dell’esercito statunitense, che la giudicarono prematura e controproducente, sia dagli alleati; anche le Forze Democratiche Siriane, le milizie curde che combattono Daesh nel Nord-Est della Siria, diedero un parere negativo, poiché la decisione di Trump avrebbe aumentato le possibilità di un attacco da parte dei turchi. Attualmente, in un piccolo lembo di terra lungo il fiume Eufrate nella Siria del Nord, circa 300 combattenti di Daesh difendono la posizione in un ultimo disperato tentativo di ritardare quella che secondo le forze curde è la sconfitta militare definitiva del gruppo terrorista: dopo un’ultima offensiva militare da parte di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, Daesh ha infatti perso quasi tutte le sue conquiste territoriali. La coalizione guidata dagli Stati Uniti sta negoziando con i combattenti per mettere in

salvo i civili, prima di sferrare l’attacco definitivo. Il ‘Califfato’ cesserà di esistere e i territori conquistati da Daesh negli ultimi anni verranno liberati, ma è necessario che non si abbassi la guardia. Secondo il capo del Comando Centrale dell’esercito statunitense, Joseph Votel, è necessaria una costante pressione e un controllo continuo sui miliziani e sui leader di Daesh una volta che saranno completamente dispersi. Infatti, se non si agisse in questo modo, Daesh potrebbe riconquistare terreno già nei prossimi mesi. Se in Iraq, dove il governo dichiarò vittoria nel dicembre del 2017, il gruppo terrorista si è trasformato una fitta rete segreta e sono attive molte cellule clandestine in varie zone del territorio, anche in Siria, presumibilmente, la situazione evolverà nello stesso modo. Dopo anni di conflitto, centinaia di famiglie stanno facendo ritorno in Siria. Il valico di frontiera di Jaber, aperto lo scorso ottobre dalla Giordania, è attraversato ogni giorno da migliaia di persone e la Siria sta iniziando poco a poco a vedere la luce in fondo al tunnel: ma quanto ancora è lunga la galleria?


Russia, Balcani e Asia Centrale LE PRESIDENZIALI UCRAINE A 5 ANNI DA MAIDAN L’Ucraina continuerà una politica anti-russa?

Di Amedeo Amoretti Sono passati 5 anni dalle proteste di “Euromaidan”, ma le relazioni con la Russia sono peggiorate notevolmente. Il presidente Porošenko non è riuscito a pacificare le regioni orientali e il futuro del Paese potrebbe dipendere dalle prossime elezioni del 31 marzo 2019. A fine 2013, il presidente filorusso Janukovyč sospese il processo di associazione europea, che avrebbe portato alla firma di un accordo di libero scambio. Quest’ultimo avrebbe stabilito l’accesso ucraino ad alcuni settori del mercato europeo, impedendo di fatto lo sviluppo dell’Unione Economica Eurasiatica, la cui formazione era in corso in quel periodo. Migliaia di manifestanti europeisti scesero in Piazza Maidan, a Kiev, per protestare contro la politica presidenziale. La repressione da parte della polizia ucraina non fece altro che inasprire quella che divenne sempre più una protesta contro il governo in toto. Iniziarono a registrarsi i primi violenti scontri tra manifestanti e polizia, causando, a fine gennaio, i primi morti. Dopo 125 morti e sotto la pressione dei Ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia, il 21 febbraio le parti arrivarono a un accordo che

prevedesse elezioni anticipate e la formazione di un governo ad interim. Il giorno successivo, Janukovyč scappò e il parlamento ucraino fu costretto a instaurare un governo provvisorio. Tale mossa fu considerata da Mosca come un colpo di Stato e soldati russi, già presenti a Sebastopoli, si impossessarono dei palazzi governativi della Crimea. In seguito al referendum del 16 marzo 2014, mai riconosciuto dalla comunità internazionale, la Russia annette la Crimea. Intanto movimenti separatisti, sostenuti dalla Russia, si svilupparono anche nel Donbass, provocando un lungo conflitto, ancora in atto, tra le forze filorusse e Kiev. Le elezioni di maggio 2014 proclamarono Petro Porošenko presidente dell’Ucraina. Il businessman filoeuropeo si impose sull’arena politica con l’obiettivo di portare la pace nell’Est Ucraina e migliorare le relazioni russo-ucraine: l’obiettivo era la firma di un nuovo trattato. Se l’Ucraina è riuscita ad avvicinarsi all’Ue con l’entrata in vigore dell’accordo di libero scambio nel gennaio 2016, una pacificazione con il vicino russo non è mai stata raggiunta: l’ultimo episodio di tensione è avvenuto lo scorso novembre, quando tre navi ucraine nello Stretto di Kerch sono state

catturate dai russi in seguito a uno scontro navale. Nelle elezioni di fine marzo, sono tre i candidati che si giocano le vere possibilità di vittoria: il presidente uscente Petro Porošenko. la paladina della rivoluzione arancione filo-occidentale del 2004 Julija Tymošenko e lo showman Volodymyr Zelenskyj. Nonostante la sua inesperienza politica, quest’ultimo sembrerebbe essere in testa (27%) secondo gli ultimi sondaggi. Il bimensile New Eastern Europe riferisce che la sua capacità di convogliare i malumori del popolo nei confronti dei partiti tradizionali e di proporsi come volto nuovo sulla scena politica sarebbe la chiave di lettura della sua campagna elettorale. Inoltre, dietro la sua candidatura sembrerebbe esserci l’oligarca Igor Kolomoisky, i cui orientamenti politici non sono ancora ben chiari. Mentre Tymošenko sembrava porsi come favorita a dicembre 2018, l’elettorato di Porošenko fa affidamento sulla capacità del Presidente in carica di mantenere le promesse: una di queste era il raggiungimento dell’autocefalia della Chiesa ucraina, che è stato ottenuta nell’ottobre 2018, e un rafforzamento del legame con la NATO.

