
2 minute read
Posto ergo sum
Quando viaggiamo mia madre scatta moltissime foto. Ciò è dolce, a tratti irritante, ma decisamente apprezzabile per la gratuita tenerezza insita nel gesto. Poi, tornati a casa, osserva meticolosamente ogni scatto, più e più volte, analizzandone i minimi particolari. Mai, tuttavia, scorrendo il suo profilo Facebook, si sospetterebbe di questa recondita passione, giacché di quelle foto, sul suo profilo, non c’è neanche traccia. “Perché - spesso mi è capitato di chiederle - non posti mai niente?”. E puntualmente mi sono sentita rispondere: “Provo disagio”. Mia madre, classe 1971, nell’era dei social non è nata. Ha aperto il profilo su Facebook per restare al passo coi tempi, deduco; con Instagram non ci ha nemmeno provato. La sua risposta, però, mi ha fatto molto meditare. “Disagio”. A essere sinceri di primo acchito non l’ho capita. È più il disagio a non postare mai nulla: la mia riflessione di pancia. Rifiuto questa prima interpretazione, ci penso razionalmente. A questo punto appare più chiaro ai miei occhi cosa lei intenda come disagio e quanto in realtà tale sentimento sia legittimo. In effetti la spasmodica necessità di spiattellare sui social frammenti della nostra vita, più o meno intimi che essi siano, e lo dico da persona che lo ha fatto più e più volte, se analizzata criticamente è a dir poco insensata. Ci sogneremmo mai, dico io, di prendere uno sconosciuto a caso per strada e mostrargli una foto della nostra colazione? No, non lo faremmo mai. Eppure non ci sentiamo a disagio a condividere una storia su Instagram, con vari e svariati follower, tra i quali, magari, c’è qualche persona che non conosciamo. Questo, tuttavia, è assolutamente normale e normalizzato, almeno tra le persone sotto ad una certa età.
Per non parlare, poi, di quanto presupporre, quasi pretendere, che ciò che postiamo riscuota interesse sia drammaticamente autoreferenziale ed egoriferito. I social, del resto, hanno alimentato non poco l’illusione, più che umana, di essere al centro del proprio microcosmo, rendendo ancora più difficile lo scambio con l’altro, ostacolato dalla finta vicinanza di cui veniamo continuamente ingannati, pur divisi da un’incomunicabilità difficile da abbattere. Postare diviene dunque una ridicola estroflessione della nostra egomania, per non dire una controversa forma di legittimazione dell’io: una sorta di disperata ricerca di attenzione e approvazione, surrogato del calore umano sempre più carente in una generazione mangiata da un’ansia sociale che svuota dentro.
Advertisement
Il disagio, quindi, a dire il vero, non manca, ma è una forma di disagio diversa rispetto a quella che si traduce in ritrosia e infatti porta al risultato diametralmente opposto: la sfrenata esigenza di condividere, mostrare, fare. Continuamente esposti al diretto confronto, talvolta fin troppo poco mediato e per questo violento, con quelli che la società identifica come modelli ideali, finiamo inevitabilmente per essere turbati da ciò, angustiati da un tanto insidioso quanto ostinato senso di inadeguatezza. Proprio tale senso di inadeguatezza scaturisce dal divario tra ciò che siamo e ciò che i suddetti modelli ci inducono a bramare di essere: divario che però abbiamo l’irrealistica impressione, frutto proprio della macchina dei social, di poter agilmente colmare. L’immediata reazione innanzi a ciò è quindi un’atavica, consumistica, fame di esperienze da ostentare, che spesso finisce per divorare la stessa persona che ne è afflitta. “Tutta ‘sta fretta de fa’ succede le cose ce l’ha messa il capitalismo e, infatti, poi c’ha dato la cocaina pe’ sta’ ar passo”, direbbe l’Armadillo. E noi, nel frattempo, restiamo attoniti, sgomenti, attraversati da un flusso irrefrenabile e incontrollabile. Forse l’unico antidoto a ciò è una resistenza passiva, un’indifferenza tanto ardua da praticare quanto provvidenziale: un po’ come l’immagine montaliana della” statua nella sonnolenza del meriggio”: soli, in mezzo alla desolazione, ma illesi, per non dire superstiti.