Dove si parla dell’Anima Mundi e di chi le dà voce, della Maria Brasca e il diritto al desiderio, del Ticino e la sua poesia (in dialetto), di Boris contro l’algoritmo, dei diari danteschi di Gadda al fronte, del cinema che è tornato N 6 | FEBBRAIO 2023
Babylon & Co.
Luigi Balocchi
Dolcenera
Carlo Emilio Gadda
Christopher Lasch
Francesco Pannofino
Marina Rocco
REDness
È il "rossore" provocato dalle emozioni forti.
Ma è soprattutto la “rossità”, la qualità del rosso, quella cosa (qualsiasi essa sia) che ci spinge a fare e creare.
La redness
è ciò che ci dà la forza di alzarci la mattina.
È l'entusiasmo, la motivazione, il senso, il fuoco sacro, la bellezza, l'idea rivoluzionaria, l'allegria.
REDness è la rivista di MondoRED, fatta di incontri e storie, di persone e personaggi.
Cultura, economia, arte, moda, scienza, cinema, sport, attualità...
Va bene tutto, purché sia fatto con redness.
4
58
EDITORIALE
4 Il grande falò
6
INCONTRI
6 Manu Dolcenera: un’artista libera che canta l’Anima Mundi
22 Marina Rocco: la Maria Brasca e il diritto al desiderio
S32 Luigi Balocchi: il “cuore corvo” di un poeta dialettale lombardo
44 Francesco Pannofino: il ritorno di Boris, con autobiografia
In copertina: Dolcenera
Foto di: Manuela Kalí
(servizio a pag. 6)
54
MEDITAZIONI
54 Carlo Emilio Gadda: la guerra? Era “santa”, diventò sporca e meschina
EVENTI
58 Bentornato cinema!
63 Babylon
64 The Whale
65 Gli spiriti dell’isola
66 Tár
67 Tutta la bellezza e il dolore Decision to Leave
68
STORIE D’IMPRESA
68 Poncato&Zocca: quando l’artigiano ci mette l’anima
74
COMMIATO
74 Christopher Lasch: “Contro la cultura di massa”
Direttore: Fabrizio Tassi
Progetto grafico: Marta Carraro
Redazione: MondoRed
Redness è un mensile edito da MondoRed, Corso Buenos Aires 20, Milano Contatti: info@redness.it, direzione@redness.it
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3 FEBBRAIO 2023 2 MESE 2022
è passione, arte, impresa, comunicazione.
OMMARIO
Il grande falò
Ese il mondo avesse un’anima? Sarebbe molto più facile pensarci indissolubilmente legati. Tutti, indistintamente, esseri umani, animali, piante, pietre, nuvole, mari... Ma anche pensieri, forme, canzoni, pianti o sorrisi, bisogni del corpo e dello spirito, diritti e doveri. Sarebbe più facile capire che “si vince” o “si perde” tutti insieme (che non posso essere indifferente a quella sofferenza o a quella foresta che brucia), se fosse vera quell’idea antica, diffusa in tante culture, secondo cui la natura è un unico organismo vivente, con un principio che la guida, una forza invisibile, un’energia intelligente.
I maori della Nuova Zelanda sono convinti di essere tutti discendenti da Papa e Rangi, Terra e Cielo, imparentati con alberi, uccelli, pesci (ce lo ricorda Andrea Staid, che abbiamo intervistato sul numero di gennaio, nel suo Essere natura). Gli indigeni Hmong e Dzao, del Sudest asiatico, credono che tutto abbia un’anima, che perfino le case abbiano un loro sviluppo organico, determinato dalla qualità delle relazioni di chi le abita e dal rap-
porto con ciò che la circonda (è natura viva, non materia inanimata che ci separa dal mondo).
Ci sono culture millenarie, in Oriente, fondate su questo modo di concepire la realtà, che sia il Sé indiano (ognuno custodisce una scintilla di quel principio superiore) o il Tao cinese. E in Occidente sono in tanti ormai a sottolineare le misteriose corrispondenze tra le scoperte più recenti della fisica e quelle concezioni tradizionali, fondate su un universo che è pura energia, suono, spirito, di cui sono fatte tutte le cose.
L’Anima Mundi la troviamo in Platone («il mondo nacque come essere vivente dotato di anima e intelligenza») e tra gli stoici (in forma di Logos), nel neoplatonismo e nello gnosticismo (come divina Sophia). Pietro Abelardo la evocava in forma di Spirito Santo, mentre Marsilio Ficino ne sancì la ritrovata fortuna nel Rinascimento. Di un elemento spirituale - un principio vitale intelligente - presente in tutte le cose, collegato all’anima del tutto, hanno parlato mistici, filosofi, poeti, il Romanticismo europeo
e il Trascendentalismo americano, Rilke, William James, Jung, Hillman e tanti altri.
In effetti non è così difficile pensarlo e sentirlo. Volendo si può immaginare la realtà, come faceva Plotino, nella forma di un grande falò che illumina la notte. La notte è l’universo sconosciuto, buio, la materia nella sua forma più caotica e informe.
Ciò che brucia senza consumarsi è l’Uno. Il falò emana scintille, le anime, frammenti di luce che rischiarano la notte. È grazie a quei bagliori se riusciamo a vedere qualcosa. A capire, a sentire. Non è affascinante pensare alla realtà come a una trama ininterrotta di cose e persone, idee ed emozioni, collegate tra loro?
Come se ogni elemento dell’universo, piccolo o grande, visibile o invisibile, avesse in sé una qualche forma di coscienza e consapevolezza, che si rispecchia in sé stessa (si conosce, si anima, si immagina agendo nel mondo) e anela a una ritrovata unità?
L’alternativa qual è? Un mondo fondato sul caso e sul caos, meccanicista, fatto di entità separate che si esauriscono nei loro corpi, gusci vuoti, che facilmente si possono trasformare in merci. Vite chiuse nel proprio egoismo, nei propri problemi, solitudini facilmente suggestionabili e ricattabili.
Redness, a febbraio, parte proprio da qui, l’Anima Mundi, cantata da Dolcenera, voce amatissima fin dalla sua prima apparizione, vent’anni fa, ma mai addomesticata. Un’artista libera, che
non si è accontentata di essere una cantautrice di successo, men che meno una popstar, e oggi canta la natura offesa, la gente ossessionata dai social, la scomparsa della dignità, della responsabilità, della coscienza critica. Ma continua a farci ballare e sognare con la sua voglia di pace e di sole, i ritmi dell’anima (dal sud del mondo), il coraggio di vivere tutto fino in fondo.
In chiusura, invece, abbiamo Christopher Lasch, che ci mette in guardia sulla nostra apparente libertà, che spesso è solo la possibilità di scegliere cosa comprare.
In mezzo ci sono varie forme di resistenza e ribellione, “pop” o “d’autore”. Dalla Maria Brasca che Marina Rocco riporterà in scena, insieme alla sua voglia di felicità, il “diritto al desiderio”, al poeta Luigi Balocchi, che crede nel Ticino, nella terra, nel legame con gli avi. Con Francesco Pannofino invece ritroviamo Boris, che dopo aver fatto a pezzi la retorica della soap all’italiana, ora racconta le follie dell’algoritmo.
A proposito di follia. Ce n’è una che non tramonta mai, quella della guerra, che Gadda ci testimonia a modo suo, prima entusiasta convinto, poi travolto dalla meschina realtà. Ma c’è anche quella anarchica e kitsch della Babilonia cinematografica, che è insieme la grande illusione e una possibile liberazione, l’immaginario che può mettere in discussione una certa narrazione del mondo. Più consapevolezza per tutti! (f.t.)
5 FEBBRAIO 2023 4 FEBBRAIO 2023
E DITORIALE
Manu Dolcenera
Il fuoco vivo di un’artista libera, che canta l’Anima Mundi
Un disco sociale e vitalista, d’autore e da ballare. Una realistica utopia
Il soul, il pop e i ritmi del sud. La solitudine e la scrittura.
La voglia di “pace alla luce del sole”
di Fabrizio Tassi
I NCONTRI
(foto di Chiara Mirelli)
Lo senti già dalla voce che Dolcenera ha “qualcosa” in più. Qualcosa che va al di là del talento (indiscutibile), della tecnica, del suo stesso amore per la musica. Lo capisci subito che dentro di lei c’è un fuoco che cova, in qualche insondabile profondità, che manda bagliori da lontano (segnali di fumo, anche) e poi divampa all’improvviso.
Chi ha ascoltato Anima Mundi, il suo nuovo album, sa di cosa stiamo parlando. È un disco che scalda, come un falò su una spiaggia tropicale, mentre da noi è inverno. Come il sole di quell’alba che inseguiamo da sempre, anche ingenuamente, quella che illumina un mondo nuovo, una nuova armonia, e che vista da qui (dall’Occidente addormentato) assomiglia a un’utopia. Lo fa senza cercare chissà quali virtuosismi o solipsismi musicali, senza esibizionismi cantautorali.
Con la poesia limpida e l’energia di chi è sempre stato “diversamente pop” e non ha niente a che vedere con il Mondo Take-Away, in cui si fa a gara «a chi si mangia prima» (musicisti compresi).
cui viene infilato quello che capita, possibilmente ciò che “funziona meglio”. Assomiglia più a un concept album, in cui testi, ritmi e melodie dialogano tra loro. Tanto che oltre alle canzoni inedite, si trovano pezzi già usciti negli ultimi anni, che vanno nella stessa direzione (ideale).
Si parte da Un altro giorno sulla terra, che ha quattro anni, ma è perfetto per dare la scossa iniziale («Sveglia!») e farti saltare in piedi mentre lo ascolti: «Che fai, smetti di credere, alla tua luna piccola, perché sorge il sole lassù? (…) Non arrendersi mai è una bella verità, se ci penso però che fatica si fa...». E si finisce con il nuovissimo Lo-Fi, quello in cui si parla degli influencer che postano seduti sul bidet, del mondo «sesso, politica e trap», che ha perso il rispetto e il senso di civiltà. In mezzo c’è la fine del mondo e la sua possibile resurrezione, la lotta che non si deve mai fermare. L’oceano e la stella chiarisce la questione brutalmente: «Siamo incatenati, siamo annoiati, si fa tutto e non si pensa a niente... ogni sera spegnersi davanti a un cellulare».
Ma non c’è da aver paura, anzi. Basta ricordarsi della nostra «scintilla, che è piena di luce, piena di amore, piena di vita» (come è Piena di vita la canzone in cui duetta con la voce di Gabriella Ferri).
ha avuto il coraggio di non farsi travolgere dal successo, continuando a fare ciò che ama, proteggendo la sua diversità (nelle intenzioni e negli ideali, prima ancora che nelle scelte musicali).
Con una voce del genere potrebbe vincere facile (ascoltare per credere la sua versione di Feeling Good di Nina Simone). Ma lei va avanti per la sua strada. Ed è proprio grazie a quella libertà che può permettersi un disco anfibio come questo, in cui pratica i ritmi della terra (il sud della Terra) e la liquida melodia del Mediterraneo, il pop e il cantautorato (in salsedine cubana), la musica brasiliana e la dance anni ‘80, la canzone italiana e il beat che ti costringe a saltare, però partendo sempre dalla scrittura, dall’idea. Sociale e vitalista. D’autore e da ballare.
Anima Mundi, in effetti, non è il disco-contenitore in
Amaremare evoca la «metà del Pianeta di plastica», dice che «serve spazio mentale per avere morale», ma il suo mantra suona come un incantesimo liberatorio (infatti l’ha adottato anche Greenpeace). Tanto che poi ci si ritrova lanciati nello spazio, «come avere il cosmo dentro gli occhi, guardare fuori dall’oblò di uno Spacecraft». Viviamo in un «crocevia di culture», basterebbe anche solo ricordarsi da dove veniamo per ritrovare la strada. Lei l’ha trovata evocando Calliope: «Questo pazzo mondo, vecchio mondo, resiste, resiste a tutto, alle violenze, a tutto il male. E madre natura si è già organizzata con la primavera come sempre». Chi non vuole un po’ di «pace alla luce del sole»?
In effetti lo abbiamo sempre saputo che Dolcenera aveva qualcosa in più, anche quando vinceva Sanremo e Music Farm, incassava un disco di platino dietro l’altro (da Un mondo perfetto a Il popolo dei sogni), firmava hit radiofoniche e canzoni premiate (Il mio amore unico, Il sole di domenica, L’amore è un gioco, Ci vediamo a casa, Niente al mondo...) ed era diventata la nuova stella su cui scommettevano l’industria della musica e la televisione. Ma lo sappiamo anche meglio da quando
Incontrare Manu Dolcenera - la persona, non solo il personaggio - significa andare oltre le domande di rito e lasciarsi andare al flusso, cavalcando l’onda della sua energia. Lei racconta, condivide e chiede a sua volta, con una sincerità disarmante. In effetti è un dialogo più che un’intervista. Peccato non poter trascrivere i silenzi e le esitazioni, le risate improvvise e le smorfie buffe, che fanno la sua bellezza, dentro e fuori. Ma già le parole rendono l’idea. Per tutto il resto, c’è la musica.
Qual è la tua Redness? La cosa che ti fa alzare la mattina?
A questa domanda possiamo arrivarci alla fine? Ti spiego perché. Se me l’avessi chiesto due o tre anni fa, te l’avrei detto che cos’è: il fuoco della creatività. Come penso e spero sia per la maggior parte di quelli che fanno un lavoro creativo. Però negli ultimi tempi ho la sensazione che molto spesso, anche quando un mestiere è creativo, viene governato da altre leggi, che non sono la libera espressione, il guardare dentro sé stessi e provare a trovare una voce unica.
8 FEBBRAIO 2023
9 FEBBRAIO 2023
La mia Redness? Due o tre anni fa avrei detto “il fuoco della creatività”. Però negli ultimi tempi ho la sensazione che spesso, anche quando un mestiere è creativo, viene governato da altre leggi, che non sono la libera espressione, il guardare dentro sé stessi e provare a trovare una voce unica
Dolcenera
Ma il fuoco rimane, no?
A me un po’ l’ha spento ultimamente. Il lavoro dell’album è stato pieno di fuoco, un fuoco enorme, che aveva la sue origine nell’Anima Mundi proprio. Adesso, però, mi guardo intorno, cerco qualcun altro che la pensi come me e non lo trovo.
Magari non lo trovi nel mondo dello “show business”, ma altrove ci sono. Il problema è che ognuno fa la sua cosa, anche bella, creativa, ma poi manca una vera connessione con gli altri. Ci hanno separati. Tante solitudini che faticano a dialogare. Così siamo più “leggibili” e controllabili. Basta guardare Facebook, ognuno vive la sua vita e la racconta, e tanto basta.
Questa cosa che dici è importante. Fa riflettere. Il fatto che nel momento della massima comunicazione – almeno per ciò che sappiamo oggi, domani non si sa - ci sia questa distanza, questa solitudine, soprattutto per una certa categoria di persone.
Ma non volevo arrivare subito ai massimi sistemi. Lo so che sei anche un po’ filosofa.
No, non sono filosofa, ma sono anni ormai che faccio solo dei ragionamenti sui massimi sistemi e non so neanche perché.
Ho ascoltato i tuoi podcast (“Una canzone, una storia: psicografia di un’artista femminile”). Pensavo fossero semplici biografie, il racconto di una vita e di una canzone. Invece dentro ci sono filosofia, psicanalisi, mitologia, esoterismo, simbologia...
Un lavoro apocalittico. Pur con tutta la passione che nutro per questo tipo di letture. Accostare questi temi alla vita di una cantante, a un’anima che hai studiato, è stato un lavoro davvero enorme. Anche lì, però, mi sono fermata. Ne ho fatti tre (Nina Simone, “Feeling Good”: l’Alter Ego; Judy Garland, “Over the Rainbow”: la vocazione e il Mito della Diva; Aretha Franklin, “A Natural Woman”: il Mito della Madre, ndr). Ne ho pronto un altro. Però quello su Aretha Franklin ho dovuto tagliarlo tre volte perché durava 1 ora e 55.
Poi è diventato 1 ora e 20.
Ho scoperto che i respiri umani durano almeno quanto il parlato e a un certo punto ho cominciato a segare i respiri, per dare la sensazione che fosse più veloce... Ma niente, non riesco a stare nell’epoca corrente nemmeno con quello. Ti dicono: il podcast deve durare la massimo un quarto d’ora, venti minuti a dir tanto.
Perché in teoria deve accompagnare chi stira, chi si sposta in macchina, oppure chi ha una pausa veloce.
Questo invece è un podcast che non deve accompagnare un cazzo di nessuno! È una cosa che volevo lasciare “alla storia”. Una ricerca. Poi, nel tentativo di non sentirmi un’alienata rispetto al mio tempo, ho detto: mi fermo, tanto non mi corre dietro nessuno.
Ho sempre fatto le cose in totale libertà. Non ho qualcuno che mi dice: devi pubblicare questo! Da un lato è un pro, dall’altro è un contro.
A volte si dà il meglio di sé quando si ha una scadenza.
Diciamo che mi sono fermata perché volevo provare a riabbracciare questa epoca che dice che i podcast devono durare tot minuti. Ma la cosa si è spenta solo momentaneamente, perché mi conosco: prima provo a riabbracciare la realtà, poi vado avanti per la mia strada.
Fammi fare lo psicologo: quel podcast, forse, è il frutto di un desiderio che riguarda la tua vita e il tuo lavoro di musicista; nel senso che ti piacerebbe essere guardata in quel modo.
Sì, è vero. E arrossisco un po’ mentre ti dico che è vero. Mi vergogno. Perché tu mi puoi dire: che cosa vuoi dalla vita? Vuoi che ti guardino in profondità? Risposta: sì!
Vuoi che la percezione di te avvenga su un altro piano?
Risposta: sì! Vuoi trovare qualcuno che viva, che pensi,
che senta il mondo come te? Risposta: sì, cazzo, sempre! La solitudine di cui parlavamo prima, la solitudine della scrittura, è un desiderio di condivisione. È una cosa diversa dal desiderio di “fare gente”.
Quando scrivo, se utilizzo una certa parola so già a chi mi sto rivolgendo. So che un certo tipo di persone verrà attratta da quella parola. Ma sono persone difficili da raggiungere visto che io, comunque, sono nel “mainstream del pop”.
Dolcenera, mai nome fu più azzeccato! Vivo una doppia linea di comunicazione, due strade diverse. Sono nel mainstream e non lo sono. Infatti mi definiscono “diversamente pop”.
Qual è il rapporto tra Emanuela Trane e Dolcenera? Sono due possibilità? Due personalità che vanno più o meno d’accordo? Ricordo ciò che dicevi nel podcast su Nina Simone ed Eunice Kathleen Waymon, sull’alter ego e il doppio.
10 FEBBRAIO 2023
Dolcenera Io
scrivo soprattutto quando sono felice. Anch’io soffro, ma ho questo desiderio di comunicare solo la parte solare. Non ho la soluzione al Mondo Take-Away. Però dico: “amore mio, cammina siempre!” e quella frase mi dà uno slancio, la forza di reagire
Emanuela è molto più estrema di Dolcenera. Ma non vivo lo sdoppiamento di Nina Simone, il doppelgänger non è una cosa che fa parte di me. Io in un certo senso sono ancora più estrema: Dolcenera farebbe ancora più pop.
Ma Dolcenera ti piace.
Mi piace, sì, ma ha un po’ nascosto la parte più estrema. Intendo quella totalmente senza regole, che si esprime fuori da ogni categoria, parlando di scrittura musicale. Non ho dato molto peso a quella cosa. Perché c’è un’altra parte di me che invece è molto rigorosa, legata a una forma, alla volontà di eccellere all’interno di uno schema.
Quindi c’è una parte anarchica, totalmente libera, selvaggia, e ce n’è un’altra che ama seguire lo spartito ed eseguirlo nel miglior modo possibile.
Nell’idea però di cosa sia per me, in quel momento, “lo spartito”. Si tratta di abbracciare un’onda
di ispirazione. Una cosa che da sempre gli artisti hanno creato e di cui hanno fatto parte. C’è chi la chiama “moda”. È quel movimento, quell’onda, che ti dà lo spartito, il contenitore dentro il quale vuoi stare in quel momento. Adesso, però, io quell’onda non la sento. In questo momento non c’è nessuno che mi ispira.
Magari l’onda la fai partire tu.
Eh.
In te convivono due parti, una molto razionale...
...cervellotica...
...e un’altra vitale, animale, sensuale, quell’energia pura che esce in Calliope.
Vero.
Ma tu sei metodica? Ti alzi la mattina e hai un programma da seguire? Oppure sei anarchica?
Ci provo ad avere un metodo. Ho un compagno che cerca di insegnarmi che il metodo esiste. Però sento dentro di me che per scrivere serve l’inaspettato. Tante canzoni le ho scritte in macchina, nel momento in cui meno me l’aspettavo.
Quando non ti sforzi e non ci pensi.
