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Ezio Vendrame

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Leopardi a Firenze

Leopardi a Firenze

Amo la tua figa. Non perché è figa, perché è tua.

La poesia sopra riportata è, a detta del suo autore, la migliore poesia d’amore mai scritta, ad alcuni potrà sembrare una massima leggermente machista, cameratesca, ma pronunciata da Ezio Vendrame, il compositore di questo aforisma, essa assume un significato tutto suo, che, come vendrame stesso afferma, va al di là della terminologia ed esprime un amore, una dolcezza e un’innocenza incredibili. Il componimento è stato scritto da Ezio Vendrame, di professione ex calciatore, ma anche allenatore, cantante, scrittore e poeta, è stato forse uno dei più grandi talenti che il calcio italiano abbia mai visto, ma a causa di un’eccessiva eccentricità sul campo e una certa passione per vino e donne ha tenuto la sua leggenda in una dimensione piuttosto provinciale e ha giocato in Serie A solo quattro anni. Definito da molti il George Best italiano e da Giampiero Boniperti (uno che di calcio un pochino se ne intendeva) il Mario Kempes del Friuli, il nostro eroe nasce a Casarsa della Delizia, provincia allora di Pordenone oggi di Udine, il 21 Novembre 1947. All’età di sei anni viene abbandonato nell’orfanotrofio della zona. Passerà lì dentro ben sette anni che saranno per lui molto duri ma che lo segneranno molto. Vendrame dirà in seguito che alla sua permanenza in orfanotrofio deve l’odio per il potere (non ha mai nascosto nel corso della sua carriera certe tendenze anarchiche) e la passione per il calcio. Un giorno, all’età di tredici anni un medico di Udine lo vede giocare a calcio e se ne innamora. Lo porta quindi all’Udinese dove Ezio giocherà fino al 1967. Nel 1967 viene acquistato dalla SPAL, che ai tempi era un colosso del calcio italiano. A credere in lui è l’allora presidente Paolo Mazza (a cui oggi è dedicato lo stadio di Ferrara); purtroppo però la fiducia non è ripagata. Ezio appena arrivato a Ferrara si innamora di una prostituta sua coetanea e per passare il più tempo possibile insieme a lei, finge infortuni e salta allenamenti. Mazza allora lo manda per punizione in Sardegna al Torres, in serie C. Vaga per qualche anno in serie C fino a che non arriva la grande occasione, il sogno di ogni calciatore: la chiamata in Serie A. A portarlo in massima serie è il Lanerossi Vicenza, che nel 1971 veniva da un decennio incredibile, con zero risultati ma una presenza stabile nei primi posti della classifica. Il Vicenza di Vendrame non sarà un grande Vicenza, una salvezza raggiunta all’ultima giornata nel ‘72 e altre due stagioni anonime, ma il passaggio del ragazzo di Casarsa resterà nel cuore dei tifosi biancorossi.

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A Vicenza si narrano ancora oggi il gran goal contro l’Inter (unico dell’esperienza in Serie A) e soprattutto il tunnel ai danni di Gianni Rivera, idolo di Vendrame, che più tardi il calciatore friulano avrebbe descritto così: “Mi venne incontro a gambe aperte, e quando qualcuno ti si avvicina a gambe aperte io credo che si aspetti sempre qualcosa”.

Poi nel 1975 sulla panchina del Napoli si siede il brasiliano Luis Vinicio che con Vicenza ha un legame particolare (oggi allo stadio Menti di Vicenza si può trovare una targa a lui dedicata, per farvi capire le dimensioni) e che decide di portare alla sua corte quello che al tempo era l’idolo del popolo vicentino, Ezio Vendrame. Quello tra Vendrame e Vinicio si preannuncia come un legame di grande amore, che però si spezzerà dopo sole quattro partite quando il Brasiliano scoprirà Vendrame a letto con la donna che corteggiava da mesi. Questo atto gli costerà la tribuna fino alla fine della stagione. Nonostante la relegazione in tribuna, Ezio conquista anche la piazza napoletana, attraverso una grande vicinanza alla gente e un talento infinito, tanto che in occasione di una partitella di allenamento, una volta, al San Paolo, accorsero più di 50.000 persone solo per assistere alle prodezze del Friulano che non potevano vedere la domenica. La parentesi napoletana è un’ottima rappresentazione della carriera e della vita di Ezio Vendrame, un grande amore delle e per le folle, un disprezzo per l’autorità e il rifiuto di conformarsi alle regole. La sua carriera continuerà poi a Padova e nelle serie minori dove la leggenda di Ezio Vendrame crebbe ancora, tramandata di bocca in bocca resa ancora più mitica dall’inesistenza di telecamere e video. Ma come dicevo prima Vendrame non è stato solo un calciatore, sarebbe stato riduttivo per la sua figura essere internata nei 5000 metri quadri di un campo da calcio, Ezio Vendrame è stato una leggenda nella vita. Ha scritto libri, raccolte di poesie, canzoni. La sua opera più famosa è stata Se mi mandi in tribuna godo. Nel libro, il cui titolo è ispirato alle vicende da lui vissute alle pendici del Vesuvio, racconta aneddoti e scandali del calcio italiano degli anni Settanta. Andava tuttavia più orgoglioso di Un farabutto esistere, la sua prima raccolta di poesie. Ha dichiarato di essere stato con più di 1500 donne e di averle amate tutte. Negli ultimi anni della sua vita ha fatto l’allenatore dei giovanissimi della Sanvitese e all’inizio di ogni nuova stagione ripeteva ai suoi ragazzi il seguente discorso: “Cari ragazzi, buttate nel cesso le vostre playstation e rinchiudetevi nei bagni con un giornaletto giusto in bella vista. Quando uscite, innamoratevi di una bella figliola: il sesso fai da te è bello, ma quello con una coetanea è meglio”. Ezio Vendrame si è spento il 4 aprile del 2020 con il suo amato Nord-Est dilaniato dall’emergenza Coronavirus, senza possedere nient’altro che un appartamento da trenta metri quadri, una macchina scassata e tanto, tanto vino. È morto a causa dei suoi vizi ma a differenza del suo più celebre corrispettivo nordirlandese George Best, lui non si è mai pentito di nulla, anzi, ha sempre amato affermare che “i suoi più grandi errori sono stati i veri capolavori della sua vita”. Perché Ezio Vendrame è questo: un personaggio unico che nessun banale paragone incatenerà nel mondo della realtà.

