Redness Maggio

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Copyright: © Anthology Editions, LLC & © WoM Edizioni
si parla di nuove terre e stati alterati di coscienza, di streghe, boschi ed LSD, di animali "clandestini" e alberi gentili, di tradizioni da tradire per amarle meglio (da Napoli alla Sardegna), di musica, scienza e cinema sulla Croisette N 9 | MAGGIO 2023 Cannes Giovanni Covone Albert Hofmann Paola Sini Il Tesoro di San Gennaro Massimo Zamboni
Dove

REDness

4

EDITORIALE

4 Che trip!

6

È

bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria.  REDness è la rivista di MondoRED, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi. Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità...

Va bene tutto, purché sia fatto con redness.

In copertina: "Bicycle Day" di Brian Blomerth per gentile concessione di WoM Edizioni e Anthology Editions, LLC (servizio a pag 50)

Direttore: Fabrizio Tassi

Progetto grafico: Marta Carraro

Redazione: MondoRed

Redness è un mensile edito da MondoRed, Corso Buenos Aires 20, Milano Contatti: info@redness.it, direzione@redness.it

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte della rivista può essere riprodotta in alcuna forma senza l’autorizzazione scritta del direttore o dell’editore

62

EVENTI

62 Festival di Cannes 76: il cinema si prende la sua rivincita

69 Nanni Moretti: l'avvenire è passato, ci rimane l'amore

INCONTRI

6 Massimo Zamboni: il bestiario illuminante di un musicista-poeta

16 Paola Sini: una forza della natura prestata al cinema

28 Il Tesoro di San Gennaro: tradire la tradizione per amarla meglio

S38 Giovanni Covone: un astrofisico a caccia di nuove Terre

50

MEDITAZIONI

50 Quel viaggio psichedelico che ha reinventato la coscienza

54 Dennis McKenna: l'antidoto alla malattia dell'Occidente

56 Hofmann il mistico, che voleva superare il materialismo

72

STORIE D’IMPRESA

72 La vie est belle: qualità e "curvy" per chi vuole stare bene

76 Beauty Sun & Confort Ambientale: la termotecnica non si improvvisa

78

COMMIATO

78 Peter Wohlleben: “La forza gentile degli alberi”

3 MAGGIO 2023 2 MESE 2022
è passione, arte, impresa, comunicazione.
È il "rossore" provocato dalle emozioni forti.
Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare. La redness
è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina.
l'entusiasmo, la motivazione, il senso,  il fuoco sacro, la
OMMARIO

Che trip!

Che si tratti di esplorare lo spazio profondo o immergersi nella psiche, lo scopo è sempre quello: conoscersi meglio. L'uomo cerca se stesso, vuole risposte sulla vita, come è nata e perché, quando va alla ricerca di altre Terre nell'universo, magari anche di un'altra civiltà. E lo stesso fa quando sprofonda dentro di sé, alla scoperta di altri stati di coscienza. Albert Hofmann, il creatore dell'LSD - che omaggiamo attraverso le illustrazioni di Brian Bolmerth - aspirava a una "nuova consapevolezza", anche a una diversa forma di conoscenza della realtà, non solo razionale, per porre rimedio alla scissione tra io e mondo, tra sé e gli altri, che ha generato le emergenze e le catastrofi che conosciamo (non solo quelle sociali o ambientali, anche la crisi dell'individuo, la mancanza di senso, il dilagare di ansie, incertezze, depressioni). E d'altra parte è stata proprio

quella separazione, quella presa di coscienza, a produrre il nostro peculiare modo di esplorare l'universo e le sue leggi. Come uscire da questa contraddizione? Hofmann, che associava certi effetti dell'LSD a quelli generati dalla meditazione profonda o dall'esperienza mistica, parlava della "guarigione" come possibilità di «esperire la realtà profonda delle cose che tutto abbraccia, compreso il soggetto che vi partecipa», un «soggetto rinnovato che si sente beatamente fuso con le cose e di conseguenza con le altre creature del mondo, fino a raggiungere il senso della totale unità con l'universo»

La copertina del mese rievoca quell'utopia a lungo rimossa, sconfitta apparentemente dalla storia, ma che in realtà continua a riemergere sotto varie forme, sensibilità, idee, a dimostrazione del fatto che la sua spinta è tutt'altro che esaurita.

L'apertura è riservata a Massimo Zamboni, che amiamo come musicista e come scrittore, ma che è da sempre anche un appassionato osservatore di animali. Il suo Bestiario selvatico è il frutto di ricerche, appostamenti, riflessioni (morali) suggerite da quegli esseri viventi "alieni" che hanno trovato casa da noi, lontano dalla loro terra di origine.

La metafora è evidente, ma non esaurisce l'intelligenza e la poesia con cui Zamboni contempla e scrive, ammirato e anche turbato dall'alterità dell'animale, la sua indifferenza, la strapotenza (frutto dell'essere, in sé e per sé, non dell'illusione di dominio tipicamente umana), l'appartenenza a un'eternità che a noi sfugge. Nessun timore di usare la parola estinzione. Ma anche di appellarsi con orgoglio a un altro modo di vivere e pensare, selvatico, arcaico, a suo modo comunitario, figlio dell'Appennino, dei boschi, del patteggiamento con la natura. Di alieni in senso proprio parla l'astrofisico Giovanni Covone, anche se per ora si tratta solo di microbi o fossili spaziali. La ricerca della vita nel cosmo non è più fantascienza. Non lo è più neanche la ricerca di altre Terre, grazie ad alcuni scienziati (felicemente "svitati") che negli ultimi decenni hanno lavorato controcorrente, mandando all'aria tanti luoghi comuni. La scienza, quella vera - non quella chiacchierata in tv o sponsorizzata da

scientisti dogmatici - funziona così. E Giovanni Covone ce la racconta con la passione di chi la conosce, la pratica e la insegna. Ricordandoci che osservare la vastità dello spazio ci aiuta a ricordarci quanto sia fragile l'equilibrio da cui è nata la Terra. A proposito di rapporto con la natura, grazie a Paola Sini ci immergiamo letteralmente nella terra e nell'acqua, in quel luogo magico che è la Sardegna. La terra delle donne è un film poetico e misterioso sul "femmineo", sulla ricerca della libertà e di quella consapevolezza che ti permette di essere ovunque nel luogo in cui dovresti essere.

Amare la tradizione significa anche saperla tradire nel modo giusto. Ce lo ricorda la musica di Salvio Vassallo e Valentina Gaudini, ovvero Il Tesoro di San Gennaro, che raccoglie l'immensa eredità del passato napoletano e la porta nel futuro. Che poi è quello che fa, in un certo senso, anche Nanni Moretti, con la sua paradossale nostalgia creativa, che reinventa la storia per ribadire ciò che ama da sempre nel cinema e nella vita (Il sol dell'avvenire è stato selezionato a Cannes 76, che presentiamo in un lungo servizio) .

Il finale è dedicato alla "forza gentile degli alberi", che non ha nulla di sentimentale, e si esalta nella sua natura selvaggia, libera, che l'uomo dovrebbe imparare a rispettare e assecondare. Ci guadagneremmo entrambi.

5 MAGGIO 2023 4 MAGGIO 2023
E DITORIALE

Massimo Zamboni

Il bestiario illuminante di un musicista-poeta selvatico

La natura bella e indifferente, l'uomo cieco, il legame con la terra

«Gli animali hanno l'eternità come unità di misura. Il nostro tempo, invece, è finito»
I NCONTRI
di Fabrizio Tassi

«Sono in campagna, devo dar da mangiare agli animali». Massimo Zamboni mi appare con la faccia attraversata dalla luce del sole radente, nel suo angolo d'Appennino. Casa sua. Natura selvatica e natura addomesticata che patteggiano una convivenza mai scontata, giorno dopo giorno. Noi lo conosciamo per i libri, i dischi, le canzoni, per l'Emilia Paranoica e Sorella Sconfitta, ma lui gran parte del suo tempo lo dedica agli animali, nella sua “fattoria”.

Zamboni il musicista-poeta, lo scrittore mai banale, il compositore, l'intellettuale schivo e profondo che non ama apparire (e che sicuramente storcerà il naso nel leggere questo ritratto enfatico, da giornalista-fan).

Vivo ai margini di un bosco, quindi dalla natura mi difendo quotidianamente perché mi vorrebbe sopraffare (...) Se vuoi entrere nella bellezza devi patteggiare con lei la tua possibilità di sopravvivenza

Zamboni, l'anima dei CCCP e dei CSI, che ci piace ridire ogni volta, come per essere sicuri di aver vissuto quell'epopea musicale esaltante, un pezzo formidabile di storia patria (patria internazionalista), che la distanza temporale rende sempre più mitica e aiuta a misurare la vastità del nostro disincanto.

Massimo Zamboni deve dar da mangiare agli animali e quindi non ha molto tempo per le interviste. Ma poi è generoso, come sempre, è un “punk gentile” che si racconta senza dissimulazioni, come fanno gli artisti che vivono di sostanza (storie, idee, anima), non di comunicazione.

«Che cosa ci raccontiamo, Fabrizio?» dice con quella “z” impossibile, che si mimetizza dietro una š sibilata, e quell'intonazione emiliana che porta sempre con sé una gioia di vivere istintiva, immediata, verrebbe da dire “animale”. Ci raccontiamo il suo Bestiario selvatico (edito da La nave di Teseo e illustrato da Stefano Schiaparelli). Perché suscita curiosità – in chi non lo conosce bene – che uno come lui abbia scritto un “libro sugli animali”.

Lui che ha scritto L'eco di uno sparo e La Trionferà (la memoria!), che ha raccontato La macchia mongolica (in Mongolia sono passate tante cose, da Tabula rasa elettrificata alla decisione di fare una figlia con sua moglie Caterina), che ha realizzato dischi come L'inerme è l'imbattibile e La mia patria attuale (album bello e importante, uscito l'anno scorso, dove trovate anche Gli altri e il mare, una canzone dedicata al Mediterraneo che vale più di mille editoriali e dibattiti sul tema).

In realtà, come spiega Massimo nell'introduzione del Bestiario, si parla di «apologhi narrativi – favolette a sfondo morale dove il narratore è osservatore silenzioso dell’esistere, traendone una conclusione». La sua particolarità è che i protagonisti sono animali alloctoni, «arrivati clandestinamente nella penisola italiana nascosti nelle pieghe degli scambi commerciali, in fuga dalle guerre degli uomini, in marcia, in volo, strisciando, nuotando»

Il che provoca un corto circuito metaforico che ci pone tanti interrogativi, soprattutto quando si parla di “invasione” dell'animale straniero, dentro un contesto ideale in cui il confronto con l'altro, «il visitatore occasionale diventato stanziale», diventa un'opportunità per capire meglio chi siamo, come abitiamo, cosa ci illudiamo di essere.

Ma non pensate a chissà quale lezione politica o sociale travestita da etologia, a una sfacciata allegoria antropologica in forma “esopica”. La rana toro e il parrocchetto, la nutria, il pesce siluro e il gamberetto della Louisiana, vengono raccontati per ciò che sono e che fanno, indagati da un osservatore che si apposta con pazienza e curiosità per conoscerli meglio. Ci sono i fenicotteri di Comacchio e la vespa cinese, l'istrice, lo sciacallo e la tartaruga americana che si è stabilita in uno stagno emiliano (abbandonata da quelle parti da chissà chi), ma anche animali di ritorno come la cicogna, il colombaccio e il magnifico castoro, ricomparso dopo 500 anni. Massimo Zamboni li guarda con la passione del naturalista, ma li racconta con la sensibilità del poeta, che va oltre la superficie delle cose, anche solo con una parola che risuona, un'osservazione acuta, una breve riflessione che ironizza su noi esseri umani, convinti di poter controllare ogni cosa, di stabilire chi deve vivere e chi morire, dove, come e quando, facendo finta di non essere irrimediabilmente fragili, pieni di paure e di contraddizioni.

8 MAGGIO 2023
9 MAGGIO 2023
Massimo Zamboni
La vituperata nutria, ritratta da Stefano Schiaparelli, autore delle illustrazioni del libro, riprodotte in queste pagine

Lui parla di “apologhi narrativi”, ma è un'approssimazione per difetto. Ci sono anche incontri buffi, racconti divertiti e giocosi. A volte però sembra di ritrovarsi dentro una sorta di poema, in cui l'osservazione diventa contemplazione, e il bisogno di capire sprofonda nell'indicibile. «Al limite di un paese che poi dirò, la nebbia e il silenzio che salgono assieme al pomeriggio innestano il prodigio della solennità sui prati stabili in fiore. Sciolgono nell’aria un invito alla sottomissione, il richiamo a un ordine che gli uomini non possono controbilanciare. Possono ascoltarlo però, come fossero inginocchiati ai banchi, possono recare offerte concrete – il fieno appeso alle rastrelliere ad asciugare, le poche fattorie sparse come cappelle rurali –, possono intuire ciò che può non essere rivelato. Ma non devono dirlo; luoghi come questo asciugano le parole, le rendono ninnoli senza valore»

Massimo Zamboni è un uomo antico e selvatico. Non aspettatevi da lui ottimismi di maniera o parole di con-

solazione. L'artista indica, provoca, aiuta a guardare la realtà in modo diverso, da una prospettiva obliqua, che a volte illumina le cose di una luce nuova. Anche quando parla di animali. «La loro assolutezza inattingibile ha una percentuale divina, frammento superiore che vorremmo riservato a noi soltanto. Solo con taciuta rassegnazione noi, risibili notai, ci rifugiamo nel farceli assomigliare assimilandoli per i difetti»

Da dove parte questa tua passione per gli animali?

È dall'infanzia che osservo gli animali, che ci vivo in mezzo. Come tutti i ragazzini della mia generazione, andavo in giro per boschi a raccogliere tutto ciò che trovavo, con la borraccia, il coltello, lo zainetto, a raccattar lumache, rane, lucertole, penne, tutto ciò che mi serviva per compormi già un bestiario selvatico in testa.

Era un po' anche un modo, credo, per reagire all'educazione, quella così rigida della scuola, che era poi la scuola degli anni Sessanta del secolo scorso, quella religiosa, quella familiare. Insomma il bosco era il luogo della libertà.

Avevi un suggeritore, qualcuno o qualcosa che ti accompagnava in questa tua scoperta?

A quell'età non hai letture che non siano i fumetti. Ma c'erano i film dei cowboy, grandi spazi naturali senza regole, in cui il più forte vinceva. L'uomo doveva confrontarsi con quella natura imperante, così violenta a volte, e questo mi piaceva. Mi sembrava di uscire di casa, nelle campagne e nelle colline emiliane, e di essere in Amazzonia, nelle grandi distese americane, in Asia, di essere ovunque. Sono cose che rimangono dentro. C'è sempre una specie di rimpianto per quella purezza ingenua originaria. Si cerca sempre di ricostruire quell'appartenenza. Quella cosa non mi ha mai lasciato. Ogni volta che posso guardo gli animali, che siano vivi oppure impagliati, nello zoo, anche nelle condizioni più terribili. Quando li trovi in natura tanto meglio. Però è un'attrazione che non distingue tra l'animale vivo e l'animale morto, o quello sacrificato. Sono belli, nelle loro forme. Non li invidio, io sono un uomo, sono contento di essere tale, però c'è qualcosa che sento di altro e di altero in loro, che mi attrae.

Tu vivi in mezzo alla natura.

Vivo ai margini di un bosco, anzi ho boschi tutto intorno, quindi dalla natura mi difendo quotidianamente, perché mi vorrebbe sopraffare. Io sono un intruso, anche se ci abito da più di trent'anni. Le piante vorrebbero sommergerci la casa. Gli animali vorrebbero tornare a vivere dove ritengono essere casa loro. Quindi c'è questo patteggiamento continuo, di allontanamento e di ritorno quasi quotidiano. È una bella lotta. Quanti milioni e milioni di uomini prima di me l'hanno sperimentata, in modi molto più drammatici.

Stai seguendo il dibattito sull'orsa in Trentino, cosa ne pensi?

È un dibattito che, come tutte le cose, lascia il tempo che trova. I fatti di cronaca non durano più dello spazio di un

attimo. C'è qualcuno che conduce questi dibattiti per noi, ci fa appassionare, poi ci lascia lì senza soluzioni. Quindi non mi interessa più di tanto. Però è chiaro che ci pensi. Mi è capitato di andare a camminare nei parchi degli Stati Uniti e sapere che ci può essere un grizzly dietro ogni cespuglio. E in qualche modo accetti questa possibilità. Se vuoi entrare nella bellezza, devi patteggiare con lei la tua possibilità di sopravvivenza. Anche sull'Appennino non dormi più per terra come facevi da piccolo, quando ti buttavi giù in qualunque posto, sotto una pianta. Sai che potrebbe passare un lupo, è una concreta possibilità. Io ho visto le mie pecore tutte uccise dai lupi. Se fossi stato con loro nella stalla forse avrei fatto la stessa fine. Per cui, ti rendi conto che queste cose esistono, sono storpiature umane anche loro, buttate alla rinfusa in ambienti che non sono più né animali né umani. Anche se poi l'ambiente selvatico si sta espandendo nel nostro paese, si sta impadronendo di tutto quello che non è campagna coltivata o città. E con l'ambiente selvatico si espandono gli animali selvatici.

11 MAGGIO 2023 10 MAGGIO 2023
Massimo Zamboni

Noi abbiamo bisogno di dare un carattere umano agli animali perché sono troppo oltre la nostra possibilità di comprensione.

C'è un'assolutezza inattingibile che ci condanna per cui cerchiamo di riempire questo vuoto

Perché hai scelto di parlare degli animali “clandestini”, alloctoni?

Perché mi piace conoscere il mondo così come sta cambiando, così come arriva. Come quando sono entrate queste nuove nazioni all'interno dell'Europa e ho cercato di visitarle tutte, per farle mie in qualche modo, per scambiarsi una stretta di mano simbolica, e vedere che cosa vuol dire Lituania, Lettonia, Estonia, cosa vuol dire Polonia, Bulgaria, Romania, cosa vuol dire tutto questo che fino all'altro giorno era il nemico, e di colpo diventa qualcosa simile a noi. Andiamolo a conoscere!

Allo stesso modo, che cosa significa accettare la vicinanza di un ibis sacro, uccello estinto nel suo luogo d'origine, l'Egitto dei faraoni. Lì non c'è più, però vive a Mantova, o nel Veneto. Che cosa vuol dire il lupo, la lontra, la lince, lo sciacallo, la cimice asiatica, che cosa sono questi animali che sono milioni e non li vediamo mai. La nostra razza è veramente cieca. Non vede cose che sono evidenti a tutti.

Noi esseri umani più che altro, nel corso della storia, abbiamo guardato all'utilità degli animali: cibo, pelli, forza lavoro. Oggi invece siamo plagiati da una visione quasi disneyana dell'animale, che finisce per tradirlo, umanizzandolo. All'opposto viene in mente ciò che dice Werner Herzog in GrizzlyMan, quando guarda gli occhi dell'orso e vede un vuoto spaventoso, indifferente.

È così. Vede il vuoto perché l'animale non ha l'intelligenza degli uomini. Ha una sua intelligenza che probabilmente non conosceremo mai, ma è un'altra cosa. È questo vuoto che fa paura. Noi abbiamo sempre umanizzato gli animali, pensa a Esopo, a Fedro, l'animale serviva per evidenziare i vizi degli uomini e le loro cadute. Noi dobbiamo dare un carattere umano agli animali perché sono troppo oltre la nostra possibilità di comprensione. E quindi sentiamo di doverli abbassare a qualcosa che sia al nostro livello. C'è un'assolutezza inattingibile che ci condanna per cui cerchiamo di riempire questo vuoto, con la loro bellezza, la loro agilità, invidiando la loro capacità di sopravvivenza in territori dove noi moriremmo immediatamente. Però la cosa che più colpisce è questa indifferenza, il fatto che tu li guardi e loro invece no. Certo, ti vedono, devono fare i conti con noi, anche perché in buona parte li stiamo estinguendo, ma è un conto indifferente. La figliolata di uno sciacallo è sempre uguale alla coppia di genitori. Noi abbiamo un'individualità che si estingue con ognuno di noi, loro invece si replicano continuamente, hanno l'eternità come metodo di misura del tempo, noi abbiamo 70, 80, 90 anni nel casi più fortunati. Quindi loro sono più forti, confidano in questa eternità da cui noi ci siamo esclusi. Non abbiamo altre possibilità se non arrenderci e cercare un patteggiamento, finché ci viene concesso. Perché ad un certo punto non ci verrà più concesso. Credo che dovremmo accelerare questo processo di amicizia.

Però, allo stesso tempo, esiste anche un senso di interconnessione tra noi e loro, tra tutte le cose, e quindi la necessità di comprendersi. C'è una specie di comunicazione, a un livello più profondo rispetto a quello delle parole. Tu evochi un “ordine” che è quasi una cosa sacra, spirituale, che puoi sentire ma non dire.

Noi in qualche modo cerchiamo sempre di ricostruire il paradiso perduto. In ognuno di noi. È un'ambizione, un punto di arrivo che non vogliamo neanche confessarci, perché è al di là delle confessioni, è aconfessionale, è un'appartenenza antichissima. Gli animali entrano in questo ordine paradisiaco.

Quando li vediamo nel loro ambiente, e noi entriamo in quell'ambiente, c'è qualcosa che si riallinea, e noi ci sentiamo creature, perché la nostra parte naturale si esprime attraverso l'idea di essere creature. Ma torniamo ad essere creature davvero soltanto con la morte, perché lì la storia se ne va da noi, è come un velo che cade, la com-

petizione, il lavoro, l'intelligenza, la cultura sono tutti residui che se ne vanno insieme a ciò che noi siamo come essenza. Rimane questo corpo, che in quel momento sì che è simile ai corpi naturali. In questo sta il nostro splendore e la nostra bassezza.

Nel Bestiario ci sono anche informazioni e curiosità che nascono dalla tua osservazione. Ma la prosa è quella del musicista, è un canto.

Voglio che sia così, anche perché se parli di natura devi cantarla. Mi rendo conto che è una specie di inno. C'è anche l'anima del naturalista, c'è lo zoologo, l'appassionato di queste cose, ma alla fine i libri si scrivono con le parole e le parole devono suonare, al di là del loro significato. Poi il significato arriva, ma prima arriva il suono, che porta con sé tutto quello che vuoi dire veramente. Il significato è un po' arido, di per sé. Rinchiudere il libro in una sinossi, in un riassunto, è un esercizio che va bene per i cataloghi. Bestiario aspira ad altro.

13 MAGGIO 2023 12 MAGGIO 2023
(foto Marco Minniti)
Massimo Zamboni

Perché lo hai scritto proprio in questo momento?