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Russia, Balcani e Asia Centrale CONTINUANO LE PROTESTE CONTRO IL PRESIDENTE VUCIC Le opposizioni e i manifestanti accusano il governo di “deriva autoritaria”

Di Mario Rafaniello Da quasi tre mesi, decine di migliaia di persone si riversano nelle strade delle principali città serbe per contestare il presidente Aleksandar Vucic, accusato di mettere a rischio la democrazia attraverso il controllo dell’informazione. Le proteste sono iniziate lo scorso novembre, in seguito ad una violenta aggressione subita dall’esponente dell’opposizione Borko Stefanovic, che accusò direttamente Vucic di essere il mandante del pestaggio a causa del clima di tensione da lui provocato. In seguito a ciò, le opposizioni hanno cominciato a scendere in piazza per chiedere le dimissioni del Presidente. Dalla risposta di Vucic alle richieste dei manifestanti, “non li ascolterei nemmeno se fossero in 5 milioni”, le opposizioni hanno battezzato la protesta col nome “1 di 5 milioni”. Il 16 gennaio in migliaia hanno reso omaggio in una manifestazione silenziosa alla memoria di Oliver Ivanovic, uno dei principali leader politici serbo-kosovari e oppositore di Vucic, ucciso un anno fa. Il corteo commemorativo ha marciato mostrando uno striscione con le parole dello stesso leader ucciso: “Noi siamo comunque di più”. L’indomani una folla entusiasta di sostenitori di Vucic 10 • MSOI the Post

ha accolto il presidente russo Vladimir Putin, in visita a Belgrado per discutere alcuni accordi e ribadire il sostegno alla politica estera serba nella questione Kosovo. Oltre mille gli autobus organizzati dal partito del presidente serbo per far accorrere i propri sostenitori all’evento, esplicitamente invitati, a differenza di chi spontaneamente ha voluto ricordare Ivanovic poche ore prima, a dimostrare una spaccatura sempre più netta all’interno del Paese. Il movimento di protesta contro Vucic ha visto scendere in piazza partiti dell’opposizione di sinistra e destra, accademici, studenti e semplici cittadini, accomunati nel contestare un esecutivo considerato a rischio autoritarismo. Una delle rivendicazioni principali riguarda la libertà dei mezzi di informazione: secondo alcuni report, il governo farebbe pressione sugli elettori tramite i media. Inoltre, le opposizioni denunciano la mancanza di adeguati spazi televisivi per i dibattiti politici e censure nei confronti dei giornalisti critici dell’operato di Vucic. Freedom House, organizzazione indipendente che monitora il livello di libertà democratiche, ha definito la Serbia “parzialmente libera”.

Nonostante ciò, Vucic godrebbe ancora di un alto consenso. In caso di elezioni anticipate, secondo un’indagine riportata dal quotidiano serbo Politika, il partito al governo SNS (Partito del progresso serbo) otterrebbe il 54% dei voti contro il 14% di Alleanza per la Serbia. Quest’ultimo è il più grande gruppo di opposizione, che proprio in questi giorni ha definito in un comunicato il parlamento “di facciata” e il governo “un regime totalitario”, accusandolo di trattare gli altri partiti come nemici dello Stato. Vucic ha ribadito che non cederà a ricatti politici, ma è aperto al dialogo coi cittadini. Il Presidente ha lanciato sui social la campagna Il Futuro della Serbia, presentando i suoi piani e promettendo di ascoltare le richieste del popolo. I deputati d’opposizione hanno deciso dall’11 febbraio di boicottare i lavori parlamentari: inoltre, in caso di elezioni anticipate, l’opposizione paventa la possibilità di boicottare la tornata elettorale, come preannunciato nella piattaforma comune “Accordo con il popolo”, in cui sono fissate le linee guida da opporre al governo. Alla base di tali posizioni c’è il timore di non vedere garantita una campagna elettorale corretta e un voto realmente libero.


ASIA E OCEANIA IL NUOVO SISTEMA DELL’E-COMMERCE INDIANO

Entrano in vigore le nuove disposizioni in materia di commercio digitale

Di Rebecca Carbone I foreign direct investments (FDIs) sono la base dello sviluppo economico indiano, in particolar modo nel fiorente settore del commercio digitale. Per questo motivo, restrizioni annunciate il 26 dicembre scorso ed entrate in vigore il 1º febbraio sono state causa di complicazioni per le piattaforme online e per i loro corrispondenti investitori stranieri, soprattutto dato l’esiguo periodo di adattamento concesso dal legislatore. Sono due i modelli base dell’e-commerce indiano: il marketplace based model, che utilizza quale facilitatore tra il compratore e il venditore una piattaforma digitale d’informazione, cioè un sito terzo intermediario dove si realizza la compravendita, e l’inventory based model, che mette in contatto direttamente l’entità commerciale online e il consumatore. La normativa precedente prevedeva che, al fine di ottenere FDIs, la piattaforma facilitatrice non potesse possedere quella d’inventario. Secondo la nuova legge, però, il ‘possesso’ potrà configurarsi anche ove vi sia un controllo per oltre il 25% del valore delle vendite concluse dal singolo operatore tramite un intermediario. Inoltre, per garantire una maggiore equità, è ora vietato, per qualsiasi

compagnia, pretendere che un prodotto sia commercializzato in via esclusiva sulla propria piattaforma. Il rispetto dei nuovi requisiti andrà dimostrato in una certificazione da consegnare ogni anno alla Reserve Bank of India. Le severe modifiche apportate sono state giustificate come assicurazione per un commercio più equo e non discriminatorio, che consenta di eliminare i fenomeni di sconti monopolizzanti e la corsia preferenziale di cui spesso godono i prodotti nei quali il mediatore ha investito. Verrà in questo modo favorito il settore al dettaglio meno organizzato, che non ha il potere di acquistare in grande scala e di offrire prezzi inferiori. I piccoli commercianti e rivenditori lamentano da anni la cattiva condotta di Amazon e Flipkart sul piano della competitività di mercato. Proprio il fatto che siano stati presi provvedimenti così tardivi rispetto all’inizio del malcontento, conduce a un’ipotesi di manovra politica, date le imminenti elezioni nazionali. Questa categoria di lavoratori costituisce una cospicua fetta di elettori ed era stata già penalizzata dalla politica di demonetizzazione e dalla tassa su beni e servizi degli anni scorsi.