Io scrivo soprattutto quando sono felice. Questo è strano però. La maggior parte degli artisti, nella storia, hanno sofferto parecchio e nella sofferenza nasceva la scrittura. Anch’io soffro, soffro come un cane, ma ho questa strana energia positiva, questo desiderio di comunicare solo la parte solare, quella che ha trovato la soluzione, o che pensa di averla trovata. Anzi, diciamo quella che ha trovato il pensiero che alleggerisce l’animo. Perché io non ho la soluzione al Mondo Take-Away Però dico:
“amore mio cammina siempre”, hasta la victoria, e in quel momento quella frase mi dà uno slancio, la forza di reagire alla depressione, ad esempio quando vedo l’Africa mangiata dai cinesi, dopo che l’abbiamo già mangiata noi. Infatti nella mia vita ho scritto poche canzoni d’amore. Perché le canzoni d’amore si intendono come sofferenza d’amore.
La sublimazione del dolore.
L’ho fatto, all’inizio, quando ero più ragazzina. Ma subito dopo è entrata un’altra cosa, un altro modo di intendere l’amore. Quello per cui la vita di coppia non ha senso se non è contestualizzata nel momento storico.
E da lì mi è partito il pippone cosmico: noi all’interno dell’equilibrio dell’universo. Non ci sono più state vere e proprie canzoni d’amore e questo probabilmente non va proprio bene, perché il 90% delle persone (delle femmine) vuole ascoltare canzoni d’amore. Però vogliono sentirsi lagnare d’amore soprattutto gli uomini, non le donne.
Esattamente vent’anni fa, proprio a febbraio, hai vinto Sanremo Giovani con Siamo tutti là fuori. Quando ti guardi indietro, e vedi quella Dolcenera, cosa pensi?
Ero totalmente da compiere. Sono sempre stata una persona da compiere. Una che è cresciuta in ritardo rispetto alla sua età. Là avevo 26 anni, ma ero una perfetta adolescente. Come persona crescevo meno rispetto agli altri, come pensiero e ideali invece no. Mi mancavano le “relazioni”. Non sono mai stata brava a relazionarmi con le persone. Da bambina avevo una sorta di mutismo selettivo, parlavo solo con chi aveva da insegnarmi qualcosa che non conoscevo.
13 FEBBRAIO 2023 12 FEBBRAIO 2023
(foto Marco Minniti)
Dolcenera
Quindi non era timidezza.
No, forse non era timidezza. Perché dentro di me sentivo di avere un fuoco, un bisogno di esprimermi... La Dolcenera del 2003 era un’ingenua. Pensa che mi sono messa sempre lo stesso vestito. Non avevo riflettuto sul fatto che ci si potesse cambiare. Nella mia testa dicevo: io scelgo una cosa, un abito che mi rappresenta, e quello è. Ero talmente concettuale che non conoscevo la forma e i modi della realtà, della comunicazione. D’altra parte però mi rendo conto che quella cosa mi ha anche aiutata. Quella lì del 2003 ha dato un’idea molto definita di lei, nonostante io mi sentissi ancora indefinita. Pensa solo a quella maglia che indossavo, a mo’ di amazzone. Non sapevo perché mi piaceva, l’ho scelta perché mi sapeva di battaglia, di guerra, ma anche di sacri valori dell’Antica Grecia, c’entravano anche gli studi che avevo fatto, il classico... Sai cosa è successo, poi? Che ogni volta che ho indossato una “monospalla” ho vinto qualcosa.
Dentro questo disco c’è tutta me stessa: la me selvaggia, la voglia di energia positiva, il bisogno di sentirmi collegata al resto del pianeta, l’idea che siamo tutti accomunati dai ritmi del sud del mondo, la passione per lo spazio, la conoscenza, l’esplorazione...
le scarpe, mi butto a terra, comincio a girare come una matta e a urlare “Gigi, Gigi, questa è casa mia”! Ho sentito qualcosa... Non so, forse c’ero stata in una vita precedente. Ero sicuramente un’atleta.
Ti ci vedo nei panni dell’atleta.
Alla grande! Un’atleta finita male, però, perché tutti finivano male nell’antica Grecia.
Ieri guardavo alcuni tuoi video di tanti anni fa e sai cosa ho pensato? Che sembri più giovane adesso. Non so se è la libertà che ti sei data, l’energia, la curiosità. Da ventenne eri totalmente assorbita dalla performance. Eri più bloccata, lontana.
Anche lo sguardo era bloccato. Occhi spiritati, immersi in un altro mondo, senza coscienza di me. Avevo coscienza solo della musica. Io non esistevo. Non so, magari “quella lì” aveva più magia. Ma quando mi riguardo dico: dove stavo?
C’è chi ti rimprovera il fatto di aver partecipato a cinque Sanremo, di aver vinto premi e conquistato dischi di platino, ma di non aver vissuto fino in fondo la tua carriera. Sei rimasta come “di lato”. Quando ti rinfacciano questa cosa tu che reazione hai?
Il titolo Anima Mundi c’era fin dall’inizio o è arrivato dopo?
Una magia.
Vogliamo andare un po’ nel mistico? Ad un certo punto io e Gigi facciamo un viaggio che io non volevo fare, ad Atene. Se non ricordo male ero in concerto a Mykonos. Avevo un giorno libero prima di tornare in Italia, ma ero stanca morta, perché era la tournée di Ci vediamo a casa, con tantissime date. Mi opponevo con tutte le mie forze a quella gita. Ma lui si è impuntato e ha comprato i biglietti a mia insaputa. E così mi ritrovo a camminare per Atene tutto il giorno, incazzata nera. Fino a quando, nel tardo pomeriggio, saliamo fino al Partenone e, quando arrivo, impazzisco totalmente! Mi levo
Non è facile rispondere. Da una parte c’è un po’ di tristezza, perché se avessi vissuto una vita come “si doveva”, lavorativamente parlando, probabilmente oggi avrei la possibilità di condividere con più persone alcuni messaggi a cui tengo tanto, tipo quello di Calliope. Dall’altra penso che probabilmente, se fossi rimasta completamente in quel mondo, Calliope non sarebbe venuta fuori.
Se rimani in quel mondo rischi di spegnerti, di andare avanti in automatico. C’è chi fa la stessa cosa da vent’anni.
Scrivere Calliope è stato un atto di libertà. Piangevo e ridevo... Quel momento me lo ricorderò per sempre. Come quando è nata Ci vediamo a casa: in macchina, mentre andavamo verso Milano. Dico a Gigi “senti questa cosa” e la canticchio, così... mi è venuta spontanea.
C’era già. Questo disco è proprio un concept. Magari non sembra a un orecchio più superficiale, ma chi va in profondità lo sente. Poi chi mi conosce davvero, personalmente, sa che lì dentro c’è tutta me stessa: la me selvaggia, quella di “Donne che corrono coi lupi”, il libro di Clarissa Pinkola Estés, quella che stava ad Atene; c’è la voglia di vedersi dentro un contesto che non è il tuo piccolo mondo, ma è collegato al resto del pianeta; c’è la voglia di energia positiva; c’è l’idea che siamo tutti accomunati, a livello ritmico, musicale, dalle percussioni del sud del mondo; c’è la mia passione per lo spazio, la conoscenza, l’esplorazione, che esce in Spacecraft e che si è fatta anche persona.
In che senso?
Ho conosciuto un ingegnere capo della Nasa che è un mio grande fan. All’inizio non ci credevo. Mi ha scritto e ho
visto in calce alla mail il simbolo della Nasa. Pensavo mi prendesse in giro. Invece era un fan sfegatato, che conosceva tutti gli album a memoria, le parole di tutte le canzoni. Mi ha detto la cosa più bella che un uomo potesse dirmi nella vita: “Manu ricordati che quando ti arriverà un’immagine di questo sistema solare, o degli altri, sappi che tu con la tua musica hai contribuito a ispirare un piccolo uomo a fartele arrivare”. La mia passione che diventa realtà.
Gli incontri non sono mai casuali.
No, non lo sono.
Altre cose che ci sono nell’album?
Il mio spirito di opposizione, l’essere un bastian contrario. Se tutti fanno una cosa io devo farne un’altra. C’era il periodo in cui tutti facevano il reggaeton e io dicevo: va bene i ritmi del sud, va bene Cuba, l’idea di tornare alle origini ancestrali della musica, ma non farò mai il reggaeton.
15 FEBBRAIO 2023 14 FEBBRAIO 2023
Dolcenera
Non la chiamerei world music, però nel tuo album ci sono suoni e ritmi che arrivano da mondi diversi. Poi c’è la tua voce soul, l’anima rock, la scrittura cantautorale. Il risultato è pop, ma nel senso buono del termine: tu hai bisogno di comunicare, di condividere. Non sei l’artista che fa la sua cosa e “se mi capisci, bene, altrimenti chi se ne frega”.
Vero. Non so bene a che filone appartenga questo modo di comunicare.
“Diversamente pop” è una definizione che funziona.
Sì, forse sì.
Sottolinea la diversità, ma anche il fatto che la tua musica potenzialmente può piacere a tutti.
Il fatto è che nella storia della musica le cantautrici donne, di solito, sono persone che se la tirano un po’. “Se mi capisci bene, se no vaffanculo”. Io invece non riesco.
Perché hai voglia di provare a cambiare la testa delle persone.
Ma perché? Chi cazzo sono io?
Ma perché no? Uno nasce con questo bisogno.
Ma perché?
Non lo so perché. È una cosa di cui non puoi fare a meno.
Forse lo so il perché: perché io questa cosa la cerco negli altri. Come quando da piccola parlavo solo con quelli che mi stimolavano intellettualmente. Nel dare quella cosa, io in realtà la sto cercando. Faccio l’esempio di una musica lontana dalla mia: quando Bruce Springsteen canta Born in the U.S.A. riesce, con quella sua spavalderia, a lanciare un messaggio che è anche di protesta, un messaggio meraviglioso, potente. Quella visione, nella mia follia, è la stessa di Ci vediamo a casa, dove dico “la chiamano realtà questo caos legale di dubbie opportunità”. Una canzone che mi fu censurata a Sanremo.
“Quella cosa” la cercavi fin da bambina.
Mi ricordo quando mio zio Beppe mi fece vedere il Mistero buffo di Dario Fo, in cui recitava in grammelot. Avevo undici-dodici anni. Mio zio aveva un sacco di videocassette, era un patito di cinema, da adolescente mi ha fatto vedere Arancia Meccanica, Full Metal Jacket, Qualcuno volò sul nido del cuculo... Mi ricordo quei momenti come diamanti della mia crescita. Così giovane, poter vedere quelle cose, sapere che esiste un’altra possibile visione della realtà. La visione di Dario Fo mi colpì così tanto! Pensavo: come ha fatto a inventare un’altra lingua? Non avevo l’età della coscienza. Ma cominciai a guardarlo e riguardarlo, di continuo, per impararlo a memoria.
Tornando all’Anima Mundi. Quel concetto – l’idea della natura come un unico organismo vivente, l’esistenza di un principio cosmico unificante, la convinzione che siamo tutti collegati a un’anima universale – ha una lunga storia. È platoni-
co, ma è anche al centro del pensiero orientale, in tutte le sue forme, ha avuto un grande successo nel Rinascimento, è stato rievocato dal Romanticismo, poi è stato sconfitto dalla storia, dal meccanicismo. Ma è qualcosa che continua a tornare, che scorre come un fiume carsico e ogni tanto riemerge. Avatar è un kolossal, non è certo un film intellettuale, è un’opera pop, ma parla proprio del sogno di vivere in un mondo in cui siamo tutti collegati, tra di noi e con la natura.
L’ho visto due settimane fa. Avevo letto vari articoli sul senso di depressione che il film lascia a molti spettatori. E devo dire che è vero: alla fine sei depresso dalla tua nullità... Oggi, su instagram ho trovato un post dedicato a una frase di Battiato: “L’uomo crede di essere importante, s’immagina al centro dell’universo. Invece è zero, niente. E si rende ridicolo pensando di decidere, dominare. L’uomo diventa essere straordinario soltanto se si accetta come nullità”. Nullità, ovviamente, tra virgolette.
17 FEBBRAIO 2023 16 FEBBRAIO 2023
Dolcenera
Anche dal tuo disco esce questa cosa. L’idea che accettando di essere una parte del tutto possiamo riconnetterci con noi stessi, con gli altri, con le cose. E quindi scoprire la nostra vera grandezza, che non è l’egoismo, ma è la comunità, è lo spirito. Nel tuo disco c’è l’apocalisse, ci sono la disuguaglianza, l’inquinamento, la gente che vive solo sui social, ma c’è anche tanta vitalità. C’è luce. Chi ascolta il tuo disco ne esce felice.
Sì, assolutamente sì.
Siamo in un momento storico in cui vedo intorno a me tante regole, regoluzze e regole del cazzo, le regole dei social, le regole delle piattaforme, gli algoritmi, che servono solo a uniformare
Tu che collabori con Greenpeace, cosa ne pensi di ciò che sta accadendo oggi sul fronte ambientale? Da una parte ci sono i movimenti, guidati dai ragazzi, che danno speranza. Dall’altra c’è un greenwashing diffuso, sempre più plateale. Lo vedi anche tu? Come se ne esce?
Lo vedo benissimo. E dico questo: quando non se ne parlava per niente, vuol dire che eravamo lontani anni luce dalla possibilità di trovare una soluzione. Negli ani ‘80 non sapevamo nulla dei rischi dell’industria, dell’amianto, dell’inquinamento, eravamo lontani da una coscienza del pianeta. Oggi invece, tutti quelli che praticano il greenwashing, nella loro malignità, fanno il nostro gioco, perché ci ricordano dove sta la verità, la cura e l’attenzione per il pianeta che dobbiamo avere, nonostante loro.
Giusto. Me lo ricorderò la prossima volta che sentirò parlare di “riconversione ecologica”.
Quanto più si espongono, tanto più fanno il nostro gioco. Tu che produci energia in quel modo parli di “green”? A posto! Forza, parliamone... aggiungi dettagli... spiega!
Ora mi vuoi rispondere sulla Redness?
Ma come, è già finita l’intervista?
Siamo a 58 minuti, non voglio rubarti troppo tempo.
Ma non è niente! Un autore televisivo mi ha tenuto un’ora e venti per un’intervista in televisione da 8 minuti. E mi ha chiesto quattro cose lette sui siti di gossip.
Allora parliamo dei tuoi programmi, dei tuoi sogni.
Ai sogni per adesso non ci penso. Non faccio programmi a lunga scadenza. Vivo molto il momento. Sono anni ormai che vivo con l’idea di trovare il modo di non farmi appesantire dalla vita per poter scrivere. Quindi in questo momento sto vivendo un momento di vuoto mentale. Per poi ritrovare la me piena di quel fuoco che ora è leggermente sopito. Ora sono un po’ delusa.
Da cosa, dalla risposta? Da come è stato recepito il disco?
No, non è questo. Sono delusa perché non mi ritrovo nella musica di oggi.
Non c’è niente che risuoni in te, che faccia “onda”?
Forse solo i Coldplay, ogni tanto. Come dicevi tu, il tema dell’Anima Mundi “ha fatto il giro” e ogni tanto esce... Ma vedo tanta omologazione nella musica, proprio nel momento in cui doveva esserci l’apoteosi delle diversità. Siamo tutti “connessi” e facciamo tutte cose uguali.
Forse sono solo alti e bassi, come diceva Boosta sull’ultimo numero di Redness.
Ora c’è una libertà che sembra totale e invece è solo presunta, perché non c’è modo di orientarsi in questa scelta infinita, mancano guide, “maestri”. Magari fra qualche anno il caos prenderà una direzione.
Io rimango un’entusiasta. Il mio fuoco è sempre stato la scrittura. Ora sto lottando per ritrovarlo.
Gli orientali dicono che se non c’è il vuoto non ci può essere neanche il pieno. Serve innanzi tutto il coraggio di svuotarsi (dall’ego). Se sei “vuota” sei pronta ad accogliere “qualcosa”.
Il mio percorso da sempre è fatto di tanti vuoti. Tante volte sono rinata. Anche vuoti che ho creato io stessa. A partire da quell’incredibile scelta, quando ero sovraesposta dal punto di vista televisivo, all’apice del successo. L’apice è sempre l’inizio di una carriera, la gente si ricorda dei tuoi inizi, solo gli appassionati seguono tutto. All’apice del successo ho deciso che il personaggio ormai era davanti alla canzone, e quindi sono sparita. Brava Manu, bravissima Manu!
È così poetica questa cosa! Vuoi mettere? Sono capaci tutti di vivere di rendita davanti ai riflettori.
L’ho fatto in un momento storico in cui la legge era: se non ci sei sempre, muori. Anche avere a che fare con un assunto del genere ti fa stringere il cuore. Ti fai delle domande sulla tua visione, il tuo percorso. Ma non ho ancora trovato risposte. Sono una persona in evoluzione. Una persona che probabilmente, prima o poi, farà qual-
cosa di strano. Magari condurrò un programma televisivo. Forse, in un momento in cui ci sarà bisogno di qualcosa di diverso, tirerò fuori la cosa che ho dentro. Non mi dispiacerebbe. Pur non guardando mai la televisione.
Proprio mai?
In televisione, in tutta la mia vita, ricordo di aver visto il Sanremo di Pippo Baudo quando c’erano in gara gli ospiti internazionali, con Ray Charles che cantava Toto Cutugno. Per il resto la mia tv è fissa sul canale 64, Supertennis, la mia grande passione. E poi, in età un po’ più adulta, ho scelto delle serie televisive. Ogni tanto guardo La7 o Rai3. Aggiungo Celentano, quando faceva Fantastico. Ecco lui mi ha inciso il cervello. Avevo dieci anni, ero una fan sfegatata.
Quindi pur non guardando mai la televisione...
...penso che potrei fare una cosa bella. Ma dovrei prima sistemare una cosa, la stessa che devo sistemare per la tournée in partenza ad aprile. Devo mettere insieme il fatto che io non posso avere canovacci, perché così do il meglio di me, con la necessità di avere una scaletta.
Ma un canovaccio è solo una traccia.
No, non ne voglio sapere!
Ti vorranno mettere un auricolare nell’orecchio, altro che.
Ah ah. A me? Non credo proprio! Io riesco a dare il meglio quando so che qualcuno può andare via.
Nel senso di alzarsi e uscire?
Sì. Sono convinta che riuscirei a trovare il modo per non farlo andar via, usando l’imprevedibilità. Non so come dire: ho imparato a sentire come si muove l’atmosfera... Ma non riesco a razionalizzarla questa cosa.
Non razionalizzarla, falla e basta.
Giusto.
19 FEBBRAIO 2023 18 FEBBRAIO 2023
Dolcenera
Non è che io sia una ribelle. Non sono Che Guevara, Non sono Neo dentro Matrix. Però un occhio critico sulla realtà l’ho sempre avuto. Al massimo mi si potrebbe accusare di voler stare con un piede in due scarpe.
Alternativa e mainstream.
Dovrei prendere la decisione di non postare più niente su Instagram.
L’isolamento non è una soluzione.
Quello che pesa è il senso di solitudine.
Provato spesso dalle persone consapevoli.
Ma non è che la mia consapevolezza è limitata?
Ma il tuo messaggio arriva! Noi di Redness ci crediamo: le minoranze cambieranno il mondo.
Una volta ci credevo anch’io.
Non dire così. Una coscienza alla volta ci si arriverà, ci volessero pure mille anni.
Apprezzo l’ottimismo... Ora, comunque, sono pronta a rispondere
A cosa?
Alla domanda su qual è la mia Redness.
Vai.
Una delle canzoni simbolo dell’album è Lo-Fi. Cos’è il “dubbio” di cui parli, che si insinua, che ti prende. Perché parli di “rivincita dell’asino”?
L’asino è quello di Collodi. È chi non studia e quindi non può avere una strada sua, perché non ha le basi per poter fare un suo percorso personale. Siamo in un momento storico in cui vedo attorno a me tante regole, regoluzze e regole del cazzo, le regole dei social, le regole delle piattaforme, gli algoritmi, che servono solo a uniformare. Le vedo dappertutto.
Il momento storico che stiamo vivendo è quello della rivincita dell’asino. Il dubbio, la paura fottuta, è quella di perdere la Redness. Si insinua dentro, potentemente, il dubbio di essere entrata anch’io in quest’epoca. Di essermi fatta fottere.
La comunicazione è impazzita.
È una comunicazione deviata. Ma potentemente si insinua il dubbio di far parte di quelli che abboccano. E comunque la comunicazione estremista di oggi è colpa dei social. Non c’è un decadimento dell’umanità. I social hanno favorito questo tipo di comunicazione urlata, fatta di slogan. Nessun concetto può mai essere semplice. Devi spendere più parole per spiegare e riflettere, non si
può
farlo su twitter! Ogni pensiero richiede un tempo di elaborazione e poi di condivisione.