Io ho sempre cinque o sei libri aperti e altrettanti ne ho in testa. Ogni tanto qualcuno prende il sopravvento, si infila lì dove gli altri si arrestano per un momento e richiede una fine. Poi ci sono libri impegnativi come La trionferà o L'eco di uno sparo che ti chiedono quattro anni nel primo caso e otto-nove anni nel secondo. Libri come il Bestiario invece sono un po' più semplici. Quando hai finito la complessità di La trionferà hai voglia di un attimo di respiro, di uscire da quelle storie, che sono importantissime per me, che racconterei di continuo, ma mi rendo conto che il mondo non finisce lì. Ci sono anche gli animali, c'è troppo altro mondo che mi chiede di essere raccontato.

Non abbiamo più tempo. Il nostro tempo è terminato, quegli animali sono più forti, più legittimi, più indifferenti alle estinzioni. Ci lamentiamo per il gran caldo dell'anno scorso, ma in realtà è stata la stagione più fresca dei prossimi cento anni

Tu parli apertamente di racconti morali. Se c'è una morale che mi sembra emerga molto chiaramente è che dovremmo smettere di pensarci come specie eletta.

Non so se è una morale o solo un'accettazione un po' supina, subalterna. Certo è che quando ti ritrovi, come mi è capitato, in un grande prato allagato, nei pressi di Reggio Emilia, dove un migliaio di uccelli esotici, letteralmente, stanno lì a banchettare in mezzo a quell'acqua, dove affiorano i topolini, le larve, le lumache, e non ti degnano di uno sguardo... Poi vedo gli altri esseri della mia razza che passano in auto e non li guardano e non si rendono conto. Allora ti viene da pensare che la morale è questa: non abbiamo più tempo. Il nostro tempo è terminato, non c'è bisogno di noi, quegli animali sono

più forti, più legittimi, più indifferenti alle estinzioni. Noi, lo dico nel libro, siamo qua che ci lamentiamo per il gran caldo dell'anno scorso, ma in realtà è stata la stagione più fresca dei prossimi cent'anni. Non abbiamo possibilità concrete, e quelle che arriveranno sono solo tecnologiche, scientifiche, sono queste semisfere sotto cui dovremo vivere in piccoli paradisi confinati. Ma questo non è futuro.

Però sembra che ci sia una nuova consapevolezza diffusa, soprattutto tra i più giovani, un senso ritrovato del rapporto con la terra, della necessità di ripensare il nostro modo di produrre e consumare. Questo non è un nuovo modo di portare avanti una vecchia lotta, con i suoi risvolti sociali?

Se dovessimo badare alle percentuali, potremmo sotterrarci immediatamente. Credo che il 99,9% della popolazione umana sia totalmente indifferente a questo. In realtà c'è un animo più profondo che ci spingerebbe verso quella direzione. Ma credo che ci sia proprio un problema di guida, di gestione, del nostro pianeta, che ci illude, ci fa pensare a soluzioni che non sono realistiche. Oggi leggevo un articolo sulle nuove proiezioni di città future. Oltre ad augurarmi di morire presto, perché io non potrei vivere in una città del genere - forzatamente ho giù una buona età e non le vedrò, non mangerò carne sintetica, non mi appartiene, voglio estinguermi con il mio secolo, perché mi sembra la cosa più sana - poi arrivo in mezzo a questo Appennino e dico: ma di che cosa stanno parlando? Perché questa è l'unica possibilità di vita che abbiamo, noi e tutti gli altri sette miliardi. È questo che bisogna seguire. E quindi ti chiedi chi è che sta organizzando questo gioco. Quelle poche centinaia di persone che hanno le redini di tutto continuano a venderci la loro propaganda e a farcela pensare nostra. Io sono indifferente a tutto, non leggo i giornali, non voglio sapere niente, non conosco nessuno, ed è l'unica modalità di sopravvivenza che ho. Sono un animale selvatico, ed è in questa selvaticità che risiede la mia possibilità. Io sono legittimo qua, questo è il mio territorio, ho le mie regole.

Se devo pensare a una risposta possibile alle domande, mute e sorde, che ci rimbombano nella testa in questi anni, mi viene in mente il tuo ultimo disco, La mia patria attuale.

Qui si parla (si canta) di quelli che continuano a crederci e provarci, e lavorano, studiano, costruiscono instancabilmente, anche se difficilmente vanno in tv o perdono tempo sui social.

Ce ne sono tante di queste persone. Facendo il musicista e lo scrittore sai quante ne incontri? Persone che ho voglia di incontrare, che sento simili, che hanno un'idea di paesaggio, di vita, di futuro, ed è una cosa bellissima. Poi io so che il mondo non è quello. Anzi, il mondo è quello, ma in realtà c'è una moltitudine che vuole esattamente il contrario, molto arrogante, molto violenta, indipendentemente dalle fasce politiche di appartenenza, anche se contano anche quelle. C'è una moltitudine che non chiede di meglio che primeggiare. Ma è un primeggiare totalmente inutile, non serve a nulla. La creatura finale che siamo non cambierà per i nostri averi o la nostra voglia di dominare.

Leggendo certe pagine del Bestiario mi sono venuti in mente i cavalli di Giovanni Lindo Ferretti, il luogo in cui vive, la vostra sensibilità così simi-

le. Ho pensato anche al fatto che questo libro esce in un momento in cui vi siete ritrovati in qualche modo, dopo tanti anni.

Io e Giovanni siamo due persone arcaiche. Lui lo pensa di sé, probabilmente non lo pensa di me, perché è distratto, non mi frequenta abbastanza.

In realtà io mi rendo conto dell'arcaismo che mi governa, dell'amore assoluto che ho per le genealogie, per il sangue, per tutto ciò che sarà prima di me e dopo di me. C'è lo stesso legame con la terra, che magari non è mediato dalla religione in maniera così confessionale, ma questo è indifferente, ci sono dei cicli che sono molto al di là di questo.

Non sono stupito di questa somiglianza. Siamo generati dallo stesso mondo, i miei avi vengono da montagne ancora più alte di quelle di Giovanni. So da dove vengo e sono ben felice di venire da lì.

15 MAGGIO 2023 14 MAGGIO 2023
Massimo Zamboni

PAOLA SINI

Una forza della natura prestata al cinema. L'attrice e produttrice si fa strega per "La

Fidela è una strega. Così vuole la tradizione. La settima figlia femmina è destinata a diventare una “coga”. Non potrà avere una vita normale, non si sposerà e non avrà figli. Ma Fidela è una forza della natura, letteralmente, e ha una misteriosa vita interiore. La condanna sociale, l'oppressione morale, esaltano la sua indole, la sua selvatica personalità. E noi, grazie a Fidela, riusciamo a vedere e sentire, mangiamo la terra, ci immergiamo nell'acqua, percepiamo il respiro della natura. Siamo alberi e aria. Riscopriamo che le regole dell'uomo sono solo un accidente, figlie di un certo tempo e luogo. Che la verità, se c'è, sta da un'altra parte, forse nel “femmineo”, nella sua capacità di aprirsi alla vita (al cosmo) e svelare le contraddizioni dell'uomo, il suo contatto con ciò che c'è di più profondo.

Siamo in una Sardegna magica e rude, bellissima e spietata, negli anni della Seconda Guerra mondiale. Una società che è insieme misogina e matriarcale, fondata sulla donna, la sua forza primigenia e la sua negazione, il timore (sacro?) che suscita il suo legame con la terra, la sua connessione con l'energia del tutto.

La terra della donne è un racconto corale. C'è la strega, che guarisce, toglie fatture e aiuta le donne a partorire, e c'è sua sorella, che vorrebbe diventare madre, ma non ci riesce. Poi c'è una bambina rifiutata, settima figlia pure lei, affidata da un prete maldestro alla coga Fidela. Ma ci sono anche un giovane inglese tormentato, che vive nel ricordo della madre, e un padre strambo e gentile, che veglia sulla figlia senza rivelarsi. Tutto questo tra le cascate di Sadali e le coste di Capo Caccia, tra grotte e pozzi sacri, boschi fitti e case fatte di pietra. La regia di Marisa Vallone tratta la natura come fosse un personaggio e si prende tutto il tempo per farcela sentire viva (di una vita anche nascosta, invisibile ai più), perché non sia solo paesaggio, ma esperienza sensoriale, per certi versi anche spirituale, disegnando gesti e corpi come fossero colori tra i colori, forme che a volte spiccano come in rilievo o che sfumano sullo sfondo. Ma ci sono anche la supervisione artistica di Michael Hoffman e un cast vario e internazionale, ognuno con la sua lingua e il suo stile di recitazione, da Valentina Lodovini ad Alessandro Haber, da Freddie Fox ad Hal Yamanouchi, da Jan Bijvoet a Syama Rayner. Soprattutto c'è Paola Sini, produttrice, sceneggiatrice e protagonista del film, nato con lei, dentro di lei («Questo film è la mia più grande autobiografia»). Paola Sini è Fidela e Fidela è Paola Sini. Lo è al di là della performance cinematografica (che le ha garantito anche il premio con miglior attrice al Bifest 2023). Per un fatto che potremmo definire magico. Basta parlare con lei per rendersene conto. È una questione di personalità (forte), di magnetismo, di connessione con qualcosa che alimenta la sua creatività e la sua forza di volontà.

17 MAGGIO 2023
I NCONTRI
terra delle donne". In una Sardegna magica e rude

Perché poi è di questo che parla La terra delle donne, del coraggio di andare per la propria strada, fino in fondo, fregandosene dei pregiudizi e delle consuetudini. Solo trovando la propria libertà si può capire quanto sia importante una comunità, una terra come la Sardegna, e attingere alla forza di quelle radici.

Prima di parlare del film, parliamo un po' di te. Della tua vocazione.

Io nasco in Sardegna. In completo conflitto con quella che è la sardità tipica, quindi con il desiderio di essere altro da me. Sono la classica bambina che ha l'amico immaginario. Io non avevo l'amico immaginario ma ero convinta di saper volare. E ho avuto una mamma fantastica che non mi ha mai fatto sentire inadeguata, anche rispetto a quello che gli altri si aspettavano da me. Ero una bambina molesta, iperattiva, molto brillante. Esageratamente energica. Quindi per stancarmi mia madre mi ha iscritto all'Alliance Française, dove ho cominciato a fare teatro. Lì ho capito quanto era bello spogliarmi un po' del mio piccolo bagaglio e poterlo inserire nella vita di qualcun altro per dargli un colore. Era una sintesi meravigliosa. Se tu mi chiedi se abbia avuto un piano B nella vita, io ti rispondo: mai! Anche perché credo che questo lavoro si possa fare solo se non hai un piano B.

Una vocazione che non lascia scelta. A cui puoi solo acconsentire.

Non ho mai avuto un piano B nella vita. Anche perché questo lavoro lo fai solo se non hai un piano B

Assolutamente. Ho cominciato presto. La mia formazione è lecoquiana, quindi quello che mi interessa è riempire un neutro. Si tratta di spogliarsi delle proprie zone di comfort. Ho frequentato la Scuola di teatro Galante Garrone a Bologna. Ricordo molto bene un interessantissimo esercizio: segui una persona sconosciuta fino a casa e osservala in tutto e per tutto; il giorno dopo ci si riempiva dell'osservazione dell'altro, a favore del personaggio. È questo che fondamentalmente mi ha spinto a fare l'attrice, anche perché io mi sono sempre sentita estremamente “pesante”. Sentivo il peso di un portato per cui o sei bellina o sei intelligente, o sei questo o sei altro. Percepivo profondamente questa gabbia. Tanto che Fidela è una donna estremamente coperta, non supportata dalle zone di comfort che abbiamo adesso, sotto forma di status sociale.

Poi hai lavorato molto sulla voce.

Ho studiato con Matteo Belli, ho approfondito i risonatori vocali. Anche perché io ho questa voce particolare. Una voce che non è educata, che è così da sempre. Immagina quanto spesso mi sia sentita in imbarazzo a dire la mia davanti a tante persone.

Ma è una bella voce, potente. La voce manifesta la personalità.

Certo, però questa cosa la cogli solo nel tempo.

Il tuo bagaglio artistico è fatto di tante cose. C'è anche una laurea al Dams.

Ho fatto la conduttrice televisiva, ho presentato live, sono “voice talent”, ho fatto tantissimo teatro e anche cinema. È stata davvero una catarsi verso quelle che erano le mie zone d'ombra e che sono diventate i miei punti di forza. Poi c'è stata una crasi, da un punto di vista artistico. Ho preso una laurea per sublimare le mie frustrazioni d'attesa. Quando entri in un certo meccanismo, un pochino più ampio, ti rendi conto che il tuo physique du rôle arriva prima di quelli che sono i tuoi sogni, la tua preparazione. Mi arrivavano sempre proposte molto caratterizzate da un qualcosa che era apparenza più che essere. A un certo punto sono arrivata a una crisi tale in cui mi sono detta: o cambio tutto, e quindi cambio lavoro, oppure cerco una sublimazione. E per me la sublimazione perfetta era la produzione. Quindi trasformare la parola scritta, che io riesco a immaginare, in parola reale. Infatti sono anche la produttrice di questo film.

Quindi l'università non era solo la voglia di dare un corpo intellettuale e teorico a ciò che facevi.

Secondo me tutti gli attori dovrebbero capire quanta energia, quale sforzo c'è dietro un film, di qualsiasi caratura. Molto spesso invece il divismo, che distrugge in realtà il senso attoriale vero, fa dimenticare agli artisti che è una fortuna essere all'apice di una grande montagna, che è piena di dolore e fatica, soprattutto in Italia. Da noi c'è una rosa attoriale di un certo tipo, molto coccolata e vezzeggiata, il che fa dimenticare gli esordi, le radici.

19 MAGGIO 2023 18 MAGGIO 2023
PAOLA
(foto di Ivana Noto)
SINI

Mentre invece quando fai produzione, rimani sempre aderente al senso del sé. Per me, anche a livello attoriale, rispettare il runner piuttosto che l'ultimo dei giornalieri di costume è doveroso, è qualcosa che ti riporta sempre al senso del cammino, a quando arrivavi al primo provino e ti accorgevi che la tua dizione tentennava ancora. In realtà non si arriva mai. La produzione ti insegna l'umiltà di non dare niente per scontato. Che credo sia la base di qualsiasi lavoro artistico, soprattutto quello attoriale.

Avevi dei punti di riferimento, attrici che amavi in modo particolare?

Eleonora Duse. Quel modo assolutamente libero di gestire i suoi vizi che sono diventati poi le sue meraviglie. Non ho mai amato l'attorialità di repertorio, per quanto l'abbia studiata, perché è un po' come definire l'amore con un legame, una cosa completamente ossimorica. Quel qualcosa che ti permette di essere altro da te nella libertà, finalmente, di spogliarti di una gabbia per creare qualcos'altro, diventa un “devi metterti qua, devi fare questo, devi fare quest'altro” No! Lo dico pur avendo amato molto la partitura prosodica di Matteo Belli, che giustamente dice: qualsiasi cosa ti capiti nella vita, quando sei davanti alla tua platea, tu devi essere quello, non ti puoi portare dietro le tue emozioni, i tuoi fastidi personali. Ogni lettera, ogni fonema ha un suo peso. Però il loro peso emotivo è poi quello che viviamo ogni giorno con noi stessi.

Tra teatro, cinema e tv, quale senti come tuo mondo per eccellenza?

Per me la cosa più importante è la comunicazione, che sia una comunicazione morale, un advertising o un concetto integrativo, universale, come il femmineo. Io ho sempre detto di non voler lavorare per forza. Lavoro quando il senso che c'è dietro una proposta attiva in me quel meccanismo che mi permette di dare il massimo. E questo può avvenire in tante cose diverse. Può avvenire anche se faccio una torta con gli ingredienti giusti. Io adoro il teatro povero, non sono mai stata attratta dai grandi fasti di costume o i meccanismi di trucco e parrucco. Per me il teatro è fruibile ad occhi chiusi. Vengo da una formazione vocale, quindi Demetrio Stratos, Carmelo Bene, l'elenco del telefono trasformato in grammelot emotivo. Less is more. Quando sei ricco dentro, meglio le piccole cose. Infatti il film è poco verboso, è fatto tanto di sguardi, momenti, emozioni.

Ci sono cose di cui sei particolarmente orgogliosa, tra quelle che hai realizzato nella tua carriera?

Ho fatto tantissime cose. Ma credo che quella più bella sia stato l'esordio, i lavori con Matteo Belli, quelli più selettivi, in cui sai che dall'altra parte c'è una scelta ponderata. Ma mi sono anche divertita molto in televisione. L'altra faccia del mio lavoro, quella che ti permette di avere un occhio esterno rispetto a quello che stai facendo internamente. Io non ho mai creduto alla possibilità quasi psicotica di arrivare a sentirsi un cinghiale bianco! Non ti senti mai un cinghiale bianco, però puoi mimare la fame con una sensazione emotiva, come può essere il vuoto d'amore. Il teatro mi ha permesso di fare questo lavoro molto di più rispetto al cinema.

Un ruolo molto bello è stato quello di Damarete per la regia di Gianni Virgadaula, perché era un regina, con un archetipo enorme. Ma nel caso de La terra della donne si parla di sette anni di lavoro più due di post-produzione. È il mio quarto atto jodorowskiano (io sono estremamente olistica).

Nove anni sono un bel pezzo di vita.

Ho fatto tante altre cose nel frattempo, ma questo è davvero un figlio. C'è stato il Covid, Marisa Vallone, la regista, è diventata madre, sono successe varie cose. Questo è il mio atto di libertà, da un sacco di cose. E penso che si veda.

Si vede di sicuro che non è cinema di consumo, fatto tanto per farlo, come succede spesso alle piccole produzioni italiane.

Che è poi il motivo per il quale io sono andata in crisi. Fuori dalle Alpi chi conosce i nostri attori, chi può capire le nostre commedie sottotitolate? Infatti l'assetto produttivo di questo film è una cross production internazionale. È stato venduto in diversi paesi già prima che uscisse in Italia (in Italia la distribuzione nelle sale è cominciata il 27 aprile, ndr)

Qual è l'idea da cui sei partita?

Io a 17 anni sono andata via dalla Sardegna e non c'è stato un solo momento durante la mia formazione in cui non mi hanno detto: quanto si vede che sei sarda! Quella centratura di palco, quel modo di fare, oltre alla dizione - mamma mia, ripulirla è stata un incubo! (ma ce l'ha fatta benissimo, ndr). Questa cosa che inizialmente mi stressava da morire, perché mi sentivo l'isola nella mia isola - non solo era difficile la cosa in sé, ma dovevo anche combattere con questa roba - in realtà poi è stata una forza, che mi ha permesso di sopportare nove anni di porte in faccia, di bandi fatti tre volte, di situazioni assurde. Se non fossi stata sarda probabilmente il film non sarebbe mai nato. Ci metto anche la non promiscuità, il dire di no con il sorriso. Quello che si racconta di questo settore lo sappiamo tutti, il problema è non avere paura di negarsi, anche se basterebbe un sorriso in più “per”. Essere aderenti a noi stessi, questo me l'ha insegnato la mia sardità.

21 MAGGIO 2023 20 MAGGIO 2023
PAOLA SINI
Non possiamo decidere dove nascere.
Ciò che possiamo fare è trovare la nostra consapevolezza, libertà, identità interiore

Quando mi sono presa la responsabilità produttiva del film, la cosa che più mi premeva era rientrare in quelle dinamiche dalle quali ero fuggita, la sardità, la centratura, la matriarcalità che viene dagli elementi, non solo dall'educazione, da quello che ti circonda, i rumori potenti, la natura imperante, qualcosa che ti mette sempre al tuo posto, che ti ricorda che sei amalgamata a tutto e non detieni il potere di niente. Dovevo dirlo, dovevo raccontarlo.

In effetti una delle cose più affascinanti del film è il modo in cui la natura dialoga letteralmente coi personaggi. Per non parlare della scena d'amore tra Fidela e gli elementi. Nella nostra (per molti versi giusta) ansia di civilizzarci, abbiamo perso il sacro della natura, un certo modo di stare nel mondo.

Assolutamente. A me fa sorridere sempre questa cosa: se noi dentro casa avessimo una telecamera, quando ci svegliamo incazzati, arruffati, le dita nel naso, il foruncolo da schiacciare... Quanto siamo noi e quanto invece siamo schiavi di un mondo che è quello che diventiamo appena apriamo la porta? Io spesso mi guardo e dico: porto i tacchi, ma chi dice che devo portarli? Ti devi vestire così, ma perché? Perché siamo il frutto di quei famosi “occhi appuntiti” che condannano Fidela dalla nascita. Bisogna raccontare questo disagio, che poi noi trasformiamo in zone di comfort. Il film racconta la storia di una condanna. Penso alle ragazzine di oggi, tutte omologate, che hanno il problema di avere una particolarità per cui non assomigliano a ciò che sembra essere l'unica immagine permessa in questo momento. Quanto è pericoloso tutto questo! E paradossalmente più assomigli a quell'idea disformica di ciò che dovrebbe essere, più hai una tua distorta consapevolezza che non sei tu. Per me questo film era un urlo. Io non sono madre, quindi ho trattato questo progetto come fosse un figlio a cui tu racconti anno per anno le tue consapevolezze. Ci sono state 72 revisioni: significa che tante cose sono cambiate.

Non ci sono giudizi o messaggi, ma un tentativo di comunicare la complessità. Ad esempio sul tema della maternità, che a volte è gioiosa, insperata, e a volte è una condanna, un'ossessione.

Perché in realtà il tema del film non è la maternità, ma l'ossessione di essere ciò che gli altri vogliono da noi. Bisogna lasciarsi andare a quelle che sono le possibilità della vita. Penso al mio percorso, che è fondamentalmente spirituale, di crescita interiore: appena molli le zavorre, sapendo che hai 24 ore per realizzare il mondo, e tutti i giorni ti svegli con questa consapevolezza, succede qualcosa. Io la mattina, nei miei dieci minuti di meditazione, penso che sto respirando, nonostante la nottata, il mio corpo si sveglia e mi permette di avere altre 24 ore per fare qualcosa di buono. Ma a chi devo essere grata se non a me stessa e al mio “tempio”? Ecco, la storia di Fidela è questa. È colei che a un certo punto davanti all'ossimoro di ricevere ciò che non poteva sopportare a livello cognitivo, si apre alla vita. E lì arriva tutto, anche una violenza e un momento di accoglimento, deflagrante, un punto di rottura assoluto con quella che era la sua vita, le sue convinzioni. In quel momento si apre una possibilità. Nessuno vuole dire che “certe cose devono succedere”, ma Fidela aveva bisogno di superare le sue zone buie. Un viaggio tra i mostri interiori.

Affascinante e inquietante la tradizione della settima figlia. Il 7 poi è un numero sacro.

Io ci ho messo 7 anni a fare il film, sono settimina, nata al settimo mese, il numero 7 torna spesso nella mia vita.

23 MARZO 2023 22 MAGGIO 2023
Alena Ettea
PAOLA SINI

Come hai scoperto questa tradizione?

Leggendo un libro di antropologia sulla figura della donna sarda. Sono rimasta sconvolta non solo dal matriarcato, ma da questa “accudenza” di tutte le fasi della vita che, nonostante io abbia viaggiato e mi sia confrontata con diverse situazioni, non ho trovato da nessun'altra parte. La donna sarda non parla, ma trema la terra. Lei in realtà non subisce proprio niente, non ha bisogno di parole, orpelli, non ha bisogno di squittire. Questo mi ha fatto capire che ciò che dovevo cercare era una storia che parlasse di vizi e virtù incastonandole in archetipi.