L’azienda di analisi finanziaria PwC ha però stimato che le restrizioni apportate ridurranno il volume di affari via e-commerce di 46 miliardi di dollari entro il 2022. Anche il Presidente della Camera di Commercio indo-americana ha affermato: ”Le nuove restrizioni sono causa di preoccupazione. Temiamo che avranno un impatto negativo di lungo termine sia sugli investitori americani sia sui consumatori indiani.” A causa del discriminante negativo tra costi e benefici, le aziende minori saranno scoraggiate a investire, mentre le compagnie maggiori, per entrare nel mercato, si vedranno costrette a ritirare i propri prodotti dai siti indiani di cui possiedono delle quote e finanziare progetti locali totalmente o parzialmente delegati. I clienti dovranno sostenere un innalzamento dei prezzi dei beni e delle spese di spedizione aggiuntive, sperando siano compensate dalla più ampia scelta disponibile e dalla costruzione di negozi fisici. Mentre gli investitori sono ancora impegnati a riconfigurare le proprie strutture logistiche e a riorganizzare le relazioni chiave con i venditori, bisognerà aspettare ancora per valutare gli effetti concreti sui consumatori. MSOI the Post • 11


ASIA E OCEANIA LA MALAYSIA TORNA SULLA VIA DELLA SETA

Mahathir conferma la partecipazione malesiana al 2° BRI Summit

Di Daniele Carli Il 15 febbraio 2019 il presidente malaysiano Mahathir bin Mohamad ha sottoscritto la partecipazione al 2° vertice della Belt and Road Initiative (BRI) che si terrà ad aprile. Il progetto, promosso dalla Cina di Xi Jinping fin dal 2013, mira a migliorare l’interconnessione e la cooperazione tra i Paesi eurasiatici, prevedendo nello specifico il coinvolgimento della ‘Zona economica della Via della Seta’ e della ‘Via della Seta marittima del XXI secolo’. La conferma rappresenta una svolta del governo di Kuala Lumpur rispetto al piano di investimenti e progetti stabilito da Pechino. Di fatto, durante la campagna per le elezioni politiche del 2018, Mahathir si era dimostrato critico nei confronti dell’adesione dell’ex primo ministro Najib Razak a una serie di onerose iniziative che, riteneva, avrebbero “svenduto” il Paese all’egemone cinese. Per tal motivo, lo scorso gennaio il gabinetto malaysiano aveva deciso di annullare il progetto ferroviario della East Coast Rail Link (ECRL), la linea che avrebbe dovuto collegare la costa est e quella ovest del Paese. Ciononostante,

12 • MSOI the Post

le

ultime

dichiarazioni del Presidente sono entrate in contraddizione con la linea precedentemente adottata e hanno invece posto l’enfasi sulla consapevolezza del ruolo di principale partner commerciale ricoperto dalla Cina, garantendo una linea politica volta al rafforzamento dei rapporti tra i due Paesi. A tal proposito, Mahathir ha sottolineato che il veto posto su alcuni dei progetti proposti nell’ambito della BRI è stato dettato dalla necessità del Paese di ridurre il debito accumulato dal governo Najib con smodato trasporto. In particolare, oltre al sopracitato progetto ECRL, il governo ha annullato la costruzione di due gasdotti del valore di circa $2 miliardi, giudicata poco vantaggiosa per il Paese in termini di remunerazione degli investimenti. Il BRI Summit che si terrà a Pechino il prossimo aprile sarà in tutta probabilità la sede per rinegoziare i progetti avallati dalla Cina. L’adesione della Malaysia, in particolare per ciò che concerne la ECRL, è di cruciale importanza per i piani di Pechino. Per ora, Mahathir ha confermato la volontà di continuare a far parte del progetto, rimarcando che il passo indietro sui gasdotti sia derivato da considerazioni di

politica interna e non da una latente ostilità nei confronti di Pechino, con cui, al contrario, si auspicano serene relazioni. Tuttavia, parte dell’opinione pubblica non nasconde lo scetticismo verso la BRI, vista come strumento delle mire egemoniche cinesi, e ricorda gli effetti di incaute campagne di investimenti da parte di Sri Lanka, Pakistan, Tagikistan, Myanmar, Mongolia, Laos, e Gibuti. Lo spettro che infesta la diplomazia economica si chiama, in questo caso, “trappola del debito”. Per effetto di questo meccanismo, infatti, alcuni dei Paesi coinvolti nella BRI, che da un lato traggono qualche vantaggio nell’accettare i progetti infrastrutturali cinesi, dall’altro si ritrovano spesso incapaci di ripagare il debito contratto, finendo per cedere la proprietà delle infrastrutture ai cinesi. In ogni caso, la rinnovata partnership economica tra i due Paesi potrebbe alterare notevolmente gli equilibri nella regione, a partire dalle relazioni diplomatiche malaysiane con alcuni degli Stati asiatici come Giappone, Myanmar e Vietnam, storicamente allineati con Kuala Lumpur per arginare la pressione economico-finanziaria cinese.