E noi rispondiamo a questa deriva con sedici pagine di Dolcenera! Leggeranno in 40 mila, o in 4 mila, e ce ne saranno almeno 40, o anche solo 4, che ne ricaveranno qualcosa di buono.
Magari qualcuno pensasse: “non sono solo”.
Tornando al dubbio di “esserci dentro”, il discrimine comunque è la consapevolezza. Se sei consapevole, ci sei dentro ma non ne sei vittima.
La consapevolezza di Matrix.
O del buddhismo (e di ogni vera disciplina spirituale). Se sei consapevole, se riesci a guardarti con distacco, vedi i condizionamenti che ti spingono ad agire o a pensare in un certo modo.
Però è una lotta continua.
Certo. Nel frattempo continueremo a chiederti se non ti manca Sanremo e appariranno titoli tipo: “Dolcenera contro L’Isola dei famosi”.
Come quella di tutti. Fossimo tutti illuminati, forse non avremmo bisogno di fare riviste o scrivere canzoni contro il Mondo Take-Away. Staremmo tutti a ballare nudi e felici sulla spiaggia.
Ah ah. Io mi faccio sempre un sacco di domande. Posso valere tantissimo ma anche un cazzo. Continuo a vivere quest’onda emotiva. Sono sempre sulle montagne russe.
È la continua ricerca dell’entusiasmo del bambino. Non l’entusiasmo, ma proprio la ricerca.
Bellissimo finale.
Sì.
20 FEBBRAIO 2023
Dolcenera
MARINA ROCCO
Dalla tv pop al teatro d’autore, da Marilyn alla Maria Brasca
Il diritto alla felicità (e al desiderio) nonostante “la gente di Vialba”
«Senti, Romeo, ma sentimi bene: che tu possa tradirmi, che tu possa spaccarmi il cuore, va be’, l’hai fatto; ma che tu venga poi qui a divertirti e a far dello spirito con me, con me che... Ma dove sono tutti i nostri baci? Parla. Dove sono tutte le nostre morosate, qua, là? Possibile che una, una che non ha mai avuto niente a che fare, né con me, né con te, possa in così pochi giorni buttar all’aria tutto? E tu credi che io sia disposta a perder tutto, tutto questo che è stato ed è la mia vita, così da un momento all’altro?»
No, la Maria Brasca non è una che si arrende facilmente. Lo scoprirà presto Romeo Camisasca, giovane rubacuori, nullafacente, che lei ama senza pudore, a cui ha trovato anche un posto di lavoro. La Maria Brasca è pronta a lottare per la sua felicità. Lei che fa l’operaia in un calzificio e che se ne frega di cosa pensa la “gente di Vialba”, i perbenisti, quelli che vogliono insegnare agli altri come si vive.
Era il 1959 quando Giovanni Testori scrisse La Maria Brasca, terzo capitolo de I segreti di Milano. Milano proletaria, popolare. In anticipo sui tempi, visto che la ragazza di via Zoagli (case popolari, dalle parti di Quarto Oggiaro) reclamava un diritto al desiderio e alla felicità che in quel momento era ancora inaudito. Lei, la ribelle, ventisettenne, non si vergognava certo di essere “una tigre” e di aver vissuto altre storie nel passato: «Perché, per essere libera, libera sono; ma per il resto, te lo torno a gridare, puttana no!»
Lei che era cosciente dell’ingiustizia a cui sono sottoposti i “poveri cristi” che sgobbano e “fanno girare la giostra”.
La prima a darle un corpo e una voce fu Franca Valeri, che ebbe un grande successo. Poi toccò a un’altra memorabile messinscena, quella con Adriana Asti, per la regia di Andrée Ruth Shammah. Ora il testimone sta per passare a Marina Rocco, attrice che è nata col cinema e con la televisione, ma che nel teatro ha trovato la sua consacrazione: prima con Filippo Timi e poi proprio con Andrée Ruth Shammah, che ha fatto emergere il suo talento, da Ondine a Gl’inammorati, fino alla Nora di Una casa di bambola Marina Rocco aveva 22 anni quando è approdata in tv su Rai3 (la Melevisione!). Quanto al cinema, ha cominciato con uno dei film più belli di Carlo Mazzacurati, La giusta distanza. Poi, sul grande schermo, è stata diretta da Salvatore Maira e Marco Tullio Giordana, da Giovanni Veronesi e Fausto Brizzi, da Sergio Castellitto (Nessuno si salva da solo) e Paolo Virzì (Notti magiche), approdando anche nel cast del film romano di Woody Allen. In televisione invece l’abbiamo notata, tra gli altri, in Romanzo famigliare di Francesca Archibugi, oltre che in serie dai grandi numeri come Centovetrine o Il commissario Montalbano, anche se l’impegno più importante è stato quello in Tutti pazzi per amore (dal 2008 al 2011).
23 FEBBRAIO 2023
I NCONTRI
(foto Alessandro Cantarini)
Ora affronta questa sfida difficile, il ritorno in teatro della Maria Brasca, in un intreccio quasi solenne fra due anniversari: i 100 anni dalla nascita di Testori (12 maggio 1923) e i 50 anni del Teatro Franco Parenti. «È l’attrice perfetta per farlo rivivere», ha detto la regista Andrée Ruth Shammah, per riportare in scena «questa esplosione di energia che ci diverte e ci commuove», ricordando quanto siano indimenticabili i personaggi femminili creati dal drammaturgo-poeta di Novate Milanese: la Maria Brasca «grida al mondo la potenza della passione, l’amore per la vita vissuta fuori da ogni costrizione, convenzione, compromesso». Sono passati trent’anni dalla precedente edizione «amata dal suo autore che, a una tra le innumerevoli recite, venne a prendersi gli ultimi interminabili applausi sul palcoscenico dell’allora Salone Pier Lombardo, palcoscenico dal quale oggi lo spettacolo deve ripartire. Sento la necessità di far rinascere “quello” spettacolo, quello e non un altro perché affascinata da quella volontà di Maria di non cedere, di difendere tutto ciò che rappresenta la sua vita e non aver paura di parlare di felicità»
Lo spettacolo andrà in scena dal 14 febbraio al 5 marzo. Inutile dire che Marina Rocco non vuole sentir parlare di questi paragoni eccellenti. Ma con lei abbiamo chiacchierato di questo e d’altro, di recitazione e felicità, di Marilyn Monroe e di quanto sia difficile non badare a “quelli di Vialba”.
Questi sono giorni di prove. Avete parlato delle intenzioni dello spettacolo? Del motivo per cui Andrée ha deciso di riportalo in scena?
È il centenario di Testori e Andrée Ruth Shammah, per ricordarlo, ha scelto questo testo che aveva già messo in scena nel ‘92, con Adriana Asti. Ciò che ci interessa raccontare è il diritto al desiderio che Maria Brasca si prende. Il più grande diritto che ha, forse l’unico
È il centenario di Testori, che era legatissimo al teatro, a Franco Parenti e ad André Ruth Shammah. Per ricordarlo, Andrée ha scelto questo testo che aveva già messo in scena nel ‘92 con Adriana Asti. Stiamo facendo le prove e stiamo scoprendo chi è oggi Maria Brasca. Ciò che sta emergendo, quello che interessa ad Andrée, è il diritto al desiderio che Maria Brasca si prende. Il più grande diritto che ha, forse l’unico. In questa vita, in cui lei è in balia del suo lavoro faticoso, di un’esistenza che non lascia presagire chissà quali prospettive, il dritto all’amore e al desiderio diventa una questione vitale. È anche un tema attuale. Perché siamo tutti un po’ schiacciati in questo mondo, in balia degli eventi, chi più chi meno. Il diritto al desiderio, se ci pensi, è davvero un diritto di tutti. E quindi diventa un tema forte.
A quei tempi era anche in anticipo sul femminismo.
Sì, era l’inizio degli anni ‘60. La Maria Brasca è una donna libera, che cerca la sua libertà a dispetto del pensiero di chiunque. Ieri, durante le prove, siamo arrivati nel punto in cui
Maria Brasca dice: “Sapessi cosa importa a me della gente di Vialba, di quello che dice”.
Andrée mi ha fermato e mi ha detto: attenta, perché tu lo stai dicendo come se non fosse vero. E invece a lei veramente non frega niente di quello che pensa la gente. Allora mi sono fermata a riflettere: a Marina quello che pensa la gente di Vialba purtroppo interessa eccome. La Maria Brasca è una vera eroina.
Non si innamora di un eroe romantico, ma di un “barlafus”, un nullafacente.
Un ragazzo più giovane, senza arte né parte. La sorella dice: non si sa da dove viene e non si sa dove va. E lei non solo si innamora, ma vuole sposarsi, vuole essere la signora Camisasca. Questa sua battaglia è epica, eroica.
Tra l’altro è un Testori quasi ottimista, diverso dal solito.
Andrée dice che la Maria Brasca è l’unico personaggio vincente di Testori. È lei che mi dà questo bagaglio di conoscenze, io sto imparando tante cose.
È uno di quei rari casi in cui un’opera di Testori comunica speranza, allegria. Anche il linguaggio è diverso dal solito. Ma siamo sempre in una Milano vera, popolare, in cui la vita è dura.
Si capisce che lei o vince o muore, siamo sempre su quel confine... Quando ieri ho recitato la battuta sull’opinione pubblica, Andrée mi ha fulminata. Mi ha beccato in flagrante. Io la recitavo con dolore: “lo dico ma non è vero”.
Noi siamo abituati a dissimulare.
A chi non importa della gente di Vialba? Oggi non siamo più liberi, siamo più spaventati. La gente di Vialba è veramente dappertutto. Io, figurati, mi immobilizzo davanti alla gente di Vialba.
25 FEBBRAIO 2023 24 FEBBRAIO 2023
MARINA ROCCO
Con Andrée Ruth Shammah alla festa per i 50 anni del Teatro Parenti (foto Francesco Bozzo)
Com’è confrontarsi con Franca Valeri e Adriana Asti?
Non c’è nessun “confronto”, ho già perso.
Riformulo: com’è prendere il loro testimone?
Diciamo che sono una “perdente vittoriosa”. Ho una grande ammirazione per tutte e due. Franca Valeri, però, la stiamo lasciando da parte. Lo spettacolo di Andrée era con Adriana Asti, quindi è lei che sto guardando, perché stiamo citando quella messinscena. Un tema che interessa molto ad Andrée, e che suscita grande passione in me, è quello del legame col passato: non si fa niente di nuovo se non si parte da ciò che c’è stato prima. In Andrée questa cosa è fortissima. Ed è uno dei tanti insegnamenti che mi sta dando. Il Teatro Parenti ha compiuto 50 anni e lei si porta dietro tutta questa storia. Sto guardando la registrazione dello spettacolo di Andrée, i movimenti di Adriana Asti, indosso anche alcuni vestiti originali. Stiamo cercando di tenere il più possibile. E io sto cercando di osservare e imparare. Poi ovviamente ci sono io, e le cose saranno diverse rispetto a trent’anni fa. All’inizio non volevo guardare quello spettacolo, invece ora lo sto proprio studiando. Sto cercando di seguire le indicazioni della Andrée di allora, anche se perfino lei ha detto: io non sono più quella del ‘92.
Avete anche studiato la vita e il linguaggio di Testori.
Abbiamo incontrato Pinina Carutti, nipote di Testori, che è venuta a parlarci della sua lingua, della sua storia, di dov’era quando ha scritto questo testo, di cosa vedeva, a partire dai palazzoni di Vialba, quando tornava a Novate tutti i giorni.
Ci ha fatto anche lavorare su Carlo Porta e il dialetto milanese. Il testo è in italiano, ma quando lo leggi sembra quasi pensato in dialetto, si sente tantissimo. Lei ci ha fatto entrare in quel mondo.
Sono anni che lavori con Andrée, ormai sai cosa si aspetta da te.
Lei mi ha dato delle grandi opportunità. Poi, certo, “mi appende al muro”, mi becca sempre nelle mie chiusure, dove io mi proteggo.
Così si diventa attrici migliori. Al cinema non c’è il tempo per questo lavoro.
Questa è la cosa grandiosa del teatro. Il tempo ormai c’è solo qui. Non c’è al cinema, ma non c’è nemmeno nella vita. A teatro puoi prenderti il tempo di capire il “cos’è”, com’è il contesto, studiare per giorni e giorni, ore e ore, approfondire il personaggio, imparare il testo a memoria. Ci sono certi giorni, mentre ascolto Andrée, in cui mi dico: ma chi ha la fortuna di sedersi ad ascoltare queste cose?
MARINA ROCCO
26 FEBBRAIO 2023
Con Filippo Timi in “Una casa di bambola”, regia di Andrée Ruth Shammah
(foto Francesca Cassaro)
“Ondine” (foto Lorenzo Passoni)
Un altro dei temi della Maria Brasca è la felicità. Una di quelle cose che sono completamente sparite dal teatro contemporaneo.
Vero! La felicità non c’è. L’altro giorno stavamo facendo le foto per un’ipotetica locandina e André ha voluto un sorriso. Mi vuole spesso sorridente. In Testori c’è questa grande vitalità. In un certo senso, quando hai poco, quando fai fatica e lavori tutto il giorno, poi hai una gran voglia di ridere. Io mi sono accorta che nei momenti più difficili cerco sempre la risata, mentre quando tutto va più o meno bene, allora mi lamento. Perciò ho imparato che quando mi lamento vuol dire che le cose più o meno funzionano. Quando le cose vanno male cerco dappertutto un sorriso, uno spicchio di felicità.
Qual è la tua Redness, ciò che ti dà la forza di alzarti al mattina?
Ci sono due piani diversi. Il primo è sicuramente quello del lavoro. La recitazione è la cosa che mi ha fatto fare tutto nella vita: alzarmi dal letto, studiare, viaggiare, muovermi, andare a conoscere, appassionarmi alle cose. È stato il mezzo per fare tante altre scoperte.
Molti dei miei migliori amici li ho conosciuti attraverso la recitazione. Questa passione che ho sempre avuto, da quando sono bambina, è stato il mezzo attraverso cui ho fatto quasi tutto nella mia vita. Tutti gli atti di coraggio, li ho fatti per la recitazione. Mi sono dovuta buttare.
Poi, naturalmente, ci sono gli affetti. Che sono fondamentali.
La recitazione è la cosa che mi ha fatto fare tutto nella vita: alzarmi dal letto, studiare, viaggiare, muovermi, andare a conoscere, appassionarmi alle cose. Tutti gli atti di coraggio della mia vita, li ho fatti per la recitazione
Guardavo l’elenco delle cose che hai fatto finora. Se non ho contato male, oltre che in dieci spettacoli teatrali, sei apparsa in ventisei film.
Ventisei film?!
Ci sono anche diciassette apparizioni televisive.
Diciassette, ma davvero?
La cosa incredibile è che passi senza nessun problema dal cinema d’autore all’intrattenimento, dalla serie comica allo spettacolo impegnato.
È perché io non metto radici, non mi fermo da nessuna parte. A me sembra di dover sempre cominciare.
Ti ho sentita dire, una volta, che non ti saresti mai aspettata di fare così tante cose, ma che allo stesso tempo ti sembra di non aver ancora cominciato.
Io mi sento come se fino ad oggi avessi solo studiato per qualcosa che non ho ancora cominciato a fare. O sarà così per tutta la vita, oppure un giorno dirò: ecco, io dovevo diventare questo.
Forse c’è qualcosa che devi ancora fare e non lo sai.
Oppure sono fatta così. La cosa in cui mi sento più radicata è l’esperienza teatrale. Anche per il sudore, la fatica, le cose fisiche che ho lasciato.
Nel 2008 hai cominciato Tuttipazziperamore, in cui eri Stefania, un personaggio importante. Ma nello stesso periodo hai cominciato a lavorare con Filippo Timi a teatro.
29 FEBBRAIO 2023 28 FEBBRAIO 2023
MARINA ROCCO
Marina Rocco e Filippo Lai ne “La Maria Brasca”, regia di Andrée Ruth Shammah (foto Valentina Letizia)
Tutti pazzi per amore e Filippo insieme: in effetti, è stata una cosa mooolto particolare. Tutti pazzi, comunque, aveva una libertà dentro, un rischio, in cui mi trovavo a mio agio. Quello è il mio territorio, dove la comicità si mischia ad altro, e puoi muoverti su più piani. Tutti pazzi per amore è stata una serie speciale da quel punto di vista, si rompevano degli schemi. Però erano certamente cose agli antipodi. A Filippo è venuto in mente, dal nulla, di chiamarmi per partecipare a un laboratorio teatrale. Quando ho ricevuto la chiamata non ci potevo credere, ero già a Milano, col teletrasporto, io che vivevo a Roma. Non è che ho risposto “sì”, ho risposto “sono lì”! A parte che non sapevo di avere un lavoro. Pensavo di partecipare a un laboratorio. Ho lavorato sul monologo che mi ha dato (quello che apriva il suo spettacolo) e, dopo cinque giorni, quando mi ha detto che avrei recitato nel suo spettacolo, sono scoppiata a piangere per la felicità. Mi dicevo: potrò fare queste cose davanti a un pubblico!
Io non ho mai pensato che un giorno avrei fatto teatro. Non avevo fatto l’Accademia, stavo facendo cinema, Tutti pazzi per amore, avevo preso un’altra strada. E invece mi sono ritrovata a recitare nei teatri più belli d’Italia con Filippo, che era una specie di rockstar. La gente rimaneva fuori dai teatri perché non c’era più posto. Poi tramite lui ho conosciuto Andrée, che mi ha dato dei ruoli da protagonista: chi li aveva mai fatti? Lì si è aperto un mondo di vero terrore, quando lo spettacolo ce l’hai sulle spalle e se tu non ci sei, si va tutti a casa. Se sul palco non ti dài completamente, è finita. E quella responsabilità me l’ha data Andrée.
Riesci ancora a conciliare teatro, cinema e tv?
Bisogna scegliere, perché il teatro richiede tempo. Forse attori più affermati riescono a costruire l’anno in un certo modo, io per ora ancora non ci riesco. Dipende tutto dai ruoli che ti offrono. Un attore senza i ruoli non è niente.
Qual è il ruolo che aspetti dal cinema?
Non so quale, di preciso, ma vorrei avere l’opportunità di portare avanti la storia di un film, di raccontarla attraverso un personaggio. Così come mi è capitato in teatro, vorrei che accadesse anche al cinema. Ma non ho fretta.
Tu hai sempre nutrito una devozione ai limiti dell’ossessione per Marilyn Monroe. Questo è l’anno di Blonde... Hai parlato spesso di tutto il lavoro che c’era dietro la recitazione di Marilyn, cosa di cui il grande pubblico non ha idea.
Il primo modo per screditarla è dire che lei era un talento naturale. Rimpicciolisci la sua figura. Perché in realtà era ossessionata dallo studio, dal suo lavoro.
È un rischio che correte spesso voi attrici. Si guarda il “talento naturale”, la bellezza, il fascino, l’istinto, e non si apprezza tutto il lavoro che viene fatto.
Sai quante volte sento dire: ma che problema c’è, lei è così, lei è sé stessa. Io ho avuto una vera ossessione d’amore per Marilyn, come non l’ho avuta per nient’altro nella vita.
Ancora non ho capito del tutto come mai. Per anni ho passato ore e ore a leggere cose e a guardare i suoi film. Ora ne riesco a parlare, ma all’epoca mi vergognavo, ne parlavo solo con gli intimi. Lei, se la studi veramente, sai quanta passione aveva per il suo lavoro e quanto era maniacale. Eppure si tende sempre a rimpicciolire la sua figura, ancora oggi. Marilyn ha studiato fino al giorno prima di morire. Stava progettando di fare cose teatrali. Si cercava i ruoli. Ha aperto anche una sua casa di produzione cinematografica. Era una donna di oggi, una specie di Jessica Chastain.
Dovresti scrivere o girare qualcosa su di lei. Passerai un giorno “dall’altra parte”, nei panni della regista?
Chi lo sa, vedremo. Temi cari ne ho.
Aspettiamo allora di vederti all’opera anche come autrice.
Lo farò quando me ne importerà un po’ meno della gente di Vialba. Sono sicura che la Maria Brasca mi aiuterà.
(f.t.)
31 FEBBRAIO 2023 30 FEBBRAIO 2023
MARINA ROCCO
La “gente di Vialba” ormai è dappertutto. Noi oggi non siamo più liberi, siamo più spaventati
(foto Valentina Socci)
Luigi Balocchi
Padre Ticino. Partiamo da qui, dal fiume. Lo guardiamo camminando accanto all’acqua, che scorre piano, solenne. Siamo in località Gabàna (la capanna), sulla sponda est del Ticino. Una spiaggetta sassosa, un pezzo di terra con alberi maestosi, una barriera di grossi massi contro cui l’acqua sbatte e scivola via. Intorno al fiume c’è solo bosco.