Il magico sembra reale. Ma potrebbe essere anche solo il modo di guardare la realtà di Fidela, una suggestione che cambia la percezione delle cose.

Tutti noi abbiamo una sfera magica di manipolazioni, fin da quando nasciamo. Il bambino manipola da quando inizia a piangere. Ottiene delle cose con degli escamotage. Fidela ha una sua connessione con la natura, ma è la stessa natura che dà a qualsiasi essere umano. È il primo bagno al mare al tramonto, che ti fa dimenticare l'agenzia delle entrate. Il potere del ritorno al grembo materno, agli elementi, la protezione che ti accoglie... Io sono un essere assolutamente acquatico. A Sa Stiddiosa l’acqua era praticamente ghiacciata, a 800 metri sottoterra, e nessuno si chiedeva come potessi stare in quell’acqua per 40-45 minuti. Dici che questo non è magico? In qualche maniera lo è. Soprattutto perché i microfoni non si sono rotti.

La Sardegna del tuo film è un luogo magico, che permette di stare a contatto con gli elementi, in cui puoi trovare qualcosa che si è perso altrove. Ma è anche claustrofobica, opprimente, da un punto di vista sociale e psicologico. Come si esce da questa contraddizione?

Non possiamo decidere dove nascere e in quale condizione, Occidente, Oriente, Africa o Roma. Quello che possiamo fare è trovare la nostra consapevolezza, libertà, identità interiore. A quel punto ciò che ti culla e che ti può sembrare gabbia diventa un'opportunità. Non è un cliché di racconto. Anche quando stai soffrendo per amore e ti sembra che niente abbia senso, e sei al centro di Roma, quel dolore è cosmico. L'amore non è connaturato a dove nasci ma a chi ti ama, ed è capace di vivere dove vuole. Questo è. Noi possiamo essere disperatamente soli in mezzo alla gente e disperatamente ricchi in un eremo su un monte.

Volevo escludere per le due protagoniste il concetto dell'isola nell'isola, degli occhi appuntiti, del microsistema che non ti dà possibilità. Esistono più depressi a Roma che in Sardegna. Il principio della longevità sarda è questa, la convivialità, il gruppo che ti sostiene, che può essere un punto di forza, non una gabbia. Se hai la forza di andare fuori, la Sardegna ti sostiene, ti sostengono le cose con cui sei cresciuto, la forte identità.

Il film si apre con i mamuthones, che poi tornano in altri momenti decisivi del film.

I mamuthones sono maschere carnevalesche. Sono esseri che venerano gli animali, che proteggono gli spiriti, le anime. Bestie con dentro degli uomini. Anzi per me sono il simbolo della bestialità, il lato oscuro dell'uomo. Viaggiano sempre in gruppo, guidati da una maschera rossa, l’issohadore. Ma ti avvertono anche del pericolo. Sono anche meravigliose figure protettive. Quando li vediamo prima della nascita di Fidela, è perché sta nascendo la strega. Ho voluto incastonarli in momenti tra il sacro e il profano. La nascita è qualcosa di sacro, siamo alla mezzanotte di Natale, ma nasce Fidela e le vecchie anziché andare in chiesa spettegolano. Che cosa c'è di veramente sacro in noi?

Il personaggio di Haber, don Marcello, parla di questo. Io adoravo andare a messa da piccola perché guardavo, con occhi ingenui, il bigottismo delle signore che stavano a osservare come era vestita quella e che borsa aveva quell'altra. È la nostra contraddizione vivente. Don Marcello è questo. Lui non ha vocazione, ma sente una specie di investitura.

Poi c'è quel canto meraviglioso e antichissimo. Anche qui, un conto è il folclore per turisti, un altro è la tradizione nella sua essenza.

Quelli dei tenores sono canti popolari agro-pastorali, tesi a imitare le voci della natura, per trovare un contatto con le entità spirituali presenti in tutte le cose. Nel nostro caso si tratta di un canto funebre, che non ho voluto sottotitolare, perché è fondamentale il suono (un suono polifonico, fatto di sette corde vocali, con cinque risuonatori). Abbiamo pensato al richiamo degli animali, che usano i suoni per comunicare pericolo a distanza. Quindi, alla morte di Gavina, i tenores cantano per comunicare la perdita ai paesi vicini, per far confluire tutti a casa della morta, accompagnando il viaggio dell’anima, prima della messa. Sono piccole cose che, chi non conosce l'antropologia, può prendere e sentire come vuole.

PAOLA SINI

Gli attori li hai scelti personalmente, con la casting director Sonia Broccatelli. Un gruppo di interpreti molto variegato.

Per quanto riguarda Valentina Lodovini, cercavamo un’attrice capace di trasformarsi nel cliché dell'incrostazione. La “continentalità”. Quando tornavo dall'università, incontravo amiche che erano andate a studiare a Milano e parlavano mezzo sardo e mezzo milanese. Il personaggio di Valentina è quella voglia di “far credere”, quando torni al paese con le scarpe fucsia, e devi mostrare per forza che qualcosa è cambiato. Lei è la maschera di un'ossessione, manifesta una sardità che non comprende, in un'escalation di follia, interpretata magistralmente.

Con Freddie Fox, che è un accademico londinese perfetto, un attore straordinario abituato alla partitura d'ambiente, ho recuperato l'improvvisazione di Lecoq sul primo appuntamento, quella naturalezza, quei cassetti che si aprono al momento giusto. Il suo personaggio ha la psicosi del rientrare nel grembo materno. Con quanto coraggio un attore come lui ha accettato un ruolo così difficile!

Mi ha aiutato l'universo. Abbiamo avuto falene dappertutto nel campo base. Abbiamo visto arcobaleni verticali in ogni dove

Abbiamo fatto un lavoro pazzesco sulla scena, ponendoci dei piccoli obiettivi, uno dietro l'altro, è stato meraviglioso. Alla fine delle riprese mi ha scritto una lettera commovente.

Poi c'è Jan Bijvoet, Thomas, l'archetipo del padre, quel qualcosa che ti condanna da bambina. Noi cerchiamo sempre questa idea, il paterno perfetto, che però è funzionale al personaggio di Bastiana (Syama Rayner), grazie al contraltare di Fidela. Thomas è il concetto della meraviglia, dell'entusiasmo, dell'abnegazione, dell'amore puro, quello che ti frega nell'attesa del principe azzurro sul cavallo bianco, che non arriva mai!

Il film è insieme visionario e narrativo. Come hai lavorato con Marisa Vallone, la regista?

Abbiamo costruito uno storyboard non dettagliato ma a macro-concetti emotivi: ogni scena ha una sua emozione, porta un tassello emotivo nella costruzione della rosa dei personaggi. Che ci sia lo slow motion o un certo ritmo, in ogni scena c'è un senso che viene colpito. Era importante che si seguisse un flusso, trattandosi di un film corale. Io sono la protagonista, ma non sarei nulla senza di loro. Fondamentale è stato il lavoro del montatore, il bravissimo Francesco Garrone, con la sua visione magmatica: avevamo 8 ore di girato, ma abbiamo sublimato tutto; ci siamo affidate, io da madre e Marisa da madre adottiva.

Da produttrice non ti fa paura il periodo che stiamo vivendo?

No. Ho lavorato per tante società in cui ho fatto amministrativa e problem solving. Si tratta di un film estremamente istituzionale, che ha vinto tutti i bandi, con un venditore internazionale che l'ha piazzato bene in paesi importanti, con la collaborazione molto generosa di Rai Cinema, che ha amato molto il film. Abbiamo anche creato un sito internet interattivo e una campagna premio. C'è grande attesa. E c'è anche il mio pubblico televisivo.

Diciamolo al tuo pubblico, e anche a tutti gli altri, che la tua performance è straordinaria. La produzione è importante, ma poi è l'arte che colpisce ed emoziona.

A me questa cosa fa sorridere. Perché in realtà il dubbio di tutti era proprio questo. Come se io cercassi una qualche rivalsa attoriale. Come se fossi così matta da potermi distruggere consapevolmente a livello produttivo, senza avere coscienza di ciò che stavo facendo. Alla fine è stata una bella sorpresa per tutti.

È evidente che Fidela sei tu e non potevi che essere tu. Un'incarnazione.

Ma non ero “in psicosi”. Mentre giravo, facevo anche i bonifici alle 3 di notte. La mattina ascoltavo le beghe di tutti, mentre mi sistemavano i capelli.... Mi ha aiutato l'universo. Abbiamo avuto falene dappertutto nel campo base, di giorno e di notte. Abbiamo visto arcobaleni verticali in ogni dove. Ovunque andassimo, in mezzo ai campi, c'erano le donnole, simbolo di fertilità. Uscivo dal camper e dicevo: sono supportata, qualsiasi cosa succeda. Sono stata sempre aderente alle mie emozioni e attenta a quello che sentivo nel qui e ora. Dopo sette anni avevo voglia di “lasciar andare”. (f.t.)

27 MAGGIO 2023
PAOLA SINI

Il Tesoro di San Gennaro

Napoli

“Compagni nella vita e nell'arte” è una di quelle espressioni che lasciano sempre un po' così, tra l'incredulo e il perplesso. Ma come fanno? Sono compagni nella vita che si danno una mano nel lavoro (artistico)? Oppure artisti che hanno pensato di dividere i costi?

Poi incontri Salvio e Valentina, e capisci che la coppia d'arte e d'amore non solo è possibile, ma anche auspicabile. È un concentrato di creatività, con sentimento e simpatia (anche auto-ironia). Un modo per arricchirsi e completarsi, per trovare un equilibrio che ti permette di stare con i piedi per terra (la spesa da fare, i figli da aiutare) mentre crei e sperimenti in totale libertà, in mare aperto (d'altra parte siamo a Napoli).

Così si trova il coraggio per realizzare un disco come Amore e guerra, che esalta la tradizione napoletana trasfigurandola, trasformandola in un trip psichedelico, un dance floor futuristico, un esperimento sonoro che starebbe bene sia nell'auditorium di un conservatorio che in una discoteca.

Salvio Vassallo viene da una lunga carriera da batterista pop, che l'ha portato a suonare con tanti musicisti importanti, e dal successo mondiale degli Spaccanapoli (veicolato da Peter Gabriel), salvo poi scoprire la vocazione dello sperimentatore e del compositore, capace di realizzare anche partiture orchestrali e colonne sonore. Valentina Gaudini ha una formazione teatrale partita dalla Scuola d'Arte Drammatica di Napoli e ha una voce (apprezzata anche dal grande Roberto Murolo, quando era una ragazzina) che sembra venire da un altro secolo, anche se poi ti viene il sospetto che sia

un tempo futuro, perché dentro c'è sia l'antico che il moderno, la nostalgia radicata nella terra (partenopea) e il volo libero, senza meta e senza reti. Insieme hanno creato Il Tesoro di San Gennaro. Tanto per ribadire da dove viene la loro musica, sottolineando la sua vocazione popolare. Senza dimenticare la cosiddetta “musica colta”, come testimoniano i loro precedenti lavori, dedicati alle Folk Songs di Luciano Berio (Remembering the Future) e al genio di Claudio Monteverdi (Arie, lamenti and Other Noises). Perché il punto è proprio questo, la fusione di suoni e ispirazioni diverse, l'incontro fra culture ed esperienze solo apparentemente lontane, andando oltre i dualismi, il colto e il popolare, l'antico e il moderno, il sacro e il profano. Si vola alto, appunto, ma dentro una vita artistica che non ha paura di fermarsi qualche anno per crescere i figli – inventandosi magari una casa di produzione che va fin troppo bene, rischiando di togliere energia al lavoro creativo. Per poi tornare a scrivere e suonare con più energia di prima, oltre che una maggiore consapevolezza.

«L'inizio risale a diciannove anni fa. Ci siamo incontrati su un palcoscenico. Ed è cominciata questa storia che ci ha portato a fare vari dischi e vari figli». I figli fatti insieme sono tre. In totale, in famiglia, sono in sei. E si può tranquillamente immaginare che non sia una vita noiosa. Ma il loro studio – dove li incontriamo - è fatto in casa: computer, strumenti, sintetizzatori e tanti libri. Non c'è scissione fra creazione e incombenze quotidiane.

28 MAGGIO 2023
I NCONTRI
domani. Tradire la tradizione per amarla meglio. La formula segreta di una coppia nella vita e nell'arte (funziona!)
(foto Elisabetta Fernanda Cartiere)

Spiega Salvio: «Si può fare questo mestiere senza cadere nello stereotipo dell'artista che deve per forza fare le 3 di notte e rinunciare alla famiglia. È faticoso, ma lo sarebbe anche senza figli. Io adesso sto studiando per una cosa che faremo a teatro tra febbraio a marzo dell'anno prossimo, una versione del Prometeo incatenato di Lowell (insieme a Raffaele Di Florio, secondo regista di Martone, per il Teatro Stabile Mercadante). Mentre io lavoro qui, Valentina studia delle cose sue, per il teatro. Poi magari ci fermiamo e andiamo a fare la spesa insieme. Torniamo e continuiamo a lavorare, poi io gioco con i figli, facciamo i compiti, e si torna a scrivere e studiare». Mica male come “tran tran”. E anche molto produttivo, visto ciò che riesce a generare.

Si può fare questo mestiere senza cadere nello stereotipo dell'artista che deve per forza fare le 3 di notte e rinunciare alla famiglia. Noi lavoriamo e facciamo la spesa insieme, giochiamo con i figli e poi torniamo a lavorare

«Bisogna saper stare bene assieme. Noi abbiamo un rapporto molto vivo, acceso, con tante discussioni, ma riusciamo a tornare sempre al punto originario, a ciò che ci unisce, ed è giusto comunicare che si può fare musica in maniera seria senza rinunciare a nulla. Noi portiamo avanti anche lavori estremi in ambito culturale, mantenendo una famiglia di sei persone, nel 2023, con la pandemia, gli aumenti e tutto il resto».

Come spiega Valentina, il segreto è «ampliare il lavoro e non metterlo su un solo binario. Non può essere solamente: “facciamo un disco e poi i concerti”. Chi ha una famiglia deve iniziare a concepire diversamente questo lavoro, attinge a varie cose, fare esperienze diverse».

Ma a noi interessa anche capire da dove arriva questa storia, come sono nate le loro vocazioni. Valentina la riassume così: «L'ho vissuta come un dono. Ho cominciato quando ero molto piccola. A tre anni già cantavo e imparavo le prime canzoni a memoria. Poi ho avuto la fortuna di incontrare una maestra alle scuole elementari che era una grande appassionata di teatro. Lei

scriveva dei testi e noi li mettevamo in scena. Questo imprinting mi ha portato a pensare: ok, questa è la mia strada. Ho frequentato varie compagnie di canto popolare, ho fatto teatro, poi ho conosciuto un maestro del coro di San Carlo, che mi ha inserito in un coro gospel. Lì ho conosciuto Salvio... e mi sono ritrovata “a casa”. Ci siamo subito accorti di avere passioni e gusti molto simili, oltre a un certo modo di vedere la vita, l'arte, la musica.

È stata una grande fortuna per me. A volte puoi essere una performer anche particolare e non conoscere mai la persona che può riempire quel vuoto, che può fare da cornice a quello che sei».

«Ah, sono la cornice!» fa lui, e si mettono a ridere. «Ecco, questa è Valentina – dice Salvio. - Ti ha parlato della sua formazione ma non ti ha detto la cosa più importante della sua infanzia: lei andava a casa di Roberto Murolo, con il papà, a fare lezioni di canto. La cosa più sconvolgente è che, anche se stiamo insieme da quasi vent'anni, questa cosa io l'ho saputa tre anni fa. Non ama parlare di sé. Ma cosa diceva Murolo di lei? “Valentina sarà la voce più bella di Napoli”. Murolo è stato il faro che ha illuminato il nostro primo disco. Il suo Napoletana è un'antologia fatta tutta a chitarra e voce. Ed è meravigliosa. Va dal 1200 agli anni Settanta. Noi abbiamo ascoltato tutti i pezzi e abbiamo fatto una selezione. Murolo è stato fondamentale per noi. Eppure...». Riservatezza e umiltà, si direbbe. Confermate dalle parole di Valentina, che se la ride. «Mi capita spesso di andare in salumeria o in farmacia, e dopo un po' di tempo mi dicono: ho scoperto dai social che sei una cantante, ma perché non l'hai detto? Certo, io vado dal salumiere e dico: sapete che faccio la cantante? Questo è il mio lavoro, tutto qui». Le chiediamo che ricordi ha di Murolo, visto che parliamo di un vero e proprio mito: «Ho un ricordo molto tenero, di una persona attenta, che mi accompagnava con una chitarra, a me che avevo 7 anni, con umiltà e tenerezza. Mi aiutava, mi parlava in maniera dolce. Un grande maestro. Lui era essenziale. Era l'essenza della musica napoletana, senza nessun ghirigoro, senza fronzoli»

Poi c'è la storia di Salvio. «Anche la mia comincia da molto lontano. Francamente non ricordo cosa facessi prima della musica. Mia madre era una grande appassionata di jazz, quando ero bambino ascoltava Miles Davis e strimpellava il pianoforte (male), la nostra casa era sempre piena di musicisti.

Ho cominciato verso i 5-6 anni a fare lezioni di piano, poi mi sono appassionato alla batteria, che è stato il mio primo strumento da professionista. A sedici anni già facevo concerti e tournée. Ho cominciato molto presto. Ho fatto il turnista pop per tanti anni». Poi nella sua vita è arrivata la world music. «Grazie a Spaccanapoli, una band prodotta da Peter Gabriel fino alla fine degli anni Novanta e inizio Duemila. Abbiamo suonato ovunque. E quell'esperienza mi ha aperto tutto un mondo. Così come quella fatta con Savio Riccardi, un grande pianista e musicista che vive a Roma e compone colonne sonore, un nostro caro amico. Lui mi ha fatto conoscere la musica classica. A quel punto ho cominciato a studiare in maniera ossessiva, il Novecento, Stravinskij, la musica contemporanea. Studiavo e intanto suonavo la batteria in giro. Cominciavo anche a fare i miei primi esperimenti di musica elettronica un po' folle. Anche lavori orchestrali. Quella che sto vivendo ora è la mia seconda se non la terza vita musicale. A Napoli sono diventato quello che fa le cose un po' “particolari”. E non mi dispiace».

Amore e guerra parte con un'aria di Pergolesi ripresa da Stravinskij e trasformata in Pulcinella's Dance una “tammuriata elettronica ipnotica”, e finisce con Jesce Sole, quindi con un inizio, visto che si parla della prima testimonianza di una canto in lingua napoletana, risalente al 1200, un'invocazione al sole fatta dalle lavandaie, piena di simboli pagani. In mezzo ci sono sei pezzi che spaziano da Sergio Bruno a Renato Carosone (Pigliate 'na pastiglia in una versione psichedelica a metà strada fra i Kraftwerk e i Matia Bazar), da un canto sanfedista reso “prog”, a un brano popolare anonimo che ironizza sull'Unità d'Italia (come lo potrebbero fare i Prodigy). Segnaliamo anche una Tarantella del Gargano che parte onirica e finisce in un delirio trance, oltre a un omaggio a Roberto De Simone (La Gatta Cenerentola) con synth e drum machine: i consigli di una madre alla figlia su come attirare uomini per poi scannarli (ah, la favolistica popolare!); da leggere, volendo, come metafora anti-Savoia.

31 MAGGIO 2023 30 MAGGIO 2023
Tesoro di San Gennaro
La copertina e l'artwork del booklet sono opera del fotografo Giovanni De Angelis

Ecco l'aspetto più interessante di questo progetto: l'intreccio fra passato e modernità. La formula è «tradire la tradizione» mentre la si omaggia. Stando attenti a non confonderla con il folclore. Un conto è l'anima della cultura napoletana e un altro la sua espressione esteriore più ovvia e stereotipata. «Anche se il folclore non sempre è una cosa negativa» dice Salvio. «Quello napoletano ci porta inevitabilmente allo stereotipo pizza, mandolino e tarantella. Che poi in sé la pizza è buonissima, il mandolino è meraviglioso, la tarantella, per carità, è bellissima. Io mi relaziono spesso con musicisti amici non napoletani. Non essere napoletani aiuta ad avere una visione più asciutta di quello che si fa. Perché c'è anche chi cade nelle lusinghe del folclore. La tradizione è l'insieme di tutte le culture che l'hanno resa tale, ciò che ci ha portato fino ad oggi. Anche una certa idea di “patria”. Il napoletano vive Napoli come patria, più che l'Italia»

Ma è più qualcosa di viscerale, un fatto nostalgico, legato all'infanzia, all'appartenenza, o un'elaborazione intellettuale? «È chiaro che se io e Vale, la domenica mattina, ci mettiamo a fare il ragù, dopo esserci sve-

gliati con l'odore del caffè, e mettiamo anche un disco di Pino Daniele o di Murolo, ci sentiamo a casa nostra. Però al centro della nostra musica c'è un lavoro intellettuale, una ricerca, come quella fatta da Ernesto De Martino, cominciata a sua volta da Béla Bartók, poi proseguita da De Simone, una ricerca di tipo antropologico. L'esempio che faccio sempre è quello della pizzica, musica tarantina, musica di guarigione, che veniva fatta con l'organetto, il violino e il tamburello; solo che l'organetto in realtà è nato nell'Ottocento. Immagina questi musicisti che andavano con uno strumento nuovissimo, che era come un sintetizzatore di oggi, a fare la pizzica. In realtà gli strumenti sono un incidente di percorso. La musica ha dei linguaggi che vengono da varie parti. La nostra ricerca prova a trovare connessioni storiche anche particolari. Non mi ricordo più chi disse che la storia andrebbe studiata attraverso la musica, perché nella musica trovi i legami affettivi, sentimentali, che si sono succeduti nei secoli, mentre sui libri di storia trovi solo gli aneddoti».

Valentina la pensa allo stesso modo. Sono due visioni del mondo che si specchiano e si completano.

«Per me la tradizione è sicuramente qualcosa di viscerale. Sono cresciuta in una famiglia tradizionalista. La canzone di Sergio Bruni dice: “Quella s'è fatta la croce con l'acqua di mare”. Ecco, gli uomini della mia famiglia, prima di buttarsi in mare, si facevano sempre la croce, che è una simbologia molto potente. Noi cerchiamo di vestire il brano tradizionale in maniera diversa, vogliamo rivestirlo di nuova luce, di un nuovo suono. Cerchiamo di capire quale parte di questa storia può essere raccontata, sia musicalmente che verbalmente, in tutto il mondo».