Africa Subsahariana KENYA E SOMALIA: CRISI DIPLOMATICA I rapporti pacifici fra Kenya e Somalia vacillano a causa di un arcipelago rivendicato da entrambi i Paesi

Di Federica De Lollis L’instabilità politica è una drammatica costante nel Corno d’Africa. Ma, questa volta, la Somalia è coinvolta in una crisi diplomatica con il vicino Kenya, accentuatasi negli ultimi giorni con il richiamo dell’ambasciatore keniano in Somalia e l’invito a tornare in patria rivolto all’omologo somalo per le dovute consultazioni con il proprio governo. La questione risale al 2014, quando il Kenya stava effettuando attività estrattive e di ricerca in un arcipelago nell’Oceano Indiano, sospese a seguito di una denuncia della Somalia alla Corte Internazionale di Giustizia, che avrebbe dovuto stabilire quale fosse la linea interpretativa da adottare per far rientrare l’isola nel mare territoriale dell’uno o dell’altro Stato. La parte keniana sostenne che la linea di confine marittimo dovesse essere parallela alla latitudine, mentre la controparte insistette sul proseguimento della linea del confine territoriale in mare. Il caso è tornato alla ribalta negli ultimi giorni, quando la Somalia ha messo in vendita all’asta alcuni blocchi di idrocarburi estratti nelle isole contese, una condotta che manifesta chiaramente un atteggiamento di rivendicazione, tanto da

spingere il governo del Kenya a richiamare l’ambasciatore Lucas Tumbo a Nairobi. Quali effetti provocherà questo evento nelle relazioni tra i due Paesi? Secondo l’editoriale di Standard Digital, la vendita di idrocarburi da parte della Somalia rappresenta una mossa scorretta nei confronti dello Stato vicino, con cui aveva instaurato una forte alleanza per contrastare il terrorismo di Al Shabaab e riportare faticosamente la pace nella regione. La stessa presenza delle truppe delle Kenya Defence Forces, ancora oggi, in Somalia garantisce la sicurezza del Paese, che sembra sempre meno capace di provvedere alla salvaguardia dei propri confini. Inoltre, a pagare il prezzo dell’instabilità della Somalia è proprio il Kenya, che ha subito ripetuti attacchi dalla cellula somala di Al Shabaab, quali quelli del settembre 2013 al Westgate Mall di Nairobi, che ha provocato 67 vittime, quello dell’aprile 2015 all’Università di Garissa, che è costato la vita a 148 studenti e l’ultimo, all’inizio del 2019, nella capitale. Nairobi pone tre condizioni affinché la crisi diplomatica possa trovare un termine: il ritiro di una mappa esposta a un forum di economia nel Regno Unito che mostrava le isole come parte del

territorio somalo; il chiarimento agli acquirenti dei lotti venduti all’asta che il Corno d’Africa non si estende anche all’arcipelago da cui sono stati estratti; infine, un auspicabile raggiungimento di una soluzione pacifica della contesa, senza l’intervento decisivo della Corte Internazionale di Giustizia. Entrambe le parti mirano a concludere la vicenda senza strattoni. Le parole dell’ambasciatore Macharia fanno trasparire ottimismo a riguardo: “Il nostro augurio da buoni vicini è che questa questione si possa risolvere fuori dalla Corte. Gli amici non si portano in tribunale a vicenda; si siedono ad un tavolo e discutono. Questo è ciò che ci aspettiamo dalla Somalia”. Dall’altra parte del confine, i leader dell’opposizione somala, con il senatore Ilyas Ali Hassan, hanno minimizzato lo scivolone diplomatico e manifestato l’immediata disponibilità a chiarire il malinteso. Dal momento che la Corte non può influire nel breve termine sugli interessi degli Stati coinvolti, non è da escludersi un nuovo incidente di questo tipo, che, senza una linea interpretativa consolidata, potrebbe alimentare ulteriori tensioni. MSOI the Post • 13


Africa Subsahariana AFRICA, ANCORA TERRA DI COLONIALISMO?

Dal Novecento ad oggi, i rapporti di forza nel continente sono cambiati

Di Jessica Prieto Tutti noi, studiando le vicende della storia contemporanea, abbiamo affrontato l’epoca del colonialismo moderno e le lotte di spartizione per l’Africa tra Francia e Inghilterra e, in misura minore, tra Germania, Paesi Bassi, Italia, Portogallo, Spagna e Belgio. Oggi, a distanza di decenni, il fenomeno riaffiora nella cronaca assumendo vesti nuove come nel caso del cosiddetto ‘neocolonialismo francese’; tuttavia, alcuni potrebbero domandarsi se sia in effetti possibile parlare di colonialismo e in che misura le vecchie potenze coloniali esercitino ancora un’influenza sul continente africano. Agli albori del fenomeno coloniale, nel XVI secolo, l’Africa rappresentava un importante snodo marittimo per portoghesi, inglesi, francesi e olandesi. In questo periodo iniziò la tratta degli schiavi africani che, in circa due secoli, portò al rastrellamento di 11 milioni di africani dalle proprie tribù, per essere venduti come schiavi, soprattutto oltreoceano, nei territori statunitensi. A partire dal XIX secolo, il colonialismo basato sulla tratta degli schiavi lasciò il posto al colonialismo commerciale, meglio noto come imperialismo: una fase storica 14 • MSOI the Post

in cui quasi ogni Paese europeo prese parte a una vera e propria ‘corsa alle colonie’, inviando contingenti militari per occupare i territori dell’entroterra, formalmente non ancora occupati da nessuno e abitati da poche tribù. Le popolazioni autoctone si ritrovarono sottomesse all’impianto politico ed economico creato dai colonizzatori europei, in particolare da Francia e Inghilterra. In questo modo, la maggioranza della popolazione locale fu esclusa dalle decisioni politiche e si ritrovò impoverita sia in termini economici sia culturali. Oggi, tanti Paesi africani risentono ancora degli strascichi lasciati dal colonialismo europeo. Esso si ripropone sotto forma di nuovi accordi commerciali, come quelli relativi alla creazione di Zone economiche speciali e Zone economiche di trasformazione. Si tratta di convenzioni che dovrebbero consentire ai Paesi europei di concentrare il proprio intervento alle zone franche costituite nei territori africani e che, secondo il commissario tedesco per l’Africa Günter Nooke, “aiuterebbero il libero sviluppo di queste aree, consentendo crescita e prosperità e, di conseguenza, ridurrebbero il fascino dell’Europa come meta di migrazione”.