Luigi Balocchi mi spiega che un tempo i sassi (la gera) avevano nomi diversi, a seconda del colore e della forma. Ne prende uno bianco, quasi trasparente, un mutarot, di quelli che si raccoglievano per mandarli a Milano, dove li trituravano per farci la calcina. Mi dice «guarda là!», felice come un bambino, mostrandomi due cigni in volo proprio sopra le nostre teste. Poi mi indica un mulinello enorme in mezzo al fiume, un gùlgher (un gorgo, un vortice d’acqua), di quelli che rendono le acque del Ticino così insidiose.
È una mattina d’inverno, il sole è basso e trasfigura il paesaggio, dall’acqua si solleva una leggera nebbiolina. Incanto. Il Ticino non è solo un luogo, è un’esperienza. L’intuizione di qualcosa che ci supera. Come tutti i luoghi in cui l’eterno, la natura, si intreccia con i secoli dell’uomo, le vite, le storie, le culture.
Per Luigi Balocchi il Ticino è sacro. Lo guarda con gli occhi di un innamorato. Balocchi è un poeta. È uno scrittore filosofo e carnale, con una mistica del corpo e della natura tutta sua, ma è anche un provocatore, uno che dice ciò che pensa senza troppi filtri e cerimonie. È un “uomo della strada”, un frequentatore di bar e osterie, amico dei semplici e dei “disgraziati”, ma è anche
un intellettuale, anarchico e comunitario, un ossimoro vivente, interprete del genio lombardo (genius loci). È un maestro elementare per caso, che ha pubblicato libri insoliti, potenti, per lo più misconosciuti, che scrive spesso in dialetto (“biegrassin”, quella forma di milanese-lombardo che si parla ad Abbiategrasso, perché ogni angolo di terra ha la sua lingua) e di recente ha vinto il prestigioso Premio Giuseppe Tirinnanzi per la sua raccolta Coeur scorbatt (“Cuore corvo”, pubblicato dalla casa editrice Puntoacapo).
Ma Balocchi è soprattutto un adoratore del fiume, del bosco, della pianura sterminata, sacerdote di una religione tutta sua, che pratica con fiera devozione. In passato lo abbiamo visto pronunciare misteriose parole, su un altarino di sassi e foglie, a bordo fiume, guardando l’orizzonte, dove nei giorni più limpidi appare la sagoma del Monte Rosa.
«Ticino che semina luce con le ossa fraterne alle foglie / ghiaioni bisce d’acqua e sabbia cip ciap il riverbero del sole! / Ticino nostro ombelico / e coloro di qui passati, le genti i padri i figli, / qui tutti rimestati nel sangue, qui dentro dimenticati, / stretti avvinti al respiro». Questi sono versi suoi, tradotti in italiano. Ma provate a leggerli in dialetto, come sono stati pensati e scritti, con quella musica, quel vocabolario sensoriale, zampillante: «Tesinn spantega lus con i òss compagn di frasch / geròn miròld e litta cip ciap la gibigianna. / Tesin nòst’ bamburin / e quej ch’hinn chì passaa, i gent i padr’ i fioeu, / chì tucc rugà in del sangh, chì den’ desmentegaa, / strengiuu den’chì in del fiaa».
32 FEBBRAIO 2023
Luigi Balocchi
Il Ticino, la tradizione, la lingua (dialettale) radicata nella terra Il “cuore corvo” di un poeta che non si arrende alla “dissoluzione”
I NCONTRI
di Fabrizio Tassi
Sta qui la sostanza del suo discorso, la sua anima. È un linguaggio che vede e dice un mondo invisibile per chi non lo sa guardare. È un’altra esperienza del mondo. Non è forse questo lo scopo della poesia? La bellezza, la verità (una verità tra le tante possibili, magari dimenticata), la possibilità di entrare in comunione con la realtà?
Il dialetto è la sua lingua e lui in effetti, nella sua terra, è conosciuto come Luis Balocch. È questa la firma che compare sulla raccolta di racconti che lo ha rivelato al pubblico, nel 2004: Tra Corna e Danée, “dodici storie
Il potere è irreale. E a me piacciono le cose reali. Sai chi è rimasto reale?
I piccoli contadini, gli artigiani, i pastori di montagna... Quando i valori coincidono con quelli del mercato, tu hai una vita che ha solo un valore di mercato
lombarde scritte dall’ultimo cantastorie tra il Tesinn e il Po”. Chi scrive qui ricorda benissimo la prima lettura (ancora prima che fossero pubblicati): fu una specie di rivelazione. Per il linguaggio, innanzitutto, la sua «babele goticolombarda», «l’incontinenza (s)grammaticale che mischia italiano e lombardo» «il linguaggio carnale e pirotecnico» (citiamo dalla prefazione di allora). E anche per la sostanza: «Anima ed escrementi. Era la saggezza di un popolo, quando un popolo c’era ancora. L’umore anarchico, il dolore, la pazienza rabbiosa, le ragioni del corpo dal ventre in giù, il senso (magico) della natura e del tempo, l’anima pagana e blasfema... Questi racconti piacerebbero al Porta e al Tessa, con la loro irruenza maleducata. Usateli come antidoto alla letteratura perbene». Roba fuori dal tempo, nel senso proprio del termine e anche in quello metaforico. Balocchi ha avuto le sue piccoli e grandi glorie letterarie, soprattutto ai tempi de Il diavolo custode, pubblicato nel 2007 da Meridiano Zero, che raccolse recensioni entusiaste anche dalla “grande stampa” nazionale. La sua scrittura «travolgente come un fiume in piena» in quel caso era prestata alla storia del bandito Sante Pollastro, fatta di anarchia, ciclismo, fughe, assalti ai treni, idealismo libertario, dando voce a «una terra di diseredati, vagabondi, sognatori». Forse è il suo romanzo più bello. Insieme a Un cattivo maestro (pubblicato da Mursia nel 2010), «la vita di Cesarino Tonani, maestro elementare in una piccola città di provincia, che si svolge tutta tra la scuola, il bar in Piazza Ducale, le rive del Ticino e la casa comprata col mutuo». In quel caso non era difficile leggere esperienze e tratti autobiografici di uno scrittore cresciuto ad Abbiategrasso (nel sud-ovest milanese) e residente in Lomellina (Mortara), che ha sempre fatto il maestro a Vigevano (e inevitabilmente il pensiero va a Lucio Mastronardi). Poi sono arrivati Il morso del lupo, con cui è entrato nel territorio del noir, e l’apocalittico Exit in fiamme, ambientato nella Milano di domani, tra emergenza ambientale/sociale e la tirannia del potere economico. Un mondo in dissoluzione.
Ma tra i suoi libri ci sono anche tesori nascosti. Vedi quell’opera formidabile che è la sua versione dialettale del Qohélet. Coelett (edizioni La Memoria del Mondo), scritto con spirito ceronettiano – o meglio, tra Guido Ceronetti e il Carlo Codega – in cui trasforma il biegrassin in lingua sacra viva e toglie la Parola dal piedistallo ecclesiastico, reincarnandola nella bassa milanese.
«Vanità di vanità che tusscòss l’è fiaa traj via (…) Gh’è un temp per nass e temp per vess cribbia / temp de somenà e per streppà i radis / temp per coppà e temp per medegà i ferid / temp per sbatt giù e temp per trà in pée / temp de caragna e temp de stupidera».
Un’intervista con Luis Balocch può essere solo così, istintiva, estemporanea, sincera, rubata al tempo di un bicchiere di prosecco consumato in una cooperativa del popolo. Perché questo incontro ha vissuto anche una prima tappa al chiuso, in un venerdì di pioggia che era anche la festa dell’Epifania. Il dialetto, che sgorga all’improvviso nelle sue risposte, lo lasciamo senza traduzione. Il senso si intuisce, non vale la pena addomesticarlo.
Perché hai scelto di fare il maestro?
Avevo bisogno di soldi. Facevo il freelance alla Provincia Pavese. Ma mia moglie è rimasta incinta. Proprio in quel periodo mi telefona un’amica che faceva la mae-
stra e mi dice: Luigi perché non fai il Concorso? L’ho fatto senza crederci, non ho studiato niente, ma l’ho passato lo stesso e ho cominciato a entrare nel circuito delle supplenze.
Neanche un briciolo di vocazione?
Probabilmente se mi avessero offerto di entrare nelle Ferrovie sarei diventato un ferroviere.
Ma poi hai scoperto di amare quel lavoro. O no?
No. Ho sempre avuto problemi con il potere.
Problemi con l’istituzione in generale, non con la scuola in sé.
Fossi andato a lavorare allo scalo ferroviario di Porta Romana, avrei certamente litigato con il capostazione. Perché io litigo.
35 FEBBRAIO 2023 34 FEBBRAIO 2023
Luigi Balocchi
Prova a spiegarmi perché odi il “potere”.
Il potere è irreale. E a me piacciono le cose reali. Sai chi è rimasto reale? I piccoli contadini, i piccoli artigiani, i pastori di montagna....
Perché hanno un rapporto concreto con le cose?
No, è più un discorso politico, che riguarda l’autodeterminazione. Io mi alzo questa mattina e, seguendo il mio estro, la mia passione, ti faccio un lavoro col legn, port in gir i pegur che ma piasen, foo ‘l furmagg, foo ‘l salam, questo è un rapporto reale. Un rapporto reale coi “mezzi di produzione”, come si diceva una volta.
Una cosa che non si vede quasi più.
E infatti i risultati si vedono. Varda tì al mund ‘me l’è consciaa.
Ora siamo arrivati alla smaterializzazione del mondo.
L’è inscì. Questo è.
Tu sei un po’ pasoliniano. O forse più un céliniano, con quella disperazione per la condizione umana e l’insensatezza del mondo.
Io però credo in qualcosa. Credo nell’arte.
Di sicuro non credi nel mercato e nel consumo.
Quando i valori coincidono con quelli del mercato, tu hai una vita che ha un valore di mercato. E in questa realtà io mi trovo completamente, culturalmente, umanamente, ai margini. Però ho in me il gusto della sfida, anche matta. Ho il gusto dello sfregio. Lo sfregio è importante! Il gesto è importante. Penso a quei ragazzi - che non so chi siano, magari sono dei ciula, g’hoo mai parlaa insema - che vanno davanti a un palazzo pubblico o a una mostra e buttano la vernice. Loro fanno un’opera di rigenerazione. Perché l’ordine nasce sempre dal caos, l’è no al cuntrari. C’è bisogno di una rottura anche netta. Nell’apocalisse dell’umanità, nella sua continua rivelazione, ci sta dentro di tutto.
Io guardo con molto distacco ciò che accade nel mondo. E questo mi salva. Io mi salvo con il “va da via al cuu” Di céliniana memoria. Pasolini purtroppo c’è rimasto dentro. Così come il povero Vitaliano Trevisan. Come diceva il Ginzburg? Ho visto le menti migliori della mia generazione...
Continuiamo a giocare con le definizioni. Tu sei anche spengleriano, condividi quell’idea tragica del “tramonto dell’Occidente”.
Vero. Ma io sono “etnico”. Lo scrivo anche in Coeur scorbatt, all’inizio: qualunque idea universale è un crimine nei confronti dell’umanità. Perché se tu vai a vedere la genesi del pensiero umano, ogni popolo ha creato qualcosa di nuovo, che non è assimilabile a un altro. Voler universalizzare le religioni, le idee, il modo di pensare, è criminogeno. Va’ a vedere ciò che siamo. È come se io, maestro elementare, mostrassi a un fioeu de ses an quel che devi mustrà a un fioeu
de des. I popoli nascono, crescono, si evolvono. Il Piero Chiara, a cui io sono molto legato come visione delle cose, diceva: le rivoluzioni non servono a niente; quando le cose devono cambiare, cambiano. Per questo guardo tutto ciò che sta accadendo con distacco. L’omm l’è inscì. L’uomo, dicendolo alla Céline, è davvero un tubo digerente. Tutto quello che ci metti dentro, lui lo mangia, lo fa suo. Siamo un’erba infestante che si adatta a tutto (questa però l’ho detta io, non Céline).
E il senso del sacro dove lo mettiamo? Ne hai sempre parlato come di un aspetto fondamentale dell’uomo. Oltre ad essere dei tubi digerenti, abbiamo anche delle radici che ci collegano alla terra e al cielo.
Sì, certo. Ma a determinate condizioni. Solo se siamo in grado di autodeterminarci. Quando non puoi autodeterminarti, perdi anche il sacro.
37 FEBBRAIO 2023 36 FEBBRAIO 2023
Luigi Balocchi
La campagna abbiatense, con le sue risaie, al tramonto, vicino al fiume e ai boschi del Ticino
Cos’è il sacro per te?
Il sacro è ciò che ti lega a qualcosa che ti trascende. È capire che tu sei qui perché prima di te ci sono stati altri e dopo ne verranno altri ancora. Il sacro per me è legato all’essere lombardo. La religione è il “religare”: ligà quell che l’è sutta a quell che l’è in alt, quell che gh’é prima a quell che ‘l vegna dòpo... Ratzinger, purtroppo per lui, ha fatto un buco nell’acqua. Dico purtroppo perché, nonostante io non sia cristiano, ho un grande rispetto per la gerarchia intellettuale. Trovarmi di fronte un teologo e un filosofo come Ratzinger è un onore per me. Dico che ha fatto un buco nell’acqua perché la forza motrice del consumo, del mercato, del tubo digerente, spazza via ogni cosa. Se tu non sei un essere eccezionale, nel senso della “teologia degli eroi”, soccombi. Se non sei un eroe, diventi un numero a cui è assegnato un compito che devi svolgere. Quando io litigo con il mio direttore di scuola – facciamo di quelle litigate! - io mi rendo conto di questa cosa. Il potere del giorno d’oggi è il potere del mercato, di ciò che rende, di ciò che serve, non di ciò che potrebbe essere o di ciò che è stato. Tutto è in funzione del ciò che è.
Il dialetto è la cosa più antica che abbiamo. È come i graffiti della Valcamonica.
Un’architettura gotico-lombarda. Il dialetto è il Ticino. Se lo perdiamo sarà la perdita definitiva. La lingua ha sempre una visione del mondo.
fare certe cose. Un amico editore, una volta, mi ha detto che se oggi in Italia nascesse gente come Pavese o Fenoglio, non li pubblicherebbe più nessuno. Io per questo mondo, per questa società, avrei potuto essere una risorsa e invece sono stato spesso un problema.
Però sei rimasto interiormente libero.
Quello sì, assolutamente.
Questa non è una possibilità? A costo di diventare l’eccentrico, l’anarchico, quello fuori dai canoni, il “maleducato”, intellettualmente scorretto.
Però io l’ho pagata questa cosa. La questione è essere valutati per ciò che si è. Io ad esempio ho dimostrato nella pratica di saper scrivere e pensare, di saper usare il cervello, ma a questa società la gente come me non serve. Anzi il più delle volte ti riducono a una macchietta, quando ti va bene. Quanto ti va male, invece, arriva il direttore...
Tu ti auto-definisci pagano.
Oggi chi parla di tradizione spesso la confonde con il folklore, la nostalgia di un passato che non può tornare.
Perché sono ignoranti! Ma non puoi dirglielo, visto che sono al potere. È una cosa che va al di là della destra e della sinistra.
Cos’è per te il Ticino?
Il Tesin è un fiume sacro. Perché in sé ha tutte le rivelazioni di cui l’uomo ha bisogno in questa vita. Ha la natura, il bosco, l’acqua che scorre... Il Ticino è la kundalini in senso orizzontale.
Lo definisci Padre Ticino. Perché non madre?
Podaris anca vess mader, ma mì cont i donn som mai andaj tròpp d’accòrdi.
E il dialetto? Perché è così importante?
Il dialetto è la cosa più antica che abbiamo. È come i graffiti della Valcamonica. Una pala d’altare. Un’architettura gotico-lombarda. Il dialetto è il Ticino. Se lo perdiamo sarà la perdita definitiva.
Ogni lingua è anche un modo di pensare il mondo.
La lingua ha sempre una visione del mondo. Non è strano che la gente vissuta in un luogo, che ha generato in quel luogo, che ha tramandato usi e costumi in quel luogo, abbia poi dato un nome alle cose che esiste solo in quella parte del mondo? Berin (l’agnello) si dice solo qui. Adesso si fa tanto cianciare dei cosiddetti beni immateriali dell’umanità, ecco sarebbe il caso di fare scelte conseguenti. Ma visto che l’uomo è un gran cialtrone e si merita spesso e volentieri le guerre, le epidemie e tutto ciò che di male può venirgli, non si pone il problema. Si butta nel condotto fognario del consumo e bon.
Questo si riflette nel tuo lavoro di formatore?
Certo, perché io in teoria devo formare persone che non pensano. Dopo di che il potere prende la persona che non pensa e le può far fare qualsiasi cosa, la può trasformare anche in un kapò.
Ma si può rimanere liberi anche dentro il sistema.
No, perché io posso anche lottare strenuamente per la mia libertà, ma sono inserito in un sistema che mi obbliga a
Io pratico esercizi di meditazione (non si medita solo in oriente, anche i Celti lo facevano) e mi ritengo una persona religiosa, ma in senso pagano. Quando papa Ratzinger a Ratisbona ha imputato ai musulmani il fatto che l’Islam si sia espanso con metodi violenti, forse gli si doveva ricordare che Carlo Magno con i sassoni ha fatto cose terribili, è stato uno dei primi genocidi della storia. Bisognava ricordargli che anche il Cristianesimo per larga parte della sua storia si è espanso adottando metodi violenti. Questo fa parte della storia, non mi scandalizza: la storia dell’uomo è violenta. L’importante è non darsi patenti di verginità. Bisogna essere onesti. Non sopporto le persone che cianciano di diritti umani e poi hanno le borse con 500 mila euro sotto il letto.
Che idea hai della tradizione? Credi, con Guénon, a una conoscenza originaria, primordiale, che poi si è frammentata adeguandosi ai tempi e alle culture?
Guénon era un grande intellettuale, ma non condivido la sua idea di tradizione. Se si parla di pensiero tradizionale, sono più legato a Mircea Eliade. Ai tempi leggevo molto anche Dumézil e Frazer. Sono i quattro cavalieri dell’Apocalisse.
38 FEBBRAIO 2023
Luigi Ba locchi
Sono sempre andato d’accordo con gli esclusi, Ma non è una questione ideologica: i poveri, gli ultimi... Io sono sempre andato d’accordo con i disgraziati.
Punto. È una questione di pelle. Non mi piace chi si crede chissà cosa
Fammi l’esempio di una parola che indica qualcosa che esiste solo in quella lingua.
La pecundria, ad esempio. È quel senso di angoscia, di nullità, che tra l’altro certe volte mi assale. Sono termini talmente antichi che si perdono nella notte dei tempi. Uno usato ancora adesso e traslato in italiano, è ciulà, ciulare, rubare, ma anche scopare. Una volta ho parlato con Dante Isella, grande filologo, e lui mi ha detto che ciulà è probabilmente un termine pre-romano, ligure-celtico. Pensa anche solo al corpo: c’è il burin il capezzolo, il bamburin, l’ombelico, al grassin, il lobo dell’orecchio, la gepa, il mento, ma anche la papagorgia... Ci sono tante parole che sono solo nostre, l’àves (la sorgente), il rugh (l’immondizia), la loeuggia (scrofa), i cuètt (le nasse per pescare nel Ticino).
Tu scrivi sia in dialetto che in italiano.
Ma anche l’italiano è pucciaa denter al Tesin. Così come Alessandro Manzoni è andato a pucciare i suoi stracci in Arno, io li ho pucciati nel Ticino.
Parlaci di Coeur scorbatt.
È una visione, un bestiario pagano, allucinante, come è allucinata la scrittura. Una visione dell’altro e dell’altrove. Però parla di cose reali, della vita come la vedi. Perché dipende sempre da come la guardi. La lingua è dura. Come si direbbe in biegrassin: l’è tajaa col sigurin, con la scure.
È anche molto cruda, piena di sangue e interiora.
Io ho sempre fatto un collegamento tra il sesso e i rob de mangià, la cusina. Quando mia madre faceva bollire il caldàr con denter la cudiga, veniva fuori un profumo!
Quella è stata una delle mie prime esperienze sessuali. La figa della donna cos’è se non il grande caldar del mund, la grande pentola, il calderone, il santo graal della rigenerazione ? I popoli antichi, pre-cristiani, avevano ben presente questa caratteristica. Il cristianesimo, religione che viene dal deserto, l’ha spazzata via.
Il sesso ha cominciato a godere di cattiva letteratura.
Però credo non sia esattamente colpa dell’origine semitica, il pensiero ebraico c’entra fino a un certo punto. In realtà tutto è cominciato con quel personaggio che ha nome e titolo San Paolo. La condanna del corpo si definisce in seguito, con il contatto coi filosofi greci, con il pensiero di Platone. Parte della speculazione greca aveva questa idea del corpo come un’ombra che si contrappone alla luce dello spirito. Il cristianesimo ha bagnato i suoi panni nel Mar Egeo. D’altra parte se tu vai a leggere i Padri della Chiesa, la polemica tra Origene d’Alessandria e Ireneo vescovo di Lione ci sta tutta... Nel mio piccolo un po’ di teologia l’ho studiata. Ho fatto anche sette esami alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, a Milano.