Salta fuori anche il nome dell'amico Salvatore Scuotto. I fratelli Scuotto sono celebri per le loro statuine del presepe fuori dai canoni. «Fanno con i “pastori” ciò che facciamo noi con la musica. Hanno diavoli, pulcinella neri, anche cose estreme. Il loro presepe è l'unico di Gerusalemme, ne hanno uno anche a New York, sono fortissimi. Ci siamo più volte confrontati su questa cosa. Napoli ti lascia un'eredità importante, se tu hai voglia di metterci le mani. Però più ci metti le mani più capisci che non arriverai mai a toccarne la vera essenza. È troppo articolata. Grazie agli Spaccanapoli ho avuto la fortuna di conoscere Marcello Colasurdo, uno degli ultimi

grandi cantori della tradizione. Ricordo lunghissime telefonate in cui si confondevano la storia e la tradizione popolare, elementi pagani e cristiani. La tradizione napoletana sta in quel punto di congiunzione confuso, impossibile, in cui si mischiano Iside e la Madonna di Montevergine».

È un po' ciò che ha raccontato a Redness anche il figlio di Pino Daniele (sul numero di marzo): una tradizione che non esclude, non separa, che sembra fatta per includere e trasformare ogni cosa, facendola sua. Già, Pino Daniele... «Uno dei miei più grandi rimpianti è quello di non aver suonato con lui, visto che ho suonato praticamente con tutti quelli che lo circondavano. Lui aveva il dono dell'emozione. Che poi ha lasciato per strada quando ha deciso di diventare un'altra persona. Ma il nostro ultimo figlio si chiama Daniele, proprio perché è nato pochi giorni dopo la morte di Pino. È parte della nostra vita. Uomini come lui per noi napoletani sono quasi dei santi. Da grande fan di Peter Gabriel, mi ricordo lo shock di quando mi sono trovato a suonare con lui. Però con Pino Daniele sarebbe stato diverso, si sarebbero mischiate cose antiche, profonde, anche perché lui andava a scavare».

di San

33 MAGGIO 2023 32 MAGGIO 2023
Tesoro
Gennaro
(foto Elisabetta Fernanda Cartiere)

Sia chiaro che la tradizione napoletana è gloriosissima e, per certi versi, globale. «Le villanelle alla napoletana, nel Cinquecento, erano come oggi la musica inglese, si ascoltavano in tutta Europa. I più grandi scrittori di villanelle erano belgi, olandesi, che scrivevano in lingua napoletana. La prima canzone in assoluto, intesa con strofe e ritornello, è una canzone napoletana. La musica napoletana è sempre stata importantissima. Mozart nel Settecento venne a Napoli. L'opera buffa è nata a Napoli. Una grande eredità che però non deve diventare l'odierno: “Ma noi abbiamo la nostra cultura”».

Quello di San Gennaro è il secondo tesoro più ricco del mondo. E appartiene al popolo. Come la musica, che è una ricchezza della gente. Come noi musicisti.

Siamo noi il tesoro

Guardare al passato, amarlo, per poi gettarsi nel futuro. La loro musica suona così. Come quella che hanno deciso di produrre con un'etichetta chiamata non per niente RTF, Remembering the Future, ispirata a Luciano Berio (Un ricordo al futuro), a sua volta ispirato da Italo Calvino (altro autore molto amato da Salvio e Valentina). «Abbiamo fondato questa etichetta dieci

anni fa. Avevamo anche uno studio di registrazione. Ma noi facciamo spesso scelte pazze. Alla fine ci siamo fermati perché andava troppo bene». In che senso?

«Hai presente quel film di Woody Allen in cui vuole fare una rapina in banca e come copertura produce biscotti? Il problema è che poi i biscotti vanno troppo bene... Lo studio di registrazione è stato anche un modo per lasciar passare il tempo necessario a far crescere i nostri figli, per poi tornare in pista a fare concerti. Abbiamo messo su un un'attività che ci consentisse di non perdere di vista i nostri obiettivi, di continuare a lavorare anche sulle nostre idee. Però poi è arrivato il momento di andare oltre. Io sto facendo “la rapina alla banca”, non voglio lavorare nello studio di registrazione...».

RTF era perfettamente in linea con il lavoro del Tesoro di San Gennaro. «Perché noi prendiamo materiale dal passato, lo rendiamo presente e lo catapultiamo verso il futuro. E la cosa più bella è quando ragazzi di vent'anni vengono da noi per dire “ma che meraviglia questa roba!” e si mettono ad ascoltare. Oppure il ragazzino che dice “bello quel rap”, che magari è una tammurriata». Ma perché Il Tesoro di San Gennaro? «Il tesoro è la musica, siamo noi musicisti. Ti spiego: quello di San Gennaro è il secondo tesoro più ricco del mondo, per volume e valore di gioielli, dopo la Corona di Inghilterra. Ma è fatto tutto di donazioni. La sua storia è surreale, tipicamente napoletana. Nel Cinquecento ci furono tre carestie enormi a Napoli. Non è una leggenda, è storia. Grandi eruzioni che parevano non fermarsi mai, la peste, i terremoti. Il popolo napoletano, attraverso i rappresentanti dei maggiori “sedili”, quelli che oggi sono i quartieri, le famiglie più importanti, andarono da un notaio, stipulando un contratto con san Gennaro: se avesse fatto finire quelle carestie, loro avrebbero istituito un tesoro per lui. E le carestie finirono». Poi le donazioni non si sono mai fermate ed è rimasto questo patrimonio inestimabile. Come dice Valentina, «è un tesoro del popolo. Una ricchezza della gente. E anche la musica, secondo noi, è un patrimonio ricchissimo che appartiene al popolo».

Ci incuriosisce il processo che porta all'elaborazione dei loro pezzi. Prendiamo ad esempio 'Na Bruna, per noi uno dei più affascinanti (Salvio è d'accordo), col suo tappeto sonoro fatto di synth, violoncello e noise guitars, ma anche tromba ed organo Hammond, che creano un'atmosfera straniante.

L'impressione è che si parta dall'originale, la canzone scritta cinquant'anni fa da Sergio Bruni (per dire quanto è facile innamorarsi di Napoli), per poi aggiungere idee, arrangiamenti, distorsioni, in stratificazioni successive.

«In questo caso, in realtà, è accaduto l'esatto contrario –racconta Valentina. - Prima siamo entrati in una certa dimensione sonora, all'oscuro, come entrando in una galleria in cui non sai cosa può succedere. Poi nella galleria trovi qualcosa che immediatamente ti riporta a un che di conosciuto. Inizi piano piano a canticchiare sopra questo tappeto e ti accorgi che funziona: l'abbiamo trovato!». I pezzi a volte nascono anche così, improvvisando. «Faccio molte cose – dice Salvio – a volte anche solo per farle. Accendo, mi metto a improvvisare, magari una cosa andrà in un progetto su Monteverdi, una in Pergolesi, un'altra in uno spettacolo teatrale o una colonna sonora. Valentina ascolta, a volte sta di là e legge, a volte è qui con me. Per 'Na Bruna io stavo provando un programma che non avevo mai usato prima. Lei comincia a canticchiare la mia melodia: “ma cos'è? Ma questa è Na Bruna!”. E quindi la facciamo. Alla fine però tolgo tutta la parte

iniziale, su cui lei ha avuto l'intuizione di cantare, e tengo solo un pat distorto, poi chiamo Michele De Finis per fargli fare una serie di layer di chitarra elettrica, ed ecco il pezzo. Per Karmagnola invece siamo partiti dalla canzone, dalla voce, e ci siamo detti che bisognava trovare qualcosa che desse il senso della tammurriata, senza però farci stare in quella gabbia». Non si tratta di performance o “trovate”, ma di «un'espressione emotiva». «Ci abbiamo pensato molto, prima. Perché a Napoli può capitare che ti distruggano per una cosa del genere. La tradizione la si tira un po' da tutte le parti. Avevo detto a Valentina di prepararsi, che dopo l'uscita del disco ci avrebbero fatto malissimo. E invece ci è andata bene, un po' tutti hanno apprezzato il lavoro». D'altra parte nella loro musica si percepisce chiaramente il rispetto e l'amore per la tradizione. C'è chi ne fa quasi una parodia, che la rielabora per negarla. Qui invece capita di ascoltare una taranta che si trasforma in ritmo quasi trance, portandoti esattamente dentro quella particolare esperienza del sacro e del delirio. È il contemporaneo di quella cosa.

35 MAGGIO 2023 34 MAGGIO 2023
Tesoro
di San Gennaro

Valentina ha una voce unica. Ha un tratto profondamente antico ed estremamente moderno. Una linea su cui camminiamo entrambi. Ci ispiriamo a vicenda

«È esattamente così – dice Salvio. - Con tutte le sfumature del caso. Sulla pizzica c'è una diatriba di cui ho parlato spesso con Eugenio Bennato, anche lui un caro amico, un grande studioso, fondatore della Nuova Compagnia di Canto Popolare. Lui sosteneva addirittura che la tammurriata forse un derivato dal ritmo di tarantella. C'è chi dice che la tarantella non viene da Taranto ma da Napoli. Insomma, quella famosa confusione di cui ti parlavo. Certo è che nel Salento c'è questo fenomeno straordinario del tarantismo, una cosa legata anche alla sessualità, a cui Ernesto de Martino ha dedicato un'analisi di tipo storico-religioso. Noi volevamo trasportare questa realtà in un mondo moderno, “discotecaro”, dove si fa psy-trance».

La voce di Valentina ha un ruolo fondamentale. E Salvio approfitta dell'occasione per dirlo a lei, oltre che a noi: «Valentina ha una voce straordinaria, unica. Lo dico avendo lavorato con tutte le cantanti di Napoli. La sua voce ha un tratto che evoca qualcosa di profondamente antico, non stilizzato, frutto anche di una ricerca che ha fatto negli anni, e però anche estremamente moderno. Per

cui riesce a cantare la tammurriata in quel modo e riesce a non tradire né l'una ne l'altra cosa. Questa è una linea su cui si cammina tutti e due, io con la musica e lei con la voce, ci ispiriamo a vicenda».

E la politica? C'è anche la provocazione, la contraddizione, ma senza “il messaggio”. C'è Italiella brano che risale al 1868, in cui l'Unità d'Italia è visto come una guerra di dominazione straniera. E c'è Karmagnola, ispirato al “Canto dei Sanfedisti”, quindi controrivoluzionario (borbonico, anti-giacobino), ma derivato a sua volta dai canti rivoluzionari dei contadini francesi.

«Il messaggio – spiega Valentina - “ci viene detto dopo”, anche a noi. Viene fuori dalla cosa mentre la facciamo».

Dice Salvio: «A noi piace l'idea di poter fare un lavoro con più letture, stratificate. Per noi è più uno sguardo largo sulla storia, con le sue contraddizioni. Karmagnola parla della rivoluzione del 1799 a Napoli. Pochi sanno che dieci anni dopo la Rivoluzione francese a Napoli per sei mesi c'è stata una Repubblica, fatta dai giacobini. Quando sono tornate le truppe della Santa Fede, nel 1799, non tremila anni fa, ci furono perfino episodi di cannibalismo. Erano un po' come i Mille di Garibaldi, con persone prese dalla Sicilia e dalla Calabria, i peggiori elementi della società, con cui hanno compiuto stragi efferatissime. Arrivando a Napoli hanno aizzato il popolo, che tra le altre cose ha fatto a pezzi Michele 'O Pazzo, un lazzaro che stava dalla parte dei giacobini, lo bruciarono e lo mangiarono in mezzo al pane. I Sanfedisti usarono un canto preso dalla parte opposta.

È come se fra cinquant'anni i fascisti si mettessero a cantare Bella Ciao».

Quanto a contraddizioni, poi, quella dell'Unità è una storia esemplare. «Fu un processo irrisolto, come lo sono spesso le cose italiane. Noi buttiamo la polvere sotto il tappeto, non facciamo mai i conti con la nostra storia. L'Unità fu un processo orribile, portato avanti da un misto di massoneria francese e inglese insieme ai Savoia, che erano un regnucolo. Ci sono delle contraddizioni che vogliamo mettere in luce, piuttosto che stare da una parte o dall'altra. Ma questa cosa non deve diventare pesante».

Se c'è un messaggio, qualcosa che Napoli può dare al mondo, forse è la “sapienza del popolo”, che centra poco o nulla con la cecità delle masse, facilmente manovrabili dall'alto. «È una sapienza involontaria. Il popolo è un contenitore di saggezza, suo malgrado, che a volte riesce a esprimere, dando voce a fenomeni musicali come Pino Daniele. Napoli fa patria. La lingua napoletana fa patria più dell'italiano. Per gli emigranti del secolo scorso la lingua non era l'italiano, ma il napoletano, il toscano, il siciliano. Questo non vuol dire che dobbiamo tornare indietro, che bisogna essere nostalgici. Però quella è una ricchezza che bisogna riscoprire». Sogni, progetti? «Altri figli no, anche se sarebbe bello

farli» dice subito Salvio «Figli musicali, artistici» specifica Valentina. «Il Tesoro di San Gennaro non è figlio unico. Ci sono più figli che stanno crescendo e piano piano usciranno. È un tassello di un puzzle più grande. Abbiamo in cantiere un lavoro su Pergolesi. Stiamo lavorando a una versione in lingua napoletana della Lulu di Alban Berg, opera contemporanea molto estrema, e questo lavoro andrà a teatro. Lei sta scrivendo testi bellissimi, io scriverò delle parti anche orchestrali. C'è tanta carne al fuoco. Di tutte le cose che facciamo magari solo alcune riusciranno a vedere la luce. Il Tesoro di San Gennaro è una di quelle che abbiamo fatto con il cuore, l'anima, la mente, con tutto, ed è riuscita ad andare oltre le nostre aspettative».

Amore è guerra è «un grido lucido e rotondo dal petto gonfio di Napoli al Terzo Millennio». Deciderà lui (il millennio) se stare ad ascoltarlo o far finta che sia solo diversità pittoresca.

Napoli e i napoletani sono abituati ad esistere e resistere, nonostante tutto. La via del Tesoro di San Gennaro è quella della consapevolezza, misurandosi con la propria storia e il “ventre misterioso della città”, «tra l'eredità della tradizione e l'urgenza della modernità. Tra l'immagine mondiale di sé e l'essenza di sé». (f.t.)

Tesoro di San

36 MAGGIO 2023
Gennaro
(foto Elisabetta Fernanda Cartiere)

GIOVANNI COVONE

Un astrofisico a caccia di nuove Terre nello spazio. E tracce di vita.

Storie di scienza (quasi "fanta"), ricerca (dura), meraviglia

«Spero che questo libro ci stimoli a osservare di nuovo il cielo con le stesse domande di quando eravamo più bambini e più filosofi».

In effetti bisogna essere dei filosofi bambini, degli scienziati liberi e curiosi, anche un po' spericolati, per riuscire a immaginare un'altra Terra o fantasticare sulla vita nell'universo. Meglio ancora se mistici e poeti, amanti dell'ignoto, con il bisogno di capire “che senso ha?”.

Poi, però, c'è anche la fatica quotidiana della ricerca. Ci sono i numeri e i dati, da studiare instancabilmente, giorno dopo giorno, con ostinazione. Cercare altri pianeti, là fuori, nello spazio, è una questione di pazienza, intuizione, spirito di osservazione. Anche fortuna. L'impresa scientifica non è sempre pirotecnica e spettacolare. Anzi, non lo è quasi mai. Ma è una straordinaria avventura dello spirito.

Lo sa bene Giovanni Covone, astrofisico, docente all'Università Federico II di Napoli, uno dei ricercatori che hanno contribuito alla scoperta di TOI700-d. Probabilmente ne avete sentito parlare. Grazie a questa impresa, l'astronomia è finita in tv e sui giornali, accompagnata da titoli mirabolanti, che parlavano di una “Terra 2.0”, un gemello del nostro pianeta scovato fuori dal sistema solare, in orbita intorno a una stella nana rossa, a una distanza di 101,5 anni luce (non esattamente una passeggiata domenicale).

Covone, originario di Trani (dove è nato nel 1969), ha lavorato anche al Telescopio Galileo di Santa Cruz nelle Canarie, al MIT di Boston (negli anni del dottorato) e al Laboratoire d'Astrophysique di Marsiglia, per poi tornare a casa, a Napoli, all'Osservatorio astronomico di Capodimonte e all'Università. Altre terre (edito da HarperCollins) è il suo primo libro, e la scoperta di un nuovo talento, quello della divulgazione. “Un viaggio alla scoperta di pianeti extrasolari” che ci racconta storia, metodi e temi fondamentali di un campo di ricerca sconosciuto ai più, ricordandoci che la scienza non è una forma di conoscenza astratta, che è importante parlare «di astronomia ma anche di astronomi». Scrive Giovanni Covone: «Si pensa alla ricerca scientifica come a un’attività puramente razionale, dove sentimenti umani come passione, ostinazione e illusione non giocano un ruolo». E invece la scienza è esercitata da esseri umani, che a volte devono avere anche il coraggio di andare controcorrente, e imparare a guardare le cose in modo nuovo. In effetti Altre Terre si può leggere come un romanzo, fatto di tante micro-storie, che insieme hanno generato il sapere attuale e messo le radici per la ricerca futura. In più c'è l'attitudine poetica e filosofica, il gesto di alzare gli occhi e lasciarsi stupire dalla bellezza, dall'insondabile (per ora) profondità del mistero. «Abbiamo perso l’abitudine di cercare le stelle perché non ci sono più familiari. Per innumerevoli generazioni abbiamo guardato il firmamento con stupore, ponendoci domande. Oggi l’inquinamento luminoso e il traffico dei satelliti artificiali ci hanno sottratto questo panorama».

39 MAGGIO 2023
I NCONTRI

Ecco da dove bisognerebbe (ri)partire: dalla meraviglia, sì, ma anche dalla consapevolezza di ciò che stiamo facendo al nostro pianeta; forse scopriremo “nuove Terre”, ma difficilmente noi esseri umani avremo una seconda occasione

Giovanni Covone è la scienza col sorriso sulle labbra, quella che unisce passione e umiltà, coscienza critica e immaginazione, coltivando insieme il gusto della ricerca e l'importanza della formazione.

Partiamo dalla vocazione. Quando hai scoperto che volevi studiare le stelle?

I primi ricordi risalgono alle scuole elementari. Mio padre era un tecnico che lavorava per la Rai, ma era appassionato di scienza: da lavoratore, frequentava lezioni serali di fisica. Portava a casa alcune riviste, tra cui la vecchia “Astronomia” di Margherita Hack, che era molto bella. Quindi già alle elementari mi studiavo queste riviste. In terza media, poi, il mio regalo fu un telescopio di seconda mano. E quando arrivai al quinto anno di liceo mi sembrò di non avere alternative: dovevo fare fisica! Con il senno di poi lo riconosco come il segno di una vocazione. All'università, all'inizio, mi appassionai molto di più alla fisica teorica. Poi, durante la laurea e il dottorato, sono tornato all'astrofisica osservativa. I pianeti allora erano“piccole luci insignificanti” dell'universo. Quelle luci, oggi, sono diventate molto più importanti per il mondo scientifico.

Quando parlo con i ragazzi, sottolineo la nostra fortuna: siamo la prima generazione che può avere le prove empiriche dell'esistenza di altri pianeti

Nel libro racconti che fino a qualche decennio fa la ricerca di pianeti extrasolari era ancora una materia esotica. Capitava che anche i colleghi ti guardassero un po' storto, come se fossi un cercatore di alieni.

Proprio così. La cosa strana è che tutti gli astronomi erano convinti che esistessero dei pianeti extrasolari, e forse anche la vita, ma poi si reputava che fosse troppo difficile scoprirli. Quindi erano davvero pochi gli appassionati, gli “svitati”, i loonies, che cercavano pianeti. Poi quel campo di ricerca è letteralmente esploso. Porta ogni mese nuove meraviglie, scoperte inattese, sistemi imprevisti, mondi veramente alieni alla nostra immaginazione scientifica.

Tu eri un sognatore, con la testa fra le nuvole, oppure eri già una mente matematica e logica, proiettata verso l'obiettivo? Nel libro, oltre agli scienziati citi filosofi, scrittori, poeti.

Non ero certamente uno studente disciplinato, almeno all'inizio. La mia vastità di interessi si traduceva anche in una confusione di letture, nella mancanza di una scelta precisa. L'estrema specializzazione non mi è mai appartenuta. Mi interessava la cosmologia teorica, poi sono passato all'astrofisica osservativa, in particolare allo studio della materia oscura nelle galassie. La passione degli ultimi anni è l'astrobiologia.

Di cosa si tratta?

È una scienza che non esisteva quando io ero studente. Cerca le prove dell'esistenza della vita nell'universo. Studia le condizioni cosmiche che consentono la nascita della vita.

Quindi è una disciplina al confine fra la fisica, l'astrofisica, la biologia e la chimica. Un'avventura culturale entusiasmante. Qui a Napoli abbiamo un nuovo corso di studi, incardinato nel dipartimento di Biologia, che si chiama Biology of Extreme Environments (Biologia degli ambienti estremi) dove si studia questa materia. Io tengo un corso in inglese: Astrophysics of life (Astrofisica della vita). Già cinque studenti mi hanno chiesto la tesi nel giro di un anno.

Qui sembra davvero di essere ai limiti della fantascienza. Io sono nato con Capitan Harlock. E nel libro cito Arthur Clarke e il suo 2001. La fantascienza è un aspetto importante della vita personale di tanti ricercatori e scienziati, fa nascere idee e curiosità. Esiste una letteratura fantascientifica di altissimo livello. Detto questo, sì, l'astrobiologia era fantascienza fino a venti trent'anni fa. Quando parlo con i ragazzi, sottolineo sempre la nostra fortuna: siamo la prima generazione che può avere le prove empiriche dell'esistenza di altri pianeti. Giordano Bruno era sicuro che esistessero, ma avrebbe dovuto aspettare secoli per averne le prove.

Lui non se l'è passata benissimo...

No, in effetti. È stato bruciato sul rogo nel 1600 e dieci anni dopo Galileo ha visto i satelliti di Giove. Immagina come avrebbe esultato se l'avesse saputo. Oggi, oltre alle prove sulla presenza di altri pianeti, possiamo cercare le prove empiriche dell'esistenza della vita altrove. O della sua non-esistenza. Scientificamente parlando, sarebbe altrettanto importante.

Si dice sempre che l'Italia non è un luogo ideale per i ricercatori. Ci sono stati momenti nella tua carriera in cui ti sei detto che forse non ne valeva la pena, che era troppo grande il sacrificio richiesto?

Me lo sono chiesto molte volte. Io avevo vinto un concorso di dottorato e subito dopo ho cominciato a viaggiare per lavoro., ma dopo ci sono stati momenti di sconforto e di incertezza.

41 40 MAGGIO 2023
GIOVANNI COVONE (foto Imma Petricciuoli) MAGGIO 2023

Per fortuna mi ero posto sempre un orizzonte europeo. Poi sono tornato in Italia quasi per caso, nella città in cui mi ero laureato, perché era capitata un'opportunità al momento giusto. Però è vero, l'Italia non è un Paese per ricercatori. Molti italiani vincono concorsi in Francia, in Germania, in altri paesi europei, anche in America, il che va benissimo, ma noi non riusciamo ad attrarre colleghi stranieri. E non perché non ci sia un ottimo livello di competenza scientifica, anzi. Penso che banalmente sia innanzitutto un problema di salario.