Rispetto al passato inoltre, oggi nel continente africano è diventata sempre più forte l’influenza cinese, sia in termini economici sia politici. Secondo Ngarlem Tolde, economista ciadiano, il ruolo della Cina è stato per lungo tempo ignorato e ora si sta lentamente rivelando, come dimostrato alla fine del 2018 dall’incontro a Pechino tra il presidente Xi Jinping e decine di capi di Stato africani. In quell’occasione, la Cina si è impegnata a destinare 60 miliardi di dollari per lo sviluppo africano: un aiuto economico che ha in sé un retrogusto di clientelismo. Grazie a questi aiuti infatti, la Cina, da una parte, mette in atto un modello di capitalismo autoritario che ha sollevato milioni di persone dalla povertà, dall’altra, stringe i Paesi africani nella morsa del debito, rendendoli dipendenti dalla potenza asiatica. Negli anni, insomma, il colonialismo ha cambiato forma e bandiera e, se lo scramble for Africa tra Francia e Inghilterra sembra ormai lontano, oggi assistiamo a una nuova corsa al colonialismo da parte della Cina, divenuta così influente proprio perché l’Europa non ha saputo stringere negli anni rapporti equi e duraturi con il continente africano.


America Latina e Caraibi L’ARGENTINA IN CRISI: UN PUNTO DELLA SITUAZIONE Debito pubblico e food emergency sono i principali problemi da fronteggiare per il Paese

Di Sabrina Certomà L’Argentina è, attualmente, il Paese più indebitato della regione secondo la Commissione economica per America Latina e Caraibi (CEPAL). La proporzione tra debito pubblico e PIL è al 77,4%, in netto aumento considerando che nel 2015 – quando Macri divenne Presidente – si attestava al 53,3%. Per di più, a questa cifra si arriva conteggiando solo la prima quota di prestito del Fondo Monetario Internazionale – 15 miliardi di dollari nel luglio 2018. Prendendo in considerazione anche i 13,4 miliardi di ottobre, inviati alle casse di Buenos Aires, il rapporto sale oltre l’80% del PIL. Anche se il rischio di default è escluso dalla quasi totalità degli analisti, è evidente che il Paese dovrà procedere a una decisa ristrutturazione del debito e del sistema economico. Caratteristica del debito argentino è, inoltre, la durata inferiore ai 10 anni. Ciò comporta che se ne dimostri continuamente la solvibilità. Negli ultimi giorni, inoltre, la popolazione ha fatto sentire la propria voce, stremata dalle condizioni di vita precarie e da una emergenza alimentare ormai diffusa da anni. In

migliaia sono scesi nelle piazze di 50 città argentine mercoledì scorso, per protestare contro l’innalzamento dei prezzi iniziato nel 2015 – ad esempio, il prezzo dell’elettricità è salito del 210% e quello del gas del 300%. “Stiamo perdendo lavoro, cibo, istruzione, alloggi... la disperazione è l’unica cosa che emerge tra la nostra gente,” afferma Osvaldo Ulacio, 60 anni, durante la manifestazione. “Non ci hanno lasciato altro strumento che uscire in strada a combattere per i nostri diritti,” aggiunge Diego Quintero, 29enne. I leader Esteban Castro, Juan Carlos Alderete e Daniel Menendez hanno parlato su un palco di fronte alla folla: “La fame è tornata, è l’anno peggiore dalla crisi del 2001 e non lo sopporteremo ancora”. La mancanza di derrate alimentari non è una novità per gli argentini. Il Paese dichiarò l’emergenza alimentare già nel 2002, crisi che non è mai stata risolta. Tuttavia, la fame non dilaga per mancanza di cibo, quanto per come lo Stato ne gestisce la suddivisione. Secondo Mercedes Nimo, sottosegretario del Ministero dell’Agroindustria, in media si perde o spreca circa un kg di cibo per persona al giorno. Ad aggravare la situazione già instabile del Paese, l’ex presidente Cristina Fernandez

de Kirchner sarà processata per la prima volta il 26 febbraio, dopo che la Corte ha rifiutato di rimandare il procedimento per appropriazione indebita aperto contro di lei e altri ex ufficiali governativi. Il processo durerà circa 8 mesi, e dovrebbe, quindi, incrociare la campagna elettorale per le elezioni presidenziali di ottobre 2019. Lo scandalo venne a galla quando il giudice Julián Ercolini e i procuratori Gerardo Pollicita e Ignacio Mahique indagarono su presunte irregolarità nell’erogazione di gare d’appalto per progetti di lavori pubblici nella provincia di Santa Cruz, alla società Báez’s Grupo Austral. Il caso è emblematico non solo perché è la prima volta che Fernández de Kirchner è posta al banco degli imputati, ma anche perché è la prima volta che si possiedono abbastanza indizi per accusarla definitivamente di corruzione. Con l’approssimarsi delle elezioni, gli argentini richiedono, dunque, al governo, un incremento negli aiuti per chi soffre maggiormente la crisi economica. Mentre, nelle predizioni del FMI, il PIL diminuirà ulteriormente del 2,6% quest’anno, le presidenziali del 27 ottobre potrebbero davvero segnare un punto di svolta per il Paese. MSOI the Post • 15