Come mai?
Mi sono sempre interessato al discorso religioso in tutte le sue forme.
Nel mondo profano, invece, hai un debole per i “marginali”.
Io sono sempre andato d’accordo con gli esclusi. Ma non è una questione ideologica: i poveri, gli ultimi....
Io sono sempre andato d’accordo coi disgraziati. Punto. Con quej che g’han al diplomin giamu ma giren i cojon. È una questione di pelle. Sono sempre portato a parlare col disgraziato, non con chi crede di essere chissà che cosa, pur essendo un pirla.
È perché loro hanno una conoscenza vera, diretta della realtà?
Probabilmente sì, è quella cosa lì. Ma il mio approccio non è razionale, è istintivo, una simpatia umana.
Cosa ami di più tra tutto ciò che hai scritto?
Il mio miglior romanzo è Il diavolo custode, che ha avuto anche un discreto successo. Adesso però è fuori catalogo. Non ho neanche un word o un pdf del testo, perché l’avevo battuto a macchina da scrivere. Quando l’ho mandato all’editore, lui ha pensato:
“Ma chi è sto scemo?” Poi ha cominciato a leggerlo e ha detto: “Cazzo è bello!”. Allora mi ha telefonato: “Pronto Balocchi, hai scritto un bel romanzo, però c’è un problema...” La sua segretaria l’ha ribattuto al computer.
Sante Pollastro è un straordinario personaggio dimenticato.
Questa nazione si merita esattamente quello che ha. Io sono un anti-italiano. L’altro giorno ho sentito delle persone che si lamentavano. Sai per cosa si lamentavano? Perché quest’anno forse non potranno fare le vacanze. Si lamentano di queste cose! Non del fatto che gli hanno distrutto il Ticino, facendolo diventare una buascia. Una merda di vacca. Poi arriva al matt il Putin, che tira le bombe, e in coro urlano “ah l’aggressione!”. Vivono per l’appunto in un mondo irreale. Si nutrono di ciò che il potere gli dà.
41 FEBBRAIO 2023 40 FEBBRAIO 2023
Luigi Balocchi
Visioni, memorie, venerazioni: il mondo di Luigi Balocchi. Divinità arcaiche, animali sacri, esseri umani sprofondati nel gorgo del tempo (dalla sua pagina FB)
Il tuo ultimo libro si intitola Exit in fiamme.
Con quel libro ho fatto una cazzata. È stato una rovina. L’abbiamo pubblicato dopo due mesi che era iniziato il coprifuoco.
Era profetico.
Lo so. Lo era fin troppo.
Però ogni tanto arrivano anche le soddisfazioni: hai ricevuto il premio Tirinnanzi per Coeur scorbatt. Per chi scrive in dialetto, è uno dei riconoscimenti più importanti in Italia.
La soddisfazione più grande è stata quella di ricevere il premio da Franco Buffoni e Fabio Pusterla, due tra i più grandi poeti viventi. Essere stato scelto da loro è un grande onore.
Quindi c’è qualcuno che legge, che capisce.
Ma siamo nella nicchia della nicchia...
re, / nessun destino, forse un fulmine, / labbra, nuvole, io sono quello / che è venuto ed è scappato).
Ma attenzione all’equivoco del passatismo. Chi legge superficialmente le poesie lombarde di Coeur scorbatt, e in generale l’opera di Balocchi, può pensare che sia solo nostalgia. E invece la sua scrittura è modernissima, una specie di avanguardia scapigliata, un guardare all’indietro per correre in avanti, provando a evadere dal villaggio globale del pensiero uniforme, del consumo obbligato.
Nella sua opera non si spera in un ritorno al passato, ma si guarda all’eterno presente dei boschi, del fiume, dell’amore (carnale e spirituale), della gente che lavora e crea vivendo di ciò che produce. Non si tratta di quell’equivoco politico e culturale che è il tradizionalismo di maniera, il rimpianto dei bei tempi andati, quella cipria sentimentale che imbelletta il “vecchio” per poterlo monetizzare, dandogli un valore turistico, economico-culturale.
Ocio nan a quel che ta fee. Cerca nò la confusiòn. Troeuva ‘l silenzi. Va su la riva del Tesin. Va per scoltà. ‘l var pussèe quell lì che tucc i offert e i preghier de sti quatter pisquan che g’han domà pagura de crepà
L’altro equivoco è quello della rabbia dissacrante e triviale, l’irriverenza guascona e sanguigna. In realtà tra le righe delle sue poesie, dietro le parole più forti e urlate, c’è anche una delicatezza luminosa, un senso del bello e del sacro che trasfigura anche le cose apparentemente più “basse”. Poi, certo, c’è anche la durezza dei tempi in cui viviamo, come scrive Ivan Fedeli nell’introduzione di Coeur scorbatt: «C’è qualcosa di tribale e di prelogico nella nuova raccolta di Luigi Balocchi, una forza innata che nasce dalle viscere e arriva dritta al cuore per ferire la realtà da dentro e denunciarla, decomponendola in fonemi secchi».
Inutile provare a strappargli un pensiero ottimista. D’altra parte, però, definirlo pessimista sarebbe riduttivo. Come scrive lui: «Mi som no brau, som no / gram, mì som quell che / m’han faj diventaa. Nissun / destinm fòrsi ‘n fulmin, / làver, niul, mì som quell / che l’è rivaa e l’è scappaa» (Io non sono buono, non sono / cattivo, io sono quello che / gli altri m’han fatto diventa-
Ma questa lingua dura e viscerale non è nata per distruggere, ma piuttosto per rivelare. Osservando la vita dal basso. Meglio ancora se in compagnia di gente come Gigino il Matto, Brighella e Bertoldo, l’Agnese e il Lucianino, il suo pantheon popolare, la sua personale Spoon River. «Al matt, ‘l sciatt, la loeuggia, / al sòpp, on quej singul / scappaa de cà. Denter / mettegh anca ‘l mòrt, / vun de quej sotterraa / ‘na quej manera, / on pee den’ e ‘na man foeura, / cont i tòcch perduu pe’ straa. / A tucc questi gh’hoo daj a tra. / Hoo mai sbagliaa» (Il matto, il rospo, la puttana, / lo zoppo, uno zingaro / scappato di casa. Dentro / mettici anche il morto, / uno di quelli sotterrati / in qualche modo, / un piede dentro e una mano fuori, / con i pezzi persi per strada. / A tutti questi ho dato retta. / Non ho mai sbagliato).
Sulla spiaggetta del Ticino troviamo anche un grande, bellissimo tronco, trascinato dalla corrente fino a lì. In dialetto si dice bigg. Con il tempo, mineralizzandosi, diventerà un menisc. Scuote la testa il Balocch, guardando il fiume così smilzo. La siccità, gli abusi, la noncuranza delle istituzioni... «Stanno distruggendo il creato. Un atto contro Dio, per chi ci crede, contro l’ambiente, contro l’uomo. Siamo in presenza di un crimine universale, ma tucc sa na sbatten i ball».
Nel frattempo sono spariti anche i gabanin e i casot, le casette e i capanni di legno, che andavano abbattuti perché abusivi, ma avevano una loro storia e funzione che nessuno si è preoccupato di recuperare o reinventare. «Qui c’era una vera e propria civiltà del fiume, che si è protratta nei secoli e che ha sempre difeso il Ticino. Una civiltà che la modernità e una visione cupa e radica-
le dell’ambiente hanno quasi completamente distrutto». Il tema non è il passato, ma un altro modo possibile di vivere il presente. Poco importa quanto siano condivisibili i toni e le soluzioni evocate, qui si fa poesia, è la provocazione ciò che conta, lo scandalo che mette in discussione l’ipocrisia.
Per sopravvivere all’illusione e alla vanità delle cose bisogna ritrovare un legame con la realtà. Come scriveva nel Coelett: «Ocio nan a quel che ta fee. Cerca nò la confusiòn. Troeuva ‘l silenzi. Va su la riva del Tesin. Va per scoltà. ‘l var pussée quell lì che tucc i offert e i preghier de sti quatter pisquan che g’han domà pagura de crepà». Stai attento ragazzo a quel che fai. Non cercare la confusione. Trova il silenzio. Va sulla riva del Ticino. Va per ascoltare. Vale più quello che tutte le offerte e le preghiere di questi quattro stupidi che hanno solo paura di morire.
43 FEBBRAIO 2023 42 FEBBRAIO 2023
Luigi
Balocchi
FRANCESCO PANNOFINO
Teatro, radio, cinema e una voce prestata ai divi di Hollywood
Poi è arrivato Boris ed è diventato il mitico René Ferretti
«Userò gli occhi del cuore per carpire i tuoi segreti, per capire cosa pensi, nei tuoi primi piani intensi, nei tuoi piani americani, così intensi e così italiani, fatti un po’ a cazzo di cane»
Elio cantava così, con le sue Storie Tese, e fin dalla sigla si capiva che stava per succedere qualcosa fuori dai canoni. Boris approdò in tv nel 2007 come un atto di eversione creativa, una risata liberatoria, che arrivò a sconvolgere la sonnecchiante produzione televisiva italiana.
Il suo ritorno, l’anno scorso, firmato Disney - dopo che un passaggio su Netflix delle prime tre stagioni aveva fatto grandi numeri, - ha rilanciato il mito, proponendo vecchi e nuovi personaggi, con la stessa libertà espressiva di quindici anni fa, e onorando la memoria di Mattia Torre, tragicamente scomparso nel 2019, che ha creato questa irriverente follia, insieme a Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo.
La “fuori serie italiana”, che allora parodiava la fiction nostrana (in realtà, per certi versi, era quasi un documento, oltre che una specie di catarsi per quel mondo professionale che campava di soap e serie nazionalpopolari), nella quarta stagione ha affrontato un nemico più subdolo e potente, “l’algoritmo”, che governa le scelte di piattaforme e produzioni contemporanee. E lo ha fatto con risultati esilaranti.
Oggi come allora, al centro della scena, c’è sempre lui, il regista René Ferretti, cucito addosso a Francesco Pannofino che, come dice il produttore Paolo Mieli, «è stato il primo a conferire a quei personaggi un’aura di eternità». René è un puro, a modo suo, uno che, nonostante la disillusione, ci crede ancora e prova a fare qualcosa di buono, anche se poi gli tocca cedere alla realtà, facendo le cose “a cazzo di cane”. Un’espressione che, con Boris, ha acquisito un sapore nuovo, tragicomico, una specie di fatalismo divertito, che unisce lo sconforto per il mondo che va a rotoli e lo spasso che procura questo spettacolo grottesco.
Una vita a ca**o di cane è anche il sottotitolo del libro che l’editore Aliberti ha voluto dedicare a Pannofino. Il titolo non poteva che essere Dài, dài, dài, tanto per citare un altro dei tormentoni della serie, che ha creato un vero e proprio vocabolario (dalla fotografia “smarmellata” alla “cagna maledetta”, senza dimenticare che “la qualità ci ha rotto il cazzo”, come si suol dire in certi ambienti che badano al sodo).
Francesco Pannofino - ligure di nascita, con genitori pugliesi, ma romano fino al midollo – grazie a Boris, all’età di 50 anni, è diventato una celebrità (oggi ne ha 64). Ma si parla di un grande professionista che è sulla scena da decenni, al cinema, alla radio, a teatro, in tv. Per non parlare della sua voce, che abbiamo ascoltato in centinaia di film. È sua la versione italiana di George Clooney e Denzel Washington, di Antonio Banderas e Kurt Russell, ma anche di Jean-Claude Van Damme, Dan Aykroyd, Philip Seymour Hoffman...
45 FEBBRAIO 2023 44 FEBBRAIO 2023
I NCONTRI
(foto Andrea Ciccalè)
Lo abbiamo incontrato in Seven (Kevin Spacey) e Kill Bill (Michael Madsen), in Harry Potter (Robbie Coltrane) e Spider-Man (Willem Dafoe), in Traffic (Benicio del Toro) e Forrest Gump (Tom Hanks). E non abbiamo citato i film d’animazione, che peraltro sono i più difficili da doppiare.
Il libro racconta anche di questo, di un lavoro complesso e faticoso, “pagato a righe”, in cui devi trovare il modo di rendere l’inglese con accento afrikaans parlato da Denzel Washington in Cry Freedom, oppure rischiare l’ugola per dare voce a Rosso Senzabraghe, il cattivo di Mucca e Pollo, che assume le sembianze (e le voci) di tutti, una fatica disumana. Parla degli inizi teatrali e radiofonici, dell’approdo al cinema e naturalmente di Boris, con tanto di decalogo esistenziale firmato René Ferretti. Ma racconta anche dell’infanzia a Pieve di Teco e dei tempi in cui faceva il bibitaro allo stadio, del primo motorino (un Morini Corsarino) e le prime auto (una Prinz e una Diane), dell’approdo romano a Monte Mario, del rapporto con la madre (quel sugo cotto per ore!), di sport, cucina, amore, vita quotidiana. E poi c’è un capitolo doloroso, quello dedicato alla strage di via Fani, perché Pannofino, allora diciannovenne, percorreva proprio quel tratto di strada pochi istanti prima che i terroristi bloccassero l’auto di Aldo Moro.
Il libro ha lo spirito di una chiacchierata informale, fatta in diversi momenti con Roberto Corradi, e pubblicata in quella benemerita collana di Aliberti che è “I libri della salamandra”, piena di cose fuori dagli schemi, piccoli gioielli, strambe anomalie.
Un po’ di culo ci vuole sempre nella vita. Solo il culo, però, non basta. Ci vuole anche del talento. Bisogna essere bravi a fare qualcosa
Lorenzo Mieli, nell’intervista introduttiva, rievoca gli inizi di Boris, nato come una serie di “pillole”, un dietro le quinte della fiction italiana, e approdato come un azzardo su Fox, dove non fece grandi numeri, ma diventò subito un fenomeno collettivo, alimentato dal passaparola dei fan. «Boris diventò un fenomeno di pirateria, e questo è uno dei motivi per cui siamo ritornati a farlo (…) Quando Netflix ha caricato le puntate di Boris, durante la pandemia, la serie è riesplosa con una nuova generazione di sedicenni-trentenni che non lo conoscevano per averne visto le puntate, ma grazie ai meme. Boris è uno fra i più grandi generatori di meme in Italia». Con una considerazione sul presente ampiamente condivisibile: «Oggi ci sono settanta piattaforme e player televisivi che fanno cinema e serie. Quando ho iniziato c’erano tre distributori cinematografici e sostanzialmente un solo player televisivo. Oggi c’è una possibilità maggiore, ma allo stesso tempo ci sono meno nicchie di libertà e anarchia. E proprio in queste nicchie germogliano e fioriscono talenti da domare». Autori come Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo sono rari, loro «sono degli intellettuali, come Flaiano era un intellettuale. Solo un intellettuale può scrivere una commedia che ha dei picchi di genialità commoventi». Dopo di che, bisogna trovare anche gli interpreti giusti, tipo Francesco Pannofino. «Prima di assistere al provino di Boris sapevo chi fosse, ma non lo conoscevo personalmente. Quindi per me è difficile dividere Francesco Pannofino da René Ferretti. Tra l’altro Francesco in quel provino fu strepitoso. Ricordo che quando Mattia Torre e Luca Vendruscolo me lo fecero vedere eravamo in uno scantinato (…) Adesso che l’ho rincontrato ho ritrovato la stessa persona che non vedevo da tanti anni. E, ripeto, con questa discrezione, questo imbarazzo che ha lui e che ho anche io. Mi riconosco in questa cosa, in questo pudore quasi. C’è una impossibilità di non volergli bene e di non sentire la sua parte sentimentale. E questo aspetto di Francesco è il più bello secondo me».
Com’è ritrovarsi celebrato in un libro?
Ti dico la verità: io non lo volevo fare. Ho detto: ognuno deve fare il suo mestiere. Ma poi vedo che i giornalisti fanno teatro, i cantanti fanno cinema, io che ci posso fa’.
Ma come è nata l’idea?
L’idea è di Roberto Corradi, co-autore del libro, che insieme all’editore, Francesco Aliberti, aveva deciso di raccontare la mia vita. Io, all’inizio, ho detto: ma alla gente che cazzo gliene frega della mia vita? Poi, parlando con loro, ho scoperto che la mia vita è costellata anche di episodi che fanno parte della storia della gente, del nostro paese, e allora ho detto: perché no? E così ho raccontato come ho cominciato, la mia vita, la mia famiglia...
Quindi è un libro nato un po’ per caso, come tante cose nella tua carriera. Nel libro parli più precisamente di “culo”. Le cose spesso ti sono capitate, senza andarle a cercare.
È un paradosso, sono battute facili, ma un po’ di culo ci vuole sempre nella vita. Solo il culo, però, non basta. Bisogna metterci del proprio. Ci vuole anche del talento. Io mi sono sempre fidato del fatto di esserci portato a fare quel lavoro. È questo il segreto. L’ho fatto, i risultati arrivavano, poi ci vuole la fortuna di lavorare in progetti che hanno un successo di pubblico.
47 FEBBRAIO 2023 46 FEBBRAIO 2023
FRANCESCO PANNOFINO
Francesco Pannofino sul set del la quarta stagione di Boris (foto Andrea Pirrello e Loris Zambelli, ©Disney Italia)
Diciamolo ai giovani che ci leggono: bisogna anche farsi il mazzo.
Un po’ sì. Io ho un figlio di 25 anni e una nipote di 20 anni, glielo dico anche a loro. Bisogna essere bravi a far qualcosa. All’epoca mia era diverso, non c’erano i social, non c’era niente, c’era solo il telefono, però non sono mai stato neanche uno che telefonava, che cercava... È venuto. È venuto così.
Da ragazzo hai fatto un po’ di tutto prima di cominciare la carriera nello spettacolo, dal bibitaro al barista.
Soprattutto d’estate. I miei avevano comprato una casa a Roma e quindi avevano debiti, non c’erano tanti soldi, mi sono dovuto organizzare.
Hai cominciato con la radio o con il teatro?
Tutto insieme. Ho fatto un programma alla radio, ma intanto facevo già teatro, in modo amatoriale. Poi ho avuto una scrittura al Teatro Stabile di Trieste, nell’82, e quello è stato il passaggio al professionismo. Lo ricordo perché è l’anno in cui vincemmo i Mondiali.
Eri un ragazzo con la passione per il cinema? C’è qualcosa che ti ha folgorato?
Steve McQueen! Non ho né il suo fisico né la sua faccia, però per me era l’attore simbolo, io ero innamorato di lui, era davvero un grande.
Ho lavorato con alcuni grandi, Luciano Salce, Corrado, Antonella Steni... Grazie a Boris ho potuto interpretare un personaggio fatto su misura
Lorenzo Mieli all’inizio del libro scrive di te che “hai un’umanità, una bontà, una purezza e una gentilezza”...
Con Lorenzo Mieli, che è il produttore di Boris ci conosciamo da tanti anni, però siamo due timidi e non ci siamo mai detti in faccia le cose che pensavamo l’uno dell’altro. Il libro è servito anche a quello. Ho appreso cose da Lorenzo che non avevo mai ascoltato dalla sua viva voce. Sono stato contento innanzitutto perché ha voluto fare la prefazione del libro e poi perché ha detto cose molto belle di me. Quando l’ho letto gli ho scritto subito un messaggio per ringraziarlo. Siamo due timidi, ma ci vogliamo tanto bene.
In radio hai lavorato anche con Corrado. Tu hai visto l’ultima generazione dei grandi del passato e in un certo senso hai aperto la nuova, perché Boris è stato una piccola rivoluzione.
Vero. Ho lavorato con alcuni grandi, Luciano Salce, Corrado, Antonella Steni.... Ho avuto la fortuna di avere grandi maestri. Poi, a proposito di fortuna, uno capita in Boris dove può fare un personaggio adatto a lui, costruito su misura. Tutto merito degli autori, loro sono stati i veri artefici del successo. Bisogna anche capitare nella produzione giusta, dove hai la possibilità di esprimerti per quello che sei, con il personaggio giusto.
Al cinema, a partire dal ‘95, con Luciano De Crescenzo (Croce e delizia), sei apparso in una quarantina di film, più di trenta serie tv, dodici programmi televisivi, diciotto spettacoli teatrali... Tanta roba.
Eh lo so, ma ho anche 64 anni, ho cominciato a 19, fai due conti.
Però è con Boris che tutti hanno cominciato a riconoscerti.
Con Boris è esplosa la popolarità.
Parlando invece del doppiaggio, chi ti ha detto per la prima volta che avevi una voce adatta a questo mestiere?