Tutti parlano dell'importanza della ricerca, ma poi mancano gli investimenti necessari ad attirare competenze e progetti.

È un problema generale, a cominciare dai docenti delle scuole superiori, per finire con i professori universitari. Siamo poco attrattivi da questo punto di vista. L'altro problema è “l'infrastruttura”, per cui i fondi, le strutture, la burocrazia rendono difficile questo mestiere. Io sto assistendo a una burocratizzazione incredibile del mio lavoro di docente. Amo sia la docenza che la ricerca, non riuscirei a scindere le due cose, ma il mio tempo viene assorbito da riunioni e documenti da compilare. Se guardi le statistiche dei ricercatori che vincono gli ERC (European Research Council) - grandi progetti ben finanziati – ci sono molti italiani, che poi vanno a utilizzare i fondi fuori dall'Italia.

L'Italia non è un Paese per ricercatori. Eppure l'università italiana, a livello di preparazione degli studenti, funziona ancora abbastanza bene

Eppure l'università italiana non è affatto male. Infatti non penso che la nostra università sia un'isola infelice. Penso semmai che questo sia un segnale per l'intero sistema. L'università italiana, a livello di preparazione degli studenti, funziona ancora abbastanza bene, nonostante i tentativi di distruggerla. Posso parlarti del mio campo, della Fisica o dell'Ingegneria: i laureati italiani non hanno nessun problema a vincere un dottorato all'estero. Poi perdiamo il passo negli anni della ricerca.

Bisognerebbe passare dalle parole ai fatti, creare le condizioni per attrarre “cervelli”. Anche perché poi la vita del ricercatore, diciamolo, è molto faticosa. Un cliché che volevo smontare, in alcune pagine del libro, è proprio questo. Uno pensa allo scienziato che dice “Eureka! Ho trovato!”, ma in realtà è un momento rarissimo. Molte volte si lavora nello sconforto, anche nella noia, bisogna affrontare lunghe giornate di laboratorio, analisi di dati ripetitivi. L'ostinazione a volte è più importante della genialità.

Va smontato anche il cliché secondo cui lo scienziato dovrebbe essere una persona geniale, distratta, attratta da una sola idea. La determinazione, la capacità di stare seduti su una sedia e studiare, sono le cose che contano. Fare un lavoro in modo tale da sembrare di essere nato per quello. Poi magari diventi talmente bravo da sembrare geniale agli altri.

Magari trovi anche quel modo diverso di guardare le cose che ti porta all'eureka, alla scoperta.

Sì, bisogna fare questo lavoro senza farsi limitare dai propri pregiudizi, o dai pregiudizi della propria categoria. Infatti è proprio questa la storia della ricerca dei pianeti. Si diceva: “Non li troveremo mai in questo modo”, “È un'idea assurda”, e invece poi hanno funzionato proprio alcune idee semplici scartate in un primo momento.

Non bisogna mai farsi condizionare. Io cito Einstein non per le sue vittorie, ma per i pregiudizi di cui anche lui era vittima. Se ne era vittima il fisico più importante del '900, figuriamoci noi, piccoli artigiani della fisica.

Ce lo dimentichiamo spesso che la scienza è l'insieme degli scienziati che la portano avanti. Tra le storie più incredibili che racconti, c'è quella di Bruce Campbell, uno scienziato che dopo anni di ricerca difficile, faticosissima, fu costretto a rinunciare al suo progetto. Era a un passo dalla meta, senza saperlo. Arrivò perfino a cancellare i dati accumulati, per rabbia, prima di cambiare mestiere. Fu un momento di sconforto che diventò cattiveria. Comprensibilissimo. “La scienza” è un'idea platonica, in realtà esistono gli scienziati e le loro idee. Ed esiste anche il loro sconforto. Campbell era stato veramente a un passo dallo scoprire il primo pianeta, l'aveva anche osservato, ma mancavano le conferme definitive. Io ci ho messo due anni per scrivere questo libro – ho scoperto che scrivere è difficile – e ho scoperto tante storie che mi hanno appassionato. Quella di Bruce Campbell è emblematica.

C'è questa idea sbagliata, molto diffusa, della scienza come una sorta di logos universale, astratto, di cui bisogna essere interpreti fedeli. Soprattutto dopo la crisi del Covid. Il che ha generato, per opposizione, la diffusione del “cospirazionismo” anti-scientifico.

Il cospirazionista e il no-vax sono il risultato naturale della visione della scienza come realtà separata, monolitica, che ha una sua verità da difendere o da imporre.

Giovanni Covone e l'equazione di Drake: il simbolo n_E indica il numero medio di pianeti simili alla Terra (Altre Terre, appunto) intorno ad ogni stella nella Galassia (Foto di Chiara Covone)

43 MAGGIO 2023
GIOVANNI COVONE
(foto Francesca Cassaro)
42 MAGGIO 2023

Il tipo di divulgazione che si è vista negli anni della pandemia ha confermato questa idea. Abbiamo vissuto momenti socialmente difficili, ma anche scientificamente complicati. Perché non si sapeva da dove veniva questo virus, come era fatto, come difendersi, qual era la politica migliore. E questo dibattito normale, anche forte, veniva veicolato da alcuni personaggi televisivi come una lotta tra dogmi differenti.

Una comunicazione sbagliatissima. Con i conduttori televisivi che calcavano la mano, dato che vivono di questo modo di fare polemica. Non essere d'accordo tra scienziati è normalissimo. Il dibattito dovrebbe essere portato alla luce. E prima si porta alla luce, prima si trova una sintesi, una verifica. La scienza è il dominio dell'incertezza. Le certezze sono poche.

Appena alzi lo sguardo, ti rendi conto che il tuo lavoro è mosso da sentimenti e pulsioni profonde. Il fascino per il mistero. La ricerca di un senso

Bisognerebbe tornare a rileggere Popper, ma anche Kuhn e Feyerabend, per ricordarci il pericolo di ridurre la scienza a una specie di chiesa, un'ideologia. Io tengo un corso di fisica per filosofi, ormai da cinque anni. Ho studenti laureandi anche lì. Il confronto con la filosofia mi appassiona un sacco. Insegno quel po' di fisica che può dare una mano a fare filosofia della fisica. Ad esempio ai ragazzi insegno il paradosso di Zenone. Al liceo si perde questa grande occasione di far capire l'unità del sapere. Al terzo anno ti dicono che Achille non raggiungerà mai la tartaruga, perché lui va avanti, ma avanza anche la tartaruga, all'infinito. In realtà il paradosso fu risolto nello stesso mondo greco che lo aveva creato, grazie ad Archimede, 150200 anni dopo. Lo risolse dal punto di vista matematico, inventando quello che oggi chiamiamo calcolo integrale. La somma di infiniti termini non è necessariamente infinito. E così il dilemma scompare. La matematica con cui si risolve, si fa in quarta liceo. Magari in due ore di lezione consecutive, a scuola, i ragazzi vengono esposti alla filosofia e poi alla matematica senza metterle in connessione tra loro.

Bello questo approccio interdisciplinare. È suggestivo anche il modo in cui presenti l'astrofisica, partendo da un fatto poetico, dal piacere di contemplare il cielo. In fondo noi facciamo scienza, filosofia, arte, mossi da quello stupore. Tutto nasce dalla volontà di affrontare le domande fondamentali, che a volte sono anche personali. Se sei di fronte a un paesaggio come quello marino o quello celeste, hai un rapporto diverso con alcune domande essenziali su te stesso e sulla realtà intorno. È triste vedere che oggi la connessione con il mondo celeste passa quasi solamente attraverso gli schermi, i cellulari.

C'è anche qualcosa di spirituale, in senso laico, in questa ricerca.

C'è senz'altro.

Il biologo Stuart Kaufman (“Reinventare il sacro”) parla di un Dio inteso come creatività dell'universo, come emergenza della complessità e della coscienza. Ci sono scienziati convinti della realtà di questo finalismo, per cui l'universo sembra fatto per l'emergere della vita e della consapevolezza fin dall'inizio.

Einstein voleva “leggere i pensieri di Dio”. Io sono ateo ma quella di Einstein è una metafora che non mi dispiace affatto. Avverto molto questa dimensione spirituale. D'altra parte nel capitolo finale faccio una forte parallelismo tra il viaggio di Dante, condotto da Beatrice, e le nostre sonde spaziali. Penso a una spiritualità intesa non in senso necessariamente religioso. Al fascino per il mistero, la ricerca di un senso. Queste sono cose che muovono la scienza. Magari non nel quotidiano, in cui sei impegnato nel raggiungere un risultato, immerso nei dettagli. Però appena alzi un po' lo sguardo ti rendi conto il che il tuo lavoro è mosso da sentimenti e da pulsioni molto più profonde. In campo astronomico poi ti confronti con il problema della diffusione della vita: sapere che la vita è molto comune o è unica nell'universo cambia molto la prospettiva, il senso. Nell'ultimo capitolo parlo della necessità di tornare a osservare noi stessi, il pianeta Terra, un fragile pianeta. Quando esploriamo lo spazio in realtà osserviamo noi, capiamo meglio chi siamo. E questa è anche una riflessione filosofica e spirituale.

La trama del libro è quasi romanzesca, ha anche i suoi “eroi”, che tu chiami “cacciatori testardi” e “svitati”. Io sono un po' svitato già di mio, per fortuna. Certo, non tutti gli svitati sono Galileo Galilei, a volte la follia non porta da nessuna parte, però una dose di imprevedibilità, di originalità, di rischio, ci vogliono nel lavoro scientifico. Anzi, quello che manca oggi è proprio la promozione del rischio. I fondi per la ricerca, oltre ad essere pochi, non vengono dati a idee challenging, rischiose. Quando scrivo una proposta di finanziamento e di osservazione, chi mi giudica vuole già sapere cosa scoprirò... Ma come si fa? Va bene muoversi in una strategia più o meno chiara, però quella strategia non deve essere dominata dai pregiudizi attuali. Se ho la minima speranza di fare una scoperta importante, che ci porterà su una strada nuova, me la impedisco già in partenza non lasciando un po' di spazio all'ignoto, all'incerto. Lo svitato è il testardo cosciente, consapevole, preparato, che ha un'idea originale non ancora condivisa.

Questo vale anche e soprattutto in un campo come quello della ricerca dei pianeti. La definizione stessa di pianeta è cambiata nel corso dei decenni. Non era facile andare a chiedere finanziamenti per cercare una “seconda Terra”. Adesso questa idea è un po' più mainstream. Ma esistono anche idee per cui rischiare non è considerato opportuno. Penso alla cosmologia della materia oscura: diamo per scontato che esista questa componente dell'universo e le ipotesi alternative vengono poco considerate.

Rappresentazione artistica dell'esopianeta TOI700-d basata sulle osservazioni del telescopio TESS

45 MAGGIO 2023 44 MAGGIO 2023
GIOVANNI COVONE

Ci sono idee e tecnologie che potrebbero essere promettenti fra cinque o dieci anni, ma vengono poco considerate in questo momento perché non immediatamente redditizie o perché non portano subito a pubblicazioni. La storia dei pianeti è emblematica da questo punto di vista. Adesso è molto più considerata, va sui giornali, sappiamo che possiamo aspettarci sorprese, che prima o poi troveremo un pianeta come la Terra.

Siamo passati dallo scoprire i primi pianeti un po' strani e lontani, alla convinzione che ci siano più pianeti che stelle. Anche grazie alle nuove tecnologie, a partire dal telescopio Kepler.

Nei primi anni a frenare la ricerca dei pianeti era la Nasa, che aveva i fondi, le équipe, per sviluppare strumenti utili, ma non lo faceva. L'idea di Kepler, cioè di un telescopio che cerca i pianeti studiando i transiti e le ombre, era nell'aria già negli anni '60 e '70. Ma la paura di rischiare e l'inopportunità politica hanno rallentato questo processo. Il progresso scientifico in astronomia è stato sempre determinato dallo sviluppo tecnologico.

Parlaci di TOI700-d.

Forse la Terra è davvero unica. Perché nasca un pianeta blu, ricco di acqua, ossigeno, vita, sono necessarie tante circostanze cosmiche diverse

Quello è stato un momento importante per la storia recente dei pianeti, e anche per il nostro piccolo gruppo di Napoli. C'era in orbita da pochi mesi un nuovo piccolo telescopio, il Tess, che cercava pianeti intorno alle stelle vicine (lo fa tuttora, è ancora in funzione), in particolare stelle di piccola massa, nane rosse. TOI700-d è stato il primo pianeta scoperto, di dimensioni simili alla Terra, nella “zona abitabile”, espressione che va messa tra virgolette, perché è poco opportuna scientificamente: significa solo che è alla giusta distanza dalla sua stella. Quindi è un target interessante per studi ulteriori. Se avesse un'atmosfera, se quell'atmosfera fosse abbastanza densa da poter proteggere un oceano di acqua, visto che la chimica è uguale ovunque, potrebbe essere adatto ad ospitare la vita. Questa scoperta ha avuto giustamente un certo riscontro, un risalto mediatico. Come gruppo di Napoli c'eravamo io e uno studente che si stava laureando con me. Il presidente della Camera Roberto Fico mi chiamò per chiedermi di andare a Roma con il “mio gruppo” e conoscerci: in realtà eravamo solo due da Napoli. Ma l'articolo lo abbiamo firmato in novanta, tra astronomi e ingegneri.

I titoli dei giornali furono un po' enfatici. Scrissero che era stata scoperta una seconda Terra.

La chiamarono Terra 2.0. Terra-Terra. E infatti nel libro faccio il parallelo col mozzo di Cristoforo Colombo, che urla “Terra terra, l'abbiamo trovata!”. Però non era l'Asia....

A volte capita di trovare una cosa più importante di quella che si sta cercando. Infatti. Per adesso non sappiamo granché di questo pianeta, molto lontano, cento anni luce. Nel frattempo abbiamo scoperto sistemi molto più vicini. Abbiamo solo da imparare studiando meglio un pianeta simile alla Terra. Potremmo trovare quel filo di Arianna che ci conduce a scoperte inattese.

Non basta puntare il telescopio nella direzione giusta per vedere un pianeta. Osservare e scoprire non vuol dire necessariamente vedere direttamente. Noi abbiamo visto l'ombra del pianeta che passava davanti alla stella. Lo abbiamo visto perché la stella diminuiva di luminosità. In quel caso abbiamo osservato tramite le ombre. Un giorno vedremo i pianeti direttamente, ma è il compito della prossima generazione di scienziati. Vorrei esserci quando potremo vedere la prima foto di TOI700-d, un puntino luminoso, un piccolo pallino blu a cento anni luce.

A proposito di “pallidi puntini blu”, è straordinaria quella visione della Terra dallo spazio (sei miliardi di chilometri) chiamata Pale Blue Dot, di cui parli alla fine del libro. Forse la cosa più importante è questa, la consapevolezza di quanto siamo piccoli e unici.

L'unicità della Terra è un'ipotesi scientifica possibile. Forse è davvero unica: perché nasca un pianeta blu, ricco di acqua, ossigeno, vita, Amazzonie, è necessaria la concomitanza di tante circostanze cosmiche diverse. Quell'immagine, proposta da Carl Sagan, è molto bella: l'idea era quella di farsi un selfie galattico. Non è un'immagine scientifica, non insegna nulla di nuovo, ma è un'immagine poetica, spirituale. E forse è una delle immagini più importanti della storia dell'astronomia, dove l'astronomia si confonde con la riflessione su noi stessi.

Da ragazzi capita di appassionarsi alla fanta-archeologia, all'idea che gli alieni ci abbiano fatto visita nel corso della storia dell'uomo.

Ho letto anch'io certi libri e ho imparato il metodo scientifico anche da quelli. Ho letto talmente tante bufale, da farmi capire che non potevano essere vere, perché la realtà non è fatta in quel modo. Mi è servito per sviluppare il mio senso critico. Dipende anche dal modo in cui leggi e scrivi certe cose. Mi viene in mente Arthur Clarke, che era uno scienziato serio e però in 2001 Odissea nello spazio racconta il monolite che aiuta l'uomo ad usare le ossa di animali morti come armi.

46 MAGGIO 2023
GIOVANNI COVONE
Giovanni Covone insieme al presidente dell'Unione Astrofili Napoletani, il prof. Edgardo Filippone. (foto di Roberto Vitale)

La vita che stiamo cercando non è certo quella di una civiltà evoluta. È quella più elementare, primordiale.

Nei primi anni del '900 eravamo ingenui e pensavamo che su Marte avremmo trovato una civiltà morente. Poi pensavamo che avremmo trovato foreste. Adesso pensiamo che forse nel passato è esistita la vita, probabilmente cento milioni di anni fa, ma non ne abbiamo ancora le prove. Se troveremo tracce di vita passata, saranno di vita elementare, fossili. Non cerchiamo certamente i progenitori degli egiziani, a la Stargate. Così come su Venere, su Titano o Europa, altro target affascinante per la presenza della vita. Cercheremo vita simile a quella esistente nei fondali oceanici terrestri. Io sono pronto a scommettere che c'è. Poi se allarghiamo lo sguardo all'universo possiamo chiederci: esistono civiltà aliene simili a noi, tecnologicamente avanzate e pronte alla comunicazione? Questa è una domanda seria, entrata nell'orizzonte della scienza. Perché abbiamo strumenti per provare a rispondere empiricamente a questa domanda. Non è più puramente fantascientifica.

Già solo trovare un microrganismo aprirebbe possibilità sconfinate, visto che viviamo in un universo sconfinato.

Trovare un microrganismo già ci aprirà il cuore, per dirla in modo poetico. Aprirà orizzonti scientifici inimmaginabili. Anche speculativi, filosofici, di considerazione di noi stessi, della vita sulla Terra. Poi certo il microbo, il pesciolino trovato su Europa (il satellite di Giove) non è certo l'essere che cerchi per dialogare. Oggi si valuta anche la possibilità di trovare una civiltà che magari sta affrontando i nostri stessi problemi di crescita o li ha affrontati in passato.

Trovare un microrganismo nello spazio aprirebbe orizzonti scientifici inimmaginabili. Anche filosofici. Ma oggi si cercano perfino tracce di civiltà che "non ce l'hanno fatta"

Ci sono articoli seri, pubblicati su riviste astronomiche importanti, che parlano della ricerca di tracce di inquinamento su altri pianeti. La nostra produzione industriale sviluppa gas come il biossido di azoto e noi siamo in grado con i nostri telescopi di trovare tracce spettroscopiche, chimiche, di atmosfere con troppo biossido di azoto. Scoprire questo, significherebbe trovare un pianeta morto, e quindi scovare dei fratelli galattici che non hanno saputo usare in modo produttivo la propria potenza tecnologica.

Atlantide!

Esatto. Metaforicamente parlando. Sarebbe una cosa un po' demoralizzante: loro non ce l'hanno fatta... Se invece troviamo l'ossigeno molecolare forse troviamo la vita. Sono certo che se rifaremo questa conversazione tra dieci anni avremo moltissime cose da dirci!

L'appuntamento è fissato: aprile 2033. Magari per quell'epoca avremo anche finalmente imparato che non si può sprecare «l'accidente cosmico» della Terra«un granello di polvere sospeso in un raggio di sole», per dirla con Carl Sagan

- «nell'autodistruzione»

Come scrive Giovanni Covone: «Non dobbiamo confondere fragilità con insignificanza, piccolezza con assenza di valore. Per quanto ne sappiamo, la Terra è l’unico luogo nell’Universo osservabile dove la vita intelligente e la consapevolezza hanno avuto una possibilità».

Di sicuro, dopo aver letto Altre Terre, guarderemo con occhi diversi alla ricerca astronomica e ai “testardi svitati” che vanno a caccia di pianeti. Volendo, li si potrebbe guardare anche come novelli «cavalieri della Tavola Rotonda, alla ricerca di un tesoro cosmico» inestimabile, visto che «una seconda Terra nella Galassia è il Santo Graal dell’astrofisica moderna».

A questo lungo viaggio, hanno dato il loro contributo menti eccelse e famose e ricercatori sconosciuti, filosofi, scienziati e perfino letterati. Ci sono Democrito, che ipotizzava l'esistenza di infiniti mondi, Epicuro e Aristarco, Copernico e Galileo, ma anche Immanuel Kant ed Edgar Allan Poe (sì, proprio lui) che ebbe l'intuizione di un universo non eterno, quindi non infinito nel tempo - il che rende impossibile osservare le regioni più lontane, visto che la luce di quei luoghi remoti non ci ha ancora raggiunto. Ci sono astronomi come Paul Butler, Mayor e Queloz, o il testardissimo Borucki, gente che ha scoperto le “super-Terre” e i pianeti orfani senza stelle, che ha progettato telescopi e ha ideato tecniche di osservazione ingegnose. Di quella storia fa parte anche il professor Ruggiero de Ritis che un giorno disse a un giovane aspirante astrofisico, Giovanni Covone, che «la cosmologia quantistica è interessante, ma adesso è il momento di cercare i pianeti». Lui all'inizio era più che perplesso, ma per fortuna gli diede ascolto. D'altra parte, che si tratti di studiare piccoli pianeti in orbita in regioni remote dello spazio, oppure il mistero della materia oscura, non cambia il senso e la bellezza di questa ricerca senza fine.

«La Natura è un Michelangelo inconsapevole che parte dal piccolo, spreca materia ed energia, ma costruisce meraviglie». Per apprezzarle fino in fondo, bisogna essere anche un po' filosofi e bambini. (f.t.)

49 MAGGIO 2023 48 MAGGIO 2023
GIOVANNI COVONE

Quel viaggio in bici psichedelico che ha reinventato la coscienza

WOM PUBBLICA L'IMMAGINIFICA GRAPHIC NOVEL IN CUI BRIAN BLOMERTH RACCONTA ALBERT HOFMANN E LA SCOPERTA DELL'LSD. ERA IL 1943

«Tutto brillava di una dolce fresca luce. Come se il mondo fosse nuovamente creato». Termina così, con le parole di Albert Hofmann, l'omaggio di Brian Blomerth al padre dell'LSD. Un coloratissimo happy end, alla faccia di quelli che pensavano di aver cancellato l'acido lisergico dalla storia dell'uomo Il "rinascimento psichedelico" è appena cominciato, come spiega Vanni Santoni nell'introduzione di

Bicycle Day (edizioni WoM) la versione italiana della magnifica e immaginifica graphic novel firmata Blomerth. Il «modo più poetico, dolce, bizzarro, versicolare (e, naturalmente, psichedelico)» per farsi un'idea di chi fosse Hofmann e di quanto sia importante quel suo mitico viaggio in bicicletta - dal laboratorio chimico della Sandoz a casa sua, a Basilea - in cui sperimentò per la prima volta gli effetti dell'LSD.