America Latina e Caraibi CUBA E LA CRISI POLITICA IN VENEZUELA

Un’eventuale destituzione di Maduro rischia di compromettere anche le sorti di Cuba

Di Elisa Zamuner Il 23 gennaio il presidente dell’Assemblea Nazionale, Juan Guaidó, ha prestato giuramento e si è autoproclamato Presidente ad interim, contestando la legittimità democratica di Nicolas Maduro e chiedendo delle nuove elezioni. Guaidó ha ricevuto un forte sostegno internazionale; il presidente degli USA Donald Trump l’ha subito riconosciuto come leader del Venezuela gli han fatto seguito Canada, Unione Europea e la maggior parte dei Paesi dell’America Latina. La reazione di Maduro è stata ferrea: ha affermato la sua autorità, ha definito Guaidó un usurpatore e ha dichiarato di essere vittima di un tentato colpo di Stato ad opera dell’opposizione e degli Stati Uniti, accusando questi ultimi di interferire con le politiche venezuelane. All’interno del Paese la situazione è disastrosa: le proteste, gli scontri e le violenze sono all’ordine del giorno e continuano a crescere. Maduro, seppur apparentemente isolato rispetto alla comunità internazionale, continua a godere del sostegno di Russia, Cina, Iran, Turchia, Nicaragua e 16 • MSOI the Post

Bolivia e Cuba. Tra tutti questi Paesi Cuba è sicuramente quello che corre maggiori rischi, qualora vi sia un effettivo cambio dell’esecutivo. I rapporti tra Venezuela e Cuba, infatti, sono estremamente solidi. L’amicizia e la stima tra gli ex presidenti Hugo Chávez e Fidel Castro hanno fatto sì che si stringesse un forte legame commerciale e diplomatico tale da portare i due Paesi a sviluppare una sorta di ‘dipendenza’ reciproca. Cuba ricava diversi benefici economici da questa alleanza ed in particolare può contare su un costante rifornimento di petrolio da parte del Venezuela a prezzi accessibili, offrendo in cambio dei servizi professionali all’altro Paese e inviando personale qualificato tra cui medici, infermieri, burocrati ma anche milizie e gruppi paramilitari, i cui dati al riguardo sono spesso poco chiari. La vicinanza di questi due Paesi appare più evidente se si pensa che la crisi economica venezuelana ha avuto dei riflessi anche nell’economia cubana: le esportazioni di petrolio del Venezuela sono calate di quasi la metà negli ultimi anni e ciò ha costretto Cuba a ricorrere a delle politiche di razionamento

energetico all’interno delle proprie città e a rivolgersi ad altri Paesi per ottenere del petrolio, tra i quali la Russia. A differenza di quanto avviene con il Venezuela, però, un accordo commerciale con Putin per ottenere petrolio non è, a lungo termine, economicamente sostenibile da Cuba. Infine, i due Paesi presentano alcune affinità politiche ed ideologiche; entrambi infatti guardano con poco favore all’atteggiamentodegliStatiUniti nella regione sudamericana. Così, da una parte, il pronto sostegno dato da Trump a Guaidó è a molti sembrato in aperta contraddizione con il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Dall’altra, inoltre, vi è la paura all’Avana che, nel caso in cui si arrivasse ad una destituzione di Maduro tramite un’operazione militare coadiuvata dagli USA, Trump possa sfruttare la situazione per ripristinare una situazione di influenza dominante su tutta Cuba o, comunque, che l’instaurarsi di un governo più liberale in Venezuela possa sbilanciare di molto gli attuali rapporti commerciali, lasciando il Paese di Miguel Díaz-Canel isolato.


Economia e Finanza RECESSIONE: CHI VIVRÀ, VEDRÀ

Il quadro internazionale peggiora, l’Italia è a rischio la recessione, il governo spera

Di Michelangelo Inverso Il 2019 si è aperto all’insegna di gravi apprensioni rispetto alla crescita internazionale. A preoccupare, in primis, è l’Europa, alle prese con uno scontro interno esistenziale tra poteri tradizionali e nuove forze anti-establishment.

essendo il mercato tedesco uno dei più significativi per l’Italia. Secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale (FMI) i redditi pro capite nel Belpaese sono diminuiti del 4% dal 2000, mentre la produttività dei settori non commerciali è crollata del 16%.

Con la Brexit all’orizzonte e le elezioni europee alle porte, il futuro dell’economia del Vecchio Continente appare sempre più simile a una nave in acque agitate. Anche al di là dell’Atlantico, però, l’economia affanna a tal punto che la Federal Reserve ha deciso di sospendere temporaneamente il rialzo dei tassi di interesse. Le cause dell’andamento negativo dell’economia italiana sono dunque da ricercarsi nella più generale stagnazione di tutti i maggiori mercati europei, a partire dalla Germania.

Ai fattori esterni, legati al rallentamento delle economie tedesca e cinese, e al peggioramento delle relazioni internazionali, come l’altalenante guerra commerciale tra Stati Uniti, UE eCina,siaffiancano problematiche tutte interne. Tra queste possiamo riscontrare, oltre alla diminuzione della produttività, l’alto debito pubblico, che a ogni sommovimento internazionale (o nazionale) torna a essere sotto i riflettori, come sorvegliato speciale e con conseguente aumento dei tassi di interesse.