Nessuno. Ho cominciato facendo l’assistente di doppiaggio, che è un lavoro tecnico, ma avendo un orecchio particolarmente ricettivo, riuscivo ogni tanto a fare qualche personaggetto, e a poco a poco ho imparato.
49 FEBBRAIO 2023 48 FEBBRAIO 2023
FRANCESCO PANNOFINO
Il doppiaggio è molto difficile, è un lavoro molto tecnico, bisogna imparare. Io ero sveglio, ero giovane, e ho imparato in fretta. Per quanto riguarda la voce, ti confesso che è solo culo, perché io fumo, urlo, recito a teatro tutte le sere, però fino ad ora ha fatto il suo lavoro.
Immaginiamo che per certi film serva anche un lavoro di preparazione sull’interpretazione: pensiamo al Macbeth con Denzel Washington, a Philip Seymour Hoffman in The Master, a Mickey Rourke in versione The Wrestler.
Al doppiaggio andiamo a lavorare su una cosa che è già stata fatta. L’attore ha già recitato la sua parte e tu devi tradurla in italiano, comunicando le stesse emozioni. Sembra facile, ma non lo è. Ci vuole mestiere e aderenza della voce. Mickey Rourke, quando ha fatto The Wrestler, ha utilizzato il suo fisico, la sua faccia, la sua voce, per cercare di rendere al meglio il suo personaggio, patetico, “sconfitto”, e ha tirato fuori una grande performance. Io ho avuto la fortuna di doppiare grandi attori in grandi performance. Riuscivo ad adattare la mia voce alle loro facce, quello è il segreto. Se lo spettatore sente il doppiaggio vuol dire che qualcosa non va. È comunque un mestiere di servizio. Un nobile mestiere, che serve a tradurre il film e renderlo comprensibile a tutti. Ma quando tutti sapranno l’inglese il doppiaggio morirà.
Prima o poi...
C’è un attore, tra quelli che hai doppiato, a cui ti senti particolarmente legato?
George Clooney e Denzel Washington, senza nulla togliere agli altri.
Loro ormai li conosci in ogni inflessione e intenzione, nel loro modo di recitare.
Sono più di vent’anni ormai, anche trenta, siamo un po’ come cugini.
Con Clooney c’è stata anche una divertente telefonata, di cui si parla nel libro, ai tempi di In amore, niente regole.
Mi fa: “You are a very good actor” E io: “Ma quando ci conosciamo?”. “When I’m not drunk”, quando non sono ubriaco.
Arriviamo a Boris. Quando lo giravate, la prima volta, vi siete accorti che stavate facendo qualcosa di speciale?
Sapevamo che stavamo facendo una cosa forte, perché le cose forti la vedi già nel testo.
Poi gli autori hanno azzeccato anche l’attribuzione dei personaggi, tutti gli attori erano giusti, gli autori hanno avuto la libertà di esprimersi. L’idea era quella di denunciare, ridendo, un andazzo italiano un po’ così. Attraverso quella roba si racconta un po’ il nostro paese.
50 FEBBRAIO 2023
Il doppiaggio sembra facile, ma non lo è. Io ho avuto la fortuna di doppiare grandi attori in grandi performance. Riuscivo ad adattare la mia voce alle loro facce, quello è il segreto.
È un mestiere di servizio. Un nobile mestiere
FRANCESCO PANNOFINO
Sul set di Boris (foto Andrea Pirrello e Loris Zambelli, © Disney Italia)
C’è stata una gara a riconoscere a chi erano ispirati i personaggi, soprattutto il tuo.
Erano già trent’anni che facevo quel lavoro, ho fatto un compendio di tutti i registi e i direttori di doppiaggio che ho conosciuto. La cosa importante è il testo, se è scritto bene io mi diverto: faccio il mio mestiere, faccio l’attore, do vita a un personaggio.
Come è nata l’idea di ripartire con la quarta stagione?
Boris era morto insieme a Mattia Torre. Però nella nostra società sono i numeri a decidere. Hanno messo la serie su una piattaforma e ha avuto successo, e così Disney ha deciso di produrre la quarta serie. Speriamo che produca pure la quinta!
A noi la quarta è piaciuta.
Sono contento!
Non è una cosa nostalgica, da “reduci”, i personaggi sono già “classici”.
Il primo giorno che ci siamo visti sul set, dopo cinque anni, era come se non ci vedevamo dal giorno prima. Abbiamo ripreso da dove eravamo rimasti.
Si vede che vi divertite. C’è spazio anche per l’improvvisazione?
È quasi tutto scrittura. Poi c’è l’idea dell’ultimo momento, il guizzo. Gli autori sono anche i registi, sul set si inventa, si lascia spazio all’improvvisazione, ma non troppo, perché poi, sai com’è, gli attori si allargano.
Stavolta siamo nel mondo delle piattaforme e dello streaming. Tu come vivi questa nuova realtà? Sei un catastrofista?
Bisogna anche adeguarsi al progresso tecnologico, al mondo che cambia. L’attore che si esprime, facendo dell’arte, deve stare tranquillo, soprattutto se è bravo, perché questo lavoro non morirà mai, nonostante il progresso tecnologico, l’intelligenza artificiale, le voci ricostruite. Un giorno ricostruiranno anche le facce, non ci sarà quasi più bisogno degli attori, però rimarrà il teatro, lo spettacolo dal vivo. Sto portando in giro Mine vaganti e i teatri sono sempre pieni. Lo spettacolo dal vivo è insostituibile.
Chiudiamo con un ricordo di Mattia Torre
Mattia era un grande, un genio, un umorista raffinatissimo. Purtroppo ci ha lasciato troppo presto. Avrebbe prodotto chissà quanto ancora con la sua mente. Ci manca. Ci manca tanto.
52 FEBBRAIO 2023
FRANCESCO PANNOFINO
Mattia Torre era un grande, un genio, un umorista raffinatissimo. Ci ha lasciato troppo presto. Ci manca tanto
(© Disney Italia)
(foto Andrea Ciccalè)
«Il luogo dove siamo è defilato alla vista, non al tiro, perché il terreno è tutto costellato dalle buche d’esplosione dei 105 e 152 (piccolo e medio calibro austriaco). Stamane alcuni imprudenti e mascalzoni soldati raggiunsero il ciglio geografico del colle, mostrandosi al nemico. Subito arrivarono sei o sette granate da 75, ferendo gravemente un soldato: che rabbia mangiai, contro questi incoscienti! (…) Il clima
nelle ore meridiane è caldissimo, opprimente: questi bei prati, densi di magnifico foraggio e infiorati dall’estate, sono dilaniati dalla guerra: qua e là vedo uomini che colgono mazzi d’erba, con l’aspetto delle vecchierelle che raccolgono l’insalata, per coprire le tende e per farsi un po’ di letto. Dormendo sull’umido e sul duro il corpo riposa male. Qui si soffre anche la sete perché la sola acqua è quella accolta dal cielo in pozze da ranocchie».
È il luglio del 1916 e Carlo Emilio Gadda scrive queste parole nel suo diario. Parole precise, esatte, che documentano ciò che accade. Ma anche parole poetiche, che vedono la bellezza del mondo insieme al suo orrore, che trasfigurano la realtà o ne mostrano la verità più nascosta.
Il Giornale di guerra e di prigionia di Gadda è una lettura formidabile, poliforme, spesso sorprendente, per come riesce a passare dalla cronaca spiccia, aneddotica, al documento meticoloso, dal ritratto pedestre di un soldato o un ufficiale alla riflessione quasi metafisica, dall’appassionata descrizione di armi, campi di battaglia, movimenti di truppe, al bozzetto impressionista o all’autoanalisi spietata in forma di “autobiografia spirituale”.
Ma la nuova edizione proposta da Adelphi è anche di più, visto che propone per la prima volta sei quaderni inediti, recentemente acquisiti dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma. Come scrive la curatrice Paola
Italia: «Restituito nella sua completezza, il Giornale si rivela un’opera profonda e potente: appartiene a pieno titolo alla grande letteratura di guerra»
Leggerlo, come si fa spesso, solo in relazione alla letteratura che sarà, è un’operazione riduttiva e in fondo ingiusta. Troppo importanti queste pagine, sia come documento storico che come storia di un’anima.
Gadda aveva 21 anni quando diede il suo contributo a una guerra che, allora, riteneva «necessaria e santa»
Era un giovane che credeva nella patria e nella famiglia come una sorta di «binomio spirituale, la trasposizione ideale della propria essenza», come scrive Paola Italia. Per dirla con le parole di Gadda: «Provo il tormento che prova ogni animale nel pericolo: ma prima vi è solo il desiderio di fare, di fare qualche cosa per questa porca patria, di elevarmi nell’azione, di nobilitare in qualche modo questo sacco di cenci che il destino vorrebbe fare di me»
Fu una sofferenza per lui, all’inizio, non poter partecipare “all’azione”, rimanendo in seconda linea, come ufficiale degli Alpini. Ma i diari comprendono un periodo che va dal 1915 al 1919, quindi tanti fronti, quasi guerre diverse, anche dopo che ricevette la sospirata promozione a tenente.
Ci sono cronache, descrizioni, perfino disegni. Nel 1916, dopo aver contribuito, a colpi di piccone, alla creazione di un rifugio, lo descrive e lo ritrae, come un ricovero che «poggia in un piccolo salto di roccia, cinto da un turacciolo di sacchi a terra e sassi. È coperto da un telo a tenda, sostenuto da rami, e il pavimento è fatto con fondi di pino che mi salvano un po’ dall’umidità durante la notte. Eccone la pianta e l’entrata: la freccia indica la direzione delle fucilate dedicate alla sezione di Venier e che mi passano a 1 metro sul capo, mentre scrivo».
C’è un memoriale di Isonzo dettagliatissimo, il racconto di Caporetto e poi la prigionia, che all’inizio
fu brutale e che aprì la strada a una nuova fase, in cui la scrittura divenne ancora più importante, così come la lettura (dai manuali militari all’opera di Orazio, dai Frammenti di Leonardo al Trattato della pietra filosofale, Leopardi e l’Eneide, per poi arrivare a Baudelaire, Heine, Goethe, Mallarmé), fino alla decisione di separare il piano della Storia da quello dell’Espressione, utilizzando quaderni diversi.
Ma la Grande Guerra, che doveva essere un’esperienza eroica, decisiva, si rivelò per quello che era, con le sue privazioni, le fatiche indicibili, le assurdità grottesche, la morte sempre all’opera. Nei diari ci sono la meschinità della vita da caserma, l’incompetenza dei generali, «l’egotismo cretino dell’italiano», l’immoralità degli ipocriti e dei vigliacchi. Ma soprattutto c’è il confronto lacerante con sé stesso, la distanza incolmabile tra la realtà (la solitudine, la sofferenza, la mancanza di energia) e le proprie aspirazioni.
«Quando potrò uscire, dalla mia povera casa di sassi, verso la foresta gocciolante nell’autunno, tra la visione delle cime e delle nebbie, senza udir la voce dei così detti miei simili? La mia anima intiepidita dal fuoco domestico, rabbrividirà deliziosamente a quel cielo triste, e si perderà con quelle nebbie che sono più amiche a lei di un’umanità di uomini intelligenti, di uomini liberi, di uomini forti, di cravattoni, di armigeri, di lanternoni, di banchierazzi, di demagoghi, di pretazzi e di troie».
55 FEBBRAIO 2023
La guerra? “Necessaria e santa”
M EDITAZIONI 54 FEBBRAIO 2023
Ma si rivelò immorale e meschina
LE CRONACHE DAL FRONTE DI GADDA, TRA STORIA E BIOGRAFIA CINQUE QUADERNI INEDITI COMPLETANO UN’OPERA PROFONDA E POTENTE
(Archivio Liberati)
Fame, gelo, “atroce umiliazione”
E la realtà diventa visione dantesca
UNO STRALCIO DELLA NOTA DI PAOLA ITALIA SUL “GIORNALE” DI GADDA LA “COMMEDIA” COME «FORMA DI CONOSCENZA» DEL MONDO
Il Natale del 1917 è uno dei più feroci: per l’«atroce umiliazione», la solitudine, il gelo, la fame orrenda, la debolezza estrema che annienta ogni pensiero, la disperazione e l’abbrutimento che impongono alla mano di raccogliere nell’immondizia le «scorie della verdura » con cui integrare il «mezzo mestolo» di sbobba distribuito con il quinto di pagnotta nera, «impastata di segale e patate».
Le note del Giornale registrano i crudi fatti e l’onda dei ricordi che sommerge il prigioniero, portando con sé immagini della famiglia, dei cari lontani, dell’antica abbondanza, ma anche della recente sconfitta: «pensai oggi ai miei cari libri: lasciai in mano dei tedeschi le tre Laudi del D’Annunzio, le prose del Carducci (il testo mio durante il liceo, regalatomi da mia madre), i 2 Todhunter, i 2 Murani. – Così pure mi colsi a ridire versi Danteschi dell’Inferno, C. 33.° –»
Sono le 22 del 25 dicembre 1917. Il Dante di Gadda è
più di un «caro libro»: è una forma di conoscenza della realtà, il filtro attraverso il quale la tortura morale e fisica può diventare pronunciabile e venire risillabata nella parola poetica. Non a caso in un appunto dell’11 dicembre 1917 l’avverbio «dantescamente» è impiegato per rappresentare la violenza con cui riaffiora nella memoria il momento più lacerante: «Cerco di pensare il meno possibile al passato, ma esso torna implacabile, come un flutto, dantescamente. – (L’ordine di ritirata fu trasmesso dal Comando della 6.a Batt. (4.° Campagna) dal Magg. re Modotti (Gino), proveniente dal Comando Brigata Genova. Giunto a Cola alle ore 3 ant.ne del 25 ott.)»
Dante è una selva di immagini. Il 18 dicembre 1917 i prigionieri vengono trasferiti dal campo di raccolta alla fortezza di Rastatt, che diventa la dimora della prima prigionia: «un camerone interno, coi soliti giacigli sovrapposti, freddo, umido, coi vetri rotti, (e la notte gela) pieno di paglia trita lasciata dagli ufficiali di passaggio», dove la luce «filtra da feritoie e da finestre interne a inferriata» e a cui si accede da «una scaletta circolare, come nelle vecchie torri, coi gradini scavati e consunti dall’uso»: a Gadda pare «la prigione del Conte Ugolino, la classica prigione delle storie»
Un’idea ancestrale ha preso forma, e viene sperimentata in corpore vili. Il Dante che riaffiora alla memoria è allora quello del «fiero pasto», capace di rappresentare l’irrappresentabile: «Il cibo è il solito, la fame orrenda. – Solite scene e litigi nella distribuzione, voci, proteste, confusione, ecc. – Io oggi ero di servizio: cioè dovevo e devo andar a prendere il vassello del cibo (recipiente simile a quello in cui si abbeverano i porci), coi soldati italiani addetti al nostro servizio.
Nel gelo della mattina bisognò percorrere più volte (per il cibo, il carbone, ecc.) lo spazio che ci separa dalla cucina, cioè tutta la lunghezza della fortezza, cioè oltre 500 m. Il freddo preso è indicibile, per avere poco caffè; e a mezzogiorno un po’ di farina e di cavolacci cotti»
Ma Dante è per Gadda anche colui che è riuscito a tradurre la realtà in immagini dalla verità lampante, che si impongono con un’evidenza «spaventosa».
Il 21 dicembre 1917 è un’altra giornata rigidissima, di «vento freddo, cielo grigio, uniforme». I prigionieri, che il giorno prima avevano ricevuto solo «un mestolo di acqua con qualche pezzetto di rape lesse», decidono per protesta di non presentarsi al solito appello delle 10: «l’organismo tutto è denutrito, i muscoli vuoti, senza forza. Il polso è sceso a quarantacinque pulsazioni al minuto, nelle ore di maggior fame»
Gadda compra per cinque marchi venti biscottini: «...i trangugiai un po’ a un’ora un po’ a un’altra senza
neppure sentirli. – Divorai inoltre due panini che mi diede Cola; la mia fame è insaziabile, serpentesca, cannibalesca. Raccolgo da terra la buccia, la briciola; trangugio la resca di merluzzo. – Nell’abbrutimento però la mia patria e la mia famiglia sono però vive nel mio cuore. Il passato, la mia infanzia, tutte le più piccole e fuggitive immagini mi rivivono nell’anima con una intensità spaventosa, dantescamente».
Risiede qui l’intero senso dell’operazione del Giornale di guerra e di prigionia, e la potente urgenza narrativa che lo innerva: narrare significa testimoniare, trasformare la letteratura nello strumento ‘indefettibile’ della verità, evocare non già una realtà, ma la sua reminiscenza, il suo ricordo, un’esperienza che si faccia guida e mezzo di salvezza.
Intento non diverso da quello del personaggio-poeta della Commedia, che narra rinnovando «nel pensier» la «paura» provata, e «l’altre cose ... scorte» prima di trovarvi il «bene».
57 FEBBRAIO 2023 56 FEBBRAIO 2023
di Paola Italia (©2023 Adelphi Edizioni, Milano)
«Narrare significa testimoniare, trasformare la letteratura nello strumento della verità»
(Archivio Liberati)
Pagine autografe dei diari di Gadda (Biblioteca centrale nazionale di Roma)
Bentornato cinema! Sopravvissuto all’ennesima morte annunciata, scampato al Covid e alle sale chiuse, schivando streaming, download, piraterie, piattaforme.
Certo, il dibattito è aperto: il grande schermo è destinato a un veloce (o lento) declino? A un futuro di sopravvivenza elitaria, riservata ai colti impegnati che amano l’essai, oppure alla logica dell’evento-spettacolo, per le mandrie rumorose che guardano solo blockbuster? Si discute, si fanno convegni, si immaginano leggi e regolamenti, si prova ad educare i ragazzi all’esperienza collettiva della sala (ma se non offri buone sale, buoni film e gli strumenti intellettuali per apprezzare l’esperienza, è solo tempo perso).
Mai però nel mondo sono stati prodotti così tanti film. Mai c’è stata questa incredibile offerta e libertà di fruizione, in sala o a casa propria, per schermi di 30 metri con IMax e Atmos o per tablet da tenere sulle ginocchia, per quelli che amano le proiezioni con gli
autori ai festival o quegli altri che i film da festival li possono guardare solo sul computer in streaming. Troveremo il giusto equilibrio? Dal caos nascerà un nuovo ordine?
Intanto nelle sale arrivano film straordinari come The Fabelmans, che ci ricorda perché amiamo il cinema. E allora viene spontaneo dire: bentornato! In un anno in
cui abbiamo ritrovato Avatar, il caro vecchio sogno del cinema che crea mondi e genera meraviglia (facendo incassi record). In cui Tom Cruise ha resuscitato il mito anni ‘80 di Top Gun (a proposito di incassi record) e perfino Matrix ha avuto il suo film meta-cinematografico, la riflessione su come nasce un’opera del genere e che (non)senso ha provare a rifarla.
Il cinema torna a fare il cinema Follia, meraviglia e nostalgia
TUTTO IL MEGLIO DEL 2022 E CIÒ CHE VEDREMO NEL 2023. DA FABELMANS A BABYLON, SI MOLTIPLICANO I “META-FILM”
E che dire del mito di Marilyn Monroe esaltato e fatto a pezzi in Blonde? Il film di Andrew Dominik è uno dei film dell’anno per l’ispirazione e la sfrontatezza con cui utilizza la grammatica del cinema, i suoi strumenti magici, i trucchi, le tecniche, i formati, per devastare la nostra infantile idolatria, il potere dell’illusione cinematografica.
SOPRAVVISSUTO ALL’ENNESIMA MORTE ANNUNCIATA, SI MOLTIPLICA OVUNQUE
Marilyn, in un certo senso, è solo una scusa (speriamo ci perdoni, prima o poi). È l’oggetto sacrificale, lo strumento che permette a Dominik di colmare lo spazio che separa il soggetto e l’oggetto dello
sguardo (la dinamica di cui si nutre il cinema), per provare a capire cosa significa essere ridotti a una “cosa”. Un film di pura visione, ipertrofico, per certi aspetti anche sbagliato (il feto parlante) eppure straordinario nel suo farci vedere e sentire la stupefacente potenza del cinema, tutte le verità e le bugie che si possono dire col suo linguaggio di finzione. A proposito di linguaggio visionario e di cinema esagerato, è curioso che quest’anno sia uscito anche Elvis, altro personaggio frainteso, adorato e poi vilipeso, che molto ha avuto a che fare col cinema. Il meglio di Baz Luhrmann (protagonista del postmoderno, di film eccelsi come Romeo+Giulietta o imbevibili come Australia) al servizio di un mito, senza accontentarsi della biografia, provando a tradurre in immagini l’anima nera e le radici country, l’invenzione di una musica che scuote e ti costringe a muoverti,
a ballare, la somma barocca di eccessi e contraddizioni. Perché al cinema non chiediamo solo la realtà, ma anche un distillato estatico della sua verità. Ed è bello che Luhrmann abbia regalato a Elvis il finale classico, struggente (cinematografico!) che lui ha sempre sognato.