Ottant'anni dopo, è più che giusto celebrare quell'evento che, comunque la si pensi, fu fondamentale per la storia umana (anche politica e sociale), per la conoscenza e lo studio delle possibilità della coscienza (tra scienza e mistica, arte e psichiatria, tra la chimica degli "stati alterati" e certe forme esotiche di spiritualità legate all'uso di funghi psichedelici).

Chi era Albert Hofmann lo riassume Vanni Santoni: «Chimico geniale in forze alla Sandoz, scopritore dell’LSD, suo primo sperimentatore e autore del decisivo memoir LSD: il mio bambino difficile, primo sintetizzatore della psilocibina, membro del Comitato del Nobel, saggista scientifico di rara sensibilità per le humanities (non a caso autore di carteggi con personalità come Jünger, Huxley e Leary finiti dritti nella storia della letteratura), scienziato nominato da un comitato di esperti raccolto dal Daily Mail al primo posto tra i geni viventi nel 2007. Insomma, uno dei titani della scienza del Novecento».

anzi esperita, la trascendenza, in molti si chiesero: e adesso?»

In realtà il suo nome è caduto in disgrazia per decenni, a causa della damnatio memoriae che ha colpito l'LSD, dopo l'abuso collettivo e spesso sconsiderato che aveva portato al suo divieto assoluto. La dietilammide dell'acido lisergico era nata nel 1943 con l'idea di produrre un farmaco, ma poi sappiamo quanto divenne fondamentale per la "rivoluzione" degli anni Sessanta, il movimento hippy, il pacifismo, ma anche per la musica, l'arte, il cinema, il teatro, per la riscoperta delle filosofie orientali e delle tecniche di meditazione («Scoperta, anzi esperita, la trascendenza, in molti si chiesero: e adesso?»).

51 MAGGIO 2023
M EDITAZIONI
«Scoperta,

Poi arrivarono i violenti anni Settanta e il "riflusso" degli Ottanta, con la diffusione della cocaina e dell'eroina, che causavano dipendenza e fecero una strage. Viene inevitabilmente il sospetto di una regia consapevole.

Come scrive Vanni Santoni: «Il “sistema” aveva capito che nelle “molecole della pace” c’era qualcosa che rischiava di minarlo da dentro, e aveva provveduto a proibire tutto, bloccando al contempo ogni ricerca sul tema». Non si tratta di fare l'apologia dell'LSD, ma nemmeno approvare la furia repressiva che lo ha cancellato dall'esistenza per anni (o meglio, che lo ha costretto

alla clandestinità, quella sì pericolosa). Semmai si tratta di affrontare il tema con gli strumenti della ricerca e con l'indispensabile libertà di pensiero.

Lo dice lo stesso Brian Blomerth nello spassoso epilogo, introdotto da una buccia di banana, in cui tra le altre cose confessa quanto sia difficile raccontare persone realmente esistite, e scherza sulla Svizzera e sulla chimica (non ne sapeva nulla ma ha studiato, come dimostrano alcune pagine del libro piene di formule meticolose): «Non sono uno che pensa che le droghe siano il massimo dell'esistenza. Tuttavia ho visto un video di malati terminali di cancro che raccontavano le loro esperienze con la psilocibina e sono crollato. Non so se questo libro sarebbe piaciuto a Hofmann, ma so che voleva che l'LSD fosse studiato, e studiato correttamente. Quindi fate una donazione al Maps se potete. È una grande organizzazione non-profit per la legalizzazione delle sostanze psichedeliche per la ricerca»

Il "rinascimento psichedelico", in effetti, è cominciato nel 2006, con Hofmann centenario, ancora in forma, in un convegno a Basilea in cui si tornò a parlare di LSD come un "farmaco prodigioso". Da quel momento sono partite varie sperimentazioni (ad esempio per alleviare l'ansia dei malati terminali) ed è cominciata un'opera di rilettura e rivalutazione di questa sostanza. Rimandiamo ai pezzi successivi per affrontare il tema de rapporto tra LSD e ricerca interiore, vista la somiglianza tra certe visioni ed esperienze legate all'uso dell'LSD e la letteratura mistica. D'altra parte, lo stesso Hofmann ricorda di aver vissuto delle esperienze (mistiche, appunto) che hanno trasformato il suo modo di guardare il mondo e forse hanno anche influito nelle sua scoperta.

Rimandiamo al libro, invece, per tutto il resto: la poesia, l'invenzione, l'ironia, i disegni buffi e folli, le pagine in cui forme e colori prendono vita, si sciolgono e si dilatano, disegnano simboli o esseri strambi, sembrano voler uscire dai bordi, innalzarsi in verticale, verso il lettore, e poi sprofondare. Tutto questo dentro un racconto realistico, un resoconto quasi giornalistico, scientificamente corretto, e anche un po' di sentimento, in "technicolor comix".

Era inevitabile che il testimone di questo revival, in Italia, fosse preso da una piccola folle libera casa editrice come WoM (a cui abbiamo dedicato un lungo servizio sul numero di novembre 2022).

Davvero ottimo il lavoro di Matteo Pinna. Motivo per cui il già notevole Brian Blomerth's Bicycle Day nella versione nostrana diventa un oggetto da collezione. Con tanto di rap(tus) poetico finale dell'editore: «Allucinanti racconti sull'LSD danzano nell’intercapedine tra pupille e palpebre, con Hofmann che dal suo laboratorio interno alla mandorla della mente, nell’era psichedelica delle visioni schiette d’un mondo dietro il mondo allo specchio, dipana una delle più importanti scoperte scientifiche di tutti i tempi – la sua – per l’emergere di una nuova coscienza, parallela a quella umana, che da un chimico e stretto materialismo scientifico ha avanzato una Weltanschauung di natura mistica e trascendentale, in cui l’LSD (come la psilocibina e gli altri allucinogeni) giunge a inficiare ed incrinare l’edificio della razionalità materialista, lasciando scorrere flutti visionari di forze psichiche in una caleidoscopica riscoperta eleusina del senso divino

della psicagogia: il trip quale induzione catabatica verso le profondità vorticanti del Sé»

Facciamo volentieri pubblicità (esplicita esortazione al consumo) a un libro edito «con la cura cerimoniale propria agli ierofanti» in formato 16x23, quadricromia e l'aggiunta di quattro Pantoni fluo per esaltare le visioni psichedeliche del chimico-mistico. Senza dimenticare la «serigrafia UV spessorata che vi permetterà di toccare (e leccare) il sacro liquido e partire per un trip allucinato». In effetti c'è anche l'apposita pagina con un punto al centro e la scritta "lecca qui".

«Allucinanti racconti sull'LSD danzano nell'intercapedine tra pupille e palpebre, con Hofmann che dal suo laboratorio interno alla mandorla della mente, dipana una delle più importanti scoperte scientifiche di tutti i tempi»

52 MAGGIO 2023
«Il "sistema" aveva capito che nelle "molecole della pace" c'era qualcosa che rischiava di minarlo da dentro»

La graphic novel riccamente illustrata che tenete tra le mani racconta di alcuni significativi eventi intercorsi nella vita del “chimico mistico” Albert Hofmann. Si tratta di un’estrosa rielaborazione della scoperta dell’LSD, forse uno degli eventi scientifici più significativi del ventesimo secolo. Il libro è una festa per gli occhi: l’opera è stupefacente ed è quanto di più psichedelico possa esistere senza un vero e proprio potenziamento farmacologico.

La leggenda è stata raccontata e ripetuta molte volte, al punto che è difficile distinguere il mito dalla realtà, ma, considerando che di per sé l’LSD è un’entità quasi mitologica – eppure esiste – forse è giusto che sia così. Chiunque sia entrato in contatto con sostanze psiche-

deliche, e in particolare con l’LSD, avrà familiarità con la storia che Brian Blomerth racconta in maniera tanto affascinante e divertente. Alla fine degli anni ‘30, Albert Hofmann era un giovane chimico, lavorava a Basilea, in Svizzera, per la Sandoz Pharmaceuticals e venne incaricato di studiare gli alcaloidi della segale cornuta, un fungo parassita che cresce su questo cereale così come su tanti altri. Hofmann era alla ricerca di derivati semisintetici della segale cornuta che potessero essere utilizzati come analettico per la respirazione e la circolazione. Lavorava sull’acido lisergico, l’impalcatura chimica di base degli alcaloidi della segale cornuta e creò l’omologo di uno noto analettico, la dietilamide dell’acido nicotinico, commercializzato col nome di Coramina.

Introducendo il sostituto della dietilamide nel nucleo dell’acido lisergico, sperava di sviluppare un omologo della Coramina che fosse un efficace analettico ma senza controindicazioni sull’utero (gli alcaloidi della segale cornuta sono noti per il loro effetto stimolante sui tessuti uterini e sono tuttora utilizzati in ostetricia a questo scopo). Il risultato fu l’LSD-25, il venticinquesimo di una serie di derivati della segale cornuta sintetizzati da Hofmann.

Una volta sintetizzato questo composto, Hofmann lo affidò al dipartimento di farmacologia, il quale lo sottopose al vaglio del protocollo standard dei test biologici sugli animali. Il risultato fu irrilevante. Con amarezza Hofmann lo depose sullo scaffale, continuò a lavorare ad altri composti e se ne dimenticò. Era una delle epoche più buie della storia europea: meno di un mese prima, le truppe naziste avevano invaso la Cecoslovacchia; esattamente una settimana prima, il

9 novembre, la famigerata Kristallnacht nazista aveva portato all’arresto di oltre trentamila ebrei in Germania e Austria. L’Olocausto era iniziato. Facciamo ora un salto in avanti al 16 aprile 1943. Hofmann, rispondendo a quello che descrisse nel suo libro LSD: Il mio bambino difficile come un «singolare presentimento», decise di rimettere mano all’interessante ma apparentemente inefficace composto che aveva sintetizzato cinque anni prima.

55 MAGGIO 2023
«La leggenda è stata raccontata e ripetuta molte volte, al punto che è difficile distinguere il mito dalla realtà, ma, considerando che di per sé l'LSD è un'entità quasi mitologica - eppure esiste - forse è giusto che sia così»
«L'antidoto alla malattia che ha avvelenato la mente occidentale»
ERAVAMO NEL PIENO DI ANNI OSCURI, QUELLI DELLA VIOLENZA NAZISTA, QUANDO "L'ALCHIMISTA" ARRIVÒ ALLA SUA «TRASCENDENTALE CREAZIONE»
di Dennis McKenna
M EDITAZIONI
(©2023 WoM, "Bicycle Day")

Essendo svizzero e da chimico meticoloso qual era, Hofmann non si limitò a recuperare il campione vecchio-di-cinque-anni dagli archivi, bensì, dal momento che era impossibile sapere se il campione più vecchio avesse subito qualche degradazione chimica, ne sintetizzò una nuova serie.

Fu questa decisione, la risposta al suo «singolare presentimento», a cambiare la storia e lo stesso Hofmann per sempre. In qualche modo, durante il processo di preparazione (così si racconta), Hofmann venne accidentalmente esposto a quella che doveva essere una piccolissima quantità di LSD-25 appena sintetizzato, assalito da una sensazione di nausea e in preda a leggere vertigini non poté continuare il lavoro in laboratorio e tornò a casa in bicicletta, dove cadde

in uno stato simile a quello onirico. La sua immaginazione, fortemente stimolata, produsse una cascata caleidoscopica di visioni che brulicarono dietro le sue palpebre chiuse. Dopo un paio d’ore, le visioni svanirono.

Tre giorni dopo, il 19 aprile 1943, col sospetto che l’LSD recentemente sintetizzato potesse in qualche modo essere alla base della sua strana esperienza, Hofmann tornò in laboratorio e ingerì deliberatamente quella che, pensava, non potesse essere una dose sufficiente a provocare effetti indesiderati: 0,25 milligrammi, ossia 250 μg. Oggi sappiamo che 250 μg è una dose molto consistente di LSD, la sostanza psicoattiva più potente finora conosciuta. Quel giorno, Hofmann ebbe la prima esperienza completa da LSD mai documentata. Lasciò di nuovo il laboratorio per tornare a casa a cavallo della sua bicicletta e, questa volta, con la matrice stessa della realtà che si scioglieva e trasformava intorno a lui. Così si svolse il giorno più significativo della vita di Albert e, a mio avviso, della storia dell’umanità: quella data è stata immortalata e celebrata come il Bicycle Day, la Giornata della Bicicletta.

L’LSD è un esempio di tutto ciò che c’è di buono nell’umanità: il trionfo della scienza, della curiosità, dell’immaginazione, della mente e l’incessante ricerca di significato e di verità. Le abili mani di Hofmann hanno creato una molecola miracolosa che è stata (ed è ancora) uno degli strumenti più significativi mai scoperti per la comprensione della mente e della coscienza. Negli anni successivi, l’LSD ha dato vita a una rivoluzione nelle neuroscienze (in effetti, le moderne neuroscienze non esisterebbero se non fosse per l’LSD). L’LSD ha portato allo sviluppo di tecniche terapeutiche per uno spettro di disturbi umani che potrebbero ancora rivoluzionare la medicina, nonostante la loro brutale repressione alla fine degli anni ‘60, e ha catalizzato una rivoluzione sociale e culturale su scala globale che continua a scuotere la società ancora oggi. Non male per un composto scoperto per “caso”.

Si è trattato, infatti, di una concatenazione di circostanze talmente improbabile che c’è da chiedersi se sia stata davvero casuale. Nel suo libro Hofmann scrive di essere stato predisposto a esperienze mistiche spontanee fin dalla prima infanzia.

Potrebbe quel suo primo “viaggio” del 16 aprile non esser stato un evento accidentale dovuto all’esposizione ad alcune tracce di composto, bensì un’esperienza mistica spontanea derivante da quel suo «singolare presentimento» che gli suggerì la presenza di qualcosa di speciale celato nel composto sintetizzato cinque anni prima? L’LSD è l’archetipo della psichedelia; può qualcuno creare o scoprire un composto come l’LSD? Credo qui si debba piuttosto parlare di incarnazione della molecola. L’LSD è sempre esistito; come la pietra filosofale, come un’anima che aspetta di nascere, risiede in qualche regno celeste dell’inconscio collettivo, un diamante grezzo che esiste solo in potenza. In potenza, fino al giorno in cui il «singolare presentimento» di Albert lo spinse a prestare nuovamente attenzione a quel composto insignificante, il venticinquesimo di una serie, che aveva fallito tutti i test sugli animali, senza nulla di speciale... nulla di speciale, fino a quando, un bel giorno, dopo cinque anni d’attesa, dalla fila ordinata di centinaia di campioni che prendevano polvere negli archivi, esso non attirò nuovamente la sua attenzione e, come se volesse lanciargli un messaggio, gli disse: «Su, Albert, dammi un’altra occhiatina, ti è sfuggito qualcosa. Avrai bisogno di me uno di questi giorni».

Fu proprio in quel giorno del 1943, il Bicycle Day, che a Basilea, una città ricca dell’eredità di Paracelso e delle tradizioni alchemiche europee, Hofmann fece la sua scoperta. E fu proprio in quel giorno che centinaia di anni di fallimenti alchemici, infine, riuscirono nel laboratorio della Sandoz Pharmaceuticals: il giorno in cui Albert andò a fare un giro con la sua trascendentale creazione, vera e propria pietra filosofale, cambiando il mondo per sempre.

L’LSD fu un dono all’umanità dal regno degli archetipi eterni, un dono per la futura evoluzione della coscienza, che mai fu tanto necessaria come in quel giorno. Fu nel Bicycle Day – la vigilia di Pesach, il 19 aprile 1943 – che iniziò l’assedio del ghetto di Varsavia, durante il quale, in meno di un mese, avrebbero perso la vita oltre cinquantaseimila ebrei. Più di duemila Waffen-SS naziste, sotto gli ordini del generale Jürgen Stroop, irruppero nel ghetto con carri armati, artiglieria e lanciafiamme. Sebbene gli abitanti ebrei rimasti lottarono coraggiosamente, non vi fu per loro alcuna speranza. Il ghetto venne raso al suolo e il 16 maggio la

resistenza era ormai completamente schiacciata. Cosa possiamo ricavare dall’accostamento di questi eventi storici, avvenuti a poche centinaia di chilometri l’uno dall’altro? Forse questa è la lezione da tenere a mente: in quanto specie, siamo capaci del bene e del male più grandi. L’LSD e le altre sostanze psichedeliche possono essere l’antidoto alla malattia che ha avvelenato la mente occidentale da quando il Tempio di Eleusi fu saccheggiato e incendiato nel 396 d.C. Nato nel mezzo di una delle epoche più buie della storia, l’LSD è emerso come un faro splendente, una luce capace di illuminare i recessi più cupi della coscienza umana, una luce di speranza per l’umanità. E in un’epoca che sembra essere sulla soglia di una nuova era oscura, dovremmo sentirci particolarmente grati per la scoperta accidentale di Albert Hofmann, di quel suo «bambino difficile»: che egli possa risplendere nelle tenebre e condurre gli uomini verso un futuro più luminoso.

57 MAGGIO 2023 56 MAGGIO 2023
Noi non abbiamo ancora osato.
«L'LSD fu un dono all'umanità dal regno degli archetipi eterni, un dono per la futura evoluzione della coscienza, che mai fu tanto necessaria come in quel giorno. Fu nel Bicycle Day che iniziò l'assedio del ghetto di Varsavia»

il "materialismo"

IL SUO "LSD: IL MIO BAMBINO DIFFICILE" SI APRE CON IL RICORDO DI UN'ESPERIENZA SPIRITUALE INEFFABILE. RITROVARE L'UNITÀ DELLE COSE

«Illuminato dal sole mattutino, l'ambiente era saturo del canto degli uccelli; d'improvviso, tutto apparve in una luce insolitamente splendente. Forse per disattenzione mi era sempre sfuggito il reale aspetto della foresta primaverile che andavo di colpo scoprendo solo adesso? Essa risaltava nello splendore di una bellezza

primigenia, che toccava il cuore, gli parlava, come se avesse voluto abbracciarmi nella sua maestà. Mi sentii pervaso da una indescrivibile ed esultante sensazione di appartenenza e di pace interiore»

No, non è l'opera di un poeta. Queste parole sono state scritte da un chimico, uno scienziato, passato alla storia per aver inventato l'LSD: Albert Hofmann. Sono parole scritte nell'introduzione del suo celebre LSD Il mio bambino difficile (qui nella traduzione fatta da Roberto Fedeli per Feltrinelli) in cui racconta un'esperienza vissuta durante la sua infanzia, lungo il sentiero di una foresta svizzera, a Martinsberg sopra Baden. Chi ha qualche dimestichezza con la letteratura mistica ha sicuramente capito di cosa si tratta. Lo ha capito ancora meglio chi ha avuto la fortuna di vivere un'esperienza del genere, che è più diffusa di quanto si possa immaginare.

Lo dice lo stesso Hofmann, che parla di «accadimenti delle nostre vite interiori» in cui «la realtà ci appare in una nuova luce», anche se è impossibile trovare le parole che possano esprimere quella «gioia irrefrenabile», quella sensazione di essere una cosa sola con la natura e l'universo intero. Si tratta di esperienze testimoniate sia nella storia delle religioni che in quelle dell'arte, ma che «anche le persone comuni possono avere, nella loro vita quotidiana, sebbene la maggior parte non riesca a riconoscerne il significato e il valore». Quell'intuizione, quell'episodio spontaneo che si ripeté anche in altre occasioni, fu fondamentale per la sua scelta di «indagare la struttura e il fondamento della materia» e anche per la sua capacità di accettare l'esistenza di altre forme di conoscenza della realtà.

Hofmann era perfettamente consapevole del fatto che certe esperienze indotte dall'LSD potessero somigliare a quelle testimoniate in varie tradizioni spirituali, orientali ma anche occidentali, negli stati di illuminazione mistica, così come nei trip visionari indotti da certi funghi o erbe utilizzate in alcune culture indigene. Da qui la sua volontà di sperimentarne gli effetti anche al di là delle possibilità terapeutiche, e la sua visione quasi religiosa delle possibilità dell'LSD.

Scriveva: «Assistiamo in questi anni a una ricerca diffusa di conoscenza mistica e di spazi visionari per accedere a livelli più profondi e più vasti della realtà preclusi alla nostra coscienza razionale», per andare oltre la «visione materialistica del mondo» e la sua «crisi di valore»

L'idea era quella di provare a modificare la coscienza, utilizzare «l'induzione programmata di esperienze visionarie» tramite LSD o altre sostanze, oltre alle varie tecniche di meditazione, per andare oltre la visione dualistica diffusa, «verso la nuova consapevolezza di una realtà onnicomprensiva che includa anche il

soggetto conoscente, affinché l'uomo si senta unito con la natura vivente e il creato intero».

Tutto questo lo diceva all'inizio di un libro che raccontava nascita e proprietà dell'LSD, sottolineando però anche i pericoli legati a un suo «uso inappropriato ed equivoco»

È molto affascinante il racconto di questa scoperta, che da una parte è figlia dei progressi della chimica e dall'altra di una dose di casualità legata a fattori imponderabili, come può essere quello dell'intuizione creativa. Memorabile il resoconto delle sperimentazioni su se stesso, sia quelle positive che quelle negative.

«Assistiamo in questi anni a una ricerca diffusa di conoscenza mistica e di spazi visionari per accedere a livelli più profondi e più vasti della realtà preclusi alla nostra coscienza razionale»

59 MAGGIO 2023 58 MAGGIO 2023
Hofmann il mistico, che voleva superare
M EDITAZIONI

Perché un trip psichedelico può diventare anche un'esperienza terrificante, visto che si perde il controllo del proprio corpo e dei propri pensieri. Lo sapeva bene Hofmann, che la prima volta visse qualcosa del genere. Così come sperimentò il suo opposto, la gioia incommensurabile, i «giochi di colore e di forme senza precedenti» e poi «una sensazione di benessere e di rinnovamento. Tutti i miei sensi vibravano in uno stato di estrema percettività».

Parliamo di una sostanza che mostrava di avere una tossicità molto bassa e che non creava dipendenza. I pericoli sono sorti quando l'LSD è diventata una sostanza stupefacente di (largo) consumo, utilizzata anche da persone che non erano informate sulla sua azione imprevedibile e profonda. C'era un motivo per quella diffusione, secondo Hofmann: «Materialismo, alienazione dalla natura, mancanza di gratificazioni in ambienti di lavoro meccanizzati e inanimati, noia e sensazioni di vacuità in una società ricca e opulenta, carenza di un significativo fondamento filosofico e

religioso della vita». Furono anni incredibili, in cui capitava anche che un attore celebre come Cary Grant raccontasse di essere diventato una persona nuova grazie all'LSD, dopo aver cercato inutilmente la "pace interiore" attraverso l'ipnosi e lo yoga.

Si scatenò anche una sorta di isteria collettiva, in cui da una parte c'era l'entusiasmo di artisti, intellettuali, giovani hippy, e dall'altra i racconti di incidenti, suicidi, azioni delittuose legate all'uso di LSD, che può provocare «crisi paragonabili a insorgenze psicotiche di natura maniacale o depressiva». Ecco il perché del "bambino difficile", che è andato incontro a un bando totale, e la cui produzione era perseguibile per legge.