La ‘Locomotiva Europea’ pare essere in panne: l’offerta industriale non riesce a incontrare la domanda, specialmente per la contemporanea ‘crisi’ dei Paesi asiatici, con conseguente calo del 3,2% della produzione industriale. I dati peggiori dal 2008 per la Germania. E, se Berlino piange, Roma non ride,

Infine, occorre sottolineare come l’Italia non sia mai del tutto uscita dalla spirale recessiva del 2008, avendo ancora un 4% di PIL da recuperare per tornare ai livelli pre-crisi e molto di più per raggiungere i ‘big’ europei. In questo quadro, non stupiscono gli ultimi dati sull’inflazione diffusi dall’ISTAT in questi giorni, che ne rilevano il calo. In

una situazione in cui la domanda interna è costantemente in contrazione, non stupisce che i prezzi calino con gravi riflessi sulla crescita attesa, che ormai tutti gli osservatori hanno ridotto alla sostanziale parità. Resta, tuttavia, una possibile exit-strategy, che è quella considerata dal governo italiano. La soluzione, secondo il premier Conte, starebbe negli effetti del combinato disposto tra Reddito di Cittadinanza (RdC) e Quota 100. Entrambe le misure ambiscono a rafforzare la domanda interna, quella più penalizzata in questi anni. Da un lato, infatti, verrebbero messi in circolazione circa 10 miliardi di euro, sotto forma di RdC; dall’altro, si aprirebbe una nuova stagione di assunzioni nel pubblico impiego per via delle fuoriuscite pensionistiche (si parla di circa 200.000 unità). Infine. non si può tacere che i recenti dati sull’economia italiana sono collegati a doppio filo con la manovra economica del governo Gentiloni e solo a fine anno potremo iniziare a osservare i risultati della cosiddetta ‘Manovra del Popolo’ e verificare se i risultati saranno in controtendenza rispetto a quelli ereditati fino a oggi. MSOI the Post • 17


Economia e Finanza PAC: VERSO UNA SMART AGRICULTURE?

Slitta la definizione della nuova politica agricola comune, ma il problema rimane urgente

Di Alberto Mirimin Mentre in Italia tutte le prime pagine dei quotidiani nazionali vengono da settimane occupate dalla protesta dei pastori sardi, il tema dell’agricoltura tiene banco anche sui tavoli del Parlamento Europeo. Sono di pochi giorni fa, infatti, le parole di Paolo De Castro, vicepresidente della Commissione agricoltura del Parlamento Europeo, secondo cui: “il Parlamento UE non ipotecherà la riforma della politica agricola comune post-2020, lasciando le mani libere alla futura Commissione e Parlamento europei”, definendo la posta in gioco troppo elevata e i tempi troppo stretti per trovare soluzioni condivise sul nuovo modello presentato. I fatti in questione risalgono allo scorso 1° giugno, quando il commissario europeo per l’agricoltura e lo sviluppo rurale Phil Hogan ha presentato le nuove proposte legislative in merito allo sviluppo futuro della politica agricola comunitaria (PAC) adottata dall’UE. Decisione, questa, non da poco, dato che la PAC impegna già oggi il 39% del bilancio europeo. L’urgenza della questione emerge da alcuni fattori che stanno condizionando in maniera 18 • MSOI the Post

crescente il settore primario in Europa. In primo luogo, i sistemi agricoli sono all’origine del 27% delle emissioni di gas serra e del 90% delle emissioni di ammoniaca, contribuendo in tal modo all’inquinamento atmosferico, causa della morte di 400.000 persone ogni anno. Inoltre, il Vecchio Continente perde 970 milioni di tonnellate di suolo ogni anno per l’erosione e già oggi la riduzione della biodiversità sta mettendo a repentaglio l’impollinazione di molte colture alimentari. Il risultato: fra il 2003 e il 2013, un’azienda agricola su 4 è scomparsa. A tal proposito, già a fine 2017 la Commissione Europea aveva presentato un rapporto dal titolo “Il futuro dell’alimentazione e dell’agricoltura”. Secondo il documento, se la PAC post-2013 aveva come concetto cardine la parola ‘greening’, la politica comunitaria post-2020 deve basarsi sui concetti di ‘smart’ e ‘resilienza’: deve quindi “sostenere la cura per l’ambiente e l’azione per il clima, stimolare la crescita e l’occupazione nelle aree rurali, essere capace di resistere ai cambiamenti, soprattutto quelli del mercato; deve essere sostenibile e deve garantire la vitalità delle zone rurali”.

Altri spunti sono stati forniti dal rapporto presentato al Parlamento Europeo da Ipes Food, che ha proposto una sostanziale riforma della PAC. Infatti, secondo il think tank di Bruxelles, il modo migliore per rendere la PAC capace di rispondere alle necessità dei nostri giorni è trasformarla in una politica alimentare comune. Una Food Common Policy, che, secondo le intenzioni del suo autore principale Olivier De Schutter, relatore speciale ONU sul diritto al cibo dal 2008 al 2014, rappresenterebbe una strategia sostenibile, mirata a raggruppare le varie politiche settoriali che influenzano produzione, trasformazione, distribuzione e consumo del cibo. In generale, la Smart Agriculture sembra essere la risposta migliore alle attuali sfide del settore agricolo, sempre più condizionato dai cambiamenti climatici e dalla volatilità dei prezzi sui mercati internazionali. Pertanto, sebbene la discussione sul tema sia stata rinviata, il problema rimane urgente e dovrà essere uno dei primi punti che il nuovo Parlamento Europeo eletto a maggio si troverà ad affrontare.