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Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino di Christiane Felscherinow

Margherita Fiani

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino ha coinvolto adolescenti berlinesi e di tutto il mondo, facendo presto il suo ingresso nelle antologie scolastiche. Christiane F. ha 12 anni, vive in un quartiere di Berlino con sua mamma, mentre sua sorella vive col padre. La sua vita oscilla tra il divorzio dei suoi genitori e i quartieri oscuri di Berlino. La sua adolescenza trascorre tra le nelle strade e le discoteche; presto viene attratta dalle sigarette e successivamente, con il suo gruppo di amiche, risucchiata dalla pressione sociale, passa alle droghe. Christiane è una ragazzina trascurata: la madre è poco presente e la scuola è solo una nuvola nella sua vita principalmente notturna. La Haus Der Mitte è la discoteca più popolare di Berlino, dove i giovani si ritrovano per spacciare e drogarsi; proprio lì Christiane conosce un gruppo di ragazzi di cui fa parte Detlev, per cui prova forti sentimenti. La compagnia che frequenta è composta da ragazzi, tra cui anche Detlev, dipendenti dall’eroina, che si prostituiscono per avere soldi per la droga, soprattutto al Bahnhof Zoo. Ad un concerto di David Bowie, Christiane prova per la prima volta l’eroina. Da quel momento in poi entrerà in uno spiraglio da cui sarà sempre più difficile uscire. L’unico momento di tranquillità e innocenza è vissuto quando passa le vacanze a casa di sua nonna in campagna; lì, senza essere tentata dalle droghe, si sente libera, quasi una ragazza ordinaria. Ormai le è chiaro che le droghe sono un limite alla sua vita, ma nonostante ciò non resterà pulita a lungo. Solo dopo un percorso di alti e bassi Christiane riuscirà finalmente a staccarsi da quel mondo che l’ha tenuta prigioniera per così tanto tempo. Il libro è tratto dalla storia vera di Christiane e messo insieme sulla base delle sue interviste. Il fascino di questa storia consiste nella rappresentazione reale e fedele dei giovani berlinesi. Non è una critica, né un’accusa alla società ma un racconto che vuole mandare un messaggio e mettere in luce le esperienze di giovani privi di voce. Essi vivono un’adolescenza che ha bruciato tappe, dove i ragazzi sono cresciuti presto e hanno sperimentato sin da subito una delle parti più oscure della vita adulta. Christiane parla in prima persona con un linguaggio crudo e diretto, schietto, come se stesse dialogando con un amico. Le immagini descritte sono vivide proprio perché sono presentate attraverso gli occhi di chi le ha vissute. Il percorso della protagonista con la droga viene vissuto con consapevolezza ma allo stesso tempo è ofuscato dal fascino che i ragazzi che frequenta hanno ai suoi occhi. La realizzazione che la droga presto smette di essere una scelta ed inizia ad essere un problema arriva tutta insieme e travolge la ragazza. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino è un libro che porta con sé consapevolezza e traccia un percorso di nuovi approcci da parte degli adulti verso gli adolescenti.