Sono opere meta-cinematografiche (cinema che inscena il cinema) anche l’osannato Nope di Jordan Peele, un abile giochino cinefilo, e il magnifico Gli orsi non esistono di Jafar Panahi, in cui però la riflessione sul mezzo diventa anche testimonianza, denuncia del potere repressivo, ostinata dedizione alla causa dell’arte libera in un Iran che vorremmo liberato.
58 MESE 2022
E VENTI
The Fabelmans
Elvis
Memoria
Il 2022 è stato l’anno in cui il cinema-fumetto e le saghe Marvel e Dc Comics non hanno dato il meglio di sé (noi al “raffinato” Batman di Matt Reeves preferiamo l’adrenalina gratuita, quasi astratta, di Michael Bay e il suo The Ambulance). In compenso abbiamo visto i nuovi magnifici film di due tra i migliori registi contemporanei, Paul Thomas Anderson (Licorice Pizza) e Pablo Larraìn (Spencer, altro film biografico), oltre a Skolimowski, Brizé e Audiard. Abbiamo ritrovato il genio di Aleksander Sokurov e amato Saint Omer di Alice Diop, cinema femminile nel senso più profondo del termine, che racconta cosa significa essere madri e figlie, che mette a confronto Africa e Occidente, cultura magica e “cartesiana”, oltre all’incomprensione che esaspera le differenze e crea nevrosi e disperazioni.
Un altro regista che si nutre di puro cinema è Luca Guadagnino, che quest’anno ci ha regalato Bones & All. Per non parlare di Gianni Amelio, che ormai realizza film “fuori dal tempo”, già classici, anche quando mettono in scena il passato per parlare del presente (Il signore delle formiche). Per rimanere all’Italia, citiamo anche il film collettivo di Paolo Virzì, quello sospeso tra passato e futuro di Daniele Vicari, l’opera-fiume di Bellocchio, Martone, Andò, l’esordio stupefacente di Laura Samani (Piccolo corpo), un giovane regista rigoroso come Francesco Montagner e la meraviglia in formato doc di Susanna della Sala (che abbiamo omaggiato sull’ultimo numero di Redness).
Il meglio dell’anno? Se appartenete alla categoria degli spettatori che
non si accontentano, c’è Apichatpong Weerasethakul, il regista thailandese capace di portarci ogni volta ai confini del cinema e oltre. Con Memoria è tornato a sovvertire l’idea che abbiamo del mondo e di ciò che dovrebbe essere un film, raccontando una realtà in cui anche le cose hanno un’anima, portandoci in un’altra dimensione.
IN
Poi però arriva
The Fabelmans e torniamo all’essenziale. Quel cinema che gli snob chiamano “facile” e definiscono “infantile”, quando invece siamo all’abc del “classico”, a una semplicità che non è mai banale. Steven Spielberg - uno di quei pochi eletti che sanno unire le ragioni dell’arte e quelle dell’industria, la profondità di idee e sentimenti con l’intrattenimento
- ha finalmente raccontato la storia della sua famiglia e della propria vocazione (a cui già pensava prima di realizzare E.T., quarant’anni fa), il dolore per la separazione dei suoi genitori e l’ostinazione con cui ha inseguito un sogno. Ha condensato in tre ore la tecnica, la teoria e la magia del cinema, il modo in cui riesce a raccontare la realtà della vita, il particolare (la misteriosa verità di ogni esistenza, indicibile) e l’universale (le esperienze che ci accomunano tutti, che ci rendono umani). L’immagine di lui bambino con il cinema proiettato tra le mani, rimarrà nella nostra memoria per sempre. Il cinema ha quasi 130 anni e ne ha viste (ne ha fatte vedere) di tutti i colori. Da decenni ormai è in atto una riflessione sul mezzo, i suoi limiti e la sua possibilità. Mai come negli ultimi anni però il cinema è diventato un “personaggio”, l’oggetto e il soggetto del discorso, insieme.
L’incarnazione di una magia e di un sogno, che sembra aver perso per strada la sua antica nobile dignità, la capacità di parlare al nostro immaginario, ma che continua ad essere vitale e indispensabile.
Non è certo un caso che in un momento del genere nasca un film come Babylon. Damien Chazelle, l’autore di La La Land, un amante del cinema puro, dopo aver omaggiato il musical, ha deciso di portare in scena la Hollywood delle origini, trasformandola in un interminabile delirio cinefilo, in certi momenti anche maldestro, ma travolgente. Un’ubriacatura di cinema. Un bel modo di iniziare un anno che promette scintille, come pote-
te constatare anche solo sfogliando le pagine dedicate alle uscite di febbraio (dalla 63 alla 67). Se poi vogliamo andare oltre il futuro più prossimo, ecco arrivare un nuovo film di Martin Scorsese che mette insieme Leonardo Di Caprio e Robert De Niro (cosa volete più di così?), Killers of the Flower Moon, un thriller ambientato tra i nativi americani. Probabile che sia a Cannes, insieme al nuovo film di Nanni Moretti, Il sol dell’Avvenire, con Silvio Orlando, Margherita Buy e Mathieu Amalric.
Sta spopolando sul web il primo teaser di Barbie, con folle omaggio a Kubrick e apparizione monolitica di Margot Robbie, l’attrice che ormai tutti vogliono (bravissima, bellissima, divissima), qui prota-
gonista insieme a Ryan Gosling: Greta Gerwig, in accoppiata con Noah Baumbach, ci promette una follia kitsch rosa shocking. E a proposito di film visivamente personali, che ne dite del nuovo Wes Anderson (Asteroid City) o il Napoleon di Ridley Scott con Joaquin Phoenix?
Per i nostalgici ci sarà l’ennesimo Indiana Jones (e la Ruota del Destino) con Spielberg che, come al solito, alterna un film personale con un potenziale campione d’incassi.
Come incasserà certamente anche l’ennesimo Mission Impossibile talmente “troppo”, epico e stracult – visto il ritorno di fiamma del pubblico e della critica per Tom Cruise – che uscirà diviso in due parti.
61 FEBBRAIO 2023 60 FEBBRAIO 2023
ARRIVO TANTI BIG: SCORSESE, NOLAN, MANN, POLANSKI Babylon
Blonde
I più attesi dal pubblico? Il terzo volume dei Guardiani della Galassia, il cartoon Super Mario Bros, La Sirenetta in versione live action, il tuffo negli anni Novanta di Transformers: Il Risveglio, il prequel di Hunger Games, il sequel de L’esorcista, Aquaman e il Regno perduto, The Marvels, John Wick 4, Fast & Furious 10, Ant-Man and the Wasp: Quantumania, Spider-Man: Across the Spider-Verse e un nuovo Wonka
visiva (più Dunkirk che Inception, Interstellar o Tenet), raccontando la creazione della bomba atomica; e Dennis Villeneuve, alla seconda puntata della saga di Duel, che con la prima parte ci aveva impressionato ma non conquistato.
A proposito di grandi registi, dopo otto anni di attesa, tornerà sul grande schermo anche Michael Mann (Heat, Alì, Collateral, Nemico pubblico) con un film dedicato a Enzo Ferrari, interpretato da Adam Driver (per noi il miglior attore in circolazione).
ECCO
con Timothée Chalamet.
I più attesi da noi? Il ritorno dei due registi da cui il cinema si aspetta di più, oggi e domani: da una parte Cristopher Nolan, col suo Oppenheimer, che promette la consueta memorabile esperienza
Occhi puntati anche su Roman Polanski (The Palace), David Fincher (The Killer), Marco Bellocchio (La conversione), Matteo Garrone (Io capitano) e Luca Guadagnino (Challengers). Attendiamo con curiosità anche la nuova opera di un maestro del cinema come il giapponese Hirozaku Kore’eda (Monster) il film che Sofia Coppola ha voluto dedicare a Priscilla (la moglie di Elvis Presley), El Conde di Pablo Larraìn (commedia satirica con Pinochet in versione vampiro, stanco di vivere), il cinquantesimo film di Woody Allen (Wasp 22) e Strangers di Andrew Haigh. Di Megalopolis, una gigantesca follia di Francis Ford Coppola, non sappiamo cosa pensare, viste le notizie recenti che parlano di produzione nel caos (chi l’avrebbe mai detto...). Trattasi di «un’epopea romana ambientata a New York, un po’ come la congiura di Catilina, con il sindaco di New York nei panni di Cicerone». La premessa, o meglio, la promessa, è quella di «un film mai visto prima». Bentornato cinema!
BABYLON di Damien Chazelle
Hollywood, 1926. Va in scena un party scatenato che assomiglia al cinema, fatto di sogni, sesso, musica, mascheramenti, bellezza accecante e abissi di perversione, estasi allucinata e cloaca senza fondo (feci, urina e vomito non mancano di certo in questo film).
Va in scena una prodigiosa sequenza che è un caleidoscopio di immagini, colori, azioni, personaggi, dettagli d’epoca. In Nellie, aspirante attrice (una Margot Robbie spinta all’overacting, la recitazione sopra le righe), e Manny, messicano tuttofare che sogna il cinema (un Diego Calva che soccombe al personaggio moscio), sembra quasi di rivedere i due protagonisti di La La Land, o meglio, l’aspirazione che alimentava quel film, come un fuoco che spinge a ballare, recitare, cantare,
immaginare un’altra vita (tutte le vite possibili che il cinema può raccontare).
Qui però al posto del disincanto malinconico c’è un’immersione furibonda. Siamo negli anni in cui Hollywood era una fucina infinita di visioni, follie, fantasie, imprese improbabili, nella più totale libertà, di costumi e di idee, senza alcuna morale. Puro spirito creativo insensato, rappresentato dal divo del muto Jack Corran (Brad Pitt), che ama la lirica, si nutre di cultura europea, ma gira i film in stato di ubriachezza.
Tutto è eccessivo, in Babylon, per poi arrivare a quel momento magico in cui il massimo dell’artificio, della casualità, della mancanza di senno e sensibilità, si trasforma come per magia in emozione vera. Ecco il senso del film, e il suo momento migliore, la messinscena del potere straordinario del cinema (che è anche il momento migliore di The Fabelmans, per
citare un altro film recente che racconta lo stesso “miracolo” in un altro modo).
Poi arriva il passaggio dal muto al sonoro, il sistema degli Studios diventa industria, si fa strada la moralizzazione dei costumi e c’è tutto un mondo che deve affrontare il declino. Ed ecco che la storia sbanda dal melodramma all’art-kitsch, dal meta-cinema al biografico camuffato, dal drammatico al grottesco.
Ma ciò che interessa a Chazelle è dare corpo al mondo dello spettacolo e al suo lato putrescente, perdersi in una baccanale di suoni, immagini e visioni, mettere in scena idee, movimenti, stili, film amati, inquadrature ricercate in un accumulo che deve esplodere nei nostri occhi e nella nostra storia, per farci capire quanto sia tutto incredibilmente falso e farci sentire quanto sia irrinunciabilmente vero. Con finale astratto, posticcio, metafisico.
63 FEBBRAIO 2023 62 FEBBRAIO 2023
LA NOSTRA GUIDA ALLE USCITE DOC DI FEBBRAIO: TÁR, THE WHALE E GLI SPIRITI DELL’ISOLA
THE WHALE di Darren Aronofsky
A proposito di prove d’attore che lasciano il segno. Brendan Fraser, che si era smarrito tra i meandri di Hollywood, riappare nei panni di un uomo ammalato di obesità, un essere che viene definito “disgustoso”, un ex-professore che ha deciso di auto-distruggersi col cibo. The Whale è quasi completamente ambientato nella sua casa, buia come la sua vita, percorsa da presenze fantasmatiche (l’uomo che amava), da un’amica infermiera che vorrebbe salvarlo (ma lui forse ha deciso di morire), dalla figlia abbandonata che lo odia (ma è l’unica persona che dà un senso alle sue giornate), da un giovane predicatore che vorrebbe riconciliarlo con Dio.
In realtà Charlie è un uomo estremamente sensibile, intelligen-
te, gentile, che persegue una sua personalissima forma di riscatto morale, quasi un’ascesi, il cui traguardo è l’annientamento.
È un essere umano che soffre per la mancanza d’amore. Che convive con la parte oscura di sé, come ci suggeriscono i continui riferimenti a Moby Dick, a partire dal titolo, ma anche i passi biblici attraverso cui ingaggia un duello (esistenziale più che teologico) con il ragazzo missionario, sul peccato, il peso della carne, il potere dell’amore e le “leggi” che lo governano.
Darren Aronofsky torna dalle parti di The Wrestler, il suo film migliore - un cinema realistico, “sporco”, fatto di sentimenti e vite ai margini, lontano dagli eccessi simbolici e le intuizioni visionarie di Requiem for a Dream, The Fountain, Madre! - concentrandosi sulle emozioni, i volti, le parole. Brendan Fraser ci mette tutto ciò che ha (anche troppo, in alcuni
momenti) e riesce a dare un’anima, oltre che un corpo, a Charlie, al suo cammino di redenzione, spietato ma a suo modo luminoso. C’è chi ci vede dentro solo i personaggi tagliati con l’accetta, i dialoghi esemplari, la parabola esplicita e un po’ ovvia, e chi invece apprezza il coraggio, la sincerità, la verità della messinscena. Trattasi di grande film, nel bene e nel male. (Spoiler: vince il bene).
GLI SPIRITI DELL’ISOLA di Martin McDonagh
Erano amici. Non lo sono più. La premessa è questa, esile, minima. Il risultato, invece, è enorme. Un film originale, complesso, metaforico, al tempo stesso tragico e spassoso. Una commedia surreale che allude alla guerra civile (alla sua follia irragionevole) ma parla anche di tante altre cose: gli insondabili misteri dell’amicizia e dell’amore (dell’odio, anche), l’innocenza violata e sbeffeggiata, l’eternità vagheggiata (nell’arte), l’ostinazione di noi umani che diventa facilmente ossessione. Il merito va diviso in tre parti. Quella principale spetta al regista Martin McDonagh (commediografo di successo diventato regista di culto grazie a Tre manifesti a Ebbing, Missouri) che scrive senza sbagliare una virgola e sa cosa significa
“messinscena”. Poi c’è una coppia di attori particolarmente ispirati, Colin Farrell e Brendan Gleeson, oltre a un contorno di caratteristi da Oscar. Infine c’è quella remota isola irlandese, coi suoi paesaggi sublimi e i rarefatti silenzi, che amplifica ogni gesto e ogni parola. Facciamo il tifo per Pádraic, che un giorno, all’improvviso, scopre che il suo migliore amico non lo vuole più vedere: prima sorpreso, poi esterrefatto, alla fine è letteralmente sconvolto.
Ma anche per Colm, che non
sopporta più quell’amico noioso, vuole dedicarsi alla sua musica e ha tutto il diritto di decidere con chi bere una birra nell’unica taverna dell’isola. Quasi inavvertitamente la non-storia cresce, si gonfia, e a poco a poco trasforma la commedia in dramma, il surreale in grottesco, la poesia folk in tragedia greca. Compaiono anche streghe, poliziotti depravati, violenze famigliari... E alla fine siamo sopraffatti dalla follia di quello strano animale, apparentemente razionale, che chiamiamo uomo.
65 FEBBRAIO 2023 64 FEBBRAIO 2023
TÁR di Todd Field
Il controllo. La perfezione del gesto. L’assoluto come ossessione. Lydia Tár è “il maestro” in un mondo che non conosce generi, sfumature, umane fragilità. C’è solo il sovrano (il tiranno), il capo supremo, la sacra guida che dirige l’orchestra. Lydia è approdata sul trono di Berlino, prima donna a raggiungere la vetta. E per stare lassù, non la smette mai di studiare, provare, controllare tutto e tutti. Ma anche lei è un essere umano, con i suoi limiti, le sue passioni, gli innamoramenti, le paure.
Ci sono film che si identificano completamente con i loro protagonisti. Tár è costruita su Cate Blanchett: la sua performance stupefacente ha molto a che vedere col tema del film. Si parla di musica, ma in un certo senso si
allude anche al cinema. Cate Blanchett porta in scena il suo lavoro ossessivo, che riflette la psiche di Lydia, l’autodisciplina, ma anche l’allucinazione, il gesto paranoico, la fessura che si apre dentro il suo mondo “perfetto” per far entrare la luce e il buio, la vita, con le sue contraddizioni.
Todd Field firma un film virtuosistico, fatto di immagini fisse, interminabili campi e controcampi estremamente composti, ma anche aperture lynchane (visive e sonore), improvvisi scarti e deviazioni. Ci sono le inquadrature geometriche, posate, e le sequenze frammentarie, nate dalla sovrapposizione di sguardi, movimenti, punti di vista.
Lydia Tár prepara la Quinta di Mahler, mentre affronta a modo suo lo scontro tra la modernità e l’istituzione che governa (notevole la scena in cui affronta un giovane che sceglie la musica in base alla biografia politicamente corretta
degli autori), la sua ritualità tradizionale, le dinamiche di potere, ma anche la sacralità, il genio, il nucleo di bellezza e verità, che rischia di essere travolto con tutto il resto. E intanto affronta i suoi fantasmi, il rapporto con la donna che ama, i problemi della figlia, la direttrice/direttore d’orchestra che si è suicidata (lei la conosceva bene), la nuova bellissima violoncellista... Non tutto è perfetto in questo psico-noir, che si sfilaccia e scivola verso un finale ad effetto, ma tutto è affascinante.
TUTTA LA BELLEZZA E IL DOLORE di Laura Poitras
Nan Goldin è un’artista e un’attivista. Ed è anche una sopravvissuta: alla sua famiglia disfunzionale e a una dipendenza da oppiacei che l’ha portata all’overdose. La conosciamo per i suoi celeberrimi ritratti della New York underground degli anni ‘80: artisti, performer, prostitute, drag queen, movimenti gay, locali new wave, l’arte, la malattia (l’Aids), il nomadismo, la ribellione. Le vediamo, quelle foto, insieme ai suoi ricordi, alternati al presente della sua battaglia contro la famiglia Sackler: un colosso della farmaceutica, accusato di aver diffuso farmaci a base di ossicodone pur sapendo che causano dipendenza (si parla di 107 mila morti per overdose solo nel 2021 negli Stati Uniti). Il fatto è che i Sackler sono anche generosi donatori, che finanziano l’arte, i musei, le grandi mostre. Ed ecco la protesta di Nan Goldin, artista contro l’arte prezzolata, che combatte una battaglia personale diventata globale. Laura Poitras, nota per i suoi documentari abili e coraggiosi, insegue Nan e gli attivisti della sua associazione (PAIN), la guarda e la ascolta, raccoglie le sue confidenze, la sua malinconia e la fierezza. Ma racconta anche la sorella morta suicida, adolescente ribelle, con genitori che non riuscivano a capirla e quindi preferirono farla internare. Ora Nan Goldin lotta contro una società che stigmatizza chi è vittima della dipendenza e non chi si arricchisce grazie ad essa. Un film che è un accumulo di immagini, parole, pensieri, che è documento e videoarte, che qui è incandescente e là diventa didascalico, che ha momenti di verità e sequenze di pura rappresentazione. A Venezia lasciò tutti entusiasti, portandosi a casa il Leone d’Oro come miglior film (troppa grazia, forse).
DECISION TO LEAVE di Park Chan-wook
Park Chan-wook non ha bisogno di troppe presentazioni. Film come Old Boy e Lady Vendetta parlano per lui. Esteta, visionario, barocco, è capace di costruire immagini potenti e di usare il linguaggio del cinema con estrema libertà. Ma a volte è caduto vittima della sua stessa bravura, lambendo il manierismo.
Decision to Leave è il frutto del miglior Park Chan-wook, non per niente premiato per la migliore regia all’ultimo Festival di Cannes. Racconta di un investigatore che è anche un marito insoddisfatto. Di un suicidio che per lui è un omicidio. Della sua scelta di indagare la moglie della vittima, di cui finisce per innamorarsi. Ed ecco cominciare uno sfibrante e affascinante gioco di inganni e seduzioni, di sentimenti ambigui, sguardi, ammiccamenti, incontri, allusioni erotiche, rivelazioni. Ci sono, come sempre, le inquadrature virtuosistiche, i movimenti di macchina spettacolari, ma stavolta c’è anche una misura nuova, una sensibilità raffinata.
Quasi tutti hanno citato Alfred Hitchcock, per indicare la sua probabile fonte di ispirazione, anche se il regista sudcoreano ha detto di non aver pensato affatto ai suoi film. Siamo più nel territorio del mitico “neo-noir”: tutti lo amano, tutti lo cercano, ma non è facile definirlo. Qui compare sotto forma di un romanticismo elettrico, classico e moderno insieme, che ci fa riflettere sulla passione, l’amore, il desiderio, l’ordine necessario e l’indispensabile caos, tra interrogatori misteriosi (lei è un autentico enigma, per questo è così attraente) e inseguimenti mozzafiato, fra il thriller e il melodramma. Una lezione di regia.