Hofmann è privo di qualsiasi fanatismo e propone un affascinante e fertile connubio tra lo spirito critico dello scienziato e l'intuizione visionaria del mistico e del pensatore libero.

Nel suo libro ci sono racconti di persone che hanno sperimentato l'LSD così come un approfondimento sui suoi "parenti messicani", a partire dal fungo sacro Teonanácatl. C'è l'incontro con Timothy Leary e quello con Aldous Huxley («Huxley si accorse che il valore delle sostanze allucinogene consisteva nell'offrire agli individui privi del dono della percezione visionaria spontanea, propria dei mistici, dei santi e dei grandi artisti, la possibilità di vivere questo eccezionale stato di coscienza»), ma anche il racconto del rapporto straordinario con Ernst Jünger, con cui si ritrovò a sperimentare l'LSD fuori dall'ambito medico: la cronaca di quelle esperienze è una delle parti più suggestiva del libro, così come il loro rapporto epistolare. Hofmann era consapevole dei problemi, anche etici, posti da una sostanza come questa. Il dubbio è che, al di là della sua capacità di «provocare l'apertura di una finestra aggiuntiva ai nostri sensi e percezioni», rischi di alterare il «soggetto stesso, nel nucleo del suo essere, il centro spirituale della personalità» (come scriveva a Jünger). E però come perdere l'opportunità di sperimentare quello stato in cui svaniscono i confini tra io conoscente e oggetto conosciuto, in cui «le cose si animano e assumono un significato più profondo», in cui «il soggetto rinnovato si sente beatamente fuso con la realtà esterna», uno stato «analogo all'illuminazione religiosa spontanea, l'unio mystica».

La questione è davvero complessa e delicata, come sa lo studioso di mistica e di discipline spirituali, in cui si parla spesso delle esperienze visionarie come un ostacolo e un pericolo, più che un aiuto, qualcosa che va superato se si vuole davvero arrivare alla "realizzazione del Sé". Ma ad Hofmann sono chiari i risvolti filosofici, esistenziali (oltre che sociali e politici) di una visione del mondo che va al di là della concezione occidentale che separa l'io e il mondo, trasformato in materia inanimata da usare, dominare, sfruttare, il che ha determinato il suo "destino nevrotico" (per usare le parole di Gottfried Benn): «Guarire significa poter esperire la realtà profonda delle cose che tutto abbraccia... Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è vivere di nuovo l'unione fondamentale con tutte le forme viventi, ed essere consapevoli della dimensione onnicomprensiva della realtà».

L'LSD come sostanza sacra, come aiuto alla meditazione orientata verso un'esperienza simile a quella sperimentata dagli iniziati ai misteri eleusini (citati largamente nell'ultimo capitolo, insieme a una visione

ben poco ecclesiastica del cristianesimo e dello "Spirito di verità" annunciato da Gesù Cristo nel Vangelo).

Con tutto un corollario di "nuova consapevolezza" e "nuova religiosità" , fino a pervenire «al prodigio e al mistero del divino: nel microcosmo dell'atomo, nel macrocosmo della nebulosa a spirale, nei semi delle piante, nel corpo e nella psiche dell'uomo».

Molti anni dopo, superato il 2000, Hofmann si ritrovò a scrivere una nuova prefazione al suo libro, riflettendo sul mezzo secolo passato dalla scoperta dell'LSD. Per ribadire che «l'utilizzazione dell'LSD in contesto medico non solo è priva di pericoli ma può arrecare vantaggi alla psichiatria quale strumento terapeutico». Ma anche per riaffermare la sua visione religiosa della realtà, che univa le droghe messicane e la chimica dell'LSD: «Come tutto ciò che proviene dal regno vegetale, sono doni del creato alla sua creatura dotata di coscienza, l'essere umano. È di ciò che dovremmo essere consapevoli, facendo di questo dono assai speciale un uso rispettoso e sensato».

61 MAGGIO 2023 60 MAGGIO 2023
«Ciò di cui oggi abbiamo bisogno è vivere di nuovo l'unione fondamentale con tutte le forme viventi, ed essere consapevoli della dimensione onnicomprensiva della realtà»

Qualche mese fa scrivevamo: “Bentornato cinema!”. Progetti titanici, autori in fibrillazione, produzione frenetica ad ogni latitudine, grandi maestri che escono dal silenzio. E qual è la casa del cinema per eccellenza, se non Cannes?

Basta guardare il manifesto (magnifico, come sempre) della 76ª edizione, in cui Catherine Deneuve emerge da una panorama marittimo, sulla Costa Azzurra, dalle parti di Saint Tropez, il volto sorridente, lo sguardo sognante. Era il 1968, sul set di un film di Alain Cavalier, La Chamade Più che un'immagine è un sentimento, uno slancio, le mani tra i capelli, la fame di vita. Come scrivono loro, che ci sanno fare: «Catherine Deneuve è ciò che il cinema deve ricordarsi di essere: sfuggente, audace, irriverente. Un'evidenza. Una necessità».

L'edizione del festival 2023 promette bene. Scorri l'elenco degli invitati e trovi di tutto: Martin Scorsese, con un capolavoro annunciato, un manipolo di registi

doc pluri-premiati - dal finlandese

Aki Kaurismaki al giapponese Hirokazu Kore-Eda, passando per il turco Nuri Bilge Ceylan – i grandi vecchi Ken Loach e Wim Wenders, autoroni americani come

Wes Anderson e Todd Haynes, tre italiani (Bellocchio, Moretti, Rohrwacher), sei registe in concorso (ci aspettiamo sempre molto da Jessica Hausner), ma anche Takeshi Kitano e Lisandro Alonso, un Harrison Ford ottantenne di nuovo nei panni di Indiana Jones e tanto altro ancora.

Thierry Frémaux, “delegato generale” di Cannes (il regista del festival), che si è sempre fatto notare per le sue scelte forti, si gode la sua rivincita (la rivincita del cinema in sala): «Il cinema è cambiato molto, ma è ancora forte. È stato fortemente malmenato durante la crisi sanitaria, non potendo difendere le sue sale chiuse di fronte al trionfo delle piattaforme. Ma tutto si è rimesso in marcia. Abbiamo letto delle predizioni idiote, che le sale non sarebbero ritornate, che il pubblico non si sarebbe interessato più al cinema ma alle serie, ecc.

Cannes celebra il cinema che si prende la sua rivincita

JOHNNY DEPP IN APERTURA, GRANDI AUTORI IN CONCORSO, SCORSESE, INDIANA JONES E FRÉMAUX CHE ESALTA LE SALE

Non è successo niente di tutto questo. Ma ciò non significa essere ciechi. Il mondo del 2023-2027 non sarà lo stesso degli anni Cinquanta, quando la televisione è apparsa, e nemmeno quello degli anni Ottanta, l'ultima grande crisi. Rimane una convinzione: il cinema viene sempre salvato dai suoi film e da coloro che fanno la loro gloria: gli artisti, i professionisti, la critica, gli spettatori. Quando ci sono dei film sullo schermo, c'è anche del pubblico nelle sale. Se poi sono dei buoni film, ancora meglio». È partita da qui, l'anno scorso, la cavalcata di Tom Cruise – a proposito di divi che hanno scelto di farsi vedere solo al cinema – con il suo Top Gun: Maverick, che secondo Scorsese ha salvato l'industria, con i suoi incassi straordinari, a cui hanno fatto seguito i nuovi record battuti da James Cameron con il secondo episodio di Avatar Ma si sa che Frémaux pensa soprattutto a un altro tipo di cinema, più coraggioso, rigoroso, impegnato. Di fatto il Festival di Cannes si è fatto notare negli ultimi anni per la sua battaglia contro le piattafor-

me, il che ha indirettamente favorito Venezia, che invece si è aperta alle produzioni Netflix e Amazon, così come alle serie, agli ibridi, ai VR, infilando una serie di edizioni notevoli. Il rigore di Cannes, però, alla fine ha pagato, se è vero che il cinema in sala sta riconquistando quote di mercato, e una grande realtà come Apple ha deciso di accettare l'approdo del film di Scorsese fuori concorso. Il Palazzo del Cinema e la città di Cannes visti dall'alto. Sopra, un'immagine del film "Jeanne du Barry" di e con Maïwenn e Johnny Depp (© Stéphanie Branchu / Why Not Productions)

62 MESE 2022
E VENTI
«DICEVANO CHE IL PUBBLICO NON SAREBBE PIÙ TORNATO. ABBIAMO LETTO DELLE PREDIZIONI IDIOTE. ORA TUTTO SI È RIMESSO IN MARCIA»
(© Festival di Cannes)
(© Festival di Cannes)

Ancora Frémaux: «Cannes presenta degli oggetti singolari, dei prototipi, degli oggetti d'arte che dicono cos'è il cinema e cosa lo distingue. Questo non vuol dire che ciò che propongono le piattaforme sia meno interessante. Ma la nostra priorità è difendere i film al cinema perché un'opera esiste grazie alle sale – che sono dei fari nella notte, dei punti di riferimento urbani – alla stampa che ne parla, ai dibattiti sul boxoffice, ai manifesti nelle vie, ecc. Così come grazie al pubblico, dall'amatore al cinefilo. Tutto questo crea una memoria, ormai da 125 anni!»

Tutto molto affascinante. Anche se poi a noi spettatori ciò che interessa sono i film che potremo vedere dal 16 al 27 maggio e che poi arriveran-

OFFICAECTO ET OCCUM

di una “figlia del popolo”, la sua scalata sociale, approfittando delle proprie grazie, fino a diventare la cortigiana preferita dal re. C'è molta curiosità per questo filmone in costume realizzato da un'autrice che in passato si è fatta notare per il realismo convincente (Polisse), le storie appassionate (Mon roi), le riflessioni sul tema dell'identità e della famiglia (allargata).

CONCORSO SUPER, DA WES ANDERSON A KORE-EDA, KAURISMAKI E CEYLAN, TRE

ITALIANI E SEI REGISTE

no (si spera presto) anche nelle sale italiane. A partire dal ritorno in grande stile di Johnny Depp, di cui in questi anni si è parlato per tutt'altri motivi e che ora si prende la sua rivincita aprendo il Festival di Cannes.

Sarà lui il primo divo a percorrere la mitica montée des marches, la scalinata rossa che è il sogno di chiunque faccia cinema. Johnny Depp sarà Luigi XV nel film Jeanne du Barry della regista-attrice

Maïwenn, anche protagonista di questa storia che racconta l'ascesa

La chiusura del festival, invece, sarà animata, grazie al nuovo film della Pixar, Elemental (che da noi arriverà il 21 giugno). D'altra parte Cannes vanta una primogenitura per quanto riguarda lo spazio riservato ai film d'animazione, accolti anche in concorso, a partire da Shrek, per arrivare ai bellissimi film della Pixar, come Up, Inside Out e Soul. Va detto che la casa produttiva guidata da Pete Docter non sta attraversando un grande momento creativo. Ma questo potrebbe essere un ritorno al (glorioso) passato. Un film pensato per il grande schermo, di cui si parla come di un'opera visivamente stupefacente, ambientata in una città in cui gli elementi (acqua, fuoco, terra, aria) vivono in armonia, e in cui una ragazza di fuoco decide di uscire dalla sua zona di comfort per esplorare il mondo e i propri sentimenti. In Concorso c'è solo l'imbarazzo della scelta. A partire da Wes Anderson, che col suo cinema geometrico, buffo, strambo, riempie sempre gli occhi, e che ha messo insieme un cast che sembra un all-stars: Adrien

64 MAGGIO 2023
Brody, Jason Schwartzman, Willem Dafoe, Tilda Swinton, Margot Robbie, Tom Hanks, Rita Wilson, Maya Hawke, Steve Carell, Matt Dillon, Scarlett Johansson... Tra i film più attesi, c'è il capolavoro annunciato di Martin Scorsese, "Killer of the Flower Moon", con DiCaprio e De Niro (© 2023 Apple Studios). Nella pagina a fronte, il manifesto di Cannes 2023, realizzato da Hartland Villa a partire da una foto di Catherine Deneuve firmata Jack Garofalo

In Asteroid City va in scena una convention della Junior Stargazer (studenti astronomi) nel mezzo del deserto, dove capiterà l'imponderabile. Il regista ne parla come di una «poetica meditazione sulla vita e sul suo significato»

Todd Haynes in May December torna a lavorare con Julianne Moore, con cui aveva realizzato lo splendido Lontano dal paradiso, qui in coppia con Natalie Portman, raccontando l'incontro tra un'attrice e la donna che deve interpretare. Mentre Club Zero è il titolo del thriller firmato Jessica Hausner (il suo Lourdes rimane memorabile, un po' meno Little Joe) con Mia Wasikowska. Suscita curiosità anche il ritorno di Jonathan Glazer, ben dieci anni dopo il suo ultimo film, Under the Skin: The Zone of Interest è ispirato all'omonimo romanzo di Martin Amis, storia di un amore impossibile tra il nipote

di un gerarca nazista e la moglie del sadico comandante del lager di Auschwitz, mentre là fuori, tutto intorno, va in scena l'orrore.

LEONARDO DICAPRIO PARLA DI CAPOLAVORO, MA C'È GRANDE ATTESA ANCHE PER KITANO E MCQUEEN

Altre cose da annotare? Kaurismaki non ha mai sbagliato un film, Ceylan ha girato solo opere d'arte (quasi ogni sua inquadratura lo è) e poi c'è Hirokazu Kore-Eda, autore di alcuni dei più bei film dell'ultimo decennio (su tutti: Un affare di famiglia). Bisogna aspettarsi ottime cose sia da Wang Bing che da Tran Anh Hùng. Poi ci sono i tre italiani, ovvero due mostri sacri come Marco Bellocchio e Nanni Moretti, insie-

me a una pupilla di Cannes, Alice Rohrwacher.

C'è anche spazio per le sorprese, le possibili scoperte – che è poi una delle funzioni principali di un festival dell'arte cinematografica – sia in Concorso (c'è un debutto assoluto, quello di Banel E Adama) sia soprattutto nel Certain Regard, la sezione parallela, piena di esordienti (addirittura otto, una specie di record). In ogni caso, come sempre, andare a Cannes significa fare un giro del mondo in pochi giorni, visto che arrivano film da tutti i continenti.

«Il cinema è presente dappertutto –dice Frémaux. - All'improvviso ecco che arriva un film sudanese, mongolo, congolese. L'Africa del Nord continua ad affermarsi. In questi territori, la nuova generazione è composta da molte realizzatrici, come d'altronde anche in Senegal. Cannes è un festival mondiale, e globalizzato».

Ma agli occhi degli appassionati, anche non cinefili, spicca anche il programma del fuori concorso. Dove regna sovrano il grande Martin Scorsese, con un altro film fiume, Killers of the Flower Moon. Leonardo DiCaprio è ancora una volta protagonista (con Scorsese ha già girato Gangs of New York, The Aviator, The Departed, Shutter Island e The Wolf of Wall Street), ma nel cast c'è anche Robert De Niro. Siamo negli anni '20, nella contea di Osage in Oklahoma, dove vengono uccisi dei nativi americani dopo la scoperta di un giacimento petrolifero, in un terreno di loro proprietà. Gira da tempo la dichiarazione della costumista del film, Jacqueline West, alla quale DiCaprio avrebbe confessato che «abbiamo lavorato

a un capolavoro». E lui non è uno che dice certe cose alla leggera. Un'altra anteprima mondiale di peso riguarda il cinema di intrattenimento ed è quella di Indiana Jones e il quadrante del destino, diretto da James Mangold. Stavolta siamo nel 1969, Indy è ormai un ex-avventuriero in pensione (anche Harrison Ford era convinto di aver pensionato il personaggio), quando viene coinvolto dalla figlioccia nella ricerca di un oggetto misterioso. C'è spazio anche per le serie e le contaminazioni tra piccolo e grande schermo. A Cannes infatti arriverà l'anteprima di The Idol, storia dell'ascesa di una star del pop, dentro una relazione tossica con un guru della musica, tra sesso ed eccessi, come ci ha abituato Sam Levinson, il creatore di Euphoria.

Il potente e intelligente direttore del festival, anzi "delegato generale", Thierry Frémaux. In alto, una vista della mitica "montée des marches"

67 MAGGIO 2023 66 MAGGIO 2023
"Indiana Jones e il quadrante del destino" (© 2022 Lucasfilm Ltd. & TM.)
(© Festival di Cannes)
(© Festival di Cannes)

Ma c'è anche materia per cinefili, a partire dal nuovo film di Kleber Mendonça Filho e dal ritorno di Lisandro Alonso, straordinario cineasta scoperto proprio a Cannes (La libertad, Los muertos, Liverpool, Jauja), qui col suo Eureka, già visto altrove (ma da pochi eletti) di nuovo al lavoro insieme a Viggo Mortensen. Noi tutti amanti del cinema di Takeshi Kitano non perderemo di certo Kubi, film d'azione con Ken Watanabe, che

rivisita la storia del signore della guerra Oda Nobunaga, costretto al suicidio nel tempio di Kyoto nel 1582.

Attesissima, sul fronte documentari, l'opera di Steve McQueen (Hunger, Shame, 12 anni schiavo) che racconta la città di Amsterdam sotto l'occupazione nazista.

«Il cinema – dice Frémaux – è anche un documentario di 4 ore su Amsterdam durante la Seconda Guerra Mondiale o un film in 3D

di Wim Wenders su uno scultore... La selezione include delle commedie, ma anche dei film che vogliono soddisfare coloro che cercano un cinema della forma e della radicalità. Sui contenuti, le questioni sociali che attraversano il mondo intero sono presenti anche nelle sceneggiature: la violenza sulle donne, la discriminazione razziale e sessuale, le questioni del consenso e del genere. L'oppressione quotidiana e i misfatti del neocapitalismo. La nuova generazione si trova ad affrontare il riscaldamento climatico, l'esaurimento delle risorse, gli interrogativi sul futuro».

Poi, come sempre, ognuna troverà a Cannes ciò che cerca. Il divismo, con la sua mondanità, i luoghi leggendari, il divertimento, oppure il rigore, la ricerca, l'autore. Magari troverà anche uno di quei rari film che riescono a conciliare arte e industria, pubblico e critica, entrando nell'immaginario collettivo. Non succede spesso. Ma se succede, meglio esserci.

L'avvenire ormai è passato Rimangono il cinema e l'amore

TORNA IN CONCORSO IL REGISTA ITALIANO PIÙ AMATO DAI FRANCESI UN FILM PIENO DI CANZONI, NOSTALGIA, CINEFILIA E TIC MORETTIANI CHIACCHIERE CON LE STAR

Ce lo ricordiamo tutti il sol dell'avvenire (di cartapesta) nel finale di Palombella Rossa. Era il 1989, un'era geologica fa. Un altro mondo, politicamente e cinematograficamente parlando. Già allora, in quel film, c'era qualcosa che poteva assomigliare a un tentato suicidio (in realtà era solo un gesto maldestro). Ce la ricordiamo la musica triste e bellissima di Nicola Piovani e le urla di Nanni Moretti, nei panni di Michele Apicella: «La gente è infelice. La gente è troppo infelice. E aspetta noi. Noi sappiamo dove andare. Noi sappiamo cosa fare. Noi abbiamo tante idee. Mamma, mamma sono tutti infelici, e noi abbiamo tante idee, noi siamo uguali agli altri, siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, mamma! Mamma! Vienimi a prendere!»

Era l'apoteosi di un disincanto disperato che però era aperto al futuro, con la gente proiettata verso il sole, in uno slancio improbabile, dentro un'immagine poetica e grottesca, e la risata di un bambino. Ecco, ora quel futuro è arrivato e il

sol dell'avvenire è diventato un film nel film che ne contiene almeno altri due. La tristezza di allora si è trasformata in feroce nostalgia.

L'apertura al domani si è incarnata in un'ostentazione orgogliosa che gira in tondo.

Tra quel finale che guardava al futuro e questo nuovo inizio, proiettato nel passato, ci sono i film

più intimi di Nanni Moretti (La stanza del figlio, bellissimo, con cui vinse Cannes, e Mia madre)

e quelli più apertamente politici (Aprile e Il caimano), un capolavoro fuori-categoria come Caro Diario e riflessioni più o meno riuscite, come Habemus Papam (più) e Tre piani (meno). Era arrivato il momento di rifare i conti con Michele Apicella e con Nanni (con una storia partita da Io sono un autarchico ed Ecce Bombo e proseguita con operette indimenticabili come Sogni d'oro, Bianca, La messa è finita).

69 MAGGIO 2023 68 MAGGIO 2023
(© Festival di Cannes) (© Festival di Cannes)

Ed ecco allora Giovanni, regista di un film che racconta due comunisti convinti (Silvio Orlando e Barbara Bobulova) alle prese con la repressione sovietica della rivolta ungherese (e con un circo ungherese in trasferta). Ci sono tutti i tic, le mosse, le ossessioni, le invenzioni surreali, tanto amate dai fan del cinema di Nanni

Moretti: le canzoni stonate, i balli impacciati, i dialoghi fuori tempo e fuori luogo, la fissazione delle scarpe, i palleggi in piazzetta...

Giovanni è in crisi, anche se finge di non saperlo. Sua moglie (Margherita Buy) gli vuole bene ma non lo sopporta più. Sua figlia si innamora di un anziano gentiluomo. Intanto il regista pensa già al prossimo film, ispirato a Il nuotatore di Cheever, e contemporaneamente ne immagina (ne incarna) un altro, la storia di una coppia raccontata attraverso indimenticabili canzoni italiane (Battiato, Tenco, De André).

Cosa faranno i comunisti no-

smo? Sul film aleggia un suicidio, il finale previsto, in cui si stratificano i vari livelli del film: il significato evidente, coi suoi corollari buffi e tragicomici, e quello più nascosto, profondo, che aleggia come un senso di morte, la “fine di tutto”.

strani? Seguiranno Togliatti, la sua adesione supina alla violenza sovietica, per disciplina di partito?

O avranno il coraggio di reagire, di cercare una via italiana al sociali-

Nel frattempo Giovanni se la vede con Netflix e i suoi funzionari macchiette, che ragionano sui film come fossero prodotti standard, ma anche con un giovane regista che usa la violenza con superficialità, approssimazione, compiacimento. La svolta è questa, una sorta di lezione-spettacolo, con apparizioni alleniane (ricordate Marshall McLuhan?), da Renzo Piano a Corrado Augias. Uno di quei momenti in cui ci ricordiamo che straordinario regista è Nanni Moretti, grazie a un piano sequenza dentro cui esce malinconicamente sconfitto, dopo il suo delirio moralistico, buono e giusto, ma totalmente inutile, interminabile (quasi come la scena evocata da un film di Kieslowski, Breve film sull'uccidere).

Il cinema - dice Il sol dell'avvenire, facendo cinema - non esiste più. Ma in fondo ci siamo abituati a tutto, anche al fatto che non esista più la politica, o l'etica, o il buon senso, forse neanche le buone canzoni.