Diritto Internazionale ed Europeo PLURALISMO GIURIDICO E DIRITTI FONDAMENTALI Fra tutela delle minoranze e libertà decisionale delle stesse

Di Luca Imperatore Nell’attuale contesto di multiculturalismo crescente, le compagini sociali si trovano –sempre più spesso– a dover fare i conti con l’intreccio di norme derivanti da ‘ambienti’ culturali (e legali) differenti fra loro. L’interazione fra norme e tradizioni giuridiche alle volte antinomiche e lontane non è sempre una relazione di facile gestione. È proprio in questo ambito che si colloca la pronuncia della CEDU sul caso Molla Sali c. Grecia, deciso dalla Grande Camera lo scorso 19 dicembre. La ricorrente e il marito erano membri della minoritaria comunità musulmana di Grecia. Poco prima della sua morte, l’uomo si era recato presso un notaio e aveva redatto un testamento secondo i canoni del diritto civile ellenico. Le sorelle di questi, escluse dall’eredità, contestavano prontamente la validità del testamento, sostenendo che, in forza di alcuni obblighi internazionali (Trattato di Sèvres del 1920 e Trattato di Losanna del 1923), l’unica legge applicabile ai rapporti successori fra cittadini greci di fede musulmana fosse la Shari’a. I procedimenti interni vedevano la Corte di Cassazione accettare la richiesta delle sorelle dell’uomo e, conseguentemente,

dichiarare invalido il lascito testamentale. La ricorrente, quindi, proponeva ricorso alla Corte di Strasburgo per supposta violazione dell’articolo 14 Conv. (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’articolo 1 Prot. 1 (tutela della proprietà). Tralasciando i particolari della decisione della Corte, quest’ultima concludeva accettando la doglianza sollevata e riscontrando una violazione delle norme in oggetto. I giudici, all’unanimità, rilevavano come il principio del pluralismo giuridico non possa estendersi fino impedire ai membri di una comunità minoritaria (nel caso de quo, religiosa) di ricorrere alla legge regolare (a detrimento, quindi, delle norme della comunità stessa). Ciò, infatti, non rappresenterebbe più una doverosa tutela della minoranza coinvolta, ma diverrebbe un ostacolo al diritto all’autoidentificazione dei membri della comunità, oltre che una discriminazione ingiustificata. Nonostante si tratti di una delle prime occasioni in cui un’istituzione quale la CEDU si pronunci in materia di pluralismo giuridico di origine religioso, la decisione risulta straordinariamente ben bilanciata. La Corte di

Strasburgo, infatti, non ha tralasciato di considerare l’importanza dei trattati che tutelano la minoranza islamica in Grecia, ma lo ha fatto alla luce della libertà dei singoli di decidere se rivolgersi a dette norme o ad altre (stante il fatto che per questi casi non esiste, nell’ordinamento greco, un divieto di scelta fra le giurisdizioni). Preme, comunque, segnalare come il ragionamento della Corte non sia immune da contestazioni: a detta di alcuni interpreti, infatti, la stessa avrebbe, forse, trascurato di valutare le specificità della condizione in Tracia e la tradizionale tutela della minoranza islamica ivi residente. Nel caso di specie, comunque, la Corte sembra aver diligentemente rispettato gli obblighi imposti dalla Convenzione, bilanciando l’interesse di protezione della comunità minoritaria con le modalità impiegate per raggiungere tale scopo, considerate non proporzionate. La ricorrente avrebbe, infatti, subìto un trattamento discriminatorio sulla base delle proprie convinzioni religiose, ancorché la volontà dello Stato convenuto fosse solamente quella di tutelare i diritti di una minoranza. MSOI the Post • 19


Diritto Internazionale ed Europeo THE IMPACT OF BREXIT ON FOOD AND BEVERAGE PRODUCTS What would happen without a deal?

By Chiara Montano The United Kingdom is still part of the European Union, so EU law still applies, but its departure is scheduled on the 29th of March 2019, when the UK will officially become a ‘third country’. According to the Withdrawal Act, EU law will be transposed directly into UK law and thus it will be the same as it is currently. Then, the UK government will be able to decide whether it wishes to make changes to the internal legislation. Nevertheless, transposing all those norms is not easy and, depending on the outcome of the negotiations, the UK may need to set up new bodies and systems in order to enable its own law to operate after Brexit. The withdrawal agreement, among other things, sets out what will happen to existing products and regulatory requirements after Brexit. It also provides for a transitional period until 30th December 2020, to give businesses time to adapt to new arrangements. Thanks to the free movement of goods, the EU operates as a single market with common regulatory standards and a customs union with no tariffs on imports between Member 20 • MSOI the Post

States and a common tariff for imports from ‘third countries’. After Brexit and in absence of a deal, the UK will not be able to beneficiate of this situation anymore. The political declaration negotiated between the EU (with 27 Members) and the UK contains also a new customs arrangement and cooperation on goods. However, there is still much uncertainty as to the details of the future relationship at this stage. Since the UK Parliament has rejected the withdrawal terms, a ‘no deal’ Brexit scenario is probable and it will have a massive impact on food and beverage products. In fact, the UK is not self-sufficient in food. It imports regularly from different countries food and drink products as well as raw materials and ingredients; furthermore, production stages of manufacture, packaging and labelling are often performed in different locations. The legal framework on risk assessment and authorisations, labelling, organic products, and products protected by geographical indications (PGIs) depends on the final agreement, taking into account that much of UK legislation is now based on European Authorities, such as EFSA, and on European systems and legal sources,

like RASSF and Food Hygiene Package. Not to mention the additional costs and risks for contracts with suppliers and customers who are not from the UK and the fact that in the UK agricultural industry many workers are European citizens. According to the Guardian, already in September many experts in the British food industry, as well as a great deal of farmers, producers and retailers, started to see Brexit as “a potential calamity with which the British government has failed to engage”. Indeed, Brexit is likely to be a disruption to the British food supply chain and some companies are already moving their production from the UK to other Countries in the EU. The situation is highly complex and constantly evolving. In the short term, a ‘no deal’ scenario would have an immediate and strong impact on the British food industry. Even a well-negotiated free trade deal, which is very uncertain so far, would arguably have a number of consequences. One can only keep an eye on negotiations and their outcome, hoping that the final agreement, if possible, will take into account the last 40 years of cooperation that characterized this hugely consequential sector.


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