67 FEBBRAIO 2023 66 FEBBRAIO 2023
QUANDO L’ARTIGIANO CI METTE L’ANIMA «PIÙ CHE UN LAVORO»
I destini incrociati di due esperti del legno. Dal garage di casa alle avventure all’estero. Manualità ed empatia: un’arte da preservare
Si fa presto a dire “artigiano”. Come se posare o levigare un pavimento in legno fosse una cosa banale, un “do ut des” (io ti pago, tu fai il lavoro)
che si risolve in una transazione commerciale. Per tanti forse è così. E la questione viene liquidata con la distinzione tra artigiani bravi e meno bravi, costosi o economici.
Poi ti capita di incontrare qualcuno che ne fa una questione di “anima”. «Non è solo manualità. Io ci metto davvero l’anima. È come se le case degli altri fossero casa mia. In un certo senso è una scelta di vita. Costa fatica, ma se entri dentro di te, capisci meglio chi sei e puoi rapportarti meglio con gli altri. Nasce da qui l’empatia profonda con le persone che incontro. I baci e gli abbracci alla fine di un lavoro. Credo sia l’abc dell’umano. Quanto ti sei donato per imparare, quanto hai voluto capirti per capire gli altri. Quando il lavoro è così, umano, creativo, ti alzi la mattina e hai voglia di farlo. Lavori bene, anzi benissimo, e il cliente lo vede». Incontrare una persona del genere, uno come Moreno Zocca, aiuta a capire cosa significa essere artigiani. In un momento storico in cui si parla della loro possibile scomparsa. È un lavoro che richiede fatica, tanta, che esige tecnica e impegno, che deve fare i conti con i problemi di gestione, le tasse, la burocrazia, ma che dà soddisfazioni (e anche guadagni, quando si lavora bene) che valgono tutto il sudore versato e le complicazioni affrontate.
Moreno Zocca e Alberto Poncato hanno creato una coppia che vale per tre, lavorando anche all’estero, imparando a risolvere problemi tecnici apparentemente insolubili («“non si può fare” per noi non esiste»), e guadagnandosi un prestigio che va ben al di là della provincia di Vicenza in cui hanno vissuto per tutta la vita. Ora la Poncato&Zocca ha superato i 30 anni di esistenza e loro hanno lo stesso entusiasmo degli inizi.
Il bello è che si conoscono fin da quando erano piccoli, visto che erano vicini di casa. «Quando io avevo 8 anni e lui 10 già lavoravamo insieme, d’estate – ci racconta Moreno. - Toglievamo le sbavature delle saldature. Portavamo dentro camion di ferro». Si comincia anche così. Per gioco, ma per davvero. Vicini, ma diversi. «Siamo due persone con modi di vivere differenti. Forse il nostro punto di forza è proprio questo. Ma abbiamo lo stesso modo di approcciare le persone. Lui più con la simpatia, io con l’empatia» Che è una distinzione sottile, ma importante. C’è chi è più portato per il sorriso, lo scherzo, la comunicazione, e chi è più bravo ad ascoltare e a entrare in sintonia con chi ha di fronte. Il risultato è che si lavora con clienti diversi e l’azienda cresce. Ormai è dal ‘91 che portano avanti la loro impresa, specializzata nella fornitura, la posa e la levigatura di pavimenti e rivestimenti in legno. Ma dietro c’è una storia che va raccontata.
«Io in realtà facevo l’operaio. Ho lavorato cinque anni in fabbrica – ci dice Moreno. - Era una serigrafia e avevo anche un ruolo di responsabilità. Avevo cominciato a 15 anni. Eravamo in un’altra epoca. Provengo da una famiglia che non era certo benestante. A un certo punto c’era bisogno di contribuire: delle 800 mila lire di paga, 500 le davo in casa e con 300 facevo tutto».
Vaglielo a spiegare ai nostri figli che un tempo funzionava così. Spesso sono gli stessi che non vogliono sentir parlare del lavoro da artigiano. Che non sanno quante
“Poncato&Zocca”: più di 30 anni di esperienza insieme. «Per noi è come se le case degli altri fossero la nostra. Quando un mestiere è così, umano e creativo, ti alzi la mattina e hai voglia di farlo. I risultati poi si vedono»
soddisfazioni e possibilità di guadagno garantisca. Ma parleremo anche di questo.
«Avevamo uno zio in comune, Aureliano, scomparso due anni fa. È stato lui a introdurci in questo mondo. Prima è toccato ad Alberto. Mio zio gli ha detto: se io prendo certi lavori tu vieni a darmi una mano? E così è stato». La vicenda di Moreno invece è più complessa e dolorosa, ma anche più romantica. Passa per la perdita traumatica del padre, che aveva solo 51 anni, e la decisione di andarsene in India.
«Volevo andare ad aiutare i lebbrosi. Non era una cosa mistica. Avevo bisogno, aiutando gli altri, di digerire quella perdita, che per me è stata devastante. Però è successa una cosa fondamentale per la mia vita. Io ero stato fatto rivedibile al servizio militare (per un problema a una mano). Mancavano cinque mesi alla partenza per la naja. Ho fatto il biglietto per l’India, ho fatto
i vaccini, ma la questura non mi ha fatto e partire perché la legge diceva che ce ne volevano almeno sei. In quel periodo stavo leggendo “Il gabbiano Jonathan Livingston”, immagina i pianti»
Il destino aveva preso un’altra direzione. «Io ci credo al destino. Tutto arriva al momento giusto. Infatti cerco sempre di sentire le cose, non solo di fare e ascoltare...
Avevo detto a mio zio: quando tornerò dall’India, mi darai un po’ di lavoro, finché non trovo un posto?
Ma visto che ho avuto quell’inghippo, l’ho chiamato subito e ho detto: sono qua! Ringrazio Dio che non mi abbiano permesso di partire. Perché la moglie e il lavoro, che ho trovato in quel momento, sono quelli che ho tuttora. Io e Alberto lavoriamo insieme da 32 anni. Lui si è sposato proprio 32 anni fa. E io da 31 anni sono sposato con mia moglie. Sembra incredibile, ma queste cose succedono».
69 FEBBRAIO 2023
S TORIE DI VITA E D’IMPRESA
La partenza, a dire la verità, non fu affatto facile. «Il lavoro all’inizio non mi piaceva. Era molto duro. Le prime due settimane avevo i legamenti delle ginocchia che gridavano aiuto. Un male boia! Poi mi sono abituato. Il fatto è che io sono sempre stato uno molto preciso e attento all’estetica. Non un artista, però estroso. Ho lavorato per tre mesi insieme a un posatore che mi ha insegnato i rudimenti del mestiere, ma non l’avevo ancora imparato davvero. Mio zio però mi ha portato su cinque villette a schiera e mi ha detto: guarda la partenza, si fa così, ci vediamo stasera. Sono passati quasi 36 anni e io lo sto ancora aspettando... Sentivo la responsabilità di fare un buon lavoro: le persone comunque
crescere l’azienda. Già facevamo qualche lavoro insieme. Io posavo e lui levigava. Ci siamo aiutati, ci siamo passati il nostro sapere. Siamo diventati due parquettisti “finiti”. E abbiamo fatto tanta strada insieme».
spendevano dei soldi e dovevo essere all’altezza. Mi sono guardato intorno e... ho fatto le cinque casette a schiera. Da lì ho preso fiducia. Dopo un anno lavoravo nelle ville delle famiglie importanti della zona. Sono diventato bravo. Mettendoci tanto del mio».
Tre anni e mezzo dopo, è arrivato anche il momento di spiccare il volo. «Sentivo la necessità di fare un passo in avanti. Eravamo in undici nel nostro gruppo, tra levigatori e posatori. Ho provato a lavorare con uno di loro, come socio, ma non c’era feeling. Con Alberto invece ha funzionato da subito. È il socio perfetto per il mio carattere, una persona che mi asseconda, che non dice mai di no, perché sa che tutto ciò che propongo è per far
Si comincia così. Dal garage di casa. Per poi passare in un capannone di 56 metri, in affitto, da usare come magazzino, e continuare a crescere. «Otto anni fa abbiamo preso un capannone di 330 metri quadri, sempre in affitto, con una sala mostre di 70 metri. Abbiamo anche comprato un secondo furgone. Nel frattempo, con la crisi 20082009, abbiamo lavorato all’estero e abbiamo fatto alberghi nell’Alto Adige. Non abbiamo paura di muoverci. Quest’anno abbiamo lavorato anche a Milano e a Frascati». All’inizio lavoravano da artigiani singoli, «ma dividevamo spese e guadagni». Poi è nata una società vera e propria. Vaglielo a spiegare ai giovani che questo è anche un modo per girare il mondo. «Noi siamo stati in Azerbaijan, Qatar, Olanda, Francia, Spagna, Lettonia... Abbiamo fatto tante esperienze. Volendo, potremmo lavorare in giro per il mondo. Se andassimo in America prenderemmo quattro volte quello che prendiamo qua. In Australia la città di Melbourne l’hanno fatta i veneti. Laggiù c’è una comunità di 400 mila veneti che lavorano nell’edilizia»
Ci sono anche aneddoti formidabili. Tipo il lavoro del 2016 a Doha, nel Qatar (dove hanno giocato i Mondiali del 2022).
«Siamo andati nel villaggio di uno sceicco a fare un negozio di Fendi. C’erano due architetti serbi. Uno alla fine ci ha detto: “Sono onorato di essere il primo a calpestare questo pavimento”. Io l’ho guardato e gli ho detto: “Perché?”. E lui: “Perché per lo stesso lavoro a Riad, lo stesso pavimento con la stessa posa, hanno fatto un disastro. Voi siete bravissimi”. Ci ha anche portato fuori a mangiare. Queste sono soddisfazioni. È arrivato il responsabile inglese della Fendi Medioriente. Uno che faceva tremare le persone. Non ha aperto bocca, si è guardato intorno, ci ha guardato, ha fatto un cenno di approvazione con la testa ed è andato via».
Un’altra storia da raccontare è l’esperienza a Baku, in Azerbaijan, dove sono capitati nella casa di un ministro. Merito di un parquettificio che li indicò come bravi artigiani del territorio. «Lì non si scherza. Ho visto ditte arrivare e tornare a casa. Baku è la città del vento. C’è davvero tanto vento, trecento giorni l’anno. I pavimenti non sono come i nostri, che li incolli
sul massetto. Sono sollevati. Sotto passa l’aria. Abbiamo scocciato tutto e c’era sempre aria. La vernice si asciugava troppo velocemente, non riusciva a dilatare e faceva delle cose che in Italia non avevamo mai visto. Abbiamo fatto arrivare un’altra vernice da Milano (a Baku non si trovava): peggio che peggio. La terza era all’acqua e siamo riusciti a venirne fuori. C’è stato anche un problema con la se-
conda verniciatura, perché quando carteggiavi, la polvere strisciava la vernice. Abbiamo provato e riprovato, fino a trovare la soluzione. Abbiamo dovuto carteggiare tutto a mano, 560 metri quadri a disegno. Siamo stati via 54 giorni, lavorando 12 ore al giorno, sette giorni su sette, mangiando montone, patatine e Coca Cola. Però ce l’abbiamo fatta. Il ministro ci ha fatto “ok” col dito e siamo ripartiti». Ecco le prove che ti danno fiducia. Oggi non c’è più bisogno di lavorare così tanto (bastano 8 ore al giorno, anche meno). Ma lo spirito è sempre quello, anche quando si portano avanti lavori più semplici. «Insieme abbiamo quasi 80 anni di esperienza, io 36 e il mio socio 43. Ormai sappiamo molte cose. Il lavoro che facciamo lo facciamo molto bene. Dire solo bene sarebbe riduttivo. Curiamo i dettagli, che è una cosa in più». Un tempo lavoravano molto per le aziende, ora sono quasi tutti loro clienti. «Clienti di tutti i tipi».
70 FEBBRAIO 2023
Moreno Zocca lavorava già a 15 anni, come operaio. Un lutto improvviso lo ha spinto a partire per l’India. Ma il viaggio è saltato ed è cominciata un’altra storia...
È una questione di professionalità, di saper fare e di anima. «Bisogna sapersi rapportare con le persone, tener pulito il cantiere, eseguire il lavoro in un certo modo. L’empatia è necessaria perché non diventi solo una mera questione “tu hai bisogno
del lavoro, io lo faccio”. È qualcosa di più. Un giorno, quando io non ci sarò più, vorrei che restasse un bel ricordo alle persone per cui ho fatto un buon lavoro. Non è solo “mi alzo, mangio, bevo, lavoro”: è molto più profondo il discorso. Ci ho mes-
so lo spirito». Forse c’entra anche il fatto che Moreno è davvero un po’ artista, oltre che artigiano, ama la lirica (è un basso), compone musica (blues-rock). In più, da tutta la vita, pratica le arti marziali. Ed ecco quindi anche la disciplina e la conoscenza di sé. Perché il lavoro non è una cosa separata dalla vita, si è bravi nel proprio mestiere se ci si coltiva anche come esseri umani.
Ora è il momento di fare un ulteriore salto. «Siamo al dunque. Non siamo più quelli che eravamo ma non siamo ancora quelli che dovremmo essere. Mi mancano cinque anni per andare in pensione. E io dico spesso al mio socio che bisogna dare un senso a quello che sta succedendo: fare ancora 7-8-10 anni da leoni. Si tratta di un lavoro molto fisico, dispendioso, con molta responsabilità. Ma bisogna sempre farlo al massimo delle proprie possibilità».
La questione è anche: a chi tramandare questo sapere. «Io ho due figli. Il più grande ha fatto Ingegneria dell’energia. Il secondo gioca a basket in Serie B. Non farebbero mai questo lavoro. E io non sono uno che impone le cose.
Ma quando ho cominciato a pensare alla necessità di tramandare ciò che so fare, si sono “materializzate” tre persone. Cercherò di capire. Io guardo le persone negli occhi per capire chi ho di fronte. La mia paura è che tutto quello che abbiamo creato finisca nel nulla, non essendoci qualcuno a cui insegnarlo». La questione non è oziosa. «Temo che tra 10-15 anni qua ci sarà un “devasto” (io sono ottimista, c’è chi dice anche meno). Non c’è il ricambio generazionale. I più giovani hanno 40 anni. Parlo dell’artigianato in generale, non solo del nostro settore. Sai come andrà a finire? Arriveranno le multinazionali, manderanno chissà chi e i lavori costeranno il doppio»
Ed eccoci al problema generazionale. «Una volta c’era bisogno di lavorare, c’era sicuramente più ignoranza, le famiglie ti segui-
vano meno. Ora i figli vengono seguiti molto di più, ci sono molte possibilità e c’è facilità ad accedere ad altre cose, lasciando perdere l’artigianato. Ma è la cosa più sbagliata che possa succedere. I ragazzi che oggi hanno 20 anni, fra 10-15 anni, con l’esperienza che hanno, potrebbero guadagnare bene. Solo la provincia di Vicenza è lunga 90 chilometri. Sono 80 anni che si posano pavimenti in legno. Ci sono milioni di metri quadri da ripristinare. Anche se uno non vuole posare, solo levigando avrebbe tantissimo lavoro». Un lavoro che richiede molta fatica («bisogna farsi il mazzo»), ma che garantisce ottime prospettive. Intanto il mondo è cambiato e anche il mercato, ci sono state varie crisi, ma chi sa lavorare non resta mai fermo.
«Io sono uno che guarda il bicchiere
mezzo pieno. Ho un carattere così, cerco sempre di tirare fuori la parte buona. Noi abbiamo un lavoro di nicchia, ormai siamo in pochi e abbiamo sempre lavorato bene. Abbiamo seminato e la nostra nomea è radicata. Anche come persone, non sono come lavoratori. La gente ci chiama, ci dà la chiave e va via. Non è una cosa da poco. È sempre difficile, perché non siamo una società strutturata, ma i problemi li affrontiamo e li risolviamo». Si fa presto a dire “artigiani”. Per diventarlo ci vuole passione, sudore, tecnica, ispirazione. Certo è che non possiamo perdere questo patrimonio. «Una volta un ragazzo, un universitario di Bologna, mi ha detto che l’Italia è un paese industriale. No, non lo è. Le industrie se ne sono andate. Ciò che tiene in piedi il Paese sono le piccole e medie imprese, gli artigiani».
73 FEBBRAIO 2023 72 FEBBRAIO 2023
Da un negozio di lusso a Doha alla villa di un ministro a Baku. Ma soprattutto case e appartamenti nel vicentino. «Ormai siamo in pochi. Chi farà questo lavoro fra 10 anni?»
Ma davvero la libertà consiste nel poter scegliere cosa consumare? Una banale “assenza di vincoli” fondata sull’illusione della varietà?
Come non vedere che l’apparente libertà della produzione culturale di massa, in realtà, riduce le idee a merci?
L’insaziabile appetito di “novità” del mercato «ha elevato la “visibilità” a unico criterio del merito intellettuale» Christopher Lasch scriveva queste cose in un saggio del 1981. Ma più passano gli anni e più diventano attuali. Per questo è benvenuta la riedizione di elèuthera, in un libro intitolato Contro la cultura di massa, che ci aiuta a capire l’importanza del pensiero di questo storico delle idee, scomparso nel 1994, reso celebre dal saggio La cultura del narcisismo
Ci aiuta Vittorio Giacopini, che nella prefazione ci ricorda le provocazioni di Lasch, che lo avevano trasformato nella bestia nera di liberal, femministe, ex figli dei fiori, acrobati di Wall Street e varie minoranze. La sua difesa della famiglia tradizionale, del particolarismo culturale, delle credenze religiose, gli aveva procurato la nomea di “reazionario”. Lui che in realtà, da libertario qual era, si rivolgeva alla sinistra perché si liberasse da una concezione sbagliata del progresso, dall’equivoco dell’élite, la sua “visione turistica del mondo”, il culto del benessere e della salute, dentro una società di Io-senza-Io. Colpite e affondate l’uguaglianza e la fratellanza, ci sono buone possibilità che venga gettata via «anche la maschera vigliacca del liberismo per dire addio una volta per tutte anche alla libertà».
Ci aiutano gli acuti scritti di Jean-Claude Michéa, che smonta il postulato, privo di senso ormai da trent’anni almeno, per cui qualsiasi “modernizzazione” (sul piano etico, culturale, tecnologico...) sia per definizione giusta e “rivoluzionaria”.
Per Lash teoria marxista e sociologia liberale, “sinistra” e “destra”, condividono il mito del progresso storico che deve recidere i legami tradizionali per “liberare” il popolo, tagliare le sue radici culturali, per avvicinarlo agli standard fissati da un’élite illuminata. Ma così i cittadini vengano trasformati in meri consumatori.
Dopo il Settecento, l’offensiva contro i particolarismi culturali e l’autorità patriarcale, che incoraggiava - almeno inizialmente - la fiducia in sé stessi e il pensiero critico, è andata di pari passo con la creazione di un mercato universale delle merci, i cui effetti hanno portato a esiti del tutto opposti. La crescita di un mercato di massa che distrugge l’intimità, scoraggia lo spirito critico e produce dipendenza dai consumi negli individui, annulla le opportunità emancipatorie (...) Di conseguenza, la libertà da quei vincoli equivale spesso alla semplice libertà di scegliere tra merci più o meno indistinguibili. L’uomo e la donna moderni, illuminati ed emancipati si rivelano, a un esame più attento, consumatori dalla sovranità piuttosto incerta. Più che alla democratizzazione della cultura, siamo di fronte alla sua completa assimilazione alle esigenze di mercato (...) Occorre stringere un’alleanza con quelle forze della vita moderna che resistono all’assimilazione, allo sradicamento e alla “modernizzazione” forzata (...) Randolph Bourne aveva ragione quando sosteneva che il cosmopolitismo deve essere radicato nel particolarismo. L’esperienza dello sradicamento non porta al pluralismo culturale, ma al nazionalismo aggressivo, alla centralizzazione e al consolidamento del potere sia dello Stato sia delle grandi aziende (...) Un’autrice, dopo aver osservato con stupore come «certe epoche in cui i mezzi materiali di comunicazione erano pressoché assenti abbiano superato la nostra per ricchezza, varietà, fecondità e vitalità delle idee in circolazione», ha proposto una visione del rapporto che lega tra loro lo sradicamento e il provincialismo arrogante che soggiace al consolidamento delle nazioni moderne: «Gli uomini sentono che c’è qualcosa di orribile in un’esistenza umana priva di qualsivoglia lealtà», scrive Simone Weil, e purtroppo nel mondo moderno «non esiste nulla, a parte lo Stato, a cui la lealtà possa aggrapparsi». L’indebolimento di ogni forma di associazione popolare spontanea non elimina il desiderio di associazione. Lo sradicamento sradica tutto, salvo il bisogno di radici.
(Christopher Lasch)
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76 MESE 2022
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