Interviste Intervista a Niccolò Storai

Alessia Prunecchi

“Cuore emiliano, sangue toscano”, come si definisce lui stesso, Niccolò Storai è un “fumettiere” di professione. Insegnante nelle scuole di fumetto e già autore di numerosi fumetti, lo scorso 21 dicembre è venuto al Miche a presentarsi agli studenti. Gli è stata, infatti, assegnata un’opera di riqualificazione dei pannelli del cantiere della scuola, che presto si vestiranno dei suoi lavori. Non è il primo lavoro del genere per l’artista, tuttavia questa ha il sapore di una resa dei conti: “Ho fatto un anno di liceo classico e sono bocciato. Il professore mi disse che quella scuola non faceva per me. Ho capito che se mai fossi stato insegnante non avrei voluto diventare come lui. C’è chi primo della classe ci nasce. Io sono sempre stato dalla parte degli ultimi, di chi ha fame”. E ancora: “Nel sistema scolastico si dà troppa importanza ai voti. Una buona o una cattiva valutazione non rappresenta un individuo. Lasciamo al supermercato definizioni e etichette”. Di pregiudizi in effetti Niccolò ne ha dovuti affrontare molti e a lungo si è sentito “un burattino in un mondod’acciaio”. Poi è giunto alla conclusione che l’importante è stare bene con se stessi: “Fate sempre quello che vi piace, non agite per compiacere gli altri. La vita è ora”. A chi gli chiede cosa lo abbia spinto a scegliere il proprio mestiere fieramente risponde che la passione per il fumetto è “un fuoco che ti brucia dentro,lasciandoti fuori dal circolo dei normali”. “Ammetto che diventare artista non è stato semplice ma nella vita solo la resa è semplice”. E di qui l’invito a sognare, a non tirare i remi in barca: “La scuola generalmente non insegna a sognare, ma questo è fondamentale. Senza farlo si rimarrà per sempre ancorati alla base”. “Sognate e ridete. C’è sempre un motivo per essere felici. La felicità risiede nelle azioni più ordinarie dal momento che si acquisisce la consapevolezza che in realtà queste lo sono dal nostro punto di vista ma non in assoluto”.Ciò, tuttavia, non negando importanza al dolore: “Il dolore fortifica”, afferma lui stesso. “Spesso da questo parte un meraviglioso itinerario verso il conoscimento di noi stessi: in assoluto la cosa più importante”. E del resto tale concetto è paradigma della sua intera opera artistica, se non addirittura dell’Arte in senso lato.

Cinema BlacKkKlansman, regia di Spike Lee

Angelica Penna

BlacKkKlansman, vincitore del gran premio di Cannes, è il miglior lavoro di Spike Lee da uando uscì il suo documentario 4 Little Girls del 1997 nominato all’Oscar.

Combinando l’affettuosità stilistica di “ 25th Hour con il potenziale controverso di “Bamboozled”, il regista crea un racconto, più sconosciuto che di finzione, di un poliziotto afro-americano infiltrato nel Ku Klux Klan nei primi anni ‘70. Prodotto dal team di Get Out (è stato Jordan Peele a portare la storia a Lee), BlacKkKlansman scivola senza problemi da un umorismo al limite dell’assurdo, all’orrore reale, evocando un urgente miscela di satira socio politica.

John David Washington dà una prestazione centrale meravigliosamente ironica e sfumata interpretando Ron Stallworth, un idealista afro-sportivo che diventa “il Jackie Robinson” della forza di polizia precedentemente tutta bianca di Colorado Springs.

Laureandosi rapidamente dai registri all’intelligence, Stallworth risponde a un annuncio di un giornale per il KKK, fingendo al telefono come un nascente suprematista bianco. Quando sono richiesti incontri faccia a faccia, il collega ebreo di Stallworth, Flip Zimmerman (un cupo Adam Driver), viene arruolato per prendere parte in riunioni in cui il terrorismo fatto in casa è servito con salsa barbecue e stuzzichini, e dove la tensione è accentuata dalla strana domesticità.

Presto, si costruisce una relazione con il grande capo David Duke (Topher Grace), il “futuro sorridente” de “l’organizzazione”, che ha intenzione di guidare il Ku Klux Klan dai piccoli appiccamenti di fuochi, fino in politica, sotto la promessa di mettere “Prima l’America!” e renderla “di nuovo grande”. Con i suoi scatti a lente lunga e di lunga durata, catturati su 35mm dal direttore della fotografia Chayse Irvin, e grazie alla produzione e il costume design perfetti, BlacKkKlansman evoca elegantemente il cinema della sua ambientazione.

La cosa più notevole è quanto Lee bilanci bene i cambiamenti tonali, provocando sia risate che sussulti con un film costruito su dualità: fatto e finzione (la storia di Stallworth è pesantemente romanzata); passato e presente; dentro e fuori. Proprio come la nostra figura centrale diventano due personaggi in uno, così BlacKkKlansman si diletta in immagini speculari.

Infine, mi sento in dovere di difendere questo film da tutte le recensioni negative, e da critiche tutt’altro che costruttive, poiché l’egregio lavoro svolto da Spike Lee ha reso BlacKkKlansman celebre in ogni sua forma.

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