A Nanni Moretti, però, questo interessa fino a un certo punto: il cappio è al collo e al posto della Vespa c'è un monopattino. La storia la fai con i "se" solo se hai perso (il tema che apre alla sorpresa finale).

A lui interessa dire ciò che ama e ciò che proprio non sopporta, come ha sempre fatto.

Come si fa a non volergli bene? Eppure tutto appare così finto, stanco, forzato da sembrare una parodia (come certe trovate degli ultimi film di Woody Allen), la messinscena di una dissoluzione.

Non c'è nulla di male nella nostalgia, e men che meno nel disincanto.

Viene il giorno in cui devi confessare a te stesso e agli altri che hai bisogno degli antidepressivi per tirare avanti.

Ma è tutto troppo detto e pensato per gli "amici", i compagni di

"quella generazione", gli orfani di quel sogno (politico, cinematografico, sentimentale) che possono riconoscersi nella stessa delusione e in quella specie di tardiva speranza. Agli altri forse il film apparirà come una reazione malmostosa ai tempi politici che stiamo vivendo, una parata identitaria. Niente di più lontano dalle intenzioni di Nanni Moretti, che mette in scena la sua “sconfitta” mentre esalta orgogliosamente la sua diversità. E

comunque, come sempre, alla fine ci rimane l'amore (che lui non riesce mai a dire, se non in un dialogo suggerito).

I fan piangono di gioia. Gli altri ci vedono solo della malinconia militante e il solito ego grande così. Di sicuro Cannes ama Moretti e anche questa volta lo ha messo in concorso (come si merita).

A chi scrive, il film è piaciuto in teoria, ma in pratica quasi per niente. Nanni se ne farà una ragione.

71 MAGGIO 2023 70 MAGGIO 2023
TRE FILM IN UNO: UNA STORIA COMUNISTA, UN MEDLEY DI CANZONI, UN TUFFO NEL SURREALE

QUALITÀ E CURVY PER STARE BENE E DIRE CHE "LA VIE EST BELLE"

Il negozio, tra funzione sociale e scelte doc, perché un vestito non si può comprare online.

Marchi importanti, capi ricercati e simpatia

Il negozio come baluardo di qualità e socialità. Di un modo diverso di vivere l'esperienza dell'acquisto (sì, perché è un'esperienza anche quella), evitando il consumo spiccio, la spesa frettolosa e inconsapevole, il prodotto comprato “al buio”, su un sito online, o dentro un grande magazzino fatto di vestiti tutti uguali. Il negozio come luogo in cui incontri una persona di cui ti fidi e con cui magari è piacevole chiacchierare. Il cui assortimento non nasce da un algoritmo o acquisti casuali su un catalogo, ma dalle scelte di chi ama la diversità, la maglia originale, la gonna o il pantalone con un taglio particolare, il vestito elegante che sta bene anche a chi ha una taglia forte.

La vie est belle è quel negozio. E il nome dice già tanto sullo spirito con cui è nato e la fama che si è conquistato in soli sei anni di vita.

Irene Pennacchia e sua sorella

Catia ci credono davvero che “la vita è bella” e che si può renderla più confortevole, gioiosa, colorata, indossando qualcosa che ti faccia

sentire a tuo agio, che ti rappresenti in qualche modo. La vie est belle ha due volti. C'è quello del “negozio di vicinato”che ormai è una specie protetta, un luogo di resilienza - in un paesone come Ferentino (circa 20 mila

abitanti in provincia di Frosinone), che ha la sua clientela abituale, gente che entra anche solo per salutare, e che è frequentato da persone esigenti, che non amano vestirsi uguali a tutti gli altri. E poi c'è quello del negozio di classe senza snobismo, che vende Operà e Cristina Durio e attrae clientela da fuori città, per la sua offerta molto ricercata, oltre alla grande attenzione dedicata alla donna “curvy”, e anche perché Irene e sua sorella non vogliono vendere a tutti i costi, ma indicano, consigliano (a volte sconsigliano vivacemente), hanno studiato per diventare “consulenti di immagine” e quindi sanno indirizzare le loro clienti.

Il bello è che questa storia è cominciata quasi per caso. O meglio, per un gioco del destino. «Io facevo tutt'altro nella vita – racconta Irene – lavoravo in un posto che produceva buste per la farmacia. Ma poi la mia azienda ha chiuso»

Ci ha ragionato un anno, poi ha fatto la scelta coraggiosa di aprire un negozio di abbigliamento che le assomigliasse. «Ho sempre avuto una passione per i vestiti “particolari”. Ho sempre cercato e acquistato per me cose diverse dal solito. Infatti abbiamo dei vestiti e dei marchi che non si trovano molto in circolazione, per la qualità, per il design, per tante cose. Anche perché al giorno d'oggi l'offerta è molto vasta, siamo a dieci minuti da Frosinone, a 60 minuti da Roma. Cerchiamo un cliente di nicchia».

Una delle prime scelte fatte, dopo le prime sperimentazioni, è stata quella di rinunciare ai vestiti per bambino («settore troppo particolare») e di puntare molto sul curvy.

«Sarò onesta, è stata una scelta commerciale, ma è sempre una grande soddisfazione quando riesci a trovare il vestito giusto per la tua cliente». Perché di questo si tratta. Far capire alle persone – tutte, a prescindere da come sono fatte –che esiste sempre il vestito giusto, che chiunque ha il diritto di sentirsi a proprio agio, comoda, bella, a prescindere dai canoni diffusi che impongono una donna fatta in un certo modo. Come hanno scritto di recente sui social: «Il miglior risultato di tutto il duro lavoro che facciamo è sapere di aver liberato le menti di tante clienti da un’immagine corporea negativa»

«È una nicchia difficile – spiega

Irene. - La donna curvy ha già il suo negozio di fiducia e difficilmente lo abbandona. Ma quando entra in negozio e diventa cliente poi difficilmente la perdi. La donna curvy non ha quasi mai le idee chiare, misura tantissime cose, trova un difetto ad ogni capo. Riuscire a consigliarla non è semplice». Ma sono queste le soddisfazioni che contano: far felici le clienti più esigenti. Curvy oppure no.

«Quando riesci a vestire qualcuno e poi lei ti sorride, ti ringrazia, va via contenta dell'acquisto, sei contenta anche tu. La nostra politica è quella di far sentire le clienti a proprio agio, ma non con noi, con i capi che indossano. Io sono onesta: se un certo vestito non sta bene a una cliente, sono la prima a dirlo. Non voglio vendere pur di vendere. L'ultima volta è capitata questa mattina: una donna ha visto una gonna in vetrina, l'ha voluta provare, ma appena l'ho vista le ho detto: “non mi piace”. E infatti non l'ha comprata. Ha comprato poi tutt'altra cosa, un pantalone. La prima pubblicità è la cliente, la fiducia che si instaura». Bisogna essere «anche un po' psicologhe, avere la pazienza di ascoltare i problemi delle persone. E rispettare i tempi di tutti. Io e mia sorella non stiamo addosso ai clienti, soprattutto a quelli nuovi.

73 MAGGIO 2023 72 MAGGIO 2023
S TORIE DI VITA E D’IMPRESA
«Quando riesci a vestire una cliente e poi lei ti sorride, ti ringrazia, va via contenta, sei contenta anche tu»

Chiediamo solo se hanno bisogno, ma poi diamo la possibilità di fare un giro, di curiosare, di guardare i prezzi. Non mi piace quando qualcuno ti sta addosso per vendere. Danno fastidio a me e capisco che lo diano anche agli altri»

Il negozio è nato sei anni fa e ha attraversato forse gli anni peggiori della storia italiana per il commercio al dettaglio. «Sì, è stata pesante. Non nascondo che ci sono stati periodi molto duri. È stata dura anche questo inverno, con le bollette

in aumento, il gas, la luce, la guerra....». Per andare avanti ci vuole «passione, pazienza, tenacia». Dopo di che i risultati arrivano.

Come si vince la battaglia contro il commercio online e la grande distribuzione? Con la qualità, il servizio offerto, le scelte personali.

«I miei fornitori, oltre a darci un campionario, mandano anche delle foto durante la stagione, per offrici nuove produzioni. Ma io preferisco andarci di persona, toccare la stoffa, vedere, capire.

«Vado di persona dai miei fornitori. Voglio toccare la stoffa, vedere, capire. L'abito non si può comprare online. In giro c'è molto fumo. La gente comincia a capirlo»

Capita che certi capi siano completamente diversi quando li indossi rispetto alla foto. E poi il tatto è fondamentale. Noi non facciamo l'online, anche perché compriamo i capi uno per uno, le nostre clienti non amano vedere il proprio vestito indossato da altre persone».

La concorrenza dei social è forte, ma la gente comincia a capire.

«L'abito e la scarpa non si possono comprare attraverso i social. Non è solo una questione di taglia, ma il sentirselo addosso, il toccarlo. E poi in giro c'è molto fumo, molto made in Cina. Con il tempo le persone lo stanno comprendendo. Preferiscono acquistare un capo sartoriale anziché cinque o dieci capi made in Cina» Un po' come per il cibo: meglio mangiare meno e sano, piuttosto che abbuffarsi di prodotti di scarsa qualità. «Io la penso proprio così. Da tutti i punti di vista. Noi abbiamo un negozio molto curato, carino, particolare,

abbiamo le vetrine più grandi (due), in centro, a 200 metri dalla piazza, sulla passeggiata principale. E garantiamo un servizio di un certo tipo»

La gestione è una questione di famiglia. «Il nome lo ha scelto mia sorella. Sì, ci crediamo che la vie est belle! Per forza. Noi ci compensiamo: io sono quella sempre carica, quella che farebbe sempre di più, acquistando più cose, lei è quella che mi frena, fortunatamente. Anche con i miei acquisti personali». I marchi scelti sono ottimi e vari. «Negli anni abbiamo cambiato due o tre marchi perché siamo andati a crescere. L'intento era quello di arrivare a un certo tipo di qualità. Vorrei avere solo marchi di qul tipo, ma molti fanno fatica e per dare una possibilità a chi non può spendere tanto ho trovato anche un marchio che è una via di mezzo. Ma si tratta sempre di cose particolari. Do quindi la possibilità di vestirsi in maniera diversa anche spendendo poco».

I nomi? «Per il curvy abbiamo solo un marchio medio-alto, Lisa Kott. Sono tutti tessuti naturali e piace molto. Per tutto il resto siamo riusciti quest'anno finalmente a prendere Operà, che è un marchio molto conosciuto e amato. Ci abbiamo messo sei anni, ma ce l'abbiamo fatta. Poi abbiamo Kikisix e Maidoma. Il marchio top è Cristina Durio, azienda sartoriale da cui riesco a farmi fare le taglie dalla 40 alla 54».

Ottenere un marchio di qualità non è cosa semplice. «Il marchio ha un agente di zona, a cui devi fare un minimo di ordini. Ci deve essere una fiducia reciproca.

Il negozio deve essere fatto in un certo modo: oltre ad avere le vetrine, deve essere sempre pulito, profumato, carino, ordinato. E i pagamenti devono esserci precisi». Come funziona la scelta dei capi da tenere in negozio? «Io sono molto di pancia, vedo, mi piace e prendo. Mia sorella è quella che segue le sfilate, la moda, i colori. Quando facciamo i campionari meno male che c'è lei. Io vedo una maglia bellissima, mi piace e la voglio prendere. Poi magari c'è mia sorella che giustamente dice: “Ma la nostra clientela non la mette”. Io tendo a buttarmi».

Ma le tendenze chi le decide?. «Le grandi case di moda. Se va il giallo le persone vogliono il giallo. Seguono i social, la tv, sono molto attente.

Questo è anche un vantaggio: io sei mesi prima so quale sarà la moda dei sei mesi successivi e questo è utile quando si fanno i campionari. Riesco ad anticipare e indirizzare la

cliente. Ma è anche un male, perché devo prendere degli impegni importanti nei confronti dei fornitori». La moda di quest'anno? «Il colore must è stato il lilla. Ma vanno bene anche il verde e il rosa (anche se a me non piace). L'arancione è un colore prettamente estivo, per l'abbronzatura, quindi giugno e luglio. Poi ci sono i colori che non tramontano mai: il beige, in tutte le sue sfumature, e il nero (l'estate molto meno)» È finito il tempo delle tute: «Adesso è il momento dell'eleganza. Il casual andava durante il lockdown». Seguendo la loro pagina Facebook (lavieestbelleferentino) troverete anche proposte, provocazioni,

citazioni e consigli di stile. «Lo stile è eleganza, non stravaganza; Eliminate il superfluo, non rinunciate mai alla comodità; I vestiti colorano l'esistenza, quelli a pois un po' di più; L'unica cosa che ci separa dagli animali è la nostra capacità di mettere accessori». Già, gli accessori. Ci sono anche quelli: «Abbiamo borse, collane, bracciali, spille, copriscarpe e foulard, pashmine. Belli, ma a un prezzo contenuto. Ci sono molti capi semplici che noi con gli accessori riusciamo a rendere particolari». Perché non bisogna mai dimenticare la regola della sobrietà. Un punto fermo, insieme alla giusta ossessione per la qualità.

75 MAGGIO 2023 74 MAGGIO 2023

LA TERMOTECNICA NON SI IMPROVVISA: DALL'ARTIGIANATO ALL'INGEGNERIA

Andrea Ronci racconta come è cambiato il suo mestiere, imparato sul campo e approfondito sui libri. Conoscenza e manodopera

Libri e attrezzi. Manodopera (specializzata) e competenza. La termotecnica non è una cosa che si improvvisa. Soprattutto in tempi come questi, in cui la tecnologia è in continuo miglioramento, al servizio del risparmio energetico, e la burocrazia è sempre più un labirinto in cui è difficile destreggiarsi. La Beauty Sun & Confort Ambientale può vantare questa doppia qualità, grazie al titolare Andrea Ronci, che non si è accontentato del lavoro

sul campo, e oltre al diploma di Geometra si è preso anche una laurea in Ingegneria gestionale (infatti è iscritto al Collegio dei Geometri Laureati).

Da una parte c'è l'esperienza maturata insieme al padre e allo zio, “a bottega” come si diceva una volta, «perché questo è un lavoro che si impara facendolo, bisogna metterci le mani» Dall'altra gli studi universitari e una conoscenza che vale doppio: non si tratta più di eseguire semplicemente ciò che viene sug-

gerito dai tecnici, ma di trovare la soluzione migliore mentre si lavora.

«C'è chi ti spiega come effettuare un lavoro sulla carta – spiega Ronci – ma spesso le cose sono diverse da come sembrano quando le guardi da vicino».

L'azienda romana ha un patrimonio di 45 anni di esperienza alle spalle. «Mio padre e mio zio hanno lavorato fin da ragazzi. Erano elettrotecnici e facevano riparazioni sui bruciatori. Poi, col tempo, hanno differenziato il loro campo di intervento. Il mercato è cambiato, non bastava più essere dei “bruciatoristi”, quindi hanno ampliato le loro competenze e hanno cominciato a occuparsi di centrali termiche».

Si parla di un periodo di grandi trasformazioni, cominciato negli anni Settanta, che prosegue ancora oggi. Cambiamenti tecnologici, impianti sempre più complessi, clienti che diventavano più esigenti. Che ci sapessero fare, lo dimostra l'importanza dei clienti per cui si sono trovati a lavorare, per conto terzi. Nel curriculum della Beauty Sun & Confort Ambientale risultano lavori di manutenzione per il Senato della Repubblica (da Palazzo Madama ai Filippini, dalla biblioteca al Palazzo Minerva ai Magazzini di via del Trullo) oltre che per la Federazione Italiana Atletica Leggera (piscine comunali, palestre, centri sportivi).

Andrea Ronci ha portato avanti questa storia, all'insegna della competenza, della specializzazione, delle certificazioni di qualità, a partire dall'ISO 9001 (con specifica per impianti termotecnici) e dall'abilitazione a operare ai sensi della legge 37/08.

«Questo è un mercato complesso. Molte persone si rivolgono a tecnici improvvisati, che lavorano sulle caldaie a 35 kw e magari fanno il lavoro per 2 mila euro, ma poi devono andare a cercare qualcuno che certifichi la conformità dell'impianto. Sono tanti, spesso stranieri, anche brave persone, grandi faticatori, che però non hanno una direzione tecnica, non possono lavorare sulla tubazioni, non conoscono i materiali... Noi non ci mettiamo in quel mercato. Lavoriamo con le certificazioni, con un certo tipo di procedure e di tecnologie». La questione è sempre quella: il valore della qualità. Che in questo campo significa realizzare un progetto termotecnico o idraulico adeguato, scegliere i materiali giusti per un certo tipo di fluido, lavorare seguendo le norme, utilizzare tecnologia all'avanguardia. Un investimento più importante in partenza assicura un impianto che dura più a lungo e che consente grandi risparmi a lungo termine. «Avendo una buona caldaia e una circuitazione efficiente si può anche risparmiare il 30% dei costi. Non tutti lo capiscono e soprattutto non tutte le famiglie se lo possono permettere. Ci sono persone che vivono con due mila euro al mese in due. Bisogna pensare anche a loro».

La Beauty Sun & Confort ambientale lavora soprattutto nel campo della termotecnica, la manutenzione e la riqualificazione degli impianti. «Il nostro forte è prendere condomini messi male e riqualificare le centrali termiche». Ma si parla anche di termoidraulica, di gestione e conduzione

di impianti di ogni dimensione (superiori o inferiori ai 35 kw), antincendio, climatizzazione. In questo campo la “politica degli incentivi” ha portato fieno in cascina solo alle grandi aziende, quelle che possono permettersi di esporsi finanziariamente. Anche se a volte ci si prova. «Abbiamo un super-condominio all'Eur, con duecento famiglie, vediamo se almeno lì si riesce ad arrivare all'eco-bonus».

Il nome dell'azienda suona originale per gli inizi legati a un centro estetico e alle forniture legate a questo settore. Ma poi si è sviluppata esclusivamente nel campo del “confort ambientale”, approfondendo anche l'utilizzo delle tecnologie più avanzate, dai riscaldamenti a pannelli radianti alle caldaie ibride con macchine di condizionamento. E nel corso degli anni è stata sviluppata anche

una conoscenza tecnica che rende il lavoro più efficace. «Oggi io mi occupo soprattutto del controllo amministrativo e tecnico, dopo tanti anni passati fra ponteggi e trabattelli – racconta Andrea Ronci. - Ho iniziato a studiare a 30 anni. Per riuscirci, mi chiudevo in ufficio durante la giornata, tra un lavoro e l'altro. Ora ci sono quattro persone che lavorano per noi e varie collaborazioni». Ora, soprattutto, c'è la competenza tecnica che si aggiunge a quella pratica, la conoscenza della burocrazia oltre che della tecnologia. Il risparmio energetico (ed economico), l'ottimizzazione degli impianti, l'efficienza dei sistemi di riscaldamento e climatizzazione dipendono anche dalla competenza di chi li gestisce. Alla fine, se si lavora bene, ci guadagnano sia l'ambiente che il portafoglio del cliente.

77 MAGGIO 2023 76 MAGGIO 2023
S TORIE DI VITA E D’IMPRESA
La Beauty Sun & Confort Ambientale è attiva a Roma nella manutenzione e riqualificazione degli impianti

Che il destino dei boschi e quello dell'umanità siano indissolubilmente legati, ormai lo hanno capito in tanti. Ma pochi lo sanno spiegare come Peter Wohlleben, con la sua ormai proverbiale chiarezza, che è insieme istruttiva e poetica, ricca di esperienze personali, esempi concreti, storie, informazioni, tra pagine quasi diaristiche e improvvisi guizzi narrativi. Wohlleben è stato per vent'anni una guardia forestale, nella sua Germania, e tuttora gestisce un bosco di tremila acri. Ma ormai è anche un autore di fama internazionale, grazie a libri (diventati bestseller) come La saggezza degli alberi o Il bosco, istruzioni per l'uso.

La forza gentile degli alberi (edito da Garzanti) è una nuova puntata di questa epopea enciclopedia dedicata al bosco. Che non teme di assumere anche toni forti, quando si tratta di mettere sotto accusa "l'ignoranza della silvicoltura" contemporanea, che crea piantagioni di alberi cagionevoli a rapida crescita (per la legna) portando a «risultati simili a quelli dell'allevamento intensivo del bestiame». La sua ricetta è all'opposto. «Dobbiamo ridurre la pressione che esercitiamo sulla natura, lasciare agire il bosco affinché si rafforzi da solo e mettere un freno a silvicoltura e caccia». Leggendo Wohlleben scoprirete perché il legno non è affatto ecologico e capirete che i suoi strali non sono il frutto di un ambientalismo ideologico, ma di scienza, numeri, esperienza. In questo libro scoprirete anche tante cose curiose e interessanti su come gli alberi imparano (sbagliando) e comunicano il loro sapere. E leggerete un messaggio di speranza: «Il bosco ritornerà, se solo glielo consentiremo». Un passo alla volta, partendo dal proprio giardino, noi e gli alberi ci salveremo insieme.

Il concetto di "albero madre" viene dalla silvicoltura. Ma da secoli era chiaro che gli alberi giocano un ruolo talmente fondamentale per la propria progenie da essere paragonabili ai genitori umani. Un albero madre è in grado di riconoscere, grazie alle radici, quali sono le proprie plantule. Attraverso delicate connessioni, le sostenta con una sostanza zuccherina: una pratica che ricorda molto il nostro allattamento. Anche gettare ombra, da parte dei genitori, è un gesto di premura, perché limita la crescita degli sbarbatelli che vivono sotto le loro corone. Altrimenti, alla piena luce del sole, schizzerebbero verso l'alto e produrrebbero grossi tronchi così in fretta che nel giro di un paio di secoli avrebbero consumato tutte le loro energie. Questa lentezza indotta dalla madre con dolce costrizione non è un caso, come hanno potuto osservare generazioni di forestali. Pertanto si parla ancora oggi di "ombra educativa", dunque di ombra gettata intenzionalmente.

Anche più avanti, nel corso della vita, gli alberi adulti si aiutano tra loro, pompando la soluzione zuccherina qua e là attraverso le radici: in questo modo gli esemplari deboli e malati possono superare i momenti difficili e prima o poi ritrovare la salute. Così possono tornare a contribuire a mantenere fresco il clima del bosco, cosa che va a beneficio di tutti gli alberi in egual misura.

In tempi di cambiamento climatico è ancora più importante non disturbare queste comunità del bosco (...) Laddove la sopravvivenza individuale dipende dalla forza della comunità, si lavora sempre in squadra (...) Recentemente gli scienziati hanno proposto una nuova era geologica: l'Antropocene. Be', penso che dovremmo mettere fine a questa era. Non intendo, naturalmente, che l'essere umano o la nostra civiltà debbano sparire. Ma dovremmo reinserirci nel ciclo della natura, dovremmo restituire alle altre creature uno spazio sufficiente affinché anche loro possano guardare al futuro senza preoccupazioni. Il ritorno su vasta scala dei boschi, che un tempo ricoprivano gran parte dei continenti, sarebbe un segno di grande speranza.

(Peter Wohlleben)

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80 MESE 2023
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